[Avertissement] §
All’ Egregio uomo
COMMENDATORE ANTONIO MORDINI
Prefetto di napoli
Che alla valente operosità della vita politica
Intesa al bene ed alla gloria
Della patria italiana
Tenne compagno lo studio delle dottrine scientifiche
E protesse l’immegliamento delle lettere e delle arti
Questa opera
Storico-scientifica-letteraria
Dedica
Con riconoscente animo
L’autore
Come perenne testimonianza
Di gratitudine e di rispetto
Ristretto analitico del dizionario della favola per Camillo Benucci §
[n.p.] [n.p.]Introduzione §
Illuminati dalla fiaccola della verità ; rischiarati dal lume dallo studio ; sorretti dalle autorevoli ed irrecusabili testimonianze della storia ; appoggiati da valide opinioni di chiari scrittori, antichi e moderni, italiani e stranieri, prosatori e poeti, novellieri e cronisti ; noi ci facciamo a completare l’opera nostra, dando in questa Prefazione una spiega, per quanto più potremo concisa e limpida, del modo al quale ci siamo attenuti, onde render chiara ed utile allo studioso questa opera storico-scientifico-letteraria.
Penetrare nei più sconosciuti e remoti fatti dell’antichità ; studiare la religione, i costumi, la vita intellettuale e fisica di uomini, di cose e di nazioni, ora sepolte nella notte profonda dei secoli ; svolgere, con occhio osservatore, le più oscure notizie delle cronache ; raffrontare le tradizioni dei popoli antichi, colle più recenti notizie, scritte e dettate da chiari ingegni ; analizzare i vantaggi indiscutibili che il progresso ha fatto fare all’umanità ; tutto ciò è opera ardua, lunga, faticosa, per raggiungere la quale, abbisogna fermezza di volontà, studio accurato ed indefesso, osservazione profonda e sottile.
Nè ciò diciamo per menar vanto da noi stessi dell’opera nostra ; lunge da noi cosiffatte meschine vanità !.. Noi vogliam solamente che i nostri lettori, e soprattutto la gioventù studiosa e culta, quella che forma la più eletta parte della cittadinanza di una illustre metropoli, quella per la quale noi abbiamo intrapreso e compiuto questo lavoro, si abbia in questa prefazione, un’idea chiara, netta, precisa, dello scopo che ci trasse a spendere più anni di penoso lavoro intorno a quest’opera. Fu questa e non altra, la ragione per la quale noi, dopo aver delucidato in questa Prefazione, alcuni punti (che, per avventura, potevano non esser chiari abb astanza, riguardo alla struttura fisica e materiale del nostro libro) demmo nello Studio Preliminare che segue, una idea generale, una specie d’illustrazione storico-scientifica sulla Mitologia, adoperandoci con accuratezza di studio, onde l’idea che dà vita ai simboli mitologici, risplendesse della maggior luce possibile all’intelligenza di coloro che, per lo studio delle antichità pagane, si faranno a consultare l’opera nostra. Ci adoperammo alacremente onde questa fosse, per quanto era in noi, completa e perfetta. Noi non abbiam nulla omesso, nulla trascurato : lavorammo con assiduità, con calma, con pazienza. La nostra coscienza è tranquilla, la nostra mente è serena. Se l’opinione del pubblico vorrà, come speriamo, coronare di splendido successo l’opera nostra, noi saremo paghi abbastanza, e ci reputeremo largamente ricompensati della strenua fatica.
{p. II}Prima d’andar più oltre, esaminiamo la parte, diremo, materiale dell’opera. Ci è caduto in pensiero di scrivere un’opera per la gioventù studiosa ; dare ad essa una guida, che con mano ferma e secura, avesse potuto accompagnarla a traverso il fitto buio delle antichità pagane, e quindi abbiamo, prima di tutto, posto ogni nostra cura solerte, nell’esser chiari, non solo nelle idee, nella fraseggiatura, nei periodi, ma, come era logico, nella disposizione generale dell’opera, sopratutto nella parte sensibilmente visibile di essa, spiegando ed analizzando le ragioni che ci indussero, dopo lunga riflessione, a preferire questa maniera di esporre, piuttosto che un’altra.
Fisicamente parlando, la facoltà visiva, lo sguardo, la pupilla, l’occhio infine, vuole la sua gran parte nell’osservazione anche morale di un obbietto qualunque ; e l’intelligenza, quest’occhio dell’anima, sarà tanto più facilmente suscettibile di comprendere, di sentire, di persuadersi d’un vero qualunque, sottoposto alla sua osservazione, se il libro, la pagina, il carattere, la bella armonia della disposizione di tutto l’obbietto che si vuol farle studiare e comprendere, sarà in tutte le sue singole parti, completa, armonizzando la fisica disposizione di un’opera qualunque, con la nettezza e precisione dell’idea, che è il principio motore di essa.
La struttura materiale dell’universo riposa principalmente sulla mirabile armonia delle leggi della natura ; il miracolo della riproduzione per mezzo dell’istinto, che porta incessantemente il maschio verso la femmina ; l’insieme perfetto, armonioso, completo, che la natura ha posto nel compimento di tutte le sue opere, dalla vita fisica dell’uomo, fino alla riproduzione del filo d’erba, dallo insetto microscopico, dall’infinitamente grande, all’infinitamente piccolo, tutto ha il suo più solido fondamento, la sua essenza, il suo sviluppo, il suo essere infine, nell’ordine ammirevole, assoluto, perfetto, che regna nella natura.
Da ciò noi vogliamo dedurre che un’opera qualunque, sia materiale o spirituale, di scienza o di arte, di studio o d’ispirazione, deve primieramente aver la sua base e il suo fondamento più solido, nell’ordine col quale viene cominciata e condotta a termine ; nell’armonia con la quale è tessuta ed esposta ; ordine ed armenia che debbono essenzialmente regnare nel modo più completo, fra l’idea, che è l’anima, l’essenza animatrice di ogni opera dell’ingegnu umano ; e la maniera materiale o fisica con la quale essa opera viene eseguita. Infine il concetto, l’idea d’un lavoro qualunque, rappresenta l’anima ; ossia l’essenza impalpabile, ma essenzialmente vitale di esso ; e il modo fisico o materiale, o moglio, il mezzo col quale detta opera viene sviluppata, rappresenta il corpo, ossia il subbietto fisico, materiale, sensibile, col quale l’idea informatrice deve essere assolutamente in relazione con quello stesso ammirevole accordo che passa fra la volontà impalpabile, ossia l’anima, e la materia sensibile, ossia il corpo ; fra il concetto dell’idea e l’attuazione di essa ; fra lo spirito e la materia ; fra il fine ed i mezzi. Seguendo, adunque, questo principio d’ordine che a noi sembra, ed è, essenzialmente necessario nell’attuazione d’una qualunque idea, cominciamo ad esaminare l’opera nostra dal titolo che vi apponemmo.
Ristretto analitico del Dizionario della Favola, suddiviso in articoli posti per ordine alfabetico, con notizie, ragguagli e annotazioni, tolte dai più accreditali scrittori storici, cronisti e poeti, antichi e moderni.
Nell’esposizione di questo titolo, a noi sembra di aver detto abbastanza, e di avere, in poche parole, raccolto il senso morale di tutta la nostra opera. Infatti, un ristretto analitico del Dizionario della Favola, dev’essere una specie di storia dettaglita delle divine ed umane personalità che formavano la Mitologia, ovvero l’idolatra credenza degli antichi, il culto religioso degli Dei falsi e bugiardi ; dev’essere un resoconto dei principali avvenimenti, dei fatti più importanti, {p. III}compiutisi in quel periodo di tempo che tutti gli scrittori si accordano col chiamare tempi eroici o favolosi ; dev’essere una esposizione esatta e circostanziata dei luoghi ove quelle ideate personalità vissero ed agirono ; una nomenclatura, per quanto più si possa, fedele e letterale dei nomi di quei personaggi, di quegli avvenimenti, o di quei luoghi, i quali per la loro individuale importanza, richiedessero una più dettagliata illustrazione.
Facemmo precedere il nostro Ristretto analitico della Favola da uno Studio Preliminare, che segue questa Introduzione, onde dare in esso (come già accennammo) un concetto generale della Mitologia, ed un maggiore sviluppo dell’idea informatrice dell’opera nostra, e completammo questo studio con la giunta di numerose annotazioni, onde i lettori si avessero una guida sicura, e per quanto più potemmo, dettagliata ed esplicita, dalla quale venisse loro additata la vera configurazione del senso, racchiuso sotto il velame dei simboli della Favola.
Abbiamo creduto ben fatto il dividere in articoli tutto il nostro lavoro, e segnare codesti articoli secondo l’ordine alfabetico, numerandoli progressivamente, e ciò solo nell’intento di render più agevoli le ricerche dello studioso, col marcare e distinguere, per mezzo di un segno particolare, ciascuno di essi. A raggiungere questo scopo ci servimmo della stessa configurazione con la quale si stampano le pagine dei dizionarii, cominciando a spiegare la storia della Mitologia da quei vocaboli che ne compongono la nomenclatura, dalla lettera A fino alla Z, apponendo sempre per maggior chiarezza e regolarità, ad ognuno di quei nomi, il numero d’ordine progressivo.
Riguardo alle citazioni dei più rinomati scrittori antichi e moderni, di che noi abbiamo arricchita l’opera, non ci resta altro a dire se non che noi abbiamo personalmente riscontrate quelle citazioni, onde esser certi, fino al convincimento, di non aver commesso il più lieve errore, la più leggiera omissione. Abbiamo sovente riportati interi brani, sia in verso che in prosa, degli autori da noi citati, per mostrare col loro autorevole appoggio, quanto fosse vera e reale l’esposizione di quel singolo avvenimento, nel racconto del quale cadeva in acconcio la citazione del passo da noi riportato.
A questo proposito, e sempre a raggiungere lo scopo della maggior lucidità, diremo brevemente che fra le molte opere classiche da noi citate, ci siamo avvalsi sovente della Divina Commedia di Dante, quantunque a prima vista potesse sembrare affatto estranea al carattere della nostra opera, la più lieve relazione con l’opera eterna dello Alighieri. Ma noi credemmo, forse non a torto, di avvalerci della testimonianza irrecusabilmente classica dello Alighieri, imperocchè la Divina Commedia abbraccia tutte le cognizioni, e quella della Mitologia non vi si trova, per certo meno sviluppata delle altre, essendo anzi in quasi tutti i canti che compongono l’eterno poema, assai di soventi immagini e figure tolte dalla Mitologia. Soprattutto nella prima Cantica dell’ Inferno, si trovano continue allusioni pagane, e spesso l’esatta riproduzione d’una figura mitologica, o tale quale la sognarono i poeti della antichità, ovvero incorporata dall’immortale immaginazione del Cantore dei tre Regni, nell’anima di un dannato o di un demonio.
Tutti i mostruosi accoppiamenti della natura bruta, colla natura umana ; tutte le nefande immagini che lo studio della Mitologia ci rivela innestate nel culto del paganesimo, si trovano tutte nell’ Inferno Dantesco. Il Minotauro, uomo fino alla cintola e toro nelle parti inferiori del corpo ; i Centauri, metà cavalli e metà uomini ; le Arpie, donne fino alla cintura e avvoltoi nelle parti posteriori ; tutte le turpitudini contro natura, che formavano tanta parte delle credenze dei pagani, si rattrovano nelle bolge dantesche, coprendo della loro maschera oscena i demonii relegati nel baratro, a punire, con un’eterna espiazione, le anime dei reprobi.
Questa è stata, per non toccar delle altre, la ragione più convincente che in tutto il corso {p. IV}di questa opera, ci ha fatto di sovente riportare le citazioni dei passi della Divina Commedia ; e in ciò crediamo di aver fatto il meglio.
Da ultimo, seguendo a delucidare la materiale struttura del nostro lavoro, daremo ai lettori la ragione del perchè abbiam fatto precedere questa opera da tanto numero di epigrafi.
In generale tutte le volte che un libro, un’opera, un lavoro qualsiasi, si fa precedere da una epigrafe, altro non si vuol fare che dare in essa un’idea, diremo, preconcetta del lavoro medesimo, il quale viene, in certo modo, compendiato nelle poche parole che compongono l’epigrafe che vi si appone. Questo è almeno il costume generale degli scrittori, tanto an tichi che moderni ; questo, diremo, è quasi il metodo che si è già da lungo tempo adottato da tutti gli scienziati, ed in tutte le opere di recente pubblicate per le stampe, non solo, ma altresi in quelle esistenti, da tempo immemorabile, negli archivii e nelle biblioteche.
Nel nostro caso, a noi parve, che un numero di epigrafi avrebbe dato un, diremo, tacito attestato dell’importanza del nostro lavoro ; e che esse sarebbero state altrettante citazioni di illustri autori, convenienti non ad un singolo articolo dell’opera nostra, non ad un particolar nome, o di cosa o di luogo, ma a tutto il lavoro, considerato nel suo insieme totale. E per maggior mente far comprendere il nostro pensiero, ci servimmo di epigrafi tolte da scrittori antichi e moderni, da opere di scienza, di arte, di letteratura, di filosofia, da tutto infine lo scibile umano, servendoci di scrittori greci, latini, italiani, francesi, inglesi e tedeschi, siccome di altrettante testimonianze illustri ed irrecusabili della importanza storica, scientifica e letteraria dell’opera.
Ciò per la prima parte di questo libro, ossia per lo insieme materiale e fisicame nte visibile di esso. Ora non ci resta che a dimostrare l’utilità dell’opera nostra, e il vantaggio positivo che gli studiosi ne ritrarranno, e questo brevemente faremo.
Oggi non è certamente assoluta penuria di opere nel genere della nostra, chè anzi varie sono belle che parlano delle diverse religioni dei popoli dell’antichità, e tutte le Mitologie ànno avuto i loro storici, i loro cronisti, i loro scrittori, i quali, chi più chi meno, ànno disseminata, con le loro opere antiche e moderne, la conoscenza del culto religioso dei primitivi popoli della terra.
A prima vista parrà, forse, che noi, altro non facemmo se non riportare, restringendo o ampliando, secondo che ci è sembrato necessario, gli avvenimenti più importanti, i punti più salienti della pagana Mitologia. Ma se per poco la mente dei lettori si porti a considerare, con riposata attenzione quest’opera, nel suo concetto, nella sua forma d’assieme, e nel modo limpido e chiaro col quale noi cercammo di metterla alla portata di tutte le intelligenze, si vedrà allora incontrastabilmente l’utilità di essa e l’importanza seria e profonda di questo lavoro.
Certo le allegorie, i fatti, i simboli, che formano il sostrato mitologico, il tutto configurato e misterioso delle credenze dei pagani ; sono quelli e non altri ; e noi, al certo, non potevamo nè inventarne dei nuovi, nè rivestirli di altre immagini, che non fossero quelle trasmesseci dalle cronache mitologiche. Ma appunto questa formava una delle più ardue difficoltà dell’opera nostra. Considerevole è il numero dei dizionarii della Favola ; famosi e chiari scrittori ; ingegni profondi di tutte le nazioni ; rinomati e dotti uomini, italiani e stranieri ; ànno già pubblicate opere simili alla nostra. Ma nessuno ha dato alla luce un Ristretto analitico della Favola, nel quale fosse cosi di sovente riportata una classica citazione, un brano di altre opere, le quali venissero ad appoggiare, con la loro irrecusabile testimonianza, i fatti, gli avvenimenti, i simboli più importanti della Mitologia pagana.
In oltre in questo ristretto analitico del Dizionario della Favola, non si avrà solamente dallo studioso la conoscenza limpida e sfolgorante degli innumeri fatti che ne componevano la storia, {p. V}ma un insieme di quello che i più rinomati scrittori, e sopratutto i classici, ci hanno trasmesso sui fatti medesimi, nei brani delle loro opere da noi riportati. Sarà quindi innegabile, a noi sembra, che la gioventù studiosa avrà in questo ristretto, non solo larghe cognizioni di storia, di mitologia, di astronomia, ecc., ma di letteratura antica e moderna, i cui autori ci hanno dato (con le citazioni da noi riportate) il mezzo di farli rimanere maggiormente impressi nella mente dei giovani.
Infatti un avvenimento qualunque, religioso, storico, o politico che sia, rimarrà tanto più indelebile nella mente, quanto più marcata e sensibile sarà l’esposizione di esso. Questo scopo noi lo abbiamo raggiunto mediante le numerose citazioni da noi riportate nelle quali gli studiosi apprenderanno non solo il fatto nella sua forma primitiva e tradizionale, ma avranno anche agio di internarsi nelle più peregrine bellezze letterarie dei elassici, le quali, alla loro volta, saranno dal fatto stesso, di cui vengono in appoggio, rese più chiare, limpide ed indelebili, nell’animo del lettore.
É, al certo, altamente utile ed importante, anche sotto l’aspetto letterario, quell’opera scientifico-storica che riporti interi brani dell’ Iliade d’ Omero ; dell’ Eneide di Virgilio ; delle Metamorfosi di Ovidio : quella che riunisce citazioni di Eschilo, di Euripide, di Egino, di Cicerone, di Tacito, ecc. ; quella, finalmente, che riporti frammenti della Divina Commedia di Dante ; delle opere del Monti ; di quelle del Metastasio ; e di altri numerosi poeti e scrittori d’ogni epoca, d’ogni nazione, d’ogni favella. Ecco perchè noi abbiamo detta la nostra una opera storico-scientifico-letteraria ; ed abbiamo la convinzione di aver agito con sano discernimento ; imperocchè nel nostro lavoro, la storia della Mitologia viene insegnata dal racconto degli stessi avvenimenti che vi sono narrati ; la scienza si rivela dallo studio delle credenze religiose degli antichi ; e la letterature vi è esposta per mezzo delle citazioni dei classici che noi abbiamo fedelmente riportate, quantunque volte la importanza di un nome o di un avvenimento, ce ne à porto il destro.
Ed ora, conchiudendo, diremo, che parendoci di aver completamente raggiunto la meta luminosa che ci eravamo imposti, noi faremo di pubblica ragione questa opera. Che i nostri concittadini accettino di buon animo la nostra intenzione, che fu quella di esser loro utili con l’eterno insegnamento della storia, e facciano buon viso al nostro lavoro : noi non osiamo nè chiedere, nè sperare di più.
Studio preliminare Sulla mitologia §
[n.p.] [n.p.]La scienza delle favole o dei Miti, chiamasi Mitologia. Questo vocabolo deriva da due parole greche Mithos e Loghos, che significano, Mithos : miio, enigma, allegoria, simbolo, emblema ; e Loghos : ragionamento.
Mitologia, nel senso primitivo, vale discorso o ragionamento mitico.
Essa altro non è che il complesso delle tra dizioni, degli enigmi, il quale, considerato nel suo insieme, costituisce il linguaggio della credenza religiosa dei popoli dell’antichità, il culto degli idoli che gli antichi adoravano.
Questa e non altra, è l’interpretazione che tutti gli scrittori danno alla Mitologia, ossia alla conoscenza delle credenze religiose degli antichi.
In origine la parola latina Fabula, ebbe un amplo significato, come quella che dinotava la enunciazione del pensiero col mezzo della parola ; un discorso un racconto, che va ripetendosi, che circola, mediante orale tradizione, senza riguardo se il suo contenuto sia vero o falso, reale o immaginario.
I Greci, creatori della parola Mitologia, cominciarono, nel tempo corso tra Pindaro e Platone,
Pindaro. — Il maggior poeta lirico della Grecia, secondo la testimonianza dei più rinomati scrittori.
Nacque nella Beozia, quantunque antiche biografie asseriscono nascesse nel territorio di Tebe, e propriamente nel villaggio di Cinocefale, durante la celebrazione dei giuochi Pizii. Clinton, pone la sua nascita nella LXV Olimpiade (518 anni avanti Gesù Cristoj. Bockh, asserisce che Pindaro fosse nato nella LXIV Olimpiade (522 anni avanti Cristo). Ma nessuna di queste date è certa, quantunque l’ultima sia la più probahite. Verosimilmente Pindaro mori nell’ 80° anno della sua vita, e ammettendo, con Bockh, che fosse nato nel 522 avanti Cristo, la sua morte sarebbe avvenuta nel 442 avanti Cristo. La famiglia di Pindaro era una delle più nobili della città di Tebe.
ad avere il sentimento della cosa.
Più tardi essi congiunsero la nozione del Mito a quella più generale di simbolo o altegoria, e ne fecero una delle forme principali del linguaggio intuitivo e figurato della loro religione ; forma propria dell’alta antichità, e che parve segnatamente acconcia alla tradizione delle verità o degli eventi, proprii dell’ordine religioso.
L’antica civiltà greca fu il prodotto della fusione di due elementi o di due razze ; quella dei Pelasgi2 e quella degli Elleni
Elleni. — Gli Elleni abitarono la Grecia, la quale fu la regione d’Europa, che prima accoise i germi dell’orientale civiltà, e impresse loro un carattere proprio. La sua posizione geografica ; la indipendenza degli antichi reggimenti politici : la comunanza e il vincolo della lingua, che resistette ai conquistatori ed al tempo : il commercio delle idee : la congiuntura di non essere distratta dalle cure minute e materiali della vita, commesse agli schiavi ; l’educazione che riceveva il libero cittadino nello sviluppo armonico delle potenze fisiche e morali : il culto comune delle divinità nazionali ; le istituzioni religiose e politiche ; i giuochi pubblici ed altro gran numero di ragioni, di cause e di effetti, esercitarono sulta civiltà degli Elleni un’efficacia attiva e benefica, e la resero, in quasi tutti i suoi punti, maestra dell’incivilimento delle generazioni avvenire.
La storia degli Elleni dividesi in quattro età marcate e distinte :
Prima età, dalle emigrazioni delle colonie orientali, alla guerra trojana.
Seconda età, dalla prima guerra nazionale, all’ordinamento delle forme repubblicane.
Terza età, dalle legislazioni greche, alla preponderanza macedone.
Quarta età. dalla preponderanza macedone, alla distruzione di Corinto.
I tratti principali e caratteristici della civiltà ellenica, saranno maggiormente limpidi per coloro che si faranno a studiare questo popolo nella religione, la legislazione, lo stato, il commercio, le scienze e le arti.
; rappresentanti, i primi un’epoca sacerdotale primitiva ; e i secondi l’epoca eroica cantata da Omero
Omero. — Sette città della Grecia si disputarono l’onore di aver dato i natali ad Omero, e se volessimo numerare tutte quelle che troviamo mentovate in varii passi di antichi scrittori, noteremmo ben dieciotto o dieciannove città che si attribuiscono cotesta gloria ; ma le pretese della più parte, sono così poco avvalorate, e tanto sospette, che cadono facilmente innanzi ad un serio esame.
Tutta l’antichità considerò unanimamente l’Iliade e l’Odissea come le più classiche opere della greca poesia,
{p. XXI}Che più ? l’erfino negli oscuri ed osceni saturnali di Bacco ; in tutte le feste o cerimonie proprie del culto individuale di ogni deità degli antichi ; anche nelle turpi ed infami lascivie che componevano tutto il culto di Priapo,12 presso i Greci e Romani dell’impero, sempre si scorge visibile e luminosa la verità di quanto asseriamo, quella cioè, che una religione qualunque ha sempre i suoi Mili, e i suoi Simboli, e le sue Allegorie, le quali tutte conservano l’impronta, il carattere, il tipo proprio, della religione da cui hanno anima e vita.
Mosè, l’universale legislatore, si è servito della simbolica allegoria del roveto ardente, per fare che i figli d’Israello si curvassero ossequiosi e reverenti ai dieci comandamenti della Legge, scolpiti su tavole di macigno. Maomello il profeta, adoperò simboli ed emblemi allegorici, attinti nelle stesse credenze che egli voleva imporre ai popoli, onde farsi credere l’unto del Signore. Il popolo disperso d’Israele, oggi ramingo nelle cinque parti del globo, conserva ancora, nell’attenzione del promesso Messia, i simboli proprii delle sue religiose credenze. E così man mano noi potremmo citare cento altri esempii, i quali tutti verrebbero in appoggio delle nostre parole.
Anche a traverso le folte e tristi nebble dell’eresie, che dai più remoti tempi funestarono il mondo cristiano, i simboli proprii delle stesse religiose credenze che quelle cercarono di attaccare e di abbattere, erano visibili in esse ; e sebbene alterati e confusi, pure avevano qualche cosa di particolare e di proprio della religione da cui nascevano. Così fino dall’infanzia del cristianesimo noi vediamo nell’eresie degli Gnostici,13 e dei Simoniani ;14 cosi nelle sette eretiche di Menandro,15 e di Dositeo ;16 cosi nei sofistici Cerentiani,17 e nei Nicoluiti,18 brutalmente osceni e libertini. Nè il secondo secolo dell’ Era Cristiana ci porge, nelle numerose eresie e sette, che ne afflissero il corso, un esempio meno palpabile di questa verità. Tutti gli eretici novatori del detto periodo di tempo, seguirono, o meglio, conservarono uno o più dei diversi miti della religione da essi osteggiata. Così gli Ebionili,19 i Carpocraziani,20 i Cainili,21 nefandi ed infami ; così gli Adamiti,22 scelleratissimi ed impuri ; con tutta la sozza turba dei Peratensi,23 e degli Abelili inverecondi24. Seguendo questa dolorosa nomenclatura, noi potremmo giungere fino alle più recenti eresie, di che fu afflitta la maestà della Chiesa Cattolica, ai nostri giorni ; ma sarebbe opera ovvia, poichè non avremmo se non a ripetere le medesime cose ; se non a ribattere il chiodo di una verità inconcussa, e il raggio del vero scintilla ed illumina di per sè, nè abbisogna di frasi suonanti, o di storiche citazioni, che facciano maggiormente limpida la luce che emana da esso.
Solamente aggiungeremo, a maggior trionfo di verità, che i simboli mitologici hanno sopravvissuto alla quasi completa ed universale sparizione della religione pagana dal mondo, e sebbene abbiano subite profonde e radicali riforme, nella loro essenza vitale, ciò nonpertanto conservarono, nella forma esterna, qualche segno caratteristico della loro origine. Essi si sono in certo modo perpetuati e riprodotti fino ai nostri giorni, e nella nostra religione istessa, per mezzo dei monumenti, i quali resisterono all’opera devastatrice del tempo, e che altra volta furono destinati al culto delle divinità pagane, ed ora lo sono all’adorazione dei santi, delle vergini beatificate, e specialmente delle numerose personificazioni di cui non sapremmo definire, se il vero sentimento religioso cattolico, o la superstizione popolare (di cui, pur troppo, {p. XXII}abbiamo ancora larghe e dolorose vestigie), ha informata l’unica e divina personalità di Maria, Madre di Dio.
A Roma, per esempio, il tempio ove si venerò Vesta, la Dea del Fuoco, oggi è dedicato alla Madonna del Sole. Quello dei gemelli Romolo e Remo, fondatori di Roma, ai due Santi Cosimo e Damiano, gemelli anch’essi. L’altro della Salule, a Santo Vitale. Sulle rive del lago Numicio, e propriamente al luogo ove la tradizione ci ricorda si precipitasse Anna Perenna, sorella della famosa Didone, sorge la cappella di Santa Petronilla. Nel foro Boario, presso l’ Ara Massima, ove i romani pronunziavano il solenne giuramento di dire il vero in giudizio, ora s’innalza la chiesa di Santa Maria, Bocca della Verità. Il Panteon è divenuto la chiesa di Santa Maria della Minerca. La cattedrale di Pisa, era il palazzo di Adriano. Il monte Soracte è oggi la collina di Santo Oreste, e presso l’urna che, si vuole, racchiuda le ossa di Santo Ranieri, sorge una statua di Santo Potito, la quale altro non è che un simulacro pagano del dio Marte, con la lieve variante d’aver sostituito un libro, alla spada che brandiva il Dio della Guerra.
Anche più presso a noi, e propriamente nella città di Messina, a simiglianza della Cerere Sicula, vagante per le campagne della Trinacria in cerca di sua figlia Proserpina, rapita da Plutone, la Madonna nel giorno dell’ Assunzione25 tratta in processione, va per le strade della città in cerca del suo Divino Figliuolo, e quando poi dopo lungo cercare, le mostrano la statua del Redentore, ella trema, impallidisce, piange di gioia, e allora una nidiata di uccelletti irrompe, come per incanto, dal suo seno divino, e s’innalza nell’aria a spandere pel cielo l’esultanza del suo cuore di madre.
L’antichissimo cataclisma del diluvio universale, del quale si legge nella Genesi : VI-17 Ecce ego adducam aquam diluxii super ierram — è similmente raccontato dalle più antiche tradizioni dell’ Oriente, le quali accennano tutte e fan menzione di quel tremendo sovvertimento della natura. Nelle leggende dei sacerdoti caldei, Noè si cangia in Xisustro : trasfigurato per istrani racconti lo si ritrova nelle tradizioni Egiziane. Per gl’indiani quello che si salva nell’ Arca è Satyaxrata — Iao, in Cina, il primo re, dà cominciamento al suo regno con lo scolamento delle acque diluviane, che avean tocca la cima delle più alte montagne.
Se dunque i Miti bugiardi e le false allegorie del paganesimo, in cui tutto era fittizio ed immaginario, si sono, in certo modo, trasfusi nella maggioranza dei simboli della religione del Cristo, è segno evidente che tutti i culti, tutte le credenze, hanno, siccome già accennammo, i loro miti tanto propri e particolari, quanto ereditati da altre credenze e da altri culti.
Lo studio della Mitologia abbraccia tutta la scienza, le credenze, le imprese, i vizii e le virtù d’un’epoca remota, oscura, confusa ; e questo studio è tanto più fecondo d’insegnamenti e di dottrine, per quanto più enigmatici sono i simboli o i miti, che ne compongono il sostrato.
Il paganesimo contava fino a trentamila numi, suddivisi e distinti in quattro ordini o categorie particolari ; sarà dunque agevol cosa il comprendere quale estesa quantità di miti si racchiuda nelle mitologiche tradizioni, emergenti da così alto numero di divinità. Similmente è chiaro che non bisogna cercare, nello studio della Mitologia, nè date cronologiche fisse, nè certe e limpide genealogie. I fatti vi sono aggruppati, detti e sviluppati, secondo leggi ben diverse da quelle della storia, e sovente avviene che intere epoche più recenti, sono trasferite in seno dell’età favolosa, venendo attribuite agli dei ed eroi mitologici, solamente dalle illusioni degli storici e dei cronisti. Vuolsi quindi, nello studio della Mitologia, por mente alle moltiplici agglomerazioni popolari di elementi antichi e nuovi, fittizii e reali, immaginarii e positivi ; nei quali però domina ed impera costantemente il principio simbolico e configurato, al quale si è dato tacitamente, da tutti gli scrittori dell’antichità stessa, la denominazione di Maraviglioso. Codesto vocabolo si addice propriamente a tutta quella sfera di personaggi e di fatti ideali e storici, ad un tempo, il cui periodo fu chiamato Eroico o Favoloso. In esso figurano attori, spesso immaginarii, di azioni vere, in cui i simboli o miti delle numerose deità del paganesimo, balenano ad ogni tratto ; ed in cui tutto è grande, maraviglioso, sovrumano, perchè nella tradizione tutto si mostra traverso il prisma della simbolica allegoria, la quale apparisce più viva in tutto quel lungo elasso di tempo, in cui la superstizione pagana tenne alto e riverito il culto dei suoi numi ; rino a che una credenza più mite, una vera religione di pace, di amore, di fratellanza ; una civiltà più essenzialmente umana ; non venne a redimere, col sangue dell’ Uomo Dio, i funesti errori onde le tenebre pagane aveano coperta la terra. E allora, i simboli o miti atroci ed impuri, proprii di una religione che serviva più alle tristi passioni dell’uomo, che al principio della verità, cedettero il posto ai miti dolci, casti, consolatori, onde la religione del Cristo si rivela all’anima dell’uomo. Allora, il Mi to purissimo della Vergine Madre, spense col fulgore della sua casta luce, col suo significato umanamente divino, l’osceno bagliore dei Saturnali, dei Baccanali, delle sozze cerimonie della Venere Terrestre, la dea meretrice. Allora la forza bruta, simboleggiata nell’Ercole pagano, la cui mano possente soffoca i draghi mandati, per celeste vendetta, a spegnere in culla il neonato fortissimo,26 sparisce e diventa null’altro che un sogno allegorico, ideato dalla fervida immaginazione d’un poeta. Di contro a questo pagano, simbolo della forza, sorge luminoso ed immortale, il mito dell’ancella di Dio, sine labe concepta, che sotto l’usbergo della sua celeste purità, schiaccia col fragile piede, la testa del {p. XXIII}serpe insidiatore, e lo costringe a precipitare nel baratro.
Nello studio della Mitologia non bisogna considerare le favole che la compongono, come altrettanti fatti particolari ed isolati ; ma gioverà nell’insieme osservare il pensiero del simbolo o mito che essa racchiude sotto il velame della enigma e dell’allegoria.
A bene intendere lo scopo intellettuale di quest’opera ; a renderla maggiormente utile agli studiosi ; a farla vieppiù comprendere con facilità, gioverà attentamente riflettere sui tre punti principali, che formano l’anima del nostro lavoro.
Codesta studiosa osservazione dovrà più accuratamente portarsi, dapprima, a spiegare la gran maggioranza dei fatti, avvenimenti e tradizioni de’tempi favolosi ; poscia a dimostrare la intenzione del mito, contenuto nelle cerimonie e feste di quell’epoca ; e finalmente ad esaminare quanto l’antichità ci rivela sui misteri simbolici della religione pagana, cioè il culto visibile e la dottrina segreta, delle differenti deità della favola.
Uno degli istinti insiti alla natura umana, porta l’uomo con grande facilità, ad assimilare sè stesso all’ente che adora ; e quanto questo è meno visibile ai suoi sensi, tanto più volentieri l’uomo gli attribuisce una forma imitativa per riavvicinarlo a sè, portarlo seco, indirizzargli voti e preghiere, sacrificargli offerte ed olocausti.
Nell’osservazione scientifica dei tempi della favola, noi scorgiamo che assai di sovente la divinità non è rappresentata da una figura umana, ma spesso da un animale, o da un obbietto di una qualunque materia ; ma ciò avviene solo perchè la immaginazione dell’uomo, esaltata ed accesa dalla superstizione, e da tutti gli errori di un’età barbara ed inculta, non pone mente alla natura materiale o fisica degli obbietti a cui egli accoppia essenzialmente, l’idea d’una causa suprema. Allora, prono nella polvere, genuflesso in atto umile e dimesso, innanzi alla sognata maestà di quell’obbietto, che egli crede divino e soprannaturale, lo riverisce e lo adora, senza chieder dippiù.
È questa una verità non meno inconcussa e positiva, dell’esistenza dei miti in tutte le religioni.
Migliaia di esempì potremmo citare in appoggio delle nostre parole, ma basterà a convincere, con prove di fatto, i nostri lettori, il ricordar loro nelle sante pagine della Bibbia l’altare di Bethel
L’Altare di Bethel. — Nel XXXV. Cap. della Genesi così è scritto riguardo all’altare innalzato da Giacobbe, per comando di Dio, in Bethel :
2. E Giacobbe, raunata tutta la sua famiglia, disse : gettate via gli dei stranieri che avete tra voi, e mondatevi e cangiate le vostre vesti. | 2. Jacob vero convocato omnidomo sua, ait : Abjecite dese alienos, qui in medio vestri sunte, et mundamini ac mutale vestimenta vestra. |
3. Venite e andiamo a Bethel per fare ivi un altare a bio, il quale mi esaudi nel giorno di mia tribolazione e mi accompagnò nel mio viaggio. | 3. Surgite, et ascendamus in Bethel, ut faciamus ibi altare Deo, qui exaudivit me in die tribulationis meae, et socius fuil itineris mei. |
7. E ivi edificò l’altare, e a quel luogo pose il nome di Casa di Dio : perocchè ivi apparve Dio a lui quando fuggiva il fratel suo. | 7. Ædificavit quae ibi allare, et appellavil nomen laci illius, Domus Dei : ibi enim apparuil ei Deus, cum fugeret fratrem suum. |
Martini La Sacra Bibbia, secondo la volgata
innalzato da Giacobbe ; nella Mitologia pagana, il Dio Termine, adorato fino nelle mura del Campidoglio28 ; nella religione di Maometto il Profeta, la Caaba dei Musulmani29.
I Greci inginocchiandosi reverenti innanzi ad idoli fantastici e rozzi, infusero loro mentalmente vita e bellezza ; ne cantarono le lodi ; ne fecero infine un culto armonioso, inspirato, poetico che fu quello appunto che diffuse tania freschezze d’immagini, in tutte le opere dell’arte greca
Cenno sull’arte Greca. — L’azione dell’umano intelletto sulle moltiplici e svariate produzioni della natura, è ciò che si chiama propriamente Arte.
Le arti si divisero in meccaniche e liberali. I greci le coltivarono tutte, ed in tutte colsero le più nobili palme. Essi furono in certo modo, spinti a questa supremazia incontrastata, nello incivilimeato del mondo antico, dalla loro relazione, e dall’ordinamento politico, che furono tanto quella che questo favorevoli allo strenuo sviluppo dell’arte. Fra i piccoli stati della Grecia surse, assai di buon’ora, una gara di emulazione fra cittá e cittâ, ognuna tentando di vincere la sua vicina nella ricchezza delle arti. Da ciò la formazione di altrettanti centri di protezione, quanti erano gli stati indipendenti, i quali giovarono immensamente allo sviluppo delle arti tutte, cosa che non avrebbe potuto sussistere se tutta la Grecia avesse formato un solo stato, perché allora si sarebbe ridotto ad un solo il centro dell’arte, e la protezione a questa accordata sarebbe riuscita meno proficua esercitando un’azione meno diretta ed immediata. L’arte nata dalla verità, dalla contemplazione delle bellezze del creato, deve tendere al suo vero principio facendosi sostegno della verità : cooperandosi al progresso, perfezionando l’uomo ch’è l’opera più nobile del Creatore, e volgere al bello, al grande, alla virtù l’azione delle intelligenze umane.
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Nè questa raffinatezza d’immagini, nella creazione quotidianamente ripetuta d’idoli e di divinità, si arrestò solamente alla Grecia. Ben presto, e come per forza di contagio, tutta la {p. XXIV}natura si trovò rappresentata in un insieme di divinità simboliche, parenti, amiche, rivali come gli elementi lo sono fra loro. I poeti stessi dell’antichità si attennero, nelle loro opere, a queste contigurazioni d’incarnazione ; dando per tal modo uno sviluppo maggiore alle allegor e religiose, per mezzo delle quali si attribuivano alle divinità del culto pagano, sentimenti e passioni umane. Cosi in Omero31 vediamo Venere ferita da Diomede, pianger disperatamente nel veder scorrere il proprio sangue ; e Marte stesso, piagato dal medesimo eroe, copre, cadendo, sette jugeri di terreno. Nè ciò è tutto : gli dei d’Omero partecipano di tutte le passioni dell’uomo, di tutti gli errori e i capricci della umanità : sono irascibill, ingiusti, invidiosi, vendicativi ; non solo altercano, si provocano, e combattono fra loro, ma scendono sulla terra ad ogni piè sospinto, sono in continuo contatto contro gli altri.
Un esempio palpabile di quanto accenniamo ce lo dà Omero, più marcatamente nel canto XXII della Iliade, allorchè narra l’agguato che Minerva tese ad Eltore.
Da queste simili ardite creazioni, ne venne per esplicita conseguenza, l’innumerevole quantità di racconti, di fatti, di avvenimenti, onde è tessuta la storia delle divinità pagane, le quali non dissimilmente dagli uomini stessi che le avevano ideate, nei sogni sbrigliati d’un’età semibarbara, ebbero odii ed amori ; nozze e figli, convenienti alla loro divina natura ; si mischiarono attivamente alla vita dei mortali, ebbero passioni, affetti e sentimenti, affatto simili nel principio e nella forma, a quelli che agitano, quasi mare in tempesta, la vita dell’uomo.
Da quanto esponemmo fin quì, emerge chiara la conseguenza che i miti sono la forma più saliente che assume la religione di un popolo, e per quanto moltiplici e svariati sono essi miti, altrettanto svariate ed innumeri sono le fonti da cui derivano.
Un’azione valorosa, eroicamente compiuta, ottiene il plauso generale ; e questo cresce a misura che la lontananza o la morte dell’eroe di quel fatto, ne ingrandisce il merito primitivo e reale ; ed ecco che l’uomo valorosamente illustre, diventa un dio, ed a lui si attribuiscono tutte le azioni o i fatti di simil natura.
Da questa scala ascendente di gloriosa rino manza, scaturisce il mito di Ercole che in cullz strangola i draghi, e finisce col famoso — Nec plus ultra, onde le colonne su cui furono scolpite le memorande parole, vennero dette le colonne di Ercole, ossia il punto fisicamente marcato, nel mondo antico, oltre il quale non era creduto possibile l’andare a qualunque essere umano o divino.32
Seguitando sempre a svolgere il concetto simbolico, Saturno, ossia il Tempo, viene raffigurato, nell’età favolosa, in atto di divorare i suoi figli ; allegoria spaventevole, sotto alla quale è nascosta l’idea, non meno terribile, del mito che il Tempo è l’eterno e vorace consumatore di tutte le cose, le quali, avendo avuto un principio, debbono essenzialmente avere una fine.
Osserveremo ancora che siffatte credenze popolari, proprie delle differenti religioni, e sempre da esse emergenti, si risentono caratteristicamente dello stato di civiltà, in cui si trovano gli uomini, al momento in cui le concepiscono. Così noi vediamo gli Dei d’ Omero farsi consiglieri degli eroi. Socrate, il sapientissimo filosofo, credeva sentirsi un demone nel seno. Nella Bibblia, e nelle opere sacre dei più celebri dottori della Chiesa Cattolica, occorrono del continuo, angioli amorosi, genii malefici, pitonesse e larve d’ogni maniera,33 Il Tasso, porgeva ascolto al suo genio {p. XXV}familiare. Sacrobosco34 insegnò le sfere sotto la luna andar popolate di spiriti ; e Cecco d’ Ascoli contemporaneodi Dante35 diffuse nelle sue opere cosiffatta dottrina. Milton36 favella di voci arcane che ragionano fra il cielo e la terra. Al Fato ed ai Genii, prestarono cieca fede Mozari, Byron, Napoleone ed altri infiniti e celebri uomini. Nell’ Irlanda, terra eminentemente cattolica, non v’è famiglia che non abbia la sua Bauskie, specie di genio tutelare, come i Penati e i Lari della Romana e Greca Mitologia. La famiglia dei Lusignuno37 aveva la sua Meleusina, larva che appariva quantunque volte ad alcuno di quell’ illustre casato sovrastava la morte. All’epoca in cui si approssimava la sanguinosa catastrofe della rivoluzione francese, e quando il Mesmerismo38 l’Illuminismo, ed altre cosiffatte credenze, avevano presso i nostri padri piena e cieca fede, sopratutto dopo Voltaire39 e l’enciclopedia, avvenne il fatto della celebre cena di Cazotte, attestato da gravi e serii testimonii.
Durante il banchetto, a cui prendevano parte le più chiare personalità dell’aristocrazia francese, Cazotte si mantenne solo torbido e taciturno. Interrogato circa la causa della sua mestizia, rispose prevedere con gli occhi della mente, orribili fatti : e siccome il Marchese di Condorcet lo scherniva, egli alzandosi disse : Voi, Condorcet, vi avvelenerete per sottrarvi al carnefice ! E, continuando, predice a Chambord che si taglierebbe la gola ; a Bailly, a Malherbes, a Boucher che morirebbero sul patibolo ; e avendogli la Duchessa di Grammont chiesto se almeno sarebbero risparmiate le donne, egli rispose : Voi, Signora, e molte altre illustri dame con voi, sarete trascinate alla Piazza della Giustizia, con le mani legate dietro il dorso !… Come, riprese la Duchessa, non mi lasciate nemmeno il conforto d’un confessore ? E allora Cazotte, diventando pallidissimo, rispose : L’ultimo condannato che axrà un confessore, sarà il Re di Francia ! I convitati, compresi da terrore si levarono, e la Duchessa di Grammont, sebbene profondamente turbata, dimondò in aria scherzosa : Ea voi, profeta, quale destino riserbano i cieli ?…
L’interrogato piegò la testa, e meditato alquanto, lentamente rispose : Nell’assedio di Gerusalemme, un uomo per sette giorni di seguito, fece il giro delle mura, gridando con voce di terrore : Sventura a Gerusalemme ! Il settimo giorno gridò : Sventura a me ! E al punto stesso un sasso enorme briccolato dalle baliste romane, lo colse e lo stritolò !…
La storia sanguinosa della rivoluzione di Francia, ci ammaestra del come si avverassero alla lettera, le predizioni terribili di Cazotte.
Noi non intendiamo di spiegare quì, il perchè ed il come di questi fatti, che sembrano soprannaturali, ma che pure ànno tuttora la testimonianza d’intere nazioni, di celebri scrittori, e di opere non meno celebri. La citazione di questi singolari avvenimenti viene in appoggio alla lucidità dell’opera nostra, e noi ce ne serviamo senza discutere.
E, a questo proposito, ci viene alla mente un altro fatto, che per essere recentissimo ci da maggiore incoraggiamento a tenerne parola. In un giornale dei Dibattimenti, che vedeva la luce a Berlino nel 1850, dopo aver narrato che una larva bianca compariva nella casa degli Hohenzollern, tutte le volte che stava per succedere qualche sventura a taluno dei componenti di codesta illustre famiglia, assicurava correr voce che, nella notte del 10 aprile 1850, la dama bianca era comparsa al castello di Berlino, e che questo era certamente {p. XXVI}segno di prossima sciagura per la famiglia regnante. Nel mese seguente, e propriamente il 22 maggio 1850, Séféloge traeva una pistolettata a Re Federigo Guglielmo, mentre stava per partire alla volta di Postdam40.
La ragione condanna, forse, simili fantasticherie ; ma, noi lo ripetiamo anche una volta, nella citazione dei fatti, non discutiamo, volendo solo che essi vengano in appoggio di quanto asseriamo, e servano ai nostri lettori come pruove di fatto.
Continuando dunque questo studio preliminare sulla Mitologia, aggiungeremo che, presso i pagani, data una volta ad un ente soprannaturale e fantastico, la forma umana, era logicamente necessario attribuirgli in pari tempo, idee, passioni ed affetti umani. Così Anteo41, simbolo delle sabbie libiche, confinanti con la regione dell’Egitto, sarà figlio di Nettuno, Dio del mare ; e della Terra ; avrà forme gigantesche, come giganti sono le onde di sabbia che il vento del deserto solleva, e che nulla vale ad arrestare, finchè ampi canali costrutti ai piedi della Libica catena, non rendano inutili gli sforzi del figlio della Terra.
La tradizione favolosa, dando da ciò vita ad un altro dei tanti simboli mitologici, onde è rivestita, fece di quel canali le braccia di Ercole che soffoca il gigante, distaccandolo da sua madre.
La maggioranza delle tradizioni mitologiche ha, come i simboli, la sua origine dalla fantasia inculta degli antichi, i quali non giungevano a spiegarsi taluni fatti. Per esempio, nel culto religioso del Dio Api,42 venivano rinchiuse le mummie, in talune casse che avevano la figura di un toro ; e questo fatto semplicissimo originò l’oscena favola del Toro di Pasifae43 la moglie del re di Creta.
Omero stesso, il poeta sovrano, implicando fra gl’incidenti della favola Itiaca, un racconto interamente fantastico, disse che il mondo era sospeso ad una catena d’oro, che Giove s esso aveva fissato nell’Olimpo.
Fino a queste configurazioni, diremo ser plici, anche sotto la forma allegorica, l’in elligenza dei miti della favola, non riesce al erto difficile ; ma vi sono molti altri simboli in cui la forma del mito non è, a prima vista, limpida e staccata. Tale è, per esempio, l’anecdoto di Giunone, sospesa in aria con un’incudine ai piedi.44 Tale quello di Vulcano, precipitato dal ciclo con un calcio da Giove, sucopadre45, e molti altri fatti ricordati dalla tradizione mitologica, e configurati nei suoi miti, che noi non esponiamo per amore di brevità.
Diremo, invece, che tanto nello insieme, quanto partitamente, le simboliche allegorie del pagani, subirono positive modificazioni, nell’assimilitudine delle cose appartenenti all’ordine celeste, con quelle proprie dell’ordine terrestre, venendo alle diverse deità attribuiti i caratteri del clima, della indole, del governo proprio, e perfino delle abitudini e dei costumi tradizionali e particolari alle molteplici contrade, che formavano il mondo conosciuto dagli antichi. Da ciò vediamo nell Mitologia Scandinava, i numi di quel culto, dimorare in palagi di ghiaccio : quelli dell’Indiana, riposare al rezzo delle piante, e bagnarsi nelle fresche acque dei laghi : la corte celeste dei Persiani ordinata in modo atfatto simile a quella del re Ciro, il famoso monarca46. L’olimpo stesso della Mitologia Greca e Romana, altro non era se non un senato ove, sotto la presidenza di Giove, il re dei numi, si deliberava sui divini ed umani destini : e dal quale ciascan Dio aveva assegnato il proprio governo, il proprio stato, le proprie attribuzioni.
Nettuno era il Dio del mare ; Plutone si ebbe il governo dei regni della morte ; Cibete fu dea dell’agricoltura ; Venere degli amori, Ebe dell’ eterna giovanezza ; Mercurio fu il messaggiero degli dei ; e Vulcano, il dio fabbro ferraio, fabbricò i fulmini per la destra vendicatrice di Giove !
{p. XXVII}Maggiormente si accresce, nella religione pagana, il numero dei miti con l’innesto di quelli fisici coi morali. Cosi noi vediamo il principio morale di una leggenda eroica, immedesimato in un fenomeno astronomico ; l’eclittica d’un pianeta, diventa il viaggio d’un eroe ; l’arco baleno altro non è che il ponte aereo sul quale Iride, la divina messaggiera, discende dal cielo alla terra ; un precetto morale, si personifica in una allegoria individualizzata ; il sole diventa Ercole, e le dodici costellazioni principali della fascia zodiacale, additano le dodici fatiche del Dio-Atleta, il quale, alla sua volta, diventa pei Greci un avventuriero, pei Fenici un fondator di colonie, per gli Sciti un trionfatore, per tutti, un mito divinizzato dall’apoteosi della sua invincibile forza.
I Miti dunque, o simboli della Mitologia, racchiudono il fondamento di tutte le nozioni che ebbero le società primitive. In essi si trovano principì di astronomia, di geografia, di metafisica ; ricordi e tracce di grandi sovvertimenti naturali ; inspirazioni di concetti d’arte e di scienza. Vi si ritrovano le orme dei misteriosi soggetti delle prime meditazioni della mente dell’uomo, e sebbene codeste orme vi sieno confuse, intralciate, senza ordine, e senza disposizione, pure esse sono ravvolte tutte in una tinta forte e spiccata, alla quale ciascuna generazione, traversando l’umanità, ha lasciato impresso qualche tratto della sua particolare fisonomia.
Giovan Battisia Vico47
l’illustre italiano, ha lasciato scritto che la « Mitologia è la più
ricca forma della tradizione dell’umanità, e che essa contiene in due grandi
diramazioni gli avvenimenti antichi, e le antiche credenze, rimanendo come
una reliquia del mondo antico a continuare le religioni, e a dar principio
alla storia »
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Egli è dunque un fatto riconosciuto, constatato, innegabile che i miti religiosi appartengono alle più remote età del mondo, e che lo studio della Mitologia, ossia del ragionamento dei miti, è lo studio sintetico di un popolo, di un età, di una generazione, considerata sotto il suo più caratteristico aspetio morale e fisico, ossia traverso il velo della sua religione.
Codesti cenni debbono, a parer nostro, esser largamente sufficienti onde si riconosca quanto difficile ed ardua impresa, sia quella di dettare una storia analitica della Mitologia.
È invero faticosa opera il dimostrare, e classificare il numero e la natura dei varî sistemi d’interpetrazione che valgono a render conto delle antiche tradizioni, e dell’oscuro significato dei miti della Favola ; tanto più che lo esame accurato, e lo studio paziente e minuto dei tempi favolosi, ci dimostra con tutta evidenza come nell’età primitive, la Mitologia confondevasi con la Poesia, e conteneva l’insieme di tutte le cognizioni umane intorno alla Divinità, alla Natura, ed alla Storia.
Sempre nell’intento di render maggiormente netto ed esplicito il concetto informatore della nostra opera, noi chiameremo, da ultimo, l’attenzione dei lettori a considerare la relazione che passa tra la Forma del simbolo mitologico, ed il Fondo di esso, nel quale l’allegoria è chiusa e raccolta.
Il Fondo di un mito può essere un’idea, una credenza, un sentimento, ed anche un concetto della mente : può essere un fatto, un fenomeno del mondo fisico o del morale, un avvenimento naturale o storico.
In così svariata moltiplicità di elementi informatori dei miti, la sola Forma rimane invariabilmente la stessa, e questa Forma è il racconto, i soggetti del quale sono gli attori, le figure staccate e visibili, anche nell’immaginazione, le persone che animano i miti dí senso vitale. Imperocchè la personificazione è la legge fondadamentale della Mitologia ; è il sostrato vitale, animatore, onde i personaggi mitici si sviluppano nella loro essenza, con tutti i singoli caratteri proprî dell’umanità ; ond’è che essi parlano, operano, sentono e pensano, in modo affatto simile all’uomo mortale.
Ciò avviene perchè sotto l’impero della forma mitica, nè il mondo delle idee, nè quello dei fatti, sono concepiti l’uno dall’altro in modo distinto e spiccato.
Nella Mitologia l’idea si personifica alternativamente, poscia, per generale che essa sia, si individualizza, unificandosi, e quindi il fatto, l’avvenimento, o la vera e reale personalità, assume il carattere di un tipo generale, e allora la forma del mito si eleva a governare le menti. Allora l’immaginazione, questa regina dell’impero mitologico, si fa mediatrice fra l’anima e il corpo, fra lo spirito e la materia, e dà vita a figure sensibili e ad elementi intellettuali, innalzando fino all’idea, le realtà positive e corporee.
È dunque irrecusabilmente chiaro che nel mito il Fondo s’incorpora nella Forma, come la vaghezza dell’idea nella realtà del fatto compiuto, qualunque sia la realtà di questo fatto che si presenta alla mente.
{p. XXVIII}Un altro particolare carattere del mito o simbolo mitologico è la Spontaneità, la quale similmente non si ritrova nell’allegoria, in cui la cognizione dell’essere proprio, suppone una più matura riflessione. L’allegoria nel fatto esprime una cosa, mentre nell’idea che l’informa ne chiude una dissimile ; il mito per contrario, rappresenta ciò che è, e come è : esprime la Forma immedesimata al Fondo, l’idea col fatto, senza avvertire codesta distinzione. In una parola, il mito altro non è che un simbolo attuato nell’istesso tempo dal pensiero e dal fatto, ed è tanto più prossimo al simbolo, quanto più è antico. All’incontro tanto più esso si accosta all’allegoria, quanto più appartiene ad un epoca recente.
Finalmente, ponendo termine a questo Studio preliminare, noteremo brevemente che nella Mitologia, ciò che colpisce a prima vista è la forma enigmatica delle favole che la raccontano, e dei monumenti che la rappresentano.
Infatti se gli avvenimenti assurdi, atroci, immorali, onde è tessuta quasi tutta la storia della Mitologia pagana, non fossero stati ravvolti sotto la brillante vesta dell’enigma, come mai avrebbero potuto gli uomini, sebbene nello stato di un completo arretramento civile, riconoscere in quegli avvenimenti la celeste volontà degli Dei ? Perchè l’anima dell’uomo si elevi fino alla divinità, ha bisogno di appoggiarsi a prattiche esterne e sensibili che colpiscano i suoi sensi, e sieno ín relazione con questi. Gli antichi non si rappresentarono il mondo come una macchina portentosa, moderata dall’attrazione e dalla repulsione, ma ne fecero un tutto vivente, animato, sensibile, e quanto più meravigliosi apparvero loro gli astri, i planeti e gli elementi, tanto più facilmente essi li adorarono. E tanto ciò è vero che il culto degli astri, detto con vocabolo proprio Sabeismo48 è il più universale, come ci dimostrano le religioni dei Fenici, degli Egiziani, dei Babilonesi e di Zoroastro49 i cui principali Dei furono appunto il Sole, la Luna, e gli altri corpi celesti.
Similmente dall’astronomia deriva la maggior parte delle feste e cerimonie onde gli antichi onoravano il culto dei loro Numi.
Così in primavera noi vediamo le Baccanti, scapigliate e frementi celebrare le feste di Bacco sotto il nome di Dionisio,
Dionisio. — Soprannome dato dal Greci a Bacco. per alludere che egli era stato loro padre. ed anche perchè era stato allevato sul monte Nisa. La maggior parte però dei mitologi sostiene essere la voce Dionisio composta da Dios che vuol dire Giove, Nysso, ío ferisco ; perchè Giove si feri facendosi un’incisione nella coscia per salvare il bambino Bacco di cui Semele era incinta.
Villarosa. — Dizionario mitologico ecc. vol. 1.
Dio del Sole : i riti Eleusini compiersi in onore della Luna ; come vediamo quasi tutti gli dei italici essere planetarî a simiglianza di quelli del Tibet, della Cina, e dell’Arabia.
Ogni cosa, presso la religione degli antichi, veniva riguardata sotto il suo aspetto simbolico, e questo simbolo da principio ruvido e grossolano, veniva man mano raffinandosi a misura che l’arte metteva una più armonica relazione fra il concetto dell’idea simbolica, e l’obbietto materiale che la rappresenta. La giovenca, per esempio, per la sua fecondità raffigurava simbolicamente la Terra ; il capro generatore è la vittima immolata dal pastore per la espiazione del gregge ; il cavallo ed il bue che, aggiogati all’aratro, fecondano col lavoro il seno della terra, diventano gli animali del sacrifizio.
Poi ne vengono i simbolici segni dello zodiaco ; le cento braccia di Briareo, il gigante centimano51 Cibele, che come dea dell’agricoltura, ha il seno coperto di moltiplici e ricolme mammelle52 ; Giano bifronte che intima la guerra e proclama la pace
Giano. — Dio supremo degli Etruschi, veniva considerato come personilicaz one delle píu alte filosoliche astrazioni, come Dio — Sole, e come eroe umano.
Villarosa. — Dizionario mitologico-storico ecc. vol. I.
; le Danaidi condannate a riempire una secchia senza fondo,54 e finalmente le Parche fatali che tessono il filo della vita umana.
Parche. — Nome delle tre divinità che presiedevano alla vita e alla morte. Erano tre sorelle Gloto. Lachesi e Atropo. Gloto. là più giovane, teneva la conocchia, ossia presiedeva al punto nel quale veniamo al mondo. Lachesi filava gli avvenimenti della vita : e Atropo, la più vecchia, tagliava, colle forbici, il filo, e cosi dava fine alla vita dell’uomo.
Villarosa. — Dizionario mitologico-storico ecc. vol. II.
Da quanto noi abbiamo detto fin qui, dando in questo Studio Preliminare un cenno storico, per quanto più potemmo ristretto e conciso della Mitologia, a noi sembra che l’idea informatrice di tutta la nostra opera, debba mostrarsi lucidamente ai lettori, e che questi non possono avere la più lieve incertezza o la minima oscurità su quanto noi abbiam cercato di delucidare, adoperando anche nella fraseggiatura dei periodi, una elocuzione limpida e distrigata da qualunque vano e superfluo ornamento di stile.
[n.p.]Ristretto analitito del Dizionnario della favola §
[n.p.] [n.p.]Epigrafi §
Pure non solo i poeti, ma legislatori e statisti ammisero i miti come utili, attesa la natura dell’uomo. Anche persone mature, dal veder figurate alcune scene mitologiche, o da racconti e rappresentazioni di oggetti che non si vedon mai, apprendono e si persuadono che gli dei minacciano, spaventano, castigano. Ora ciò non va senza il meraviglioso e il mito.
Strarone — Nelle Opere
Da principio le immagini degli dei non crano che segni simbolici d’una idea o d’una forza invisibile, ma in progresso di tempo quel concetto si smarrì nella coscienza di tutti i popoli, e cominciarono ad adorare gli stessi simulacri. I soli sacerdoti ne custodirono il senso recondito e misterioso, ma invece di comunicarlo al popolo, lo invilupparono in dottrine arcane, servandolo come proprio retaggio. Inventarono inoltre una quantità di leggende e favole religiose, vestendole di forme poetiche, e fondarono così la mitologia, nella quale sono esposte le vicende degli dei, le loro attinenze cogli uomini, il tutto sotto un velame di misteri, di allegorie e di metafore. Quanto più un popolo è dotato d’immaginativa e di fervore religioso, tanto più ricca è la sua mitologia.
Weber — Compendio di Storia Universale.
Gli scritti d’Orfeo e di Esiodo hanno due sensi, il Letterale e l’Allegorico ; il vulgo si ferma al primo, i filosofi ammirano sempre l’altro.
Clemente Alessandrino
…. qui audiunt, exempla ex vetere memoria et monumentis ac litteris, plena dignitatis plena antiquitatis — Haec enim plurimum solent et auctoritatis habere ad probandum et iucunditalis ad audiendium.
M. T. Cicerone — Oraliones.
….aspettano gli ascoltanti che egli adduca esempii antichi e gravi, ripieni di dignità ed autorità antica — Questi sogliono aver molta efficacia in approvare ed apportar molto diletto in ascoltare.
M. T. Cicerone — Nelle Orazioni.
{p. 4}….L’uomo è cosa che passa, sopra cosa che passa. Forse raffigurando le generazioni umane in un uomo solo, e il mondo nave sopra la quale egli si fosse imbarcato per arrivare traverso il fiume del tempo al mare magno della eternità — Ci hanno di parecchi tra noi a cui immagini siffatte fastidiscono, ma ci vuole pazienza — Ogni popolo possiede un garbo proprio per concepire e per dichiarare il concetto.
Guerrazzi F. D. — Pasquale Paoli — Cap.° 3.
Être un reste, ceci échappe a la langue humaine. Ne plus exister, et persister ; être dans le gouffre et dehors ; reparaître au-dessus de la mort, comme insubmersible, il y a une certaine quantité d’impossible melée à de telles réalités.
V. Hugo. — L’homme qui rit — Vol. 1.
E così che il tempo passa e lavora, nè si stanca mai, è la sua mano che muta e travolge, che solleva e rovescia, che distrugge e rinnova le cose di questa terra. È il tempo, o piuttosto è Dio !…
Carcano G. — Novella III.
Un desolatoVuoto la stessa eternità sariaSe Icòva non fosse, e l’uomo e il tempoPer l’uom creato, periranno insiemeNell’onda struggitrice, in cui fra pocoSarà quest’orbe giovanil sommerso.Byron — Cielo e terra(trad. di A. Maffei)
In nessun luogo il politeismo vesti forme così leggiadre come presso i Greci, le cui favole intorno agli dei (miti, quindi mitologia) furono nella massima parte adottate dai Romani e innestate nelle antiche religioni d’Italia… … … . Questo mondo di dei, dotati di libertà e bellezza, è rappresentato ne’lavori stupendi dell’arte e della poesia greca.
Weber — Compendio di Storia Universale.
… .eos eriim qui dii appellantur, rerum naturas esse, non figuras deorum.
Cicer. De natura deorum. Lib. 3° Cap. 24.
… .veramente quei che Iddii vengon chiamati altro non dinotano se non effetti fisici della natura, non già persone divine.
Cicer. Della Natura degli Dei. Lib. 3° Cap. 24.
{p. 5}Ut quondam Creta fertur labyrinthus in altaParietibus textum caecis iter, ancipitemqueMille viis Labuisse dolum, qua signa SeguendiFallciet indeprensus et irremabilis error.VirgilioÆneide Lib.° V. v. 588.
……….in quante si discorrePer le molte intricate e cieche stradeDel labirinto che si dice in CretaEsser costrutto.Virgilio id. Traduz. di A. Caro.
Dunque il nostro intelletto ha la potenzaDi comprendere il tempo, e lo misuraDalle cose che vede allegre e triste,Picciole e grandi. Immense opre miraiD’immensa intelligenza, estinti soliHan quest’occhi veduto, e contemplandoL’eternità parea che in me trasfusaFosse una stilla della sua grandezza.Byron — Caino Atto 3°(Traduz. di A. Maffei)
In questo tempo i giganti erano sulla terra e furono anche da poi… … . .Genesi. Cap. VI.
Una religione, qualunque essa sia, fa che un popolo sia civile.Introduz. al Giornale — La Società.
….tant qu’il y aura sur la terre ignorance et misère, des livres de la nature de celui-ci pourront ne pas être inutiles.
V.Hugo — Préface aux Misérables.
I magi d’Oriente e i sofi della Grecia insegnarono, che Dio favella in lingua di bellezza. L’età ghiacciata tiene codeste dottrine in conto di sogni, piovuti dal cielo in compagnia delle rose dell’aurora : lo so. Serbi l’età ghiacciata i suoi calcoli, a noi lasci le nostre immagini ; serbi il suo argomentare, che distrugge, a me talenta il palpito che crea. I pellegrini intelletti illuminano di un tratto di luce i tempi avvenire ; per essi i fati non tengono i pugni chiusi ; sull’oceano dell’infinito appuntando gli occhi della mente, scorgono i secoli lontani come l’alacre pilota segnala il naviglio laggiù in fondo, dove il mare si smarrisce col firmamento.
Guerrazzi F. D. — Dall’Introduzione della Beatrice Cenci
Benchè più non alberghiNelle sue grotte Apollo, e tu soggiornoGià delle Muse, or non sii lor che tomba ;Pur questi ermi recessi anco penètraQualche spirto gentile, e le aure pureGode spirar : silenzioso in questiAntri vocali posa, e coll’ignudoPiede la sacra armonic’onda tenta.Byron — Pellegrinaggio di Aroldo — Canto I. Vol. I.
{p. 6}… .or non sai tu che per una cattiva usanza quelle cose sogliono essere estimate non vere, le quali o sono insolite a udirsi. o difficili a vedere, o trapassano le deboli forze della nostra estimazione.
Firenzuola — L’asino d’oro d’Apulejo — lib. I.
Par la gymnastique du corps et par celle de l’esprit, tout citoyen doit obtenir l’apogée de sa beauté, atteindre la hauteur héroïque, ressembler de trés-près aux dieux — D’une incessante activitè, par les combats, où les disputes de la plâce et de l’ecôle, par le théâtre, par les fêtes qui sont des jeux et des combats, l’homme évoque de sa nature tout ce qu’elle à de beau, de fort ; se sculpte infaticablement a l’image d’Apollon, d’Hercule, emprunte l’énergie du second, la svelte élégance de l’autre ; la haute harmonie, ou les puissances méditatives de la Minerve d’Athènes.
Michelet — La femme — Chap. XI.
I secoli trapassano come i vetri dipinti dalla lanterna magica ; il mondo è la parete dove si riflettono le immagini loro, e nel continuo passaggio le cose più strane si succedono senza dar tempo a compire un pianto o un riso. Noi fabbrichiamo sopra i sepolcri dei nostri padri, le generazioni future s’impazientano di fabbricare su quelli di noi. Cenere sopra cenere ; e l’universo si allarga e si feconda per questi incessanti alluvioni della morte. Dove gli umani sollazzavansi un giorno, oggi pregano ; forse vi decapiteranno domani, domani l’altro danzeranno. La fortuna, gittata via la benda, all’antica follia aggiunse l’ebrezza nuova ; e, fatta Menade, percuote orribilmente un suo crotalo infernale, eccitando al ballo tondo Grazie, Furie, Satiri e Muse. Marte balla anch’egli ; Nemesi coi flagelli di vipere batte la misura. E l’uomo presume mettere il chiodo a questa ruota, che affatica il cielo e la terra ? Ah ! ella è pretensione codesta da far morire di riso lo stesso Dio del Riso, il vecchio Momo.
F. D. Guerrazzi — Beatrice Cenci — cap.° VII.
Comechè la terra sappia che il sole tornerà domane a portarie luce e calore, pure ella conosce egualmente che i giorni dalla mano del tempo cadono irrevocabili nello abisso della eternità. Molto certamente hanno vissuto insieme prima che l’uomo nascesse, e molto vivranno ancora dopo che la nostra razza sarà scomparsa ; passeranno secoli e secoli, avanti che si rompano sfasciati a rovinare in corsa disordinata per le miriadi di mondi superstiti ; ma ogni secolo come ogni minuto si avvicinano al punto, dove il creatore per ogni cosa creata ha seritto : Basta.
F. D. Guerrazzi — Beatrice Cenci.
Il faut une réligion — Elle seule unit toutes les classes de la société, et garentit à chacun la sûreté de sa personne et de ses propriétés.
Pigault Lebrun — Œuvres Tome III.
{p. 7}De la faiblesse et de l’orgueil humain sont nées toutes les réligions, qui toutes ont leurs miracles, et qui toutes se tournent en ridicule, quand l’esprit de parti n’éveille pas les passions, et n’ensanglante point la terre — Les viellies réligions ne sont plus à craindre — Elles ont perdu la ressource du merveilleux, qui exite l’enthousiasme, et une réligion sans enthousiasme se reduit a bien peu de chose.
Pigault Lebrun — Œuvres — Tome I.
Così sul romorosoTelaio del tempo, di mia man contestaÈ di Dio la visibileInconsumabil vesta.Goethe — Fausto Parte I. a Trad. di G. Scalvini.
…..car toute génération qui surgit n’est que le corallaire de celle qui expire et le prélude d’une autre qui va naître — La vie est séminaire de la mort : la mort est la nourrice de la vie.
Frèdol — Le monde de la mer.
Ma le scienze ci fanno sapere che infiniti sono i mondi che popolano lo spazio, che il nostro globo, sebbene considerevole, si agglomera ad un sistema infinito di piante e di mondi.
Gualtieri — I piombi di Venezia (Parte 1.° Cap.° 6.° pag.a 115)
… migliorare lo spirito su questa terra è aprire all’anima cammini incogniti e più vasti nell’infinito, e vale la pena di spendere la vita di un uomo…
Gualtieri — Il Nazareno. Vol. 2.° pag. 128
… .J’enterrogerai les monuments anciens sur la sagesse des temps passés.
Volney — Les ruines — Cap.° IV. pag.° 22.
Segui sempre il sentimento anima d’ogni arte.Pope — Nei saggi morali.
… … .prece ed amoreV’hanno indiviso e avvicendato il regno.Byron — Pellegrinaggio d’Aroldo — Canto I.
Les réligions sont la poésie de l’âme.Lamartine — Des destinées de la poésie.
[n.p.] [n.p.]La mitologia è la più ricca forma della tradizione dell’umanità : essa contiene in due grandi diramazioni gli avvenimenti antichi e le antiche credenze, rimanendo come una reliquia del mondo antico a continuare le religioni e a dar principio alla storia.
Giovambattista Vico. Opere.
A §
1. Aba, o Abas. — Città della Focide così nominata da Abas, figlio di Linceo e d’Ipernestra.
2. Abadil o Betile. — Così fu denominata la pietra che Rea, moglie di Saturno, dette al marito onde la divorasse invece di Giove, quando ella lo partorì. Secondo il mito gli antichi vollero idealizzare in Saturno il Tempo che divora tutto, anche i suoi figli.
3. Abans. — Nome dato ad Apollo da un tempio nel quale egli era adorato ad Aba.
4. Abantiadi. — Nome patronimico dato a Perseo, nipote di Abas, re degli Argivi ; da cui anche i re d’Argo furono detti Abantiadi. Essendovi nell’antichità dei tempi favolosi molti eroi e guerrieri famosi col nome di Aba, i figli e discendenti di essi furono dai poeti e storici designati sotto il nome collettivo di Abantiadi.
5. Abante. — Nome patronimico di Danae e di Atalanta, entrambe nipoti di Abas re degli Argivi.
6. Abarbarea. — Una delle Najadi, che Bucolione, primogenito di Laumedonte sposò, e da cui ebbe due figli Esepo, e Pevaso.
Che al buon Bucolïone un di produsseLa Najade gentile Abarbarea,Bucolïon del re LaomedontePrimogenito figlio, ma di nozzeFurtive acquisto, conducea la greggiaQuando alla Ninfa in amoroso amplessoMischiossi, e di costor madre la feo.(Omero — Iliade libro 6° Trad. V. Monti).
7. Abaride. — Era uno scito, che per aver cantato il viaggio d’Apollo, fu nominato Gran sacerdote di questo Dio, e ricevette da lui, oltre allo spirito di divinazione, una freccia sulla quale egli traversava l’aria. Si racconta che avendo fabbricato un flauto per Minerva, con le ossa dei Pelopidi, egli lo rendesse ai Trojani, i quali credettero alle sue parole che confermavano esser quello istrumento disceso dal cielo per opera sua.
Si dice esser questo flauto che poi fu celebre sotto il nome di Palladio. Ma questa è una semplice diceria che non ha nemmeno la forza di una tradizione. Vi sono stati altri due famosi sotto il nome di Abaride. Uno fu ucciso da Perseo, l’altro da Eurialo.
8. Abas. — Figlio di Metanira e d’Ippotone, altri vogliono di Celo. Cerere avendo un giorno dimandata ospitalità alla madre di lui, stanca e trafelata dal lungo cammino, bevè avidamente ad una tazza che le fu offerta. Egli derise la Dea, e questa per punirlo della sua oltracotanza lo cangiò in lucertola. Si crede da molti storici che egli fosse anche conosciuto sotto il nome di Alas-Stellio ; forse perchè vi è una specie di lucertola detta Stellia.
Enea ebbe un compagno molto a lui affezionato che chiamavasi anche Abas, come pure vi fu un Centauro dello stesso nome.
Vi fu anche un altro Abas, da non confondersi col re degli Argivi, e che fu del paro figlio di Linceo e d’Ipernestra, altri dicono di Belo. Egli fu padre di Proteo e di Acrire, e avo di Perseo. Amò passionatamente la guerra.
Abas era finalmente il nome d’uno dei principali greci che furono uccisi nella memorabile notte della presa di Troja.
9. Abaster. — Nome d’uno dei destrieri di Plutone.
10. Abatos o Abato. — Era il nome di una altissima roccia separata dall’isola di Phile dal Nilo e dove Osiride aveva un tempio.
11. Abbondanza. — Divinità allegorica che si rappresenta sotto le forme di una donna giovane e bellissima, circondata di tutti i beni {p. 10}della terra dall’eterno sorriso e dalle tinte vive dei più ricchi colori : tiene nelle mani un corno rovesciato da cui escono a profusione i fiori e le frutta più belle. Essa si salvò con Saturno allorchè questi fu scacciato dal cielo da Giove.
12. Abdera. — Città della Tracia, che Abdera, sorella di Diomede fece fabbricare. Altri vogliono che Ercole edificasse questa città in onore del suo amico Abdereo, che fu miseramente divorato dai cavalli di Diomede. Gli Abdereniani sono comunemente tenuti dagli antichi in assai vil conto, reputandoli d’una indole affatto stupida : ma questa cattiva opinione non va punto d’accordo con la passione che gli Abdereniani han sempre dimostrato per la poesia, per la musica, e per la declamazione delle opere teatrali, soprattutto della tragedia. Essi furono costretti di abbandonare la loro città a causa d’una quantità prodigiosa di rane e di topi, che si moltiplicarono in modo spaventevole nel loro paese, e si ritirarono nella Mandonia.
13. Abdereo. — Giovane greco che fu divorato dai cavalli di Diomede, che Ercole aveva affidati alla sua custodia, dopo averti derubati a quel re della Tracia.
14. Abellion o Abellione. — Antica divinità dei Galli. È credenza di molti chiari scrittori che sia lo stesso che Apollo o il Sole, che i Cretesi chiamavano anche Abelios.
15. Abeone e Adeone. — Divinità che presiedevano ai viaggi. La prima alla partenza, la seconda all’arrivo.
16. Aberide. — Figlia di Celeo e di Vesta.
17. Abia. — Figlia di Ercole sorella e nutrice di Ileo. Aveva un tempio famoso in Messenia. Essa si ritirò nella città d’Ira alla quale dette il suo nome. Questa città fu una delle sette che Agamennone promise ad Achille, onde calmarne l’ira funesta che infiniti addusse tutti agit Achei.
Sette città. Caritamila ed Enope.Le liete di hei prati Ira ed Antèst.L’inclita Fere, Epea la bella, e PédasoD’alme viti feconda……….(Omero — Iliade Libro IX tradotto da Monti).
18. Abido. — Città dell’Asia sull’ Ellesponto. Anche in Egitto vi era una città di questo nome in cui sorgeva un famoso tempio dedicato ad Osiride.
19. Abieni. — Popolo della Scizia, nelle circostanze della Tracia. Mal si apposero quegli scrittori che confusero questi Sciti con gli Ipomolgami. Questi ultimi detti anche Galadefagi facevano del latte di giovenca la loro principal nutrizione. Fra gli Abieni molti viveano in un assoluto celibato, mentre molti altri aveano ad onore la poligamia.
20. Aborigeni. — Popoli che Saturno condusse dall’ Egitto in Italia, dove essi presero stanza. È credenza generalizzata fra molti scrittori, che gli Aborigeni fossero venuti dall’ Arcadia, guidati da Oenotrus (Onotrio) e che appunto perciò Virgilio li denominasse Oenotrii viri. La etimologia del nome di questi popoli è di una profonda incertezza.
Non c’è storico o accreditato scrittore che possa dare sugli Aborigeni delle nette e precise notizie, o fissare a loro riguardo una data qualunque. Tutto ciò che ha riguardo alla vera origine di questi popoli, si perde nella folta tenebra dei tempi.
21. Abracadabra. — Nome superstizioso di una figura triangolare alla quale si attribuiva la virtù di prevenire le malattie, e di guarirle. Affinchè l’incantesimo avesse forza d’agire, le lettere di questa strana paroia dovevano essere segnate come appresso.
ABRACADABRA
ABRACADABR
ABRACADAB
ABRACADA
ABRACAD
ABRACA
ABRAC
ABRA
ABR
AB
A.
Questa figura essendo principalmente composta dalle lettere del nome Abraca lo stesso che Abracox o Abraxas che si credeva essere il più antico degli Dei, veniva ritenuta come un amleto divino e soprannaturale, ed adorata anche essa come una divinità.
22. Abracax o Abraxas. — Divinità singolare che alcnni scrittori vogliono sia la Mithia dei Persiani.
Si avea una grande venerazione sul suo nome, le cui lettere in carattere greco, presa ognuna per la sua cifra, formano in totale il N.° 365 che è quello dei giorni dell’anno. (V. Abracadabra la figura dell’art. precedente).
23. Abrezia. — Ninfa che dette il suo nome alla Misia, città in cui Giove era adorato, ragione per la quale questo Dio, fra i tanti suoi nomi, ba avuto quello di Abretano.
{p. 11}24. Abseo. — Gigante figlio della terra e del Tartaro.
25. Absirto. — Fratello di Medea. Questa terribile maga lo uccise e quindi ne lasciò
le spoglie palpitanti inciampo al padre !
che la perseguitava, quando ella cieca d’amore, fuggì con Giasone. Il flume della Colchide sulle cui rive avvenne l’orrenda tragedia, fu da quel giorno chiamato Absirto.
26. Abyla. — Montagna dell’ Affrica. Questa ed un’altra montagna a cui si dà comunemente il nome di Calpè posta in Ispagna sullo stretto di Gibilterra, erano i due monti che formavano le così dette Colonne d’Ercole. Secondo la favola questo Dio vagabondo trovando riunite le indicate montagne, le separò, e mise così in comunicazione le acque dell’ Oceano col Mediterraneo.
27. Acacalide. — Ninfa sposata da Apollo. Era anche conosciuta sotto lo stesso nome una figlia di Minos.
28. Acacesio. — Era questo uno dei nomi di Mercurio dal suo padre putativo Acaco, figlio di Licaone.
29. Acadina. — Fontana celebre in Sicilia. Essa era consacrata ai fratelli Palichei, numi particolarmente venerati in quell’isola. Si attribuiva a questa fontana la meravigliosa proprietà di far conoscere la sincerità dei giuramenti. Si scriveva la formola del giuramento su di una tavoletta, quindi la si gettava in quella fontana : se il pezzo di legno non ritornava a galla, si ritornava lo scritto come spergiuro.
30. Acalo. — Detto anche Perdix, nipote di Dedalo. Egli fu l’inventore della lega e del compasso. Dedalo, suo zio, ne fu così geloso che lo precipitò dall’alto di una torre. Minerva però mossa a compassione lo cangiò in Pernice.
31. Acamao. — Figlio di Teseo e di Fedra. All’assedio di Troja fu uno dei deputati che accompagnarono Diomede onde ridimandare Elena. Durante questa ambasceria, le cui pratiche riuscirono inutili, Laodice ; figlia di Priamo ebbe da Acamao un figlio, che fu allevato, da Ethra ava paterna di Acamao, la quale Paride avea condotto con Elena. Allorchè i Greci si resero padroni di Troja, Acamao, (che Virgilio chiama Athamas o Athamao) fu uno di quei guerrieri che vennero rinchiusi nel famoso Cavallo di legno. Al momento che ardea più accanita la carneficina, questo principe ebbe la ventura di riconoscere Ethra col figlio suo, e riuscì a salvar tutti e due dalle mani dei nemici.
32. Acamarchide — Ninfa figlia dell’ Oceano.
33. Acanto o Acantho. — La teologia pagana ammetteva cinque differenti soli, e dava Acanto per madreal quarto di essi. Un traduttore dell’opera De Natura deorum si è stranamente ingannato facendo dire a Cicerone che il quarto sole nacque da un padre chiamato Acanto (Ved. Tom. 3° pag. 121).
34. Acarnania. — Provincia dell’ Epiro. Anche in Egitto v’era una regione conosciuta sotto tale denominazione. Più famosa però fu la città di questo nome in Sicilia, nelle circostanze di Siracusa, in cui Giove Olimpico avea un antico tempio, dedicato al suo culto.
35. Acarnao e Amphoterens. — Questi due fratelli erano figli di Alaneone e di Calliope. La loro madre ottenne da Giove che essi appena fanciulli di pochi anni, fossero divenuti adulti in un giorno, per vendicare la morte del padre loro, ucciso a tradimento, dai fratelli di Phelibeo.
36. Acasis. — Figlia di Minos. Apollo la sposò e ne ebbe due figli.
37. Acasto. — Famoso cacciatore, figlio di Pelia re di Tessaglia. Creteisa sua moglie, detta anche Ippolita, s’innamorò perdutamente di Peleo, e gli offrì il suo amore, ma questi resistè alle prave voglie della inverecon la. Crudelmente offesa dal rifiuto, Creteisa, accusò Peleo al marito per aver voluto attentare al suo onore. Acasto dissimulando il suo dolore condusse Peleo in una partita di caccia, e nel più folto di un bosco, lo abbandonò ai Centauri, ed alle belve. Ma il famoso Centauro Chirone (che fu maestro di Achille) liberò dai mostri questo virtuoso principe il quale coi soccorso degli Argonauti, si vendicò della crudeìtà di Acasto, e delle calunnie dell’impudica moglie di lui.
Acasto era anche il nome di una ninfa figlia dell’ Oceano e di Teti.
38. Acca. — Sorella e compagna di Camilla, regina dei Volsci. Di questa, Dante nel suo Inferno Canto primo, dice :
Di quell’untile Italia sia salute.Per cui mori la vergine Camilla
39. Acca Laurentia. — Altra sorella della regina Camilla. Vi fu anche un’altra Acca Laurentia moglie del pastore Faustolo che allevò Romolo e Remo, al quale per questo motivo i Romani decretarono gli onori divini.
40. Aceleo. — Uno dei figli di Ercole che dette il suo nome ad una città di Licya.
41. Acersecome. — I Greci davano questo soprannome ad Apollo, che i Latini {p. 12}chiamavano con lo stesso significato Irtonsus, vale a dire che non si sapea tagliare i capelli. In effetti questo Iddio veniva effigiato con una lunghissima capigliatura e senza barba. Però in Giovenale questo vocabolo lo troviamo adoperato come una designazione qualunque, senza alcun rapporto, ad Apollo.
42. Acesio o Alexesio. — Si chiamava così Apollo come dio della medicina. Dalla significazione di questa parola che libera dalle malaitie si dava anche a Teleforo il soprannome di Acesio.
43. Aceste. — Re di Sicilia, e figlio del fiume Triniso. Egli ricevette onorevolmente Enca, e fece seppellire Anchise, padre di quest’eroe, su d’una montagna.
44. Acete. — Capitano d’un vascello Tirio. Essendo un giorno sbarcato coi suoi compagni sulle rive di un fiume, questi incontrarono, senza conoscerlo il dio Bacco, e volevano a viva forza portarlo a bordo del vascello di Acete, allor che questi si oppose vivamente, ed obbligò i compagni a lasciar libero lo sconosciuto. Bacco allora si fece subito riconoscere, e per punire i ribaldi compagni di Acete li cangiò in delfini, e fece suo gran sagrificatore Acete per ricompensarlo della sua buona azione.
Vi fu anche un altro Acete, figlio del Sole e di Persa. Egli dette una delle sue figlie in consorte a Pirro.
Evandro re d’Italia, ebbe anche uno scudiero per nome Acete.
45. Achaja. — Contrada della Grecia posta al mezzogiorno della Macedonia, ma più particolarmente provincia del Peloponneso, al quale si dà alcuna volta, compreso nella sua totale estensione, il nome di Achaja. Di qua n’è venuta la denominazione assai usata dai poeti e scrittori di Achei, Achivi, ec : per denotare i Greci o cosa a loro concernente. Così noi troviamo al principio dell’Iliade questi versi :
Cantami, o diva, del Pelide AchilleL’Ira funesta, che infiniti addusseLutti agli Achei ec.(Omero Il C. 1°)
46. Achamanto. — Una delle figlie di Danae.
47. Achaya. — Amico e compagno fedelissimo di Enea.
48. Achea. — Soprannome dato a Cerere ed a Pallade.
49. Acheloia. — Detta anche Callirhoe, figlia di Acheolo.
50. Acheloidi. — Nome sotto il quale venivano sovente denominate le sirene, da Acheolo loro padre.
51. Achemone o Achmon. — Fratello di Bofalos o Poffalvos, entrambi Ciclopi. Essi erano così arditi che attaccavan briga ed insultavano tutti coloro che incontravano per via. Sènnone loro madre, li avvisò di evitare Melampigo, vale a dire l’uomo delle reni nere. Un giorno essi s’abbatterono in Ercole che dormiva all’ombra di un albero, e lo insultarono : Ercole li legò per i piedi alla sua clava, con la testa in giù, e alzatili sulle spalle s’incamminò per portarli altrove, forse gettarli in un fiume. In questa posizione poco comoda essi sclamarono : Ecco Melampigo che noi dovevamo evitare : Ercole ascoltandoli si mise a ridere, e li lasciò liberi.
52. Acheo. — Detto per soprannome Calicone greco che si rese famoso per la sua stupidità. Si racconta di lui che avendo una volta pieno un vaso di fiori per servirsene da origliere lo avesse riempiuto di paglia onde farlo più morbido e dormire più comodamente.
53. Acheolo. — Figlio dell’ Oceano e di Teti. Secondo altri del Sole e della Terra. Avendo amato Dejanira, e sapendo che essa doveva sposare un gran conquistatore, combattè contro Ercole, ma fu vinto. Allora assunta la forma di serpente, attaccò nuovamente il suo rivale, ma ne fu nuovamente vinto ; in seguito sotto le forme di toro, ma non ebbe più felice la sorte, poichè, Ercole afferratolo per le corna gliene strappò una, lo atterrò, e lo getto nel fiume Toa, detto da quel tempo Acheolo. Il vinto allora, per riavere il corno che Ercole gli aveva strappato, gli dette in cambio uno di quelli della capra Amantea, che aveva nutrito Giove. Altri scrittori dicono gli avesse dato il corno dell’ Abbondanza.
54. Acheroc. — Nome che Omero dà al pioppo bianco (detto Gattice, vedi Diz. delia Crusca) come consacrato agli Dei infernali, e perchè era generale credenza che quest’albero nascesse sulle rive del flume Acheronte.
56. Acheronte. — Figlio del Sole e della Terra. Egli fu precipitato nell’inferno, e cangiato in fiume per aver fornito l’acqua ai Titani, quando questi dettero la scalata al cielo. Le sue acque divennero fangose ed amare ed è uno di quei fiumi che le ombre dei morti passavano senza ritorno. Vi sono diversi fiumi di questo nome uno nell’ Epiro, un altro in Elide, ed un terzo in Italia.
57. Acherusa. — Caverna sulle rive del Ponte-Eusino. Era generale credenza che essa avesse una sotterranea comunicazione con l’inferno, {p. 13}e gli abitanti delle vicinanze, sostenevano che da quella caverna fosse stato tirato il cane Cerbero, di cui l’Alighieri canta :
Cerbero, fiera crudele e diversa,Con tre gole caninamente latraSopra la gente che quivi è sommersa,Gli occhi ha vermigli, e la barba unta ed atra,E il ventre largo, e unghiate le mani ;Graffia gli spirti, gli seuoia, ed isquatra.(Inferno. — Canto VI.)
57. Acherusia o Acherontea. — Palude presso Eliopoli in Egitto. Era questo il luogo destinato alla sepoltura dei morti di quella città, per modo che bisognava traversare la palude Acherusio per entrare in Eliopoli. Come gli onori funebri non venivano accordati che a quelli che aveano vissuto onoratamente, non era permesso al battelliero, che in lingua Egiziana si chiama Caronte, di ricevere nella sua barca le anime dei perduti. Di là la favola di Caronte battelliero dell’inferno.
Caron, dimonio con gli occhi di bragia,Loro accennando tutte le raccoglie,Batte col remo qualunque s’adagia.(Dante — Inf. Cant. III)
Si dette ancora il nome di Acherusia ad un altra palude esistente vicino alla città di Capua.
58. Acherusiade. — Era questo il nome di una penisola presso Eraclea del Ponte : si credeva comunemente che da quel sito fosse passato Ercole per discendere all’inferno. Senofonte riporta che ai suoi tempi si vedevano ancora le vestigie di tale discesa.
59. Achille. — Figlio di Peleo e di Teti. Sua madre, essendo egli in tenerissima età, lo immerse tutto nelle acque del fiume Stige, per renderlo invulnerabile, ed egli infatto lo fu, meno che al tallone sinistro, pel quale la madre sua lo tenne al momento dell’immersione.
Bambino ancora, Achille fu dato come discepolo al centauro Chirone, che lo nudrì di midolla di leoni, di tigri, e di orsi. Sua madre avendo saputo dall’indovino Calcante, che Achille perirebbe sotto Troja, e che senza di lui quella città, non si sarebbe mai presa, lo inviò alla corte di Scio in abito da donna, e sotto il nome di Pirra, per tenerlo a tutti celato.
Essendo così travestito egli si fece conoscere a Deidamia, figlia di Licomede. La sposò segretamente e ne ebbe un figlio per nome Pirro. Quando i Greci risolvettero di cinger d’assedio Troja, Calcante indicò loro il luogo ove si era celato Achille. Allora i capi dell’esercito greco mandarono a lui in deputazione Ulisse, perchè lo persuadesse a ritornare. Ulisse, camuffatosi da mercatante, presentò alle dame della corte di Licomede alcuni ricchi gioielli, e delle armi bellissime : l’astuto greco riuscì completamente nel suo disegno, poichè Achille, quantunque vestito da donna, appena vide le armi, non guardò nemmeno i ricchi gioielli. Allora Ulisse lo condusse fuori la reggia, e di là innanzi alle mura di Troja.
Achille mostrò prestamente il suo immenso valore, e divenne il terrore de’ nemici.
Durante l’assedio, Agamennone gli tolse una bella e giovane schiava detto Ippodamia, o anche più comunemente Briseide, dal padre Briseo.
Achillealtamente sdegnato, dal procedere del Revillano, si rinchiuse nella sua tenda ; e giurò che non avrebbe più combattuto.
……..Il soloPremio vi manca che mi diè l’Atride,E re villano mel ritolse ei poscia.Torna adunque all’ ingrato, e gli riportaTutto che dico e a tutti in faccia, ond’ancoNegli altri Achei si svegli una giusta iraE un avvisato diffidar dell’arti,Di quel franco impudente, che pur taleNon ardirebbe di mirarmi in fronte.(OmeroIliade libro IX) (trad. di V. Monti)
Finchè Achille tenne la sua parola ; i Trojani furono sempre vincitori nei diversi combattimenti, e più volte respinsero i Greci fin sulle loro navi, ma avendo in un ultimo scontro Ettore, duce dei Trojani, ucciso Patroclo, amico fedelissimo di Achille, questi ritornò alle armi e per vendicare il caduto amico, fece legare Ettore al suo carro, e guidando egli stesso i suoi focosi destrieri, fece tre volte il giro delle mura della città ; cedendo il cadavere sfigurato dell’eroe Trojano alle lagrime di Priamo padre di lui.
Sedutosi di fronte a Priamo, disse :Buon vecchio, il tuo figliuol, siecome hai chiesto,È in tuo potere, e nel ferétro ei giace :Potrai dell’alba all’apparir vederio,E via portarlo.(OmeroIliade — Canto XXIV trad. V. Monti).
Avendo in seguito concepito un ardente amore per Polissena, figlia di Priamo, e perciò sorella del morto Ettore, la dimandò in matrimonio, e quando s’incamminava all’altare nuziale, Paride gli tirò una freccia al tallone. Achille morì di questa ferita. I Greci gli innalzarono una tomba sul promontorio Sigeo, e Pirro suo figlio gl’immolò Polissena.
Si racconta ancora di Achille che Teti sua {p. 14}madre, gli avesse proposto di vivere lunghissimi anni senza far nulla per la gloria, ovvero, morir giovine ricco della fama di prode, e che egli si fosse decisamente attenuto a quest’ultima scelta.
Sarà buono osservare a proposito di questo famoso eroe della Grecia, che l’opinione della sua invulnerabilità al tallone, non era accettata ai tempi di Omero, e che la opinione del Poeta sovrano è assolutamente contraria a questa credenza.
Plutarco nella vita di Alessandro, racconta, che essendo stato dimandato a questo re, se avesse voluto vedere la lira di Paride, conservata in Ilione, rispose aver sempre cercato la lira di Achille, con la quale quel grand’eroe cantava le lodi e le imprese degli uomini valorosi.
60. Achillea. — Isola del Ponte-Eusino così detta dal nome di Achille, al quale vi si tributavano onori divini.
Era anche Achillea il nome di una fontana vicino Mileto, detta così perchè l’eroe vi si era bagnato.
61. Achillenidi. — Fe te celebrate nella Laconia in onore di Achille.
62. Achiroe. — Nipote di Marte.
63. Achlys. — Detta anche Achelaa, dea dell’oscurità e delle tenebre. Esiodo ne fa un ritratto spaventevole.
64. Achmenide uno de’ compagni di Ulisse. Egli sfuggì al gigante Polifemo che voleva ucciderlo, e fu salvato da Enea che lo accolse sulle sue navi.
65. Achmeno figlio di Egeo ; dette il suo nome ad una parte della Persia.
66. Achmon. V. Achemone
67. Acidaila. — Soprannome dato a Venere per esser quella Dea che cagionava dell’ansie e delle inquietudini. Si pretende da altri essere questo il nome di una fontana, ove le Grazie andavano a bagnarsi.
68. Acilio, Acitio o Acisio. — Fiume della Sicilia. Gli fu dato questo nome da Acisio giovane siculo ucciso da Polifemo, e che Nettuno per compiacere Galatea, che lo aveva amato, cangiò in fiume.
69. Acisio V. Acilio.
70. Aciso. — Figlio della Ninfa Simoettris e di un fauno. La sua bellezza gli valse l’amore di Galatea, amata dal gigante Polifemo. Questo ciclope avendolo un giorno sorpreso fra le braccia di Galatea, lo schiacciò sotto una rupe : ma la ninfa madre dell’infelice, cangiò il suo sangue in un fiume detto Aciso.
71. AcitioV.Acilio.
72. Acli. — Al dire di molti autori Greci era questo il nome di una divinità esistente prima del caos, e dalla quale tutti gli altri numi avevano avuto origine e principio.
73. Acmena. — Ninfa del seguito di Venere.
74. Acmone. — Figlio della Terra, e padre di Cœlus. Il suo culto era celebre nell’isola di Creta.
75. Acmonide. — Uno dei Ciclopi. Si dà anche questo nome a Saturno, nonchè a Cœlus come figlio di Acmone.
76. Acœto V. Acoto.
77. Aconte. — Uno dei figli di Liacone.
78. Acor. — Dio delle mosche. Gli abitanti di Cirene, racconta Plinio, offerivano a questo Dio ricchi sacrifizii per essere liberati da quegl’insetti, che col loro moltiplicarsi erano sovente cagione di contagiose malattie.
79. Acoto o Acœte. — Nome di un povero pescatore. Egli non viene ricordato nell’antichichità, che per la bellissima descrizione che fa Ovidio della sua povertà estrema.
Mio nome è Acete, e del popol TirrenoA Meonia mi dier bassi parenti,Ch’oro non mi lasciar, nè men terreno,Nè lanigeri greggi, o grossi armenti.Quando il mio pover padre venne meno,Ch’andò a trovar le trapassate genti,Altro non mi potè del suo lasciare,Ch’un amo ed una canna da pescare.(Ovidio. — Metamorfosi libro III trad. di Dall’Anquillara)
80. Acqua. — Di questo elemento fecero i pagani una delle più antiche deità del loro culto. Talete di Mileto, e con lui i più antichi filosofi riguardarono l’acqua come il principio di tutte le cose. I Greci ereditarono dagli Egizii tale opinione che, per questi ultimi, era una conseguenza della fertilità della loro terra cagionata dalle annuali inondazioni del Nilo. Daciò la grande ed antica venerazione che gli Egizii ebbero per l’acqua, e che al dire di S. Atanagio anch’egli Egiziano, avea spinto quel popolo a farne una delle sue principali divinità. Non minore era la venerazione che gli antichi Persiani avevano per l’acqua, i quali, secondo Erodoto, spingevano la loro superstizione fino a non servirsi dell’acqua nè per lavare il corpo nè per estinguere il fuoco. I Greci e i Romani accettando coteste superstizioni ebbero anch’essi un culto per l’acqua, a cui consacrarono altari e offerirono sacrifizii ; credettero che le acque del mare e dei flumi avessero la virtù di cancellare tutti i peccati. Sofocle nella sua tragedia Edipo nell’atto V fa dire ad uno dei suoi personaggi queste parole che traduciamo alla lettera :
« Nè io credo già che tutte le acque del {p. 15}Danubio e del Fasi lavar possano gli errori della
deplorabile casa di Labdaco
.
Dal culto che generalmente i Pagani ebbero per l’acqua, discesero a venerare i fiumi e le fontane che furono divinizzate.
81. Acqua lustrale. — Davano i Pagani codesto nome all’acqua comune dopo che in essa fosse stato spento un tizzone ardente tratto dall’ara dei sacrifizii.
Alla porta o nel vestibolo dei templi si teneva un recipiente di bronzo pieno d’acqua lustrale nella quale si lavavano come per purificarsi tutti coloro che entravano per pregare. Nelle case ove era un morto, si poneva in sull’uscio un vaso coll’acqua lustrale e non si poteva penetrare nella casa di duolo, senza essersi aspersi d’acqua lustrale, la quale veniva anche adoperata per lavare il cadavere.
82. Acquario. — Secondo la tradizione mitologica sotto questo undecimo segno zodiacale, veniva rappresentato Ganimede rapito da Giove.
83. Acrato. — Questa parola significa vino puro. Gli Ateniesi ne aveano fatto una divinità.
84. Acratoforo. — Al dire di Varrone era questo il soprannome di Bacco, col quale egli veniva principalmente venerato in una città dell’ Arcadia conosciuta sotto il nome di Figalia. Questo soprannome deriva dalla parola greca αϰσατον che significa vino puro senza alcuna mescolanza.
85. Acratopote. — Soprannome dato a Bacco : dal significato che beve il vino puro e lo resiste.
86. Acrea. — Fu il nome di una delle nutrici di Giunone. La favola racconta che fu figliuola del fiume Asterione e del paese Argo. In questa parola è compreso il significato che codesta balia soggiornava sulle rive di quel fiume.
Si dava il soprannome di Acrea a diverse Dee, e più particolarmente a quelle che avevano dei tempî dedicati al loro culto sulle montagne, dalla parola greca αϰρος che significa luogo elevato.
87. Acrephius. — Soprannome dato ad Apollo.
88. Acrise. — Re d’Argo. Avendo consultato l’oracolo seppe che uno dei suoi nipoti un giorno l’avrebbe ucciso. Per prevenire questa disgrazia egli rinchiuse in una torre dî bronzo la sua unica figliuola Danae. Ma Giove che n’era innamorato, cangiatosi in pioggia d’oro penetrò nella torre. Acrise avvertito che Danae era incinta, la fece legare in una piccola barca e l’abbandonò in preda alle onde. Politetto, re di Serifo (una delle isole Cicladi) dove la barca approdò, trattò cortesemente Danae e fece educare suo figlio Perseo, il quale divenuto adulto si mise a correre il mondo a modo degli eroi favolosi, in cerca di avventure onde segnalare il suo coraggio. Passando per Lariffa egli incontrò in questa città Acrise suo avo, e lo riconobbe. Si preparava a lasciare questa città con lui per ritornare ad Argo, quando in una partita di piacero volendo far prova della sua destrezza nel lanciare il disco, che egli aveva inventato, il disco ricadde sventuratamente sul capo di Acrise con tanta violenza che questi ne morì.
89. Acrisionade. — Soprannome dato a Perseo nipote d’Acrise.
90. Acrisione — Figlia d’Actifo.
91. Acroncio. — Giovane di straordinaria
bellezza. Essendosi recato a Delo per un sacrifizio, s’innamorò perdutamente
di una giovine a nome Cedippe, la quale non volle ascoltare le sue
parole : allora avendo perduta ogni speranza di sposarla, incise su
d’una pietra queste parole : Io giuro per Diana di non
esser giammai che d’ Acroncio
. Cedippe, ai piedi della quale egli
aveva lasciato cadere quella pietra nel tempio di Diana, nel quale ogni
giuramento era sacro, lesse quelle parole senza porvi attenzione e
s’impromise ad altro giovane.
Però tutte le volte ch’ella voleva maritarsi, veniva attaccata da una febbre violenta. Credendo allora che questa fosse una punizione degli Dei ella sposò Acroncio.
92. Acteone. — Fglio d’Aristeo e nipote di Cadmo : fu educato dal centauro Chirone e divenne un famoso cacciatore. Avendo un giorno sorpresa Diana in un bagno, la Dea ne fu così irritata che lo cangiò in cervo e lo fece divorare dai suoi cani.
Uno dei cavalli del Sole si chiamava anche Acteone.
93. Actor. — Padre di Menozio e Avo di Patroclo, il quale per questo veniva anche chiamato Actoride.
Vi fu anche un Actor padre di due figli ricordati del paro nella favola sotto il nome di Actoridi. Ognuno di essi avea due teste, quattro mani e quattro piedi. Ercole non li potè vincere che adoperando l’astuzia.
Vi furono diversi altri col nome di Actor : un seguace di Ercole ; un figlio di Nettuno, ed un fratello di Cephalo.
94. Adad, Adargatide o Atergatide. — Divinità degli Afri, si crede che Adad sia il sole, e Adargatide la terra.
95. Adamantea. — Nutrice di Giove. È generalizzata credenza degli scrittori più rinomati della favola che sia la stessa Amaltea. Vedi Amaltea.
{p. 16}96. Adarcate o Atergate fu moglie di Adad re della Scizia. Dopo la morte fu col marito deificata. È comune credenza di molti mitologi che ella sia la Dergeto dei Babilonesi e la Venere dei Greci.
97. Adargatide. V. Adad.
98. Adephagia o Adephacia. — In latino Voracitas Dea della gola. In Sicilia le rendevano gli onori divini. Il suo nome è composto dalle due parole greche Phago mangiare e Adden voluttà.
99. Adefago (insaziabile) soprannome dato ad Ercole. Egli fece un giorno una scommessa con certo Depreo, figlio di Nettuno, a chi avesse mangiato un intero bue. A ciascuno fu servito il suo, e l’uno e l’altro riuscirono nell’intento prefissosi, solamente Ercole fece più presto di Depreo, onde la vittoria fu a lui devoluta. Come essi aveano bevuto in proporzione di ciò che aveano mangiato, vennero a contese fra loro, si dissero delle ingiurie che terminarono con una lotta nella quale Ercole atterrò il suo antagonista. Questa prodezza valse ad Ercole il soprannome d’insaziabile di cui sembra che gli eroi favolosi si tenessero altamente onorati. Ulisse, con tutta la sua reputazione di saggio, sembra averlo grandemente desiderato, e Omero dà a questo eroe un carattere di ghiottoneria di cui lo scrittore Atenco parla con molta severità.
100. Adea. — Nome d’una delle Nereidi.
101. Adeo. — Antico Re dell’ Attica.
Era anche il soprannome dato ad Apollo. V. Adiaco.
102. Adeone V. Abeone.
103. Adephacia V. Adephagia.
104. Ades. — Così veniva denominato Plutone come re dei morti dalla parola greca αιδδης o αδἠς oscuro invisibile ; composta dall’ α privativa e da αδω io vedo. Davasi del pari cotesto nome di ades al luogo sotterraneo ove passavano le anime dei morti.
105. Adia. — Vale a dire Ateniese soprannome dato ad Oritia.
106. Adiache. — Era questo il nome di alcune feste pubbliche istituite da Augusto Imperatore, per solennizzare la vittoria da lui avuta sopra Antonio, nelle vicinanze di Azio.
107. Adiaco, Adio e Adeo. — Soprannomi dati ad Apollo dal promontorio d’Azio a lui consacrato.
108. Adio. V. Adiaco.
109. Admeta. — Fu figliuola di Euristeo. In vaghitasi della cintura della regina delle Amazzoni, suggerì al padre di persuadere Ercole a rendersene padrone onde portargliela. Ateneo racconta di questa principessa una strana avventura. Dotata di uno spirito irrequieto ed avventuriero fuggì di notte dalla città di Argo, ed approdò felicemente a Samo, ove credendosi debitrice a Giunone del felice viaggio, si addossò spontanea l’obbligo di custodire il tempio di lei. Intanto gli abitanti di Argo sdegnati di un abbandono che nulla giustificava, promisero ad alcuni corsari una forte somma di danaro onde far rapire la statua di Giunone dal tempio che Admeta custodiva, sperando così che i Samii avessero fatto vendetta di Admeta. I corsari rubarono infatti la statua di Giunone e la trasportarono sulla loro nave, e misero alla vela, ma tutt’i loro sforzi riuscirono vani, dappoichè il vascello non potè far cammino. Persuasi che quella fosse una punizione del cielo, discesero nuovamente la statua della Dea, e, offertole un sacrifizio ritornarono a bordo della loro nave che questa volta salpò felicemente. Admeta sul far del giorno accortasi della mancanza del simulacro dette l’ailarme, e ben presto una gran folla di popolo mosse alla ricerca di quello, e finalmente ritrovò la statua sulia spiaggia del mare. Admeta persuase ai Samii che la Dea per punirli voleva abbandonare il loro paese e recarsi nella Caria, onde essi ad impedire una novella fuga la legarono con alcuni rami d’albero. Poco di poi Admeta purgò con un sacrifizio il supposto delitto dei Samii, e slegata la statua la rimise nel santuario. Da quel tempo a commemorazione di tale prodigio fu stabilita in Samo una festa annuaria, a cui gli abitanti dettero il nome di Tenea, volendo ricordare che essi avean teso intorno al simulacro di Giunone alcuni rami d’albero.
Vi fu anche una sacerdotessa di Giunone così chiamata ; ed una ninfa ricordata nella favola sotto il nome di Admeta.
110. Admeto. — Figlio di Phereo, Re di una contrada di Tessaglia di cui Phra era la Capitale. Fu uno dei principi greci che si riunirono per dare la caccia al cignale di Calydone. Prese anche parte alla spedizione degli Argonauti. Fu presso questo re che Apollo fu costretto a custodire gli armenti, quando Giove lo espulse dal cielo. Admeto invaghitosi di Alceste figlia di Pelio non potè ottenerla in isposa che a condizione che avrebbe regalato a Pelio un carro tirato da un leone e da un cignale. Apollo riconoscente alla bontà che Admeto avea avuto per lui, gl’insegnò il modo di aggiogare sotto lo stesso giogo le due belve.
Apollo ottenne anche dalle Parche che quando Admeto sarebbe vicino alla sua ultima ora, avesse potuto evitare la morte, quante volte però avesse trovato un altro uomo tanto generoso per morire in sua vece.
{p. 17}Admeto attaccato d’una malattia mortale era presso a morire, e nessuno si offriva per lui : quando Alceste lo fece generosamente : Admeto ne fu tanto dolente che Proserpina, commossa dalle lagrime di lui, volle rendergli sua moglie, ma Plutone vi si oppose. Allora Ercole discese all’inferno, e ricondusse Alceste nelle braccia di suo marito. Non vì fu principe la cui vita avesse sofferte tante controversie, quante ne soffrì Admeto, ma gli Dei lo protessero sempre a causa delle sue grandi virtù.
111. Adod. — Era il Giove dei Fenici.
112. Adone. — Giovane di maravigliosa bellezza nacque dagli amori incestuosi di Ciniro Re di Cipro con Mirra sua figlia.
Si sapea ben per Cipro il folle incesto,Che già commesso Mirra avea col padre :Ovidio, Metamorfosi Libro X trad. di Dell’Anguillara.
Egli era un famoso cacciatore : Venere l’amò passionatamente e preferi, al dire d’Ovidio, la conquista di lui a quella degli Dei stessi. Abbandonò per lui il soggiorno di Citera, d’Amatunta e di Pafo, e lo seguì innamorata e dolente nelle foreste del monte Libano. Marte geloso di tal preferenza avventò contro di Adone uno smisurato cignale che lo ridusse in brani. Venere allora lo cangiò in anemone.
Adone dopo la morte fu deificato, ed il suo culto ebbe cominciamento nella Fenicia, ov’egli regnò dopo la morte del re Biblo, di cui avea sposata la figlia, e ben presto si sparse nei paesi vicini, in Egitto e persino nella Siria. Di quì passò in Persia, nell’isola di Cipro e finalmente in tutta Grecia, ove le feste in onore di lui duravano otto giorni. Codeste cerimonie di commemorazione avevano principio con tutti i contrassegni del lutto. Coloro che vi prendevano parte portavano il bruno, e venivano accompagnati da tutt’i contrassegni di pubblica afflizione. Le donne ministre di questo culto piangendo correvano per le strade col capo raso, battendosi il petto. In Alessandria la regina, ovvero la dama più nobile della città portava ella stessa una piccola statua di Adone, seguita da tutte le dame più rinomate per illustri natali, le quali portavano in giro dei piccoli canestri pieni di fiori, di ramoscel li d’alberi, di frutta e di profumi. Il corteggio veniva chiuso da un gran numero di altre dame, le quali portavano due ricchi tappeti sovra uno di questi era ricamato in argento il letto di Adone, e sull’altro quello di Venere. Nella città di Atene ad ogni anniversario della morte di Adone venivano nei diversi rioni della città appese alle mura alcune immagini rappresentanti un giovane di bellissime forme, morto sul flore degli anui. Nel corso delle cerimonie le donne vestite a bruno andavano a toglierle per celebrare i funerali del morto, piangendo e cantando. Il popolo riteneva questi giorni come nefasti, e si ritenne come un malvagio augurio la partenza della flotta Ateniese per la Sicilia, avvenuta nel periodo di queste lugubri cerimonie, come l’entrata nella città d’Antiochia dell’ Imperatore Giuliano. Nell’ultimo giorno della festa la mestizia cangiavasi in gioia, volendo alludere così all’apoteosi d’Adone.
Adone era anche il nome di un fiume presso la città di Biblo nella Fenicia. La favola racconta che Adone lavasse nelle acque di questo fiume le ferite che lo fecero morire, e siccome quelle onde, in una certa stagione dell’anno, diventavano rossastre a cagione della sabbia del monte Libano, che il vento vi faceva cadere, fu ritenuto generalmente che il sangue d’Adone avesse cangiato il colore delle acque di quel fiume, che poi prese il suo nome.
113. Adoneo. — Era questo un soprannome dato a diverse divinità e particolarmente a Giove, a Bacco ed a Plutone.
114. Adonie. — Feste in onore d’Adone. I giorni che duravano queste cerimonie si passavano nel lutto e nella tristezza. Le donne vestite a bruno piangevano per delle ore intere. V. Adone.
115. Adorea. — Divinità che si crede essere la stessa che la Vittoria.
Si chiamava anche Adorea una festa in onore delle principali divinità nella quale si offrivano agli Dei delle focacce dette Ador.
116. Adporina o Aporrina o Asporena. — Soprannome dato a Cibele, da un tempio che ella aveva in Asporena, città dell’Asia minore vicino Pergamo. Veniva anche detta Montana, ciò che vale lo stesso.
117. Adramech Anamelech. — Idolo degli Afri. Aveva un culto truce e disumano perchè si lasciavano bruciare sulle sue are dei fanciulli.
118. Adrameo o Adraneo. — Divinità il culto della quale era celebre o speciale in tutta l’isola di Sicilia.
119. Adramo. — Secondo Plutarco era il Dio particolare della Sicilia, forse perchè in quell’isola v’era una città che portava lo stesso nome, oggi è la città di Adernò. Il culto di questo Dio era disseminato in tutta l’isola.
120. Adraneo. V. Adrameo.
121. Adrasta. — Ninfa figlia dell’oceano : fu una delle nutrici di Giove.
122. Adrastea — Nome della Dea Nemesi. Essa era figlia di Giove e della fatalità, che {p. 18}altrimenti chiamasi anche essa Nemesi. Secondo Plutarco era l’unica furia ministra della vendetta degli Dei. Il suo nome, che viene dall’α privativa e da δραω, δαδρασϰω io sono, dinota una divinità a cui nulla impedisce di agire : specie di fatalità sempre vegliante a punizione dei colpevoii. Gli Egizii mettevano Adrastea al disopra della Luna. È opinione di molti scrittori che presso i Greci, Adrastea non fosse che un soprannome di Nemesi.
Adrastea era anche il nome di una Ninfa, e di una ancella di Elena.
123. Adrasto. — Re d’Argo, fu obbligato a cercar rifugio presso Polibio, suo avo paterno, per sottrarsi alle persecuzioni dell’usurpatore che si era impadronito dei suoi stati. Egli levò contro i Tebani un formidabile esercito comandato da Polinice, Tideo, Capaneo, Ippomedone, Anflareo e Paride e si mise egli stesso alla testa di quell’esercito.
È questa spedizione che viene ricordata nella storia sotto il nome d’Impresa dei sette prodi che assediarono Tebe, sotto le cui mura perirorono quasi tutti. Poco dopo Adrasto persuase i figli dei suoi caduti compagni, a vendicarne la morte gloriosa, e levò con essi un’armata simile alla prima, alla quale fu dato il nome di Armata degli Epigoni, secondo che narra Pindaro e Euripide.
Adrasto era anche il nome di un Re dei Dori, che Telemaco uccise a causa della sua perfidia.
Adraste craint d’être surpris, fait semblant de retourner sur ses pas, et veut renverser les Crétois qui se presentent à son passage, mais tout à coup Télémaque, prompt, comme la foudre que la main du pére des dieux lance du haut de l’Olympe sur les têtes coupables, vient fondre sur son ennemi : il le saisit d’une main victorieuse, il le renverse comme le cruel aquilon ahat les tendres moissons qui dorent la campagne. Il ne l’écoute plus quoique l’impie ose encore une fois essayer d’abuser de la bonté de son cœur ; il enfonce son glaive, et le précipite dans les flammes du noir Tartare, digne chàiment de ses crimes,Fénélon Télémaque.
Vi fu un altro Adrasto figlio del Re Mida, il quale per inavvertenza uccise Atiso figlio di Creso, e ne fu tanto addolorato, che sebbene il padre del morto lo avesse perdonato, egli non potendo reggere al suo rimorso, si trafisse sulla tomba dell’estinto amico.
124. Adreo. — Dio che presiedeva alla maturità delle spiche.
125. Adulto. — Sotto questo nome veniva invocato Giove nella celebrazione dei matrimoni, mentre si dava a Giunone quello di Adulta.
126. Aegocero. — Essendo il Dio Pane posto come divinità fra gli astri, si trasformò da sè medesimo in capra ; da ciò il soprannome di Aegocero da due parole greche αις capra ϰερας corno.
127. Aelo. — Secondo Esiodo era una delle Arpie figlia di Tauma e di Elettra.
128. Aeree. — Feste che gli agricoltori celebravano in onore di Bacco e di Cerere.
129. Aeta. — Re della Colchide. Egli ebbe una figliuola a nome Calciope, che dette in moglie ad uno straniero per nome Frisso, il quale dopo qualche anno per avidità di ricchezze, fece assassinare il suocero e s’impadronì dei suoi tesori. Ma non gioì a lungo del frutto del sangue, imperocchè Giasone, a capo degli Argonauti, venne a farsi render conto del male acquistato retaggio, e se ne rese egli stesso padrone. Da questo fatto la tradizione mitologica trae argomento ad un responso dell’oracolo che avrebbe detto ad Aeta che uno straniero gli toglierebbe il regno e la vita ; e che perciò egli avesse adottato il barbaro costume di far sagrificare agli Dei tutti gli stranieri che approdavano nei suoi stati.
130. Aetherea. V. Atherea.
131. Aetlio. — Fu uno dei figliuoli di Eolo : sposò una giovanetta per nome Calice che lo rese padre di Endimione. In Grecia fu venerato come un eroe.
132. Aetone. — Uno dei quattro cavalli del sole, che al dire di Ovidio, fu principale cagione della caduta di Fetonte. Il cronista Claudiano attribuisce lo stesso nome ad uno dei cavalli di Plutone, facendo derivare il nome di Aetone dalla voce greca αιδως nero mentre codesto nome significa l’ardente per esprimere il sole nel suo meriggio, essendo stata appunto l’ardente luce di esso la vera causa della morte di Fetonte. L’etimologia greca ci avvalora maggiormente in questa opinione, dappoichè αιδω significa ardo abbrucio.
133. Aex. — Una delle nutrici di Giove. Dopo la morte ella venne collocata fra gli astri.
134. Afacitae. — Nella Fenicia in un luogo chiamato Afaca fra le città di Biblo e di Eliopoli, Venere aveva un tempio ed un oracolo con questo soprannome. Essendovi in quelle circostanze un piccolo lago simile ad una cisterna, tutti coloro che venivano a consultare l’oracolo Afaciteo, gittavano in quelle acque le loro offerte, senza por mente alla ricchezza o al valore di esse. Se erano accette alla Dea, restavano al fondo, se venivan respinte, ritornavano a galla, oro o argento che fossero. Nelle cronache mitologiche di Zosimo è detto che l’oracolo di Afacita fu consultato dai Palmireni quando essi si ribellarono allo imperatore Aureliano e che di tutt’i doni da essi gettati nelle acque, {p. 19}nessuno rimase al fondo. Infatti l’anno seguente essi furono interamente distrutti dalle armi vincitrici dell’imperatore.
135. Afaco o Afanio. — Soprannome di Marte.
136. Afanio (V. l’art. precedente).
137. Afareo — Padre di Lynceo che Ovidio chiama Aphareja proles.
138. Afea. — Denominazione di Diana. Nella città di Egina si adorava il Dio Britomarte sotto una tale denominazione.
139. Afesi. — Sotto questo nome venivano di sovente additati Castore e Polluce, i quali si credeva presiedessero alla partenza dallo steccato di coloro che prendevano parte ai giuochi olimpici.
140. Afeteriani. — Castore e Polluce venivano così detti perchè avevano un tempio consagrato al loro culto nel recinto da cui partivano coloro che si disputavano il premio della corsa.
141. Afetore. — Denominazione data ad Apollo dagli oracoli che egli rendeva in Delfo, e dal sacerdote che li ripeteva al popolo.
142. Afneo. — Altro soprannome di Marte.
143. Afonide. V. Afonis.
144. Afonio. V. Afonis.
145. Afonis, Afonio o Afonide. — Soprannome dato a Giasone da suo padre Efone.
146. Afra (sorelle) — Ossia sorelle Africane. Erano così dette le Esperidi.
147. Africo. — Nome d’uno dei principali venti.
148. Afodrisie. — Feste in onore di Venere. Nell’isola di Cipro e in molte altre città della Grecia si dava una moneta d’argento a Venere onde prender parte a queste feste volendo così dimostrare che la Dea era tenuta generalmente come femmina da conio. Gli offerenti ricevevano da lei regali degni di essa.
149. Afrodite. — Parola greca che significa schiuma. Con questo nome veniva denotata Venere perchè i poeti dicono ch’ella nascesse dalla schiuma del mare.
150. Agamede e Trofonio figli d’Ergino, altri dicono di Apollo e di Epicaste. Furono famosj architetti, e d’una furfanteria matricolata. Essi dettero una luminosa prova del loro duplice ingegno nella città di Delto, sia per la meravigliosa costruzione del famoso tempio ; sia perchè aveano trovato il modo di rubare giornalmente i tesori di quel re.
Come era impossibile di scoprire o sorprendere i ladri, fu loro teso un agguato nel quale cadde Agamede, e da cui non valse a tirarsi, per modo che suo fratello Trofonio non seppe trovare altro scampo per se stesso, che quello di tagliare la testa al fratello.
Qualche tempo dopo la terra improvvisamente si spalancò sotto i piedi di Trofonio e lo inghiotti vivo. Dopo la sua morte la credulità popolare ne fece un dio, e gli si dette fino un Oracolo.
151. Agamennone. — Re d’Argo e di Micene figlio di Plistene, e nipote d’Atreo. Egli fu il capo dell’armata Greca che dopo 10 anni d’assedio espugnò e distrusse Troja. È anche conosciuto sotto il nome di Re dei Re, perchè aveva il comando supremo di quell’esercito ove combattevano altri sei re sotto i suoi ordini.
…. Ad alta impresaTe non scegliea la Grecia a caso duce ;Ma in cortesia, valor, giustizia, fede.Re ti estimava d’ogni re maggiore.(Alfieri — Agamennone Tragedia Atto III)
…. A voi degg’ioRammentar che dal Greci ebbi il supremoScettro fino a quel di che vegga sciolteDal suol Sigeo le vincitrici navi ?Cessi il mio regno, a me non cale, io voglioSolo i mici dritti sostener, quand’altriCieco gl’impugna.Niccolini — Polissena, Tragedia Atto II.
Durante l’assedio di Troja, egli ebbe una forte contesa con Achille, a causa d’una schiava per nome Briseide, figlia del sacerdote Brise, la quale Agamennone volle fosse tolta alla parte del bottino di guerra, spettante ad Achille.
Essendo finalmente caduta Troja, Agamennone si accingeva a ritornare in patria, allorchè Cassandra, figlia di Priamo gli predisse che egli sarebbe stato assassinato in Argo, ma Agamennone non prestò fede alle parole della indovina, e ritornò in patria, ove in effetti fu ucciso da sua moglie Clitennestra, divenuta la druda dell’usurpatore Egisto.
…. Agamennon qui caddeSvenato………….…… Oggi ha due lustri appunto.Era la orribil notte sanguinosa,In cui mio padre a tradimento uccisoFea rintronar di dolorose gridaTutta intorno la reggia.Alfieri — Oreste Tragedia Atto II.
152. Agamennonidi. — Discendenti di Agamennone.
153. Aganice o Aglaonice. — Donna che avendo conosciuta la causa e il tempo degli ecclissi lunari., ne prese occasione onde farsi credere una maga, ciò che fu alla disgraziata causa d’infinite sciagure.
154. Aganapidi. — Con questo nome venivano designate le nove muse, dalla fontana Aganippe a loro consacrata.
{p. 20}155. Aganippa. — Figlia di un fiume che scende dal monte Elicona. Ella fu cangiata in fontana, le cui acque aveano il dono d’inspirare i poeti, e perciò questa fonte fu consagrata alle Muse, le quali furono anche conosciute sotto il nome di Aganipidi.
156. Agapenore. — Figlio di Anceo fu uno dei principi che avrebbero voluto sposare Elena. Egli andò per questo all’assedio di Troia, e fece forte la flotta greca di 60 vascelli che conduceva con se. Dopo la caduta di Troja, una tempesta lo spinse nell’isola di Cipro ove egli edificò la città di Pafo.
157. Agastene. — Re degli Elleni, e padre di Polissene. Egli fu uno dei principi che si recarono allo assedio di Troja.
158. Agastrofo. — Nome di un troiano che fu ucciso da Diomede.
159. Agathirno o Agatirno. — Figlio di Eolo : dette il suo nome ad una città che fece fabbricare in Sicilia.
160. Agathirso. — Figliuolo di Ercole. Fu padre di un popolo sanguinario e crudele che da lui fu detto Agathirsio.
161. Agathodomeni. — Ossia genii benefici. I pagani davano questo nome ai dragoni e agli altri serpenti alati che essi adoravano come divinità.
162. Agathone. — Uno dei figli di Priamo re di Troja.
163. Agatirno. V. Agathirno.
164. Agave. — Fu una delle figliuole di Cadmo e di Armenia. Ancor giovanetta sposò certo Echione da cui ebbe un bambino che fu chiamato Penteo. La favola racconta di Agave un truce fatto ; imperocchè invasa da un entusiastico furore pel culto di Bacco, persuase le baccanti a fare in brani il proprio figliuolo Penteo, nella ricorrenza delle feste di quel Dio. Dopo la sua morte Agave, fu, ronostante la sua efferatezza innalzata agli onori divini sia perchè aveva curata l’educazione del Dio Bacco, sia, come vogliono altri scrittori, pel suo preteso zelo al culto di quello.
Vi furono ancora una figlia di Danao, una Nereide, ed uua Amazzone conosciute sotto il nome di Agave.
165. Agavo. — Altro figlio di Priamo.
166. Agdelfo, Agdifio o Agdisto. — Mostro metà uomo e metà donna che la favola fa nascere dal commercio di Giove e della pietra detta Agdo. Egli fu il terrore degli uomini e degli Dei, i quali lo cangiarono in mandorlo che produceva un bellissimo frutto. La favola racconta che una figliuola del fiume Sangaro, avendo nascosto nel suo seno alcune di quelle mandorle, queste scomparvero e dopo qualche tempo la ninfa si trovò incinta e partori un fanciullo al quale fu imposto il nome di Ati. Giunto all’età virile, Ati di cui Agdisto erasi perdutamente invaghito, fu dalla ninfa sua madre inviato alla Corte del re di Pessinunte per sposare una figliuola di lui.
Già le cerimonie nuziali volgevano al loro termine, allorquando Agdisto, spinto da gelosia, ispirò nell’animo di Ati tale sentimento di furore che da stesso si rese eunuco e lo stesso fece il re di Pessinunte. Colpito Agdisto dal male che aveva fatto, ottenne da Giove che anche dopo la morte di Ati qualcuna delle sue membra non sarebbe andata soggetta alla corruzione. Questa favola che è una delle più stravaganti della mitologia pagana, era sufficiente pel meraviglioso ch’essa racchiude ad appagare il popolo e Pausania ce la riferisce come una tradizione propria degli abitanti di Pessinunte.
167. Agdiflo. Vedi l’articolo precedente.
168. Agdisto. Vedi come sopra.
169. Agdo. — Pietra di una grandezza straordinaria dalla quale è credenza generale che Deucalione e Pirra prendessero le altre pietre che gettarono dietro le loro spalle per ripopolare il mondo. Giove innamorato di questa pietra la cangiò in donna e n’ebbe un figlio che fu detto Agdelfo.
170. Agelao. Vedi l’articolo seguente.
171. Agelaso Agelasto o Agelao. — Figlio di Damastore : fu uno di coloro che vollero sposare Penelope durante l’assenza di Ulisse.
172. Agelasto V. l’articolo precedente.
173. Agelia. — Soprannome dato a Minerva, e forse a lei imposto dalla Città di Ageliana dove essa era singolarmente venerata.
E questa però una opinione assai vaga ed incerta. Noi la riportiamo senza attestazione di certezza.
174. Agenore. — Figlio di Nettuno e di Livia. Egli sposò Telephassa detta anche Agriope dalla quale ebbe Europa, Cadmo, Fenicio e Cilicio. Giove avendo rapito Europa, il padre Agenore ordinò ai suoi figli di andarne in cerca con espressa proibizione di ritornare senza di lei.
Agenore era anche il nome di un re di Argo, e di uno dei figli di Antenore.
175. Agenoria o Agerone. — Dea dell’industria detta anche Strenuà.
176. Agenoridi. — Discendenti di Agenore.
177. Ageroco. — Figlio di Nelea e di Cloro.
178. Agerone. V. Agenoria.
179. Ageronia. V. Angeronia.
180. Agesilao. — Soprannome dato a Plutone perchè attirava i morti e li facea condurre all’inferno da Mercurio.
181. Agete. — Figlio di Apollo e di Cirene e fratello di Aristea.
{p. 21}182. Agirti. — Con questo nome s’indicavano i Galli sacerdoti di Cibele. Questa parola significa ancora giuocatori di mano, esperti nella sparizione degli oggetti.
183. Aglaja. — Era questo il nome di una delle Grazie.
184. Aglao. — Nome del più povero degli Arcadi, che Apollo giudicò più felice di Gige perchè viveva contento dei legumi del suo piccolo orticello.
185. Aglaonice. V. Aganice.
186. Aglaope. — Nome dato ad una Sirena.
I Lacedemoni chiamavano così Esculapio, Dio della medicina.
187. Aglaopheme. — Una delle Sirene.
188. Aglauro o Agraulo. — Fu una delle figliuole di Cecrope, la quale attirò su di sè lo sdegno di Minerva a causa di una indiscreta curiosità. La Dea avea dato ad Aglauro un canestro chiuso vietandole di aprirlo. Ma la principessa non seppe vincere la curiosità, propria della donna e infranse l’ordine di Minerva, ed aprì il canestro nel quale era rinchiuso un mostro
Diè la cesta a tre vergini in deposto,Ma che non la scoprisser loro impose…………….Ma ben ch’Aglauro avea rotto il contratto,Nè sol per sè quel cesto avea scoperto.(Ovidio — Metamorfosi. Libro 2. trad. di Dall’Anguillara).
Minerva allora per punire Aglauro la rese pazzamente gelosa di sua sorella Erse, amata da Mercurio. Un giorno che questo Dio voleva entrare nelle stanze di Erse, Aglauro gliene contrastò vivamente l’accesso, sicchè Mercurio con un colpo di caduceo la cangiò in una rupe. Dopo la morte, fu ad Aglauro innalzato un tempio, e nella città di Salamina fu stabilito il crudele sacrifizio di offerirle ogni anno una vittima umana alla quale si faceva fare per tre volte il giro del tempio, e poi il Flamine sacrificatore immergevale una lancia nel petto, e quindi la vittima era posta sul rogo. Ai tempi di Seleuco, Defilo, re di Cipro, abolì l’orribile usanza facendo che invece d’una vittima umana fosse sagrificato un bue.
189. Aglibolo. — Era uno degli Dei dei Palmiri. Negli antichi monumenti si trova sempre in compagnia d’un’altra Divinità detta Malachbelo. È generale credenza che sotto il nome del primo si adorasse il sole, e sotto il nome del secondo la luna.
190. Agniteo. V. Agnito.
191. Agnito o Agniteo. — Soprannome dato ad Esculapio.
192. Agno o Hagno. — Fu questo il nome Ristret. Anal. del Diz. della Fav. di una delle Ninfe nutrici di Giove. Ella dette il suo nome ad una fontana celebre per favolose meraviglie.
193. Agonali. — Festa che i Romani celebravano in onore di Giano, agli 11 gennaio, 21 maggio, e 13 dicembre. I Sacerdoti di Marte erano anche conosciuti sotto questa denominazione.
194. Agoni. — Si designavano con questo soprannome i sacerdoti che colpivano la vittima sulle are della Divinità.
195. Agoniani. — Con questa parola che deriva dal verbo latino Ago, venivano designate quelle divinità, che s’invocavano prima d’intraprendere qualche cosa d’importante.
196. Agonio. — Dio che presiedeva alle intraprese.
Mercurio era anche chiamato Agonio perchè presedeva agli spettacoli. In Greco la parola Agon vale giuochi solenni. Giano, nelle feste Agonali, veniva designato col nome di Agonio.
197. Agoreo. — Soprannome dato a Giove e Mercurio dai diversi templi che essi avevano sulle pubbliche piazze delle varie città, dalla parola greca αγορα, che significa piazza. Per la stessa ragione Minerva viene di sovente denominata Agorea.
198. Agranie Agranie, e Agrionie. — Feste che si celebravano in onore di Bacco.
199. Agrao o Agray. — Uno dei Titani che dettero la scalata al cielo.
200. Agraulie. — Dagli Agrauli, popoli della tribù Ereteide nell’Attica, furono così dette alcune feste da essi celebrate in onore di Minerva.
Una delle Grazie avea anche questo nome ; Erectheo re di Atene ebbe una figlia pure così chiamata, la quale Mercurio cangiò in roccia.
201. Agraulo. V. Aglauro.
202. Agray. V. Agrao.
203. Agresto. — Che vale anche campestre, soprannome dato al Dio Pane.
204. Agriani. — Si dava questo nome ai Titani in generale.
205. Agrianie. V. Agranie.
206. Agrio. — Figlio di Parthaone e padre di Tersite. Vi furono anche due altri Agrio, uno dei quali fu figlio d’Ulisse e della maga Circe.
Agrio è anche il nome di uno dei Titani che dettero la scalata al cielo e che morì ucciso dalle Parche.
207. Agriodo. — Vale a dire dente feroce : era il nome di uno dei cani d’Atteone.
208. Agrionie. V. Agranie.
209. Agriope. — Euridice, moglie d’Orfeo, viene di sovente designata con questo nome. Vol. I.
{p. 22}Vi fu anche un’altra Agriope, che fu moglie di Agenore V. Agenore.
210. Agro. — Figlio d’Apollo e di Cirene, fu padre di Aristea.
211. Agroletera o Agrotera. — Soprannome dato a Diana, a causa d’un tempio ch’ella aveva in Agra, città dell’Attica.
212. Agrota. — Divinità dei Fenici.
213. Agrotera. V. Agroletera.
214. Agyeo. — Soprannome di Apollo derivante da una parola greca che significa strada, cammino ; perchè le strade erano sotto la protezione di lui.
Gli Ateniesi avevano ancora dei numi detti Agyei ai quali essi sacrificavano per allontanare le sventure, allorchè si credevano minacciati da straordinari prodigi.
215. Agytel. — Sacerdoti di Cibele, o piuttosto indovini che dicevano la buona ventura nelle pubbliche strade, e agli spettacoli del circo : essi si servivano perciò dei versi d’Omero, di Virgilio, e di altri poeti.
216. Aidone. — Detta anche Aedone, figlia del re Zeteus, fratello d’Anfione. Questa sventurata donna concepì una invidia mortale contro la moglie d’Anfione, perchè era madre di sei principi, mentre ella non aveva che un solo figlio. Spinta dalla sua cieca passione, ella uccise una notte il suo proprio figliuolo Itilo, che l’oscurità le impedi di riconoscere, e ch’ella scambiò per uno dei suoi nipoti a nome Amaneo.
L’infelice Aidone, riconoscendo il suo terribile errore, pianse tanto la morte del suo unico figlio, che gli Dei, mossi a compassione della colpevole madre, la cangiarono in uccello.
La favola fa menzione anche di un’altra donna a nome Aedone, figlia di Pandareo Efeso, la quale fu tolta in moglie da un artigiano della città di Colofone a nome Polirechno. I due conjugi vissero lungamente felici e contenti, fino a che, superbi delle dolcezze della loro unione, ardirono darsi il vanto di amarsi più perfettamente di Giove e Giunone. Gli Dei allora irritati mandarono loro uno spirito di discordia, che fu per essi la sorgente d’infinite sventure.
217. Almena o Emena. — Era questo il nome di una giovanetta di Troja, alla quale si resero in Grecia gli onori divini.
218. Aine o Aloe — Conosciuto più comunemente sotto il nome di Aloo. Fu uno dei giganti più ricordati dalle cronache mitologiche, il quale sposò una donna per nome Ifimedia. La favola racconta, che, essendogli sua moglie stata infedele, essa fe’credere ad Aloo suo marito, che i due figliuoli ai quali dette la luce e che furono chiamati Aloidi dal nome di lui, fossero infatti suoi figliuoli, mentre lo erano di Nettuno, Dio al quale Ifimedia avea consentito la sua persona.
219. Aixa, isola del mare Egeo, seminata di roccie scoscese, e che presenta da lunge la figura d’una capra, che i Greci chiamavano Aix. Aixa era anche il nome di una delle ninfe nutrici di Giove.
220. Ajace. — I mitologi antichi e moderni convengono nell’asserire esservi stati due Ajaci, ma sono tutti discordi circa alla storia ed alla discendenza dei medesimi, ed ai fatti che vengono loro attribuiti. Noi citeremo in questo articolo i fatti che sono menzionati da quelli scrittori che godono più credito.
Oileo, re dei Locresi, ebbe un figlio a nome Ajace. Fu uno dei principi Greci che combatterono all’assedio di Troja. Egli era di una agilità sorprendente, e nessuno lo superava in tutti gli esercizii del corpo. Però violento e brutale, e di una indole crudele, egli violo Cassandra, sacerdotessa di Pallade, nel tempio stesso dedicato alla Dea, nel quale la vergine s’era nascosta, sperando di sottrarsi alle brutalità del suo persecutore. Minerva, fortemente sdegnata, risolvè di punirlo e fece da Nettuno suscitare una furiosa tempesta, non appena Ajace con la sua flotta era uscito dal porto per ritornare in patria. Dopo avere sfuggito ad una infinità di pericoli, lottando disperatamente con le onde furiose, gli riusci di afferrarsi ad una roccia, ove rivolto al cielo imprecava gli Dei dicendo che si sarebbe salvato loro malgrado. L’orribile bestemmia irritò così fortemente Nettuno, che con un colpo di tridente spaccò la roccia, sprofondando l’empio nei cupi abissi del mare. Virgilio attribuisce la morte di Ajace alla sola Minerva, senza lasciarvi intervenire Nettuno.
Ajace fu anche il nome di un figlio di Telamone e di Esione ; non meno dell’altro impetuoso, empio e crudele.
Di quel fier Telamone io sono erede,Da cui fu vinto già Laomedonte :Ei d’Eaco usci, che giudice risiedeNel formidabil regno di Acheronte,Eaco dal re ch’ha in ciel la maggior sede,Trasse il sembiante dell’umana fronte :Ed io, s’il re dell’universa moleNon mente, or son di lui la terza prole,(Ovidio. — Metamorfosi, Libro XIII. Trad. di Dell’Anguillara).
…… Chi quell’altro siaChe ha membra di gigante, e va sovranoDegli omeri e del capo agli altri tutti ?Il grande Aiace, rispondea racchiusaNel fluente suo vel la dia Lacena,Alace, rocca degli Achei……(Omero Iliade. — Libro III trad. di V. Monti).
{p. 23}Egli era invulnerabile come Achille, e dopo di lui il più valoroso guerriero della Grecia.
Egli era vulnerabile in una sola parte del petto, nota però a lui solamente.
All’assedio di Troja si coprì di gloria battendosi un giorno intero con Ettore.
Ecco come Omero racconta questo passo :
Di splendid’armi frettoloso intantoAiace si vestiva : e poichè tutteL’ebbe assunte d’intorno alla persona,Concitato avviossi, e camminavaQuale incede il gran Marte allorchè scendeTra fiere genti stimulate all’armiDallo sdegno di Giove, e dall’insanaRoditrice dell’aime empia contesa.Tale si mosse degli Achei trincieraLo smisurato Aiace, sorridendoCon terribile piglio e misuravaA vasti passi il suol, l’asta crollandoChe lunga sul terren l’ombra spandea.(Omero Iliade lib. VII. Trad. di V. Monti).
Entrambi giusti apprezzatori del loro personale valore, cessarono dal combattere e si scambiarono dei ricchi doni, che per altro furono loro funesti ; poichè il calteo, o budriere che Ajace donò ad Ettore fu lo stesso col quale questo eroe venne legato pei piedi al carro di Achille, quando ucciso da questi in combattimento fu trascinato per tre volte intorno alle mura di Troja.
In seguito essendo stato ucciso Achille, surse una disputa fra Ulisse ed Ajace, a causa delle armi del morto eroe. Ulisse però ebbe il di sopra, e Ajace durante la notte, furioso fino al delirio si gettò con la spada alla mano in mezzo ad una gregge e ne fece una carneficina, credendo nel suo furore di uccidere Ulisse.
….. e delle predeSul misto ancora ed indiviso armentoLa sua furia devolsi, ond’egli in mezzoVi si gettando, e trucidando a cerco,Ampio ne fea macello, ed or credeaAmbo svenar di propria man gli Atridi,Or l’un duce, ed or l’altro. In cotal reteIo quel furente di delira febbre,Sospinsi, avvolsi. Ei dalla strage alfinePoi che cessò, bovi ed agnelli insieme,Quanti ancor vivi rimanean, legatiAlla sua tenda strascinò, non brutiLi credendo, ma Greci : e così avvintiOr colà li flagelia……..(Sofocle. Aiace. Tragedia traduzione di Felice Bellotti).
Appena tornato in ragione rivolse contro se stesso la spada che gli avea donata Ettore, e si uccise. Il suo sangue fu cangiato nel flore conosciuto sotto il nome di giacinto. È credenza di molti mitologi che perfi ore, di giacinto bisogna sottintendere il piede della lodoletta in cui si crede scorgere le due lettere A. I. che formano il principio della parola Ajace, e il suono esclamativo col quale si esprime il dolore nel ricevere una ferita. Questa osservazione che potrebbe forse taluno credere ovvia, è pure necessaria per intendere uno dei più bei passi di Ovidio
Come ha cosi parlato, alza la mano,E poi la lira a sè con ogni forza :E quel petto ferisce, al quale in vanoOgni altro tentò pria forar la scorza,Lascia l’alma sdegnata il corpo umano.E di cader le membra esangui sforza ;E del sangue che in copia ivi si sparse.Un fior purpureo in un momento apparse.Quel fior leggiadro, in cui cangiossi il figlioGià d’Amiciante, di quel sangue uscioE dal colore in fuor simile al giglio,Le vaghe foglie in un momento aprio.Formarsi ancor nel bel vermiglioLe note che v’impresse il biondo Dio :E mostrò il novo fior descritto (comeL’altro) il duol di Giacinto, e il costui nome.(Ovidio Metamorfosi Libro XIII traduzione di Dell’Anguillara).
221. Ajacee. — Feste in onore di Ajace.
222. Ajdoneo. — Re dei Molossi. Egli imprigionò Teseo, perchè d’accordo con Pirotoo, avea voluto rapire sua figlia Proserpina. Plutone era anch’egli soprannominato Ajdoneo, e da questa somiglianza di nomi ne è venuta la favola della discesa di Teseo all’inferno per rapire la moglie a Plutone.
223. Ajo Locutio. — Di tutte le Divinità della favola non ve n’è alcuna, la cui origine sia così nettamente precisa come questa.
L’anno di Roma 364, un uomo del popolo a nome Ceditio, andò a rivelare ai
Tribuai che, nel traversare di notte la strada nuova, aveva inteso una voce
più forte di quella d’un uomo, la quale gli aveva imposto di andare ad
avvertire i magistrati che i Galli si avvicinavano. Come Ceditio era un uomo
da nulla, ed i Galli una nazione lontanissima da Roma, e perciò sconosciuta
ai Romani, non si fece alcuna attenzione dell’avviso del popolano. Però
l’anno seguente i Galli s’impadronirono di Roma, i quali per altro furono
ben presto ricacciati dalla città, ed allora Camillo, per espiare la
negligenza dei magistrati nel non aver voluto prestar fede alla voce
notturna, ordinò che si fosse inalzato un tempio in onore del Dio Ajo
Locutio, nell’istesso luogo della strada nuova, nel quale Ceditio diceva
avere ascoltato il misterioso consiglio. A proposito di questo Dio ecco
quanto dice Cicerone « Quand’egli non era conosciuto da alcuno,
parlava e si faceva sentire, e perciò si è chiamato Ajo Locutio. Ma dal
momento ch’è {p. 24}divenuto celebre, e che gli si è
innalzato un altare ed un tempio, egli ha preso il partito di tacere, ed
è diventato muto »
.
224. Alabanda, figlio di Calliroe che fu divinizzato. Il suo culto fu celebre in Alabanda, città della Caria. Questo nome gli viene dall’aver guadagnato il premio di una corsa, chiamandosi nella Caria Ala il cavallo e Banda la vittoria.
225. Alahgaba, lo stesso che Eliogabalo V. Eliogabalo.
226. Alala soprannome dato a Bellona.
227. Alalcomede. — Nome del precettore di Minerva, al quale dopo la morte furono in considerazione della Dea innalzati varii monumenti ed egli stesso assunto agli onori eroici.
228. Alalcomena soprannome dato a Minerva per la ragione esposta nell’articolo precedente.
229. Alalcomane. — Fu il nome di un celebre scultore, il quale dopo di aver fatto una statua di Minerva, stabilì il culto di questa Dea in una città, ch’egli edifico in Beozia e che da lui prese nome.
230. Alastore uno dei Cavalli di Plutone. Fu anche il nome del fratello di Neleo, figlio di Nestore ; e quello d’uno dei compagni di Sarpedone che fu ucciso da Ulisse all’assedio di Troja, venivano anche denominati Alastori alcuni genii malefici.
231. Alba. — Città dell’Azio : fu fabricata da Ascanio, figlio di Enea.
232. Albania, contrada dell’Asia sulle coste del mare Caspio, così chiamata perchè i suoi abitanti erano originarii del territorio d’Alba in Italia, ch’essi abbandonarono sotto la condotta di Ercole dopo la disfatta di Gerione.
233. Albione e Borgione famosi giganti figli di Nettuno. Essi incontrarono un giorno Ercole disarmato ed osarono attaccarlo, ma Giove li schiaccò sotto una grandine di pietre.
234. Albunea, famosa Sibilla che rendeva i suoi oracoli in una foresta vicina alla città di Tybur, che dal suo nome era anche detta Albunea e che era a lei consagrata. Questa Sibilla si chiamava anche Albuna e si crede essere la stessa, conosciuta sotto i nomi di Lecotea e di Matuta. Essa era riverita come una Dea.
235. Alburneo. — Dio riverito su di una montagna, che aveva lo stesso nome nella Lucania.
236. Alcatee erano così dette le feste in onore di Alcatoo.
237. Alcatoo figlio di Pelope. Essendo stato incolpato d’aver preso parte alla morte di Crisippo suo fratello, egli si rifugiò in Megara, dove uccise un leone che aveva divorato Eurippo, figlio del re di quella contrada.
Alcatoo sposò poi la figlia del re e alla morte di questo gli successe nel governo.
Vi fu anche un Trojano così chiamato, il quale sposò Ippodamia, figlia di Anchise. Egli fu ucciso da Idomeneo all’assedio di Troja.
238. Alceo figlio di Perseo e marito d’Ipponomea. Egli fu padre di Anfitrione e avo di Ercole al quale per questa ragione si da tanto comunemente il nome di Alcide.
Vi fu un altro Alceo figlio di Ercole che fu il primo degli Eraclidi, così chiamati dal nome di Ercole.
239. Alceste figlia di Pelea, e moglie di Admeto re di Tessaglia. Questo principe essendo pericolosamente infermo, sua moglie consultò l’oracolo, il quale rispose che Admeto morrebbe, se altri non si fosse offerto in sua vece. Nessuno essendosi presentato all’appello fatto per salvare il morente. Alceste si offri pel marito. Ercole giunse in Tessaglia l’istesso giorno in cui Alceste si era sacrificata. Admeto malgrado il suo dolore gli fece onorevole accoglienza, e non trascurò a riguardo di lui i doveri dell’ospitalità. Ercole allora per testimoniargli la sua riconoscenza intraprese di combattere la morte, discese agl’inferni da cui ritirò Alceste e la rese al marito. Omero dà ad Alceste il soprannome di Divina perchè ella amò suo marito fino al punto di sagrificargli la vita. Euripide prende a soggetto di una sua tragedia la tradizione mitologica di Alceste, trattando però diversamente l’argomento.
…. Admeto, indarno, iva tentandoE i vari amici, e il proprio padre, e carcaD’anni la madre, se al morir propensiFossero in vece sua : solu ei trovavaPresta a lasciare in eterno la luceDel di per esso, la sua moglie Alceste.Euripide, Alceste Tragedie Atto I, Scena 1.
240. Alchmeone figlio di Anfiareo. Per ordine di suo padre uccise la madre Erifile, perchè questa aveva scoperto il luogo dove Anfiareo si era nascosto per non andar alla guerra di Tebe. Alchmeone tormentato dai più crudeli rimorsi e perseguitato dalle Furie, a causa del delitto che avea commesso, si rifugiò in Arcadia per sottoporsi a dolorose espiazioni ond’essere liberato dalle Furie. Posto in esecuzione il suo disegno fu aiutato da Fegeo, il quale gli fece sposare sua figlia Arfinoe, a cui Alchmeone fece dono di una magnifica collana che Polinice aveva regalata alla morta Erifile per sapere da lei il luogo ove Anfiaroe erasi celato. Vedendo intanto che le prime espiazioni alle quali egli erasi sottoposto non andarono coronate di successo. Alchmeone andò a praticarne delle altre presso {p. 25}Acheolo padre di Calliroe, la quale in seguito egli sposò dimenticando i legami che lo stringevano ad Arfinoe, e spingendo l’audacia fino al punto di farsi da questa restituire la collana per farne presente alla nuova sua sposa, Fegeo ed Arfinoe furono fortemente sdegnati del grave affronto, ma Temeno e Axione, fratelli di Arfinoe vendicarono l’oltraggio uccidendo Alchmeone. Allora Calliroe avendo saputo il fatto supplicò Giove, e ottenne che i suoi due figli Acarnasso ed Anfotero, ancora bambini, divenissero in un momento uomini maturi per vendicare la morte del loro padre : ciò che essi fecero uccidendo non solo Temeno e Axione, ma anche Fegeo e Arfinoe, e consacrarono la fatale collana ad Apollo.
Properzio dice invece che Arfinoe stessa per vendicare suo marito uccidesse i suoi due fratelli.
Indi il figliuol dell’inghiottito mago,Nominato Almeon, quand’avrà scortoDalla terrena e subita voragoRestare il padre suo sepolto e morto ;Ucciderà della vendetta vago.Per vendicare un torto con un tortoLa madre, e sarà in un pieloso e rioNella madre crudel, nel padre pioOvidio — Metamorfosi. Libro IX traduzione di Dell’Anguillara.
241. Alci. — I Macedoni con questo soprannome onoravano Minerva.
242. Alcide. — Nome di Ercole dall’avo Alceo. Minerva era anche soprannominata Alcea dalla parola Alce che significa forza. Vi erano delle divinità alle quali si dava complessivamente il nome di Dei Alcidi. V. Ercole.
243. Alcimede. — Moglie di Esone e madre di Giasone.
244. Alcimedone. — Celebre scultore. Vi fu anche un altro Alcmedone annoverato fra gli Dei della Grecia.
245. Alcinoe. — Moglie di Anfiloco. Essendosi ritenuta per se la mercede dovuta ad una povera operaia ne fu punita da Diana, la quale le accese nel core una violenta passione per un uomo chiamato Hanto.
Perdutamente innamorata di lui, abbandonò per seguirlo il marito ed i figli, ma poi divenne così furiosamente gelosa del suo amante che disperata si precipitò nel mare.
246. Alcinoo. — Figlio di Nafito o Nafitoo re dell’isola di Corcira. Il suo nome divenne celebre per la bellezza dei giardini da lui coltivati, o piuttosto per le meraviglie che ne racconta Omero, narrando il naufragio che Ulisse fece sulle rive di quell’isola, ove Alcinoo lo accolse con regale amorevolezza.
…. Ameni e vaghiTanto non fur del redivivo AdoneImmaginati un di gli orti famosi,O quei d’Alcinoo, albergator cortese,Del figlio di Laerte.Milton — Paradiso Perduto. Lib. IX trad. L., papi.
Gli abitanti di Corcira, oggi Corfù, erano il popolo più voluttuoso di quel tempo, poichè arricchitisi col commercio vivevano nell’abbondanza e nel lusso. Nella loro città era un continuo alternarsi di feste e baccanali di ogni maniera ove si contavano le più luride canzoni, di cui la più celebre è quella che Fennio cantò alla presenza di Ulisse, sull’adulterio di Marte e Venere.
247. Alcio. — Una delle divinità dei Germani. Si crede comunemente che sotto questo nome fossero venerati Castore e Polluce.
248. Alcione. — Gigante, fratello di Porfirione. Egli uccise in un combattimento quattro dei seguaci di Ercole, e voleva uccidere Ercole stesso, il quale parò il colpo con la sua clava, lo fini a colpi di freccia.
Le sette figliuole del morto, giovanette di una rara bellezza furono così dolenti per la morte del padre che si precipitano nel mare, dove vennero cangiate nell’uccello conosciuto sotto il nome di Alcione.
Alcione era anche una delle figliuole d’Eolo, re dei venti della stirpe di Deucalione. Amò con tanta passione il suo sposo Ceix, re di Traflina, che morì di dolore quand’egli naufragò. È generale opinione fra i Mitologi che ella si precipitasse nel mare disperata della morte di suo marito, e che gli Dei mossi a compassione cangiarono essa e lo sposo in quell’uccello conosciuto sotto il nome di Alcione, che presso gli antichi era simbolo dell’amor coniugale. Varì scrittori dell’antichità fra cui Ovidio riportano il fatto in modo che ha qualche analogia con le tradizioni della favola. La verità non è quindi nota abbastanza sul personaggio a cui si attribuisce la metamoriosi in Alcione.
Secondo Omero, Alcione era pure il soprannome dato a Cleopatra, moglie di Meleagro e figliuola d’Ida e di Marpesa.
Similmente veniva così chiamata una delle sette Atlantidi figliuole di Atlante. Esse formavano la costellazione delle Pleiadi.
Finalmente un uccello marino consacrato a Teti fu chiamato anche Alcione.
249. Alcioneo. — Famoso gigante che soccorse gli Dei in una disputa che questi ebbero contro Giove. Minerva lo gettò fuori il globo {p. 26}della luna, nella quale egli erasi rifugiato. Alcioneo aveva il potere di risuscitare, ma poi fu finalmente schiacciato da Ercole.
250. Alciope. — Figlia di Aglauro e di Marte. Fu una delle mogli di Nettuno.
251. Alcippe. — Figlia di Marte, fu rapita da Allyrotio che Marte uccise per vendicare l’oltraggio. Per questa vendetta egli venne citato in giudizio innanzi ad un tribunale composto di dodici Numi.
Vi furono anche diverse altre donne conosciute sotto questo nome ; una, figlia di Oenomao ; un’altra figlia del gigante Alcioue ; ed una terza pastorella, di cui parla Teocrito e Virgilio.
252. Alcithoe. — Una delle figlie di Minea o Mina. Burlandosi del culto con cui veniva onorato Bacco lavorò, e fece lavorare le sue sorelle e le schiave alla tessitura della lana, durante il periodo dei giorni sacri in cui si celebravano le orgie in onore di quel Dio ; il quale per punirla la cangiò in pipistrello.
253. Alemena. — Figlia d’Elettrione re di Micene e di Lisidicia. Ella sposò Anfitrione col patto che vendicherebbe la morte di suo fratello, che i Telebani avevano ucciso. Mentre che Anfitrione era al campo, Giove innamorato d’Alcmena, prese le forme di lui per ingannaria ; Giunone moglie di Giove, allorchè Alcmena fu prossima a partorire, le rese per gelosia il parto crudelmente doloroso, e cercò di far morire il fanciullo che dovea nascere, sapendo che Giove avea promesso uno splendido destino del neonato che sarebbe stato Ercole. Giunone che avea giurato di perseguitare della sua gelosa vendetta i frutti dell’adultero amore di suo marito, fece che Alcmena incinta di due gemelli, partorisse prima il fanciullo che fu chiamato Euristeo, e poi l’altro che fu detto Ercole, per fare che il primo avesse avuto predominio ed impero sul secondo. Ma Galantea, ancella di Alcmena, ingannò con molta astuzia di Giunone allorchè nacque Ercole. Alcmena dopo la morte di suo marito Anfitrione sposò Radamento.
Ed io che avea nel sen si raro pegno.Con immenso dolor premea le piume.E ben vedeasi al ventre ampio e ripienoChe Giove era l’autor di tanto seno…………….Quel che verrà nel tal tempo alla luceSarà dell’alma Grecia il maggior duce.(Ovidio — Metamorfosi L. IX trad. dell’Anguillara).
254. Alcomeno. — Soprannome dato ad Ulisse dal nome di Alcomena, città dell’isola d’Itaca, di cui egli era re.
255. Alcone. — Figlio di Eriteo, re di Atene. Vi furono diversi altri conosciuti sotto questo nome : uno figlio di Marte, uno figlio di Amycus, ed un terzo figlio d’Ippocone.
256. Alea. — Soprannome dato a Minerva da una città d’Arcadia, conosciuta sotto questo nome e nella quale la Dea aveva un tempio ed un culto particolare.
257. Alectone o Aletto. — Una delle tre Furie infernali dette anche Eumenidi.
258. Alectore. — Fu uno dei capi Argivi che assediarono Tebe.
259. Ale-Deo. — Dio alato, soprannome dato a Mercurio perchè si dipinge colle ali ai piedi.
260. Alee. — Feste in onore di Minerva V. Alea.
261. Aleissiare. — Ebe, dea della giovanezza, ebbe da Ercole una figliuola a cui fu imposto un tal nome.
262. Alemanno eroe degli antichi Germani che essi deificarono ed adorarono.
263. Alemona Dea tutelare dei fanciulli prima della loro nascita.
264. Alemonide Miscelo figlio d’Alemone era anche così detto dal nome del padre.
265. Aleo. — Re d’Arcadia. Si rese celebre pel considerevole numero di templi che fece fabbricare.
266. Aleppo V. Alope.
267. Aleso. — Uno dei figliuoli d’Agamennone. Temendo che Egisto e Clitennestra, dopo aver dato morte al padre suo, non gli serbassero la stessa sorte fuggì dalla Grecia e venne in compagnia di alcuni familiari in Italia ove fabbricò la città di Falischi.
268. Alessandra la stessa che Cassandra, indovina che fu figlia di Priamo re di Troia.
269. Alessandro figlio di Priamo. I pastori che l’allevarono lo chiamarono Paride V. Paride.
Vi fu anche un altro Alessandro figlio di Eristea.
270. Alete figlio di Egisto, il quale avendo usurpato il regno di Micene fu ucciso da Oreste.
271. Aletide. — Feste in onore di Erigone detta anche Aleti.
272. Aetryomanzia. — Formola di uno scongiuro che si faceva per mezzo di un gallo.
273. Aletrione. — Giovane soldato, confidente e favorito di Marte. Essendo un giorno in sentinella alla tenda di questo Dio mentre egli era con Venere, Aletrione si addormentò, e lasciò sorprendere i due amanti da Vulcano, marito di Venere. — Marte per punire Aletrione lo cangiò in gallo.
274. Aletto V. Alectone.
275. Alexesio V. Acesio.
276. Alexia. — Città nella Celtica edificata da Ercole.
277. Alexiroe. — Ninfa che fu una delle mogli di Priamo.
{p. 27}278. Alfeo. — Famoso cacciatore il quale invaghitosi di Aretusa, ninfa del seguito di Diana la perseguitò lungo tempo finchè Diana cangiò lui in flume e la ninfa in fontana. V. Acetusa.
279. Alfesibea o Arfinoe. — La stessa figlia di Fegeo che sposò Alchmeone ricevendone in dono la fatale collana V. Achmeone.
280. Alfiassa. — Diana viene conosciuta sotto questo nome da un tempio che essa aveva sulle rive del fiume Alfeo.
281. Alfitomansia. — Dalla parola greca αγφιτον che significa farina, davasi questo nome ad una divinazione in cui si adoperava il fiore di frumento.
282. Alia. — Era una delle cinquanta Nereidi. Il suo nome le viene dall’elemento che essa abitava poichè in greco la parola αλς significa mare.
283. Aliatto V. Alyato.
284. Aliee. — Sotto questo nome, tanto in Atene quanto nell’isola di Rodi venivano celebrate in onore di Apollo, ossia il sole, pubbliche feste e cerimonie. L’etimologia di questa parola Aliee viene dal greco αλιος che significa sole.
285. Alilat. — Una delle divinità degli Arabi, i quali sotto questo nome adoravano la materia di tutte le cose, vale a dire la natura.
286. Alimede. — Dal greco αλς mare e αλς μειδις cura veniva così chiamata un’altra delle cinquanta Nereidi, quasi avesse cura del mare e facesse di questo elemento sua delizia ed amore.
287. Aliteo o Aliterio. — Giove fu così soprannominato, come Cerere fu detta Aliteria perchè in tempo di carestia avevano impedito ad alcuni mugnai di rubare il frumento.
288. Aliterio. — V. l’articolo precedente.
289. Alixotoe. — Ninfa che fu madre d’Esaco. Il re Priamo da cui ella ebbe questo figlio l’amò con passione.
290. Allegrezza. — Dal latino hilaritas. Non v’è tradizione particolare che faccia menzione avere i Romani deificata l’allegrezza ; ma esiste bensì gran numero di medaglie su cui vedesi scolpita. Viene rappresentata con le sembianze di una donna giovane e bella, con un corno dell’abbondanza nella mano sinistra, e affiancata da due fanciulli, uno dei quali porta un ramo di palma.
291. Allodola. — Soprannome dato a Scilla figlia di Niso, re di Megara. Teneramente ininnamorata di Minos re di Creta nemico dichiarato dei Megaresi ; essa tagliò a suo padre un capello a cui érano legati i destini della patria, la quale cadde per questo coi suoi abitanti in potere di Minos. Niso allora si dette a perseguitare la figlia con intenzione di ucciderla, ma fu cangiato in isparviero ed essa in quell’uccello detto lodoletta o allodola vedi Scilla.
292. Alloprophallos. — Vale a dire incostante : soprannome dato a Marte, il quale come Dio della guerra veniva egualmente invocato dalle armate nemiche.
293. Allirozio o Allyrotio. — Fu uno dei figliuoli di Nettuno.
La tradizione mitologica ci racconta di lui, che per vendicare suo padre, il quale in una contesa con Minerva, era stato vinto da quella Dea, avesse tagliato tutti gli alberi di ulivo che crescevano nelle circostanze di Atene, onde recare oltraggio a Minerva, cui quegli alberi erano consacrati. La dea però sdegnata contro il colpevole gli fece cader dalle mani la scure che lo ferì così sconciamente che Allirozio rimase ucciso. Le opinioni degli scrittori e dei cronisti della favola discordano generalmente sulla morte di Allirozio, raccontandola tutti in modo diverso.
294. Almone. — Dio di un piccolo fiume di questo nome nel territorio di Roma. Fu padre della ninfa Lara.
295. Almopo. — Fu uno dei giganti che dettero la scalata al cielo.
296. Aloe V. Aine.
297. Aloeo o Aloo. — Gigante figlio di Titano e della terra. Egli sposò Ifimedia, la quale ingannata da Nettuno, partorì Oto ed Efialto. Aloeo li allevò come suoi proprii figliuoli. Vedendo che ogni mese essi crescevano di nove pollici, e non potendo a causa della sua estrema vecchiezza, andare egli stesso alla guerra, vi mandò i due giovanetti, i quali furono uccisi da Apollo e Diana a colpi di freccia.
298. Aloidi. — Nome di due fra i più formidabili e famosi giganti che imponendo montagne sopra montagne dettero la scalata al cielo. Omero li distingue fra loro chiamando il primo il divino Oto e il secondo il celebre Efialto. All’età di nove anni avevano già nove cubiti di grossezza e trentasei di altezza. Fieri della loro indomabile forza fisica osarono di portar la guerra fin nelle nuvole, e come dicemmo, vollero detronizzar Giove, e osarono perfino di pretendere fossero date loro Diana e Giunone. Giove allora mandò lo stesso Marte, Dio della guerra, a combatterli, ma essi lo fecero prigioniero e lo tennero per lo spazio di tredici mesi ricchiuso in una gabbia di ferro, da cui andò poi Mercurio a liberarlo. Diana allora, vedendo che perfino la forza celeste era impotente contro sì formidabili nemici, ricorse all’astuzia femminea e cangiatasi in biscia s’intromise fra loro, mentre essi stavano su di un carro. Allora i giganti volendo uccideria si ferirono l’un l’altro {p. 28}con le loro frecce e morirono entrambi : dopo poco furono da Giove precipitati nel fondo del Tartaro.
Sotto codesta allegoria della favola mitologica si rinchiude la verità più palpabile che sotto qualunque altro simbolo della favola. Infatti gli Aloidi figli di Nettuno re del mare potrebbero essere due famosi corsari a nome Oto ed Efialto, temuti ed invincibili. Marte fatto da essi prigioniero è tenuto schiavo per tredici mesi, potrebbe non essere altro che un famoso generale, che mosso contro i corsari fosse stato da essi debellato e fatto prigione. Mercurio dio del commercio che libera Marte altro non raffigura che un abile trafficante, il quale tratta coi vincitori il riscatto del prigioniero. L’astuzia di cui Diana si serve strisciando fra loro in sembianza di biscia altro non è se non la configurazione allegorica della discordia che armò la mano dei due invincibili e li spinse a distruggersi fra loro.
Omero racconta che prima che gli Aloidi avessero raggiunto l’età della prima giovinezza, Apollo li avesse precipitati all’inferno.
Gli Aloidi furono i primi che sul monte Licone sagrificarono alle nove muse e consacrarono loro quella montagna.
299. Aloo. V. Aloeo.
300. Alopo o Aleppo. — Una delle Arpie. Vi fu anche un’altra Alope figlia di Cercione, la quale avendo prestato orecchio alle seduzioni di Nettuno, ne ebbe un figlio Ippotono. Però il padre della sedotta la uccise per lavare col sangue l’onta riversata sul suo nome. Nettuno la cangiò in fontana.
301. Alpheja. — Soprannome di Aretusa. V. Alfeo.
302. Alrune. — Nome che i Germani davano ai loro Dei Penati.
303. Altea. — Figlia di Testio e moglie di Oeneo re di Calidone. Avendo un giorno questo principe dimenticato Diana nei suoi sacrificii, la dea per vendicarsi di quest’oltraggio gli spinse contro un cignale che devastò le terre di Calidone. Gli altri principi della contrada si riunirono per isterminare il mostro, e organizzarono una caccia alla quale intervenne Atalanta figlia del re d’Arcadia. La principessa fu la prima a ferire il cignale, le cui spoglie le vennero offerte da Meleagro figlio di Oeneo, ma i fratelli d’Altea, punti dal veder fatti tutti gli onori della caccia ad una giovanetta, involarono ad Atalanta il corpo della belva. Meleageo che amava Atalanta non seppe frenare il suo sdegno, e trasportato dal suo furore uccise i suoi zii. Allora, Altea per vendicare la morte dei suoi fratelli, gettò nel fuoco il fatale tizzone a cui le Parche avevano legato i destini di questo principe. A misura che il tizzo bruciava, Meleagro si consumava visibilmente fino a che morì, e Altea si uccise per disperazione.
304. Altepo. — Figlio di Nettuno, fu uno dei rè di Egitto.
305. Altio. — Soprannome di Giove. Gli veniva dal culto col quale era adorato nel recinto di un bosco sacro detto Altio, vicino alla città di Olimpia.
306. Alumra vale a dire nutrice. Soprannome dato a Cererc come Dea dell’Agricoltura che fecondando la terra nutrisce gli uomini.
307. Alyato o Allatto. — Fu padre di Creso e re di Lidia.
308. Alysio soprannome comune di Giove e di Bacco.
309. Amadriade. — Fu moglie e sorella di Ossilo. Ateneo, nelle sue opere, dice che essa fu madre di otto figliuole note comunemente sotto il nome di ninfe Amadriadi. Ognuna di esse però aveva il suo nome particolare che comunemente era quello di un albero.
310. Amadriadi. — Sebbene vi sia una completa analogia fra queste ninfe e quelle di cui è menzione nell’articolo precedente, pure formavano nelle credenze del paganesimo due specie di deità differenti. Dalle ninfe Amadriadi dipendeva il destino di alcuni alberi coi quali esse nascevano e morivano. L’arcano legame che le univa in particolar modo alla quercia fa loro dare codesto nome di Amadriadi dalle parole greche αμα insieme ; ed αρυς una quercia. Le Amadriadi non erano del tutto inseparabili dall’albero col quale avevano comune l’alito della vita. Ma potevano abbandonario per un dato tempo per far ritorno nel tronco di quello. Così Omero nel suo inno a Venere.
Non mortal non divina è la lor sorte ;Ciascuna come dea di ambrosia viveE tardi vede l’ora della morte ;Intreccia con gli dei danze festive,E con Mercurio e coi Sileni mesceNegli antri e ne’ruscei nozze furtive.Quando alcuna di loro alla vita esce,Con lei nasce un abeto, un pino, un faggio,Che verso il cielo alteramente cresce :E si domanda il bel loco selvaggioBosco sacro agli dei, nè giammai portaO mano o ferro a quelle plante oltraggio.Poscia che l’ora destinata è sorta.In che debbe lor vita venir meno.L’arbore, ch’era verde, si fa smorta,Ed ogni spoglia sua rende al terreno :Le ninfe della selva abitatriciAbbandonan così l’aer sereno.(Trad. di Dionigi Strocchi
Queste ninfe testimoniarono sovente la loro riconoscenza a coloro che aveano risparmiato le {p. 29}piante nelle quali esse abitavano ; come facevano sentire il peso della loro vendetta a que’crudeli che avessero respinte le loro suppliche, e a malgrado di queste, avessero sagrificato l’albero abitato da un’amadriade. Così, al dire d’Ovidio, l’amadriade che abitava il tronco di un’antica quercia, la quale innalzava orgogliosa i suoi rami su tutte le altre, fu un giorno uccisa dal fiero Eresitone, il quale non si lasciò intenerire dal lamento dell’abitatrice della pianta, e seguitò ad abbatteria non curando la vista del sangue che ai primi colpi spruzzò dal tronco della quercia.
Al dire di Esiodo, di Plutarco e di Ausonio, le amadriadi avevano una lunghissima vita, ma pure finalmente, lungi dall’essere immortali, morivano con la pianta in cui avevano vissuto.
311. Amaltea. — Fu la capra che nutri del suo latte Giove, il quale in segno di riconoscenza la trasportò nel cielo, e dette una delle sue corna alle ninfe che avean curata la sue infanzia, con la virtù di produrre tutto quanto esse avrebbero desiderato. È questo il corno dell’abbondanza.
È opinione generalizzata presso varii scrittori, che Amaltea fosse una giovanetta figlia di Melisso, re di Creta, che avesse preso cura di Giove, facendolo nutrire con latte di capra.
Amaltea si chiamava anche la sibilla di Cuma.
312. Amanio. V. Amano.
313. Amano o Amanio. — Divinità dei Persiani. È credenza generalizzata che fosse il sole.
314. Amaraco. — Fu questo il nome di un ufficiale della casa di Ciniro re di Cipro. Egli aveva l’incarico di conservare e mantenere i profumi di cui si serviva abitualmente il re, e la sua famiglia. Avendo un giorno rotto un recipiente che conteneva un profumo preziosissimo, ne fu così addolorato che ne morì. Ma gli Dei mossi a compassione lo cangiarono in quell’erba conosciuta sotto il nome di Maggiorana, detta dai botanici Amaraco.
315. Amarusia o Amarynthia. — Soprannomi dati a Diana da un borgo nell’isola d’Eubea in cui era particolarmente venerata : altri scrittori dicono nella Tessaglia.
316. Amarynthia. V. Amarusia.
317. Amata. — Moglie del re Latino, fu madre di Lavinia. Ella si strangolò per disperazione vedendo che non avea potuto impedire le nozze di sua figlia con Enea.
318. Amathontia o Amathusa. — Venere era così chiamata dalla città di Amatunta.
Amathusia fu anche il nome della madre di Ciniro re di Cipro.
319. Amathusa. — Vedi l’articolo precedente.
320. Amatunta. — Città dell’isola di Cipro consacrata a Venere. Gli abitanti le aveano innalzato un tempio superbo in cui la veneravano insieme ad Adone.
321. Amatus. — Fu figlio d’Ercole e fondatore della città che dal suo nome fu detto Amatunta.
322. Amazonto. — Soprannome dato ad Apollo, per aver posto fine alla guerra fra le Amazzoni ed i Greci.
323. Amazzoni. — Femmine della Scizia e propriamente della Cappadocia sulle rive del flume Termidone. Attendevano alla guerra e abitavano senza uomini. Furono dette Amazzoni, che vuol dire senza una mammella, perchè bruciavano alle bambine, appena nate, la mammella sinistra, onde non avessero nel trar d’arco alcun fisico impedimento. Esse non ricevevano uomini che una volta l’anno ; lasciavano morire i loro figli maschi ed educavano con gran cura le femmine. Uccidevano tutti gli stranieri che approdavano sulle loro sponde, percui canta l’Ariosto :
…Che quella rivaTutta letteau le femmine omieide.Di cui l’antigua legge ognua che arrivaIn perpetuo lien servo o che l’uccide.Artosto — Orl. Fur. 1..XIX.
Finalmente le Amazzoni furono distrutte da Ercole che fece prigioniera la loro regina. Al dire di Cesarotti nelle Dissertazioni, vi sono state varie classi di Amazzoni ed in varie regioni.
324. Ambarvale. — Sacrifizio in onore di Cerere. Il popolo seguiva in processione le vittime che si doveano sacrificare, facendo il giro delle biade prima della mietitura. I sacerdoti che presiedevano a questi sacrifizi, erano al numero di dodici e si chiamano Arvali. Vedi Arvale.
325. Ambizione. — Gli antichi ne aveano fatta una divinità speciale. I Romani le aveano innalzati dei templi a cui sagrificavano con maggior frequenza che alle are degli altri numi. Dipingevano questa Divinità con le ali sugli omeri, per alludere alla prontezza con cui mette in esecuzione i più arditi disegni.
326. Ambrosia. — Questa parola in greco significa immortate. Nulla è più confuso e oscuro presso gli scrittori e i poeti mitologici, quanto la significazione delle parole Ambrosia e Nettare. Secondo i poeti l’ambrosia era una sostanza destinata al nutrimento degli Dei, ed è opinione sufficientemente generalizzata, che gommasse da una delle corna della capra Amaltea ; mentre dall’altra stillasse il Nettare, ossia la bevanda divina che dava l’immortalità a tutti coloro che ne bevevano. Virgilio, nell’Eneide {p. 30}dice che alla fragranza dell’Ambrosia, si riconoscevano le Dee.
É divino spirar d’ambrosia odore
Virg. — Entide Lib. 1. — trad. di A. Caro.
Omero nell’Iliade, ripete che il corpo di Ettore, trascinato da Achille per ben tre volte intorno alle mura di Troja, conservavasi illeso perchè Venere lo avea cosparso d’ambrosia.
…………Che notte e di sollerita la figliaDi Giove, Cilerea, gli allontanavaE il cadavere ungea d’una celesteRosata essenza che impedia del corpoStrascinato l’offesa.Omero. — Iliade Lib. XXIII. — trad. di V. Monti.
Il certo si è che la favola non poteva inventare cosa più divinamente poetica, dell’ambrosia e del nettare. Questo delizioso nutrimento, questo liquore balsamico inebriava l’anima e i sensi ; rendeva la vita perfettamente felice, e conservava allo spirito e al corpo una giovanezza eterna e ridente.
Il poeta Ibico citato da Ateneo, ne ha fatto la materia di una comparazione
per mezzo della quale ha voluto dare un’idea della natura e del gusto
dell’ambrosia. Ecco le sue parole testualmente tradotte :
« L’Ambrosia è nove volte più dolce del miele :
mangiando del miele si prova la nona parte del piacere che si proverebbe
mangiando dell’ambrosia »
.
Finalmente venivano dette Ambrosie alcune feste in onore di Bacco.
327. Ambuibio. — Nome dato ad alcune pubbliche preghiere che si facevano in forma di processione, in qualche disastrosa congiuntura.
328. Ambulio. — Soprannome di Giove e di Minerva detta Ambulia : come Castore e Polluce venjan chiamati Ambulii, perchè tutti questi numi aveano degli altari vicino ad un vasto portico, dove i lacedemoni andavano a passeggio.
329. Amburbale Vedi Ambarvale.
330. Amente. — La stessa significazione che i Greci davano alla parola Ades, cioè luogo sotterraneo, intendevasi presso gli Egizii con la parola Amente, ovvero il centro delle viscere della terra, dove tutte le anime dovevano raccogliersi. Gli Egiziani, popolo che ritiene tuttavia in gran parte la metempsicosi come un fatto positivo ed indiscutibile, credevano che quella voragine a cui davano il nome di Amente, accogliesse tutte le anime dei morti, e che di là dopo qualche tempo andassero ad abitar nuovi corpi.
331. Amentheo. — Soprannome dato a Plutone perchè amò una ninfa a nome Menthea, la quale gli fu tolta dalla moglie Proserpina. La parola Amentheo significa privo di Menthea.
332. Amica. — Soprannome dato a Venere col quale gli Ateniesi l’adoravano con particolari cerimonie.
333. Amicizia. — Presso i Greci ed i Romani era
una divinità figlia della notte e dell’Erebo. Le opinioni degli scrittori
così prosatori che poeti, sono su tale proposito altrettanto numerose,
quanto vaghe ed indeterminate. Il solo Lilio Geraldi parlando dell’Amicizia
deificata dai Romani, ci ripete che essi la rappresentavano come una bella e
giovane donna, vestita di ruvida stoffa, con la testa scoperta e avente
sulla parte inferiore della veste scritte queste parole : La morte e la vita — e sulla fronte queste altre :
La state e l’inverno — Aveva scoperto il
lato destro del petto fino al livello del cuore, indicando col dito le
seguenti parole : Da lunge e du
vicino
— Tutto ciò altro non era che la raffigurazione del
simbolo che l’amicizia non invecchia mai, che rimane salda, uniforme e
costante in tutt’i tempi, da vicino e da lontano ; in vita ed in morte,
e che tutto si sagrifica a questo santissimo affetto.
334. Amicica. — Città della Laconia, patria di Elena. Vi fu anche un’altra città di questo nome, di cui la tradizione favolosa narra che gli abitanti furono distrutti da una spaventevole invasione di serpenti.
335. Amicleo. — Si dava questo soprannome ad Apollo perchè al dire di Polibio, aveva nella città di Amiclea il più ricco e famoso tempio di tutto il Peloponneso.
Pausania asserisce che Amicleo era anche il nome di un dio particolare della Grecia, ove avea tempii ed altari.
336. Amico. — Uno dei compagni di Enea che fu ucciso da Turno re dei Rutoli.
……………Amico, un cacciator ch’era iu campagnaGran distruttor di fere, e gran maestroD’armar di tosco le saette e ’l ferroVirg. Eneid. lib. IX trad. di A. Caru.
Vi fu un altro conoscinto sotto il nome di Amico, che fu figlio di Nettuno e di Bisinide. Visse vita da masnadiere uccidendo e depredando i viandanti. Un giorno tese un insidia a Polluce senza conoscerlo e questi l’uccise.
337. Amida. — Una delle figlie di Niobe. Era anche così detta una delle principali divinità dei Giapponesi.
338. Amisodar. — Re della Licia. La tradizione favolosa dice che egli fu marito d’una donna a nome Chimera, la quale aveva due {p. 31}fratelli noti sotto il nome di Leone e Dragone, i quali erano strettamente uniti con la loro sorella. Da ciò la favola che dà al mostro detto chimera il volto di donna, il corpo di leonessa e le ali di drago. Vedi Chimera.
339. Amithaone. — Padre di Melampo e fratello di Esone.
340. Amimome. — Nettuno, innamorato di questa giovanetta, figliuola di Danao, le usò violenza e poi abbandonolla. Intanto un giorno essendo Amimome andata ad attinger acqua per un sacrifizio, un satiro volle violentarla. La principessa fuggendo spaventata, chiamò in suo aiuto Nettuno, il quale la liberò dal satiro, ma le fece egli stesso l’insulto che il satiro volea farle.
341. Ammone o Hammon. — È lo stesso che Giove, il quale veniva sotto questo nome particolarmente venerato a Tebe, capitale dell’alto Egitto. I cronisti più accreditati raccontano che Bacco, smarrito in un deserto, e vicino a morire per sete ardentissima, implorò il soccorso di Giove, il quale gli apparve sotto la forma di un montone e battendo col piede la terra ne fe scaturire una sorgente d’acqua. Bacco in riconoscenza e rendimento di grazie, fece innalzare in quel luogo un tempio, che fu detto Ammone cioè Arenario, per essere collocato in mezzo all’arena del deserto e nel quale Giove era adorato sotto la figura di un montone.
Ammone fu similmente il nome di un figlio di Cinira che sposò Mirra e ne ebbe un figliuolo per nome Adone, famoso per la sua bellezza. Essendosi un giorno Cinira addormentato in una sconcia positura, per effetto di ubbriachezza, la nuora lo vide e lo derise. Destatosi Cinira dal sonno fu dal figliuolo Ammone informato di quante avea detto Mirra, e sdegnato la maledisse e la cacciò dalla sua casa insieme al figlio ed al marito. Mirra col piccolo Adone si ritrasse nell’Arabia, ed Ammone prese stanza nell’Egitto, ove morì poco tempo dopo. Fra i poeti e i cronisti dell’antichità, molti sono discordi nella ripetizione di questo fatto. Il solo fra i mitologi che ripete la cosa all’istesso modo è Furnuto.
Questa tradizione mitologica ei porge il destro di richiamare l’attenzione dei nostri lettori, su quanto noi dicemmo nello Studio preliminare sulla mitologia. Cinira addormentato in una sconcia positura, e deriso dalla nuora che egli poi maledice e discaccia dal tetto paterno, non è egli forse un fatto completamente simile a quanto ci vien rivelato nelle sacre pagine della Bibbia, sull’ubbriachezza di Noè ? È dunque un fatto indiscutibile, in appoggio del quale vengono infiniti esempi, che tutte le religioni hanno simboli ed allegorie proprie non solo, ma anche ereditate da altre credenze e da altri culti.
Finalmente Ammone era anche il nome di un re della Libia, il quale per questa ragione viene spesso erroneamente confuso con Bacco.
342. Ammonia. — Soprannome dato a Giunone come moglie di Giove Ammone.
343. Amniasiadi o Amnisidi. — Ninfe così dette dal fiume Amniso nell’isola di Creta.
344. Amnisidi. — Vedi l’art. prec.
345. Amoca. — Una delle nutrici di Diana. Fu anche un soprannome dato a Cibele e a Cerere.
346. Amontea. — Ninfa figlia di Nereo e di Dori.
347. Amore. — Il più bello degl’immortali. Fu fino dai primi giorni della creazione con la terra e col caos.
……. non mica un DioSelvaggio, o della plehe degli Dei ;Ma tra’grandi celesti il più possenteChe fa spesso cader di mano a MarteLa sanguinosa spada, ed a NettunoScotitor della terra il gran tridente.E le folgori elerne al sommo GioveTasso. Aminto.
Secondo Aristofane quell’amore che ebbe principio col caos fu l’amore benefico, e da questa unione vennero gli uomini e gli animali. Non esisteva alcuna Deità prima che Amore avesse unite fra loro le cose, e non fu che da questa comunanza fatta da lui, che furono generati i cieli, gli dei immortali e la terra.
Platone asserisce essere l’Amore figlio del Dio delle ricchezze e della Dea della povertà, e gli dà il nome di Poro. Amore insieme a sua madre Venere, dea della bellezza, ha avuto un culto estesissimo in tutte le parti del mondo conosciuto dagli antichi.
348. Ampelo. — Figlio di un satiro e di una Ninfa, fu amico di Bacco, il quale ebbe anche uno dei sacerdoti del suo culto conosciuto sotto l’istesso nome.
Questa parola Ampelo significa vigna e viene dal greco αμπελσς e fu il nome di un promontorio dell’isola di Samo, di una città di Creta, e d’un’altra della Macedonia.
349. Ampelusia. — Promontorio dell’Africa nella Mauritania. Vi era una caverna consacrata ad Ercole.
350. Amphiaro. — Vedi Ampiareo.
351. Ampleide. — Soprannome di Mopso, da suo padre Ampix.
352. Ampico. — Detto anche Ampix, figlio di Clori, e padre di Mopso, di cui nell’articolo precedente.
Uno dei figli di Pelia viene anche ricordato sotto questo nome.
{p. 32}353. Amulio. — Fu fratello di Numitore. Entrato per caso nella prigione della vestale Rea Silvia, la rese madre di Romolo e Remo. In seguito i Romani fecero di Amulio il loro Dio Marte.
354. Amycla. — Una delle figlie di Niobe, la quale fu insieme a sua sorella Melibea, risparmiata da Latona, quando questa uccise i fratelli e le sorelle di lei. Vedi Niore.
355. Amyclao. — Apollo era così soprannominato da un magnifico tempio ch’egli avea in Amyclea, città della Laconia. Si dava la stessa denominazione a Polluce.
356. Amyeo. — Figlio di Nettuno e re dei Bebrici. Vi fu anche uno dei più famosi centauri compagno di Enea, che ebbe questo nome ; ed un fratello d’Ippolita, regina delle Amazzoni, che fu uccisa da Ercole.
357. Amynta. — Nome di pastorella assai generalmente usato dai poeti Arcadici.
358. Amyntoridi. — Discendenti di Fenicio, figlio di Amintore.
359. Amyone. — Una delle cinquanta Danaldi, sposò Encelado che ella uccise la prima notte delle nozze, per ubbidire al comando di suo padre. Straziata dai rimorsi, ella si nascose in un bosco, dove volendo tirare con una freccia su di una biscia, ferì invece un satiro che la violò, malgrado che ella avesse implorato Nettuno, il quale qualche tempo dopo la cangiò in fontana.
Amyone fu anche il nome di una figlia di Belo.
360. Anacee. — Feste in onore degli Dei Dioscuri i quali venivano anche detti Anaci dalla parola greca Λναξ che significa protettore.
361. Anachiso. — Uno dei quattro Dei Lari o Penati adorati dagli Egiziani. Gli altri tre erano Dymone, Tychiso e Heroso.
362. Anaclesa. — Era il nome di una pietra sulla quale credevano i Greci, che si fosse riposata Cerere, dopo la lunga corsa ch’ella fece per ritrovare sua figlia Proserpina, rapita da Plutone. Le donne di Megara avevano una grande venerazione per questa pietra, la quale veniva custodita ad Atene, secondo asserisce Pausania.
363. Anadyomene. — Così al d re di Plinio veniva soprannominata Venere. Cesare Augusto le consacrò sotto questo nome un quadro dipinto da Apelle, nel quale la Dea veniva rappresentata al momento della sua nascita uscendo dalla spuma del mare.
364. Anagogie. — Feste in onore di Venere assente per pregarla di far ritorno. In greco αναγογη significa ritorno.
365. Anaidia. — Che significa impudenza. Secondo Cicerone e Pausania, gli Ateniesi ne avevano fatta una divinità.
366. Anaitide o Anetide. — Era la Diana dei Persiani.
367. Anamelech. — V. Adramelecco.
368. Anapo o Anapi. — Nome del fiume nel quale la ninfa Ciane cangiata in lago andò a congiungere le sue acque. Sbocca nel porto di Siracusa.
369. Anassagora. — Filosofo della Grecia che negava l’esistenza degli Dei. Luciano, nelle opere racconta che avendo Giove scagliato il fulmine contro Anassagora per punirlo della sua miscredenza, Pericle lo avesse salvato facendo che la folgore cadesse invece sul tempio di Castore e Polluce, che fu ridotto in cenere.
370. Anatole. — Nome di una delle ore.
371. Anaue. — I Persi e gli Armeni adoravano Venere sotto questa denominazione.
372. Anauro. — Fiume della Troàde, sulle rive del quale Paride custodiva gli armenti di Priamo.
373. Anax. — Figlio del Cielo e della Terra. Il suo nome che significa padrone, signore, veniva, secondo asseriscono Plutarco e Cicerone, ritenuto come sacro per modo che non si dava che ai semidei, agli eroi od ai re in atto di grande onoranza.
374. Anaxabia. — Ninfa che disparvé nel tempio di Diana dove si era rifuggita per sottrarsi alle persecuzioni di Apollo.
375. Anaxandra. — Nome di una eroina, che fu poi adorata in Laconia come una Dea.
376. Anaxarete. — Principessa della stirpe reale di Teutero. Un giovane di bassi natali l’amò passionatamente e non potendo resistere alla cieca passione che essa gli avea ispirato, ardi svelarle l’amor suo, ma la fiera giovanetta lo respinse crudelmente cacciandolo dalla sua presenza. Dopo pochi giorni Iffi morì di dolore, e Anaxarete spinse la sua crudeltà, fino a voler vedere la pompa funebre del disgraziato amatore ; ma appena gittò lo sguardo sul cadavere di quell’iufelice, il sangue se le agghiaccio nelle vene e tutto il suo corpo si coprì di mortale pallidezza. Di qua la favola che Venere sdegnata della crudeltà di Anaxarete, l’avesse cangiata in roccia.
377. Anasel. — Uno dei figliuoli di Castore e di Febea. Nel tempio fabbricato a Corinto e dedicato al culto di Castore, vi era una statua di Anasci come figliuoli di quel dio.
378. Anaxiso. — Figlio di Castore e d’Ilacida.
379. Anaxithea. — Fu una delle Danaidi amata da Giove.
380. Anaxo. — Figlio di Augeo. Alcuni scrittori mitologici dicono che fosse la stessa che fu madre di Alcmena ; ma questa è un’assai {p. 33}dubbia supposizione, non essendo nella tradizione favolosa, alcun dato certo, dal quale dedurre positivamente tale notizia.
381. Ancarla. — Dea che veniva invocata nell’escursione dei nemicl.
382. Ancarlo. — vedi Anchialo.
383. Anceo. — Re d’Arcadia, che fece parte della spedizione degli Argonauti. Un giorno una delle sue schiave gli predisse ch’egli non avrebbe mai più bevuto il vino della sua vigna. Anceo derise la predizione e per provare col fatto la falsità di quella, ordinò che gli fosse incontanente portata una coppa piena di vino. All’istesso momento ch’egli portava la tazza alle labbra, gli fu annunciato da uno dei suoi ufficiali, che il cignale di Calidone devastava la sua vigna. Anceo allora gittò a terra la sua coppa, alla quale non aveva ancora bevuto e corse per combattere il mostro, ma rimase da questo uccise.
Un tale avvenimento dette origine al proverbio di Catone : mullum interesi inter os eto ossam cioè : motto cammino v’è tra la tazza e il labbro.
384. Anchialo o Ancario. — I Pagani credevano che così fosse nominato il dio dei Giudei.
Vi fu anche un greco, figlio di Menteo che avea questo nome.
385. Anchisladi. — Furono così denominati i discendenti di Anchise.
386. Anchise. — Principe Troiano della famiglia di Priamo : fu figlio di Capi e, secondo altri, di Assaraco e di una ninfa. Egli fondò Troia, e dai suoi amori con Venere, che si era perdutamente innamorata di lui, ebbe un figliuolo che fu poi il famoso Enea. Avendo osato vantarsi di tanto favore, ne fu punito da Giove, il quale lo fulminò senza però ucciderlo. Egli visse lunghissimi anni, e alla presa di Troia era così vecchio, che non potendo camminare fu da suo figlio Enea portato in braccio fino alle navi Greche, sulle quali essi trasportarono ancora i loro Penati, e quanto avevano di più prezioso. Finalmente Anchise morì in Sicilia, dove Enea gl’innalzò una magnifica tomba.
…… Caro mio padre, adunque.Soggiunsi io, com’è d’uopo, in su le spalleA me ti reca, e mi t’adatta al colloAcconciamente ; ch’io robusto e forteSono a tal peso ; e sia poscia che vuole.……………..…… e tu con le tue maniSosterrai, padre mio, de’santi arrediE de’patrii Penati il sacro incarco.……………Ciò detto, con la veste e con la pelleD’un villoso leon m’adeguo il tergo :E’l caro peso a gli omeri m’impongo.Virgilio — Eneide. Libro II traduz da A. Caro.
387. Anchuro. — Figlio di Mida. La tradizione favolosa racconta di lui un fatto perfettamente simile a quello di Curzio Romano. Narra Plutarco, che essendosi in Celene, città della Frigia, spalancata una voragine. Anchuro per il bene pubblico vi si precipitò col suo cavallo, e la voragine si rinchiuse immantinenti. Mida fece innalzare sull’istesso luogo un altare sacro a Giove.
388. Ancile. — Veniva così chiamato un piccolo scudo di forma rotonda, che Numa Pompilio disse esser caduto dal cielo, e dipendere dalla conservazione di esso il destino di Roma. Tito Livio racconta che Numa temendo non venisse involato un oggetto così prezioso, comandò se ne fabbricassero altri undici perfettamente simili al primo ; e ne affidò la custodia a dodici sacerdoti, espressamente istituiti ai quali fu dato il nome di Salii. Quando si portavano i dodici ancilii in una festa che durava tre giorni al principio del mese di marzo, era proibito il celebrar nezze, o intraprendere alcuna cosa importante.
389. Anculo e Ancula. — Erano, al dire di Festo le deità tutelari dei servi e delle serve. Venivano così denominate dalla pardla Anculari che significa servire. Per la stessa ragione si dava alle serve il nome di Ancille o Ancelle.
390. Andate o Andrastea. — I popoli della Brettagna adoravano sotto questo nome la Dea della vittoria, con un culto particolare.
391. Andiomena. — Con questo soprannome veniva adorata Venere marina, di cui la favola racconta che uscì dal mare, nascendo dalla spuma delle onde. Andiomena significa che esce dal mare.
392. Andirina. — Soprannome della madre degli Dei. Le veniva dalla città di Andira, nella quale essa aveva un tempio.
393. Andrastea. — Vedi Andate.
394. Andremone. — Padre di Toaso, fu uno dei capi Greci che assediarono Troia.
Vi fu anche un altro Andremone che fu genero di Oeneo.
395. Androclea. — Una delle figlie di Antipono, che si sagrificarono per la salute di Tebe. L’oracolo avea sentenziato che la città non sarebbe mai libera dai suoi nemici, se non si fosse trovato fra le più illustri famiglie, taluno che avesse voluto immolarsi al bene comune. A tale risposte tutte le figliuole di Antipono si tolsero spontaneamente la vita.
396. Androfona. — Parola che significa omicida. La tradizione favolosa racconta che tal soprannome era dato a Venere per aver fatto morire gran numero di Tessali per punirli {p. 34}della morte di un giovane a nome Laiso da essi ucciso a colpi d’ago, in un tempio a lei dedicato.
397. Androgenie. — Feste in onore di Androgeo.
398. Androgeo. — Figlio di Minos re di Creta. Stando in Atene alla festa delle Panatee, ne riportò tutt’i premii, ciò che gli valse la stima generale e l’amicizia di Pallante, fratello del re Egeo. Questi, temendo che Androgeo, forte di tutte le simpatie che si era guadagnate, non avesse voluto detronizzarlo, lo fece uccidere a tradimento in una delle più deserte vie di Atene. Minos, volendo vendicare la morte del figlio, portò la guerra contro gli Ateniesi, li vinse ed a placare l’ombra del morto li costrinse a mandare ogni anno in Creta sette giovanetti e sette fanciulle, ond’essere divorati dal mostro Minotauro.
399. Androgini. — Popoli dell’Africa, che al dire di Plinio erano ermafroditi. Questa credenza è maggiormente avvalorata dalla etimologia della parola, poichè in greco αςρεγ vale maschio e γονη femmina.
400. Andromaca. — Figlia d’Etione re di Tebe e moglie di Ettore, il più famoso eroe Troiano da cui ebbe un figlio che fu detto Astianatte. Dopo la presa di Troia, ella nella divisione del bottino di guerra, cadde in sorte a Pirro figlio di Achille, il quale la condusse in Epiro e la sposò. Alla morte di Pirro, Andromaca sposò Eleno, altro figliuolo di Priamo. Ella amò così teneramente il suo primo marito Ettore, che parlava continuamente di lui, e non potendo dimenticarlo, sebbene moglie di altri, fece innalzare in Epiro una magnifica tomba al defunto eroe.
401. Andromeda. — Figlia di Cefeo re d’Etiopia, e di Cassiopea, la quale ebbe la temerità di proclamarsi più bella di Giunone. Nettuno per vendicare la Dea, fece dalle Nereidi legare Andromeda ad uno scoglio e la condannò ad essere divorata da un mostro marino. La misera stava già per essere ingolata dal mostro, allorchè Perseo montato sul cavallo Pegaso, pietrificò il terribile animale, mostrandogli la testa di Medusa, e liberò Andromeda, rendendola al padre, il quale in riconoscenza dell’eroico atto, gliela dette in moglie.
Perseo legata Andromeda ancor vede :V’accorre, in fretta, e subito la scioglie.E poi con l’onestà, che si richiede,Saluta allegro la salvata moglie.(Ovidio Metamorfosi Libro II trad. di Dell’Anguillara).
402. Androso o Andruso. — Figlio d’Eurimaco che dette il suo nome all’isola d’Andros.
Uno dei figli di Anio veniva anche così denominato.
403. Anello di Minos. — Teseo essendo stato un giorno rimproverato da Minos, il quale negava a lui d’esser figlio di Nettuno, disse che avrebbe accettata qualunque prova fosse piaciuta a Minos d’imporgli, onde provargli la verità. Allora Minos gettò nel mare un anello, dicendo a Teseo che se era veramente figlio del mare, non doveva avere alcun ritegno di gettarsi nell’acqua e riportargli l’anello. Infatti Teseo si gettò nel mare, ove alcuni delfini, mandati da Nettuno, lo portarono sul dorso fino al palazzo d’Anfitrite, da cui riebbe l’anello di Minos.
404. Anetide. Vedi Anaitide.
405. Anfanto. — Detto dagii antichi Anfanctus, lago profondo nel territorio Irpino in Italia, circondato di precipizii e di foreste. Ne esalava un così pestilenziale vapore che credevasi assai comunemente esser quello uno spiraglio dell’Inferno.
406. Anfiaree. — Feste in onore di Anfiareo.
407. Anfiareidi. — Discendenti di Anfiareo.
408. Anfiareo o Anfiaro. — Figlio d’Apollo e d’Ipermestra. Erifile, sua moglie, palesò a Polinice per il dono di una collana d’oro, il luogo dove s’era nascosto Anfiareo, per non andare alle guerra di Tebe, ov’egli sarebbe morto. Un giorno essendo Anfiareo a mensa coi capi dell’armata, i quali Polinice lo aveva obbligato a raggiungere, un’aquila si posò sulla lancia, e poscia avendo con quella ripreso il volo, la lascio cadere in un luogo appartato ove la lancia si cangiò in lauro. Anfiareo ritenne quel fatto come un cattivo augurio, ed in effetti l’indomani la terra si spalancò sotto i suoi piedi inabissandolo coi suoi cavalli.
Plinio ed Ovidio, riferiscono che i poeti dell’antichità confondono Anfiareo con Alcmeone suo figlio.
409. Anfidamo. — Figlio di Busiride che fu ucciso da Ercole.
410. Anfidione. — Figlio di Deucalione e di Pirra. Vi fu un altro Anfidione il quale fu figlio di Eleno e fondatore del famoso tribunale che dal nome di suo padre fu detto Helenus, i cui decreti si ritenevano come altrettanti oracoli.
411. Anfiloco. — Uno dei figli di Anfiareo. Ritornato dall’assedio di Troia, edificò una città a cui dette il proprio nome, e nella quale, dopo la morte, fu onorato come un dio.
412. Anfimaco. Fu questo il nome di due famosi capitani Greci che assediarono Troia.
413. Anfimedone. — Figlio di Melanto, che fu ucciso da Telemaco. Fu uno di coloro che volevano sposare Penelope. La favola fa anche {p. 35}menzione di un centauro conosciuto sotto questo nome.
414. Anfinoma. — Una delle cinquanta Nereide.
415. Anfinomea. — Fu madre di Giasone, capo degli Argonauti. Credendo che il figlio fosse morto nella spedizione per la conquista del vello d’oro, si uccise trapassandosi il seno con un pugnale.
416. Anfinomo. — Un altro dei pretendenti alla mano di Penelope. Telemaco lo uccise.
…… da tergoTra le spalle il feri con la pungenteLancia, che fuor gli riusci dal petto.Quell’infelice rimbombò cadutoE con tutta la fronte il suol percosse :Ma il garzon soltraeasi, abbandonandoLa lancia entro d’Anfinomo.OmeroOdissea Canto XXII trad. d’I. Pinnehonte.
417. Anfione. — Figlio di’ Giove e di Antiope, regina di Tebe. Al suono della sua lira fabbricò le mura di quella città. — La favola racconta che le pietre, sensibili alla dolcissima melodia, si collocavano di per se stesse al loro posto. A lui ed a Zeto suo fratello, si attribuiva dagli antichi l’invenzione della musica.
So che Anfione agli nomini salvaticiColla lira insegnò l’umanità.Salvatore Rosa — Satira 1.
Dictus el Auphion. Thebanae conditor areisSara mocere suno testudinis et prece blandaDucere quo rellet.Orazio — De arte Poetica Epistola III.
Anfione era anche il nome d’uno degli Argonauti, ed un re d’Orcomeno, che fu padre di Cloro.
418. Anfioro. — Una delle ninfe dell’Oceano.
419. Anfipyro. — Soprannome dato a Diana. Questa parola significa — Avendo una lorcia nella mano.
420. Anfitoe. — Una delle cinquanta Nereidi, figlia di Nereo e di Dori.
421. Anfitride. — Figlia di Nereo e moglie di Nettuno. Per sottrarsi alle richieste di questo dio, ella si nascose nelle profondità del mare ; ma Nettuno la mandò a cercare da due delfini, i quali gliela portarono in una conchiglia di madreperla e finalmente Anfitride consentì alle nozze.
422. Anfitrione. — Marito di Alcmena e padre di Ercole, il quale da lui fu detto Anfitrionide. Egli mosse guerra ai Telebani, e li sconfisse con l’aiuto di Cometo figlio Pterelao loro re, al quale la figlia taglio un capello d’oro da cui dipendevano i destini di questo principe Fu durante il periodo di questa guerra che Giove prendendo le sembianze di Anfitrione ingannò Alcmena moglie di lui. Questo principe invase gli stati di Pterelao, divenne formidabile a tutt’i suoi nemici e punì Cometo del suo tradimento.
Gli scrittori delle cronache mitologiche, concordano nella gran maggioranza, sulla probabilità che dette vita a questa favola, dal vedere i primi effetti dello straordinario valore di Ercole a cui fu d’uopo dare un dio per padre. Seneca nelle sue opere ricorda che Ercole rispose ad un tale che gli addebitava di non essere figlio di Giove, queste orgogliose parole : Se non sono figlio di un Dio, ho merito abbastanza per esserio.
423. Anfitrionidi. — Furono così detti tutt’i discendenti di Anfitrione.
424. Anfriso. — Fiume della Tessaglia sulle cui rive Apollo custodì per lungo tempo gli armenti del re Admeto. Fu del paro sulle rive di questo fiume che egli uccise il satiro Marfiaso e che amò Evadnea, Licoride e Hacinta la quale egli poi uccise per inavvertenza giuocando alla palla.
La Sibilla di Cuma, detta anche Anfrisia trasse il suo soprannome da que to fiume.
425. Angelia. — Figlia di Mereurio. Era così chiamata dal soprannome di Angelus, Angelo, in greco αγγελος messaggiero, perchè Mercurio era il messaggiere degli dei.
426. Angelio. — Figliuola di Giove e di Giunone. La favola racconta che essendo molto amica di Europa, rebò alla madre Giunone la biacca che ella adoperava dopo il bagno e de fece presente Europa, la quale divenne d’una estrema bianchezza.
427. Angelo. — Fu il nome di uno dei figli di Nettuno.
428. Angeronale. — Nel giorno 21 dicembre di ogni anno, si celebravano nella Grecia in onore di Angerona, Dea del silenzio, alcune feste a cui si dava il nome di Angeronale.
429. Angeronia o Ageronia. — Dea alla quale si ricorreva contro la schinozia o malattia della gola. Era anche ritenuta come la dea del silenzio.
Tempo e omai ch’Angerona apra la bocca
Saly. Rosa — Satira 2.
430. Anquipede. — Mostro la cui tortuosa maniera di strisciare, somigliava a quella dei serpenti. Ovidio dà questo nome ai giganti che vollero detronizzar Giove.
431. Anguitia o Angitia. — Figlia di Eteo sorella di Medea.
{p. 36}432. Angitia. — V. Anguitia.
433. Anieno. — Dio del fiume Anio. Lo stesso che oggi chiamasi Teverone.
434. Anigero. — Fiume della Tessaglia. La favola racconta che fu nelle sue acque che i centauri, sconfitti da Ercole, andarono a lavare le loro ferite.
435. Anigridi. — Ninfe abitatrici del fiume Nigro. Veniva loro attribuito il potere di dare alle acque di questo fiume una virtù contraria alla loro qualità naturale.
436. Anima. — I Greci chiamavano Psiche la farfalla che è il simbolo dell’anima. Presso quel popolo, la cui mitologia è ricca della più poetica fecondità d’immagini, Cupido, come dio dell’amore, veniva raffigurato come un fanciullo in atto di tormentare una farfalla che ha nelle mani, esprimendo così il tormento dell’anima di coloro cui l’amore signoreggia e governa. V. Psiche.
437. Animali. — Divinità così chiamate perchè erano le anime di coloro che dopo la morte venivano deificati. Gli antichi li dinotavano sotto il nome di animales dii.
438. Anio. — Re dell’isola di Delo e gran sacerdote di Apollo.
A Feho era ministro accorlo e fido.Agli uomini era re giusto e lealeAnio pieu di bontade, e pieu di fede,Ch’allora ivi tenea la regia sede.Ovidio. — Metamorf. Libro XIII trad. di Dell’Anguillara.
Fu padre di tre giovanette le quali avevano ricevuto da Bacco il dono di cangiare tutto ciò che toccavano una in vino, l’altra in biada e la terza in olio. Agamennone, prima di andare allo assedio di Troia volle costringere le tre figlie di Anio a seguirlo alla guerra, contando che col loro aiuto, l’armata dei Greci non avrebbe mai patito difetto di provvigioni ; ma Bacco, da esse implorato le cangiò in colombe.
439. Anitide. — Al dire di Plutarco, nella città di Ecbatana, veniva adorata la Dea Diana sotto questo nome.
440. Anna. — Sorella di Pigmalione e di Didone, la quale ella seguì in Africa. Dopo la morte di Didone, Anna si ritirò a Malta, ma avendo Pigmalione tentata di rapirla ella si rifugiò in Italia ove Enea l’accolse cortesemente. Lavinia, moglie di Enea accesa di violenta gelosia contro di lei, risolvette di farla morire. Però Didone apparve in sogno alla sorella, e l’avvisò di quanto si tramava contro la sua vita. Anna, durante la notte, prese la fuga e andò a gittarsi nel fiume Numicio ove fu cangiata in ninfa.
441. Anna Perenna. — Dea che presiedeva all’anno e alla quale durante il mese di marzo, si facevano in Roma dei grandi sacrificii.
Discorde è l’opinione dei mitologi su questa divinità : gli uni vogliono che sia la stessa che la luna ; altri asseriscono essere Temi ; altri finalmente la ninfa lo, la quale viene anche scambiata di sovente con una delle Atlantidi, che nudrirono Giove. La credenza più generalizzata è che ella fosse una ninfa del fiume Numicio, forse la stessa Anna sorella di Didone, di Didone, di cui nell’articolo precedente.
442. Anneddoti. — Erano gli angeli buoni e cattivi della religione Caldea. Esiste fra queste divinità pagane e gli angeli, Cherubini, etc. della Sacra Scrittura, una completa analogia.
443. Annemotisa. — Soprannome di Pallade, significa che calma i venti.
444. Annona. — Dea dell’abbondanza e delle provvigioni da bocca.
445. Anoaretha. — Ninfa che fu una delle mogli di Saturno, che la rese madre di Ieodo.
446. Anogone. — Figlio di Castore e d’Ilaria.
447. Anosia. — Vocabolo che significa senza pietà. Venere veniva cosi denominata per la stessa ragione percui le si dava il nome di Androfona V. Androfona.
448. Anphoterens. — V. Acarnao.
449. Anquigeul. — Ovidio così denomina i Tebani perchè la favola li fa nascere da un dente di drago.
450. Ansur o Assur. — Giove raffigurato sotto la sembianza di un giovane senza barba, veniva onorato con questo nome. Altri scrittori dicono che questo nome di Assur fosse dato a Giove, da una città del Lazio chiamata Ansur ove era particolarmente venerato.
451. Antandro. — Città della Frigia. Nel porto di essa, conosciuto sotto lo stesso nome, s’imbarcò Enea.
452. Antea. — Altrimenti detta Stenobea. Fu moglie di Preto, re d’Argo : ella arse d’impudica fiamma per Bellorofonte, ma avendo questi respinte le lascive voglie di lei, ella lo accusò al marito.
…… d’Argo l’espulsePer cagione d’Autea, sposa al tiranno,Furiosa costei ne disiavaSegretamente l’amoroso amplesso.Ma non valse a crollar del saggio e castoBellorofonte la virtù.Omero — Iliade Libro VI. trad. di V. Monti.
453. Antelio o Anthelio. — Uno degli dei di Atene. Vi erano dei genii che si veneravano sotto la denominazione di Antelii demones.
{p. 37}455. Antenore. — Principe Troiano a cui principalmente si addebita la taccia di traditore, designandolo come colui che avesse nascosto nella sua casa Ulisse, guerriero greco che assediava Troia. Dopo la caduta di questa città, Antenore andò a fondare la città di Padova. È questa peraltro una credenza assai vaga. Antenore ebbe molti figliuoli, fra cui i più noti sono Achiloco, Alamanto, Laodoco, Acheolo e Anteo.
456. Antenoridi. — Discendenti di Antenore.
457. Anteo. — Famoso gigante figlio di Nettuno e della Terra. Egli erasi stabilito in un deserto della Libia, o secondo altri della Mauritania, dove massacrava tutt’i viandanti per compiere un voto che avea fatto a Nettuno, di erigergli un tempio di cranii umani. Ercole combattè il gigante e tre volte lo atterrò senza poterlo uccidere, perchè la Terra, madre di quello, gli raddoppiava le forze ogni qual volta Anteo toccava il suolo. Ercole allora lo tenne sospeso in aria e lo strangolò.
458. Antero. — Veniva venerato sutto questo nome un dio che si adorava come l’opposto di Cupido. Lo si credeva figlio di Venere e di Marte. Vedendo che Cupido col passare degli anni non diventava mai adulto, ne chiese la ragione a Temi, la quale gli rispose che ciò avveniva perchè quegli non aveva un compagno di infanzia ; e convinta ella stessa di tale ragione fece che Antero e Cupido vivessero insieme : dopo qualche tempo Cupido cominciò a crescere. I due immortali fanciulli venivano rappresentati in atto di baloccarsi con una palma, e con le ali agli omeri. Antero deriva da αντ contro e ερως amore.
459. Antevorta. — Dea che presiedeva alla commemorazione delle cose passate.
460. Anthello. — V. Antelio.
461. Anteo. — Uno dei figli di Antenore. vedi Antenore. Fu ucciso da Paride per isbaglio.
Si chiamava anche con tal nome uno dei capitani di Enea.
462. Antesforle. — Feste in onore di Proserpina celebrate in Sicilia. Questo vocabolo deriva da άνθος fiore e Φερω portare.
463. Anthia. — Soprannome dato alla fortuna dalla città di Antrim nel Lazio, in cui ella aveva un tempio assai celebre.
464. Anthio. — Da Anthius che vuol dire fiorente. Era questo uno dei soprannomi di Bacco.
465. Anthione. — Era questo il nome di un pozzo, presso il quale la favola racconta che Cerere, sotto la figura di una vecchia, si fosse riposata dalla fatica di correre in traccia di sua figlia, a’lorchè Plutone gliela rapì. Le figlie di Celo avendola trovata in quel luogo la condussero presso la loro madre.
466. Anthiope. — La più famosa delle regine delle Amazzoni. Ercole avendole fatta prigioniera ne fece presente a Teseo.
Vi fu anche un’altra Anthiope figlia di Nitteo, la quale ebbe da Giove due figli : il padre di lei volle farla morire, ma ella si salvò con la fuga e si tenne celata fino alla morte del padre. Allora, credendosi in sicurtà, volle ritornare nella sua patria, ma Sico, suo zio paterno, la perseguito, e la dette in custodia a sua moglie Darcea, dalla quale Anthiope ebbe a soffrire ogni peggior trattamento.
467. Anthoro o Antoreo. — Fu questo il nome di uno dei compagni più fidi di Ercole e poi di Evandro — Egli era nativo di Argo.
468. Antia. — Sorella di Priamo che i Greci fecero prigioniera quando s’impadronirono di Troia.
Vi fu anche un’altra per nome Antia moglie di Preto.
469. Anticlea — Figlia di Diocleo e madre di Ulisse. La favola racconta che al momento in cui Laerte stava per impalmaria, Sisifo figlio di Eolo la violò, e che quindi egli e non Laerte fosse il vero padre di Ulisse.
470. Anticyra. — Isola nel golfo di Corinto celebrata dai poeti per l’abbondanza dell’elleboro che vi cresceva in modo maraviglioso.
471. Anti-Dei. — Genii malefici che ingannavano gli uomini per mezzo delle più seducenti illusioni.
472. Antifo. — Uno dei figli di Priamo. Agamennone l’uccise insieme a suo fratello Iso, sotto le mura di Troia.
Due di Priàmo figliuoli, Ieso ed AntifoL’un frutto d’imeneo, l’altro d’amore,……………Ed or l’Atride Agamennòn coll’astaSpalanca ad Iso tra le mamme il petto.Fiede di brando Antifo nella tempiaE lo spiomba dal cocchio………Omero Iliade — Libro XI trad. di Vinc. Monti
Si rammentano dalle favole altri due Antifo : uno compagno e fedele amico di Ulisse, l’altro nipote di Ercole.
473. Antigone. — Figlia di Edipo e di Giocasta. Volendo rendere gli ultimi onori a suo fratello Polinice, in opposizione agli ordini di Creonte, ella fu condannata da questo crudele principe a morire di fame in una prigione, onde essa non potendo resistere all’orrore della {p. 38}morte spietata, si strangolò. Emone, suo fidanzato, si uccise sul corpo di lei.
…..Ah tu, se rimirar potessiCon men superbo ed offuscato sguardoSuo nobil cor, l’alto pensar. sue rareSublimi doti. ammirator tu padre.Sì, ne saresti al par di me ; tu stesso,Più assai di me, chi, sotto il crudo imperoD’ Eteocle, mostrarsi amico in TebeDi Polinice ardi ? L’ardia sol ella.Il padre cieco, da tutti diserto,In chi trovò, se non in lei, pietade ?Giocasta infin. già tua sorella, e cara.Dicevi allor : qual ebbe, afflitta madre.Altro conforto al suo dolore Immenso ?Qual compagna nel piangere ? qual figliaAltra, che Antigon’ebbe ? Ella è d’ EdippoProle. di tu ? ma, sua virtude è ammendaAmpia del non suo fallo —Alfieri — Antigone Trag. Atto III
Le cronache favolose ricordano di un’altra Antigone figlia di Laomedone. Avendo un giorno detto ad alta voce che essa era assai più bella di Giunone, la dea sdegnata la cangiò in cicogna.
474. Antigonie. — Feste in onore di un Greco per nome Antigonio, ora poco ricordato dagli scrittori mitologici.
475. Antilogo. — Figlio di Nestore e di Euridice. Seguì suo padre all’assedio di Troia e vi fu ucciso da Mennone figlio dell’ Aurora.
476. Antinoo. — Uno di coloro che volevano sposare Penelope. Ulisse, marito di questa, lo uccise in una festa.
L’imperatore Adriano ebbe anche un suo carissimo amico a nome Antinoo, giovane di maravigliosa bellezza. L’imperatore lo ebbe così caro che dopo la sua morte lo fece annoverare fra gli dei.
477. Antipate. — Re dei Lestrigoni. V. Lestrigoni.
478. Antistene. — Principe della setta cinica discepolo di Socrate. Per assistere alle lezioni del suo maestro, egli ogni giorno traversava una distanza di cinque miglia italiane.
479. Antoreo. — Vedi Anthora.
480. Antron Corace. — Secondo gli scritti di Plutarco, sulla facciata di tutt’i tempii di Diana, vi erano delle corna di cervo. Solamente sulla porta del tempio ch’essa aveva sul monte Aventino, vi erano delle corna di bue ; e ciò, sempre seguendo il citato autore, a memoria di un fatto avvenuto sotto il regno di Servio Tullio.
Un abitante della Sabina per nome Antron orace, aveva una vacca bellissima che formava tutta la sua ricchezza. Un indovino predisse a Corace, che colui il quale avesse sul monte Aventino sagrificata a Diana quella vacca, procurerebbe alla sua città natale l’ impero su tutta l’ Italia. Corace, spinto d’amor patrio, recossi a Roma per sagrificare a Diana la sua vacca ; ma un ufficiale del re informo Servio Tullio della profezia, e allora il re d’accordo col pontefice, fecero sapere a Corace, onde trarlo in inganno, che prima di consumare il sacrifizio avesse dovuto lavarsi nelle acque del Tebro. Corace obbedì, e, mentre egli bagnavasi, il re fece rapire la vacca, la svenò sull’altare di Diana, ne affisse le corna alle porte del tempio, ed ebbe così tutto l’onore del sacrifizio.
481. Anubi. — Re degli Egizii che lo adoravano sotto la forma di un cane. Discorde è la opinione dei più rinomati scrittori mitologici su tale personaggio. Alcuni vogliono che fosse figlio di Osiride ; altri di Mercurio ; altri finalmente che fosse Mercurio stesso.
482. Anxuro. — Anxuyro e Axuro, parole che significano senza barba ; qualificazione sotto la quale Giove fanciullo veniva adorato nella Campania e soprattutto nella ciltà di Anxuro.
483. Anxuyro. — Vedi Anxuro.
484. Anzio. — In questa città della penisola italiana, erano gelosamente custodite alcune statue della fortuna, le quali, secondo la tradizione, si movevano e rispondevano a coloro che si recavano a consultarle.
485. Aone. — Figlio di Nettuno. Essendo stato obbligato di fuggire dalla sua patria, per ragioni che la favola non ripete, egli si stabili su di una montagna della Beozia, che da lui prese il suo nome. Coll’andare del tempo tutta la catena di montagne fu consacrata alle muse, e il gruppo intero fu detto Monti Aonidi. Ausonio le chiama Beolia Numina. Dalla Beozia in cui stavano queste montagne, fu poi detta Aonia tutta quella contrada.
486. Aonidi. — Soprannome dato alle muse da alcune montagne della Beozia. Vedi l’articolo precedente.
487. Aonio Dio. — Denominazione di Bacco perchè egli era della Beozia, chiamata anche Aonia. Veniva così detto anche Ercole per la stessa ragione.
488. Aorasia. — Voce greca significa invisibile, composta dall’α privativa e dal verbo αραω io vedo. Presso i pagani era generale credenza che allorquando gli Dei discendevano sulla terra non mostrassero mai agli uomini il loro volto, ma si facessero conoscer solo alle spalle nel momento di partire. Così in Virgilio allorchè Venere si presenta ad Enea, suo figlio, in {p. 39}sembianza di cacciatrice, l’erce non la riconosce che quando essa nel partire gli volge le spalle.
…… nel partir la neve e l’oro,E le rose del collo e de le chiome,Come l’aura movea, divina luceE divino spirar d’ambrosia odore ;E la veste, che dianzi era succinta,Con tanta maestà le si disteseInfino a’ piè, che a l’andar anco, e Dea.Veracemente e Venere mostrossi.Virgilio. Eneide Lib. I. trad. di A. Caro.
Similmente Omero dopo d’aver fatto parlar Nettuno coi due Ajaci, sotto la figura dell’indovino Calcante, lo fa riconoscere da uno di essi.
……….. Agevolmente.Si riconosce un nume, ed io da tergoLui conobbi all’incesso appunto in quellaChe si partiva, e me l’avvisa il coreChe di battaglia più che mai bramosoMi ferve in petto si che mani e piediBrillar mi sento del disio la pugnaOmero — Iliade. Cant. 13. trad. di V. Monti.
A proposito di questo articolo, richiameremo l’attenzione dei nostri lettori su quanto dicemmo nello Studio preliminare sulla mitologia, che precede questo risiretto. Il senso rinchiuso nella parola Aorasia (invisibile) adoperata dai pagani ad esprimere, come vedemmo dalle citazioni dei classici, la maniera con la quale gli Dei si palesavano talvolta agli uomini, è uno di quei simboli che nello studio preliminare di sopra accennato, noi abbiam detto essere, più che proprii del paganesimo, fusi in esso da simboli e da allegorie individuali di altre religioni. Infatti, nelle sacre pagine della Bibbia, noi troviamo che quando Iddio si rivela a Mosè gli dice : Tu mi vedrai per di dietro, ma tu non puoi veder la mia faccia.
489. Apatuarie. — L’istituzione di queste feste ha origine dal fatto seguente. A cagione di un territorio, i popoli della Beozia dichiararono la guerra agli Ateniesi, e Xanto, re di quelli, dichiarò a Timete re di Atene, che ad evitare spargimento di sangue voleva avesse accettato un particolare duello, ma Timete respinse la proposta, e allora gli Ateniesi proclamarono re un loro concittadino a nome Melanto, che accettò la sfida del re dei Beozii. Melanto trionfò con un’astuzia del suo nemico, poichè nel momento di affrontarlo, fingendo di vederlo accompagnato, gli gridò non esser azione da valoroso l’andarsi a battere seguito dai suoi. Alle inattese parole, Xanto rivolse il capo per vedere chi lo seguisse, e Melanto allora gli immerse il brando nella nuca. Da questo fatto l’istituzione delle feste dette Apatuarie dalla parole greca απαη che significa inganno.
Il periodo delle feste Apatuarie durava tre giorni ; nel primo di essi si celebrava il festino ; nel secondo si offeriva il sacrifizio agli Dei ; nel terzo si classificavano tutte le giovani persone che dalla propria tribù venivano ad Atene per essere ricevute alla festa, le quali non potevano essere accolte a far parte della cerimonia Apatuaria se non quando il padre rispettivo di ognuna di esse, non avesse proclamato con giuramento, che il novello ascritto era suo figlio. Sino al compimento di codesta formola i nuovi ascritti venivan riguarda ti come privi di padre. Da ciò, secondo altri scrittori, il nome di Apatuarie a queste feste, forse dalla parola greca απατορες che significa senza padre.
Senofonte dà un’origine diversa a questa festa, e Strabono parla d’un tempio consacrato a Venere Apatuaria.
490. Apefanzio. — Soprannome di Giove a lui dato dalla montagna Apefae nella Nemea, che gli era consacrata.
491. Api. V. Apis.
492. Apis. V. Apiso.
493. Apiso o Apis. — Figlio di Niobe. Essendosi impadronito dell’ Egitto, governò quel popolo con tale dolcezza che fu ritenuto come nn Dio. Veniva adorato sotto la figura di un bue, credendosi generalmente ch’egli avesse preso quella forma allorchè tutti gli Dei furono vinti da Giove. Si chiamava anche Osiride e Serapide. Gli Egiziani riguardavano il Dio Apis come Osiride stesso.
Il bue sotto la cui figura veniva Apis venerato in tutto l’ Egitto, doveva essere di color nero, con un segno bianco di forma quadrata sulla fronte ; i peli della coda doppii e corti, ed un segno bianco sul lato destro, in figura di luna crescente.
Allorquando i sacerdoti consacrati al culto del dio Api, scoprivano un toro che aveva se non tutti, almeno buon numero dei requisiti voluti per rappresentare il dio Apis, prima di condurlo a Memfi veniva, per lo spazio di 40 giorni, segretamente nutrito da alcune donne a cui solo era permesso di avvicinare il dio, e che lo accostavano sempre quasi nude e con atti sconc ed indecenti. Terminati i 40 giorni il fortunato animale veniva posto in una barca dorata, e condotto traversando il Nilo nella città di Memfi. Quiva veniva guidato nel tempio d’ Osiride ove erano fabbricate due ricchissime e superbe stalle ; in una delle quali rimaneva sempre rinchiuso non facendolo uscire che molto di rado, lasciandolo allora per poche ore in un prato attiguo al tempio ove dimorava il dio Apis, e permettendo in {p. 40}questi rari periodi la sua vista ai forestieri. Nelle feste e solennità proprie degli Egiziani, il sacro animale veniva nel suo giro per la città scortato da tutti gli ufficiali e dignitari del regno, e preceduto da un numeroso coro di fanciulle, che cantavano inni in sua lode.
Ma l’occasione in cui si addimostrava più palesemente il culto superstizioso che gli Egizii avevano per il dio Apis, era quando il bue che lo rappresentava doveva morire, essendo la sua vita limitata ad un dato numero di anni, secondo i libri sacri dell’antico Egitto. Giunto il fine del periodo degli anni che il bue dovea vivere, i sacerdoti consacrati al suo culto in gran pompa e con tutte le cerimonie che la superstizione imponeva, lo guidavano sulle rive del Nilo, e quivi dopo averlo annegato, lo imbalsamavano seguendo alla lettera i numerosi articoli di un loro sacro cerimoniale ; poscia faceanglisi magnifici e solenni esequie per le quali veniva profusa una larghissima somma di danaro.
L’ Egitto intero era in lutto come se fosse morto lo stesso Osiride, e tutte le città Egiziane, rimanevano nella più profonda mestizia finchè fosse comparso il novello successore. Allora la gioia rinasceva come se fosse risorto il morto dio, e la festa durava sette giorni. Gli Egiziani consultavano l’oracolo di Apis e ritenevano come segno di favorevole risposta quando il bue mangiava ciò che essi gli presentavano, prima d’interrogare il suo oracolo. Nelle opere di Plinio troviamo che il bue Apis, non volle mangiare le offerte del principe Germanico, e che questi morì pochi giorni dopo. Finalmente coloro che si recavano a consultarlo, avvicinavano le orecchie alla bocca del dio, e uscivano poi dal tempio tenendole accuratamente otturate, fino all’uscita del tempio, e quivi nella prima cosa che veniva lor fatta di udire trovavano la risposta di Apis.
494. Apobomie. — Feste nelle quali i sacrificii non venivano consumati sugli altari ma sul suolo. Il vocabolo deriva dal Greco απο sotto, disotto, lontano e βωμος allare.
495. Apollo. — Figlio di Giove e di Latona e fratello di Diana. Egli guidava il carro del sole tirato da quattro cavalli bianchi e allora si denominava Febo, e Apollo quando abitava la terra.
Era il dio della Poesia, della Musica e delle Arti. Capo delle nove muse, abitava con esse il monte Parnaso, l’ Elicona e le rive del fiume Ippocreno, ove pasceva il cavallo Pegaso, o Pegaseo, che gli serviva di montura. Giove avendo fulminato Esculapio che aveva risuscitato Ippolito, Apollo uccise i Ciclopi che avevano fabqricato i fulmini al padre degli Dei, il quale sdegnato contro di lui lo scacciò dal cielo. Durante questo esilio, egli si ritirò presso Admeto, re di Tessaglia, e visse custodendo gli armenti di quel re, finchè Mercurio glieli rubò. Allora si unì a Nettuno nella fabbricazione dei mattoni di cui si serviva Laomedone, per riedificare Troia, e dopo aver lungamente lavorato non fu retribuito d’alcuna ricompensa.
Allorchè le acque del diluvio di Deucalione si furono ritirate, Apollo uccise il serpente Pitone, che nato dal fango che esse aveano lasciato, devastava le circostanti campagne. La pelle del mostro servì ad Apollo per ricoprire il tripode sul quale la Pitonessa rendeva gli oracoli. Il famoso tempio di Delfo, il più ricco e rinomato fra tutti, e che era una delle sette maraviglie del mondo, era consacrato a questo nume come dio delle Arti. Apollo ebbe molte amanti, fra le quali le più ricordate furono Leucotea, Dafne e Clitia. Lo sparviero, il gallo e l’olivo erano consacrati al Apollo, perchè fra i mortali uomini e donne che ebbero contatto con lui, molti furono cangiati in albero d’olivo, ed altri in gallo o sparviero. Apollo viene rappresentato avendo in una mano una lira, circondato di varii strumenti d’arte e su di un carro tirato da quattro cavalli. — Ecco in qual modo Virgilio descrive la maestà di questo Dio.
Qual se ne va da Licia, e da le riveDi Xanto, ove soggiorna il freddo inverno,A la materna Delo il biondo Apollo,Allor che festeggiando accolti o mistiInfra gii altari i Driopi, i Cretesi.E i dipinti Agatirsi in varie trescheGli s’aggiran d’intorno, o quando spaziaPer le piagge di Cento a l’aura sparsiI bel crin d’oro, e de l’amata frondeLe tempie avvolto, e di feretra armato.Virgilio — Eneide — libro IV trad. di A. Caro.
496. Apollonie. — Feste in onore di Apollo.
497. Apomio. — Soprannome di Giove che gli veniva dal potere a lui attribuito sulle mosche e sugli altri insetti.
498. Apona. — Fontana in Italia presso la città di Padova. Si attribuiva alle sue acque il potere della divinazione.
499. Aporrina. — V. Adporina.
500. Apostrophia. — S’invocava Venere sotto questo nome, allorchè le si domandava la grazia di essere liberati da una passione d’amore.
501. Aposteosi. — Nome della cerimonia colla quale i Romani annoveravano fra gli Dei i loro imperadori dopo la morte.
502. Apostropheni. — Si chiamavano così gli Dei Egiziani, a cui si domandava la grazia di stornare una calamità.
{p. 41}503. Apparizione degli Dei. — V. Aorosia e Teopsia.
504. Appiadi. — Dice Cicerone esser questo il soprannome di Minerva e di Venere, perchè esse avevano un tempio presso le acque Appie in Roma.
505. Aquila. — La tradizione mitologica narra che avendo un’aquila portato a Giove l’ambrosia durante la sua infanzia, il padre degli Dei avesse collocato fra gli astri quest’uccello in segno della sua riconoscenza. L’aquila era una delle insegne particolari di Giove, ed era esclusivamente a lui consacrata.
506. Aquilone. — Vento estremamente freddo ed impetuoso. La favola lo fa figlio di Eolo e di Aurora, e lo dipinge con la coda di serpente e i capelli lunghissimi e bianchi.
507. Arabo. — Figlio di Apollo che alcuni scrittori riguardano come inventore della medicina. È questa una credenza assai vaga.
508. Aracinta. — Montagna della Beozia consacrata a Minerva.
509. Aracne. — Figlia di Idmone e nativa della Lidia. Ella fu un’abilissima ricamatrice, e osò un giorno sfidare Minerva a chi avrebbe meglio ricamato una ricchissima tela. La Dea accettò la disfida, ma vedendo che il lavoro della sua rivale, sarebbe riuscito migliore del suo, sdegnatasi ruppe il telaio. Aracne fu così afflitta di ciò, che per disperazione appiccossi, e Minerva la cangiò in ragno.
O folle Aracne si vedea lo teGià mezza ragna, trista in su gli stracciDell’opera che mal per te si fè.Dante. — Purg. C. XII.
…… Un nuovo corpo informa, e prendi,E vivi venenosa, e tessi e pendi.Appena quel velen sopra le sparse,Che tolse al corpo il grande, il duro e’ l greve :Con picciol capo, e ventre a un tratto apparseUn animal lanuginoso e breve :Un sottil piè venne ogni dito a farse,Che pende al retto resuplno, e leve ;Dal picciol corpo il lin rende e lo stame,Ed incatena ancor l’antiche trame.Ovidio. — Metamorfosi. — Libro VI. trad. di Dell’ Anguillara.
510. Aratee. — Feste in onore di Arabo, il quale, secondo Plutarco, fu un eroe greco che dopo la morte venne annoverato fra gli Dei per le gloriose imprese compiute durante la vita.
511. Arbitratore o Arbitro. — Soprannome di Giove ritenuto come arbitro del destino degli uomini.
512. Arbitro. — V. Arbitratore.
513. Arbori. — Presso i Pagani erano ritenuti come sacri diversi arbori, perchè venivano in special modo consacrati ad una divinità ; così, per esempio, il mirto ed il lauro a Venere ed Apollo ; l’ulivo a Minerva ; l’adianto (comunemente detto Capelvenere) a Proserpina ; il cipresso a Plutarco ; la vite e il pampino a Bacco ; il pioppo ad Ercole ; il platano ai Genii ; il frassino e la gramigna a Marte ; la palma alle Muse ; l’olmo a Narciso ; il ginepro all’ Eumenidi etc.
514. Arcade. — Figlio di Giove e di Calisto. Dette il suo nome all’ Arcadia che è la contrada più rinomata di tutta la Grecia per le favole a cui dette vita. Il dio Pane vi era venerato con culto particolare, perchè generalmente si credeva che egli non abbandonasse mai il recinto di quella città. Arcade essendo divenuto adulto fu da alcuni cacciatori presentato a suo avolo Licaone, il quale lo ricevette molto benevolmente, ma poi fece uccidere Arcade e in un banchetto in onore di Giove fece apprestare in una vivanda le membra di lui. Giove sdegnato di così orrendo misfatto, cangiò Licaone in lupo e Arcade in orso, collocando quest’ultimo in cielo presso la madre, ove forma tuttora la costellazione conosciuta sotto il nome di orsa maggiore.
Evandro ebbe anche un figlio chiamato Arcade. Con tale denominazione veniva del paro designato Mercurio, perchè fu allevato sulla montagna di Cillene in Arcadia. Plinio chiama similmeute con tal nome un figliuolo di Licurgo conosciuto più comunemente sotto il nome di Anceo.
515. Arcadia. — Parte del Peloponneso i cui abitanti si resero celebri per il loro amore alla poesia ed alla musica.
516. Arcesilao. — Uno dei capi della Beozia che assediarono Troia.
517. Arcesio. — Figlio di Giove e padre di Laerte.
518. Archegete. — Parola che significa principe. E soprannome dato ad Apollo e ad Ercole. Si dava anche quello di Archegesia a Minerva.
519. Archemore. — Figlio di Licurgo, re di Nemea. Quand’era bambino la sua nutrice lo lasciò addormentato sopra una pianta di prezzemolo, mentre essa si recò a mostrare una fontana ai principi che traversavano quella città, per recarsi all’assedio di Tebe. Il piccolo Archemore morì della morsicatura di un serpente che trovandolo assopito fra l’erba ne succhiò il sangue. Licurgo volle punire di morte la negligente nutrice, ma gli Argivi la tolsero sotto la loro protezione. In memoria di questo doloroso avvenimento furono istituiti i giuochi Nemei, i quali si celebravano di tre in tre anni {p. 42}I vincitori vestivano il bruno e si coronavano la fronte di prezzemolo.
520. Archigallo. — Veniva così denominato il primo sacerdote di Cibele il quale era scelto fra le più cospicue ed illustri famiglie. L’archigallo vestiva come una donna, con una tonaca ed un mantello che gli scendevano sino ai piedi : portava il capo coperto da un berretto frigio, e al collo un vezzo a cui erano attaccate medaglie rappresentanti la testa di Ati senza barba.
521. Archiloco. — Poeta greco a cui si attribuisce l’invenzione dei versi dette jambici o giambici.
Archilocum proprio rabies armavit jambo.
Orazio — Arte Poetica Ep. 3.
Archiloco dovea sposare Neobula figlia di Licambo, ma questi non curando la data promessa, concesse sua figlia in moglie ad un altro. Allora Archiloco scrisse dei versi contro il padre della sua amata, così satiricamente mordaci che Licambo si appiccò per disperazione. Qualche tempo dopo Archiloco fu ucciso. Si credè generalmente che l’oracolo di Delfo avesse altamente biasimati gli uccisori del poeta per la stima che tutti facevano del suo genio. Egli nacque nell’isola di Paro.
522. Archita. — Nome sotto il quale gli Afri adoravano Venere.
523. Arciteneno. — Nome col quale i poeti denotavano talvolta Apollo. Più comunemente si dava questo nome al centauro Chirone, rappresentato nei segni dello Zodiaco, sotto la figura del sagettario.
524. Arctura. — Quantunque sia questo il nome proprio di una stella, pure gli scrittori del Paganesimo se ne servono per dinotare la castellazione dell’ Orsa.
525. Arculo. — Dalle parole latine arx e arca, i Romani davano questo nome al dio destinato nel loro culto a presiedere alle piccole città ed agli armadi.
526. Ardalidi. — Soprannome dato alle Muse da Ardalo figlio di Vulcano, a cui si attribuisce l’invenzione del flauto.
527. Ardea. — Città del Lazio edificata da Danao. Ovidio dice che essa fu consumata dalle flamme e cangiata in quell’uccello chiamato Airone che in latino si dice Ardea.
528. Ardenna. — Soprannome di Diana che le veniva da una foresta delle Gallie chiamata anche oggi Ardenna e che era a lei consacrata.
529. Areo. — I poeti dell’antichità danno questo nome a tutt’i famosi guerrieri ritenendoli come figliuoli di Marte.
530. Areopago. — Famoso tribunale d’Atene. Questa parola deriva dalla voce Ares, che era un soprannome di Marte, perchè la favola racconta che fu appunto in quel luogo, che Marte essendo stato citato in giudizio innanzi a dodici numi fu rimandato assoluto del delitto di omicidio di cui era accusato. Vedi Allirozio.
È opinione di alcuni scrittori che la prima sentenza dell’ Areopago, fosse contro Cefalo, per avere ucciso sua moglie. Temistocle, accusato di adulterio, fu giudicato dall’ Areopago.
Finalmente è credenza assai generalizzata fra gli scrittori della favola, che l’ Areopago sorgesse nel posto ove era il campo delle Amazzoni quando esse mossero guerra a Teseo.
531. Areotopoto. — Che significa gran bevitore di vino. Ateneo, nelle sue cronache mitologiche, rapporta che nella città di Munichia si dava questo nome ad un eroe.
532. Areso. — Nome che i Greci davano a Marte perchè in quella lingua significa ferita.
533. Arestoridi. — Argo e tutt’i discendenti di Aristoro, venivano designati con questo nome.
534. Areta. — Moglie di Alcinoo re dei Proci.
535. Aretusa. — Figlia di Nereo e di Dori e compagna di Diana, che questa Dea cangiò in fontana allorchè Alfeo la perseguitava del suo amore impudico : però Alfeo avendola riconosciuta riprese la sua figura di flume e confuse le sue acque con quelle della fontana Aretusa.
Ei cerca e non si parte, perchè vedeChe più lunge il mio piè stampa non forma,Ed io fra la fatica che mi diedeIl formar si veloce in terra l’orma ;E fra il timor che mi tormenta e fiede,Veggio che in umor freddo si trasformaLa carne, il sangue e l’ossa e l’auree chiome,E non mi resta salvo altro che il nome.Come son le mie membra in acqua sparseConosce l’onde amate il caldo Dio ;E la forma che avea quando m’apparseDell’uom pensa cangiar nel proprio rio,Per poter meco alcun diletto darse,E mescer l’acque sue nel fonte mio :E secondo il pensier si cangia e fondeNovella noia alle mie vergin’ondeOvidioMetamorfosi L. V. trad. Dell’ Anguillara.
Vi fu un’altra Aretusa, fontana posta nell’isola d’Ortigia, che chiudeva il palagio degli antichi re di Siracusa. Cicerone dice che se questa fontana non fosse circondata da una triplice trinciera di pietre, sarebbe affatto coperta dai flutti del mare. Molti altri scrittori e Plinio fra questi, ritenevano che il fiume Alfeo nell’ Arcadia, seguendo il suo corso sottomarino venisse a spuntare sulle rive della Sicilia, ed asserivano che tutto ciò che si gettava nell’ Alfeo si ritrovava dopo qualche tempo nelle tranquille onde della {p. 43}fontana Aretusa. Ad avvalorare questa falsa credenza che Strabono combatte e nega nelle sue opere ; lo stesso Plinio racconta che le acque dell’ Aretusa esalavano un odore di letame nel tempo in cui in Grecia si celebravano i giuochi olimpici, e che ciò avveniva appunto perchè il fiume Alfeo, traversando nel suo corso la Grecia raccoglieva nelle sue acque, prima di giungere in Sicilia e per conseguenza prima di gettarsi nell’ Aretusa, il letame dei cavalli e delle vittime preparate per la celebrazione di quei giuochi.
536. Areuso. — Parola che significa guerriero. Era il soprannome dato a Giove, come si dava quello di Areusa a Minerva.
537. Arfinoe. — Vedi Alfesibea.
538. Arga. — Vedi Argea.
539. Argantona. — Moglie di un guerriero che fu ucciso all’assedio di Troia. Essa nel ricevere l’infausta nuova morì di dolore.
540. Arge. — Figlia di Giove e di Giunone e sorella di Ebe e di Vulcano. Fu il frutto degli amori che Giove ebbe con la propria moglie Giunone, quando per averne gli amplessi, che ella gli negava mossa da gelosia, si trasformò in cuculo.
541. Argea o Arga. — Ninfa che il sole cangiò in biscia. Era anche così chiamata una delle figliuole di Giove.
La tradizione mitologica racconta che il nome di Argea veniva similmente dato ad una festa celebrata dalle Vestali ogni anno negli idi di maggio. Quelle sacerdotesse in una cerimonia di quella festa, gittavano nel Tebro alcune figure di uomini, fatte di giunchi. Al dire di Plutarco, i primi abitatori delle rive di quel fiume, annegavano in esso tutt’i viaggiatori greci che cadevano in loro mano ; ma che poi Ercole persuadesse loro di smettere la barbara usanza e gittare delle figure di uomini. Ovidio nei suoi Fasti, attribuisee ad un’altra origine la istituzione della festa Argea. Esso racconta che Evandro d’ Arcadia, nemico degli Argiani, in commemorazione del suo odio contro di essi, quando venne a stabilirsi in Italia, ordinò ai suoi seguaci di gittare nel Tebro dei fantocci fatti di giunco e abbigliati alla maniera degli Argiani.
542. Argel. — Venivano così detti alcuni luoghi della città di Roma che Numa Pompilio avea consacrati ai Numi.
Argei erano del paro dette alcune figure di uomo fatte di giunchi che le Vestali gettavano nel Tevere alla celebrazione di alcune sacre cerimonie. Vedi Argea.
543. Argentino. — Dio delle monete d’argento. Era figlio di Esculano e della dea Pecunia. Vedi Es.
544. Argeo. — Figlio di Pelopo. Ve ne fu anche un altro seguace ed amico di Ercole che egli ebbe carissimo.
545. Argesio. — Fu il nome di uno dei ciclopi fabbricante dei fulmini di Giove.
546. Argia. — Figlia di Adrasto e moglie di Polinice.
…….. Io son d’ AdrastoFiglia : sposa son io di Polinice :Argia ………….Alfieri. Tragedia Antigone Atto 2.
Quando suo marito morì, essa insieme alla sorella Antigone, prese il cadavere per rendergli gli ultimi onori, questo irritò siffattamente Creonte, che, cieco di furore, le uccise tutt’e due. Argia fu cangiata in fontana, nota sotto l’istesso nome.
547. Argianna o Argolica. — Soprannome di Giunone, da un tempio che ella aveva nella città di Argo.
548. Argifonte. — Soprannome dato a Mercurio come uccisore di Argo.
549. Argilete. — Allor che Evandro si stabili in Italia, vi fu cortesemente ospitato da certo Argo, il quale ben presto concepì l’infame disegno di ucciderlo, per usurpare il potere. I seguaci di Evandro, consci dell’iniquo progetto, uccisero Argo all’insaputa di Evandro, il quale per rispetto ai sacri doveri dell’ospitalità fece fare i funerali allo scellerato, e gli fece elevare una tomba, che da lui fu detta Argilete.
550. Arginide. — Il re Agamennone fece fabbricare un tempio a Venere, sotto il nome di Venere Arginide, e da allora questo soprannome rimase alla Dea degli amori.
551. Arginno. — Nome di un giovane greco, che si annegò bagnandosi. Narra Properzio che il Re Agamennone, che lo aveva assai caro, fece fabbricare un tempio in suo onore, e lo consacrò a Venere Arginna.
552. Argiope. — Nome di una ninfa seguace di Diana.
553. Argira. — Ninfa di Tessaglia, fu moglie di Seleno, il quale ella amò teneramente, in ricambio dell’affetto con cui questo l’aveva cara. Essendo Argira vicino a morire, Seleno ne fu così afflitto, che fu prossimo anch’egli a perdere la vita pel gran dolore. Venere, mossa a pietà, cangiò uno in fiume, e l’altra in fontana. Però Seleno dimenticò Argira, e da quel tempo le acque di quel fiume ebbero la virtù di dare l’obblio delle passioni d’amore a coloro che vi si bagnavano o che ne bevevano.
554. Argiva. — Soprannome di Giunone dal culto che ella aveva nella città di Arga.
555. Argo. — Naviglio degli Argonauti sul quale Giasone con gli altri principi greci, mosse {p. 44}alla conquista del vello d’oro. Si crede generalmente che fosse questo il primo vascello che avesse solcato le onde. Questo nome gli viene dal suo costruttore che lo inventò e lo costruì con gli alberi della foresta di Dodona, ciò che gli faceva anche attribuire la favolosa virtù di parlare e di rendere gli oracoli. Peraltro è questa un’opinione assai poco generalizzata fra gli scrittori.
Argo si chiamava del paro una città dell’ Acaja, celebre per il culto di Giunone e per gli eroi di cui fu patria. Dal nome di questa città è venuto non solamente ai suoi abitanti in particolare, ma a tutt’i greci in generale il nome di Argivi o Argolici col quale Virgilio e molti altri poeti li dinotano sovente.
Vi fu anche un altro Argo, figliuolo di Arestore. La tradizione favolosa attribuisce a cotesto personaggio la strana facoltà di avere cento occhi, dei quali cinquanta erano sempre aperti, e gli altri cinquanta chiusi dal sonno. Giunone gli aflidò la custodia della ninfa lo, che Giove avea cangiata in giovenca. Ma Mercurio col suono dolcissimo del suo flauto, addormentò il guardiano e l’uccise. Giunone allora lo cangiò in paone.
Argo avea nome il lucido pastore.Che le cose vedea per cento porte.Gli occhi in giro dormian le debite ore,E due per volta avean le luci morte :Gli altri, spargendo il lor chiaro splendore,Tra lor divisi fean diverse scorte :Ovidio — Metamorf, Libro I. trad. di Dell’ Anguillara.
Un altro Argo fu famoso architetto figlio di Polibio ; generalmente è lo stesso che inventò il naviglio che prese il suo nome.
Finalmente la tradizione mitologica fa menzione di un Argo, figlio di Giove, e di Niobe, che fu re della contrada chiamata col suo nome, ed il primo che coltivò le terre della Grecia.
556. Argolea. — Soprannome dato ad Alcmena per essere nativa di Argo.
557. Argolica. Vedi Argianna.
558. Argonauti. — Furono così detti quei principi greci che sotto il comando di Giasone andarono alla conquista del vello d’oro, sulla nave chiamata Argo. I più famosi furono : Castore, Polluce, Telamone, Orfeo, Ercole, Teseo, Euridamo, Tifiso, Zeto etc.
Gli Argonauti s’imbarcarono nella Tessaglia al capo di Magnesia, e dopo aver toccato l’isola di Lemnos per la Samotracia, entrarono nell’ Ellesponto e dopo aver costeggiata l’ Asia Minore, traversato il Ponto Eusino, entrarono pel distretto delle Simplegadi in Aea, capitale della Colchide. La spedizione degli Argonauti avvenne 35 anni prima della caduta di Troia.
559. Argone. — Figlio di Alceo : fu uno degli Eraclidi discendenti di Ercole.
560. Argoreo. — Dal latino Argoreus, che significa Dio della mercatura, fu dato questo soprannome a Mercurio. In Acaia nella città di Tare, vi era, al dire di Pausania, una statua di Mercurio Argoreo, la quale dava responsi come un oracolo. Essa era in marmo, di media grandezza e senza piedestallo.
561. Aria. — Gli antichi ne avevano fatto una divinità ch’essi adoravano secondo differenti rapporti sotto i nomi di Giunone, Giove, Minerva etc.
Presso gli Arabi e gli Assiri era la Venere celeste.
562. Ariadne. — V. Arianna.
563. Ariadnee. — V. Ariannee.
564. Arianna o Ariadne. — Figlia di Minos re di Creta. Ella fu così commossa dalla bellezza e gioventù di Teseo, il quale dovea combattere il Minotauro, nel famoso laberinto di quella città, che gli dette un gomitolo di filo per mezzo del quale l’eroe potè ritrovare l’inestricabile uscita del labirinto, dopo avere ucciso il mostro. Arianna fuggì allora con Teseo, ma questi l’abbandonò su d’una roccia nell’isola di Naxos, dove la sventurata dopo aver pianto amaramente la sua disgrazia, si fece sacerdotessa di Bacco il quale, secondo che narrano Properzio ed Ovidio, la tolse in moglie e collocò fra le costellazioni la corona di questa principessa.
Dello Dio sempre giovane s’accende.E dell’amor si scorda di Tesèo.La sposa Bacco, e ascoso il maggior lume.Felici fa di lei le proprie piume.Per contentarla più Bacco poi volseFar sempre il nome suo splender nel cielo,E l’aurea sua corona al bel crin tolse ;Ed a farla immortal rivoltò il zelo :Al ciel ver quella parte il braccio sciolseOnde settentrion n’apporta il gelo ;Prese al ciel la corona il volo, e corseVer dove Arturo fa la guardia all’ Orse.L’aurea corona al ciel più ognor si spingeE di lume maggior sè stessa informa ;E giunta presso a quel che ’l serpe stringe ;Ogni sua gemma in foco si trasformaUn fregio pien di stelle or la dipinge,E di corona ancor ritien la forma :Laddove quando il sol la notte appanna,La vede il mondo e chiama d’ Arianna.(Ovidio. — Metamorfosi. — Libro VIII trad. di Dell’ Anguillara)
565. Ariannee o Ariadnee. — Feste in onore di Arianna.
566. Aricia. — Figlia di Pallante ; principessa del regio sangue di Atene.
{p. 45}567. Arieina. — Soprannome di Diana che le veniva dal culto con cui era venerata nelle foreste di Aricia presso Roma.
568. Ariete. — Il primo fra i dodici segni dello zodiaco. Questo animale era consacrato a Mercurio ed a Cibele.
569. Arimane. — Dio adorato dai Persiani. Si crede generalmente che come Plutone fosse il dio delle Tenebre.
570. Arimomanzia. — Vedi Axinomanzia.
571. Ario. — Fu il nome di uno dei più famosi centauri che combatterono i Lapidi.
572. Arione. — Celebre musico Greco. Stando nn giorno su di un vascello i marinai vollero ucciderlo per derubarlo, e già lo avevano legato per farlo morire ; quand’egli chiese in grazia di suonare un’ultima volta il liuto. I marinai aderirono alla sua richiesta e al suono dolcissimo un gran numero di delfini si riunì intorno alla nave ; allora Arione d’un salto si gettò in mare e fu salvato da quegli animali che sul loro dorso lo portarono a terra. Arione fu ospitato da Periandro il quale fece poi morire quasi tutt’i persecutori di lui come racconta Erodoto — Virgilio dice :
Orpheus in sylvis inter Delphinos Arion.
(Virgilio. — Ecl. V. — r. 56.)
Arione fu pure il nome del cavallo che Nettuno fece sorgere dalla terra con un colpo del suo tridente, allorchè sostenne con Minerva la disputa a chi di loro due avesse fatto il più ricco presente agli uomini.
573. Aristene. — Secondo Pausania così eb be nome quel pastore che trovò Esculapio fanciullo allorchè la madre Coronide lo aveva abbandonato su di una montagna presso la città di Epidauro.
574. Aristeo. — Figlio di Apollo e di Cirene. Egli amò perdutamente Euridice, la quale nel sottrarsi con la fuga alle persecuzioni di lui, fu morsicata da un serpente e morì nell’istesso giorno in che dovea diventar moglie d’ Orfeo. Le ninfe allora sdegnate contro Aristeo per la sventura di cui era causa, uccisero tutte le sue Api. La madre di Aristeo consigliò il fi gliuolo di consultare Proteo da cui seppe che avrebbe dovuto placare l’ombra di Euridice facendo un sacrifizio di quattro giovenche e quattro tori. Egli segui il consiglio di Proteo e dalle viscere delle vittime, narra la favola che uscisse una quantità di Api. Ricorda Virgilio che Aristeo dopo la sua morte fu messo nel numero degli Dei e particolarmente venerato dai pastori.
575. Aristobula. — Uno dei soprannomi di Diana.
576. Aristone. — Nome di un citaredo Ateniese che vinse sei volte nei giuochi Pitii secondo, raccontano Plutarco e Strabone, nelle loro opere.
577. Aristore. — Padre di Argo e figlio di Crotopo.
578. Armata Venere. — Sotto questa denominazione i Lacedemoni adoravano Venere in memoria della vittoria che le loro donne avevano riportata sopra i Messeni.
579. Armifera Dea. — Cioè che porta le armi. Era così detta Minerva perchè la favola racconta che uscisse armata dal cervello di Giove.
580. Armilustre o Armilustria. — Presso i Romani al 19 di ottobre al campo di Marte, si celebrava una festa militare nella quale si offeriva un sacrifizio agli Dei, per la prosperità delle armi Romane. Durante la cerimonia coloro che vi prendevano parte, giravano armati intorno alla piazza al suono degli strumenti.
581. Armilustria. — V. Armilustre.
582. Armi-potente. — S’invocava Pallade con questo nome allorchè la si considerava come Dea della guerra.
583. Arna. — V. Arnea.
584. Arnea o Arna. — Giovane Ateniese la quale fu cangiata in civetta per aver voluto tradire la sua patria in favore di Ninos per avidità di danaro. Il simbolo racchiuso sotto l’allegoria mitologica è l’attrazione che questo uccello ha per l’argento.
585. Arno. — Fu il nome di un celebre indovino il quale fu ucciso nella città di Naupata, da un nipote di Ercole per nome Ippote, che lo avea creduto una spia dei nemici. Appena morto Arno un’orribile pestilenza distrusse gran parte del campo degli Eraclidi.
Consultato l’oracolo se ne ebbe in risposta esser quella la vendetta di Apollo, il quale facea per tal modo espiare la morte del suo indovino ; e che il flagello non sarebbe cessato se non quando si mandasse in esilio l’uccisore di Arno, e fossero stabiliti dei giuochi funebri in memoria di lui. Gli Eraclidi si affrettarono ad eseguire quanto imponeva l’oracolo, e la pestilenza cessò. Coll’andare del tempo le cerimonie funebri in onore di Arno divennero celebri nella città di Lacedemone, ove si celebrarono con gran pompa.
586. Arpa. — Istrumento musicale e sacro ad Apollo come dio della musica e della poesia.
587. Arpalice. — Nativa di Argo e figlia di Climeneo. Era ritenuta come la più bella giovanetta della sua città. La tradizione mitologica racconta di lei un truce fatto. La sua fatale bellezzà ispirò un incestuoso amore al padre, {p. 46}il quale ricusò ostinatamente di maritarla, ma finalmente acconsentendo alle preghiere di lei la lasciò partire col novello sposo. Però ben presto pentito della sua generosità, raggiunse gli sposi, uccise il genero e ricondusse in Argo sua figlia per esserne assoluto e solo padrone. Arpalice disperata non appena giunta in Argo uccise il suo minor fratello e lo apprestò in orribile pasto a Climeneo ; ma non potendo dopo la sua terribile vendetta sopportare l’infame passione che avea ispirato a suo padre, supplicò giorno e notte gli Dei che l’avessero tolta dal mondo, e i numi mossi a compassione la cangiarono in uccello. Climeneo allora non potendo sopravvivere alla perdita della sola donna che avesse amata, si tolse di propria mano la vita.
Arpalice era anche il nome di una figliuola d’ Arpalico re della Tracia, la quale secondo Igino fu fin dalla prima infanzia educata come un uomo al maneggio delle armi e a tutti gli esercizii del corpo. In un giorno di battaglia essa liberò il padre dalle mani dei suoi nemici, ponendo in fuga un drappello di quelli alla cui testa era Neoptolemo figliuolo di Achille. Poco tempo dopo essendosi ribellati i sudditi di Arpalico, questo re fu detronizzato, e mentre cercava uno scampo nella fuga, a cui aveva unica compagna la figlia, fu miseramente trucidato, e allora Arpalice si ritrasse nei boschi a viver vita da masnadiere.
I cronisti della mitologia raccontano che essa era così veloce al corso che nessuno potè raggiungerla mai se pure montato su d’un buon corridore. Finalmente dopo essere stata per lungo tempo il terrore delle campagne circostanti fu presa ed uccisa. Virgilio canta che Venere presentossi ad Enea suo figlio in sembianza di cacciatrice all’istesso modo come veniva rappresentata la celebre Arpalice inforcando un cavallo che correva più rapido delle onde dell’ Ebro.
In mezzo della selva una donzella,Ch’era sua madre, si com’era avantiChe madre fosse, incontro gli si fece.Donzella all’armi, a l’abito, al sembianteParea di Sparta, o quale in Tracia ArpaliceLeggiera e sciolta il dorso affaticandoDi fugace destrier l’ Ebro varcava.Virg. Eneide L. 1 trad. A.. Caro.
Finalmente vi fu un’altra Arpalice che mori di dolore nel vedersi disprezzata da Ifielo, che fu uno degli argonauti da lei passionatamente amato. Di questa Arpalice si tiene memoria come inventrice di un certo cantico a cui si dava lo stesso suo nome.
588. Arpedoforo. — Dalle due parole greche αρπε un furbo e φερω io porlo si dava codesto soprannome a Mercurio, forse in memoria della astuzia di cui si servì per uccidere Argo.
589. Arpie. — Giammai la vendetta degli Dei pensò, secondo la favola, più orrendi mostri di questi spaventevoli uccelli. Essi al dire di Virgilio, avevano volto umano, ma pallido come per famelica rabbia ; le mani armate di formidabili artigli, ed erano ingordi, insaziabili e succidi. Al dire d’ Esiodo, le Arpie furono figliuole di Taumaso e di Elettra ; altri scrittori dell’antichità danno loro per padre Nettuno e per madre la terra. Le Arpie erano in gran numero, sebbene il nome di sole sei o sette sia più comunemente conosciuto. Che le Arpie vivessero in frotta ce lo asserisce Virgilio ripetendo nell’ Eneide che esse si avventarono sulle navi Troiane e divorarono i viveri. L’ Alighieri ci ripete una bellissima descrizione delle Arpie, dicendo che esse predissero ai Troiani il triste fato della loro città.
Quivi le brutte Arpie lor nido fanno,Che cacciar delle Strofade i TroianiCon tristo anuunzio di futuro dannoAle hanno late, e colli e visi umani,Piè con artigli e pennoruto il gran ventre ;Fanno lamenti in su gli alberi strani.Dante Inf. C. XIII.
Le più famose Arpie furono Celeno nominata da Virgilio, Iside, Aejo ed Ocipete, e finalmente Alope più comunemente conosciuta sotto il nome di Achelope.
Presso i Pagani le Arpie erano riguardate come un flagello di cui Giove e Giunone si servivano per punire le colpe degli uomini o per vendicarsi d’alcuno di essi.
Fineo, re di Tracia, fu lungamente perseguitato dalle Arpie ; e gli Argonauti a cui egli era stato largo di cortesi accoglienze si offrirorono a liberarlo da quei mostri, ed infatti Zeto e Calaide, due degli Argonauti, i quali per esser figliuoli del vento Borea avevano le ali, diedero la caccia alle arpie e le perseguitarono fino nelle isole Strofadi, loro abitual residenza.
590. Arpocrate. — Divinità degli Egiziani presso i quali è ritenuto come figliuolo d’ Osiride e d’ Iside e Dio del silenzio, ond’è che la sua statua viene rappresentata con un dito alla bocca come insegnando di tacere.
Il simulacro di Arpocrate si ritrovava sulla soglia di tutt’i tempii pagani, volendo cosi indicare che col silenzio si doveano primamente onorare gli Dei. Gli antichi facevano comunemente incidere sui loro suggelli una figurina di {p. 47}Arpocrate, volendo così denotare esser sacro ed inviolabile il segreto delle lettere. Era consacrato ad Arpocrate il papavero come segno di fecondità, volendo così indicare essere il silenzio assai spesso fonte di bene ; come pure il persico era l’albero a lui sacro e vi sono non poche statue di Arpocrate che hanno un ramo di persico fra le mani. Plutarco ci dà una logica spiegazione di ciò, dicendo che le foglie del persico hanno la figura d’una lingua, ed il frutto quella di un cuore, volendo con ciò dimostrare l’allegoria racchiusa sotto il simbolo mitologico che, cioè, deve esservi tra il cuore e la lingua una perfetta armonia.
591. Arrichione. — Nome di un celebre Atleta.
592. Arripe. — Fu una delle ninfe seguaci di Diana, di cui la favola racconta che avendo un giorno incontrato in una foresta Imolo re di Lidia, questi restasse talmente preso dalla straordinaria bellezza di lei che la inseguì per lungo tempo e non la raggiunse che nel tempio stesso di Diana, ov’ella si rifuggì sperando di sottrarsi alle impudiche voglie del re. Ma la santità del luogo non fu scudo alla disgraziata giovanetta, poichè Imolo avendola raggiunta, la violentò ai piedi dell’ara. Arripe non seppe sopravvivere a così vergognoso oltraggio e si uccise. La favola racconta che Diana non lasciò impunita la morte della sua bellissima ninfa, e che a vendicarla facesse trasportare in aria da un toro il re Imolo, il quale precipitando da una sterminata altezza su di alcuni pali dalla punta acutissima mori fra i più atroci tormenti.
593. Arsace. — Re dei Parti, Ammiano Marcellino narra, nelle sue cronache, che dopo la sua morte fosse annoverato fra gli astri.
594. Arsinoe. — Figlia di Niocrone re di Cipro. Essa fu perdutamente amata da Arceofonte il quale morì di dolore non essendo riuscito a farsi amare da lei. Quando si fecero i funerali di Arceofonte, la spietata giovanetta assistette alla cerimonia funebre con una gelida indifferenza, del che sdegnata Venere la cangiò in pietra.
Arsinoe fu anche il nome di una figliuola di Tolomeo Lago, la quale sposò Tolomeo Filadelfo fratello del padre. Essa mori nel fiore della sua giovanezza, e il marito per eternarne nella posterità la memoria le fece innalzare un tempio. L’architetto Dinocrete erasi determinato ad edificare quel monumento in pietre di calamita onde le statue d’Arsinoe, che erano in ferro dorato, rimanessero sospese in aria. Plinio racconta che lo splendido disegno di Dinocrete, rimase incompiuto per la morte di lui e che solo la facciata del tempio fosse fabbricata con pietre di calamita.
Arsinoe fu similmente il nome di una città Egiziana posta sulle rive del lago Meris, i cui abitanti avevano un culto particolare pei coccodrilli, questi animali venivano nutriti con cura deligente e continua, e dopo la morte venivano imbalsamati e sepolti nei sotterranei del labirinto.
595. Arte. — Gli antichi ne avevano fatta una divinità. Ariano ci rapporta che i Gadarii avevano lo stesso culto per le arti e per la povertà, la quale veniva del paro deificata da essi riguardandola come madre delle invenzioni e delle arti.
596. Artemisia. — Nome della Sibilla Delfica, detta similmente Dafne.
Era anche uno dei soprannomi di Diana da alcune feste dette Artemisie istituite in onore di lei.
597. Arteride. — Una delle più strane tradizioni della mitologia Egiziana racconta che Arteride fosse figlia d’Iside e di Osiride, e che il suo concepimento avvenisse in modo affatto particolare e incredibile ; imperocchè il padre e la madre di lei, i quali erano stati concetti nello istesso alvo e nell’istesso momento si erano di già maritati nell’utero materno per modo che Iside nascendo era già gravida d’ Arteride.
598. Artimpasa. — Gli Sciti sotto questo nome adoravano Venere.
599. Artipoo. — Che significa piede leggiero. Omero così chiama Marte dio della guerra, forse per indicare la sveltezza di quel dio nella corsa e in tutti gli esercizi del corpo.
600. Arunticeo. — Avendo disprezzato le feste di Bacco, questo dio per punirlo lo costrinse a bere una così sproporzionata quantità di vino, sicchè egli in un accesso di follia stuprò sua figlia Medulina, dalla quale fu ucciso.
601. Aruspici. — Venivano così chiamati coloro che dall’esame delle viscere delle vittime immolate nei sacrificii predicevano l’avvenire.
602. Arvali. — Si dava cotesto nome a quei sacerdoti che facevano i sacrifizi detti Ambarvali. Questi sacerdoti erano al numero di dodici, venivano scelti fra le più illustri e cospicue famiglie di Roma, e venivano collettivamente denotati col nome di fratelli Arvali, la cui istituzione si deve a Romolo, il quale segnossi tra i primi a farre parte. Plinio li chiama arvirum sacerdotes, e narra nel modo seguente l’origine di questa istituzione. La nutrice di Romolo per nome Acca Laurenzia avea l’abito di offerire ogni anno nei campi un sacrifizio agli Dei facendosi accompagnare dai suoi dodici figliuoli. Qualche tempo dopo la fondazione di Roma, essendo morto uno dei figliuoli di Acca Laurenzia, Romolo per attestare il suo {p. 48}affetto alla sua nutrice si offrì ad occupare il posto del morto rimanendo per tal modo sempre a dodici il numero dei seguaci di Acca nell’offerta del sacrificio agli Dei.
603. Ascalafo. — La favola lo fa essere figlio del fiume Acheronte, e della notte. Fu lui che dichiarò aver Proserpina mangiato sette acini di una melograna nell’ Inferno ; ciò che fu causa che Proserpina non potette essere restituita a sua madre, quando questa andò a cercarla nei regni della morte, poichè Giove avea promesso a Cerere, che avrebbe avuto la figlia a condizione di non aver essa nulla mangiato nell’inferno. Cerere fu così indegnata contro Ascalafo, per la sua rivelazione, che gli gettò sul volto dell’acqua del fiume Flegetonte, e lo cangiò in gufo, uccello che poi Minerva prese sotto la sua protezione perchè Ascalafo l’avvertisse col suo grido di tutto ciò che avveniva la notte.
Fece del molle labbro un duro rostro.Curvo, e d’augel che viva della caccia :Fa che fra gli altri augei rassembra mostroLa grande, altera e stupefatta facciaNon move (avvezzo nell’infernal chiostro)Di giorno a volo mai l’inerti braccia,Si fece un gufo, e ancor suo grido è tale,Ch’ovunque il fa sentir, predice male.OvidioMetamorfosi libro V trad. Dell’ Anguillara.
Vi fu anche un altro Ascalafo, figlio di Marte che fu uno dei più rinomati guerrieri Greci, che assediarono Troia.
604. Ascalapo. — Uno dei capitani Greci che assediarono Troia, nativo d’ Orcomene nella Beozia. Egli rese famoso il suo nome per aver condotto seco più di trenta navi.
Dell’ Orcomèno Minïco gli eletti,Misti a quei d’ Aspledone, hanno a lor duciAscalopo e Jalmeno, ambo di MarteEgregia prole …….…… Eran di questiTrenta le navi che schierarsi al lido.Omero Iliade — Libro II trad. di Vinc. Monti
605. Ascanio. — Detto anche Julio fu l’unico figlio di Enea e di Creusa. Suo padre quand’egli era ancora bambino lo condusse con sè nel Lazio, ove egli divenuto adulto fondò, secondo Virgilio la città di Alba.
….. Ascanio, allor ch’eresseAlba la lunga ….Virg. — Eneide Lib. V. — trad. di A. caro.
606. Asclepiade. — È questo il nome di un Greco assai versato in medicina. Secondo che riferisce Apuleio nel IV libro dei suoi Fiori, e Plinio nelle sue storie, veniva attribuita ad Asclepiade la scoperta di medicare col vino.
Salvator Rosa nelle satire dice :
So che Asclepiade con un suo trombone I sordi medicava.
Sal. Rosa. La Musica sat. 1.
607. Asclepiadi. — Così erano dette alcune feste che in tutta la Grecia venivano celebrate in onore di Bacco e particolarmente in Epidauro, ove furono istituite le grandi Asclepiadi.
608. Asclepie. — Feste in onore di Esculapio.
609. Asclepio. — Uno dei soprannomi di Esculapio : da ciò le feste di cui nell’articolo precedente.
610. Ascolie. — Feste in onore di Bacco : si celebravano saltando con un piede in aria sulla pelle di un becco gonfiata e unta d’olio. La parola Ascolie deriva dal Greco ασϰος che significa un otro.
611. Ascra. — Città fabbricata ai piedi del monte Elicona da Ecalo nipote di Nettuno. Nell’antica letteratura si dà di sovente il nome di Ascreo al poeta Esiodo, perchè nativo di quella città. La favola racconta che il poeta fosse stato rapito dalle muse mentre custodiva un armento sul monte Elicona. Si dicevano invasi da furore Ascreo coloro che improvvisavano dei versi.
Che da furor Ascreo spinti, e commossi
S’odono ognor tanti poeti, e tanti…
Salv. Rosa La poesia Satira 2.
612. Asera. — Detto anche Aseroth idolo dei Cananei.
613. Asfalaja. — V. Sicurezza.
614. Asfalione. — Detto anche Asfalio, cioè tutelare, soprannome che veniva dato a Nettuno.
615. Asia. — Ninfa figlia dell’ Oceano e di Teti e moglie di Giapeto. Da lei prese il nome una delle quattro parti del mondo.
616. Asima. — Divinità adorata nella città di Emath.
617. Asino. — Presso i Pagani era l’animale consacrato a Priapo, avuto riguardo alla molta utilità di esso nei lavori di giardinaggio, essendo i giardini sacri a quel dio.
Abbia il vero, o Priapo, il luogo suo,Se gli asini a te sol son dedicati,Bisogna dir che il mondo d’oggi è tuo.Salvator. Rosa. La musica Satira 1.
Presso gli Egiziani l’asino era sacro a Tifone. Gli abitanti di Abidos, di Licopoli e di Busiride avevano in grande dispregio il suono della {p. 49}tromba trovando in esso qualche analogia con la voce dell’asino.
618. Asio. — Soprannome di Giove che gli veniva da una città di questo nome nell’isola di Creta dove era particolarmente venerato. Asio si chiamava anche uno dei fratelli di Ecuba.
619. Asopo. — Figlio dell’ Oceano e di Teti. Avendo Giove abusato di Egina figlia di Asopo, questi volle vendicarsene e muover guerra a Giove, il quale lo cangiò in fiume.
Era anche così nominato un altro fiume nella città di Acaia, egualmente detto Asopo da un figlio di Nettuno che aveva l’istesso nome.
620. Asporina. — V. Adporina.
621. Assabino. — Nome che gli Etiopi davano e Giove.
622. Assaraco. — Figlio di Troso ed avo di Anchise.
623. Assinomanzia. — V. Axinomanzia.
624. Assur. — V. Ansur.
625. Astaroth. — Divinità dei Sidonii. Veniva onorato sotto la forma di una giovenca o di un’agnella.
626. Asteria. — Figlia di Ceso. Essa fu cangiata in quaglia quando fuggiva le persecuzioni di Giove. In greco ορτυξ significa quaglia.
Vi fu anche un’altra Asteria da cui Bellerofonte ebbe un figlio.
627. Asterio. — Re di Creta e padre di Minos. Egli era soprannominato Tauro e rapì una giovinetta a nome Europa figlia del re di Fenicia. Di qui la favola che Giove trasformato in toro rapisse Europa.
628. Asterione. — Uno dei più rinomati Arganauti. Asterione fu anche il nome di un fiume nella città di Argo, a cui la favola attribuisce due figliuole a nome Porcinna ed Arcona, che furono tra le nutrici di Giunone. Nelle acque di questo fiume cresceva un’erba similmente detta Asterione, della quale s’inghirlandavano le statue della Giunone di Argo.
629. Asterodia. — Moglie di Endimione a cui dette gran numero di figli. Vi fu anche una ninfa conosciuta sotto questo nome.
630. Asterope. — Una delle Pleiadi.
631. Asteropeo. — Giovane guerriero che essendo venuto in soccorso dei Troiani fu ucciso da Achille quando questi riprese le armi per vendicare la morte di Patroclo.
…..Dal fianco alloraTrasse Achille la spada, e furibondoAssalse Asteropèo che invan dall’altaSponda si studia di sferrar d’ AchilleIl frassino : tre volte egli lo scosseColla robusta mano, e lui tre volteLa forza abbandonò. Mentre s’accingeAd incurvarlo colla quarta provaE spezzarlo, d’ Achille il folgoranteBrando il prevenne arrecator di morte.Lo percosse nell’epa all’ombelico ;N’andàr per terra gl’intestini ; in negraCaligine ravvolti ei chiuse i lumi,E spirò….Omero — Iliade Libro XXI, trad. di V.Monti.
632. Astiale. — Troiano che fu ucciso da Neaptolemo.
633. Astianasse. — Ancella di Elena, la quale fu non meno della sua padrona famosa per la corruzione dei suoi costumi.
634. Astianatte. — Unico figlio di Ettore e di Andromaca.
…..il pargolettoUnico figlio dell’eroe Troiano,Bambin leggiadro come stella. Il padreScamandrio lo nomava, il vulgo tuttoAstianatte, perchè il padre el soloEra dell’alta Troia il difensore.Omero — Iliade L. VI. trad. di V. Monti.
Questo giovane principe dopo la presa di Troia, dette gravemente a pensare di sè ai Greci, i quali vedevano in lui un giusto vendicatore dell’antica fortezza dei Troiani. Calcante indovino greco consigliò la morte di Astianatte col farlo precipitare da una torre. Per seguire il consiglio crudele ma utile, Ulisse cercò da per ogni dove l’illustre rampollo dei re Troiani, onde farlo morire ; ma le ricerche riuscirono vane, poichè Andromaca lo sottrasse con la fuga al pericolo, ricoverandosi col figlio in Epiro.
635. Astidamia. — Una delle mogli di Ercole.
636. Astilo. — Uno dei centauri che consigliò ai suoi compagni a non intraprendere la guerra contro i Lapidi. Il suo saggio consiglio non fu seguito e i centauri furono quasi distrutti.
637. Astimeda. — Seconda moglie di Edipo la quale calunniò presso il marito i figli della prima sua moglie, onde metterli in malo aspetto del padre.
638. Astioche. — Fu una delle figliuole di Ettore la quale non potendo opporre resistenza al dio Marte che ne era innamorato, fu da lui resa madre di un figliuolo che sotto il nome di Ialmeno si distinse poi all’assedio di Troia come uno dei più famosi generali dell’armata Greca.
Vi fu anche un’altra Astioche figliuola di Filanto, la quale essendo caduta in potere di Ercole quando egli espugnò la città di Efina in Elide fu da lui amata e ne ebbe un figlio che fu poi noto sotto il nome Tlepolemo.
Finalmente la favola ricorda di un’altra Astioche che fu una delle figliuole di Niobe. V. Niobe.
639. Astioco. — Fu uno dei figliuoli di Eolo {p. 50}Dio dei venti, il quale dopo del padre regnò nelle isole Lipari, nome che egli in memoria del padre cangiò in quello di isole Eoliane o Eolie.
640. Astione. — Era questo il nome proprio della bella figliuola del sacerdote di Apollo Crise che dal padre viene comunemente conosciuta sotto il nome di Criseide. V. Crise.
641. Astiosea. — Moglie di Telefo. Si chiama anche così una donna da cui Ercole ebbe diversi figli.
642. Astipaleo. — Nel gruppo delle Cicladi vi era un’isola chiamata Astipalea in cui Apollo aveva un tempio. Da ciò il nome di Astipaleo dato ad Apollo.
643. Astirea. — Soprannome di Minerva dal culto che le si rendeva in Astira città della Fenicia.
644. Astirena o Astrena. — Soprannome di Diana da varii luoghi in cui veniva adorata con culto particolare.
645. Astomi. — Dalla parola Greca οτομα bocca Plinio dà questo nome ad alcuni popoli delle Indie che non avevano bocca. La verità di questa credenza è che presso quei popoli era ritenuta come cosa vergognosa il mostrare la bocca, e che perciò essi la coprivano accuratamente.
646. Astrea. — Figlia di Giove e di Temi e Dea della giustizia. Durante l’età dell’oro essa lasciò il cielo per venire ad abitare la terra, ma i delitti degli uomini la costrinsero ben presto a ritornare alla sua luminosa dimora, ed ella andò a collocarsi in quella parte dello Zodiaco che si chiama la costellazione della Vergine.
647. Astrei. — Venivano così denotati i figli di Astreo e di Eribea. La favola li dipinge come dei Titani che avessero voluto dare la scalata al cielo, ma poscia si divisero fra loro, e alcuni presero le parti di Giove contro i propri fratelli. Quelli che persisterono nell’empio disegno furono tutti fulminati dalla celeste vendetta.
648. Astrena. — V. Astirena.
649. Astreo. — Uno di Titani padre degli Astri e dei venti ; Vedendo che i suoi fratelli avean dichiarato la guerra a Giove egli scatenò anche i venti suoi figli contro di lui ; ma Giove li precipitò sotto le acque e cangiò Astreo in Astro. L’opinione degli scrittori mitologici è assai discorde sull’essere i venti figli di Astreo ; molti fra i più accreditati fanno Eolo loro padre e re.
650. Astri. — I Pagani credevano che gli Astri fossero animati ed immortali ; che avessero influenza benefica o malefica sopra gli uomini e chè col loro apparire e col loro corso predicessero la volontà degli Dei. Da ciò la ragione del culto degli astri generale a tutt’i popoli dell’antichità. Questo culto degli astri veniva con particolare vocabolo chiamato Sabeismo vedi lo Studio preliminare che precede questo ristretto.
651. Astrabaco. — Eroe Greco, che si rese celebre nel Peloponneso. Dopo la sua morte gli vennero innalzati varii monumenti.
652. Astrofa. — Una delle Pleiadi.
653. Ata. — V. Atea.
654. Atabirio. — Giove era così denominato nell’isola di Rodi, da un tempio ch’egli aveva sul monte Atabiro.
655. Atalanta. — Figlia di Iasio re di Arcadia e di Climene. Atalanta sposò Meleagro da cui ebbe Partenopea. Essa amò con passione la caccia e fu la prima a ferire il cignale di Calidone le cui spoglie ella ricevette dalle mani di Meleagro sebbene non fosse ancora divenuta sua moglie.
Vi fu anche un’altra Atalanta figlia di Scheneo. Essa fu richiesta in matrimonio da molti giovani principi, ma suo padre non volle concederla che a colui che avesse vinto il premio della corsa. Ippomene ebbe col soccorso di Venere il premio, avendo seguito il consiglio della dea di gettare cioè lungo il cammino dei pomi di oro che Atalante si fermò a raccogliere invece di seguitare la corsa. Essendo un giorno insieme in un tempio dedicato a Cibele, essi accecati dalla passione che li dominava, dimenticarono il luogo dov’erano e il rispetto verso la Dea, la quale sdegnata cangiò l’uno in leone e l’altra in leonessa.
656. Atamante. — Leucotea detta anche Ino, veniva in tal modo denotata perchè moglie di Atamaso. Ovidio dà questo nome a quella parte del mare Ionio in cui la stessa Ino o Leucotea si precipitò.
657. Atamanti. — Venivano così detti i figli di Atamaso cioè Prisso, Melicerte e Learco.
658. Atamaso. — Figlio di Eulo e padre di Elle che egli ebbe da Nefila sua prima moglie. sposò in seconde nozze Leucotea detta anche Ino (V. Atamante) la quale pei cattivi trattamenti costrinse Prisso ed Elle suoi figliastri a fuggire dalla casa paterna.
659. Atea o Ata. — Dea malefica che spingeva gli uomini nelle sventure turbando loro la ragione.
660. Atella. — Così veniva denominato un grande Anfiteatro nella Campania ove venivano rappresentate alcune commedie dette perciò Atellane.
661. Atena. — Soprannome che i Greci davano a Minerva.
662. Atenea. — Cecrope re d’ Atene ebbe una figliuola così nomata, la quale essendo {p. 51}profondamenta culta nelle lettere e nel mestiere delle armi fu riguardata come la Divinità che presiede alle une e alle altre. Infine essa è la Minerva dei Greci. Gli antichi dissero che ella uscisse dal cerebro del padre, imperciocchè il suo nome significa saggezza. Fu dessa che dette il nome di Atene alla città che prima si chiamava Posidonia, che aveva prima ricevuto da Nettuno.
La favola racconta che a proposito del nome da conservarsi o cangiarsi a questa città capitale della Grecia sorgesse un grave alterco fra Nettuno e Minerva. Allora gli Dei per por termine alla contesa stabilirono un tribunale composto di dodici mortali, il quale decise che la città si sarebbe chiamata secondo il volere di Nettuno ovvero di Minerva quante volte essi avessero saputo produrre ognuno del canto suo la cose più utile agli uomini. Nettuno allora con un colpo di tridente battè la terra, e ne uscì un cavallo ; mentre Minerva fece uscire dalla terra un albero d’ulivo. Allora il tribunale aggiudicò la vittoria a Minerva che dette il nome di Atene alla capitale Greca.
663. Atenee. — Feste in onore di Minerva.
664. Atergate. — Una delle Divinità del popolo Sirio presso il quale era tenuta come madre della famosa Semiramide. Al dire di Luciano essa aveva la testa di donna e il rimanente di pesce. Vossio nelle sue opere dice che la parola Atergate significa senza pesce perchè coloro che l’adoravano dovevano astenersi dal mangiarne.
665. Atergatide. — V. Adad.
666. Atherea o Aetherea. — Soprannome di Pallade e di altre divinità aeree preso dall’origine favolosa del Palladio V. Palladio.
667. Ati. — Fu uno dei sacerdoti di Cibele e il più famoso fra gli amanti di quella Dea, la quale per altro egli pose in obblio essendosi perdutamente innammorato di Sangaride figlia del fiume Sango. Cibele per punire Ati del suo tradimento fece morire Sangaride ; e allora Ati disperato si lasciò traspotare dalla sua passione fino a recidersi le parti virili e si sarebbe ucciso se Cibele non lo avesse cangiato in pino.
Presso altri scrittori Ati viene ricordato come un giovane pastore della Frigia del quale Cibele sebbene già vecchia fosse pazzamente invaghita ed a cui ella facesse fare la dolorosa amputazione per averlo sorpreso fra le braccia di una giovane rivale, e che dopo di ciò lo avesse ricevuto nel numero dei suoi sacerdoti. Tutto ciò che evvi di vero sotto codesta favola, è forse la barbara costumanza che imponeva ai sacerdoti di Cibele lo stesso supplizio, da essa imposto all’infido amatore.
Nelle feste di Cibele i sacerdoti del culto di lei gemevano e gridavano dolorosamente, forse per ricordare le crudeli sofferenze di Ati V. Cibele e Sangaride.
668. Atie — Feste in onore di Cibele.
669. Atisio. — Figliuolo di Ercole e di Onfale.
Vi fu anche un altro Atisio ucciso da Tideo, mentre conduceva all’altare Ismene.
670. Atlante. — Gigante che fu figlio di Giove e di Climene. La favola finse che suo padre l’avesse incaricato di reggere il mondo sulle sue spalle. Essendo stato un giorno avvertito dallo oracolo di tenersi in guardia contro un altro figlio di Giove egli ne fu così afflitto che non volle più vedere alcuno. Perseo si condusse da lui, ma non ebbe miglior trattamento degli altri, del perchè sdegnato Perseo gli mostrò la testa di Medusa e cangiò Atlante in montagna V. Alcione.
671. Atlantidi. — Così furono dette le quindici figlie di Atlante e di Pleione. Comunemente si chiamano anche Esperidi o Pleiadi.
672. Atoso. — Più comunemente Athos : montagna fra la Macedonia e la Tracia sulla quale Giove era particolarmente adorato, onde è che gli veniva il soprannome di Athuso..
673. Atreo. — Figlio di Pelopo e d’ Ippodamia. Per vendicarsi della vergognosa tresca che Eropa sua moglie aveva con suo fratello Tieste lo invitò ad un banchetto e gli fece mangiare i suoi propri figliuoli. La tradizione favolosa racconta che il sole inorridito dall’orribile scena avesse retrocesso dal suo corso quotidiano. È questo uno degli episodi più truci che ci ricordi la storia dei tempi favolosi.
674. Atridi. — Così furono detti Agamennone Menelao e tutt’i discendenti di Atreo.
675. Atropo. — Una delle Parche. Propriamente quella che tagliava il filo della vita umana.
676. Attea. — Fu una delle cinquanta Nereidi.
677. Atteone. — Secondo le cronache del mitologo Fulgenzio, così si chiamava uno dei cavali che tiravano il carro del sole quando avvenne la caduta di Fetonte. La parola Atteone viene dal Greco αϰτιν-ινος che significa raggio di sole, risplendente luminosa.
Atteone era anche il nome di un figliuolo di Autonoe figlia di Cadmo e del celebre Aristeo. Essendo un giorno alla caccia sorprese Diana e le ninfe che si bagnavano e si mise a spiarle ; di che sdegnata fortemente la Dea lo cangiò in cervo
Vede intanto l’irata cacciatrice.Ch’a venir la vendetta non soggiorna,Ch’a lui già crescon sopra la cerviceDi cervo a poco a poco un par di corna ;{p. 52}Il naso entra nel viso, e la nariceResta aperta più sotto, e ’l mento tornaDentro in se stesso, e in modo vi si serra,Che la bocca vien muso, e guarda in terra.Ovidio. — Metamorf. Libro III trad. di Dell’ Anguillara.
e lo fece divorare dai propri cani. Euripide narra che Atteone fosse divorato dai cani di Diana per essersi vantato più esperto di quella Dea nell’arte della caccia. Diodoro asserisce che Atteone fosse considerato come un empio per aver dispregiato il culto di Diana fino al segno di mangiare della carne che era preparata per un sacrifizio a quella Dea. Dopo la morte Atteone fu riconosciuta dagli Orcomeni come un eroe : e gli vennero innalzati dei monumenti.
678. Auge. — V. Augea.
679. Augea o Auge. — Detta anche Auga, figlia d’ Aleo. Avendo dimorato qualche tempo con Ercole essa ne restò incinta ed andò a partorire in un bosco ove dette alla luce Telefo. Questo principe divenuto adulto divenne assai caro a Tetraso, re di Misia presso il quale Augea si era del pari ritirata per sotirarsi allo sdegno del padre suo. Telefo senza riconoscere sua madre ottenne da Tetraso di sposarla ; ma Augea non volendo divenir la moglie di un ignoto avventuriero stava per ucciderlo, allorchè spaventata dalla vista d’un serpente, essa si arrestò e fu questa occasione al loro riconoscimento.
680. Augia. — Re d’ Elide. Egli stabili con Ercole che gli avrebbe ceduto la decima parte dei suoi bestiami, quando lo avesse aiutato a netture le sue stalle dalla gran quantità di letame che infettava l’aria nel suo regno. Ercole per riuscire nello scopo prefisso deviò dal loro corso le acque del fiume Alfeo. Però avendo Augia mancato ai patti Ercole sdegnato l’uccise e dette i suoi stati a Fileo suo figlio.
681. Augurio. — Specie di sortilegio che si compiva coll’osservazione del volo degli uccelli del loro canto e della maniera di cibarsi. Presso i Pagani si diceva ab avium ispectione dalla ispezione degli uccelli come aurispizio dall’ispezione degl’intestini.
I sacerdoti che presedevono a tali cerimonie venivano chiamati auguri.
682. Aulide. — Piccolo paese della Beozia la cui capitale fu Aulisia. Servio dice che era questa una piccola isola con un porto capace di contenere 50 vascelli.
Fu in qnesto porto che si riunirono le navi Greche all’epoea della spedizione di Troia.
683. Aulisea. — Soprannome di Minerva che a lei veniva da una parola Greca che significa flauto attribuendosi da taluno a quella Dea la invenzione di questo istrumento.
684. Aulone. — Figlio di Tlesimene. I Greci lo avevano in molta venerazione come un eroe.
685. Aurigeno. — Soprannome dato a Perseo in commemorazione della pioggia d’oro in cui si cangiò Giove suo padre per giungere fino a Danae, della quale poi nacque Perseo.
686. Aurora. — Figlia di Titano e della Terra. Presiedeva alla nascita del giorno e si rappresentava su di un carro di metallo scintillante. Aurora amò teneramente Titone figlio di Laomedone, giovane principe celebre per la sua bellezza. Ella lo rapì, lo sposò e ne ebbe un figlio chiamato Mennone. La passione di Aurora per lui fu così grande che gli propose di domandarle un pegno della sua tenerezza e ne ottenne una longevità senza eguale, tanto che Titone giunse ad una estrema vecchiezza e allora fu cangiato in cicala. Dopo di lui Aurora amò Cefalo che rapì alla moglie Procride e per farsi amare da lui fece nascere la discordia fra i due sposi : essi però dopo qualche tempo si pacificarono, e un giorno Cefalo andando a caccia con Procride la uccise per inavvertenza. Allora Aurora lo condusse in Siria ove lo sposò e ne ebbe un figlio.
Ben presto però disgustata di lui lo abbandonò per amore di Orione che alla sua volta fu da lei abbandonato per altri.
687. Ausone. — Figlio di Ulisse e di Calipso. Egli andò a stabilirsi in Italia, e da lui questa contrada fu detta Ausonia.
688. Auspicii. — Cerimonie con le quali si pretendeva scoprire la volontà dei Dei. Gli auspicii erano sacerdoti o indovini detti anche auguri. V. Augurio.
689. Austero. — Vento estremamente caldo figlio di Astreo e di Eribea. Altri scrittori lo fanno figliuolo di Eolo e di Aurora.
690. Autenome. — Fu un’altra delle cinquanta Nereidi.
691. Autoleone. — Generale dei Crotoniati. Combattendo un giorno contro i Locri, i quali lasciavano sempre nel mezzo della loro armata un posto d’onore per Aiace loro famoso eroe come se fosse ancora in vita, egli piombò improvvisamente su quel posto e ricevette al petto una mortale ferita dall’ombra di Aiace. Autoleone placò lo spettro del guerriero con sacrifizii ed offerte e così potè vivere dopo una dolorosa malattia.
692. Autolico. — Figlio di Mercurio e di Chione. Egli apprese da suo padre il mestiere di ladro col potere di prendere diverse forme. Sisifo lo scoprì e lo ingannò come faceva a tutti, ma Autolico restò suo amico perchè era innamorato della figlia Anticlea.
{p. 53}693. Automatia. — Nome sotto il quale veniva adorata la fortuna come dea del caso.
694. Automedone. — Conosciuto più comunemente sotto il nome di Automedonte. Cosi si chiamava il cocchiere di Achille, dopo la morte del quale passò ai servigi di Pirro, in qualità di scudiero.
695. Autona. — V. Autonea.
696. Autonea o Autona. — Fu figlia di Cadmo e madre di Acteone.
697. Autopsia. — Coloro che erano in una stretta intelligenza con gli Dei, erano presso i Pagani ritenuti come per essere in quello stato d’illimitato potere, a cui essi davano il nome Autopsia V. Teurgia.
698. Autunno. — Gli antichi rappresentavano questa stagione sotto la figura d’un bel giovane, avente in mano un canestro di frutta e con ai piedi un cane.
699. Auxo. — Una delle Grazie. Gli Ateniesi non ne riconoscevano che dua sole. Una Auxo, l’altra Egmona.
700. Aventino. — Uno dei figli di Ercole e della sacerdotessa Rea. Egli combattè contro Enea nella guerra di Turno.
….Aventino, de l’invitto AlcideLeggiadro figlio. Questi col suo carroDi palme adorno, e co’ vittorïosiSuoi corridori, in campo appresentossi.Avea nel suo cimiero e nel suo scudoIn memoria del padre, un’idra, cintaDa cento serpi. D’ Ercole e di ReaSacerdotessa, ascosamente natoNel bosco d’Aventino era costui.Virg. Eneid. lib. VII trad. diA. Caro.
701. Averno. — Palude nella Campania, consacrata a Plutone perchè i miasmi che ne esalavano erano talmente pestilenziali ed infetti, che quel luogo era ritenuto come la bocca dell’inferno. Gli uccelli che passavano a volo sulla voragine, cadevano all’istante in quella, morti d’asfissia.
702. Averunei, Avverunei o Averungani. — Dei che i Romani adoravano particolarmente in tempo di calamità, credendo che fossero potentissimi ad allontanare una pubblica sventura o a mettervi termine.
703. Averungani. — V. Averunci.
704. Avoltoio. — Quest’uccello era consacrato a Giunone ed a Marte, e gli auguri ne osservavano con particolare attenzione le grida ed il volo.
705. Avverunei. — V. Averunci.
706. Axinomanzia, Assinomanzia o Animomanzia. — Specie di magìa nella quale si adoperava una pietra chiamata Gagale.
707. Axione. — Figlio di Fegeo e fratello di Arfinoe. V. Alcmeone.
708. Axuro. — V. Anxuro.
709. Azano. — Montagna d’ Arcadia consacrata a Cibele, così chiamata da Afan figlio di Arcaso, il primo la cui morte fosse onorata di funebri giuochi.
710. Azesia. — Soprannome di Proserpina.
711. Aziache. — Nel promontorio di Azio in Epiro, sorgeva un ricco tempio dedicato ad Apollo, ove ogni tre anni si celebravano delle feste in suo onore, alle quali si dava il nome di feste Aziache. Cesare Augusto, dopo di avere sconfitto Marc’ Antonio alla battaglia di Azio, in ringraziamento ad Apollo rinnovò queste feste, trasportandone a Roma stessa la celebrazione ogni quinquennio.
712. Azio. — Soprannome dato ad Apollo. — (vedi l’articolo precedente).
713. Azizio. — Soprannome di Marte.
714. Azoni. — Si chiamavano così quegli Dei che i Pagani credevano comuni a tutti i popoli.
B §
[n.p.]715. Baal. — Divinità dei Caldei, dei Babilonesi e dei Sidonii. Per breve tempo venne anche adorata dal popolo d’ Israele nel tempio di Samaria. Baal in lingua ebraica vuol dire Signore, e come quel popolo adorava come principale divinità il sole, così è generale opinione dei mitologi che sotto il nome di Baal si venerasse il sole. Alcuni lo han fatto figlio di Nettuno e della regina Lidia, che regnò nell’ Assiria verso l’anno 2700 dopo la creazione del mondo.
Al dio Baal si attribuisce assai comunemente dagli scrittori dell’antichità, l’invenzione di schierare le truppe con quell’ordine che oggi si direbbe di attacco. Da ciò forse la voce latina bellum, che significa guerra. Abbiamo da Erodoto una descrizione bellissima del tempio di Baal in Babilonia, monumento famoso per la sua estrema ricchezza e magnificenza.
716. Baal-Berit. — Dio innanzi al quale i Fenici ed i Cartaginesi davano il giuramento della loro alleanza : Berith o Beruth significa alleanza.
717. Baal-Fegor, Bellegor o Belfegob. — Divinità dei Moabiti. La fornicazione, al dire della Bibbia, era consacrata a Baal-Fegor che è riguardato come il dio Priapo della mitologia Greca e Romana. Più comunemente veniva chiamato Belfegor.
718. Baal-Gad. — V. Baal-Gall.
719. Baal-Gall o Baal-Gad. — Dio della felicità, particolarmente adorato dagli Assiri e dai Fenici, nella cui lingua gad significa felicità.
720. Baal-Peor. — Dio venerato dagli Arabi con culto particolare, sulla montagna di Peor. Si crede generalmente dagli scrittori che Baal-Peor fosse il Priapo degli Arabi.
721. Baal-semen. — I Fenici lo ritenevano come il più grande dei loro Dei. Nella lingua di quei popoli Baal-Semen significa signore del cielo.
722. Baal-Tsefon. — Dio sentinella. I magi di Egitto posero quest’idolo nel deserto, per impedire la fuga agli Ebrei.
Da ciò il nome che porta.
723. Baaltide. — Divinità dei Fenicii, adorata particolarmente nella città di Biblo. Era ritenuta come moglie di Saturno da cui non ebbe che delle figliuole È la luna, ossia la Diana dei Greci.
724. Babelle. — È opinione di non pochi scrittori dell’antichità, che la famosa Torre di Babelle o di Babilonia ; (la quale potevasi in effetti considerare come una intrapresa contro il cielo), abbia dato origine alla favola dei giganti o Titani, che imponendo montagne sopra montagne, avessero tentata la scalata all’ Olimpo.
Di divolte montagne arman le destreE fan con rupi e scogli la battaglia,Odonsi cigolar sotto l’alpestrePeso, le membra e ognun fatica e scaglia :Tre volte all’arduo ciel diero la scossaSopra Pelio imponendo Olimpo ed Ossa.V. Monti. — Musogonia.
725. Babia. — Dea venerata nella Siria e particolarmente nella città di Damaso, ove veniva adorata come dea della gioventù ; forse perchè generalmente si dava il nome di Babia ai fanciulli.
726. Babilonia. — Antica e grandissima città della Caldea, così chiamata per la sua ampiezza e pel tumulto continuo che l’immenso numero de’ suoi abitanti facevano nelle sue mura ; le quali ebbero duecento piedi d’altezza e cinquanta di larghezza.
Non meno celebri si resero gli abitatori di Babilonia, per la loro sfrenata libidine, che {p. 55}arrivò al suo maggior punto di corruttela, sotto la famosa regina Semiramide.
Son di Circe, o Babel, gl’incaut tuoi :Quella diede agli eroi forma di porci,Ed a’ porci tu dai forme d’eroi.Le leggi del dover profani, e torci,Montre a gradi sublimi, e trionfaliChiami i genii più vili, e più spilorci.Salvator Rosa. — Satira quinta.
La prima di color, di cui novelleTu vuoi saper, mi disse quegli allotta,Fu imperadrice di molte favelle.A vizio di lussuria fu si rotta,Che libito fè lecito in sua legge,Per torre il biasmo in che era condotta.Ell’è Semiramis, di cui si leggeChe succedette a Nino, e fu sua sposa,Tenne la terra che’ I Soldan corregge.Dante Inf. Canto V.
Tutta la città si estendeva per un circuito di sessanta miglia, ed ebbe cento porte. Ciro, re dei Persiani, la distrusse dopo averla messa a sacco.
Cambise, altro re dei Persiani, edificò in Egitto una città, alla quale dette similmente il nome di Babilonia.
727. Babiso. — Fratello di Marfiaso. Apollo, volendo trattarlo come il fratello, gli fece grazia alla preghiera di Pallade.
728. Baccanali. — Feste o misteri che si celebravano in onore di Bacco, nei quali si commettevano ogni sorta di dissolutezze e di bestiale libidine. I Greci chiamavano anche queste cerimonie Dionisiache da Dionisio, che era uno dei soprannomi di Bacco.
In Atene la ricorrenza e celebrazione di questi misteri bacchici, era tenuta in così grande considerazione, che si numeravano persino gli anni dai baccanali e dalle dionisiache ; e fu creato un magistrato speciale per regolare la forma, l’ordinanza e la celebrazione di tali feste.
In Italia da principio i baccanali si celebravano tre volte l’anno, ma poi furono moltiplicati fino ad una volta il mese. In Roma furono introdotte la prima volta da un greco, di cui la storia non conserva altro ricordo. Oscuro di nascita, fu pessimo di costumi, ed il suo nome andò perduto nella notte dei tempi. Nel principio che in Grecia furono stabiliti i baccanali, vi prendevano parte solamente le donne ; in seguito poi vi furono ammessi gli uomini, e le adunanze si tenevano nel bosco sacro alla dea Simula o Stimula : però la unione dei due sessi fu cagione di gravi disordini, onde il Senato Romano annullò nell’anno di Roma 568, la celebrazione di questi sconci e sanguinosi misteri, e da quell’epoca non furono più celebrati i baccanali nè in Roma nè in alcuna parte d’ Italia.
729. Baccanti. — Si chiamavano così quelle donne, specie di seguaci del culto di Bacco, le quali lo seguirono alla conquista delle Indie. Esse facevano sul loro cammino risuonare le più clamorose grida, cantando le vittorie del loro dio. Durante la celebrazione dei baccanali, esse, appena coperte d’una pelle di tigre, tutte scapigliate, con in mano delle torce accese, facevano rintronar l’aria di grida assordanti, e poi si abbandonavano alle più turpi dissolutezze.
730. Bacchemone. — Figlio di Perseo e di Andromeda.
731. Baccheo-Toro o Bagi-Toro. — Così veniva chiamato un toro, che nelle principali città dell’ Egitto, era consacrato al sole e adorato con particolare venerazione. Il pelo di questo animale cresceva ricadendo in senso contrario a quello degli altri animali.
732. Bacchiade. — Famiglia Corintia, così detta da Bacchia, figlia di Bacco, dalla quale essa pretendeva discendere. Questa famiglia essendo stata esiliata da Corinto, andò a stabilirsi in Sicilia.
733. Bacchiadi. — Denominazione che si dava agli antichi re di Corinto, i quali per lo spazio di 230 anni, ebbero il governo di quella città. Veniva loro dato cosiffatto nome di Bacchiadi, perchè un’antica tradizione della loro famiglia, li faceva discendere da una figlia di Bacco. (Vedi l’articolo precedente).
734. Bacco. — Figlio di Giove e di Semele. Discorde è l’opinione degli scrittori dell’antichità, sul conto di questo dio, volendosi da diversi che fosse figliuolo di Proserpina. Cicerone conta fino a cinque dii di questo nome ; ed è perciò che la grande generalità degli autori non si accorda sulla favolosa tradizione di lui. Però l’opinione più comunemente accettata è la seguente.
Giunone, sempre gelosa e sdegnata contro le concubine di Giove, per vendicarsi di Semele, le consigliò, mentre questa era incinta, di chiedere al divino suo amante di mostrarsi a lei in tutto lo splendore della sua gloria immortale ; ciò che ella ottenne da lui, dopo replicate repulse. Ma i raggi di cui era circondato il dio, e il folgorante bagliore di quelli, incendiò la dimora di Semele, ed ella stessa mori, ravvolta nelle fiamme. Giove allora, prima che Semele fosse del tutto spirata, per salvare la vita del figlio, di cui la disgraziata era incinta, estrasse il piccolo Bacco dalle viscere materne, e lo {p. 56}rinchiuse nella sua coscia diritta, ove lo tenne fino al termine dei nove mesi.
L’infante che nel corpo era imperfettoDell’infelice donna che s’accese.Che dal seme di Giove avea concetto,Del ventre ch’aprir fece, il padre prese :E se creder vogliam quel che vien detto.Con tanta industria a quel fanciul s’attese,Ch’unito un tempo all’utero del padre,Fini quei mesi, onde mancò la madre.Quando fu poi perfetta è ben maturaLa degna prole ch’in due ventri crebbe.Giove da sè spiccolla, e ne die curaAd Ino, una sua zia, che cura n’ebbe,La qual, sebben di Gluno avea paura.Non mancò al nipotin di quel che debbe :Alle ninfe Niselde il diè di notte,Ch’ascoso il nutrir poi nelle lor grotte.Ovidio. — Metamorfosi. Libro III trad. di Dell’ Anguillara.
Quando il tempo della sua nascita fu giunto, Bacco fu segretamente consegnato ad Ino, sua zia, la quale ne prese cura in compagnia delle ninfe e delle ore. Divenuto adulto, Bacco conquistò le Indie ; poi ando in Egitto, ove insegnò agli uomini l’agricoltura, piantò per il primo una vigna e fu adorato come Dio del vino. Egli punì severamente Penteo, per essersi opposto alle solenni oscenità dei suoi riti ; trionfò di tutt’i suoi nemici, ed uscì sempre vincitore dai mortali pericoli a cui lo esponeva del continuo l’implacabile odio di Giunone ; dappoichè questa Dea non si limitava solamente a vendicarsi delle concubine di suo marito, ma faceva ricadere le sue terribili vendette sui figli che nascevano da quelle. Quando i giganti dettero la scalata al cielo, Bacco, trasformato in leone, combattè coraggiosamente al fianco di suo padre e fu ritenuto dopo Giove come il più possente degli Dei. Bacco veniva rappresentato sotto diversi aspetti : talvolta con due corna sulla fronte, perchè nei suoi viaggi rivestiva sempre la pelle d’un becco, animale che a lui si sagrificava ; talvolta a cavalcioni d’una botte con una coppa nelle mani e inghirlandolo di pampini ; talvolta su di un carro tirato da tigri o da pantere ; e spesso finalmente circondato di amori, di baccanti e di satiri, e con un tirso nelle mani, in atto di far scaturire del vino da una fontana.
Questo fu il padre Bacco, e l’inventoreDel miglior culto alla feconda vite,Che la dolce uva, e quel divin liquorePorge a sostegno delle nostre vite.Ovidio. — Metamorfosi Lib. III trad. di dell’ Anguillara.
Fra i molti animali che si sacrificavano a Bacco, quelli che più generalmente venivano immolati nei suoi sacrifizii, erano l’irco, perchè distrugge i germogli delle viti ; e la gazza per dinotare che il vino fa parlare indiscretamente.
A maggiore delucidaziene di questo personaggio della cronaca mitologica, noi metteremo sotto gli occhi dei nostri lettori un parallelo storico, che, secondo le opinioni di alcuni fra i più rinomati scrittori della Favola, come il Vossio, il P. Tomasino e Mons. Huet, emerge dalla simiglianza di Bacco, divinità pagana, e la sacra e biblica figura di Mosè, il legislatore d’ Israello.
Questo parallelo, che noi, seguendo le opinioni dei suddetti scrittori, presentiamo ora all’attenzione dei nostri lettor, gioverà allo strenuo sviluppo di una delle idee informatrici di questo lavoro ; quella cioè, della esistenza non solo dei miti allegorici in tutte le religioni, miti che noi dicemmo propri ed individuali di esse, ma della trasmissione, o direm quasi della eredità, che la fusione delle religioni e credenze primitive, ha lasciato nelle religioni tuttavia persistenti.
BACCO nativo d’ Egitto ebbe a madre Semele, e seguendo la tradizione favolosa. Giove stesso gli fece da madre. Fu ritrovato esposto nell’isola di Nasso, e questa congiuntura di essere salvato dalle acque gli fece dare. Il nome di Misas che vuol dire appunto, salvato dalle onde.
Bacco passò il Mar Rosso seguito, più che da un’armala, da un popolo intero di uomini, di donne, di fanciulli, di animali, ecc : e mosse alla conquista delle Indie.
La favola dipinge questo dio con le corna e lo raffigura con un tirso fra le mani.
Bacco fu allevato su di una montagna chiamata Nisa.
MOSÈ nativo anch’egli d’ Egitto, ebbe similmente due madri, una che lo partori l’altra che lo adottò. Abbandonato nelle acque del Nilo, anch’egli fu salvato dalle onde, e da ciò gli viene il nome di Moisè perchè nella lingua Egiziana mo vuol dire acqua e yses preserrato.
Mosè traverso anch’egli il Mar Rosso e l’Arabia, percondurre il popolo degli Ebrei, che lo seguiva, alla Terra Promessa.
A Mosè splendono sulla fronte due raggi di luce e ha fra le mani la verga miracolosa, che opera prodigii soprannaturali.
Mosè passò quaranta giorni sul monte Sinai, di cui la parola Nisa è in qualche modo l’anagramma.
735. Baciso. — Famoso indovino che poi detta il suo nome a tutti coloro che predicevano l’avvenire.
736. Bagi-Toro. — V. Baccheo-Toro.
737. Bagoe. — Ninfa che insegnò agli Etrurii l’arte di predire il futuro, dallo strisciare delle folgori e delle saette. È opinione diffusa presso molti scrittori dell’antichità, che Bagoe fosse la stessa che la sibilla Eritrea.
738. Balana. — Figlia di una ninfa Amadriade e di Ossilo, il quale ebbe otto figliuole femmine.
739. Bali. — Cotitto, dea del libertinaggio, aveva dei sacerdoti conosciuti sotto il nome di Bali, i quali si resero celebri per le loro infami dissolutezze e brutalità. Giovenale racconta che la {p. 57}loro turpe lussuria e gli esecrandi eccessi ai quali si abbandonavano, attirò loro la vendetta della stessa dea Cotitto.
740. Ballo. — Nome di uno dei cavalli di Achille. Omero dice che erano immortali e figli di Zeffìro.
741. Bapto. — Uno dei sacerdoti Bali della dea Cotitto, di cui si celebravano le cerimonie durante la notte, con le più luride oscenità. — V. Bali.
742. Baraico, detto anche Buroico. Era questo uno dei soprannomi d’ Ercole, che gli veniva da una città d’ Acaia, nota sotto l’istesso nome, e nella quale l’eroe avea un oracolo, celebre per la maniera affatto particolare, con la quale rendeva i responsi. Coloro che venivano a consultare l’oracolo, dopo aver pregato nel tempio, gittavano la sorte con quattro dadi, sopra dei quali erano incise alcune figure e geroglifici, e poi consultavano un quadro, ove erano spiegati quei segni allegorici, ritenendo come risposta dell’oracolo, l’interpetrazione corrispondente al segno ottenuto dal getto dei dadi.
743. Barbata. — Soprannome dato a Venere, che, sebbene di rado, veniva rappresentata con la barba, per dinotare che le erano attribuiti tanto il sesso maschile quanto il femminile.
744. Bardi. — Poeti e ministri della religione presso i Celti e i Galli. Essi celebravano in versi le azioni immortali degli eroi, e le cantavano al suono degli strumenti, e soprattutto della lira. In lingua celtica bardo significa cantore. Il popolo aveva in grande venerazione i bardi, i quali erano solamente sottomessi ai Druidi.
745. Basilea. — Figliuola di Urano e di Titea e sorella dei Titani. Si crede che sia la stessa che Cibele o Giunone, forse perchè Basilea in Greco vuol dir regina.
La tradizione mitologica racconta che Basilea sposò Iperione, suo fratello, che essa avea più caro degli altri, e ne ebbe due figli, un maschio ed una femmina.
Ma gli altri Titani, gelosi della preferenza ottenuta da Iperione, uccisero i figli di Basilea, la quale impazzì pel dolore e con le chiome disciolte, ballando e gridando, corse per le vie empiendo di compassione quanti la videro. Taluno si azzardò a trattenerla, ma nell’istesso momento si rovesciò dal cielo una gran pioggia, accompagnata da baleni e tuoni orrendi, e Basilea disparve. Il popolo allora cangiò il suo dolore in venerazione, innalzò degli altari alla sua regina, e le offerì sacrificii allo strepito di tamburi e di timballi, in memoria di quanto era avvenuto.
746. Basillisa. — I Tarantini onoravano Venere sotto questa denominazione.
747. Bassareo. — Soprannome dato a Bacco, dal perchè si pretende che questa parola fosse il grido che si ripeteva nei baccanali. Però l’opinione più accreditata e più logica è che questo soprannome fosse dato a Bacco perchè significa vendemmialore.
748. Bassaridi. — Si chiamavano così le sacerdotesse di Bacco, più comunemente Baccanti.
749. Batea. — Figlia di Teceuro e moglie di Dardano.
750. Batone. — Fu il cocchiere di Anfiareo, a cui dopo la morte furono resi gli onori divini.
751. Batto. — Così avea nome quel pastore che fu testimonio del furto degli armenti che Mercurio rubò ad Apollo. In premio del suo silenzio, Mercurio gli dette la più bella delle vacche derubate ; ma poi, non fidandosi a lui, Mercurio sott’altra forma, e parlando con una voce diversa, si presentò a Batto e gli offrì un bue ed una vacca se avesse voluto indicargli il luogo ove era stato nascosto il bestiame involato. Il pover uomo si lasciò tentare, palesò il tutto, e Mercurio allora lo cangiò in pietra di paragone, la stessa che si adoperava per provare l’oro, e della quale si credeva generalmente che fossero fatti i simulacri egiziani.
Vi fu anche un altro Batto, che la tradizione mitologica ci ricorda come fondatore della città di Cirene, nella quale, dopo la morte, fu adorato come un dio.
752. Baubo. — Detta anche Becubo. Così avea nome quella donna che ospitò Cerere, quando essa cercava la figlia Proserpina, rapita da Plutone.
….la cortese vecchia, benchè lenta.Mossa dalla pietà, dal santo aspetto.Cercò farla restar di sè contenta :E del vin, che nel suo povero tettoTeneva, e d’una rustica polenta,Ch’avea per uso suo fatta pur dianzi,Con fede e con amor le pose innanzi.Ovidio. — Metamorfosi. Libro V. Trad. di Dell’ Anguillara.
753. Bauci. — Era una povera e vecchissima donna, la quale col marito Filemone, vecchio quanto lei, viveva in una capanna. Giove, accompagnato da Mercurio, avendo voluto, sotto umano sembiante, traversare la Frigia, fu villanamente scacciato da tutti gli abitanti della contrada in cui dimoravano Bauci e suo marito, che furono i soli che li ospitarono. Per ricompensarli, Giove ordinò loro di seguirlo su di una montagna, e di là mostrò loro tutti gli abitanti della borgata, sommersi con le case dalle acque d’uno spaventevole diluvio, che aveva allagato ogni cosa, meno la piccola {p. 58}panna, la quale era divenuta un tempio. Giove promise di conceder loro tutto che avessero dimandato ; ed essi altro non chiesero che di essere i ministri di quel tempio, e di non morire l’uno senza dell’altra. I loro voti furono esauditi. Pervenuti ad un’estrema vecchiezza, essi furono nel medesimo istante cangiati in alberi ; Filemone in quercia, e Bauci in tiglio.
Stando ambo innanzi alle gran porte, a piedeDei gradi ove sta un pian fra’l tempio e l’onde,La donna far del suo marito vedeI canuti capei silvestri fronde ;E mentre il guarda e la cagion ne chiede,L’arbor vede ei che la sua donna asconde :E più ch’un mira e attende al fin che n’esce.Più vede che la selva abbonda e cresce.Vuol tosto questa e quel mover le piantePer far l’offizio altrui che si conviene,E trova, mentre pensa andare avante,Che l’ascosa radice il piè ritiene.Accorti del lor fin, con voci santeRendon grazie alle parti alte e serene :L’un dice all’altro : Vale ; e non s’arresta :Mentre il comporta lor la nova vesta.Ovidio. — Metamorfosi. — Libro VIII trad. di Dell’Anguillara.
754. Bebrici, — Popoli che sortirono dalla Tracia, per andarsi a stabilire nella Bitinia. Sotto pretesto di dare dei pubblici giuochi, essi, al dire di Lucano, attiravano nelle foreste gran quantità di spettatori e poi ne facevano un orrendo massacro. Racconta Strabone che Amico, loro re, fu ucciso da Polluce, al quale in compagnia degli altri Argonanti, esso voleva tendere l’infame tranello.
755. Beechi. — Gli abitanti della città di Mendes nell’Egitto, avevano in grande venerazione questi animali. In generale gli Egiziani non gli immolavano mai nei loro sacrifizii poichè rappresentavano il loro dio Pane con la faccia e le gambe di becco, sotto il cui simbolo essi adoravano in lui il principio fecondatore della natura. Al dire di Pausania il becco era la cavalcatura ordinaria di Venere, poichè secondo il citato scrittore, la Venere popolare veniva rappresentata a cavallo d’un becco terrestre, e la Venere del mare su di un becco marino.
756. Beelfegob. — V. Baal-Fegor.
757. Bel. — Il Giove dei Caldei, il quale, secondo la tradizione mitologica di quei popoli, aveva un tempio ove tutto era tenebre ed acqua, e che conteneva mostruosi animali. I Caldei credevano che Bel, dopo aver formato il cielo e la terra, avesse ricomposto il caos primitivo dando ordine e metodo all’universo, ma che, vedendo la terra deserta ed inabitata, avesse imposto ad uno degli Dei minori di tagliare la propria testa, di mischiare il suo sangue con la terra, e formarne gli uomini e gli animali.
Questa tradizione della favola Caldea, altro non è che una sfigurate ripetizione della creazione del mondo, la quale, presso tutt’i popoli dell’antichità, conserva sempre qualche cosa di egualmente costante nella similitudine dell’idea informatrice, variante solo nei differenti episodii che l’accompagnano.
758. Belatucadua o Belertucadi. — Gli abitatori delle isole Britanniche adoravano sotto questo nome il sole, come loro principale divinità.
759. Belbuc e Zeomeeuc. — Presso i Vandali venivano così denominati il buono ed il cattivo genio ; Belbuc con la significazione di dio bianco e Zeomeeuc con quella di dio nero.
760. Beleno. — Gli abitanti della città d’Aquileia avevano una loro particolare divinità adorata sotto questo nome, siccome ne fanno fede le varie iscrizioni che sono state dissotterrate nelle circostanze di quell’antica città. Grutero fu il primo a pubblicare una raccolta preziosissima di queste iscrizioni, le quali inseguito vennero particolarmente illustrate da M. della Torre, nella sua opera delle Antichità d’Anzio, e poro di poi dal canonico Bartoli, nelle Antichità di Aquilea.
Beleno presso i Galli era il nome col quale essi onoravano Apollo, attribuendogli la guarigione delle malattie.
761. Belertucadi. — V. Belatucadua.
762. Belidi. — Così avean nome le figliuole di Danao, conosciute comunemente sotto il nome di Danaidi. Veniva loro dato talvolta il nome di Belidi da Belo loro zio paterno. Belide era anche chiamato Palamede, per essere pronipote dello stesso Belo.
763. Belifama o Belizama. — Nome che significa regina del cielo e che i Galli davano indistintamente a Giunone, a Minerva, a Venere ed alla luna.
764. Belizama. — V. Belifama.
765. Bellegor. — V. Baal-Fegor.
766. Bellero. — Detto più comunemente Pireno. Fu fratello di Bellerofonte.
767. Bellino. — Soprannome che gli antichi Galli dell’Alvernia davano al dio Beleno, ed a cui facevano i più grandi sacrifizii e le più sontuose feste.
768. Bellona. — Sorella di Marte e dea della guerra. Al dire di Virgilio, era essa che allestiva il carro e i cavalli di Marte, quando questi moveva alla battaglia. Secondo il citato autore, Bellona veniva rappresentata avente in una {p. 59}mano una verga grondante sangue, coi capelli sparsi e con gli occhi truci.
769. Bellonarii. — Sacerdoti di Bellona. Essi celebravano i riti e le feste di questa dea, pungendosi il corpo con le spade, e offerendole il sangue che grondava dalle loro ferite. Il popolo aveva i Bellonarii in grande considerazione.
770. Bellorofonte. — Figlio di Glauco re di Epiro. Un giorno essendo alla caccia uccise inavvedutamente suo fratello Pireno, e per sottrarsi all’ira del padre, ando a rifugirsi presso Preto, re d’Argo, la moglie del quale, a nome Antea, detta anche Stenobea, gli fece delle proposizioni alle quali fu insensibile. Antea punta da questa indifferenza, per vendicarsi lo accusò al marito come aver egli voluto attentare al suo onore. Preto, per non violare il diritto delle genti, non puni di sua mano Bellorofonte, ma lo mandò in Licia con una lettera diretta a Lobate, padre di Antea, rimettendo a quest’ultimo la cura di far morire il presentatore. Bellorofonte, giunto nella Licia, avvertito di quanto si tremava contro di lui, montò il cavallo Pegaseo, ed uccise la Chimera, mostro che Lobate gli avea ordinato combattere nell’intenzione di farlo morire. Gli furono inoltre suscitati contro una infinità di nemici dei quali egli trionfò sempre, rimanendo, per valore e destrezza, vincitore di tutt’i pericoli ai quali lo si esponeva per vendetta. Finalmente provatasi la sua innocenza, Bellorofonte sposò Filonea figlia di Lobate, la quale questi gli concesse in premio delle sue eroiche azioni e della immeritata persecuzione.
771. Belo. — Figlio di Nettuno e di Libia, e re degli Assiri. Si rendevano gli onori divini alla sua statua, che venne poi adorata anche dai Caldei sotto il nome di Baal.
Vi fu anche un altro Belo che fu padre di Danao re d’Egitto.
Belo fu similmente il nome di un re di Tiro e della Fenicia, che fu padre di Pigmalione e d’Elissa, soprannominata Didone.
Belo era del paro la più grande divinità dei Bibilonesi, i quali le innalzarono un tempio che fu il più ricco, sontuoso e magnifico di tutti i tempi del Paganesimo. La tradizione favolosa ricorda che la famosa Torre di Babele non avendo potuto servire al disegno di coloro che l’intrapresero, fu convertita nel tempio di Belo. I re di Babilonia tutti l’abbellirono e l’arricchirono successivamente d’immensi tesori. Serse, al ritorno della funesta guerra di Grecia, lo demoli interamente senza rimanerne vestigie. Erodoto, nel primo libro delle sue opere, ne fa una bellissima descrizione.
772. Belzebù. — Una delle principali divinità dei Sirii. Nella sacra Bibbia, si dà questo nome al principe dei demoni. Presso gli Accaroniti era ritenuto il dio delle mosche, perchè il suo tempio era esente da questi insetti. Non pochi scrittori dell’antichità dicono che una tale denominazione fosse data a questo dio perchè la sua statua, sempre sanguinosa, era coperta di mosche.
773. Bendide. — Divinità dei Tracii. Era la stessa che la Diana dei Greci e dei Romani.
774. Bendidie. — Feste in onore di Diana Bendide, le quali avevano molta somiglianza coi baccanali. Venivano celebrate nella città Pirea, presso Atene.
775. Benilucio. — Soprannome di Giove da un luogo presso Flavigni nella Borgogna, dove fu ritrovata una statua di questo dio, rappresentato sotto la figura d’un giovane senza barba.
776. Bergino. — Divinità particolare a diversi popoli dell’Italia. Si suppone da taluni che fosse qualche eroe dell’antica Roma.
777. Bergioso. — Uno dei figli di Nettuno che fu ucciso da Ercole.
778. Berecinta o Berecintia. — Nome che fu dato a Cibele, perchè sopra d’una montagna della Frigia, che portava l’istesso nome, aveva un tempio a lei consacrato.
779. Berecintia V. Berecinta.
780. Berecinto Eroe. — Veniva così denotato Mida, re della Frigia, forse perchè in quella contrada vi era un monte chiamato Berecinto.
781. Berenice. — Moglie di Tolomeo Evergete, la quale aveva una magnifica capellatura, che ella recise ed offrì agli dei, per la prosperità delle armi di suo marito.
Tolomeo fu profondamente commosso da questa prova di attaccamento, per modo che, qualche giorno dopo, non vedendo nel tempio al posto usuale, le recise chiome della consorte, montò in gran furore contro i sacerdoti, che non le avevano più solertemente custodite : ma un astronomo, chiamato Conone o Conon, prese da ciò occasione per insinuarsi nelle buone grazie di Tolomeo e di Berenice, sostenendo che i capelli di lei fossero stati trasportati in cielo. Tutti prestarono fede a quanto asseriva Conone, e da quel tempo si dette il nome di chioma di Berenice alle sette stelle, che formano la costellazione nota anche oggidì sotto l’istessa denominazione.
Quel Conon vide fra’celesti raggi.Me del Berenicèo vertice chiomaChiaro fulgente…….Catullo. — La chioma di Berenice. trad. di Ugo Foscolo
782. Beroe. — Vecchia donna d’Epidauro, di {p. 60}cui Giunone prese la figura per ingannare Semele, della quale Beroe era stata nutrice.
…..Qui dunque Egioco insilila,Qui sotto il raggio della casta luce,Al nuzial mio letto ? In queste muraUna figlia del tempo, una mortale,Un atomo di polve osa rapirmiDalle braccia il Tonante ? IncatenarloNel poter de’suoi vezzi ?…..…………………… or di terreneSembianze, o mia divinità, ti cela.Schiller. — Semele Traged. trad. di A. Maffei.
Non pria da se la dea la nube sgombra.Che di forma senil tutta si veste :Fa bianco il crin, di color morto adombraIl volto, e crespe fa le guance meste :Al volto antico quell’arca e quell’ombra.Quel velo al capo, al dosso quella vesteDà, ch’una vecchia balia oggi usa ed ave,Che tien del cor di Semele la chiave.Ovidio. — Metamorf. libro III. trad. di Dell’Anquillara.
Vi fu un’altra Beroe figlia dell’Oceano e sorella di Elio.
783. Besa. — Divinità Egiziana, particolarmente venerata in una città dell’alto Egitto, che portava lo stesso nome.
784. Betannoni. — Soprannome dei Coribanti, sacerdoti che presero cura dell’infanzia di Giove.
785. Bettille. — Così venivano nominate alcune pietre, che si credevano animate e dotate della facoltà di dare degli oracoli. Erano rotonde e di media grandezza.
In Grecia era generale credenza che la pietra detta Abadir, divorata da Saturno, fosse una di queste. Boccart, nelle sue opere, trae l’origine delle Bettille dalla pietra misteriosa di Giacobbe sulla quale mentre egli riposava, ebbe una visione. È questo il famoso altare di Betel di cui facemmo menzione nello studio preliminare che precede questo ristretto.
786. Beza. — Nella città di Abide posta all’estrema punta della Tebaide, vi era un oracolo di questa divinità, che rispondeva per mezzo di alcuni biglietti suggellati. La tradizione racconta che furono spediti all’imperatore Costanzo, alcuni di questi biglietti, trovati nel tempio del dio Beza, e che l’imperatore, dopo averne fatto fare un minuto ed accurato esame, facesse incarcerare buon numero di persone. Forse in quei biglietti era rivelato un qualche importante segreto di stato, e le fila di una cospirazione.
787. Bianor. — Detto anche Oeno, figlio di Tiberisa e di Manto : egli fondò la città di Mantova, alla quale dette questo nome in memoria di quello del padre suo. Vi fu anche un principe Troiano, così chiamato, che fu ucciso da Agamennone.
788. Bibesia ed Edesia. — Dee dei banchetti : una presiedeva al vino, l’altra alla gozzoviglia. La loro denominazione deriva dal latino bibere che significa bere, ed edere, mangiare.
789. Bibli. — Figlia di Mileto e della Ninfa Ciane. Innamoratasi perdutamente di Cauno, suo fratello, nè avendo potuto piegarlo alle sue voglie, pianse tanto che fu cangiata in fontana.
V.Cauno.
Qual dalla scorza incisa esce la pece.Qual dalla terra gravida il bitume,Qual l’onda che già neve il verno fece,L’Austro col caldo sol fonde e consume :Tal la misera Bibli si disfece,E ’l pianto col sudor cangiolla in fiume.Ritien la fonte il nome, e quelle valliCon puri irriga e liquidi cristalli.OvidioMetamorfosi libro IX trad. di Dell’Anguillara.
790. Biblosa o Bibio. — Città della Fenicia, ove Venere aveva un tempio : da ciò il soprannome di Biblosa a quella dea, e più comunemente quello di Biblia.
791. Bibratte. — Antica città degli Edueni, che oggi di si crede essere la stessa conosciuta sotto il nome di Autim. È generale credenza che un tal nome fosse dato a quella città, per essersi ritrovato nel suo ricinto una iscrizione che diceva, Deœ Bibracli, cioè : alla Dea Bibratte.
792. Bicornide, Bicornigero e Bucorno. Cioè che ha due corna : soprannome che si dà a Bacco per la sua sfrontatezza. La luna veniva anch’essa detta bicornide.
793. Bicornigero. — V. l’articolo precedente.
794. Bidentali. — Sacerdoti dei Romani, essi presiedevano alle cerimonie espiatorie, quando il fulmine era caduto in qualche luogo.
795. Bidentalo. — Così veniva chiamato il luogo in cui era caduta la folgore. Vi si sagrificava un agnella ; ed il luogo divenuto sacro, veniva recinto di una palizzata, per impedire che vi si caminasse.
796. Bieunio. — Uno dei sacerdoti Coribanti o Cureti, che presero cura di Giove. Da questo Bieunio si dà talvolta questo soprannome a Giove stesso.
797. Biforme. — Vale a dire che la due forme o nature. Soprannome che veniva dato a Bacco, perchè il vino rende gli uomini o gai, o furiosi.
798. Bilancia. — Il settimo segno dello {p. 61}Zodiaco, contrassegnato da una bilancia, che la tradizione favolosa dice esser quella di Astrea, dea della giustizia, la quale al cominciare del secolo di ferro abbandonò la terra.
799. Bimatere. — Ossia che ha due madri : soprannome di Bacco a cui Giove fece da madre dopo la morte di Semele. — V. Bacco.
800. Bipennifero. — Così veniva soprannominato Licurgo re della Tracia. Alcuni scrittori dicono che tal nome gli venisse dalla scure di cui egli si servì per recidersi le gambe. È questa una opinione poco accreditata.
801. Bisalpisa. — Figlia di Bisalto ; fu una delle mogli di Nettuno. Più comunemente è conosciuta sotto il nome di Teofane.
802. Biscia. — Rettile consacrato a Diana. Agamennone stando alla caccia ne uccise una che apparteneva particolarmente a quella dea, la quale per vendicarsi suscitò nel campo di lui una terribile pestilenza e ottenne da Eolo la sospensione dei venti, onde impedire ai Greci di andare a Troia. Tutte queste sventure durarono finchè Agamennone, per placare la dea non sagrificò la propria figliuola Ifigenia, la quale, si dice, Diana salvasse.
I Troiani anch’essi uccisero una biscia di Diana, e ciò fu causa della disastrosa guerra che essi dovettero sostenere contro i Rutuli.
803. Bistone. — Figlio di Marte e di Calliroe. Edificò una città della Tracia, a cui dette il suo nome.
804. Bistonidi. — Donne della Tracia e probabilmente della stessa città di cui è menzione nell’articolo precedente. Orazio dice essere le stesse che le baccanti.
805. Bistonio. — Diomede, tiranno e re della Tracia cra dinotato con questo soprannome.
806. Bisultore. — Soprannome di Marte, che significa due volle vendicatore.
807. Bitia. — Troiano, fratello di Pandaro e seguace di Enea.
808. Bittone. — Fratello di Cleobe. Entrambi si resero celebri per la pietà verso la loro madre e tanto che meritarono dopo la morte gli onori eroici. Erodoto racconta che dovendo la madre loro recarsi al tempio di Giunone su di un carro tirato da buoi, questi animali tardarono ad essere condotti al giogo ; onde i due fratelli, per non fare aspettare la madre tirarono essi stessi il carro per uno spazio di 45 stadii di terreno. Giunti al tempio, tutti gli astanti felicitarono quella madre per aver dei figliuoli così affettuosi, ed ella stessa, dolcemente commossa, supplicò la Dea a voler concedere ai suoi figli tutta quella maggiore felicità che un uomo possa conseguire sulla terra. Terminata la preghiera essi si addormentarono e non si svegliarono più, poichè la Dea avea loro nel sonno mandata la morte come il sommo dei beni a cui l’uomo possa agognare. Gli abitanti di Argos, ove accadde l’evento eressero a Bittone e Cleobe due statue, che posero nel tempio di Delfo.
809. Bizeno. — Figlio di Nettuno. Egli si rese celebre per la estrema franchezza con la quale diceva ciò che pensava.
810. Boedromie. — Feste che gli Ateniesi celebravano in commemorazione d’una vittoria, nel mese di agosto, a cui nella lingua d’Atene si dava il nome di βονδρομιον. Queste feste prendevano il nome da βοῡ, grido, e δρόμω, io corro.
811. Boedromio. — Nome col quale in Atene veniva dinotato Apollo.
812. Bolatheno. — Soprannome dato a Saturno.
813. Bolina. — Ninfa che per sottrarsi alle persecuzioni di Apollo si precipitò in mare. Il nume, mosso a compassione, la salvò e la rese immortale.
814. Bolomancia. — Specie di divinazione che si eseguiva con delle frecce. Ezechiello ne fa menzione parlando di Nabuccodonosor.
815. Boopide. — Dal greco Βους, bove, ed ωφδος, occhio, era così denominata Giunone a causa dei suoi grandi occhi.
816. Boote. — Costellazione vicina a quella dell’orsa maggiore presso il polo artico. Si crede che sia lo stesso che Icaro. Altri scrittori vogliono che sia Arcaso, cangiato in orso e posto fra le costellazioni.
817. Borea. — Vento del settentrione : la favola lo fa essere figlio di Astrea e di Eribeo. La tradizione mitologica racconta che appena divenuto adulto rapì Oritia, figlia di Oricteo, dalla quale ebbe due figli Calaide e Zeto.
Subito scuote l’ali, ed alza il grido,Trema per tutto il mare, e s’apre e mugge,E rende polveroso il cielo e ’l lido,E le biade e le piante atterra e strugge ;E vede in Grecia appresso il regio nidoLei, che dal suo furor con molte fugge :La toglie in grembo, e volta a’Greci il tergo.E torna con la preda al patrio albergo.Ovidio. — Metamorfosi. — Libro VI. trad. di Dell’Anguillara.
Gli abitanti di Megalopoli lo avevano in grande venerazione e gli rendevano onori divini. Egli si trasformò in cavallo e per mezzo di questa metamorfosi procurò a Dardano 12 poledri, i quali correvano con tanta velocità che sorpassavano un campo di spighe senza curvarle, e {p. 62}traversavano la superficie delle acque senz’affondare.
Di Dardano fu nato il re d’ogni altroPiù opulente Erittonio. A lui tre milaDi teneri puledri allegre madriLe convalli pascean. InnamorossiBorea di loro, e di destrier morelloPresa la forma, alquante ne compresseChe sei puledre e sei gli partoriro.Queste talor ruzzando alla campagna,Correan sul capo delle bionde aristeSenza pur sgretoiarle : o se co’saltiPrendean sul dorso a lascivir del mare,Su le spume volavano de’fluttiSenza toccarli………Omero Iliade — Libro XX trad. di Vinc. Monti
I Poeti dipingono Borea con le ali ai piedi ed alle spalle per mostrare, la sua leggerezza e con la figura di un uomo giovane avvolto in un mantello.
818. Boreadi. — Nome patronimico dei figli di Borea.
819. Boschi sacri. — I pagani avevano in grande venerazione le foreste : non v’era tempio di qualche importanza che non avesse un bosco consacrato alla divinità che vi si adorava. Presso i primitivi popoli dell’antichità era ritenuto come un enorme sacrilegio il tagliare i boschi sacri : il solo caso in cui era permesso il recidere qualche albero era quando abbisognava dare più luce in qualche punto ove la troppo foltezza delle piante rendeva le tenebre troppo fitte. Eliano racconta che il dio Esculapio avesse severamente proibito che nel bosco sacro, a lui consacrato presso Epidauro, fosse nato o morto alcuno. Da ciò vedesi nettamente l’idea dello scopo principale dela medicina ch’è quello d’impedire la morte degli uomini, per quanto sia in potere della scienza. Era quindi logico che il dio della medicina proibisse che in un luogo a lui consacrato morisse alcuno ; ma non è egualmente logico che lo stesso Iddio proibisse per sempre la nascita di un uomo in uno dei suoi sacri recinti.
Lo stesso autore fa similmente menzione di un bosco sacro dedicato ad Apollo nell’isola di Claro ; ove non fu mai ritrovato un animale velenoso e dove i cervi, inseguiti dai cacciatori andavano a ricoverarsi senz’aver nulla a tenere dai cani che li perseguistavano, poichè lo stesso Apollo, non appena i cervi erano enirati nel recinto del bosco consacrato respingeva gli assalitori mentre i cervi pascevano tranquillamente l’erbe del bosco.
820. Branchide. — Soprannome di Apollo che a lui veniva da un tempio che egli fece innalzare in onore di un giovanetto per nome Branco, che quel nume ebbe estremamente caro durante la vita : i sacerdoti di quel tempio furono detti Branchidi.
821. Braurona. — Città dell’Attica, ove Ifigenia trasportò da Tauride la statua di Diana, la quale venne deposta in un tempio fabbricato da Oreste. Ifigenia fu la più celebrata fra le sacerdotesse di questo tempio, ove dopo la sua morte, le furono resi gli onori divini.
822. Brauronia. — Soprannome di Diana che le veniva da un tempio ch’ella aveva nella città di Braurona. V. l’articolo precedente.
823. Briareo. — Detto con altro nome Egeone. Gigante, figlio del cielo e della terra ; prese parte nella guerra che i giganti mossero a Giove. La favola dice che aveva cento braccia e cinquanta teste : da ciò il soprannome di centimano. Di questo favoloso gigante dice il Monti :
Un’ altra furia di più acerba facciaChe in Flegra già del cielo assalse il muroE armò di Briareo le cento braccia.Monti — Bascilliana C. II.
e Omero :
….. all’alto OlimpoPrestamente chiamando il gran CentimanoChe dagli Dei nomato é Briaréo.Da’mortali Egèone, e di fortezzaLo stesso genitor vincea d’assai.Omero — Iliade L. I. trad. di V. Monti.
La verità nascota sotto questo simbolo favoloso, è che Briareo era un principe Titano, formidabile guerriero, che comandava un numeroso corpo di truppe.
824. Brimo. — Divinità infernale, comunemente ritenuta la stessa che Ecate.
825. Brise. — Sacerdote di Giove e padre di Briseide.
826. Briseide. — Nome patronimico d’Ippodomia, figlia di Brise, sacerdote di Giove, di cui nell’articolo precedente. Durante l’assedio di Troia, Achille avendo espugnata la città di Litnessa, ebbe da Agamennone fra le altre prede del bottino di guerra, la giovinetta Briseide ; ma poi Agamennone stesso la ritolse ad Achille, volendo ritenerla per sè.
….. e mi pensai dal puntoChe dalla tenda dell’irato AchilleVia menasti, o gran re, la giovinettaBriseide, sprezzato il nostro avviso,Ben io, lo sai, con molti e caldi preghiTi sconfortai dall’opra : ma tu, spintoDall’altero tuo cor, onta facestiAl fortissimo eroe, dagl’ImmortaliStessi onorato, e il premio gli rapistiDe’suoi sudori, e ancor lo ti ritieni.Omero — Iliade Libro IX. trad. di V. Monti.
{p. 63}Achille allora, altamente sdegnato, non volle più combattere nelle file dei Greci contro i Troiani, ma poi la morte di Patroclo, suo intimo e carissimo amico, indusse Achille a prendere nuovamente le armi, e a vendicare con la morte di Ettore (il cui cadavere egli trascinò legato al suo carro per tre volte intorno alle mura di Troia) quella dell’amico suo.
827. Briseo. — Soprannome di Bacco a lui dato dall’invenzione che gli si attribuisce di schiacciar l’uva per estrarne il vino.
828. Brisida o Brasida. — Uno dei più valorosi capitani dei Lacedemoni. Dopo la sua morte gli fu innalzata dagli abitanti di Anfipoli una ricchissima tomba e furono celebrate in suo onore delle feste dette Brisidee o Brasidee.
829. Britomarte o Britormati. — Figliuola di Giove, la quale, per sottrarsi alle persecuzioni di Minos, si precipitò in mare e fu alla preghiera di Diana messa nel numero delle immortali.
830. Britormati. — V. Britomarte.
831. Brizo. — Dea che presiedeva a sogni.
832. Bromio. — Altro soprannome di Bacco.
833. Bromuso. — Uno dei centauri ucciso da Ceneo.
834. Bronte. — Famoso ciclopo, figlio del cielo e della terra. Egli insieme ad altri due compagni a nome Sterope e Piracmone, fabbricavano i fulmini per Giove.
…. Stavan ne l’antro alloraSterope e Bronte e Piracmone ignudiA rinfrescar l’aspre saette a Giove.
Virgilio — Eneide — libro VIII trad. di A. Caro
835. Bronteo. — Dalla parola greca Βριντη, che significa tuono. Veniva dato codesto soprannome a Giove, come padrone dei fulmini e dei tuoni.
836. Broteo. — Figlio di Vulcano e di Minerva. La Favola racconta che, non potendo sopportare gl’insulti e le derisioni, di cui si vedeva fatto continuo bersaglio, a causa della sua estrema bruttezza, si gettò nel monte Etna.
837. Brumali. — Feste in onore di Bacco. Si celebravano il 24 di novembre e duravano un mese.
838. Bubaste. — Sotto questo nome veniva nell’alto Egitto venerata la dea Diana ; e siccome in lingua Egiziana la parola Bubaste significa Gatto, così fu detto che Diana si fosse cangiata in quell’animale. Nella città di Eubaste si aveva in grande venerazione la Dea Bubaste ed ogni anno si celebrava in suo onore una festa, che era una delle principali dell’Egitto, e che richiamava un numero immenso di forestieri.
839. Bubona. — Dea che s’invocava per la conservazione degli armenti.
840. Bucentauro. — Si dava questo nome ad una specie di Centauro, che invece di avere la parte inferiore di cavallo, l’aveva di bue.
841. Bucolione. — Figlio di Laumedonte — V. Abarbarea.
842. Bucorno. — V. Bicornide.
843. Budea. — Soprannome di Minerva, come Budeo era quello di Giove.
844. Buona-Dea. — Discorde è l’opinione degli scrittori della Favola sulla Dea alla quale si dava codesto soprannome, poichè alcuni pretendono che fosse Cerere, altri Proserpina, ed altri Cibele.
Plutarco la confonde con Flora ; Varrone la fa moglie di Fauno, e dice ch’ella fu per tutta la vita l’esempio della castità coniugale. Lattanzio, nelle sue cronache, racconta invece che la moglie di Fauno, avendo contro l’uso dei tempi bevuto del vino, fosse dal marito fatta morire a colpi di verga ; ma che poi, rinvenuto da quella specie di ebbrezza di furore, Fauno piangesse amaramente la morte della sposa e la ponesse fra le Dee. La festa della Buona-Dea veniva celebrata ogni anno nel primo di Maggio ; la cerimonia veniva fatta durante la notte, adornandosi con gran dispendio le case ove si celebrava e gli appartamenti illuminando con uno sterminato numero di torce. I Cartaginesi avevano anch’essi una loro Buona-Dea, che comunemente si crede essere Giunone.
845. Buonie. — Feste nelle quali si sacrificavano un gran numero di buoi : venivano celebrate in Atene in onore di Giove Polieno.
846. Buoni-Eventi. — Vale a dire avvenimenti prosperi o felici ; i Pagani ne avevano fatto delle divinità.
847. Buono. — Si dava questo semplice nome al buon Genio, Dio dei bevitori, il quale per questa ragione veniva sovente confuso con Bacco. In Grecia, sulla strada che da Tebe menava al monte Menalo, vi era un tempio a lui consacrato.
848. Buono-Dio. — Secondo Pausania, questo soprannome si dava a Giove, come Dio benefico e padre degli uomini.
849. Bupale. — Celebre pittore greco, il quale ritrasse il poeta Ippanaso sotto una figura estremamente ridicola. Il poeta per vendicarsi la punse così spietatamente in una satira, che il pittore, deriso da tutti, si appiccò per disperazione.
850. Bupalo. — Celebre scultore che visse all’epoca della sessantesima olimpiade. Egli è {p. 64}lo stesso ricordato nelle cronache per aver scolpito la prima statua della Fortuna per gli abitatori di Smirne. Plinio nelle sue opere ne fa menzione come d’un artista di merito eminente, e narra di lui che avendo gli abitanti di Scio ordinata una Diana, egli l’avesse fatta collocare in un luogo elevato, per modo che chi entrava vedeva il volto della Dea tristo e severo ; mentre a chi usciva sorrideva gaio ed allegro.
851. Buphago. —Soprannome dato ad Ercole perchè vuol dire mangiatore di buoi — Vedi Adefago.
852. Buraico. — vedi Baraico.
853. Busiride. — Figlio di Nettuno e di Lidia. Egli fu uno dei più crudeli sovrani dell’Egitto. Aveva per costume d’immolare a Giove tutti gli stranieri che approdavano nei suoi stati. Fu ucciso con suo figlio, e con tutti i suoi adepti, da Ercole, al quale egli preparava la stessa sorte. È generale credenza, avvalorata dall’opinione dei migliori scrittori, che Busiride sia lo stesso che Osiride ; e che il sanguinoso culto con cui quest’ultimo veniva adorato, abbia dato vita a questa favola. La barbara superstizione del popolo, faceva ad Osiride sacrificio di umane vittime, cosicchè le are di questa truce divinità, grondavano sempre di sangue.
854. Bute. — Città dell’Egitto, celebre secondo Strabone per un oracolo di Latona.
855. Buteo. — Figlio di Borea. Egli fu costretto ad abbandonare gli stati del padre putativo, Amico, re dei Bebrici, il quale non volle riconoscerlo. Egli allora con pochi seguaci si ritirò in Sicilia e durante la fuga giunse sulle coste della Tessaglia, mentre si celebravano i Baccanali e rapì Iffimedia, Paneratise e Coronide, sacerdotesse di Bacco. Buteo tenne per se Coronide, ma Bacco, di cui ella era stata nutrice, ispirò al rapitore un tale accesso di rabbia, che questi si precipitò in un pozzo. Altri scrittori dicono che Buteo sposasse una donna, la quale, per la sua incomparabile bellezza, fosse soprannominata Venere.
Si trovano nella Favola diversi altri personaggi noti sotto il nome di Buteo, fra i quali un trojano, ucciso da Camillo, un sacerdote, un argonauta, ed un figlio di Pandione, re d’Atene, al quale venivano offerti dei sacrifizii come ad un Dio.
856. Butrota. — Città dell’Epiro, in cui Enea trovò Andromaca, abbandonata da Eleno.
C §
[n.p.]857. Caante. — Figlio dell’Oceano. Avendogli suo padre ordinato di perseguitare Apollo, il quale aveva rapita sua sorella Melia, nè potendo costringere Apollo a rendergliela, egli appiccò il fuoco ad un bosco consacrato a quel Dio, il quale, per punirlo, lo uccise a colpi di frecce.
858. Caballina. — Fontana che aveva la sua
sorgente ai piedi del monte Elicona. Era consacrata alle muse ed era la
stessa che quella d’Ippocrene, perchè la parola Caballina si può anche
spiegare così : Fontana del cavallo Pegaso
, che al
dire degli scrittori più rinomati della Favola, era il cavallo di cui si
servivano le Muse ed Apollo.
859. Cabarnide. — Si chiamava così l’isola Paro, a causa di certo Cabarno, pastore nativo di quella, il quale svelò a Cerere il ratto di sua figlia Proserpina, consumato da Plutone.
860. abarno. — Sacerdote di Cerere, nell’isola di Paro.
Era anche cosi chiamato il pastore di cui nell’articolo precedente.
861. Cabira. — Figlia di Proteo : fu una delle mogli di Vulcano.
862. Cabiri. — Divinità che venivano adorate con un culto tetro e misterioso, nell’isola di Samotracia.
Avevano diversi nomi, come : Osiride, Iside, Ascalafi, ecc. Alcuni scrittori non riconoscono che tre Deità : Plutone, Proserpina e Cerere, alle quali si dava il nome complessivo di Dei Cabiri. Anche nella Fenicia vi erano delle Divinità dette Cabiri o Caberi ; ma l’opinione più valida e più generalmente ritenuta dagli scrittori dell’antichità è, che significando la parola Cabiri in lingua Fenicia possente, era stato adoperato questo vocabolo per denotare gli Dei in generale.
863. Cabiria. — Soprannome di Cerere.
864. Cabiridi. — Furono così denotate le figliuole di Vulcano e di Cabira. V. Carira.
865. Cabirie. — Feste in onore degli Dei Cabiri. Da principio queste cerimonie venivano celebrate solo nell’isola di Lenno, poi passarono nella Samotracia e finalmente in Atene ed in Tebe, ove furono celebri.
866. Cabro, o Calabro. — Dio a cui s’offerivano in sacrificio dei piccoli pesci salati. Il suo culto era celebre in Faselide, città delle Panfilia.
867. Caca. — Sorella di Caco. Si pretende ch’ella avesse palesato il furto dei buoi che suo fratello aveva fatto ad Ercole, e che perciò avesse meritato gli onori divini.
868. Cachomedusa. — Moglie di Ercesio. Fu madre di Laerte e avola di Ulisse.
869. Caco. — Famoso ladro, figlio di Vulcano. Egli dimorava nelle circostanze del monte Aventino. Derubò alcuni buoi ad Ercole e li nascose nella propria caverna, dove li fece entrare a ritroso, affinchè le orme dei piedi non avessero palesato il fatto ; ma passando Ercole col resto dell’armento d’innanzi all’antro di Caco, gli animali da questo involati si dettero a muggire, e allora Ercole ; abbattuta la porta della caverna, riprese i suoi animali, dopo aver ucciso il ladro.
Quegli è Caco,Che sotto il sasso di monte Aventino.Di sangue fece spesse volte laco.Non va co’suoi fratei per un cammino.Per lo furar frodolente ch’ei feceDel grande armento, ch’egli ebbe vicino :Onde cessar le sue opere bieceSotto la mazza d’Ercole, che forseGliene die cento, e non senti le diece.Dante. — Inf. Cant. XXV.
{p. 66}870. Cadarmidi o Catarmi. — Sacrifizii nei quali s’immolavano vittime umane, onde ottenere dagli Dei la cessazione della peste od altra pubblica calamità.
871. Camdea o Cadmia. — Pietra che veniva fusa col rame rosso, per farne una specie di metallo di coloro giallognolo. Questa pietra, la cui scoperta si attribuisce a Cadmo, fu dal nome di lui detta Cadmea.
872. Cadmeo. — Detto anche Cadmejo, nome patronimico di Cadmo, fondatore di Tebe.
873. Cadmia. V. Cadmea.
874. Cadmillo. V. Camillo.
875. Cadmo. — Fondatore e re di Tebe e figlio di Agenore e di Telefassa. Essendo stata Europa rapita da Giove, Agenore ordinò a Cadmo di rintracciarla e di non ritornare senza di lei. Cadmo, prima di ubbidire al comando paterno, consultò l’oracolo di Delfo, dal quale, invece dell’attesa risposta, ebbe l’ordine di fabbricare una città nel luogo ove un bue l’avesse condotto. Allora prese Cadmo la risoluzione di percorrere il mondo, e giunto nella Beozia, offerì un sagrifizio agli Dei, ordinando ai suoi seguaci di andare ad attingere l’acqua necessaria per l’offerta alla fontana di Dirce ; ma i suoi compagni furono tutti divorati da un drago. Minerva allora ordinò a Cadmo di combattere il mostro, ed avendolo egli ucciso, ne seminò i denti, e, come per incanto, uscirono dalla terra degli uomini armati, dei quali solo cinque rimasero fedeli a Cadmo e lo aiutarono ad edificare la città di Tebe, nel posto dove un bue, ch’egli conduceva con sè si era fermato, compiendosi così il dettato dell’oracolo di Delfo. Cadmo sposò Ermione, figlia di Venere e di Marte, la quale lo rese padre di Semele, Ino, Autoneo e Agave. Avendo novellamente consultato l’oracolo, per interrogarlo sulla sorte dei suoi figli, ne ebbe in risposta che erano loro riserbate le più grandi sventure.
Allora, afflitto e scoraggiato dalla crudele profezia, si esiliò con la moglie dal proprio paese, per non assistere alle sciagure della sua famiglia, ma nella fuga furono entrambi cangiati in serpenti.
…………..Già la serpigna squama asconde il volto,E se vuol favellare, il sibil rende :Pur si volge alla moglie, e dir s’arrischia :Ma in vece di parlar sibila e fischia.…………..Ecco a un tratto anco a lei fugge la forma,E non è più un serpente, ma son dui :E serpono ambedue fra l’erba, e vannoNe’più propinqui boschi, e li si stanno.OvidioMetamorfosi Libro IV trad. di Dell’Anguillara.
876. Caduceo. — Così veniva chiamata la bacchetta che Apollo fece presente Mercurio quando questi gli ebbe donata la sua lira. Un giorno Mercurio trovò sul monte Citerone due serpenti che combattevano fra loro, e gettò fra di essi la sua verga per separarli. Le due serpi si attorcigliarono intorno a quella in modo che la parte superiore del loro corpo veniva a formare un arco. Mercurio volle in segno di pace portar sempre a quel modo la sua baccchetta, all’estremità della quale mise due ali in segno di rapidità.
877. Caducifero. — Ossia che porta il Caduceo : soprannome di Mercurio. (vedi l’articolo precedente.)
878. Cafareo. — Famoso promontorio nell’isola di Eubea.
879. Cajetta o Cajbia. — Fu la nutrice di Enea e dette il suo nome ed un promontorio della penisola Italiana, dove essa morì, come pure al porto ed alla città che venne poi costruita in quel luogo, oggi detta Gaeta, dal latino Caiela.
Ed ancor tu, d’Enea fida nudriceCaieta, a i nostri liti eterna famaDesti morendo ; ed essi anco a te dieroSede onorata, se d’onore a’mortiÈ d’aver l’ossa consacrate e’l nomeNe la famosa Esperia. Ebbe CaietaDal suo pietoso alunno esequie e lutto,E sepoltura alteramente eretta.Virgilio. — Eneide — libro VII trad. di A. Caro.
880. Caistrio o Caystrio. — Fu uno degli eroi del popolo di Efeso : aveva un tempio ed un altare sulle rive del fiume Caistro, presso quella città.
881. Cajbia V. Caietta.
882. Calabro. — V. Cabro.
883. Calaide e Zete. — Fratelli, figliuoli di Borea e di Oritia i quali, fecero insieme agli Argonanti il viaggio della Colchide, e furono fra i combattenti delle Arpie allorchè queste furono scacciate dalla Tracia. V. Arpie. Essi furono uccisi da Ercole durante la celebrazione dei giuochi funebri di Pelia. Vengono rappresentati coi capelli di colore azzurro per indicare l’aria d’onde soffia il vento e con le ali, per alludere alla loro paternità (V. Borea.)
884. Calasidie. — Feste celebrate nella Laconia, in onore di Diana.
885. Calcante. — Famoso indovino, figlio di {p. 67}Testore, che seguì l’armata dei Greci all’assesedio di Troja,
….. In piedi alloraDi Testore il figliuol Calcante aizossi,De’veggenti il più saggio, a cui le coseEran conte che fur, sono e saranno,E per quella che dono era d’Apollo,Profetica virtù, de’Greci a TroiaAvea scorte le navi…..Omero — Iliade libro I trad. di V. Monti.
e predisse in Aulide, che quello sarebbe durato dieci anni ; e che i venti non sarebbero stati favorevoli alle navi greche, se non dopo il sacrificio di Ifigenia figlia di Agamennone. Quando Troja fu espugnata, Calcante si ritrasse a Colofone, ove morì di dolore, non avendo potuto predire ciò che Mopso, altro indovino, aveva predetto. Così Calcante compì il suo destino, che era quello di morire quando avesse ritrovato un individuo più abile di lui.
886. Calchee o Calcie — Feste in onore di Vulcano, celebrate dagli Ateniesi, per essersi trovata l’arte di porre in opera il rame. Questa parola deriva dal greco ϰαλϰος rame.
887. Calchiade o Calcieca. — Soprannome di Minerva (V. l’articolo seguente.)
888. Calchiadi a Calciecle. — Feste in onore di Minerva, la quale veniva anche detta Calciecia.
889. Calcie. — V. Calchee.
890. Calciecie. — V. Calchiadi.
891. Calcieco. — V. Calchiade.
892. Calciope. — Figlia di Aete, re della Colchide : fu sorella di Medea e moglie di Frisso da cui ebbe molti figliuoli. Il padre di lei, per impadronirsi dei tesori di Frisso, lo fece assassinare ; onde ella, temendo che l’istessa sorte fosse toccata ai suoi figli, li fece segretamente imbarcare per la Grecia ; ma essi fecero naufragio in un isola, ove restarono finchè Giasone non li ricondusse nella Colchide.
Vi fu anche un’altra Calciope figliuola di Euripiele, re dell’isola di Cos. Ercole l’amò passionatamente, e quest’amore fu cagione della rovina della famiglia di lei ; imperocchè essendosi Euripilie ricusato di aderire alle nozze dell’eroe con la figliuola, Ercole l’uccise, e poscia fuggì con Calciope, da cui ebbe un figliuolo per nome Tessalo, che poi dette il suo nome alla Tessaglia.
893. Calendaria. — Soprannome di Giunone, che le veniva dai giorni delle Calende, a lei consacrati.
894. Calibea. — Sacerdotessa di Giunone. Alecto prese la figura di lei per presentarsi a Turno, re dei Rutuli.
895. Calicea. — Una delle figlie di Eulo : fu moglie di Ezio e madre di Endimione.
896. Calicope. — Così veniva denominata la Venere, madre di Enea : fu figliuola d’Otrea e sposò Toade, re di Lenno.
Questi eresse gran numero di templi in onore della sua consorte in Pafo, in Amatunta, nell’isola di Cipro ed a Biblo nella Siria : istituì in suo onore un culto sacro e particolare, con feste e sacerdoti. Bacco amò sfrenatamente Calicope ed un giorno il marito lo sorprese fra le braccia di lei ; ma Bacco placò lo sdegno del tradito consorte, facendolo re di Cipro.
897. Calidone. — Città e foresta dell’Etiolia. Fu in quest’ultima che Meleagro uccise il famoso cignale, conosciuto sotto l’istesso nome.
898. Calidonio. — Soprannome di Bacco preso dal culto che gli si rendeva nella città di Calidone. È opinione erronea, quantunque ripetuta da varii scrittori, il credere che sotto la denominazione di Eroe Calidonio volessero gli antichi dinotare Bacco : sotto quel nome veniva designato Meleagro, ritenuto come un eroe per l’uccisione del mostruoso cignale (V. Calidone) e Calidonio perchè nativo della città di Calidone.
899. Calidonisa. — Così veniva denominata Dejanira, moglie di Ercole, perchè nacque nella città di Calidone.
900. Calipso. — Ninfa, figlia del Giorno, secondo alcuni ; e dell’Oceano e di Teti, secondo altri — Ella abitava l’isola di Ogigia, ove ospitò assai cortesemente Ulisse, gettato su quelle sponde da una tempesta. Essa lo amò, e visse sette anni con lui ; ma, passato questo tempo, Ulisse fece ritorno in patria, abbandonando Calipso per sua moglie Penelope ; e non curando la promessa d’immortalità che la Ninfa gli aveva fatto se avesse voluto continuare a viver con lei.
901. Calisto. — Detta anche Elicea : fu figlia di Licaone ed una delle ninfe del seguito di Diana. Giove, avendo presso per ingannarla la figura di Diana, ne ebbe un figlio per nome Arcaso, al quale, Calisto dette la luce in un bosco, avendola Diana scacciata dal suo seguito per essersi ella negata a spogliarsi prima di prendere il bagno. Giunone intanto, implacabile persecutrice di tutte le amanti del suo divino consorte, cangiò Calisto e suo figlio Arcaso in orsi :
Quel si leggiadro e grazioso aspettoChe piacque tanto al gran rettor del cielo,.Divenne un fero e spaventoso obbiettoA gli occhi occhi altrui sotto odioso velo.L’umana mente solo e l’intellettoServò sotto l’irsuto e rozzo pelo ;Questa, ch’in ogni parte Orsa div enne.L’antica mente sua sola ritenne.Ovidio — Metamor. — Lib. IItrad. di Dell’Anguillara
{p. 68}e Giove allora li trasportò nel cielo, fra le costellazioni, ove Calisto fu la grande orsa, e Arcaso la piccola, conosciuta pure sotto il nome di Boote. V. Boote.
902. Callianasse o Callianira. — Ninfa che presiedeva alla buona condotta, ed alla decenza dei costumi.
903. Callianira. — V.Callianasse.
904. Callicore. — Luogo della Focide ove le Baccanti si riunivano per danzare in onore di Bacco. Questo vocabolo deriva dal Greco Καλός, e ϰορίς radunanza di persone.
905. Calligenie. — Nutrice di Cerere, secondo alcuni scrittori, e Ninfa del suo seguito secondo altri. La più antica e la più generalizzata opinione è che Calligenie fosse uno dei soprannomi di Cerere stessa.
906. Calliope. — Una delle nove muse e particolaremente quella della eloquenza e della poesia eroica. I poeti la rappresentano come una giovanetta coronata di lauro, adorna di flori, con un’aria maestosa, con una tromba nella mano diritta, con un libro nella sinistra, e seguita da altre tre figure di donne, in cui l’allegoria favolosa vede la personificazione dell’Iliade, dell’Odissea e dell’Eneide.
907. Callipatira. — Ebbe questo nome una donna greca, la quale, ricorrendo il tempo dei giuochi olimpici, a cui non era permesso alle donne di prender parte, si travestì da maestro degli esercizî, per accompagnarvi suo figlio. Ma, non potendo frenare i trasporti della gioia materna nel vederio fra il numero dei vincitori, essa fu riconosciuta, arrestata e condotta innanzi ai giudici ; i quali però le fecero grazia, ordinando da quel tempo con una legge che i maestri degli esercizii dovessero essere nudi, come gli atleti, tutte le volte che si fossero celebrati i giuochi olimpici.
908. Callipica. — Uno dei soprannomi di Venere, che le veniva dalla bellezza fisica di una parte del suo corpo.
909. Callirot. — Secondo Esiodo, fu figliuola dell’Oceano e moglie di Crisaore, che la rese madre di due mostri, uno dei quali fu Gerione, famoso gigante a tre teste ; e l’altro Echidna.
V.Crisaore e Echidna.
910. Callistee. — Feste in onore di Venere, nelle quali veniva conferito un premio alla più bella donna. Questo vocabolo Callistee deriva dal greco Κάλλος, che vuol dire bellezza.
911. Calpe. — Una delle due montagne conoscute nella Favola, sotto il nome di colonne di Ercole.
912. Calunnia. — Gli Ateniesi ne avevano fatto una Divinità.
Per altro gli scrittori più rinomati della Favola non fanno menzione di altari a lei dedicati, o di sacrificii a lei offerti.
913. Camarina o Camerina. — Famoso stagno nella Sicilia, le cui acque esalavano pestilenziali miasmi. I Siciliani consultarono l’Oracolo di Apollo, onde sapere se avessero potuto tentarne il disseccamento ; e l’oracolo rispose che avrebbero dovuto guardarsi non che dal compiere una simile impresa, pur dal pensarla. Essi però, lungi dal tener conto del salutare consiglio, intrapresero il lavoro ed in poco tempo disseccarono lo stagno. Ma ebbero presto a pentirsi della disobbedienza, imperocchè i nemici penetrarono per quel passaggio nella loro isola e la desolarono ponendola a sacco ed a fuoco.
914. Cambe. — Soprannominato Ofiaso, dal nome di suo padre Ofio. Gli si attribuisce la invenzione delle armature d’acciajo.
915. Camela-Dea. — Ossia divinità del matrimonio ; veniva invocata dalle giovanette al momento di compiere il rito nuziale.
916. Camena. — Dea dei Romani. S. Agostino nelle sue opere ce la ricorda come la Dea del canto.
917. Camene. — Soprannome delle Muse, che trae la sua origine dalla parola cano, io canto. I pagani ritenevano che le Muse celebrassero col canto le azioni degli Dei e degli eroi : da ciò cantu amoeno, ossia canto gradevole.
918. Camerina. — V. Camarina.
919. Cameso. — Principe d’Italia, il quale divise con Giano l’autorità reale.
920. Camilla. — Regina dei Volsci. Sostenne lungamente in persona l’armata di Turno contro Enea. Fu celebre cacciatrice, e nessuno fu più destro di lei nella corsa, nel maneggio delle armi e in tutti gli esercizii del corpo.
Nè pria tenne de’piè salde le piante,Che d arco, di faretra e di nodosiDardi, le mani e gli omeri gravolle ;Non d’or le chiome o di monile il collo,Nè men di lunga o di fregiata gonnaLa ricoverse ; ma di tigre un cuoio.Le facea veste intorno e cuffia in capo.Il fanciullesco suo primo dilettoE ’l primo studio fu lanciar di palo,E trar d’arco e di fromba : e’n fin d’alloraFacea strage di gru, d’oche e di cigni.Molte la desiar tirrene madriPer nuora indarno. Ed ella di me soloContenta, intemerata e pura e casta,La sua verginità, l’amor de l’armiSol’ebbe in cale……Virgilio — Eneide — Lib. XI. trad. di A. Caro.
Camilla morì in una battaglia uccisa da un colpo di giovallotto.
Si chiamavano con nome collettivo Camilli tutti quel giovanetti che servivano alle {p. 69}cerimonie dei sacrifizii ; come venivano dette Camille le giovanette adebite allo stesso ufficio.
922. Camillo, Cadmillo Casimillo. — Soprannomi dati a Mercurio.
923. Camira. — Figlia di Ercole e di Iodi. Ella edificò nell’isola di Rodi, una città alla quale dette il suo nome.
924. Camos. — Secondo il Vossio, il Dio Camos dei Moabiti era lo stesso che il Como dei Romani e dei Greci.
Il re Salomone, per compiacere ad una delle sue concubine, innalzò al Dio Camos un tempio.
925. Campagna delle lagrime. — (Campi lugentes) Veniva così designato quel luogo degli inferni, ove si credeva fossero puniti coloro che la forza di una passione d’amore, avesse tratti a morte violenta.
926. Campea. — Guardiana del Tartaro, la quale fu uccisa da Giove, quando questi trasse dalla prigione infernale i suoi zii Titani. È opinione assai generalizzata presso gli scrittori della Favola, che il vero sesso di Campea fosse rimasto un mistero. Molti la dicono donna ; altri vogliono che fosse un uomo dalle forme gigantesche ; altri finalmente che fosse un mostro di natura ermafrodito.
927. Campi Elisi. — V. Elisi.
928. Camulo. — Veniva così chiamata una delle Divinità dei Savizii. Si crede che fosse lo stesso che il Dio Marte della Mitologia Greca e Romana, e ciò dall’essersi ritrovati alcuni monumenti nelle contrade abitate da quei popoli, ove il Dio Camulo veniva rappresentato con una picca ed uno scudo.
929. Canaca. — Era il nome di uno dei cani di Acteone. Questa parola in greco significa rumore.
930. Canace. — Fu figliuola di Eolo, la quale essendo stata sedotta da un Dio marino, che la Favola non determina se fosse Nettuno o altro, ebbe molti figliuoli, fra cui Ifimedia, madre dei famosi Aloidi.
931. Canacea. — Altra figliuola di Eolo la quale non bisogna confondere con la Canace, di cui nell’articolo precedente. Canacea sposò segretamente Macabro, suo fratello, da cui ebbe un bambino, il quale coi suoi vagiti palesò appena nato, il mistero di colpa che avvolgeva la sua nascita. Il padre di Canacea, furibondo per l’infamia dei suoi figliuoli, fece divorare dai suoi cani il neonato, e mandò alla madre un pugnale perchè si punisse da sè dell’orrendo misfatto ; e pensava in cuor suo di far morire Macabro stesso ; ma questi si sottrasse allo sdegno paterno, fuggendo a Delfo, ove si fece sacerdote di Apollo.
932. Canate. — Monte della Spagna, ove generalmente si credeva che i genii malefici facessero loro abituale soggiorno in una caverna.
933. Canatosa. — Fontana in cui Giunone andava tutti gli anni a bagnarsi. Era costume delle più illustri dame greche di andare in pellegrinaggio a quella fontana, onde bagnarvisi.
934. Canero. — Animale della famiglia dei molluschi, comunemente detto ragosta. Giunone ne mandò uno assai grosso contro Ercole, quando questi uccise l’Idra di Lerna, e lo fece mordere al piede ; ma Ercole lo schiacciò con un colpo di clava, e Giunone allora lo trasportò in cielo, allogandolo fra le costellazioni dello zodiaco.
935. Candarena. — Detta anche Candrena : soprannome di Giunone dalla città di Candara nella Pafaglonia, ov’era adorata con un culto particolare.
936. Candaulo. — Detto anche Mirsilo, figlio di Mirso, fu l’ultimo degli Araclidi. Amò così passionatamente sua moglie, e fu così superbo della bellezza di lei, che volle un giorno che ella si facesse veder nuda ad un suo favorito, per nome Gige. La regina fu così profondamente sdegnata, che comandò a Gige di uccidere Candaulo e poi sposò Gige stesso.
937. Cane. — Nella mitologia greca e romana questo animale era consacrato a Mercurio, per essere questi ritenuto il più astuto e vigilante degli Dei, appunto perchè la vigilanza e la sagacità sono i caratteri più salienti della indole di quel quadrupede. Plinio nelle sue opere, dice che i pagani avevano in gran conto la carne dei cani giovani, la quale offerivano in sagrifizio agli-Dei. In Egitto i cani furono tenuti in grande considerazione, fino a che il re Cambise, avendo ucciso il bue Api, fu notato che fra tutti gli animali che si avvicinarono al cadavere di quello, solo i cani si pascessero del corpo dell’ucciso animale. Taluno, tra gli scrittori della Favola, ripete che nel tempio di Esculapio, in Roma, si conservava il simulacro di un cane ; e che i Romani sagrificassero ogni anno uno di questi animali, volendo con ciò ricordare la sorpresa che i Galli fecero loro quand o assediarono il Campidoglio. Al dire di Eliano eravi una contrada nell’Etiopia, i cui abitatori avevano a re un cane e ritenevano le sue carezze o i suoi latrati, come contrassegni della sua benevolenza o della sua coliera. E l’istesso autore ci ripete che, sul monte Etna in Sicilia, in un tempio consagrato a Vulcano, si crescevano dei cani, ritenuti come sacri, i quali lasciavano che coloro che si avvicinavano al tempio con la dovuta reverenza, entrassero liberamente ; mentre latravano e talvolta laceravano coloro che non comparivano con la dovuta nettezza. {p. 70}Finalmente le arpie erano ritenute e talvolta designate col nome di cani di Giove, forse perchè questo Dio se ne servì per punire Fineo. V. Fineo.
938. Canente. — Conosciuta più comunemente sotto il nome di Canenza, al dire di Ovidio, ebbe questo nome dalla incomparabile bellezza della sua voce : fu figliuola di Giano e di Venilla, e sposò Pico, figliuolo di Satono, e re d’Italia. Ella fu così afflitta della morte del marito, che si consumò per modo che svanì nell’aria, non lasciando di sè che la sola voce.
939. Canicola. — È opinione di varii scrittori che la costellazione detta Canicola altro non fosse se non il cane che Giove dette ad Europa come custode ; altri vogliono che sia la cagna di Erigone (V. Erigone). I Romani erano così convinti del funesto potere che la Canicola avesse avuto sui destini umani, che le sacrificavano ogni anno un cane rosso, forse per la grande affinità che passa tra la vittima offerta e il nome della Divinità a cui s’offeriva.
940. Canope. — Era questo il nome di una delle più famose divinità degli Egiziani. I sacerdoti di essa erano tenuti in conto di celebri maghi. Il simulacro di questa Deità, era un gran vaso sormontato da una testa umana e talvolta da quella di uno sparviero, e coperta di geroglifici. I Caldei, antichi adoratori del fuoco, disprezzavano gli Dei di tutte le altre nazioni, dicendo che quelli essendo di oro, di argento to, di ferro, di pietra o di legno, non potevano resistere al loro. Allora un sacerdote del Dio Canope, volle con una sfida, provare il contrario, e le statue dei due numi furono messe alle prese insieme. Si accese un gran fuoco, in mezzo al quale fu posta la statua di Canope, e con grande sorpresa dei Caldei, essi videro ben presto uscire da quella una grande quantità di acqua, che spense interamente le fiamme. Il Dio Canope dichiarato vincitore, fu da quel giorno ritenuto come il più possente degli Dei. Egli però andò debitore della sua rinomanza all’astuzia del sacerdote, il quale avea forato con una quantità di piccoli buchi le pareti del vaso, e dopo averli esattamente otturati con della cera, riempì il vaso di acqua, la quale uscì con violenza non appena l’azione del fuoco ebbe liquefatta la cera.
Vi fu anche una città dell’Egitto conosciuta sotto il nome di Canope, così detta da Canobo, pilota del vascello che conducea Menelao. Questo principe essendo stato gettato da una violenta tempesta sulle coste dell’Egitto, ebbe ben presto il dolore di perdere il suo fido pilota, il quale morì per la morsicatura di un serpente. Menelao, per onorare la memoria del suo servo fedele, fabbricò in quel luogo una città, alla quale, in onore del morto, impose il nome di Canope o, come vogliono alcuni scrittori, di Canobe.
941. Canopio Ercole. — Era l’Ercole Egiziano, così detto per un tempio che egli aveva nella Città di Canope, di cui nell’articolo precedente.
942. Cantho. — Figlio di Abaso : fu uno degli Argonauti.
943. Canuleìa. — Era così chiamata una delle quattro vestali scelte da Numa, allorchè istituì quelle sacerdotesse.
944. Caone. — Fratello di Eleno. Essendo un giorno a caccia fu ucciso inavvertentemente ; il fratello Eleno, che lo aveva assai caro, dette, in memoria dell’ucciso, il nome di Caonia ad una parte dell’Epiro.
945. Caos. — Era, secondo gli scrittori dell’antichità, una prima materia, sussistente abeterno, sotto una forma intralciata e confusa nella quale erano mischiati il principio di tutti gli esseri, di tutte le cose, e di tutti gli elementi. Al dire di Esiodo, l’Erebo e la Notte, furono generati dal caos, volendo spiegare sotto questa allegorìa che questa materia prima era ravviluppata nelle più folte tenebre.
946. Capaneo. — Figlio di Ipponoo e di Astinome. Fu uno di coloro che portarono soccorso a Polinice nel famoso assedio di Tebe, ove egli comandava gli Argivi. Giove irritato dalle atroci bestemmie che egli scagliava contro il cielo, lo incenerì con un colpo di fulmine.
Di questo empio bestemmiatore, l’Alighieri fa dire a Virgilio :
…… Quel fu un dei sette regi,Ch’assiser Tebe, ed ebbe, e par ch’egli abbiaDio in disdegno, e poco par che’l pregi.Dante Inf. Canto XIV.
947. Capiso. — Figlio di Assaraco e padre del famoso Anchise, principe Trojano.
948. Capitolino. — Uno dei più conosciuti soprannomi di Giove, a cagione del celebre tempio nel Campidoglio a Roma. In questo tempio si prestava il giuramento di fedeltà ai novelli imperatori ; vi si facevano i voti pubblici ; ed era ivi che i vincitori delle battaglie, a cui il Senato avea tributato gli onori del trionfo, salivano con gran pompa e solennità nel carro trionfale.
949. Capnomanzia. — Era così detta l’arte di trarre gli augurii e d’indovinare il futuro nei globi di fumo che s’innalzavano dagli altari su cui si facea un sacrifizio agli Dei.
950. Capra. — Nella città di Mendes, in Egitto, veniva particolarmente venerato questo animale, ed era proibito con grande severità {p. 71}ucciderne alcuno, essendo radicale credenza di quei popoli, che il Dio Pane si fosse nascoto sotto la figura di una capra. Erodoto, nelle sue opere, narra che la devozione degli Egiziani per le capre, stendevasi anche ai caprai loro custodi ; tanto che, essendone morto uno, gli abitanti di Mendes dimostrarono il più vivo dolore. È ancora a notare che nella città di Mendes, le vittime più ordinarie dei sagrificii erano le pecore, e si avea gran cura di risparmiare le capre ; mentre nella Tebaide si offerivano in sacrificio le capre, tributandosi alle pecore il maggiore rispetto.
951. Capretto. — Era questo l’animale che si sagrificava in generale a tutti gli Dei campestri e al Dio Fauno in particolare.
952. Caprotina. — Soprannome di Giunone, da cui presero ancora la denominazione di Caprotine le none di luglio, a lei consacrate.
953. Caprotinee. — Feste in onore di Giunone, che venivano celebrate il 9 di luglio. Le sole donne avevano il ministero di queste feste, la cui principale cerimonia consisteva nella corsa che esse facevano, percuotendosi con delle bacchette.
954. Capricorno. — Essendo un giorno il Dio Pane perseguitato dal gigante Tifone, per sottrarsi a lui si trasformò in becco, e Giove sotto questa forma lo mise fra i segni dello Zodiaco. È opinione di molti rinomati scrittori, che questo segno di una delle costellazioni della fascia zodiacale, fosse la capra Amaltea, trasportata da Giove in cielo, in riconoscenza d’averlo nutrito.
955. Capyso, detto anche Capi. — Troiano, compagno di Enea, e suo seguace in Italia. Egli fu il fondatore della città nota anche oggidi sotto il nome di Capua.
…… Ma un altro Trojano, che aveva nome Capi. il quale poi fondò la città di Capua…..Frate Guido da Pisa — I falli di Enea.
956. Carda. Deita anche Cardia. — Al dire di Macrobio, questa Divinità presiedeva alle parti nobili e vitali dell’uomo e soprattutto al cuore. Questa parola Carda deriva dal greco Καρδία che vuol dir cuore. Le storie romane ci ripetono che Bruto, dopo aver scacciato Tarquinio il Superbo, offerisse un sacrificio a quella Dea.
957. Cardea o Cardinea. — Dea dei ganci delle porte ; essa faceva parte dei Penati o Lari.
958. Cardinea. — V. Cardea.
959. Caria. — Provincia dell’Asia minore, fra la Licia e la Jonia, celebre per le metamorfosi che vi operarono diverse Divinità. Cario, figlio di Giove, ne fu il fondatore, onde il nome che porta.
960. Cariatide. — Soprannome di Diana, a lei venuto dalla festa detta Caria, che le donne della Laconia celebravano in onore di lei, nel tempo della raccolta delle noci. In greco la parola Κάρις vuol dir noce.
961. Carielo. — Moglie del centauro Chirone e figliuola di Apollo. Essa dette alla luce una fanciulla, a cui fu dato il nome di Ociroe, per averla la madre partorita sulle sponde di un rapido fiume. V. Ociroe.
962. Cariddi. — Celebre e pericoloso scoglio nello stretto della Sicilia. La Favola racconta essere Cariddi una donna la quale, avendo involato dei buoi ad Ercole, fu fulminata da Giove e cangiata in questo scoglio non lontano dall’altro chiamato Scilla, dove si ascoltava sempre il lamento di spaventose grida.
Come fa l’onda là sovra Cariddi,Che si frange con quella in cui s’intoppa,Cosi convien che qui la gente riddi.Dante. — Inf. cant VII.
Tutta l’onda ingoiata orribilmenteRivome la Cariddi e fuor rimbalza :Simile a tuon di folgore lontano,Mugge, rigurgitando, il gran torrente,E bolle quella rabbia.E cigola, e gorgoglia e stride e fuma,Qual se dentro l’incendio acqua si versi ;E sgorga al cielo un turbine di schiuma,E flotto incalza fiotto, e par non abbiaMai fin, come se il mare un mar riversi.Schiller — Il Nuotatore Trad. di A. Maffei.
Questi due scogli sono così vicini l’uno a l’altro, che le navi devono vogare direttamente nel mezzo, altrimenti correrebbero il rischio, evitandone uno, di frangersi sull’altro.
Da ciò il famoso proverbio, evitar Scilla per cadere in Cariddi.
963. Caride o Charisa. — Era una delle grazie ; Omero la dà per consorte a Vulcano, volendo forse dinotare con questo connubio allegorico, la grazia e la bellezza delle opere, che quel Dio faceva col ferro e col fuoco.
964. Carienne. — Feste che si celebravano a Cario, città della Laconia, in onore di Diana, la quale perciò viene talvolta soprannominata Caria o Cariatide. V. Cariatide.
965. Carille. — Così aveva nome quella giovanetta che si appiccò, non potendo sopravvivere all’oltraggio che le fece il re di Delfo, violandola.
Gli abitanti di quell’isola istituirono in onore della defunta una festa annuaria, detta dal suo nome Carille, nella quale la statua di lei, veniva sotterrata all’istesso posto ove giaceva la morta. Il re stesso era tenuto ad intervenire a {p. 72}questa festa ed a presiederne tutte le cerimonie.
966. Cario. — Figlio di Giove, al quale veniva attribuita l’invenzione della musica. Era anche questo uno dei soprannomi di Giove, per il culto particolare con cui veniva adorato nella provincia fondata da suo figlio. V. Caria.
967. Carisie. — I greci chiamavano le tre grazie Cariti ed istituirono in loro onore alcune feste, alle quali fu dato il nome di Carisie.
968. Caristie o Caritie. — I Romani, nel mese di febbraio, celebravano una festa così chiamata in onore della Dea Concordia. Questa parola deriva dal greco Κάρνα, Unione, perchè lo scopo principale della istituzione di quella festa era di ristabilire l’unione e la pace fra le famiglie, divise per dissapori domestici. Ovidio, nei suoi Fasti, dice che veniva dato un gran pranzo, al quale non era ammessa alcuna persona straniera.
969. Cariti. — Soprannome delle grazie V. Carisie.
970. Caritie. — V. Caristie.
971. Carmelo. — Divinità della Siria e propria di quei popoli che abitavano nelle circostanze del monte Carmelo. Al dire di Tacito, fu un sacerdote del Dio Carmelo che predisse a Vespasiano la clamide imperiale.
972. Carmenta. — Conosciuta anche sotto il nome di Nicostrata, celebre indovina che fu madre di Evandro. Ella fu onorata come una Divinità, e dopo la morte si celebrarono in suo onore delle feste, da lei dette Carmentali.
973. Carmentali. — Feste in onore di Carmenta. V. l’articolo precedente.
La istituzione di queste cerimonie ebbe la sua origine dalla riconciliazione delle dame romane coi loro mariti, dopo una lunga discordia, cagionata da una sentenza del Senato la quale proibiva alle dame di tener cani presso di loro.
974. Carmentis-Flamen. — Con questa denominazione veniva designato uno dei quindici flamini di Roma, addetto al particolare servigio della Dea Carmenta.
975. Carna. — Figliuola di Ebulo. Fu una delle amanti di Giove, che la rese madre di Britomarte.
Carna era anche la Dea che presiedeva alle parti vitali del corpo e che s’invocava principalmente per ottenere la sanità delle viscere. Essa aveva un tempio sul monte Celio, e le si offeriva sempre in sacrificio il lardo e la fava.
976. Carnea. — Dea particolare dei fanciulli : essa s’invocava sovratutto nelle loro malattie.
977. Carneade. — Figlio di Giove e di Europa. Fu poeta e musico celebre. Dal suo nome furono chiamati Carneadi, alcuni dibattimenti poetici, stabiliti in onore di Apollo. Alcuni scrittori danno a questo poeta il nome di Carno.
978. Carneo. — Soprannome di Apollo. V. l’articolo precedente.
979. Carone. — V. Caronte.
980. Caronte o Carone. — Figlio dell’Erebo e della Notte. Egli era, al dire di Virgilio, il navicellajo dell’Inferno, che traghettava le ombre dei morti sulle rive del fiume Acheronte, per una moneta che esse erano obbligate a dargli al momento di prender posto nella sua barca. Questa credenza degli antichi spiega il costume che essi avevano di mettere fra i denti di un morto una moneta : era quella la mercede devoluta a Caronte, il quale lasciava errare per cento anni le anime di quei morti che non avevano la moneta da pagargli.
Caron, dimonio con occhi di bragia,Loro accennando, tutte le raccoglie :Batte col remo qualunque s’adagia.Come d’autunno si levan le foglieL’una appresso dell’altra. infin che’l ramoRende alla terra tutte le sue spoglie ;Similemente il mal seme d’Adamo :Gittansi di quel lito ad una ad una,Per cenni, com’augel per suo richiamo.Cosi sen vanno su per l’onda bruna,Ed avanti che sien di là discese,Anche di qua nuova schiera s’aduna.Dante. — Inf. Cant. III.
981. Caropx. — Soprannome dell’Ercole Beozio, che a lui veniva da un tempio che aveva in Beozia, e propriamente nel luogo ove si credeva fosse egli passato allorchè incatenò Cerbero. V. Cerbero.
982. Carro di Giunone. — La Favola fa una notevole distinzione a questo proposito, dicendo che Giunone aveva due carri, uno tirato da due cavalli, sul quale combatteva.
983. Cartagine. — Figliuola di Ercole ; da lei prese nome la famosa città dell’Africa ove regnò la regina Didone. V. Didone.
984. Cartaginesi. — Abitatori di Cartagine, i quali ereditarono dai Fenicii ii truce culto di Saturno cui sacrificavano i propri figliuoli. Giustino rapporta nelle sue cronache, che trovandosi i Cartaginesi decimati da una grande pestilenza, pensarono di placare lo sdegno degli Dei, sacrificando a Saturno un gran numero di fanciulli dell’uno e dell’altro sesso, e spargendo di sangue le are di quel Dio. Diodoro dice che la vittoria che Agatocle riportò sopra i Cartaginesi, dei quali fece grande strage, fu conseguenza della vendetta di Saturno, sdegnato per avere i Cartaginesi sostituiti alcuni altri {p. 73}ciulli a quelli destinati come vittime in un sagrificio a lui offerto. Al dire del citato autore, i Cartaginesi, per rimediare all’errore commesso, scelsero fra le più nobili famiglie duecento giovanetti destinati al sacrifizio ; e che ve ne furono più di trecento, che si offrirono volontariamente come vittime espiatorie. Si narra ancora che, a soffocare le grida del fanciullo sacrificato, coloro che servivano al sacrificio, facessero grande strepito di tamburi di flauti ; e che le madri stesse delle vittime, dovessero intervenire al sacrifizio e assistervi senza lamentarsi nè piangere : chè se mai un singhiozzo fosse sfuggito a quelle sventurate, esse erano obbligate a supplire il fanciullo, il quale in tal caso veniva risparmiato.
985. Casimillo. — V.Camillo.
986. Casio. — Soprannome di Giove ; a lui dato dal culto che gli si rendeva su due montagne di questo nome, una vicina al fiume Eufrate, l’altra nel basso Egitto.
987. Cassandra. — Figlia di Priamo e di Ecuba. Questa principessa si promise sposa ad Apollo, se egli avesse voluto darle la conoscenza dell’ avvenire ; ma allorchè il Dio l’ebbe sodisfatta, essa non volle più tenere la sua parola, e Apollo, per vendicarsi, le giurò che non si sarebbe mai da alcuno prestato fede alle sue predizioni. La vendetta del nume sorti il suo pieno effetto. Le predizioni di Cassandra furono da tutti disprezzate. Ella si oppose all’ entrata in Troja del famoso cavallo di legno ; ma, secondo il solito. non si prestò fede ai suoi detti.
…. O Pizio, acerho Nume,Grave salma al mio tergo hai ben commessa !Perchè dato m’ hai tu divino acume ?Perche farmi. O spietato, annunciatriceD’oracoli fra questi orbi di lumi ?E svelar un destin che non mi liceDalla patria sviar ? Che irrevocatoCompiere si dovrà sull’infelice ?Che val d’un imminente orribil fatoSquarciar la benda ? È vita il solo errore ;Il saver con la morte all’uom fu dato.Schiller — Cassandra. Trad. di A. Maffei
Ajace figlio di Oileo, trovandola sola in un tempio, la violentò ai piedi di un altare, e poscia la trascinò fuori del tempio, ritenendo come oltraggi le sventure ch’ella gli predisse. Dopo la presa ed il sacco di Troja, essa toccò come preda di bottino ad Agamennone, al quale predisse che sua moglie Clitennestra lo avrebbe assassinato ; ma il re, come tutti gli altri, non pose mente alla predizione, la quale peraltro si avvero, appena egli fece ritorno in patria (vediClitennestra).
Finalmente Cassandra morì uccisa da Egisto, nel giungere nella Lacedemonia.
Ivi Cassandra, allor che il Nume in pettoLa fea parlar di Troia il di mortaleVenne, e all’ombre cantò carme amoroso.Ugo Foscolo. — I Sepolcri
Fatis aperil Cassandra futurisOra, Dei jussu non unquam credita Teuclis.Virgilio. — Eneide — Libro II
988. Cassiope. — Moglie di Cefeo, re di Etiopia, e madre di Andromeda. Questa regina ebbe la vanità di credersi, con sua figlia, più bella di Giunone e delle Nereidi.
Che non solo osó dir, che in tutto il mondoDi beltà donna a lei non era pare,Ma che non era viso più giocondoFra le ninfe più nobili del mare.Ovidio. — Metamorfosi. — Libro IV. trad. di Dell’ Anguillara.
Le quali sdegnate, pregarono Nettuno di vendicarle. Il Dio per sodisfare le ninfe del suo seguito, mandò sulle terre di Cefeo, un mostro che riempi di spavento e desolazione quelle contrade. Il re allora consultò l’oracolo per sapere come placare lo sdegno dei numi, e ne ebbe in risposta che il mostro sarebbe sparito, allorchè Andromeda, legata su di una roccia fosse da lui divorata. Il re ordinò il supplizio della misera giovanetta, e già la disgraziata stava per essere divorata, allorchè Perseo, montato sul cavallo Pegaso, pietrificò il mostruoso animale, mostrandogli lo scudo con la testa di Medusa, liberò Andromeda, e ottenne da Giove che Cassiope fosse messa fra gli astri.
989. Cassotide. — Era questo, al dire di Pausania, un altro dei nomi della fontana conosciute più comunemente con quello di Castalia.
990. Castalia. — Ninfa, che Apollo cangiò in fontana, dando alle sue acque la virtù di ispirare il genio della poesia, a coloro che ne avessero bevuta.
Cotesta allegoria favolosa deriva forse della parola araba Castala, che in quella lingua significa susurro dell’acqua. La pitonessa, prima di dare i responsi, e di assidersi sul tripode divinatorio, beveva dell’acqua della fontana Castalia.
991. Castalidi. — Nome collettivo dato alle muse, dalla fontana Castalia ad esse consagrata.
992. Castalio. — Re delle terre che circondavano il monte Parnaso. Apollo amò passionatamente una figliuola di lui ; e ciò à dato forse luogo alla metamorfosi di Castalia in fontana.
V. Castalio.
993. Castianira. — Così aveva nome una delle mogli del re Priamo.
{p. 74}994. Castore e Polluce. — Fratelli di Elena e di Clitennestra, e figli di Giove e di Leda : essi furono anche soprannominati Dioscori e Tindaridi, significando la prima di queste parole : figliuoli valorosi di Giove, titolo che essi si meritarono per le loro gloriose azioni ; e la seconda, discendenti di Tindaro, re di Sparta, perchè la loro madre Leda, era moglie di quel monarca, quando ebbe da Giove questi due figliuoli. Appena essi furono nati, Mercurio li trasportò nella città di Paìlene, ove essi furono allevati. Divenuti adulti, seguirono Giasone nella Colchide, per la conquista del vello d’oro, e si distinsero fra i più valorosi Argonauti. Al ritorno di quella spedizione, essi inseguirono i Corsari, che recavano considerevoli danni nell’ Arcipelago ; perlochè, dopo la morte, furono considerati come divinità favorevoli ai nocchieri. La tradizione favolosa racconta che, durante una spaventevole burrasca, furono vedute aggirarsi alcune flammelle intorno alla testa dei due Tindaridi, e che un momento dopo l’apparizione di quelle, la tempesta cessò del tutto. Da quel momento quei fuochi che sovente si veggono durante le burrasche, furono detti i fuochi di Castore e Polluce.
A questo proposito noi non possiamo non richiamare l’attenzione dei nostri lettori, sulla grande somiglianza che passa tra la pagana credenza dei fuochi di Castore e Polluce, e quella cattolica dei fuochi di S. Elmo e di S. Nicola, a cui anche oggidì si attribuisce, dalla superstizione religiosa, certo potere di buon augurio.
Castore e Polluce erano citati come l’ideale dell’amore fraterno ; dappoichè vissero sempre insieme, e la tradizione ci ammaestra come, avendo Giove conceduta l’immortalità a Polluce, questi la divid sse col suo bene amato Castore, per modo che, essendo quest’ultimo sempre sottoposto alla legge degli altri mortali, essi vivevano e morivano alternativamente.
Essendo stati invitati alle nozze delle loro cugine, Febeo ed Ilaijo, essi le rapirono ai loro futuri mariti ; e ciò fu cagione della morte di Castore, il quale qualche tempo dopo fu ucciso per vendetta d’uno degli oltraggiati sposi.
A cagione della immortalità che, come dicemmo, Polluce divise con Castore, i Romani rinnovavano ogni anno nella festa dei Tindaridi una tale memoria, facendo passare innanzi al tempio dei due fratelli un uomo montato su di un cavallo, conducendo per la briglia un altro destidero, su cui non montava alcuno ; volendo con ciò spiegare che dei due fratelli uno solo poteva stare nel mondo, quando l’altro, a causa della divisa immortalità, dovea soggiornare nel regno delle ombre. Questa allegoria della Favola è forse fondata sopra il movimento della costellazione dei gemelli, imperocchè delle due stelle che formano quella costellazione, unasi cela sotto l’orizzonte quando l’altro apparisce.
L’apoteosi di Castore e di Pulluce seguì dopo la loro morte, avendo Giove concesso all’immortale Polluce di raggiungere l’amato Castore, da cui non poteva vivere lontano.
Essi furono annoverati fra i più grandi dei della Grecia, e furono loro innalzati due magnifici tempî, uno a Sparta, ove ebbero i natali ; e l’altro ad Atene, in memoria d’averla salvata dal saccheggio. Anche a Roma fu loro elevato un tempio, ove si prestava il giuramento, chiamandosi Adopol, cioè tempio di Polluce, il giuramento degli uomini ; e Acastor, cioè tempio di Castore, quello delle donne. Al dire di Giustino, Castore e Polluce apparirono varie volte sulla terra ; e in una battaglia che i Crotoniati ebbero contro i Locriani, furono veduti due giovani guerrieri, montati su bianchi destrieri. Pausania però combatte nei suoi scritti quest’opinione, dicendo che le supposte apparizioni erano l’effetto di un travestimento di due guerrieri, i quali apparivano durante la mischia vestiti alla maniera dei due Tindaridi.
Castore veniva soprannominato il domatore dei cavalli, perchè era abilissimo nel maneggio di quelli e nella corsa ; e Polluce veniva considerato come il nume protettore degli atleti, per aver molte volte riportato il premio ai giuochi olimpici.
995. Catabato o Cataibate. — Soprannome dato a Giove, che gli veniva dai prodigi per mezzo dei quali si credeva che egli palesasse agli uomini la sua volontà.
996. Catactoniano. — Nella città di Opunto, veniva così chiamato il sovrano pontefice, che presiedeva al culto degli dei infernali e terrestri.
997. Catadriani. — Nome che si dava in diverse città della Grecia ai sacerdoti sacrificatori.
998. Cataibate. — V. Catabato.
999. Catarmi. — V.Cadarmidi.
1000. Catilo. — Figlio d’ Alcmeone. La tradizione mitologica ce lo addita come edificatore della città di Tibur, in Italia.
1001. Catinenzia. — Soprannome di Cerere dalla città di Catania, in Sicilia, ove essa aveva un tempio in cui era vietato l’accesso agli uomini.
1002. Catio. — V. Cantho.
1003. Caucaso. — Famosa montagna della Colchide. La cronaca favolosa narra che sopra una delle sue rocce fu incatenato Prometeo, allorchè Giovelo condannò ad avere il core divorato da un avvoltojo, per aver rubato il fuoco sacro.
{p. 75}1004. Caumaso. — Era il nome di un celebre centauro. Fra questi i più famosi furono : Grineo, Reto, Nesso, Arneo, Licida, Medone, Piferone, Eurito, Amico, Folo e Chirone, che fu precettore di Achille. V.Chirone e Centauri.
1005. Cauno. — Figlio di Mileto e di Ciane. Accortosi che sua sorella Bibli, ardeva per lui di una flamma incestuosa, egli abbandonò la sua patria e andò nella Caria, ove edificò una città.
Quando il fratel la vede in tutto insana,Fuggendo al sangue proprio fare oltraggio.Lascia insieme la patria e la germana,Poichè il pensier di lei non può far saggio :Da lei segretamente s’allontana,E ferma alfin in Caria il suo viaggio :E fonda per fuggir l’incesto indegno,Lontan da lei, nova cittade e regno.Ovidio — Metamorfosi Libro IX trad. di Dell’ Anguillara.
1006. Cauro. — Nome di uno dei principali venti.
1007. Cauto. — Dio della prudenza.
1008. Cavalli di Achille. — Omero ricorda che i cavalli di questo eroe erano figli di Zefiro e dell’ Arpia Podarga ; e che erano immortali. Essi si chiamavano uno Balio e l’altro Xanto V.Balio e Xanto.
1009. Cavalli del Sole. — Ovidio dice che il carro del sole era tirato da quattro destrieri bianchi, per nome Eoo, Piroi, Aelone e Flegone. Altri scrittori vogliono che essi avessero nome Eritoo, ovvero il rosso ; Alteone, ovvero il luminoso ; Lampo, ovvero il risplendente e Filogeo, ossia amante della Terra. Questa diversa denominazione spiega in certo modo il corso del sole nelle dodici ore del giorno : imperocchè al levarsi di questo l’aurora tinge il cielo d’un colore rossastro ; il secondo accenna al tempo nel quale i raggi solari sono più luminosi ; Lampo dinota le ore del mezzogiorno, quando la luce è nella sua maggior forza ; e finalmente Filogeo ne rappresenta il tramonto, quando il sole abbandona la terra, quasi un amante che lasci la sua donna.
1010. Cavalli di Enea. — Al dire di Omero i cavalli di questo famoso guerriero erano della razza di quelli che Giove stesso regalò a Tros, quando rapì il figliuolo di lui Ganimede. Questi cavalli erano perfetti e nelle battaglie spargevano ovunque il terrore e la fuga.
1011. Cavalli di Laomedone. — Una muta di questi famosi destrieri fu il premio che il re Laomedone promise ad Ercole per la liberazione della figliuola Esione. La tradizione favolosa dice che questi cavalli erano così rapidi e leggeri che correvano sulla superficie delle acque senza affondare.
1012. Cavalli di Marte. — Al dire di Servio questi cavalli avevano nome Fobos e Demos ossia il terrore e il timore. Omero però dice che questi erano i nomi dei cocchieri di Marte e non dei suoi cavalli.
1013. Cavalli di Reso. — V.Reso.
1014. Cavallo. — Questo animale era particolarmente consagrato a Marte, come Dio della guerra. Presso gli antichi era ritenuta la vista di un cavallo come un presagio di guerra. Enea appena ebbe posto il piede in Italia con suo padre Anchise, ritenne come presagio di battaglie future la vista di quattro cavalli bianchi.
Al dire di Tacito, gli Svevi, antico popolo della Germania, nutrivano a spese comuni nei boschi sacri, buon numero di cavalli bianchi, dai quali traevano le predizioni. Questi destrieri erano tenuti in grande onoranza ; era severamente proibito di toccarli e il principe della nazione insieme al sommo sacerdote, erano i soli a cui era concesso di attaccarli ad un carro, ritenuto egualmente come sacro. Finalmente, si osservavano con grande attenzione i loro movimenti ed i loro nitriti, e non eravi alcun’altra predizione a cui si prestasse maggior credenza.
1015. Cavallo di Troia. — Narra Virgilio, che essendo i Greci stanchi dell’assedio di questa città, che già durava da dieci anni, docisero finalmente di rendersene padroni, per mezzo di uno stratagemma, che molti scrittori attribuiscono ad Uli sse. Seguendo i consigli della stessa Minerva, i Greci costruirono un enorme cavallo di legno, alto quanto una montagna, il quale aveva rinchiusi nei suoi spaziosi ed ampii fianchi un numero considerevole di guerrieri.
…… E da MinervaDivinamente instrutti, un gran cavalloDi ben contesti e ben confitti ahetì,In sembianza d’un monte edificaro.Virgilio — Eneide — Lib. II. trad. di A. Caro.
E dentro dalla lor flamma si gemeL’aguato del caval che fè la portaOnd’usci de’ Romani il gentil seme.DanteInf. C. XXVI.
Ciò fatto sparsero la voce che i greci, prima di togliere l’assedio, volevano fare omaggio di simile offerta a Minerva e riporre il Palladium di Troja nelle mura di quella città, da cui essi stessi l’avevano rapito.
…. Per la qual cosa i Greci, col consiglio del delto Calcante, fecero fare questo cavallo a riverenza e {p. 76}ad onore della detta Dea, e fecero farlo cosi grande, acciocchè voi, Troiani, nol poteste mettere per le porte di Troia. Chè però, se per le vostre porte si potesse mettere, Troia tornerebbe in quello stato nel quale fu sotto la protezione e la defensione del Palladio, chè non si potrebbe mai perdere. E questa è la cagione perchè lo fecero fare cosi grande ; e se avvenisse che voi questo cavallo ardeste, o in altro modo guastaste o violaste, Troia sarebbe disfatta.
G. da Pisa — I fatti di Enea.
I Trojani caddero nell’insidia e atterrarono una parte delle mura di cinta per dar passaggio alla funesta macchina, a cui la smisurata grandezza non consentiva entrare dalle porte, e collocarono con le loro mani nel mezzo della città il fatale simulacro. Sopraggiunta la notte, i guerrieri nascosti nei fianchi del cavallo uscirono quando l’armata Trojana giaceva nel sonno, e introdussero in Troja tutta l’armata Greca : e così ebbe fine con la distruzione totale della città e dell’armata dei Teucri, il decenne assedio della famosa città di Priamo.
È opinione di Pausania che questo cavallo altro non fosse che una macchina di guerra, specie di ariete, inventata da certo Epeo, guerriero greco, per abbattere le mura di Troja, nella quale s’introducessero i guerrieri Achei, per mezzo di una larga breccia, prodotta dall’urto di quella macchina nelle mura della città. Questa opinione è infatti appoggiata da Plinio stesso, il quale fa datare l’uso della macchina detta ariete, dalla epoca della caduta di Troja, e considera quello istrumento di distruzione, come la base unica e principale alla tradizione del cavallo di legno.
1016. Caystrio. — V.Caistrio.
1017. Cea. — Isola del mare Egeo, cosi nomata da Ceo, figlio di Titano, è celebre per la sua fertilità in bachi da seta e in armenti di buoi.
1018. Ceade. — Padre di Eufenio : egli è ricordato nella tradizione mitologica, per aver condotto un gran numero di soldati Traci in soccorso dei Trojani, assediati dai Greci.
1019. Cebo, Cepo o Cefo. — Mostro adorato nella città di Menfi. Al dire di Strabone, di Solino e di Plinio, era una specie di satiro somigliante ad una grossa scimmia. Al dire di quest’ultimo, Pompeo fece venire uno di quelli animali dall’ Etiopia in Roma, ove non erasi prima veduto. Diodoro dà a quest’idolo una testa di leone e il corpo di una pantera, della grandezza di quello d’una capra.
1020. Cebrione. — Uno dei giganti che mossero guerra agli Dei. Fu ucciso da Venere.
Vi fu anche un altro Cebrione, figlio naturale del re Priamo. Patroclo l’uccise allo assedio di Troja.
1021. Cecio. — Uno dei venti che spira prima del tempo dell’equinozio.
1022. Cecolo. — Figlio di Vulcano e di Prenesta. La tradizione racconta che sua madre, essendo seduta dappresso alla fucina di Vulcano, fu colpita da una scintilla di fuoco ; e che dopo nove mesi partorisse un bambino a cui ella pose il nome di Cecolo, a causa dell’estrema piccolezza degli occhi. Quando egli fu adulto si dette ad una vita di furto e di brigantaggio, e fabbricò la città di Preneste. Avendo dato dei giuochi pubblici, egli esortò i cittadini a fondare un’altra città. Ma come essi non fecero attenzione alle sue parole, non credendolo figlio di Vulcano, egli invocò suo padre, dio del fuoco, e il luogo dove si trovavano fu all’istante circondato di fiamme. Allora tutti coloro che erano presenti, colpiti di spavento, aderirono alla sua volontà.
Altri scrittori dicono che Cecolo, ancora bambino, fu trovato da alcuni pastori nelle fiamme senza esserne punto offeso, ciò che lo fece ritenere da tutti come figlio di Vulcano.
1023. Cecopro. — Ricchissimo egiziano, il quale avendo lasciata la sua patria andò a stabilirsi nell’ Attica ove sposò Aglaura, figlia di Acteo, re degli Ateniesi, a cui egli succedette nel governo. Cecopro fu soprannominato biforme, e l’opinione degli scrittori è dubbia sulla origine di questo soprannome, volendo alcuni che gli venisse dall’aver fatto delle leggi sull’unione dell’uomo e della donna, per mezzo del matrimonio ; ed altri perchè essendo egiziano di nascita, era anche greco, per essersi stabilito nell’ Attica.
1024. Cecrope. — Trasse la sua origine dall’ Egitto, da cui condusse una colonia nella Grecia ove fondò il regno d’Atene, che dal suo nome fu detta Cecropia. Alcuni la confondono con Cecopro di cui nell’articolo precedente.
1025. Cecropea. — Più comunemente Cecropiana, era uno dei soprannomi di Minerva come protettrice di Atene, città fondata da Cecrope.
1026. Cecropidi. — Nome che si dava agli Ateniesi : Ovidio chiama particolarmente Teseo col nome di Cecropide.
1027. Cecropisa. — Soprannome di Aglaura per esser moglie di Cecopro. V.Cecopro.
1028. Cedemporo. — Vale a dire interessato, avido di guadagno dalle parole greche Κεδρος guadagno e περαω io cerco, io assaggio. Soprannome dato a Mercurio come dio del traffico.
Similmente si dava a Mercurio la denominazione di Cerdauso, per le ragioni precedenti, e anche ad Apollo, per la venalità dei suoi oracoli.
{p. 77}1029. Cedippe. — V. Acroncio.
Vi furono molte ninfe di questo nome.
1030. Cefalo. — Figlio di Mercurio e di Ersea e marito di Procride. Aurora, innamoratasi di lui, lo rapì, ma indarno, poichè egli non volle acconsentire alle amorose voglie di lei. La dea sdegnata delle ripulse, giurò di vendicarsene, e lo lasciò ritornare presso Procride, sua moglie che egli amava passionatamente. Ritornato in patria, Cefalo, volendo accertarsi della fedeltà di sua moglie, le si presentò sotto un travestimento che lo rendeva irriconoscibile ; ed ebbe il dolore di vedere che essa condiscendeva all’incognito seduttore. Cefalo allora facendosi riconoscere dall’adultera sposa, la rimproverò amaramente della sua infedeltà, e Procride andò a nascondere nei boschi la sua vergogna, ma fu ben presto raggiunta da suo marito il quale non potea vivere lontao da lei. Al suo ritorno nella casa del marito, essa lo presentò di un giavellotto e di un cane che Minosse le aveva dato, e amò così teneramente il marito che ne divenne furiosamente gelosa. Un giorno ella si nascose in un cespuglio per spiarlo, e Cefalo credendo che fosse una fiera, la uccise con l’istessa arme ch’ella gli aveva donato. Riconosciuto il suo fatale errore egli si trafisse col ferro stesso. Giove mosso a compassione li cangiò entrambi in astri.
1031. Cefeo. — Re di Etiopia : fu figlio di Fenicio e padre di Andromeda.
Vi fu ancora un altro Cefeo principe di Arcadia, il quale fu teneramente amato da Minerva. La Dea in prova d’affetto gli attaccò sulla fronte uno dei capelli della testa di Medusa, e con quel talismano lo rese invincibile.
1032. Cefiso. — Fiume della Focide ; amò un gran numero di ninfe, ma fu sempre disprezzato nei suoi amori.
1033. Cefo. — V. Cebo.
1034. Celx. — Figlio di Lucifero e di Chione. Egli fu così dolente della morte di sua madre che si recò nella città di Claro onde consultare l’oracolo e sapere i mezzi per farla risuscitare ; ma si annegò nella traversata. Sua moglie Alcione ne andò in cerca e saputa la sua morte ottenne dagli Dei di essere cangiata, con lui, nell’uccello che si chiama Alcione V.Alcione.
Altri scrittori dicono che Ceix fosse amato da Aurora, e che questa lo avesse sposato.
1035. Celadone. — Uno di coloro che furono uccisi alle nozze di Perseo con Andromeda.
1036. Celana. — Comunemente si dava il soprannome di Celana, o Celene, alla Dea Cibele, dalla città di Celene nella Frigia, ove era particolarmente adorata.
Vi era anche nell’ Asia una montagna detta Celana, presso la quale Apollo punì il satiro Marfio.
Finalmente era così denominato un luogo nella Campania, consacrato a Giunone.
1037. Celeno. — Una delle arpie V.Arpie.
1038. Celeo. — Re di Eleusi il quale accolse assai benignamente Cerere, che per ricompensarlo gl’insegnò l’agricoltura.
1039. Celeri-Dee. — Ossia Dee leggiere e fuggitive : così venivano denominate le ore.
1040. Celeste. — Divinità dei Fenici e dei Cartaginesi : aveva nell’ Africa settentrionale un magnifico tempio, che fu poi demolito, da Costantino. Si crede generalmente che fosse la stessa che la luna ; altre opinioni vogliono che si adorasse sotto quel nome la Dea Venere.
1041. Celma. — Dama tessala la quale fu cangiata in diamante, per avere sostenuto che Giove era mortale.
Al dire di Ovidio, Celma era il nome dell’ajo di Giove, il quale aveva voluto sostenere, che quel Dio anch’esso fosse sottomesso alla morte. Perciò Celma fu rinchiuso in una torre impene. trabile.
1042. Celmiso. Marito di Celma. Subì la stessa sorte di sua moglie a causa della sua incredulità V.Celma.
Vi fu un altro Celmiso fra i Cureti o Coribanti sacerdoti di Giove, il quale fu scacciato da’suoi compagni per aver mancato di rispetto alla madre degli Dei.
1043. Celo. — V.Cielo.
1044. Ceuchiria o Cenerea. — Figlia della ninfa Pirene. Essendo stata uccisa involontariamente da Diana con una freccia che questa lanciava ad una fiera, la madre di lei fu così afflitta e versò tante lagrime, che la Dea mossa a pietà, la cangiò in una fontana che dal suo nome fu detta Pirene.
1045. Cencrea. — V.Cenchiria.
1046. Cencrisa. — Moglie di Ciniro e madre di Mirra. Avendo osato vantarsi di avere una figlia assai più bella di Venere, la Dea per vendicarsi ispirò alla giovanetta Mirra una passione criminosa pel proprio padre.
1047. Ceneriso. — Fiume della Jonia. Si credeva che nelle sue acque fosse stata tuffata dalla nutrice la piccola Latona, appena la madre l’ebbe partorita.
1048. Ceneo. — Soprannome di Giove a causa del promontorio di Cene, ove egli aveva un magnifico tempio e dove gli si rendevano grandi onori.
Sopra il monte Ceneo, l’altare adornoDi Giove…….Ovidio. — Metamorf. Libro IX trad. di Dell’ Anguillara.
{p. 78}Vi fu anche un tessalo ricordato dalla tradizione mitologica sotto il nome di Ceneo, il quale fu dapprima donna e si chiamò Cena, ed ottenne da Nettuno il doppio favore di cangiar sesso e di essere invulnerabile. Essendosi trovato presente alla querela fra i Lapidi ed i Centauri, questi vendendo ch’egli era in effetto invulnerabile, lo schiacciarono sotto una foresta di alberi ed egli fu cangiato in uccello.
Costui nacque in Tessaglia.E giunto all’ età sua più verde e bella,Per nome maschio il nominar Ceneo,Perocchè da principio ei fu donzella.……………..Fu in dubbio allor ciò che di Ceneo avvenne,E quasi ognun di noi giudizio diede.Che per lo troppo peso ch’ei sostenne,Fosse dell’ alma sua l’inferno erede.Mopso il negò, chè quindi alzar le penneVide un augel ver la superna sede.Tanto veloce, coraggioso e belloChe fu da noi chiamato unico augello.Ovidio. — Metamorfosi Lib. XII trad. di dell’ Anguillara.
1049 Centauri. — Popoli di una contrada della Tessaglia. La favola ce li addita come mostri metà uomini e metà cavalli. Essi erano sempre armati di nodosi bastoni e si servivano con estrema destrezza dell’arco.
E tra ’I piè della ripa ed essa, in tracciaCorrean Centauri armati di saette,Come solean nel mondo andare a caccia.Dante. — Inf. Cant. XII.
Quelli fra i Centauri che furono invitati alle nozze di Piritoo e d’Ippodamia, attaccarono querela coi Lapidi. Altra razza mostruosa. Il grido di richiamo dei Centauri rassomigliava al nitrito di un cavallo. Fra tutti il più famoso ed il più celebre fu Chirone, precettore di Achille. (V.Chirone) Ercole dopo aver cacciati i Centauri dalla Tessaglia li disfece.
Che giova a noi, se grande oltre misuraNoi possediam questa terrena scorza ?Che giova a noi, se a noi l’alma naturaDoppie le membra fè, doppia la forza ?Ovidio. — Metamorfosi Libro XII trad. di Dell’Anguillara.
1050. Centauro. — Figliuolo di Apollo e di una figlia del fiume Peneo, chiamata Stilbia. Egli si stabili sul monte Pelione e i suoi discendenti furono detti Centauri. Essi furono i primi a montare sul dorso dei cavalli : da ciò la favola della doppia natura di questi esseri mitologici.
1051. Centimano. — Così viene soprannominato il gigante Briareo, che la favola dipinge con cinquanta braccia e cento mani.
e BriareoCui la forza centimana non valse.V. Monti. — Musogonia.
1052. Ceo. — Così avea nome uno dei Titani, figliuoli della terra, che dettero la scalata alcielo.
Ceo era anche il nome di una delle isole Cicladi nel mar Egeo, famosa per aver dato i natali a Simonide.
1053. Cepo. — V.Cebo.
1054. Cerambe. — Vecchio tessalo il quale essendosi ritirato sopra il monte Parnaso, per salvarsi dall’innondazione delle acque del diluvio di Deucalione, fu dalle ninfe abitatrici di quella montagna, cangiato in uccello. Altri scrittori vogliono che fosse cangiato in quella specie di scarafaggio che ha le corna. Questa credenza viene dall’ etimologia greca Κεραμπτον che significa con le corna.
1055. Cerasti. — Popoli di Amatunta, celebri per la loro crudeltà. Venere li cangiò in torisdegnata del sacrifizio che essi le facevano, uccidendo tutti gli stranieri che transitavano il loro paese.
1056. Ceraunio. — Vale a dire fulminatore che lancia la folgore ; soprannome di Giove.
1057. Cerbero. — Cane a tre teste guardiano della porta dell’Inferno e del palazzo di Plutone.
….. il gran Cerbero udiroAbbaiar con tre gole, e ’l buio regnoIntronar tutto ; indi in un antro immensoSel vider pria giacer disteso avanti,Poi sorger, digrignar, rabido farsi.Con tre colli arruffarsi, e mille serpiSquassarsi intorno ……Virgilio — Eneide I.. VI trad. A. Caro.
Egli nacque dal gigante Tifone e da Echidna I pagani credevano ch’egli divorasse le anime dei dannati che tentavano uscire dall’ inferno. Quando Orfeo discese nei regni della morte perricondurre nel mondo la diletta Euridice, addormentò Cerbero al suono della sua lira dolcissima. Ercole alla sua volta disceso all’inferno per liberare Alceste, incatenò il terribile guardiano.
Quando Ercole passar volle all’inferno,Per torre a Pluto l’anima d’Alceste.Dappoich’ebbe varcato il lago AvernoPer gire u’ piangon l’anime funeste ;Perch’ebbe il suo valor Cerbero a scherno,Quel mostro ch’ivi abbaja con tre teste,Per forza incatenollo Ercole, e prese,E strascinollo al nostro almo paese.{p. 79}Mentre quel mostro egli strascina, e tiraPer lo mondo, cui splende il maggior lampo.E ’l can vuol pur resistere, e s’adira.E per tre gole abbaia, e cerca scampo.La bava, che gli fa lo sdegno e l’ira,Del suo crudo veneno empie ogni campo.Ovidio. — Metamorfosi. — Libro VII trad. di Dell’Anguillara.
1058. Cerceisa. — Ninfa del mare figlia dell’ Oceano e di Teti.
1059. Cercione. — Famoso ladro. Egli attaccava le sue vittime a due grossi alberi di cui aveva ravvicinato le cime per modo che queste, riprendendo il loro posto, per forza naturale, fa cevano a brani gli sventurati pazienti. Teseo disfece questo brigante, uccidendolo con l’istesso supplizio ch’egli infliggeva ai viaggiatori. Cercione ebbe una figlia per nome Alope la quale Nettuno rese madre, e il padre di lei fu così irritato che la condusse in un bosco insieme al bambino e ve l’abbandonò per esservi divorata dalle fiere.
1060. Cercopi. — Popoli, che Giove cambiò in scimmie perchè essi si abbandonavano ad ogni più turpe deboscia.
1061. Cercopiteca. — Nome di una delle divinità degli Egiziani : si crede comunemente che fosse la stessa che Cebo.
1062. Cereali. — Feste in onore di Cerere.
1063. Cerere. — Una delle principali Dee della mitologia greca e romana : fu tiglia di Saturno e di Cibele e Dea dell’agricoltura, la quale ella insegnò agli uomini, viaggiando lungamente la terra in compagnia di Bacco.
Tu sai pur quale io son, qual sempre fuiE quanto m’affatichi tutto l’annoPer provvedere i frutti più pregiati,Tanto agli onesti e più quanto agli ingrati.Ovidio. — Metamorfosi, Libro V. Trad. di Dell’ Anguillara.
Plutone innamoratosi di sua figlia Proserpina gliela rapì, e Cerere allora salita sul monte Etna, accese due torce e si dette a cercala indefessamente di giorno e di notte. Giunta alla corte di Trittolemo, essa insegnò particolarmente a questo principe, l’arte di lavorare la terra, e assunse l’incarico di allevare segretamente il figlio di lui, per nome Deifone, al quale ella porse il suo latte per renderlo immortale : ma per negligenza di Meganira, Deifone morì nelle fiamme. Cerere allora continuò il viaggio intrapreso e avendo incontrata la ninfa Aretusa, le dimandò novelle di sua figlia Proserpina. La ninfa le disse che Plutone l’aveva rapita. Cerere discese immediatamente all’inferno, ove trovò infatti sua figlia la quale, per altro, si ricusò a seguirla sulla terra. Vedendo che non poteva persuaderla, Cerere ebbe ricorso a Giove, il quale si compromise di fargliela restituire, quante volte essa non avesse nulla mangiato nell’inferno. Ma Ascalafo palesò ch’essa avea colto una melograna nei giardini di Plutone e ne avea mangiati sette granellini, per il chè essa non potette essere restituita a sua madre la quale per vendicarsi contro l’indegno delatore, cangiò Ascalafo in gufo (V.Ascalafo). Giove intanto, commosso dal dolore di Cerere ordinò che Proserpina avesse passato sei mesi dell’anno con sua madre sulla terra, e gli altri sei con sua marito all’inferno.
Cerere aveva diversi templi famosi ed un culto generale in tutte le città del mondo antico. Le primizie di tutti i prodotti della terra le venivano scrupolosamente offerte, ed erano puniti di morte coloro che per qualunque ragione avessero turbati i solenni misteri delle sue feste. Veniva rappresentata sotto figura di una donna giovane e bella, avendo nella mano destra una falce, nella sinistra un pugno di spighe di cui aveva anche coronata la fronte.
Il suo seno largo e bellissimo era tutto coperto di mammelle, turgide di latte, simbolo parlante della fecondità della terra, sottoposta al lavoro dell’ agricoltura. È questa la idea più generale che, seguendo la favola, si può dare su questa Dea, poichè tanto i cronisti più accreditati, i mitologi, quanto i poeti ; non si accordano fra di loro sulle diverse opinioni in proposito di questa famosa Divinità. Ve ne sono molti che la confondono con Cibele ; ossia la Terra, quantunque queste due Dee siano completamente distinte fra loro.
Io poi l’augusta Cerere mi sono,Dei numi e dei mortai primo sostegno.E gioia prima………Cosi disse la diva, e in un momentoS’ingrandi, si cangiò, tutte deposeLe senili sembianze, e d’ogni parteSpirò nuova beltade : odor soaveSparse il peplo olezzante : immensa luceDier le membra immortali : in sulle spalleIl blondissimo crin le si diffuse,E un siffatto splendor come di folgoreLampeggiò per la casa e quindi uscio.Omero — Inno a Cerere Trad. di L. Lamberti.
1064. Ceriel. — Vale a dire araldi. Così furono detti da Cerisco figlio di Mercurio. Si aveva per essi una grande venerazione.
1065. Cerixo. — Fu uno dei sacerdoti di Cerere che sovraintendeva ai misteri di quella Dea.
{p. 80}1066. Cerphafo. — Uno dei figli di Eolo e bisavo di Fenicia.
1067. Ceruleo. — Nettuno, fratello di Giove veniva così soprannominato dal colore del mare di cui era Dio. Similmente si denotavano tutte le divinità marittime col nome complessivo di Dei Cerulei.
1068. Ceruso. — Dio del buon tempo : lo sichiamava così perchè vien sempre tardi.
1069. Cesare (Glulio). — Per ordine d’Augusto fu riconosciuto come un Dio dopo la morte, e onorato come tale essendosi detto che Venere apparve nel Senato, quando i congiurati pugnalirono Giulio Cesare e ne avesse trasportata l’anima fra gli astri. Racconta Svetonio che durante la celebrazione dei giuochi funebri in onore di Giulio Cesare, fosse apparsa una cometa con la coda, o stella crinita, e che questa apparizione contribuì non poco alla apoteosi di lui, essendosi creduto da tutti che in quell’astro fosse andata a dimorare l’anima del morto. La tradizione mitologica ripete che in tutto il corso dell’anno che seguì la morte di Giulio Cesare, il sole comparisse pallido e sbiadito, e che questo era un segnale dello sdegno di Apollo.
1070. Cesto. — Così veniva chiamata una cintura che Venere portava abitualmente, e nella quale la Favola narra che fossero rinchiuse le grazie, i desiderii e le attrattive. Giunone per piacere a Giove, pregò Venere che le prestasse quella cintura. A proposito del famoso giudizio di Paride, Venere dovette togliere alla presenza di lui la sua cintura, onde mostrare tutta l’incomparabile bellezza delle sue forme.
1071. Cestrino. — Figlio di Eleno e di Andromaca. Dopo la morte di sno padre egli andò a dimorare sulle rive del fiume Tiamio in una contrada, che fu detta Cestrina dal nome di lui.
1072. Ceto. — Secondo Esiodo così si chiamava la moglie di Forcino, che fu madre di Bellona.
1073. Chaonia. — Contrada dell’Epiro piena di montagne e di foreste, e celebre per le ghiande di cui si nutrivano i suoi abitanti, prima dell’invenzione del pane, e per i suoi colombi che, secondo la tradizione mitologica, predicevano l’avvenire.
1074. Chariclea e Teagene. — Sono questi i nomi che Eliodoro nelle sue storie dà a due personaggi di sua invenzione, che non vissero mai. Le cronache mitologiche, e le tradizioni favolose dell’antichità non fanno di essi menzione alcuna.
1075. Charise. — V. Caride.
1076. Chelonea. — Ninfa che fu cangiata in testuggine.
1077. Chera. — Vale a dire vedova : soprannome dato a Giunone forse perchè Giove l’abbandonò assai di sovente per altre donne.
1078. Cherone. — Figlio di Apollo. Dette il suo nome ad una città che da lui cangiò il suo antico nome di Arnea in quello di Cheronea.
1079. Chiliombe. — Si dava questo nome ad un sacrifizio nel quale venivano immolate mille vittime.
1080. Chilone. — Famoso atleta del quale i Greci facevano gran conto.
1081. Chimera. — Mostro che aveva la testa di leone, il corpo di capra e la coda di drago e vomitava fuoco e fiamme. Desolò per lungo tempo le contrade della Licia, finchè Bellerofonte l’ebbe esterminato. (V. Bellorofonte).
Era il mostro d’origine divinaLion la testa, il petto capra, e dragoLa coda ; e della bocca orrende vampeVomitava di foco………OmeroIliade — Libro IV trad. di Vinc. Monti
Chimera o Chimerifera era similmente detta una montagna della Licia, alla cui sommità, secondochè dice Ovidio, v’era un piccolo vulcano intorno al quale si aggiravano gran numero di leoni ; sui fianchi di essa verdeggiavano dei prati su cui pasceva larga quantità di capre ; mentre ai suoi piedi strisciavano serpenti e rettili d’ogni maniera. Di qua forse la personificazione del mostro detto Chimera.
1082. Chione. — Figlia di Dedalione. Essa fu amata contemporaneamente da Apollo e da Mercurio e corrispose ad entrambi. Dal primo ebbe Filammone, celebre suonatore di liuto ; dal secondo Autolico, che si rese non meno famoso di suo padre nell’ingannare tutti.
Chione fu così orgogliosa della sua bellezza, che osò vantarsi d’esser più bella di Diana, del che sdegnata la Dea, le forò la lingua con una freccia.
1083. Chiromanzia. — Così veniva detta l’arte di predire il futuro dall’osservazione delle linee della mano.
1084. Chirone. — Famoso centauro figlio di Saturno e di Filira. Saturno, perdutamente innamorata di questa donna bellissima, tutte le volte che si recava da lei si trasformava in cavallo per deludere la gelosa vigilanza di sua moglie Rea ; ed è perciò ch’egli ebbe da Filira un figlio che, secondo la tradizione mitologica, ebbe il corpo metà di uomo e metà di cavallo ed a cui Saturno impose il nome di Chirone. Questo mostro viveva sulle montagne e nei boschi sempre armato di un arco di cui si serviva con mirabile destrezza. Conoscendo per lungo uso {p. 81}le virtù medicinali delle erbe e delle piante, divenne il più gran medico dei suoi tempi. Egli insegnò la medicina ad Esculapio, l’astronomia ad Ercole e fu l’istitutore di Achille.
E quel di mezzo ch’al petto si miraÈ ’l gran Chirone che nudri Achille.Dante — Inferno — Canto XII.
Una ferita ad un piede cagionatagli da una freccia di quelle che Ercole aveva bagnate nel sangue dell’idra di Lerna (V. Ercole), lo fece così crudelmente soffrire, ch’egli desiderava ardentemente la morte ; ma il nume suo padre lo aveva fatto immortale.
Finalmente gli Dei mossi a compassione delle sue sofferenze, lo trasportarono nel cielo, ove egli è raffigurato, anche oggidì, tra i segni dello zodiaco sotto la costellazione del sagittario.
1085. Chitonea. o Chitonia. — Soprannome di Diana in onore della quale si celebravano delle feste dette perciò Chitonie.
1086. Chitonia. — V. Chitonea.
1087. Clane. — Ninfa della Sicilia, la quale fu da Plutone cangiata in fontana, perchè volle opporsi al ratto di Proserpina.
Da quel sorge non lunge un’altra fonte :V’è chi dal nome suo Ciane l’appella,Nïnfa che l’à in custodia a piè del monte,Che preme di Tifeo la manca ascella.Ovidio — Metamor — Lib. V trad. di Dell’ Anguillara.
1088. Clanea. — Figlia del fiume Meandro e madre di Cauno e di Bibli. Essa fu cangiata in roccia per non aver voluto ascoltare un giovane che l’amava passionatamente, e che si uccise in presenza di lei senza cagionarle la più leggiera emozione.
1089. Clamel. — Così venivano chiamati alcuni scogli posti all’ingresso del ponte Eusino le le cui masse abbracciavano lo spazio di venti stadii.
Le onde del mare, frangendosi con spaventevole rumore fra quelle rocce, spingevano nell’aria certa caligine, che rendeva estremamente pericoloso quel passaggio ; e siccome all’avvicinarsi o all’allontanarsi da quegli scogli, per effetto della dubbia e fioca luce che ivi regnava, pareva che le rocce si movessero le une contro le altre ; così si credeva generalmente dai pagani che esse fossero movibili e che ingojassero i vascelli al loro passaggio.
La tradizione favolosa ripete che gli Argonauti, spaventati da un simile effetto ottico, avessero mandata una colomba la quale giunse felicemente a traversare il terribile stretto ; ma che apparisse dall’altra parte senza coda. Allora gli Argonauti offrirono un sacrifizio a Giunone, che concesse loro un tempo sereno, ed a Nettuno che rese immobili quelle rocce, e impedì alla nave Argo ove quelli erano imbarcati di naufragarsi ; per modo che gli Argonauti giunsero felicemente al loro destino.
1090. Clanippo. — Sacerdote di Siracusa. Avendo disprezzato i misteri di Bacco, questo Dio, per punirlo, lo colpì d’una tale ebbrezza che quasi demente fece violenza a sua figlia. Appena compiuto il mostruoso incesto, l’isola di Sicilia, fu desolata da un’orribile pestilenza. L’oracolo interrogato rispose che il flagello avrebbe fine col sacrifizio dell’incestuoso Cianippo. Allora la figlia di questo trascinò il padre all’altare, e dopo averlo con le sue mani svenato, si uccise sul corpo di lui.
1091. Cibebe. — Divinità a cui si attribuiva il potere di ispirare il furore. Veniva chiamata la madre degli Dei, non altrimenti che Cibelle con la quale per altro non bisogna punto confonderla.
1092. Cibelle. — Più comunemente conosciuta sotto il nome di Cibele : figlia del cielo e della terra, e moglie di Saturno. Essa aveva molti altri nomi come Vesta, Rea, Madre degli Dei, Buona Dea ecc : La tradizione favolosa narra di lei che, appena nata venisse esposta in un bosco per essere divorata dalle fiere ; ma che queste ne ebbero cura e la nudrirono col loro latte. Si crede assai generalmente che sia la stessa che la terra ; viene raffigurata sotto le sembianze d’una donna bellissima, con una corona di torri sul capo, circondata da animali, con una gonna seminata di fiori e montata su di un carro tirato da quattro leoni. Il pino le era consagrato. I sacerdoti del suo culto l’onoravano danzando intorno al suo simulacro, contorcendosi in strana e sconcia maniera.
1093. Cibernesie. — Così venivano chiamate alcune feste che Teseo istituì per onorare la memoria del suo pilota Naufitosio, a lui estremamente caro.
1094. Cicala. — Questo insetto era consacrato ad Apollo e veniva riguardato come il simbolo dei cattivi poeti, così come il cigno era quello dei buoni.
1095. Cleinnia. — Dea dell’infamia.
1096. Cicladi. — Ninfe del mare Egeo, che furono cangiate in isole, perchè non vollero sacrificare a Nettuno. Oggi sono note sotto l’istesso nome.
1097. Cielopi. — Giganti che fondevano i fulmini a Giove sul monte Etna, ove secondo la tradizione, il Dio Vulcano, loro capo, aveva la sua officina. Buon numero di essi erano figli del {p. 82}Cielo e della Terra, ed altri di Nettuno e di Anfitride. Essi avevano un sol’occhio in mezzo la fronte. Apollo sdegnato per la morte di Esculapio suo figlio, fulminato da Giove, distrusse i ciclopi come coloro che avevan fuso i fulmini. I principali fra i Ciclopi furono Piracmone, Bronte, Sterope e Polifemo.
Giace tra la Sicania da l’un canto.E Lipari da l’altro un’isolettaCh’alpestra ed alta esce de l’onde, e fuma.Ha sotto una spelonca, e grotte intorno,Che di feri Ciclopi, antrì e fucineSon da’ lor fochi affumicati e rosi.Il piechiar de l’incudi e de’ martelliCh’entro si sente. lo stridor de’ ferri,Il fremere e ’l bollir de le sue fiammeE de le sue fornaci, d’ Etna in guisaIntonar s’ode ed anelar si vede.………………… Stavan ne l’antro alloraSterope e Bronte e Piracmone ignudiA rinfrescar l’aspre saette a Giove.Virgilio — Eneide Lib. VIII — trad. di A. Caro.
1098. Cicno. — V. Cigno.
1099. Cicogna. — Uccello ritenuto come simbolo della pieta, perchè essa al dire dei naturalisti, nudrisce il padre e la madre nel tempo della loro vecchiezza ; ed ama svisceratamente i suoi parti. Vi sono non poche medaglie dei tempi antichi ove è scolpita la Dea della pietà con una cicogna accanto.
1100. Ciconi. — Popoli della Tracia : Ulisse, gettato da una tempesta sulle loro coste al suo ritorno da Troja, fece loro la guerra, li vinse e mise a sacco la loro città capitale, chiamata Imarte. La favola racconta che le donne dei Ciconi avessoro ucciso Orfeo, perchè le avea disprezzate. È questa però un’opinione assai vaga.
1101. Ciereo. — Figlio di Nettuno e sacerdote di Cerere. La feroce astuzia della sua indole gli valse il soprannome di serpente.
1102. Cidiope. — Madre di Cleobe e di Bittone e sacerdotessa di Giunone. V.Bittone.
1103. Cielo o Celo. — Figlio dell’aria e della terra. Egli è ritenuto come il più antico degli Dei. Fu detronizzato da suo figlio Saturno, che regnò in sua vece.
1104. Cigno o Cieno. — Uccello consagrato ad Apollo, come Dio della musica ; ed a Venere, a causa della sua voluttuosa indole, e dell’estrema bianchezza delle sue penne. Il carro di questa Dea veniva sovente tirato da due cigni. Giove, per farsi amare da Leda si trasformò in uno di questi animali. V.Leda.
Cigno ebbe anche nome un figliuolo di Marte, che combattè contro Ercole e fu vinto. Marte allora sdegnato per la disfatta del proprio figlio volle battersi personalmente con Ercole ; ma Giove li separò facendo cadere fra di loro la folgore.
Cigno fu similmente detto un re della Liguria, figliuolo di Steneleo. Egli era legato da fraterna amicizia a Fetonte, tantochè quando quegli morì per la sua famosa caduta. Cigno abbandonò i suoi stati e recossi sulle sponde dell’ Eridano a piangere sulla tomba dell’amico suo. Egli cantò così soavemente nel suo dolore, che divenuto vecchio, gli Dei mossi a compassione cangiarono in penne i suoi bianchi capelli, e lo trasformarono in cigno.
L’allegoria favolosa, seguitando il suo simbolo anche dopo codesta metamorfosi, dice che egli ricordandosi del fulmine di Giove, che aveva ucciso l’amico suo, non avesse mai spinto il volo nelle regioni superiori, ma si accontentasse di volare radendo la terra, e facesse dell’elemento più contrario al fuoco la sua abitazione.
Cigno fu finalmente un figliuolo di Nettuno e di una Nereide, il quale fu da suo padre reso invulnerabile fino dall’infanzia, e tanto che essendosi confederato ai trojani nel famoso assedio della loro città, egli combattè contro Achille rimanendo esente da ogni ferita.
Achille allora vedendo che le sue armi erano impotenti contro il suo nemico, gli si spinse addosso e afferratolo alla gola lo strangolò : ma nel medesimo tempo che l’eroe vincitore si accingeva a spogliare il vinto delle sue armi, il corpo di Cigno disparve avendolo suo padre Nettuno cangiato in uno di questi animali.
1105. Cileno. — Fu una delle Plejadi.
1106. Cilixo. — Uno dei figli di Fenicio che andò a stabilirsi in quella parte dell’ Asia minore, che poi dal suo nome fu detta Cilicia.
Cilixo fu anche il nome di uno dei figliuoli di Agenore.
1107. Cillabaro. — Figlio di Stenelo. Egli durante l’assedio di Troja s’impadronì degli stati e della donna di Diomede.
1108. Cillaruso. — Uno dei Centauri. Aveva l’istesso nome il cavallo favorito di Polluce.
1109. Cillene. — Montagna dell’Arcadia. Vogliono alcuni scrittori mitologici, che essa debba il suo nome, ad una figlia di Menofrone, chiamata Cillene : altri pretendono che lo abbia da una principessa di questo nome pronipote d’Afanaso re d’Arcadia.
Mercurio, che secondo la tradizione favolosa nacque su questa montagna, viene sovente dedominato Cillenio.
1110. Cilleo. — Soprannome di Apollo che gli veniva dalla città di Cilla, nella Beozia, dove egli aveva un famoso tempio.
1111. Cillo. — Cocchiere di Pelopo, il quale {p. 83}lo ebbe così caro, che dopo la morte di lui, fond ò una città a cui impose nome di Cilla, per onorare la memoria del servo fedele.
1112. Cimmeria o Cimmeride. — Uno dei soprannomi della Dea Cibele.
1113. Cimmeriani. — Popoli dell’Italia, nelle circostanze di Baja. La cronaca favolosa dice che in una delle contrade abitate da questi popoli, sorgesse il palazzo del sonno, e l’antro per il quale si discendeva all’inferno.
1114. Cimmeride. — V. Cimmeria.
1115. Cimodoce. — Ninfa del mare. Fu una delle compagne di Cirene, madre d’Aristeo.
1116. Cimodocea. — Ninfa che predisse ad Enea l’evento della sua flotta. Fu una di coloro che si presentarono a Cibele, quando questa Dea trasformò i vascelli d’Enea in ninfe del mare.
1117. Cimopoja. — Figlia di Nettuno e moglie del famoso Briareo, il gigante Centimano V. Briareo.
1118. Cimoloe. — Una delle Nereidi. Essa ajutò i Trojani in una burrasca che Giunone aveva sollevata contro di loro.
1119. Cinarada. — Dette anche Cinaredo, nome che si dava al gran sacerdote sagrificatore della Venere di Pafo.
1120. Cinela. — Dalle parole latine cinxi, Cingo e cunctum cingere ; soprannome di Giunone come la Dea, a cui la tradizione mitologica, attribuiva l’incarico di slegare la c nta alle nuove maritate.
1121. Cindiade. — Soprannome di Diana. Narra Polibio, che la statua di Diana Cindiade, se pure posta in luogo scoperto aveva la prerogativa di non essere mai bagnata dalla pioggia.
1122. Cinghiale di Erimanto. — V. Erimanto.
1123. Cinghiale di Calidone — V. Calidone.
1124. Cinira. — Figlio di Cilixo e re di Cipro V. Ammone.
1125. Ciniro il giovane. — Soprannome di Adone figlio di Ciniro e di Mirra — V. Adone.
1126. Cinisca. — Figliuola d’Archisane, la quale fu la prima, che ne’giuochi olimpici avesse ottenuto il premio nella corsa dei carri ; ciò le valse dei grandi onori.
1127. Cinocefalo. — Divinità Egiziana. Al dire di Plutarco, era la stessa che Anubi. Vi erano, secondo la mitologia indiana, alcuni popoli sulle montagne delle Indie, i quali venivano così denominati perchè avevano la testa di cane V. Anubi.
1128. Cinofontisa. — Detta anche Cinofontea : nome che si dava ad una festa celebrata ad Argo, durante la quale venivano uccisi tutti i cani che s’incontravano per la via.
1129. Cinosora. — Ninfa del monte Ida. Fu una di quelle che presero cura dell’infanzia di Giove. Dopo la sua morte fu cangiata in astro.
1130. Cinosarge. — Soprannome di Ercole a lui dato a cagione di un’avventura. Un ateniese per nome Didimo, si accingeva ad offerire un sacrifizio ad Ercole, quando improvvisamente un grosso cane bianco sbranò la vittima e fuggì.
Didimo non sapendo che pensare dell’accaduto, rimase qualche tempo perplesso, allorchè intese una voce che gl’imponeva d’innalzare un altare nel luogo ove il cane erasi arrestato. Didimo esegui il misterioso comando e da quel tempo fu dato ad Ercole il soprannome di Cinosarge.
1131. Cinsia e Cinsie. — Soprannome di Diana e di Apollo, perchè nacquero insieme nell’isola di Delo, chiamata Cinsio.
1132. Cinsio. — V. Cinsia.
1133. Cintura di Venere. — Secondo la tradizione, questa misteriosa cintura aveva il poterc di rendere amabile chi la possedeva, e riaccendeva il fuoco di una passione estinta.
…. e dal seno il bel trapunto e vagoCinto si sciolse, in che raccolte e chiuseErano tutte le lusinghe. V’eraD’amor la voluttà, v’era il desire.E degli amanti il favellio segreto,Quel dolce favellio ch’anco de’saggiRuba la mente……..Omero. — Iliade Lib. XIV trad. di V. Monti.
A dire di Luciano nelle opere, Mercurio rubò a Venere la sua cintura, e da quel giorno il suo discorso ebbe gli ornamenti, le grazie più attraenti. — V. Cesto.
1134. Ciparisso. — Figlio di Telefa e di Apollo. Egli addimesticò con gran cura un cervo al quale era estremamente affezionato. Un giorno per inavvertenza lo ucoise, e ne fu così addolorato che volle darsi la morte, ma Apollo mosso a pietà lo cangiò in cipresso.
1135. Cipfelide. — Nome patronimico di Cipfelo, tiranno di Corinto, e suoi discendenti.
1136. Cipresso. — Era ritenuto come il simbolo della tristezza, o perchè tagliato una volta non rinasce più, o perchè i suoi rami senza foglie hanno un aspetto lugubre. Si piantava d’ordinario, come oggidi, vicino alle tombe. Era consacra’o a Plutone, come Dio dei morti.
1137. Ciprigna. — Soprannome dato a Venere, dall’isola di Cipro, a lei consagrata.
1138. Circe. — Famosa maga che alcuni mitologi dicono figlia del Giorno e della Notte, ed altri del Sole e della ninfa Persa.
Circe, la dotta e incomparabil fataOvidio. — Metamorfosi. — Libro XIV. trad. di Dell’anguillara.
{p. 84}Circe fu scacciata dal suo paese nativo per avere avvelenato suo marito, re dei Sarmati, ed andò a dimorare nell’isola di Ea, o, secondo altri in un promontorio della Campania che poi dal suo nome fu detto Circeo, e dov’essa cangiò Scilla in mostro marino, avendole un giovane greco per nome Glauco, che essa amava, preferita quella ninfa. Circe accolse Ulisse nella sua isola, e per ritenerlo presso di se, cangiò tutti i seguaci di lui in majali, orsi ed altri animali, dando loro a bere certo liquore di cui Ulisse non volle gustare, e potè così dopo qualche tempo far ritorno nella sua patria.
………. la Deessa udiroDai ben torti capei, Circe, che dentroCanterellava con leggiadra voce,Ed un ampia tessea, lucida, fina,Maravigliosa, immortal tela, e qualeDella man delle dive useir può solo.Omero — Odissea — Lib. X Trad. di I. Pindemonte.
1139. Circio. — Così veniva chiamato uno dei principali venti.
1140. Cirene. — Ninfa figlia del fiume Peneo. Apollo l’amò con passione e la condusse in Africa ov’essa divenne madre di Aristea.
Vi fu un’altra Cirene ninfa della Tracia che fu dal Dio Marte resa madre del famoso Diomede.
1141. Cirno. — Uno dei figliuoli di Ercole : dette il suo nome all’isola di Corsica.
1142. Cirra. — Città della Focide vicino alla quale esisteva una caverna da cui soffiavano dei venti che ispiravano una specie di divino furore, e facevano rendere responsi ed oracoli. Da ciò il soprannome di Cirreo dato ad Apollo.
1143. Cisio. — V. Cizzica.
1144. Cissea. — Ecuba, moglie di Priamo re di Troja, veniva così denominata perchè figlia di Cisseo re della Tracia.
1145. Cissone. — Così avea nome un giovane il quale morì per una caduta, mentre danzava nei misteri di Bacco, innanzi al simulacro di questo Dio, che lo cangiò in ellera.
1146. Cissotonie. — Feste greche in onore di Ebe dea della giovanezza : coloro c e vi prendevano parte erano coronati di ellera.
1147. Cita. — Città capitale della Colchide patria di Medea, la quale veniva perciò detta Citae-Virgo, ossia la donna di Cita.
1148. Citera. — Isola del mediterraneo. La tradizione mitologica narra che fu in quest’isola che Venere nascesse dalla spuma del mare gli abitanti di quest’isola avevano per quella Dea un culto particolare e le avevano consacrato un tempio ricchissimo nel quale essa veniva adorata sotto il nome di Venere Urania.
1149. Citerea. — Soprannome di Venere. Vedi l’articolo precedente.
1150. Citereo. — Si dava codesto soprannome a Cupido, figliuolo di Venere Citerea.
Al dire di Pausania, Citereo era anche un fiume del Peloponneso in Elide consacrato alle ninfe Jonidi. Le acque di questo fiume avevano al dire del citato scrittore, la virtù di guarire dalle malattie, gl’infermi che vi si bagnavano.
1151. Citereo-Eroe. — Così veniva denominato Enea figliuolo di Venere. I greci chiamavano pure mese Citereo quello di aprile perchè era consacrato a Venere.
1152. Citeriadi. — Soprannome che talvolta si dava alle Muse tenute anch’esse in conto di bellissime.
1153. Citerone. — Re di Platea nella Beozia tenuto in conto di saggio e prudente uomo. La cronaca mitologica racconta che essendo Giunone, altamente irritata contro di Giove vedendosi di continuo abbandonata da questo per altre donne, avesse deciso di dividersi da lui per mezzo di un pubblico divorzio.
Allora Citerone consigliò a Giove di fingere un nuovo matrimonio per ricondurre a se Giunone. Il consiglio di Citerone ebbe il suo pieno effetto.
1154. Citeronia. — Sopraunome di Giunone. Vedi l’articolo precedente.
1155. Citeronio. — Così veniva denominato Giove perchè aveva un tempio sopra una montagna che portava l’istesso nome.
1156. Citora. — Città e montagna della Galazia, così detta da Citoro figlio di Prisso. Quella contrada era coperta di boschi.
1157. Civetta. — Quest’uccello per essere ritenuto come simbolo della vigilanza veniva consacrato a Minerva. Al dire di Eliano i Pagani ritenevano come pessimo augurio l’incontro di una civetta.
1158. Cizzica o Cisia. — Re dei Dolioni nella Misia. Giasone, movendo alla testa degli Argonauti per la conquista del vello d’oro lo uccise inavvertentemente. Da quel tempo il suo nome fu dato alla capitale dei Dolioni, la quale fu detta Cizzica o Cisia, e che poi divenne una delle più fiorenti città della Grecia.
1159. Cladea. — Fiume dell’Elide che veniva adorato dai greci come una divinità.
1160. Cladeo. — Uno degli eroi della Grecia. Pausania ripete che dopo la sua morte gli furono tributati gli onori eroici.
1161. Cladeuterie. — Feste che si celebravano all’epoche del taglio delle vigne.
1162. Clara-Dea. — Dea brillante, così veniva denominata Iride.
1163. Clario. — Soprannome di Apollo che {p. 85}gli veniva dalla città di Claro o Claros, dove egli era particolarmente venerato e dove aveva un famoso oracolo.
1164. Claro. — Città della Jonia — Vedi l’articolo precedente.
1165. Claudia. — Era questo il nome di una vestale, la quale accusata di libertinaggio fu salvata dalla dea Vesta, che operò un miracolo per provare la virtù di lei. La tradizione favolosa narra, che Claudia, per mezzo della sua cintura, avesse tirato a terra il vascello sul quale la madre degli dei, ritornando dalla Frigia, si era arrenata sulle rive del Tevere, e dove il vascello si era così fortemente incastrato che non riusci a più centinaja di uomini di rimuoverlo.
1166. Clausio. — Dio che veniva invocato nella chiusura delle porte. Deriva dalla parola latina cludere, chiudere.
1167. Clava. — Questa specie di arma terribile, è l’attributo che concordemente gli scrittori dell’antichità danno ad Ercole, il quale, in tutte le sue imprese, si servì sempre della clava. La cronaca mitologica dice che fosse dapprima appartenuta a Mercurio, il quale l’avesse poi data ad Ercole, che la depose in un dato luogo, ove la clava avendo posto radice nella terra, fosse diventata un albero. Anche Teseo si dipinge sovente armato d’una clava, perchè, al dire di Euripide, egli si armò di una grossissima clava per combattere contro Creonte, re di Tebe. Secondo il suddetto scrittore, la clava di Teseo, veniva designata con l’epiteto di Epidauriana, perchè fu appunto nell’Epidauro che Teseo la rapì a Perifete, dopo averlo ucciso. È questa del paro l’opinione di Plutarco.
….. ed ei brandita(Arma tremenda) l’Epidauria clavaE rotandola a fromba, e colli e testeMieteva insieme. è le partia dal tronco.Euripide — Le supplicanti — Tragedia trad. di F. Bellotti.
1168. Clavigero. — Vale a dire porta clava e porta-chiavi : soprannome di Ercole — Vedi l’articolo precedente — e di Giano. A quest’ultimo si dava l’epiteto di porta-chiavi, come custode del tempio che si apriva in tempo di guerra e si chiudeva in tempo di pace.
Clavigera proles-Vulcani, venivano detti i discendenti di Vulcano.
1169. Cledonismanzia. — Detta anche Cledonismo, era una famosa magia ; specie di divinazione che si tirava da certe parole, che dette in alcuni dati rincontri, erano ritenute come fausto o come funesto augurio.
1170. Clemenza. — Di questa virtù avevano i pagani fatta una divinità ; e, secondo asserisce Plutarco, dopo la morte di Cesare fu innalzato un tempio alla clemenza di lui. Gli attributi della clemenza erano la patera, un ramo d’albero verde e la pica.
1171. Cleobe. — V. Bittone.
1172. Cleodeo. — Figlio d’Illo e nipote di Ercole.
1173. Cleodice. — Figlia di Priamo, re di Troja, e di Ecuba.
1174. Cleodora. — Così avea nome la ninfa che fu madre di Parnaso.
1175. Cleodossa. — Una delle figliuole di Niobe.
1176. Cleomede. — Famoso atleta. Egli era così robusto, che sdegnato di non aver conseguito il premio nella lotta contro un cittadino di Epidauro, abbatè una colonna di una casa con un pugno, facendo così morire un gran numero di persone sotto le rovine. Egli si salvò nascondendosi in un sepolcro, nel quale poi non fu più ritrovato. L’oracolo consultato su questo strano avvenimento, rispose che Cleomede era scomparso perchè l’ultimo dei semi-dei.
1177. Cleone. — Borgata nelle circostanze della foresta Nemea, resa celebre per l’uccisione del famoso leone Nemeo, fatta da Ercole. — V. Ercole.
1178. Cleopatra. — Una delle Danaidi.
Vi fu anche un’altra Cleopatra, che fu figlia di Borea e moglie di Fineo.
1179. Cleromanzia. — Divinazione con la quale si pretendeva conoscere la sorte per mezzo dei dadi.
1180. Cleta. — Nome che i Lacedemoni davano ad una delle tre grazie.
1181. Clidomanzia. — Indovinamento che si facea per mezzo di alcune chiavi.
1182. Climene. — Ninfa, figlia dell’Oceano e di Teti. Apollo l’amò con passione e ne ebbe va rii figli.
Climene era anche il nome della confidente di Elena.
1183. Climeneidi. — Così furono dette le figlie di Climene.
1184. Climeneo. — Soprannome di Plutone. Il padre di Arpalice si chiamava del pari Climeneo. V. Arpalice.
1185. Clio. — Una delle nove muse, e propriamente quella che presiedeva alla storia. I poeti la rappresentano sotto figura di una donna giovane, d’imponente e maestosa bellezza, con la fronte coronata di lauro, e avendo nella mano destra una tromba e nella sinistra un libro.
1186. Clita. — Figlia di Merope. Essendole morto il marito, ch’essa amava teneramente, si strangolò per non sopravvivergli.
{p. 86}1187. Clitennestra. — Figlia di Tindaro e di Leda, sorella di Castore, e moglie di Agamennone.
…… figlia di Leda io sono :Clitennestra m’appello : è mio consorteAgamennone re.Euripide — Ifigenia in Aulide — Tragedia trad. di F. Bellotti.
Mentre Agamennone era all’assedio di Troja, essa amò Egisto, il quale, d’accordo con lei, assassinò Agamennone, quando questi ritornò dalla guerra, e si rese padrone de’suoi stati, usurpando, con sanguinosa opera di regicidio, il suo trono ed il suo talamo.
… Ahi ! lassa ! ohimè ! che bramo ? Elettra,Piangi l’error di traviata madre.Piangi, chè intero egli è. La lunga assenzaD’un marito crudel… d’Egisto i pregi….Il mio fatal destino…Alfieri — Agamennone — Tragedia. Atto 1. Scena 3.
Oreste divenuto adulto, vendicò suo padre, ed uccise Egisto e Clitennestra, immergendo in lei, senza conoscerla, il proprio brando.
1188. Clitidi. — Famiglia greca a cui venivano particolarmente affidate le sacre funzioni nelle cerimonie degli Aruspici.
1189. Clitio. — Uno dei fratelli del re Priamo, e figlio di Laomedone.
1190. Clito. — Così ebbe nome uno dei più rinomati centauri.
1191. Clizia. — Figlia dell’Oceano e di Teti. Essa fu amata da Apollo, il quale l’abbandonò per ottenere i favori di Leupotea. Clizia concepi una così violenta gelosia, che in un accesso di disperazione volle lasciarsi morir di fame, ma Apollo la cangiò in quel fiore a cui oggi si dà il nome di Eliotropo.
La cronaca mitologica ricorda due altre Clizie : una che fu moglie di Tantalo, l’altra di Amintore.
1192. Cloacina. — Dea delle cloache. La tradizione favolosa racconta che Tito Tazio avendo per caso trovata una statua in una cloaca, la proclamò dea, imponendole il nome di Cloacina.
Al dire di Plinio, Cloacina era anche un soprannome di Venere, a cagione d’un tempio che ella aveva presso Roma, in un luogo paludoso. Secondo il suddetto scrittore, fu in quel luogo che i Sabini e i Romani s’unirono in un sol popolo, dopo la guerra ch’essi ebbero fra loro, a causa del famoso ratto delle Sabine.
1193. Clodonie. — Nome col quale i Macedoni indicavano le Baccanti.
1194. Cloe. — Soprannome di Cerere, da cu i le feste in suo onore dette Clojane.
1195. Cloesie. — Feste celebrate in Atene, in onore dì Bacco.
1196. Cloje. — Altre feste celebrate in Atene in onore di Cerere, nelle quali veniva a lei sacrificato un capro. Questa parola deriva dal greco Κλδα che significa erba verde, e conviene perciò a Cerere, come dea dell’agricoltura.
1197. Clone. — Soprannome che gli Egiziani davano ad Ercole.
1198. Clonio. — Uno dei capitani Beozii, che si recarono all’assedio di Troia.
1199. Cloreo. — Famoso indovino, sacerdote di Cibele.
1200. Cloridi. — Più comunemente conosciuta sotto il nome di Clori, fu una delle figliuole di Niobe e di Anfione. Ella sposò Neleo, e fu madre di Nestore. Apollo e Diana la uccisero perchè essa aveva osato vantarsi di cantar meglio del primo, e d’esser più bella della seconda.
Clori fu anche il nome di una ninfa che sposò Zeffiro, il quale le dette per dote l’impero sui fiori, ciò che la fece adorare sotto il nome di Flora, come una dea.
1201. Closio. — Soprannome di Giano : si diceva talvolta anche Clovisio.
1202. Clostero. — Figliuolo d’Aracne : a lui s’attribuiva comunemente l’invenzione del fuso.
1203. Cloto. — Una delle tre Parche, figlia di Giove e di Temi ; veniva rappresentata sotto la figura di una donna vestita di una lunga tunica di diversi colori, e col capo cinto d’una corona di sette stelle.
1204. Cnef o Cnufi. — Dio supremo degli Egiziani, i quali credevano ch’egli avesse esistito prima della creazione del mondo, e che dalla sua bocca fosse uscito il primo uovo, che dette poi vita a tutti gli esseri mortali.
Plutarco riferisce che gli Egiziani della Tebaide, per un lungo elasso di tempo, non ebbero se non questa sola divinità immortale, e non riconobbero alcuna divinità, che fosse sottomessa alla legge inevitabile della morte.
Questa credenza religiosa di uno dei più antichi popoli del mondo, è una prova dell’antichità della tradizione religiosa dell’unità dell’essere supremo.
1205. Cnufi. — V. Cnef.
1206. Coalemo. — Nome che si dava alla divinità della imprudenza.
1207. Cobali. — Dalla parola greca Κσβαλὅς che significa ingannatori ; venivano così indicati alcuni genii malefici, che facevano parte del seguito di Bacco.
1208. Cocalo. — Re della Sicilia. La tradizione mitologica racconta che fu presso di lui che si ricoverò Dedalo, allorchè Minos lo perseguitava. Cocalo soddisfatto d’aver presso di sè {p. 87}un uomo, che come Dedalo si era reso celebre pel suo ingegno, lo difese contro di Minos, che veniva a dimandarglielo a mano armata e fece perire il persecutore di lui. Vi sono per altro alcuni scrittori dell’antichità, i quali ripetano che se pure Cocalo avesse sottratto Dedalo alle persecuzioni di Minos, se ne fosse disfatto egli stesso poi per proprio conto. È questa un’opinione assai vaga.
1209. Coccodrilio. — Gli Egiziani avevano un culto particolare per questo animale, e lo ritenevano come sacro. Gli abitatori del lago Meris e i popoli di Tebe, lo veneravano con un culto particolare : lo addomesticavano e gli coprivano il collo e gli orecchi di ornamenti d’oro e di pietre preziose, lo nutrivano di certa quantità di carne, al qual cibo essi davano il nome di carni sacre.
Quando il sacro animale moriva, essi lo imbalasamavano, lo deponevano in un urna espressamente fabbricata, e lo seppellivano nei sotteranei del Laberinto, presso la sepoltura del re. Per questo culto speciale, gli abitanti della città d’Arsinoe, presso il lago Meris, dettero alla loro capitale il nome di Coccodrillopoli, ossia città dei Coccodrilli.
Presso gli Ombiti, che era il popolo più superstizioso dell’Egitto, era ritenuto come un segno della benevolenza del cielo, quando un coccodrillo avesse divorato uno de’loro bambini, del che essi si tenevano felicissimi.
Però non era codesta superstiziosa credenza riguardo a questi rettili, comune a tutte le città dell’Egitto : ve n’era anzi buon numero in cui i coccodrilli venivano uccisi e riguardati con orrore, dappoichè era diffusa credenza, che Tifone, il quale nella tradizione mitologica egiziana era ritenuto come l’uccisore d’Osiride, si fosse cangiato in coccodrillo. Al dire di Plutarco questo rettile per essere senza lingua era ritenuto come il simbolo della divinità.
Presso gli Egizii che adoravano il coccodrillo, si credeva fermamente che i vecchi coccodrilli avessero la virtù d’indovinare ; ed era ritenuto come felice presagio se questi animali avessero mangiato nelle mani stesse del porgitore, mentre per contrario si teneva come pessimo presagio, se avessero ricusato di cibarsi.
Tazio, nelle sue opere, dice che gli Egiziani ponevano l’immagine del sole nella barca che dovea trasportare un coccodrillo, perchè il numero dei denti di questo animale è eguale a quella dei giorni dell’anno.
Gli Egizii, adoratori de’coccodrilli, ritenevano come cosa certa che durante i primi sette giorni della nascita del bue Api, — V. Api — quei terribili rettili deponessero affatto la loro innata ferocia, per non riprenderla che all’ottavo giorno. E finalmente la loro superstiziosa credenza riguardo a questi animali, guingeva fino al punto da credere che essi avevano un grande rispetto per la dea Iside, e che non facessero alcun male a coloro che navigavano il Nilo in una barca fatta dello stesso legno di cui era fabbrita quella di che si serviva la dea Iside ne’suoi viaggi.
1210. Coeinomanzia o Coseinomanzia. — Specie di divinazione che si faceva per mezzo d’un crivello o staccio.
1211. Cocitia-Virgo. — La donna infernale, così veniva denominata Alettone o Alecto, una delle tre furie. V. Alectone.
1212. Cocito. — Fiume dell’inferno che circonda il Tartaro e arricchisce le sue tristi acque con le lagrime dei dannati.
Cocito era anche il nome di uno dei discepoli del centauro Chirone.
1213. Coe o Coo. — Con questo nome i ragani designavano il secondo giorno delle feste Antisterie.
1214. Colasco. — Figlio di Giove e della ninfa Ora.
1215. Colchide. — Contrada dell’Asia, la cui capitale fu la città di Cita : si rese celebre per il vella d’oro. Gli abitanti di questa contrada, conosciuti sotto il nome di Colchi, hanno dato luogo alla falsa supposizione dell’esistenza di una città detta Colchisa, la quale non ha mai esistito.
1216. Collaro d’Erifile. — V. Erifile.
1217. Cellatina o Cellina. — Secondo l’opinione di S. Agostino aveva questo nome la dea che presiedeva alle montagne e alle valli.
1218. Collina. — V. Collatina.
1219. Colofone. — Città della Ionia, celebre per un famoso oracolo di Apollo.
1220. Colomba. — Detto uccello di Citerea, per essere sacro a Venere. Apulejo ripete che questa dea facea tirare il suo carro da due colombe e spesso prendeva le sembianze di quell’animale. Gli abitanti di Ascalona, avevano in grande rispetto le colombe e non osavano cibarsi della loro carne, ritenendo che sarebbe stato lo stesso che cibarsi delle loro divinità. Anche presso gli Assiri era grande la venerazione per le colombe ; ed era generale credenza presso quei popoli, che l’anima della loro famosa regina Semiramide, fosse volata al cielo, sotto le sembianze di una colomba.
Silvio Italico, rapporta nelle sue opere, che due colombe si fossero fermate sulla città di Tebe : e che dopo qualche istante una prendesse il volo verso la selva di Dodona, nella quale dette ad una quercia il potere di rispondere come un {p. 88}oracolo ; mentre l’altra passò il mare e si arresto nella Libia, ove andò a posare il suo volo fra le corna di un capro. Al dire di Filostrato, la colomba di Dodona era di oro, riposava su di una quercia circondata da numeroso popolo, che vi si recava parte per offrirle dei sacrifizii, parte per avere degli oracoli. Secondo Sofocle due colombe della selva di Dodona, interrogate da Ercole, gli svelarono il limite della sua vita.
1221.Colonne d’Ercole. — La tradizione mitologica ricorda che Ercole, seguendo le sue imprese, si fosse internato fino alla città di Gadira, oggi Cadice, e che quivi, credendo d’esser giunto all’estremità della terra, separò le due montagne di Calpe ed Abila, quella ai confini dell’Africa e questa in Europa, allo stretto di Gibilterra, dando cosi la comunicazione al Mediterraneo con l’oceano. Sulle due montagne, Ercole fece innalzare due colonne, per contrasegnare ai posteri il luogo ove ebbero fine le sue conquiste. Al dire di Strabone, queste colonne conosciute sotto il nome di colonne d’Ercole, si chiamavano anche portœ Gadaritanœ, ossia porte di Gadira.
1222. Colossi. — Statue di bronzo di un’altezza straordinaria e d’immense proporzioni. Ve ne erano diversi. Il più famoso è quello conosciuto sotto il nome di colosso di Rodi, che era una delle sette maraviglie del mondo, e che rappresentava Apollo, solo dio dei Rodiani. La più comune opinione è che codesta statua fosse alta settanta cubiti. Solo Festo, nelle sue cronache, ne fissa l’altezza a centocinque piedi. Era tutta di rame e vuota nell’interno, ove erano praticati dei ponti di ferro e di pietra. Il colosso di Rodi sorgeva all’imboccatura del porto di quella città, e posava i piedi su due basi quad rate di così sterminata altezza, che un vascello, a vele gonfie, passava tra le gambe della statua senza il menomo ostacolo. Un architetto indiano, per nome Cares, discepolo di Lisippo, fu il costruttore del colosso di Rodi, il quale, secondo asserisce Plinio, fu abbattuto cinquantasei anni dopo la sua costruzione, finchè sotto il regno di Vespasiano, non fu, per ordine di questo imperatore, ricollocato al suo posto. Verso la metà del settimo secolo, i mori, impadronitisi dell’isola di Rodi, venderono la statua colossale ad un ebreo, che la fece in pezzi e, pel solo trasporto della gran quantità di rame, fu costretto a servirsi di novecento cammelli.
L’origine dei colossi è attribuita all’Egitto, perchè Sesostri, re di quelle contrade, fece porre nella città di Menfi, in un tempio consacrato a Vulcano, varie statue rappresentanti sè stesso e la sua famiglia, l’altezza delle quali giungeva a trenta cubiti.
In Apollonia, città del Ponto Eusino, v’era un altro colosso dell’altezza di trenta cubiti, che similmente rappresentava Apollo, e che Lucullo fece trasportare a Roma. Finalmente i cronisti dell’antichità, fanno menzione di ben sette altri colossi, trovati nel perimetro della suddetta città d’Apollonia, dei quali due rappresentavano Giove, due Apollo, uno il Sole, uno Domiziano, ed uno Nerone.
1223.Colosso di Rodi. — Vedi l’articolo precedente.
1224.Comani. — Ministri subalterni dei sacrificii che si facevano alla dea Bellona, nella città di Comana, in Cappadocia, in cui quella dea aveva un tempio famoso.
1225.Comeo. — Dalla parola coma, che significa capigliatura ; veniva dato codesto soprannome ad Apollo per la bellezza della sua chioma.
Al dire di Ateneo si celebrava in Grecia una festa ad Apollo Comeo, nella quale tutti coloro che vi prendevano parte vestivano una tunica bianca.
1226.Cometeso. — Padre d’Asterione : fu uno degli Argonauti.
1227.Cometo. — Figlia di Peterela, re dei Teleboeni : la tradizione racconta di lei che per un trasporto amoroso tradi il proprio padre, il cui destino dipendeva da un capello, il cui misterioso possesso era noto solo alla figlia. Essendosi Anfitrione portato a cingere d’assedio Tafo, città capitale dei Teleboeni, pose inutilmente in opera l’ingegno e le forze, per rendersi padrone della città, poichè gli assediati respinsero sempre valorosamente gli assalitori. Scorato dell’impresa, egli s’accingeva a togliere l’assedio, allorchè Cometo, pazzamente innammorata del generale nemico, si lusingò di guadagnarne l’amore col tradire il padre ; ma avendo reciso quel fatale capello e data in balia dei nemici la propria patria, fu fatta uccidere per ordine di quello stesso uomo pel cui amore essa s’era resa traditrice.
Cometo era anche il nome di una sacerdotessa di Diana.
1228.Como — Dalla parola greca Κὠμος, che significa lusso, libertinaggio ; si dava codesto nome al dio della gozzoviglia, dei baccanali e dei festini. Veniva rappresentato sotto le sembianze d’un giovine dalla faccia arrossita per l’ubbriachezza, e col capo coronato di rose, secondo si costumava nei banchetti.
1229.Compitalie. — Feste che si celebravano nelle crocivie, in onore degli dei Penati.
1230.Comuso. — Divinità che presiedeva alle gioje notturne ed allo abbigliamento delle donne e dei garzoni seguaci dell’eleganza della moda. Veniva rappresentata inghirlanda ta di fiori e con una torcia accesa nella mano destra.
1231.Concordia. — Figlia di Giove e di {p. 89}Temi. I Romani l’adoravano con un culto particolare e le avevano innalzato un tempio superbo.
1232.Conifalo. — Uno dei soprannomi del dio Priapo.
1233.Connida. — Precettore e confidente di Teseo. Al dire di Piutarco, gli Ateniesi, dopo la sua morte, gli tributarono gli onori divini.
1234.Consedio. — Divinità che presso i Romani presiedeva al concepimento degli uomini : si dava comunemente codesto soprannome a Giano, chiamandolo Giano Conservio.
1235.Consenti. — Nome collettivo che si dava agli dei ed alle dee di prim’ordine, conosciuti pure, secondo l’opinione di molti chiari scrittori, sotto la dominazione di dii maiorum gentium, ossia dei maggiori. Erano in numero di dodici, cioè : Giove, Nettuno, Apollo, Marte, Vulcano, Mercurio, Giunone, Vesta, Minerva, Cerere, Diana e Venere. — V. Dei.
1236.Consenzie. — Dette anche Conseziane. Feste in onore degli dei Consenti. In queste cerimonie si faceva una specie di obbligazione di onorare particolarmente quegli dei, uniti sotto la denominazione collettiva di Consenti.
1237.Conservatrice. — Soprannomedi Giunone. La tradizione favolosa racconta che un giorno essendo Diana a caccia nella pianura della Tessaglia, le fossero improvvisamente comparse cinque cerve, di non comune grandezza, con le corna d’oro. Diana si dette a inseguirle, ma non potè impadronirsi che di quattro soltanto, essendo stata la quinta preservata da morte da Giunone, che la volle salvare : da ciò il titolo di Conservatrice a questa dea.
1238.Consiva. — Dalla parola latina consevo consevi, io semino, si dava codesto soprannome ad Ope, divinità tutelare delle campagne, la cui festa si celebrava nel mese di agosto, sotto la stessa denominazione.
1239.Conso. — Dio dei consigli : si crede che sia lo stesso che Nettuno Ippio.
1240.Consuali. — Feste che si celebravano particolarmente con gli spettacoli del Circo, in onore del dio Nettuno Ippio. — Vedi l’articolo precedente.
1241.Coo. — V.Coe.
1242.Coon. — Figlio di Antenore : volendo vendicare la morte di suo fratello Ifidamo, ucciso da Agamennone, gli trapassò la mano con un colpo di lancia ; ma fu da quest’ultimo egualmente ucciso.
1243.Coppa. — Narra la cronaca mitologica che Demofonte, re d’Atene, accolse amorevolmente Oreste, quando questi lasciò Argo, dopo l’uccisione di Egisto e di Clitennestra ; ma che avendo poi saputo essere Oreste reo di parricidio, non volle più ammetterlo alla sua tavola ; ma ordinò fosse servito nella sua reggia particolarmente in una coppa di forma e di materia diversa da quelle che comunemente si costumavano in quei tempi. In memoria di tale avvenimento, gli Ateniesi istituirono poi una festa a cui fu dato il nome di festa delle Coppe.
1244. Cora o Corea. — Soprannome di Proserpina, figlia di Cerere, in onore della quale si celebravano pubbliche feste, dette Coree.
1245.Corallo. — Secondo la tradizione favolosa questa pianta nacque dal sangue che grondò dalla testa di Medusa, allorchè Perseo nascose quella testa tutta insanguinata sotto alcune piante di corallo, le quali a quel contatto divennero pietrose e sanguigne.
1246.Corcira. — Isola che deve il suo nome ad una ninfa che fu una delle mogli di Nettuno. Quest’isola è celebre pel naufragio di Ulisse.
1247.Corea. — V.Cora.
1248.Corebe. — V.Corevo.
1249.Coresia. — Soprannome di Minerva, a cui Cicerone attribuisce l’invenzione dei carri a quattro cavalli.
1250.Coreso. — Uno dei sacerdoti di Bacco.
1251. Corevo o Corebe. — Figlio di Midionea cui Priamo, re di Troja, aveva promesso in moglie sua figlia Cassandra. Essendo andato a soccorrere i Trojani contro i Greci, Cassandra tentò invano di farlo allontanare dal teatro della guerra ; egli volle ostinarsi e vi si recò ; ma i dolorosi presentimenti di Cassandra si avverarono, perchè la notte in cui i Greci si resero padroni di Troja, Corebo fu ucciso da Peneleo.
1252. Coribanti o Cureti. — Sacerdoti del culto di Cibele. Essi ebbero Io speciale incarico di vegliare l’infanzia di Giove. Celebravano le loro feste suonando il tamburo, saltando e correndo come uomini colpiti da follia.
1253. Coribante. — Secondo il parere di Aristotile, era questo il nome del padre dello Apollo di Creta.
1254. Coribantiei. — Si dava codesto nome ai misteri delle feste di Cibelle, celebrati dai Coribanti.
1255. Coribaso. — Figlio di Cibele, dal quale i Coribanti han preso il loro nome.
1256. Coricia. — Ninfa che fu una delle mogli di Apollo : dimorava abitualmente in una caverna del monte Parnaso, conosciuta sotto l’istesso nome : le sue compagne furono dette Coricle.
1257. Corifea. — Secondo il parere di Eschilo, così avea nome quella furia che da parte delle sue compagne espose l’accusa terribile dell’Eumenidi contro Oreste.
1258. Corimbifero. — Uno dei soprannomi del dio Bacco.
{p. 90}1259. Corinto. — Famosa città della Grecia, la quale deve il suo nome a Corintio, figlio di Giove.
1260. Corinete. — Figlio di Vulcano : fu un celebre bandito, ucciso da Teseo.
1261. Coritalia. — V. Coritallia.
1262. Coritallia o Coritalia. — Uno dei soprannomi della dea Diana. Nella città dei Lacedemoni vi era un famoso tempio a lei dedicato conosciuto sotto il nome di tempio Coritalliano.
1263. Coritie. — Feste in onore della dea Corito.
1264. Corito. — Dea della impudenza. Essa aveva un tempio famoso nella città di Atene, ove si celebravano in suo onore delle feste dette Coritie. V. l’articolo precedente.
Vi fu un altro Corito di cui la tradizione mitologica fa menzione come figlio di Paride e di Enone. Gelosa Enone del famoso ratto di Elena, fatto da suo marito, mandò a Troja il figliuolo Corito, raccomandandogli di sorvegliare accuratamente la condotta di Elena, d’insinuarsi presso di lei e di non perderla di vista. Ma Paride, divenuto geloso del proprio figliuolo, che era di non comune belleza, un giorno trovatolo seduto vicino ad Elena, in un accesso di gelosia, lo uccise.
Si ricorda anche di un altro Corito che fu re dell’Etruria e padre di Dardano e di Tasio.
1265. Corna di Bacco. — Al dire di Properzio s’invocava Bacco per le sue corna, dimandandogli una lunga vita, onde poter celebrare la sua virtù.
1266. Corno dell’abbondanza. — Era sevente il simbolo delle immagini di Cerere, di Bacco e degli altri semi-dei ed eroi, che procurarono agli uomini l’abbondanza dei beni dei questa terra.
Al dire di Focio, Ercole veniva spesso effigiato con un corno dell’abbondanza sul braccio, perchè Acheolo gliene fece un dono per riavere il corno che Ercole gli aveva tagliato.
1267. Coroneo. — Fu figlio di Foroneo e re dei Lapidi. Fu uno degli Argonauti che presero parte alla spedizione del vello d’oro.
1268. Coronide. — Conosciuta anche sotto il nome di Arfinoe, figlia di Flegia. Apollo l’amo con passione ; ma essa l’abbandonò per darsi ad Ischiso, giovanetto di meravigliosa bellezza. Il nume fu talmente irritato dell’abbandono, che uccise Coronide ed il suo novello amante ; ma non potendo interamente porre in oblio l’amata donna, quando l’ebbe uccisa, tirò dal grembo di lei un fanciullo e l’affidò per farlo educare al centauro Chirone, il quale lo nomò Esculapio. Apollo si penti ben presto della crudele sua vendetta, e per punire il corvo che gli aveva denunziato l’infedeltà di Coronide, lo cangiò di bianco in nero.
Tempo fu già che amava una fanciullaFebo in Tessaglia, nata Larissea,Che la beltà restar fatta avria nullaDi qual si voglia in ciel superba dea.La vede il corvo un di che si trastullaCon altro amante, e che ad Apollo è rea ;E va per accusar l’ingrata e fellaChe per nome Coronide s’appella.Ovidio — Metamorfosi Libro II. trad. di Dell’Anguillara.
Vi fu anche un’altra Coronide, figlia di Coroneo, re della Focide, che Minerva cangiò in cornacchia, per sottrarla alle oscene persecuzioni di Nettuno. In greco la parola Κορὠνγ, significa cornacchia.
Anche fra le baccanti ve ne fu una per nome Coronide, la quale fu rapita da Buteo.
Finalmente fuvvi un’altra Coronide, di cui fa menzione Pausania, come di una dea adorata in Sicione, ove non avendo un tempio suo proprio e particolare, le veniva sacrificato in quello di Pallade Minerva.
1269. Cortina. — Generalmente si è creduto dai cronisti della favola che sotto il nome di Cortina si volesse dai pagani indicare la pelle del serpente Pitone, di cui era ricoperto il tripode sacro sul quale la pitonessa o sibilla, rendeva i suoi oracoli. Taluno fra gli scrittori dell’antichità, pretende che il nome di Cortina, fosse adoperato per indicare il tripode stesso. L’opinione più fondata però sembra quella che attribuisce il nome di Cortina ad una specie di piccolo bacino, ordinariamente d’oro o di argento, così poco concavo, che somigliava ad una piccola tavola, la quale veniva posta sul tripode sacro, quando la Pitonessa, invasa dal furore profetico, dettava i responsi.
1270. Corvo. — Uccello consacrato ad Apollo, perchè si credeva che avesse un istinto naturale di predir l’avvenire. Prima del fatto di Coronide (V. Coronide) il corvo era bianco come il cigno : ma poi fu cangiato in nero.
1271. Coscinomanzia. — V. Cocinomanzia.
1272. Cotitto. — Dea del libertinaggio, particolarmente adorata nella Tracia. I misteri di questa dea erano considerati come i più infami. Al dire di Giovenale, le turpi libidini che si commettevano dai sacerdoti della dea, giunsero a tal segno di bestiale oscenità, che richiamarono su di essi il furore della dea stessa V. Bali.
Gli Ateniesi ereditarono dalla Tracia il culto di questa turpe divinità. La cronaca narra che Alcibiade si fosse fatto iniziare nei misteri di Cotitto, e che avendo il poeta Eupoli, scritta una commedia ove sferzava mordacemente i cattivi {p. 91}costumi di Alcibiade e la sua iniziazione agli avergognati misteri di Cotitto, quegli lo avesse fatto assassinare.
1273. Cotto. — Figliuolo del Cielo e della Terra e fratello di Briareo. Aveva anch’egli, secondo la tradizione favolosa, cinquanta braccia e cento mani.
1274. Covella. — Uno dei soprannomi della dea Giunone.
1275. Crabuso. — Uno degli dei della mitologia egiziana.
1276. Crane. — Ninfa che fu una delle mogli di Giano. Si crede comunemente che sia la stessa che Carnea.
1277. Cranto. — Uno degli eroi a cui dopo la morte furono eretti in Grecia monumenti ed altari.
1278. Cratea. — Dea degli stregoni e degli incantatori : fu madre della famosa Scilla. Omero e altri scrittori dell’antichità, vogliono che sia la stessa che Ecate.
1279. Crateo o Creteo. — Figlio di Minosse e di Pasifae. Avendo consultato l’oracolo per conoscere i destini della sua vita, ne ebbe in risposta che sarebbe stato ucciso da suo figlio Altmeno. Questo giovane principe, spaventato dalla sventura che minacciava suo padre, prima di esiliarsi volontariamente dalla sua patria, uccise una delle sue sorelle, che Mercurio avea deflorata, e dopo aver maritate le altre a diversi principi stranieri, parti. Tutto parea promettere un tranquillo avvenire a Crateo, ma questi non potendo vivere senza suo figlio, allesti una flotta e mosse egli stesso a rintracciarlo. Egli sbarcò all’isola di Rodi, ove stava Altmeno. Gli abitanti di quella, credendo che Crateo fosse un nemico che venisse a sorprenderli, presero le armi e ne segui un accanito combattimento, nel quale Altmeno trafisse con una freccia Crateo. Questo sventurato principe morì della ferita ricevuta, col dolore di veder compiuta la funesta predizione dell’oracolo, perchè quando suo figlio gli si accosto per spogliarlo delle armi, essi si riconobbero. Altmeno ottenne dagli dei che la terra gli si fosse spalancata sotto i piedi e lo avesse allo istante inghiottito.
1280. Crau. — La favola mitologica narra che combattendo Ercole contro il gigante Gerione, gli fossero mancate le frecce e che egli avesse implorato l’ajuto di Giove, il quale avesse mandato una pioggia di felci di cui è sparsa l’isola Crau, all’imboccatura del Rodano. Plinio chiama quel luogo un monumento delle imprese di Ercole.
1281. Crefagenete. — Dio adorato nella Tebaide e particolarmente in Egitto.
1282. Crenee. — Dalla parola greca Κυγυγ che significa fontana : veniva dato questo sopranome alle Najadi, ninfe delle fontane.
1283. Creonciade. — V. Creontide.
1284. Creonte. — Fratello di Giocasta. Egli s’impadronì del regno di Tebe dopo la distruzione della famiglia di Lajo, e fece morire Antigone, perchè avea dato sepoltura ai suoi fratelli — V. Antigone. È comune credenza ch’egli fosse il fomentatore della crudele inimicizia dei due fratelli Eteocle e Polinice, e che li avesse spinti ad uccidersi scambievolmente.
Vi fu un altro Creonte, re di Corinto, che Medea fece miseramente perire. — V. Medea.
1285. Creontide o Creonciade. — Figlio dell’Ercole di Megara : suo padre lo uccise in un momento di furore.
1286. Cresponte. — Uno dei discen lenti di Ercole : fu celebre fra gli eroi della Grecia.
1287. Crepito. — Sconia e ridicola divinit à dei pagani.
1288. Creta. — Famosa isola i cui abitant i immolavano a Giove ed a Saturno vittime umane. La maggior parte degli dei e delle dee, di cui si compone l’Olimpo mitologico, ebbero i natali in questa città.
1289. Creteo. — V. Crateo.
1290. Cretesi. — Ninfe dell’isola di Creta : si davano comunemente come le seguaci di Venere, per essere questa dea particolarmente adorata nell’isola.
1291. Cretheo. — Figlio di Eolo. Sua moglie Demodice accusò falsamente un giovane chiamato Prisso, di aver voluto attentare al suo pudore. Cretheo prestò fede all’accusa, e volle uccidere Prisso ; ma questo giovane si salvò fuggendo con la propria sorella Elle.
1292. Cretheja-Virgo. — Così veniva denominata Elle, sorella di Prisso, dal nome del suo avo Cretheo, di cui nell’articolo precedente.
1293. Cretone. — Figlio di Diocle. Recatosi con suo fratello Orsiloco all’assedio di Troja, furono entrambi uccisi da Enea con un sol colpo. Menelao durò gran fatica a ritogliere i loro corpi dalle mani dei nemici.
1294. Creusa. — Figlia di Creonte, re di Corinto : essa sposò Giasone, quando questi ripudiò Medea, la quale per vendicarsi mandò in dono a Creusa una piccola scatola da cui uscì un fuoco che s’appiccò alla reggia e fece morire la sventurata principessa e il padre di lei.
Euripide dice che il dono inviato da Medea, consisteva in ornamenti muliebri i quali s’inflammarono non appena Creusa se ne fu adornata, producendo lo stesso effetto che il fuoco nella scattola. È opinione di molti pregiati scrittor i che la figlia di Creonte si chiamasse Glauca e non Creusa ; forse perchè questi due nomi {p. 92}vengono adoperati a vicenda per denotare la figlia di Creonte.
……. Di Glauca in tracciaVolgi i passi, o Lic’sca. A lei presentaQuesto mio dono, e nella mente imprimiCiò che dirle dovrai……..………………..…… poscia a’suoi piedi il cintoIn atto umil deponi, ed altro aggiugni,E poni ogn’opra, onde l’accetti, e il senoA cingerne s’induca.Della Valle-Medea-Tragedia. Atto IV. Scena V.
E veggon sulla salma di Creusa,Terribïlmente in piè sorger Medea…Legouvè — Medea — Tragedia Trad. di Montanelli.
Le due precedenti citazioni varranno a comprovare ai nostri lettori che dagli scrittori si dà vicendevolmente alla figlia di Creonte il nome di Glauca o di Creusa.
La tradizione mitologica ricorda anche di una altra Creusa, che fu figlia di Priamo e moglie di Enea. Ella disparve durante il sacco di Troja, avendola Cibele nascosta, onde sottrarla agli insulti del vincitore.
….. e men tra loroEra la donna mia…..Mentre cosi tra furioso e mestoPer la città m’aggiro. e senza fineLa ricerco e la chiamo, ecco d’avantiMi si fa l’infelice simulacroDi lei, maggior del solito. Stupii,M’aggricciai, m’ammutii. Prese ella a dirmi.E consolarmi : O mio dolce consorte.A che si folle affanno ? A gli dei piaceChe cosi segua. A te quinci non leceDi trasportarmi. Il gran Giove mi vietaCh’io sia teco a provar gli affanni tuoi :Che soffrir lunghi esigli, arar gran mariTi converrà pria cff’al tuo seggio arrivi,Che fia poi ne l’Esperia, ove il TirrenoTebro con placid’onde opimi campiDi bellicosa gente impingua e riga.Ivi riposo e regno e regia moglieTi si prepara. Or de la tua dilettaCreüsa, signor mio, più non ti doglia :Chè i Dolopi superbi, o i MirmidoniNon vedranno già me dardania prole,E di Priamo figlia, e nuora a Venere,Nè donna lor, nè di lor donne ancella,Che la gran genitrice de gli deiAppo se tiemmi………Virgilio — Eneide Lib. II. trad. di A. Caro.
1295. Criaforeo. — Soprannome di Giove a lui venuto dalla città di Criaforide, nella Caria, dove era adorato con culto speciale.
1296. Criaforo. — Figlio di Nettuno e di Medusa. Egli sposò Calliroe dalla quale ebbe Gerione. V. Calliroe.
1297. Criforo o Crisore. — Dio dei Fenici, creduto generalmente il Vulcano dei Greci. Si riteneva come l’inventore dell’amo per pescare. Dopo la sua morte ebbe gli onori divini.
1298. Crinifo. — Principe Trojano il quale fu da Nettuno ed Apollo ajutato a riedificare le mura di Troja ; ma poi negò ai due numi la ricompensa che avea loro promessa. Nettuno per vendicarsi mandò nelle campagne della Frigia un mostruoso serpente, al quale ogni giorno bisognava dare una giovanetta per pasto. Tutte le volte che il mostro compariva, le giovanette del cantone tiravano a sorte la loro vita. Appena la figlia di Crinifo toccò l’età in cui doveva, come le altre, essere esposta alla voracità del rettile, il padre di lei la mise furtivamente su di una barca, e per non esporla alla triste sorte delle sue campagne, l’abbandonò alla fortuna delle onde. Spirato il tempo in cui il mostro doveva rimanere nella contrada, Crinifo andò a cercare sua figlia, e approdò in Sicilia ; ma non avendo potuto ritrovarla pianse tanto che i numi mossi a compassione, lo cangiarono in flume, accordandogli il privilegio di potere a suo talento assumere qualunque sembianza. Egli usò di questo potere per sorprendere molte ninfe, e combattè contro Acheolo per la ninfa Egesta, che poi sposò e da cui ebbe un figlio per nome Aceste.
1399. Criniso. — Sacerdote di Apollo. Questo dio per punirlo di aver trascurato il suo dovere nei sagrifici, mandò una grande quantità di sorci nei suoi campi. Però essendosi Criniso corretto, Apollo stesso uccise a colpi di frecce quegli animali divoratori, il che valse a quel Dio il soprannome di Sminitheus, che vuol dire distruttori di sorci.
1300. Criobole. — Specie di sacrifizio che si offeriva alla madre degli dei : la vittima abituale ne era un capro.
1301. Criofago. — Cioè divoratore di pecore. Divinità alla quale si dava questo nome pel gran numero di quegli animali che venivano sagrificati su’suoi altari.
1302. Crioforo. — Uno dei soprannomi del dio Mercurio.
1303. Crisaore. — Secondo l’opinione di Esiodo, fu cosi chiamato l’uomo che nacque dal sangue della testa recisa di Medusa : gli fu dato questo nome perchè aveva una spada d’oro nelle mani.
1304. Crise. — Sacerdote di Apollo e padre di Astinomea, più comunemente conosciuta sotto il nome di Criseide. V. Criseide.
Nella Troade, vi era una città conosciuta sotto l’istesso nome, celebre per un tempio dedicato ad Apollo.
{p. 93}1305. Criseide. — Astinomea, figlia di Crise, sacerdote di Apollo, veniva cosi denominata dal nome del padre. Dopo la caduta di Tebe, nella Cilicia, essa come preda’di guerra, spettò in sorte ad Agamennone, il quale la condusse seco quando si recò all’assedio di Troja.
Crise, padre di lei, rivestito degli abiti sacerdotali, si recò nel campo dei Greci per ridimandare la figlia.
Degli Achivi era Crise alle velociProre venuto a riscattar la figliaCon molto prezzo. In man le bende avea,E l’auro scettro dell’arciero Apollo.Omero — Iliade — Libro I trad. di V. Monti.
Essendosi Agamennone ricusato alle preghiere del vecchio, questi ottenne da Apollo che una terribile pestilenza avesse decimato l’esercito greco. Il flagello durò finchè, per ordine dell’indovino Calcante, la rapita giovanetta non fu restituita al padre. Agamennone, costretto a cederla, ritolse ad Achille una schiava per nome Briseide, che era a lui spettata in sorte nella divisione di un altro bottino di guerra. Achille, furibonuo contro Agamennone, ricusò di combattere nelle file dei Greci, finchè la morte del suo anico Patrocolo, non gli fece rompere il suo giuramento.
1306. Crisia. — Sacerdotessa di Giunone in Argo. Addormentatasi ai piedi dell’ara, lasciò che il fuoco si appiccasse ai sacri ornamenti, e quindi a tutto il tempio, fra le cui flamme mori bruciata ella stessa.
1307. Crisippo. — Figlio naturale di Pelopo, che lo amò teneramente. Ippodamia, moglie di Pelopo e matrigna di Crisippo, temendo che un giorno questo fanciullo non regnasse in pregiudizio dei propri figli, lo trattò assai male ed istigò Atreo e Tieste, suoi figliuoli, ad ucciderlo, ma eglino si ricusarono all’atto crudele e allora Ippodamia prese la risoluzione di uccider Crisippo di propria mano. Infatti armatasi del brando di Pelopo, lo trafisse lasciandogli l’arma omicida conficcata nel petto. Crisippo, mortalmente ferito visse ancora tanto tempo da poter palesare la verità, ed impedire che la sua morte fosse imputata ai due suoi fratelli. Ippodamia, delusa nelle sue crudeli speranze, si dette di sua mano la morte.
1308. Crisomattone. — Con questo nome i greci indicavano il famoso agnello del vello d’oro.
1309. Crisore. — V. Criforo.
1310. Crisotemi. — Figlia di Agamennone e di Clitennestra.
1311. Critomanzia. — Specie di divinazione che si faceva dall’osservazione della pasta delle focacce, che venivano offerte nei sagrifizii, e della farina che si spargeva sulle vittime per trarne i presagi. La parola Critomanzia viene dal greco Κριδη, che significa orzo.
1312. Crocale. — Ninfa che fu riglia del fiume Ifmeno.
1313. Croco. — Più comunemente conosciuto sotto il nome di Croto : figlio del dio Pane e di Eufema.
Dopo la morte fu annoverato fra le costellazioni.
Vi fu un altro Croco, marito di Smilaxa. Essi si amavano cosi teneramente e con tanta innocenza, che gli dei li cangiarono in arboscelli.
1314. Crodo. — Divinità degli antichi Sassoni : si crede in generale dai cronisti, che fosse la stessa che Saturno.
1315. Cromio. — Figliuolo di Priamo : fu ucciso all’assedio di Troja da Diomede.
1316. Cromione. — Contrada posta nelle circostanze di Corinto, celebre per i danni che ebbe a soffrire da un mostro che poi dette la vita, secondo la tradizione favolosa, al cignale di Calidone. Teseo combattè quel mostro e l’uccise.
1317. Cromisio. — Figlio di Neleo di Cloride, che fu ucciso da Ercole.
1318. Cromise. — Figliuolo di Ercole : avendo nudrito i suoi cavaili di carne umana, Giove lo fulminò.
Vi fu anche un satiro a cui la favola attribuisce l’istesso nome.
1319. Cronie. — Feste in onore di Saturno che i greci veneravano anche come il Tempo.
1320. Cronio. — Fu il nome di uno dei centauri.
1321. Crono. — Soprannome che veniva dato a Saturno, ritenuto come dio del tempo.
1322. Crotopiadi. — Nome collettivo dei discendenti di Crotopo.
1323. Crotopo. — Re d’Argo e padre di Famateo.
1324. Cteato. — Padre d’Anfimaco : fu uno dei capitani che assediarono Troja.
1325. Ctonlo. — Uno dei soprannomi del Dio Mercurio.
1326. Cuba. — Divinità tutelare dei dormienti.
1327. Cuculo. — Soprannome dato a Giove, per aver preso le forme di quest’uccello onde riacquistare le grazie di Giunone, sua moglie.
Quest’uccello era particolarmente consacrato a Giove ; e la favola racconta che la metamorfosi di quel dio in cuculo avvenisse nel Pelopenneso sul monte Torace, chiamato da allora in poi monte Cuculo dalla parola greca Χδων, che significa terra e dall’altra Χδονως che è per terra.
{p. 94}1328. Cuma. — Città d’Italia ove avea stanza la celebre sibilla, conosciuta comunemente sotto la denominazione di Cumana.
1329. Cunia. — Detta anche Cunina : divinità tutelare dei fanciulli poppanti.
1330. Cupavo. — Figlio di Cigno : al dire di Virgilio, fu anch’esso cangiato in questo animale.
…… Questi di CignoEra figliuolo, onde ne l’elmo aveaDe le sue penne un candido cimieroIn memoria del padre, e de la nuovaForma in ch’ei si cangiò, tua colpa, amore.Virgilio — Eneide L. X trad. di A. Caro.
1331. Cupido. — Dio dell’amore e figliuolo di Marte e di Venere. Egli presiedeva alla voluttà. Veniva rappresentato sotto la figura di un fanciullo con gli occhi bendati, con un arco ed un turcasso pieno di frecce. Egli fu amato con passione da Psiche. Compagni di Cupido erano i piaceri, il riso, i giuochi ed i vezzi, tutti rappresentati, come lui, sotto la figura di fanciulli alati.
1332. Cura. — Ossia inquietudine. Divinità alla quale la favola attribuisce la formazione del corpo umano. Essa aveva un impero assoluto sulla vita dell’uomo.
1333. Cureoti. — Cosi avea nome presso i pagani il giorno delle feste dette Apatuarie. L’etimologia della parola Cureoti viene dal greco Κονρος che vuol dire uomo giovane, perchè appunto in quel giorno i giovani che erano giunti alla pubertà, prima di preder parte a quelle cerimonie, si facean tagliare i capelli, consacrandoli ad Apollo e a Diana.
1334. Cureti. V. Coribanti.
1335. Curisa. — Uno dei soprannomi della dea Giunone.
1336. Cuti. — I Sabini onoravano sotto questa denominazione, Giunone, rappresentandola con una lancia nella destra.
D §
{p. 95}1337. Dadea. — V. Dadesia.
1338. Dadesia o Dadea. — Festa che si celebrava in Atene in onore della nascita di alcuni dei in particolare e di tutti in generale. La principal cerimonia consisteva nell’accendere un gran numero di torcie.
1339. Daducheo. — Detto anche Dauduque : era questo il nome che gli Ateniesi davano al gran sacerdote di Ercole. Si chiamavano anche Daduci i sacerdote che nella festa Dadesia, portavano le torcie accese. V. l’articolo precedente.
1340. Dafida. — Al dire di Valerio Massimo, così avea nome un dotto uomo, il quale volendo burlarsi della Pitia, andò ad interrogaria se egli avesse potuto ritrovare il proprio cavallo, il quale per altro egli era ben lungi d’aver perduto. Apollo sdegnato, fece dalla Pitonessa rispondere che non sarebbe trascorso molto tempo ed avrebbe ritrovato il perduto animale : infatti poco dipoi Attalo fece morire Dafida in un luogo che si chiamava comunemente il Cavallo.
1341. Dafne. — Figliuola del fiume Peneo, che fu passionatamente amata da Apollo. Un giorno mentre essa cercava di sottrarsi con la fuga alle amorose persecuzioni di quel dio, la ninfa del fiume padre della perseguitata, la cangiò in lauro. Apollo allora consacrò quell’arboscello a Dafne ed egli stesso si fece di quelle foglie una corona, che poi porto sempre.
Vi fu anche un’altra Dafne, più comunemente conosciuta sotto il nome di Artemisia o Artemisa, figlia di Tiresia, la quale nella città di Delfo rendeva gli oracoli in versi, cosi armoniosamente poetici, che si credeva averne Omero stesso inseriti buon numero nei suoi poemi. Al dire di Diodoro, questa figliuola dell’indovino Tiresia, fu la famosa sibilla di Delfo.
Dafne fu anche il nome di un’altra ninfa delle montagne di Delfo, la quale, al dire di Pausania, fu scelta dalla dea Tello per presiedere agli oracoli, che la medesima dea rendea in quel luogo assai prima di Apollo.
1357. Dafnefagi. — Vale a dire, mangiatori di lauro. Si dava questo nome ad una classe d’indovini, i quali prima di dare i loro responsi, mangiavano delle foglie di lauro, volendo far credere con cio che essi fossero ispirati da Apollo, a cui quell’arboscello era consacrato dopo la metamorfosi di Dafne. V. l’articolo precedente.
1343. Dafneforie. — Feste celebrate dai Beozi ogni nove anni in onore di Apollo. Un giovane, appartenente alla più illustre famiglia della città, portava in giro un ramo d’alloro, sul quale riposava un globo di rame da cui ne pe ndevano sospesi molti altri, di più piccola dimensione. Nel primo veniva raffigurato il sole, ossia Apollo ; nel secondo la luna ; e negli altri le stelle ; mentre le corone che circondavano questi globi, contrasegnavano i giorai dell’anno. Dal nome stesso delle feste, si dava il nome di Dafnefore, al giovine ministro di esse.
1344. Dafneo. — Soprannome di Apollo, a lui date per l’affetto che portò a Dafne.
1345. Dafni. — Giovane pastore della Sicilia : fu figlio di Mercurio. Egli amò con passione una ninfa ed ottenne dagli dei la grazia che di essi due, quello che primo violerebbe la fede coniugale, sarebbe divenuto cieco. Dafni dimendicò il suo giuramento, s’innamorò di un’altra ninfa e fu cieco pel rimanente dei suoi giorni.
1346. Dafnomanzia. — Specie di divinazione che si traeva dall’esame dell’alloro, consacrato ad Apollo Dafneo.
1347. Dagone. — Uno degli idoli dei Filistei, presso cui veniva rappresentato come un tritone : aveva due tempii, uno nella città di Azor, l’altro a Gaza.
1348. Damasictone. — Così si chiamava {p. 96}uno dei figli di Niobe, che fu ucciso da Apollo.
1349. Damoso. — Uno dei soprannomi del dio Mercurio.
1350. Damaste. — Soprannominato Procuste : famoso gigante celebre per la sua crudeltà. Egli deve il suo soprannome, che significa estendere per forza, perchè si narra che facesse tirare per le gambe e per il collo, tutti coloro ai quali dava ospitalità, onde raggiungessero la misura di un suo letto ; e che faceva mozzare le gambe, a quelli che oltrepassavano la misura. La cronaca mitologica ricorda che Teseo lo fece morire, infliggendogli lo stesso supplizio.
1351. Damatera. — Presso i Greci era questo uno dei soprannomi di Cerere, come era detto Damastio il decimo mese del loro anno. Con poca differenza di giorni, corrisponde al nostro mese di luglio.
1352. Damia. — Da un sacrifizio che il popolo
faceva a Cibele, nel giorno detto damion, primo di maggio,
fu dato il soprannome di Damia alla buona dea. « Δάμιςpopolo, d’onde Δάμιος pubblico. »
.
1353. Danaca. — Nome particolare alla moneta di piccolo valore, che Caronte, il navicellajo dell’inferno, esigeva dalle anime dei morti per far loro traghettare l’Acheronte. V. Caronte.
Ed ecco verso noi venir per naveUn vecchio bianco per antico pelo,Gridando : Guai a voi, anime prave.Non isperate mai veder lo cielo.I’vegno per menarvi all’altra rivaNelle tenebre eterne, in caldo e in gelo.Dante — Inferno Cant. III.
1354. Danacio. — Soprannome di Perseo, per esser figlio di Giove e di Danae.
1355. Danae. — Figlia di Euridice di Acrisio, re di Argo. Avendo suo padre consultato l’oracolo, per conoscere il proprio destino, ne ebbe in risposta ch’egli sarebbe ucciso dal figlio di sua figlia. Allora per togliere Danae alla conoscenza degli uomini, e sottrarsi così al fato che lo minacciava, Acrisio fece rinchiudere sua figlia in una torre di bronzo ; ma Giove, innamoratosi della bellissima fanciulla, si trasformò in pioggia d’oro, penetrò presso di lei e la rese madre. Acrisio, vedendosi ingannato, fece legar Danae in una piccola barca e l’abbandonò in preda alle onde.
Una tenera figlia Acrisio avea.Nomata Danae, si leggiadra e bella,Che non donna mortal, ma vera deaSembrava al viso, a’modi, e alla favella.Il padre per lo ben, che le volea.Saper cercò il destin della sua stella ;Ma il decreto fatal tanto gli spiacque,Che la fe’col figliuol gittar nell’acque.Ovidio. — Metamorf. Libro IV trad. di Dell’Anguillara.
Ma essa approdò felicemente a una delle isole Cicladi, dove Politetto, re di quella, la sposò allevando con affetto paterno Perseo, di cui ella era rimasta incinta. L’oracolo ebbe poi il suo pieno conseguimento. V. Perseo.
1356. Danaidi. — Così furono nominate le 50 figlie di Danao, le quali furono nello stesso giorno sposate da 50 loro cugini germani. Danao, avvisato dall’oracolo ch’egli sarebbe stato detronizzato dai mariti delle sue figliuole, ordinò a quste di uccidere i loro uomini la prima notte delle nozze. La sola Ipernestra salvò il suo, per nome Linceo, mentre le sorelle di lei, che seguirono il crudele volere del padre, furono condannate nell’inferno ad attingere eternamente l’acqua con una secchia senza fondo. Le Danaidi, furono dette anche Belidi dal loro avo chiamato Belo.
1357. Danao. — Figlio di Belo, e re di Argo e padre delle cinquanta Banaidi, di cui nell’articolo precedente. Dal nome di lui, i Greci, che prima si chiamavano Pelasgi, furono detti Danai o Danaidi.
1358. Danubio. — Il più gran fiume d’Europa. La cronaca mitologica ricorda che i Geti e i Traci lo venerarono particolarmente come una divinità.
1359. Dardalo. — Figlio di Giove e di Elettra, figliuola di Atlante. Avendo ucciso suo fratello Iafio, egli fu obbligato di fuggire dall’isola di Creta, e si ricovero in Asia, ove costrui una città detta dal suo nome Dardania, che fu più tardi la famosa Troja.
1360. Dardani o Dardanidi — Nome patronimico col qua’e si denotavano i Trojani.
1361. Dardania. — Nome primitivo della contrada nel cui perimetro era compresa la città di Troja V. Dardalo.
1362. Darete. — Uno dei sacerdoti di Vulcano.
…… Era fra’Teucri un certoDarete, nom ricco e d’onoranza degno,Di Vulcan sacerdote.Omero — Iliade — libro V. trad. di V. Monti.
1363. Dattili. — Conosciuti anche sotto il nome di Coribanti o Cureti. Gli uni erano figli del Sole e di Minerva ; gli altri di Saturno e di Alciope. Si mise Giove nelle loro mani appena venuto alla luce ; ed essi, tutte le volte che l’infante divino piangeva, danzando e gridando intorno a lui, impedivano che i suoi gridi fossero intesi da Saturno, che lo avrebbe divorato come gli altri suoi figli.
1364. Dattlomancia. — Specie d’incantesimo che si faceva per mezzo di alcuni anelli disegnati sulla figura di talune particolari {p. 97}costellazioni. La cronaca favolosa racconta che Gige, uno dei Titani, col solo passarsi uno di quegli anelli al dito si rendesse invisibile.
1365. Dauduque. — V.Daducheo.
1366. Daula. — Soprannome di Filomela, perchè, secondo la favola, fu a Daulia, città della Focide, ch’essa fu cangiata in uccello.
1367. Daulte. — Feste celebrate dagli Argivi, in memoria dello strano combattimento di Preto contro Acrise.
Daulle o Daulisia veniva pure chiamata una ninfa, la quale dette il suo nome alla città di Daulia, nella Focide.
1368. Daunia-Dea. — Così veniva comunemente denominata Jutura, sorella di Turno e figlia di Daulia.
1369. Daunio. — Figlio di Pilumnio e di Danae. Egli ebbe un figlio al quale impose il suo stesso nome, e che poi sposò Venilia da cui ebbe Turno.
1370. Daunio-Eroe. — Denominazione data a Turno, figlio di Daunio.
1371. Dedalie. — Feste greche celebrate in onore della pacificazione di Giove con Giunone V. Citerone. Gli abitanti di Platea, celebravano queste medesime feste in una loro particolare maniera, in memoria del loro ritorno dall’esiglio, e della loro riconciliazione cogli altri greci.
1372. Dedalione. — Fratello di Ceixo e padre di Chione. Egli fu così addolorato della morte di sua figlia, che si precipitò dal monte Parnaso. Apollo, mosso a pietà, lo cangiò in falcone.
1373. Dedalo. — Nipote di Ereteo, re d’Atene. Era ritenuto come il più abile artefice greco e famoso scultore ed architetto. Al dire d’Aristotille, Dedalo fabbricava degli automi che camminavano ed avevano ogui altro movimento, loro comunicato dall’argento vivo ch’egli vi poneva internamente.
Dedalo ebbe un nipote artefice, quanto lui abile e fors’anche di più, ch’egli, per gelosia di mestiere, fece assassinare. Consumato il delitto e scopertosi, Dedalo si rifugiò nell’isola di Creta, ove costruì il famoso laberinto detto da lui laberinto di Dedalo ; e nel quale Minosse, re di quell’isola, lo fece rinchiudere insieme a suo figlio Icaro, per punire entrambi, secondochè narra la cronaca favolosa, d’aver favorito e protetto le bestiali deboscie di Pasifae, moglie del re. Dante così favella a proposito di quanto accennammo.
L’Infamia di Creta era distesaChe fu concetta nella falsa vacca.Dante — Inferno — Canto XII.
Per maggiore intelligenza riportiamo il commento che il Costa ed il Bianchi hanno dato a questo passo della divina Commedia :
« Pasifae, donna di Minosse re di Creta, soggiacque ad un toro,
chiusa in una vacca di legno, perciò l’Alighieri dice falsa
vacca »
.
Minosse ritenendo, come forse era, che la vacca di legno nella quale si fece rinserrare l’infame Pasifae, fosse opera di Dedalo e d’Icaro suo figlio, li fece rinchiudere nello stesso laberinto da essi costruito, per lasciarveli morire.
Essi però pensarono al modo di sottrarsi con la fuga all’orribile e lenta morte che loro sovrastava, e giovandosi delle sotrigliezze dell’arte loro, fabbricarono delle ali che Dedalo attaccò con grossi pezzi di cera alle spalle del figlio, dopo aver fatto per sè altrettanto, ed aver raccomandato caldamente al figliuolo di non volare nè troppo basso, nè troppo alto, temendo, con giusto discernimento, che nel primo caso i miasmi della terra, e nel secondo i raggi del sole, non avessero liquefatta la cera. Il figliuolo promise al padre di seguire strettamente le sue istruzioni, ma appena essi furono nello spazio, il giovanetto dimenticò la paterna lezione e si avvicinò troppo al sole, per modo che i raggi liquefecero la cera e lcaro precipitò da un’enorme altezza nel mare.
Dedalo, più accorto dell’incauto figliuolo, giunse a salvamento in Sicilia, dove per altro mori poco dopo, soffocato in una stufa, per ordine di Cocalo, re di quell’isola, al quale Minosse aveva fatto minaccia di dichiarazione di guerra, se non avesse consegnato vivo o morte, nelle sue mani, il fuggitivo.
All’amata Sicilla alfin arrivaStanco già di valor Dedalo, doveDel volo e delle penne il dosso priva :Nè d’uopo gli è d’andar cercando altrove ;Che quivi appresso al re talmente è vivaLa fama delle sue stupende prove,E con tal premio Cocalo il ritiene,Che riveder più non si cura Atene.Ovidio.. — Metamorfosi. — Libro VIII trad. di Dell’Anguillara.
1374. Dee. — Divinità del sesso femminino, adorate dai pagani con culto e cerimonie particolari. Venivano distinte in tre categorie, cioè : dee del cielo, dee della terra e dee dell’inferno.
Fra le dee le principali erano : Giunone, Vesta, Minerva, Cerere, Diana e Venere. Queste dee venivano comprese nella categoria delle divinità dette dagli scrittori della favola, dii maiorum gentium. — V. to studio preliminare sulla Mitologia.
La tradizione mitologica fa sovente menzione di varie dee che si sono accoppiate ai mortali, {p. 98}come per esempio Venere, che sposò Anchise, Teti, che sposò Peleo, ecc. Presso i pagani era generale opinione che quei mortali che avevano contatto con le dee non vivessero a lungo.
1375. Dee Madri — Con questo nome venivano dinotate quelle divinità che presiedevano alla campagna ed ai prodotti della terra, ed è questa la ragione per la quale, tanto sulle medaglie dell’antichità, quanto sui monumenti, si vede la loro effigie sempre rappresentata con un corno dell’abbondanza.
Secondo l’opinione di Diodoro, e di altri mitologi si dava il mone di Dee Madri alle nutrici di Giove, le quali presero cura di lui ad insaputa di Saturno, e perciò furono annoverate fra gli astri, ove formano la costellazione dell’Orsa maggiore.
Altri scrittori danno il nome complessivo di Dee Madri, alle figliuole di Cadmo : Agone, Ino, Autonoe e Semele, a cui venne affidata l’educazione di Bacco.
Il certo si è che il culto delle Dee Madri, rimonta ai primissimi tempi del paganesimo ed è stato il più diffuso ed universale. Queste divinità avevano nella città d’Anguia, nella Licia, un tempio antichissimo, ove traevano gli abitanti di tutti i paesi circonvicini, per offrir loro sagrifizî ed onori solenni ; e dove era generale credenza, che esse apparissero di tratto in tratto. Al dire di Diodoro Siculo eran queste le ragioni per le quali il tempio d’Anguja divenne, con l’andare degli anni, ricchissimo, contandosi fra le rendite di quello, un’assai larga estensione di paese e oltre a 3000 buoi, il che, per quei tempi, era un’assai cospicua ricchezza.
Il culto delle Dee Madri, originario dell’Egitto, passò poi nella Grecia, quindi a Roma, poi presso i Galli e finalmente presso i Tedeschi e gli Spagnuoli : è questa almeno l’opinione generalmente riconosciuta dai più rinomati scrittori dell’antichità, ed appoggiata dallo essersi trovato da per ogni dove le vestigie di questo culto.
1376. Del. — Esseri sovrumani del culto religioso dei pagani. L’idea della divinità è così naturale agli uomini, è così profondamente impressa nel loro cuore, che se pure disconoscenti del vero Dio, gli sostituirono altri esseri superiori alla specie umana, tali quali essi se li formarono, o alterando ciò che loro era rimasto di vero ; o secondo l’impulso delle loro passioni, delle quali essi non esitarono a crearsi altrettante divinità.
Egli è perciò che il numero di queste era prodigioso presso i pagani, i quali contavano fino a 30 mila numi, suddivisi in quattro ordini o categorie particolari. V. to studio preliminare sulla Mitologia.
Giove era ritenuto come il più potente di tutti gli dei, sebbene il suo incontrastato potere, fosse subordinato alla volontà inesorabile del Destino.
I pagani riconoscevano diverse classi di numi, fra le quali le più distinte erano i Celesti, i Terrestri, gli Acquatici e gli Infernali. Erano inoltre più particolarmente adorati nelle diverse classi a cui appartenevano, dodici numi principali detti dei Grandi ed erano : Saturno, ossia ii Tempo, Giove, Gibele, Apollo, Cerere, Giunone, Diana, Bacco, Mercurio, Venere, Nettuno e Plutone ; gli altri venivano denominati dei Minori, e fra questi i principali erano : Minerva o Pallade, Marte, Eolo, Momo, ecc. Altri finalmente detti Semi Dei, erano propriamente quelli che avevano per padre un dio e per madre una donna mortale : o viceversa per madre una dea e per padre un uomo. Fra i Semi Dei venivano anche annoverati, dopo la morte, quegli uomini e quelle donne che per le loro eroiche azioni avessero meritato di essere annoverati fra gli dei : fra questi furono Ercole, Teseo, Minosse e molti altri.
A maggior chiarimento noteremo qui, che, sebbene presso gli scrittori dell’antichità, si trovino indifferentemente adoperate le parole dii e divi, per indicare gli dei in generale, pure la parola dii, nel suo senso proprio, non conviene che agli dei di prim’ordine, agli dei grandi più individualmente denomina ti, dii maiorum gentium ; mentre l’altro vocabolo divi e proprio degli altri dei secondari, detti dii minorum gentium, e più particolarmente a quelli che non erano riconosciuti dei che per l’apoteosi.
Fra i più antichi obbietti del culto idolatra bisogna annoverare il sole, la luna e gli altri corpi celestri : in seguito l’aria, il fuoco, la terra e l’acqua, elementi tutti personificati dall’idea religiosa degli uomini, che vissero nei remoti tempi dell’antichità. Ben presto a questi si aggiunsero, nella generale superstizione dei popoli primitivi : il tuono, i venti, le comete, i pesci, i serpenti, e gli uccelli ; e fra i quadrupedi : il cane, il cavallo, il bue, il gatto, la scimia ecc : e finalmente la stravagante esaltazione si spinse fino ad adorare gli alberi e le piante, i metalli e le pietre, attribuendo a tutto ciò segreti e sovrumani poteri e una grande influenza sui destini degli uomini.
Ed ora, che seguendo il carattere particolare della nostra opera, noi abbiamo dato un’idea generale delle pagane divinità, ci faremo più partitamente a parlare di tutte le differenti e numerose denominazioni, particolarità ed attributi, che essi avevano nel culto degli idolatri.
{p. 99}Dei naturali. §
Sotto questa denominazione comprendevansi il sole, la luna, le stelle, le costellazioni, le comete e tutti gli esseri fisici.
Dei animati. §
Più comunemente detti Semi Dei : vale a dire quei mortali che per una qualche eroica azione durante la vita, venivano, per mezzo dell’apoteosi, annoverati fra gli dei.
Dei grandi. §
La mitologia greca e romana non riconosceva sotto questa denominazione se non che dodici numi, i cui nomi proprî, sono, secondo l’opinione di Eredoto, originarî dell’Egitto. Questi erano gli dei della prima classe, ovvero dei delle grandi nazioni, dii maiorum gentium, detti anche dii consentes o consulentes, cioè dei del consiglio.
Dei subalterni. §
Dii minorum gentium, ossia dei delle piccole nazioni. Il numero di questi era estesissimo e, al dire di Tito Livio, non v’era angolo di Roma che non fosse pieno di dei. Il numero di essi crebbe a dismisura dal superstizioso costume che i Romani avevano di abbracciare il culto religioso di quelle nazioni che essi rendevano soggette colla forza delle armi.
Dei pubblici. §
Si dava questo nome collettivo a quelle divinità, il culto delle quali era stabilito e riconosciuto dalla legge.
Dei particolari. §
Sotto questa denominazione andavan compresi i dei Lari o Penati, particolari protettori d’ognifamiglia. Anche le anime degli antichi, a cui ognuno rendeva un culto particolare, erano comprese in questa categoria.
Dei conosciuti. §
Secondo asserisce Varrone, erano annoverati in questa classe quei numi dei quali era noto il nome, le attribuzioni, e la storia.
Dei incogniti. §
I pagani annoveravano fra questi dei tutti quelli della cui origine non si sapeva nulla di certo, e ai quali non si offerivano sacrifizii, nè si ergevano altari. È però a notare che molti fra gli scrittori dell’antichità, fanno menzione di alcuni templi innalzati dagli Ateniesi agli dei incogniti. Questi altari sussistevano ancora ai tempi dell’apostolo S. Paolo.
Uomini Ateniesi, to vi veggo quasi troppo religiosi in ogni cosa. Perciocchè, passando, e considerando le vostre deità, ho trovato eziandio un altare, sopra il quale era scritto : All’Iddio sconosciuto.Diodati — Falli degli apostoli Capo XVII.
Dei del cielo. §
Sotto questa denominazione complessiva eran compresi : Saturno, Giove, Giunone, Cielo, Marte, Apollo, Diana, Vulcano e Bacco.
Dei della terra. §
Erano : Cibelle, vanerata come madre degli dei, Vesta, dea del fuoco, gli dei Lari o Penati, Priapo, come dio dei giardini, i Fauni, le Ninfe e le Muse.
Dei del mare. §
L’Oceano e Teti sua consorte ; Nettuno e Anfitrite ; Eolo, dio dei venti ; Nerea e le Nereidi, che erano 50 ; le Driadi, i Tritoni, le Napee e le Sirene.
Dei dell’inferno. §
Plutone, Cerere, Proserpina, gli dei Mani, Caronte, il navicellajo dello inferno, le Parche, il Destino, le Furie, le Arpie e finalmente i tre giudici delle anime, Eaco, Minosse e Radamanto.
Oltre a tutti questi nomi e classificazioni di divinità vi erano ancora altre denominazioni generali come dei Cabiri, dei Sopramondani, dei Materiali ed Immateriali, dei Semonii, dei Palici, dei Compitali, dei Eterei e Mondani.
1877. Deldamia. — Figlia di Licomede, re di Sciro.
Achille, rifugiatosi nella corte di quel principe ed innamoratosi di Deidamia, la rese madre di Pirro, il quale, divenuto adulto, ebbe una figlia a cui impose il nome di Deidamia, in memoria della madre.
Piangevisi entro l’arte, perchè mortaDeidamia ancor si duol d’Achille….Dante — Inferno Canto XXVI.
{p. 100}1378. Deifleazione. — Così si chiamava il culto divino che veniva reso pubblicamente a quegli uomini che avevano compiuta una qualche gloriosa e memoranda azione. È questa una delle principali sorgenti dell’idolatria dei pagani, e tanto che vi sono non pochi scrittori i quali asseriscono che i primi abitatori della Grecia, quelli la cui origine si perde nella notte dei tempi, non avessero altre divinità che uomini deificati.
Diodoro Siculo afferma che gli dei principali della mitologia greca e romana come Giove, Saturno, Apollo, Bacco ecc : non fossero che degli uomini celebri. In Omero e in Esiodo, poeti che entrambi han fatto la genealogia del maggior numero degli dei pagani, si trova ripetuta la stessa credenza, che cioè i numi altro non fossero che degli uomini.
La Deificazione non era propria esclusivamente al culto idolatra dei Greci e dei Romani ; ma la tradizione favolosa ci ripete che gli Egizii ed i Fenici, che sono i popoli riconosciuti come i più antichi del mondo, ne avessero dato il primo esempio.
È opinione di varii accreditati scrittori che la origine primitiva della idolatria fosse stato il dolore di un padre di famiglia a cui mori un figliuolo amatissimo in ancor tenera età. Il desolato genitore fa ritrarre la figura del morto figliuolo, e gli rende nel silenzio delle domestiche pareti gli onori e la venerazione dovuta solo alla divinità. Dal seno della famiglia codeste dolorose cerimonie passano nei costumi dell’intera tribù, cui quella famiglia apparteneva, poscia nella intera città, quindi in tutta la contrada, ed è in questo modo che di una divinità particolare ad una famiglia, si viene a formare una divinità riconosciuta ed adorata da tutti. Così e non altrimenti hanno avuto origine e principio quasi tutte le innumerevoli deità, che formarono per tanti anni il sostrato animatore del culto pagano ; poichè non bisogna credere che il popolo creasse da sè solo per mezzo della Deificazione tanto numero di numi, ma i re, i pontefici, e le città intere, contribuirono, con tutte le loro forze fisiche e morali, all’apoteosi di quegli illustri o cari defunti, che poi furono venerati come altrettanti esseri soprannaturali.
I primi ad essere deificati furono gli antichi re, e come prima di Urano e di Saturno, la profonda oscurità delle tenebre dei tempi, non ci permette di avere una cognizione solida e certa sopra altri uomini che avessero esercitato una certa sovranità sui loro contemporanei, così Urano e Saturno furono considerati come le più antiche divinità deI paganesimo.
Dopo la Deificazione dei re, la pubblica riconoscenza trovò per mezzo dell’apoteosi, il modo di eternare la memoria di quegli uomini che, o per l’invenzione di qualche arte necessaria alla vita, o per le vittorie riportate sopra i nemici, o per altra ragione, avessero meritata la pubblica riconoscenza. Poi furono deificati i fondatori delle città ; quelli che avevano scoperto qualche terra ignorata ; coloro che avevan stabilite delle colonie in lontane e remote contrade ; e finalmente tutti quelli che l’adulazione o il plagio dei cortigiani avessero innalzati all’onore dell’apotoesi ; e di questo numero furono quasi tutti gli imperatori romani, ai quali il senato comandava si rendessero dopo la morte gli onori divini.
Secondo che narra Erodiano nelle cronache, la cerimonia della Deificazione o apoteosi d’un defunto imperatore, era sempre preceduta da un decreto del senato, il quale imponeva che dopo la cerimonia gli venissero innalzati dei templi, offerti dei sacrifizii, e resi tutti gli onori della divinità.
Al dire del cennato scrittore, la cerimonia dell’apoteosi era un misto di dolore e di allegrezza, e veniva celebrata da tutta la città. Dopo che il corpo era stato sepolto con gran pompa, si metteva una figura di cera che ne somigliasse il volto su di un letto d’avorio nel vestibolo del palagio dei Cesari, ed il senato, in abito di corruccio si poneva alla sinistra di quel letto, mentre un gran numero delle più illustri e nobili dame, tutte vestite di bianco, e senz’alcuno ornamento, ne occupavano il lato destro.
Trascorsi sette giorni, i più nobili signori dell’aristocrazia romana portavano sulle loro spalle quel letto e lo deponevano nel centro dell’antica piazza del mercato, ove il novello imperatore recitava l’orazione funebre del suo predecessore.
Dopo di ciò tutto il corteggio prendeva la via del campo di Marte, ove un magnifico catafalco, coperto di un ricchissimo padiglione, tutto di materie accensibili e ornato di drappi d’oro, di ricche dipinture e di lavori d’avorio, era preparato onde ricevere l’effigie del defunto imperatore. Il letto sul quale riposava la statua veniva deposto sotto il padiglione e vi si gettavano intorno ogni sorta di aromi, di fiori, di erbe e di profumi, e ciò fatto il novello imperatore con una fiaccola appiccava il fuoco ai quattro angoli dell’edifizio, mentre si lanciava un’aquila, la quale, volando in mezzo alle flamme ed al fumo s’innalzava nell’aria, quasi che l’anima del morto volasse nel cielo fra gl’immortali suoi pari a ricevere il culto che da quel momento le era dovuto.
1379. Delfila. — Figlia di Adrasto, moglie di Tideo e madre di Diomede.
{p. 101}1380. Delfilo. — Figlio di Stenelo. Fu intimo amico del famoso Capaneo, e lo segui all’assedio di Tebe.
1381. Delfobea. — Sibilla figlia di Glauco e sacerdotessa di Diana. Ella servì di guida ad Enea, quando questi discese all’inferno.
Ed ecco all’apparir del primo soleMugghi ò la terra, si crollaro i monti,Si sgominar le selve, urlar le FurieAl venir de la dea. Via, via, profani,Gridò la profetessa : itene lungeDal bosco tutto ; e tu meco ten entraE la tua spada impugna. Or d’uopo, Enea.Fa d’animo e di cor costante e fermo ;Ciò disse, e da furor spinta, con lui,Ch’adeguava i suoi passi arditamente,Si mise dentro a le segrete cose.Virgilio. — Eneide — Libro VI Trad. di A. Caro.
1382. Deifobo. — Figlio di Priamo. Egli, dopo la morte di Paride, sposò Elena, ma dopo la presa di Troja, Elena lo dette in potere di Menelao, per riguadagnarsi le sue buone grazie.
Deifobo. di Priamo il gran figlio,Vide ancor qui, che crudelmente anciso.In disonesta e miserabil guisa,Avea le man, gli orecchi, il naso e’l volto.Lacerato, incischiato, e monco tutto.………………Fece la buona moglie ogni arme intantoSgombrar di casa, e la mia fida spadaMi sottrasse del capo. Indi la portaAperse, e Menelao dentro v’accolse,Cosi sperando un prezïoso donoFare al marito, e del suoi falli antichiRiportar venia….Virgilio — Eneide — Libro VI Trad. di A. Caro.
1383. Delfone. — Figlio di Trittolemo e di Meganira, o secondo altre opinioni, figlio d’Ippotoone. Cerere l’amò con passione, tanto che per renderlo immortale, e per purificarlo da ogni terrestre caducità, Io faceva passare a traverso il fuoco di ardenti fiamme. Un giorno Meganira, madre di Deifone, spaventata da un simile spettacolo, turbò coi suoi gridi i misteri della dea, la quale, montata in furore, si dileguò negli spazi dell’aria, sul suo carro tirato da due draghi e lasciò bruciare Deifone.
1384. Deilone. — Amico e compagno di Ercole ; egli Io seguì nella guerra contro le Amazzoni. Fece anche parte della spedizione degli Argonauti, i quali egli raggiunse nella città di Sinope.
1385. Delloco. — Figlio di Ercole e di Meganira.
1386. Delone. — Una delle mogli di Apollo, dalla quale egli ebbe Mileto.
Deione era anche il nome di un fratello di Circe, conosciuto più comunemente sotto il nome di Dedalione.
1387. Delopea. — Una delle più belle ninfe del seguito di Giunone, la quale la promise ad Eolo, a condizione ch’egli avesse distrutta la flotta di Enea.
….. Appo me sonoSette e sette leggiadre ninfe e belle ;E di tutte più bella e più leggiadraÈ Dejopea — Costei vogl’io, per mertoDi ciò, che sia tua sposa ; e che tu, secoDi nodo indossolubile congiunto.Viva lieto mai sempre, e ne divengaPadre di bella e di te degna prole.Virgilio — Eneide — Libro I Trad. di A. Caro.
1388. Delotaro. — Re di Galata : fu un principe estremamente superstizioso.
Cicerone dice ch’egli non intraprendeva la più piccola azione della sua vita, senza aver consultato gli Aruspici. Un giorno, avendo intrapreso un viaggio, mentre si trovava in cammino, vide volare innanzi a sè un’aquila e, credendo quello un avviso soprannaturale, ritornò d’onde era partito. La sera istessa, l’alloggio che gli era stato preparato sulla strada che doveva percorrere, crollò dalle fondamenta, ed egli se avesse seguitato il suo viaggio, sarebbe senza altro rimasto schiacciato dalle pietre.
1389. Deipiro. — Uno dei capitani greci che assediarono Troja.
1390. Deisa. — Vale a dire figlia di Cerere : soprannome dato a Proserpina, di cui quella dea era la madre.
1391. Dejanira. — Moglie di Ercole, il quale, secondo la Favola, per ottenerla combattè contro il fiume Acheolo. Domato il nemico, l’eroe condusse con sè la bellissima sposa, e giunti al fiume Eveneo, il centauro Nesso andò loro incontro, ed offri ad Ercole di far traghettare il flume alla giovanetta sul proprio dorso. Ercole senza sospettare di nulla, a cettò l’offerta gentile, ma vedendo che il centauro erasi dato a precipitosa fuga, per rapirgli la sposa, gli tiro una freccia che lo ferì mortalmente. Nesso, sentendosi vicino a morte, donò la sua camicia intrisa di sangue a Dejanira, dicendole esser quella un possente talismano per richiamare a sè il marito, tutte le volte ch’egli si fosse innamorato di altre donne. Morto Nesso, la credula Dejanira venne a sapere che Ercole era preso d’amore per la bella Jole, e penso di servirsi {p. 102}della magica stoffa, facendone un dono ad Ercole, persuasa così di ricondurlo ai suoi piedi.
Dopo vario pensar le cade in menteDella camicia ch’ebbe dal centauro.La cui virtù, per quel ch’ella ne sente,Può dare al morto amor, forza e restauro.Già molto prima ad una sua serventeL’avea fatta adornar di seta e d’auro.Il cui ricamo d’or, d’ostro e di seta,Lo sparso sangue all’occhio asconde e vieta.Pioché la donna dal centauro intese.Che il sangue al morto amor potea dar forza.Perchè non fosse schiva all’occhio, preseParer di dare al sangue un’altra scorza :E con vermigli fior tale il lin rese,Ch’ogni occhio a creder, che vi guarda, sforzaChe i vaghi e sparsi fior ch’ornan il panno,Non denno altrove star che dove stanno.Ovidio — Metamorfosi — Libro IX. trad. di Dell’Anguillara.
Appena Ercole si fu rivestito del fatale tessuto, si sentì come bruciare da un fuoco divoratore, e nel suo delirio, si gettò sui carboni accesi d’un sacrifizio, malgrado gli sforzi che Lica e Filotette, suoi amici, fecero per arrestarlo. Dejanira, che amava passionatamente il marito, si uccise per disperazione.
1392. Delfa. — Detta anche Delfisa : sibilla che era nel tempo stesso sacerdotessa del tempio di Delfo.
1393. Delfico. — Soprannome di Apollo, dal famoso tempio ch’egli aveva nella città di Delfo.
1394. Delfinie. — Feste in onore di Apollo.
1395. Delfinto. — Altro soprannome di Apollo.
Diana, gemella di questo dio, veniva anch’essa detta Delfinia.
1396. Delfino. — Moltiplici e diverse sono le opinioni degli scrittori dell’antichità, sulla origine dell’appropriazione del nome di Delfino a questa costellazione. Taluni pretendono che fosse così detta dal delfino di Arione ; — V. Arione — altri da quello che trattò il matrimonio di Nettuno con Anfitrite ; altri da uno di quei marinai che Bacco cangiò in delfini ; ed altri finalmente dal delfino che Apollo dette per condottiero ad una colonia di Cretesi, che andarono a stabilirsi nella Focide. Sotto questa allegoria della favola, altro non si deve scorgere senonchè un vascello che aveva sulla poppa scolpita la figura di un delfino.
1397. Delfo. — Città della Focide : celebre nella favola per il famoso oracolo di Apollo. Lo spazio in cui sorgeva quella città, era ritenuto, presso gli antichi, come il punto medio della superficie terrestre. La favola racconta, che Giove Altotonante, volendo che il punto medio della terra rimanesse contrasegnato, fece volare nell’istesso tempo dall’occidente e dall’oriente due aquile, le quali, dopo aver percorso un immenso spazio, si posarono nell’istesso istante nel luogo ove sorgeva la città di Delfo.
La tradizione favolosa, a proposito dell’oracolo di Delfo, racconta che un pastore, per nome Coreta, stando un giorno a guardia del suo gregge, nelle circonstanza del monte Parnaso, s’avvide che le sue capre, avvicinandosi ad una caverna, gittavano un forte grido e fuggivano, come colpite da terrore. Attratto dalla curiosità, si avvicinò egli stesso, e colpitto dai vapori che esalvano da quell’antro, si dette a predir l’avvenire, come invaso da profetico furore. Ben presto la fama di tanta maraviglia si sparse allo intorno, e attra se gran numero degli abitatori circonvicini, i quali, accostandosi, all’antro, sentirono anch’essi l’influenza dei misteriosi miasmi. Il luogo ove si apriva quell’antro, era in uno degli scondiscimenti del monte Parnaso ; e da quel tempo si dette opera a fabbricare la città ed il tempio si Delfo, che sorgevano appunto in quell’istesso luogo.
La Terra, secondo i poeti della favola, fu dunque la prima a possedere l’oracolo famoso : poscia Tomi, figliuola della Terra, lo ebbe in costodia fino ai tempi del diluvio di Deucalione, epoca in cui Apollo, essendo venuto sul Parnaso, rincinto della sua luce immortale, bello della sua eterna giovanezza, e con una lira d’oronella mano, da cui traeva dolcissimi e maravigliosi suoni, s’impadroni del santuario, uccise il drago che la Terra avea posto a custodia di quello, e si rese solo padrone del celebre oracolo, che da quel tempo fu detto l’oracolo d’Apollo.
Sotto questa allegoria della favola, altro non si deve oggi scorgere senonchè una delle tante astuzie dei sacerdoti, che facevano allora come han fatto in ogni età, osceno mercato della divinità, facendola servire ai loro privati interessi. Delfo era anche il nome di uno dei figli di Apollo che edificò quella città.
1398. Delia. — Soprannome di Diana, che le veniva dall’isola di Delo, ove essa, secondo la favola, ebbe i natali.
1399. Deliade. — Così avea nome il vascello sul quale erano imbarcati i Deliasti, quando si recavano all’isola di Delo. — V. Deliasti e Delo.
1400. Deliasti. — Nome collettivo dei deputati Ateniesi, che si recavano ogni anno a Delo.
1401. Delicoone. — Così ebbe nome uno dei figliuoli di Ercole.
1402. Delle. — Feste in onore di Apollo, soprannominato anch’egli Delo, perchè insieme a Diana, nacque in quell’isola — V. Delia.
{p. 103}Durante il periodo di queste feste, gli Ateniesi inviavano una deputazione nell’isola di Delo per offerire dei sagrifizi ad Apollo.
I membri di questa deputazione si chiamavano Deliasti — V. Deliasti — e il vascello sul quale essi erano imbarcati era detto Deliade o Teoro. Il capo della deputazione chiamavasi Arciteoro.
Le feste Delie furono istituite in onore di Apollo da Tesco, quand’egli ricondusse da Creta i giovanetti, che dovevano essere divorati dal Minotauro. — V. Minotauro.
1403. Delli. — Piccoli stagni o paludi presso le quali la tradizione favolosa narra che Taìia avesse dato alla luce i fratelli Palici. — V. Palici e Talia.
1404. Delo. — Isola del mare Egeo, una di quelle che componevano il gruppo delle Cicladi.
La cronaca mitologica narra, che quando Latona vi partori Apollo e Diana, quell’isola galleggiava sulle onde.
….. e si chiamò poi DeloTuo nome allor, che in le Latona sorseA partorir li due occhi del cielo.Callimaco — Inno a Delo. trad. di Dionici Stroc III.
I suoi abitatori pretendevano che Apollo, dopo aver passato sei mesi dell’anno sul monte Parnaso, ritornasse nella loro isola, e all’epoca in cui essi supponevano il ritorno del dio, celebravano in suo onore feste e cerimonie d’ognimaniera.
1405. Demenete. — Detto anche Demarco : abitante della città di Parrafia, nell’Arcadia. Avendo mangiato un pezzo di carne di una vittima umana, immolata a Giove, fu cangiato in lupo.
La tradizione mitologica ripete che dopo dieci anni, egli riacquistasse la sua primitiva forma di uomo, e che fosse vincitore ai giuochi olimpici.
1406. Demetera. — Detta più comunemente Demetra : soprannome che i Greci davano a Cerere.
1407. Democoonte. — Uno dei figli di Priamo, re di Troja, che fu ucciso da Ulisse.
….. e feri DemocoontePriamide bastardo, che d’AbidoCon veloci puledre era venuto.A costui fulminò l’irato UlisseNelle tempia la lancia, e trapassolleLa ferrea punta. Tenebrarsi i lumiAl trafitto che cadde fragoroso,E cupo gli tuonar l’armi sul petto.Omero. — Iliade — Lib. IV trad. di V. Monti
Democoonte fu pure il nome di un greco, figliuolo di Megara, il quale coi suoi fratelli fu ucciso da Ercole.
1408. Demodice. — Moglie di Creteo. — V. Creteo.
1409. Demodoco. — Celebre musico della corte di Alcinoo.
Demodoco, io te sopra ogni viventeSollevo, te, che la canora figliaDel sommo Giove, e Apollo stesso ispira.Omero — Odissia — Lib. VIII Trad. di I. Pindemonte.
1410. Demofila. — Così avea nome la settima delle dieci sibille, di cui fa menzione Varrone. Era nativa di Cuma, e da lei vennero i libri sibillini. Racconta la tradizione mitologica, che essa portasse un giorno a Tarquinio il vecchio, nove volumi, dimandandone il prezzo di 300 scudi d’oro. Il re, credendo ch’ella fosse colpita di pazzia, la scacciò con aspre maniere, e allora Demofila innanzi al re stesso gittò tre di quei volumi alle fiamme, pretendendo lo stesso prezzo per gli altri sei che rimanevano. Il reperò la respinse di nuovo, ed allora la sibilla bruciò altri tre dei suoi volumi, seguitando a pretendere sempre lo stesso prezzo per gli ultimi, e minacciando il re per la sua incredulità. Tarquinio allora colpito dalla perseveranza della sibilla, fece interrogare gli Auspici, i quali risposero che bisognava pagarle il prezzo che essa pretendeva per gli ultimi tre volumi, essendo in quelli rinchiuso il destino di Roma. Il cenno dei sacerdoti fu immediatamen teeseguito e i libri sibillini furono ritenuti come sacri, e dati in custodia ai più cospicui ed illustri personaggi del patriziato romano.
1411. Demofonte o. Demofoonte. — Figlio di Teseo e di Fedra. Dopo la spedizione di Troja, una tempesta lo gettò sulle coste della Tracia, ove fu accolto benignamente dà Licurgo, redi quella contrada, che gli fece sposare sua figlia Fillide. — V. Fillide.
1412. Demofuonte — V. Demofonte.
1413. Demogorgone. — Dalle parole greche Δάιμῶν, genio e εώργων, che presiede alla terra : si dava codesto nome alla divinità o genio della terra, il quale, secondo la tradizione favolosa, era un lurido vecchio, pallido e sfigurato, che insieme alla Eternità ed al Caos, dimorava nelle viscere della terra. L’allegoria mitologica narra che egli si fosse innalzato nell’aria su di una palla, e che facendo su quella il giro della terra avesse creato il cielo. In seguito prese del fango infiammato, lo lanciò negli spazii dell’aria, e formò così il sole onde illuminare il creato ; e che poscia, avendo {p. 104}uniti in matrimonio il Sole e la Terra, fossero da questo connubio nati il Tartaro e la Notte.
Questa teogonia altro non è se non il grossolano e favoloso involucro sotto del quale i primi abitatori del mondo antico racchiudevano il mistero della creazione.
1414. Demonio. — Secondo i Platonici o seguaci di Platone si dava questo nome, ad una categoria di esseri fantastici che popolavano l’immenso vuoto che esiste fra Dio e gli uomini. I demonii erano divisi in varie classi alle quali appartenevano secondo la loro potenza. Al dire di Menandro i pagani credevano fermamente che ogni uomo, nascendo, aveva a guida un demonio o genio tutelare, che gli serviva per tutta la vita. È questa una credenza perfettamente simile, e identica del tutto, come si vede, all’angelo custode della religione cristiana. Plutarco asserisce che i demonii prendevano amicizia cogli uomini ; li guidavano nel cammino della virtù ; vegliavano alla loro sicurezza ed erano loro di potente aiuto nei pericoli. Infine, secondo è credenza dei più dotti e accreditati filosofi dell’antichità, i demonii erano degli esseri non gia immaginarii, ma realmente esistenti, e rivestiti, di un corpo sottile ed impercettibile ai nostri sensi, e dei quali era abitato tutto l’universo, essendovene nell’aria, sulle montagne, sul mare, nei boschi e da per ogni dove.
I pagani non davano punto alla parola demonio la sinistra e malvagia interpretazione che oggi vi è collegata.
1415. Demonio di Socrate. — È oggidì cosa cognita a tutti gli studiosi. La forma credenza che il sommo filosofo aveva nella esistenza di un suo demonio o genio particolare, specie di spirito familgliare, i cui avvertimenti lo guidavano in tutte le sue azioni.
1416. Dendroforia. — Si dava codesto nome ad una cerimonia che si eseguiva nelle feste di Cibele e di Bacco e che consisteva nel portare in giro per la città un grosso albero, che poi veniva piantato di contro al tempio di quelle divinità ; dalle parole greche Δειδρὀν, albero, e φορω, io porto si dava il nome di Dendrofore al portatore dell’albero.
1417. Dendroforo. — Si dava anche codesto soprannome al dio Silvano, perchè era generale credenza degli antichi, ch’egli portasse sempre nelle mani un arboscello e propriamente un ramo di cipresso. La parola Dendroforo significa che porta un albero (V. l’articolo precedente).
1418. Dendrolibano. — Vale a dire albero del Libano. Da questo albero si facevano le corone per gli dei, ed era generale credenza presso i pagani non esservi offerta bene accetta ai celesti, se non accompagnata da questo prezioso presente.
1419. Derceto. — Detta anche Dirceto e Deraclite. Era una giovanetta la quale profonda, damente pentita di essersi data in braccio ad un suo amante, si precipitò in uno stagno, ove, non essendosi più ritrovato il suo corpo, fu creduto che fosse stata cangiata in pesce. Gli Assiri a doravano una divinità sotto la figura di una donna, che dalla cintura in giù aveva il corpo di pesce. Essi avevano per questa specie di mostri una grande venerazione.
La cronaca favolosa ripete, che il frutto degli amori della disgraziata Derceto, fosse una bambina, che fu poi la famosa Semiramide, regina di Babilonia, la quale annoverò sua madre fra le divinità, e le consacrò un tempio.
1420. Derelle ed Albione. — Figliuoli di Nettuno recordati, nella tradizione mitologica, per aver derubati ad Ercole, gli armenti che questi avea tolti al gigante Gerione.
1421. Despena. — Uno dei soprannomi di Proserpina.
1422. Destino. — Divinità allegorica, che si credeva nata dal Caos. Viene rappresentata avente sotto i piedi il globo terrestre, e nelle mani un’urna, nella quale sono rinchiuse le sorti degli uomini. I decreti di questa cieca divinità, regolatrice di tutte le cose, con un potere assoluto, erano irrevocabili. Giove stesso, il padre degli dei, era sottomesso alla volontà del destino.
Al dire di Ovidio, i destini degli dei erano scritti e depositati in un luogo particolare, mentre quelli dei re e degli eroi, venivano incisi sul diamante. I ministri di questa cieca deità, erano le tre Parche, e al dire di Esiodo, la Notte era la madre di questo spaventoso dio, che essa aveva generato sola.
1423. Deucalione. — Re di Tessaglia, figlio di Prometeo e marito di Pirra. Al tempo in cui egli viveva, un diluvio universale distrusse tutti gli abitanti della terra, volendo gli dei punir gli uomini delle loro colpe. Deucalione e Pirra, sua moglie, furono i soli esseri umani che per la loro virtù sopravvissero alla generale distruzione. Prosciugatesi le acque e ritornata la terra nel suo stato primitivo, i superstiti consultarono l’oracolo di Temi, e questi impose loro di gettare un certo numero di pietre dietro le loro spalle, e attendere ciò che ne sarebbe avvenuto. Essi si sottomisero strettamente alla volontà dell’oracolo, eseguirono il cenno e dalle pietre tirate da Deucalione nacquero altrettanti uomini gìà adulti e da quelle di Pirra altrettante donne.
Escon dal tempio, e si bendan la fronte,Indi ciascun di lor scinto e disciolto,Gli stessi sassi che produce il monte,Gitta alla parte ove non guarda il volto.{p. 105}I sassi sparti per piani e per colli,Secondo la fatal prefissa norma.Deposta la durezza e fatti molli.Cominciaro a sortire un’alfra forma,Già si scorgono e capi e braccia e colli,E d’uomini imperfetti una gran torma,Simili a’corpi ne’marmi scolpitiI quai sieno abbozzati e non finiti.L’umida, erbosa lor parte terrenaCangiossi in carne, in sangue, in barbe e ’n chiome :E quella, che ne’ sassi è detta vena.Tenne in quest’altra forma il proprio nome,Le parti di più nervo e di più lena,Diventar nervi ed ossa, e non so come,Prese ogni sasso qnel divino aspettoCh’à il senso esteriore e l’intelletto.E come dagli dei lor fu concesso,I sassi che dall’uom furo gittatiTutti sortir faccia virile e sesso :Fur tutti gli altri in donne trasformatì…Ovidio — Metamor. — Lib. I trad. dí Dell’ Anguillara
La favola fa menzione di altri moiti noti sotto il nome di Deucalione : fra questi il più rinomato fu un figliuolo di Minosse, re di Creta.
1424. Deverona. — Dea che presiedeva alla raccolta dei frutti : molti scrittori pretendono che sia la stessa che Deverra.
1425. Deverra. — Dalla parola latina deverrere, scopare, veniva così chiamata quella divinità, che presso il culto pagano dei romani, presiedeva alla nettezza delle case e alla nascita dei bambini. Appena nasceva un figlio si ripuliva tutta la casa in onore di questa divinità, onde renderla favorevole al neonato.
1426. Dediana. — Soprannome di Diana che le veniva dal senso compreso in questo vocabolo, poichè Diana, come dea della caccia, era soggetta a smarrirsi o a deviare, nell’inseguire le flere, dai conosciuti sentieri.
1427. Dia o Dea. — Appellazione con la quale i greci indicavano particolarmente Cerere.
1428. Diafie. — Feste celebrate in Atene in onore di Giove, onde scongiurare le sventure ed i mali di cui si poteva essere minacciati. Queste cerimonie si compivano fuori le porte della città e avevano in tutti i loro particolari, il carattere di una profonda e dolorosa tristezza.
1429. Dialeo-Flamine (Dialis-Flamen). Vale a dire sacerdote di Giove. Questo personaggio importantissimo nelle cerimonie religiose aveva delle grandi prerogative, alti privilegi ed estesissime facoltà, ed in pari tempo numerosi obblighi da compiere. Non poteva uscire se non in sedia curule e preceduto da un littore. Non poteva prestar mai giuramanto. Non poteva mai montare a cavallo, e tutto nel suo modo di vivere dovea risentire dell’austera semplicità dei primi tempi. In talune occasioni egli avea diritto di togliere i ceppi ai prigionieri e di condonare la pena ai condannati al supplizio delle verghe, tutte le volte ch’ei si trovava sul loro passaggio.
Del sacerdoti di Giove e delle cerimonie : e parole unite ad un editto del magistrato, per le quali dice, non esser costretti al giuramento nè le vergini di Vesta nè i sacerdoti di Giove.
Molte cerimonie sono imposte ai sacerdoti di Giove cerimonie molteplici ancora nei libri, che sono stati composti pei pubblici sacerdoti.
Leggiamo pure, nel primo scritto del libri di Fabio Pittore, nel quale spesso vi sono queste che ci ricordiamo : È religione del sacerdoti di Giove, badare che la pronta cavalleria vada a cavallo, fuori il pomerio : questo stesso è per l’esercito armato ; per la qual cosa di rado il sacerdote di Giove è creato console, imperocché è commessa al consoli la guerra ; parlmenti non è mal lecito giurare al Sacerdote di Giove ; ne è lecito servirsi dell’anello se non che aperto e vuoto. Non è permesso portar via dalla casa del sacerdote di Giove, il fuoco sacro ; è necessario sia disciolto dai legami io schiavo, ed introdotto nella casa loro per nasconderlo nel cortile, senza tetti, e poi mandarto fuori, nella via. Non ha alcun nodo nè all’apice, nè al cinto, nè in altra parte : se alcuno condotto a bastonare, supplice ai loro piedi s’inchini, quel giorno il bastonare è sagrilizio. Non è costume del Sacerdote di Giove ; nè nominare, nè toccare la capra, la carne cruda, l’edera e la fava.
Aulo Gelli
Notizie sull’Attica.
De flaminis Dialis deque flaminicæ cœrimonis : verbaque ex edicto præ’o. is opposita, quibus dicit non coacturum se ad lurandum neque virgines Vestæ neque Dialem.
Cœrimoniæ impositæ flamini Diali multæ, item castus multiplices, quos in libris, qui de sacerdotibus publicis compositi sunt, item in Fabli Pictoris librorum primo scriptos legimus, unde hæc ferme sunt, quæ commeminimus :
Equo Dialem flaminem vehi relígío est (et) classem procinclam extra pomerium, id est exercitum armatum, videre ; ideirco rarenter flamen Dialis creatus consul est, cum bella consulibus mandabantur : item jurare Dialem fas nunquam est : item anulo uli nisi peruio cassoque fas non est. Ignem è flaminia, id est flaminis Dialis domo, nisi sacrum efferri jus non est ; vinctum, si œdes ejus introjerit, solvi necessum est el vincula per impluvium in legulas subduci ulque inde foras in viam demitti. Nodum in apice neque in cinclu neque in alia parte ullum habel ; si quis ad verberandum ducatur, si ad pedes ejus supplex procubuerit, eo die verberari piaculini est, Capillum Dialis nisi qui liber homo est, non delonset. Capram et carnem incoclam et hederam et fabam neque langere Dialimos est neque nominare.Auli Gellii
Noctium Atticarum.
1430. Diamasticosa. — Festa dei Lacedomi da essi celebrata in onore di Diana. La principal cerimonia di questa festa consisteva nel condurre dei fanciulli innanzi all’altare della dea, ove venivano battuti con le verghe in così aspra maniera, che il maggior numero vi lasciavano la vita.
1431. Diana. — Dea della caccia, figlia di Giove e di Latona e gemella d’Apollo.
Non è già di Latona unico figlioApollo, e di Latona anch’ io mi sono.Callimaco — Inno a Diana Trad. di D. Strocchi,
Moltiplici sono le denominazioni che gli scrittori della Favola danno a Diana, secondo il luogo {p. 106}in cui dimorava. Si chiamava Ecate nell’inferno ; la Luna nel cielo ; Diana sopra la terra. Veniva comunemente venerata come dea della castità ; e questa virtù era in lei così tenace che cangiò Atteone in cervo per averla sorpresa colle sue ninfe nel bagno. V. Atteone. Il seguito di Diana si componeva di un numeroso corteo di ninfe e pretendeva che tutte serbassero la stessa sua castità.
Dammi, padre, dicea, ch’io serbi eterneVergini brame, e tai nomi, che orgoglioApollo sovra me non deggia averne.La gran faretra e il grande arco non voglio :A me, se fia, provvederà VulcanoPieghevol arco e faretrato spoglio ;Portar facelle da ciascuna mano.Cingermi corte, vergate gonnelle,E fiere vò non saettare invano.Voglio da l’Ocean sessanta ancellePronte a guidar le mie carole meco,Giovani tutte e fior di verginelle :Venti ne voglio da l’amnisio speco,Ch’abbian mïei veltri e miel coturni a cura.Se guerra a lince e a capriol non reco,Dammi tenere ogai silvestre altura ;D’una qual vuoi città fammi regina :Me vedran raro cittadine mura.Abitatrice di contrada alpinaM’inurberò ne l’ora che doglioseLe genitrici chiameran Lucina.Il carco fianco ad allegiar di sposeIo nacqui, poi che senza duol la madreDi me gravossi e senza duol mi spose.Callimaco — Inno a Diana Trad. di D. Strocchi.
La ninfa Calisto, che apparteneva al seguito di Diana fu scacciata ignominiosamente da questa dea per aver ceduto alle lascive brame di Giove.
La tradizione mitologica narra peraltro che Diana amasse perdutamente il pastore Endimione, bellissimo della persona, e che la notte lasciasse sovente la sua dimora celeste per visitarlo. Diana passava quasi tutti i suoi giorni alla caccia ed era sempre seguita da una muta di cani. I Satiri, le Driadi, e tutte le altre divinità secondarie, celebravano continue feste in suo onore.
I poeti rappresentavano Diana su di un carro tirato da due bisce ; armata di un arco, e di un turcasso pieno di frecce. La biscia era l’animale a lei consagrato. Il famoso tempio di Efeso tutto sfolgorante d’oro e che era ritenuto come una delle sette meraviglie del mondo, e come il più superbo monumento di simil genere, che fosse conosciuto in quei tempi, era destinato esclusivamente al suo culto.
1432. Diania-turba. — Ossia turba, drappello e anche muta di Diana. Con questo nome venivano designati i cani addestrati alla caccia : ritenendosi pubblicamente che fossero sotto la particolar protezione di Diana cacciatrice, questi animali erano riguardati come sacri.
1433. Diasie. — Feste in onore di Giove propizio, durante le quali si faceva dagli abitanti una famosa fiera a cui non mancava alcuna specie di mercanzia. Gli Ateniesi vi si distinguevano pel gran numero dei sacrifizii ed offerte agli dei, e più ancora per la delicatezza delle cortesie che essi scambiavano fra loro in questa occasione.
1434. Diattoro. — Dalle parole greche ντορος, spedito, e dal verbo Διαγὡ, io spedisco ; si dava codesto soprannome a Mercurio, volendo ricordare le sue priucipali funzioni, d’essere, cioè, il messaggiero di Giove e degli dei.
1435. Dictea. — Conosciuta più comunemente sotto il nome di Dica, fu una delle figlie di Giove e di Temi. Essa presiedeva alla giustizia, dalla parola Διϰς che significa appunto giustizia punitrice.
1436. Dictea-corona. — Cosi gli antichi chiamavano la costellazione di Arianna che Teseo avea seco condotta dalla isola di Creta, ove sorgeva una montagna per nome Dictea
1437. Dictee-ninfe. — Ninfe dell’isola di Creta. Forse venivano così dette perchè abitualmente dimoravano sulla montagna, di cui nell’articolo precedente.
1438. Dicteo. — Soprannome dato a Giove perchè comunemonte si credeva allevato sulla stessa montagna dell’isola di Creta.
1439. Dictinnia. — Ninfa dell’isola di Creta, alla quale gli antichi attribuivano l’invenzione delle reti per uccellare. Taluni scrittori pretendono che sia la stessa che Britomarte ; è questa per altro un’opinione assai incerta.
Dictinnia era anche uno dei soprannomi di Diana.
1440. Dictisio. — Così avea nome uno dei centauri : egli fu ucciso da Piritoo.
1441. Didima. — Secondo l’opinione di Pindaro, era questo uno dei soprannomi dato a Diana, per essere gemella di Apollo.
Didima avea anche nome un’isola del gruppo delle Cicladi, ove Apollo avea un famoso oracolo, conosciuto nella favola sotto il nome di oracolo di Didimo.
1442. Didimeone. — Rione della città di Mileto, in cui Apollo avea un oracolo ed un tempio famoso.
1443. Didimo. — Soprannome particolare di Apollo che secondo alcuni scrittori veniva a lui dato dall’isola di Didima — V. Didima — ; e secondo altri perchè questo Dio era ritenuto come autore del giorno e della luna.
1444. Didone. — Figlia di Belo, re di Tiro, detta dapprima Elisa e conosciuta con {p. 107}l’appellazione di Dido : fu moglie di Sicheo, che ella amò teneramente.
Pigmalione, fratello di Didone, accecato dalla passione dell’oro uccise il cognato per impadronirsi dei suoi immensi tesori.
« … …il qual Licheo era molto ricchissimo ed avea grandissimi tesori, de’quali tesori poichè notizia e fama ne venne agli orecchi di Pigmalione, incominciò ad averne gran fame ; e sotto specie di venire a visitare la sirocchia e’l cognato, come ladro e traditore e parricida entrò nel regno dì Tiro… . »
G. da Pisa — I fatti d’Eneo.
Avendo fatto sparger la voce che Sicheo fosse stato ucciso dai ladroni, restò per qualche tempo impunito il suo delitto ; ma l’ombra dell’ucciso priva degli onori della sepultura, apparve pallida e sfigurata a Didone, le mostrò il luogo ove era stato trucidato ; le rivelò il nome dell’assassino ; e dopo di averle additato ove erano nascosti i suoi tesori, le consigliò di fuggire e sparì. Didone calmato il do’ore che le avea posto nell’al’animo la tremenda rivelazione, si dette silenziosamente ai preparativi della fuga, ed un giorno impadronitasi delle navi che stavano nel porto, e accompagnata da gran numero di seguaci, e dalla sua più giovane sorella, a nome Anna, parti coi tesori del trucidato consorte. Una tempesta spinse la flottiglia di Didone sulle coste dell’Africa ed ella approdò nella regione detta Mauritania o Taugitana, governata da Iarba, re dei Getuli. Dapprincipio egli si oppose a che Didone coi suoi seguaci si stabilissero sulle terre soggette al suo comando, ma l’astuta principessa gli richiese di venderle tanto terreno quanto bastasse a stendervi in circuito la pelle di un bue. Avendo Iarba acconsentito, Didone fece tagliare in lunghe e sottili striscie una di dette pelli, le quali disegnarono sul terreno uno spazio abbastanza grande, nel quale Didone cominciò ad edificare la citià di Cartagine. Iarba intanto soggiogato dalla bellezza di lei, la chiese in isposa ; ma essa respinse l’offerta in memoria dell’ucciso consorte, e vedendo che Iarba, offeso dalla inattesa ripulsa, marciava contro la nascente Cartagine per distruggerla, amò meglio darsi la morte che violare il suo giuramento di fedeltá. Ella si ucsise con un pugnale, e ciò le valse il nome di Didone, che vuol dire donna risoluta. Il Metastasio per l’effetto scenico del suo celebre melodramma, Didone abbandonata, fa che ella morisse precipitandosi nelle fiamme che ardevano la sua reggia, disperata di vedersi abbandonata da Enea, ch’ essa amava perdutamente.
No, no, si mora ; e l’infedete EneaAbbia nel mio destinoUn augurio funesto al suo cammino.Precipiti Cartago,Arda la reggira, e siaIl cenere di lei la tomba mia.Metastasio. — Didon e abband. Atto III — Scena ultima.
Dopo la sua morte Didone fu onorata in Cartagine come una dea e riconosciuta come la fondatrice dello impero cartaginese.
L’episodio che racconta Virgilio nell’Eneide, è una mera invenzione poetica. Enea visse più di 300 anni prima della fondazione di Cartagine, secondo la cronologia della favola ; e Virgilio ha dipinto l’ardente passione di Didone per l’eroe trojano, per innestarvi le famose ragioni che persì lungo tempo fecero ardere la face della discordia fra Roma e Cartagine.
L’Alighieri, giovandosi dell’ invenzione di Virgilio, mette Didone nell’Inferno per punirla d’avere, per amore di Enea, mancato di fede alla ombra di Sicheo.
…… colei che s’ancise amorosa.E ruppe fede al conet di Sicheo.Dante. — Inferno — Cant. V.
1445. Diespitero. — Vale a dire padre del giorno ; soprannome dato a Giove dalle voci latine dies piter.
1446. Difie. — Era questo il soprannome. che comunemente i pagani davano a Cecrope, forse per alludere alla tradizione favolosa che lo faceva metà uomo e metà serpente.
La parola Difie in greco significa : composto di due nature.
1447. Difolle. — E più comunemente Dipolie. Si dava codesto nome ad una specie di cerimonia religiosa che gli Ateniesi celebravano in onore di Giove Polieno, riguardandolo come il nume tutolare della propria città.
1448. Diluvio di Ogige e di Deucalione.
V.Ogige e Deucalione.
1449. Dimantisa. — Detta anche Dimantìa. Soprannome di Ecuba, moglie di Priamo, re di Troja. Veniva detta così dal nome di suo padre Dimaso.
1450. Dimaso. — V. l’articolo precedente.
1451. Dimenticanza. — V. Lete.
1452. Dimone. — Così avea nome uno dei quattro dei Lari o Penati.
1453. Dindima. — Al dire di Diodoro era questo il nome della madre di Cibele : essa fu moglie di Meone, re della Lidia.
1454. Dio — I poeti dell’antichità ed i {p. 108}cronisti della favola, distribuiscono la divinità fra tutti gli esseri animati ed inanimati ; possibili ed impossibili ; reali ed immaginarii. Essi fanno delle loro deità dei mostri, dànno loro moltiplici, varie e strane figure ; ne hanno di quadrati, di ovali, di triangolari ; ne hanno di zoppi e di ciechi. Parlano degli amori di Anubi con la Luna ; fanno che Diana venisse sferzata ; che a Giunone fossero, appesi ai piedi due incudi d’oro ; fanno che gli uomini bastonassero e ferissero gli dei, e che questi dovesseso fuggire ora in questa ora in quella contrada della terra, sotto forma di quadrupedi, di volatili, di rettili ecc. Apollo, cacciato dal cielo, è obbligato a guardare le pecore ; Esculapio, ridotto a fare il muratore, è defraudato della mercede promessagli ; il primo è musico, il secondo è manovale ; infine presso i pagani, l’idea della divinità è collegata a configurazione ed immagini così basse ed abbiette e spesso così turpi ed infami, che può ben dirsi tutto l’olimpo pagano altro non essere stato che una vilissima ciurmeria di saltibanchi, più, al certo, che non fosse l’idea informatrice di un culto, rivelatore della divina maestà di una religione.
1455. Diocleide. — Più comunemonte Dioclie. Si dava codesto nome ad una festa che si celebrava nell’ Attica, in onore di Dioclie, uno degli eroi della Grecia a cui dopo la morte furono resi gli onori divini.
1456. Dicclesìo. — Eroe venerato come un dio dai Megaresi, i quali in suo onore celebravano dei giuochi detti Dioclesi.
1457. Diomeda. — Così si chiamava la schiava che prese presso ad Achille il posto di Briseide — V. Briseide, quando Agamennone tolse per sè quest’ultima.
1458. Diomede. — Re d’ Etiolia : fu figliuolo di Tideo e ritenuto, dopo Achille ed Aiace, il più valoroso fra i Greci.
Lampi gli uscian da l’elmo e dallo scudoD’inestinguibil flamma, a tremolioSimigliante del vivo astro d’autunno,Che lavato nel mar splende più bello,Tal mandava dal capo e dalle spalleDivin foco l’eroe.Omero. — Iliade — Libro V. — Trad. di V. Monti.
All’assedio di Troja egli si copri di gloria, avendo in un incontro ferito Marte e Venere. Dopo la caduta di Troja, ritornato in patria, ebbe tanto orrore degli eccessi lussuriosi di sua moglie Egialea, che abbandonò il governo dell’Etiolia, e venne a stabilirsi in Italia. Si dice che egli vi fosse ucciso da Enea e che i suoi seguaci ne furono così addolorati, che gli dei compassionevoli li cangiarono in uccelli. Diomede fu quello che rapì dall’isola di Lenno le frecce di Ercole ; e fu colui che insieme ad Ulisse penetrò nella città di Troja, e ne tolse il Palladio che era la più grande sicurezza dei Trojani, uccidendo una gran quantità di nemici.
Ma di qual parte fosse DiomedeSe Troiano od Acheo mal tu saprestiDiscernere, si fervido ei trascorreIl campo tutto : simile alla fieraDi tumido torrente che cresciutoDalle pioggie di Giove, ed improvvisaPrecipitando, i saldi ponti abbatte,Debil freno alle fiere onde, ed i verdiCampi, i ripari rovesciando, ingoiaCon fragor le speranze e le faticheDel gagliardi coloni ; a questa guisaSgominava il Tidide e dissipavaLe caterve de’Teucri, che sostenerneNon potean, benchè molti, la ruina.Omero — Iliade — Libro V.trad. di V. Monti.
La favola ricorla di un altro Diomede, re della Tracia, e figliuolo di Marte e di Cirene. Secondo la tradizione mitologica, egli possedeva dei cavalli furiosi, i quali mandavano flamme dalle nari ; e che egli nutriva di carne umana. Ercole per comando di Euristeo, lo uccise facendolo divorare dai suoi stessi cavalli.
1459. Dione. — Ninfa, figlia dell’ Oceano e di Teti, ella fu ne ! numero delle concubine di Giove, il quale la rese madre di Venere ; ed è questa la ragione per la quale si dà talvolta a questa dea, il soprannome di Dionea. Anche Giu lio Cesare, come discendente di Venere, veniva detto Dioneo.
1460. Dionea. — La dea Venere che fu moglie di Vulcano è quella a cui si da propriamente questo soprannome. Essa fu perduttamente amata da Marte, che le rese madre di una figlia, di cui nell’articolo precedente.
1461. Dionislache. — V. Dionisie.
1462. Dionisie o Dionisiache. — Specie di baccanali, celebrati in onore di Bacco. Erano uno strano e turpe miscuglio di devozione e di oscenità.
1463. Dionisio. — Detto anche Dioniso : con questo nome veniva indicato il dio Bacco, dalla città di Nisa, ove era stato allevato, e dove aveva un tempio superbo, esclusivamente dedicato agli osceni misteri del suo culto.
Dioniso è pure il nome di uno dei tre dei Anaci, o Dioscuri figliuoli di Giove.
La tradizione mitologica ricorda di un altro Dioniso, che fu tiranno di Siracusa, il quale si rese celebre per le sue crudeltà, e per la nessuna reverenza che egli ebbe verso gli dei. Egli demoli il tempio di Proserpina a Locri ; tolse nel tempio di Giove Olimpio un mantello d’oro, che {p. 109}copriva una statua di questo dio, e nel tempi di Esculapio, in Epidauro, tolse ad un simulacro di questo la barba d’oro che aveva ; e si rese padrone di tutti gli arredi sacri, dicendo che volea profittare della bontà degli dei ; e fece vendere su i pubblici mercati a suo profitto le spoglie di che si rendeva padrone con sacrilega violenza. Ciò non ostante gli dei non fulminarono quest’empio, il quale, anzi, secondo narra la cronaca, morì placidamente in assai tarda età.
1464. Diopete. — Nome col quale gli antichi indicavano gli strumenti musicali di Giove, di Diana, di Apollo, e di altre divinità che si credeva abitassero sovente sopra la terra.
1465. Dioscuri. — Castore e Polluce venivano designati con questo nome. Gli antichi veneravano diverse altre divinità a cui davano questo nome, e che si credeva proteggessero in modo particolare i navigatori.
1466. Diaspoli. — Ovvero città di Giove nell’ Etiopia. Quel Dio aveva in questa ciltà un tempio grande e ricchissimo, ove in una data stagione dell’anno, si celebrava dagli abitanti una festa ìn onore di lui che durava dodici giorni, e nella quale portavano in processione la statua di Giove in tutti i villaggi circonvicini.
1467. Diplero. — Si dava questo nome alla pelle della capra Amattea. Secondo la tradizione della favola, Giove aveva scritto su quella il destino degli uomini.
1468. Diradiato. — Soprannome che si dava in Argo ad Apollo, a causa di un tempio che egli avea sopra altissimi dirupi. La cronaca mitologica attribuisce la fondazione di quell’edifizio all’avo materno di Teseo, per nome Pitteo, nativo della città di Trezeno.
1469. Dirce. — Fu moglie di Lico, re di Tebe. Ella trattò con assai aspra maniera per lungo tempo Anflone ed Antiope, che poi fu madre di Zeto ; ma poi caduta in loro potere, essi la legarono alla coda di un toro furioso, sicchè Dirce morì tra le più atroci torture. Al dire della cronaca Bacco vendicò la morte di lei, facendo perdere il senno ad Anfione, dopo di che cangio Dirce in fontana.
1470. Dircea. — Cosi avea nome una giovanetta, che Minerva cangiò in pesce, avendo osato vantarsi d’essere più bella di lei. Non bisogna punto confonderla con la Dirce, di cui nell’articolo precedente.
1471. Dirceo. — Soprannome di Anfione, preso dal fonte nella Beozia, conosciuto sotto il nome di fontana Dircea quella stessa in che Bacce transformerà Dirce. V. Dirce.
1472. Dirceto. — V. Derceto.
1473. Diree. — Figlie della notte e del fiume Acheronte. Erano, secondo la tradizione favolosa, in numero di tre, ed avevano lo speciale incarico di tormentare coi rimorsi le anime dei dannati. Esse avevano diverse denominazioni. Si chiamavano Furie, Eumenidi o Erinni sulla terra ; Diree nel cielo, e Cagne della Stige, nell’inferno.
De le tre Diree Furie……..Cui son l’ire, i dannaggi, i tradimenti,Le guerre, le discordie, le ruine,Ogni empio officio, ogni mal’opra a core.Virgilio — Eneide — libro VII trad. di A. Caro
1474. Dirfia. — Soprannome di Giunone, che le veniva dal culto a lei reso sul monte Dirfio, nell’isola Eubea.
1475. Disarea o Disari. — Divinità degli Arabi. Si crede comunemente che fosse la stessa che Bacco o il Sole.
1476. Disari. — V. Disareo.
1477. Discordia — Divinità malefica, a cui venivano attribuite le guerre fra le nazioni ; le dissenzioni fra le famiglie ; le contese e le querele d’ogni natura. Essa fu scacciata dal celo da Giove, perchè metteva la disunione fra gli altri dei.
Allorquando Peleo sposò Teti, la sola dea non invitata il banchetto di
nozze fu la Discordia, la quale per vendicarsi, gettò sulla mensa un
pomo d’oro, su cui erano scritte queste semplici parole :
« Alla più bella »
. Minerva, venere e
Giunone si disputarono il pomo, finchè Paride per ordine di Giove,
assuntosi il carico del giudizio, pose termine alla querela in favore di
Venere, ciò che fu causa d’infinite sventure.
La Discordia si dipinge con capigliatura di serpi, con volto livido, con occhi impietriti, e vesti insanguinate ; avendo nella mano destra una torcia accesa, e nella sinistra un pugnale.
L’empia discordia che di serpi ha ’l crine,E di sangue mai sempre il volto intriso.Virgilio — Eneide Lib. VI. trad. di A. Caro.
1478. Dite. — Era uno dei soprannomi di Plutone, al quale si dava perchè era ritenuto come il dio delle ricchezze ; in greco la parola Dite significa ricco. Per Dite s’intendeva pure talvolta il Sole, come la sorgente di tutte le ricchezze. Gli antichi abitatori della Gallia, davano il soprannome di Dite alla terra, come madre feconda di tutti i beni e si credevano discendenti da essa.
1479. Ditirambo. — Uno dei soprannomi di Bacco. Da principio si dava più particolarmente codesta denominazione ad una specie di inno {p. 110}osceno, che si cantava nei misteri di quel dio. Presso i moderni il Ditirambo, è un componimento in versi, appartenente alla categoria degli scritti berneschi.
1480. Ditteo. Nell’isola di Creta, vi era un antro chiamato Dite, ove la tradizione favolosa dice che Rea avesse partorito Giove : da ciò si dava il soprannome di Ditteo al padre degli dei.
1481. Dittina. — Ninfa dell’isola di Creta, che assai di sovente viene confusa con Diana. La tradizione mitologica racconta di lei, che la sua non comune bellezza avesse ispirata a Minosse, re dell’isola, una violenta passione ; per mode che, avendo un giorno sorpresa la ninfa, volle farle violenza, ma essa, dall’alto di una rupe si precipito nel mare, ove cadde in una rete. La parola Dittina viene dal greco Δἱϰνυνγ che significa rete. Da ciò forse i pagani attribuivano alla ninfa Dittina, l’invenzione delle reti da caccia.
1482. Dius-Fidio. — Antica divinità dei Sabini, il culto della quale passò a Roma poco tempo dopo la pace che seguì il famoso ratto delle Sabine. Questo nume era ritenuto come il dio della buona fede, ed è perciò che presso gli antichi era così frequente l’uso di prestar giuramento per questa divinità. Taluni scrittori dissero che Fidio fosse uno dei figli di Giove : altri lo hanno di sovente confuso con Ercole.
1483. Divall. — In onore della dea Angeronia, si celebravano in Grecia delle feste religiose, a cui si dava questo nome. Esse furono stabilite in occasione di una pericolosa squinanzia che attaccò gli uomini e gli animali, e dalla quale si credeva che la dea Angeronia avesse liberato i Greci.
1484. Divinazione. — Arte di predir l’avvenire. Faceva parte delle credenze religiose dei pagani. Essa si esercitava dagli astrologhi, dagli auguri, e da tutte quelle persone che venivano designate sotto i nomi d’indovini o di maghi. Le donne che esercitavano la divinazione, venivano chiamate pitonesse, sibille, maghe ec.
La Divinazione si praticava in cento maniere diverse, ma fra queste le più notevoli erano quattro specie, nelle quali s’impiegava alcuno dei quattro principali elementi.
Quella in cui si adoperava l’acqua, veniva detta Idromanzia ; quella in cui si adoperava il fuoco si chiamava Piromanzia ; quella che si faceva con la terra chiamavasi Geromanzia ; e quella che si faceva per mezzo dell’aria, Aeromanzia.
Oltre a queste principali denominazioni, vi erano molte altre divinazioni secondarie, chiamate, Negromanzia, Astrologia, Dolomanzia, Chiromanzia, Litomanzia, Alfitomanzia, Daltilomanzia, Arithnomanzia, Caprotomanzia ec.
1485. Divinità. — V. Deificazione e dei.
1486. Divipoti. — Dei che i Samotraci chiamavano Theedinates, vale a dire divinità possenti. Ve ne erano due il Cielo e la Terra, o altrimenti l’ Anima e il Corpo. Gran numero trà i mitologi e cronisti della favola, vogliono che i Divipoti altro non fossero che gli dei Cabiri, V. Cabiri.
1487. Dodona. — Città dell’ Epiro, presso la quale era una foresta consacrata a Giove, i cui alberi di quercia rendevano gli oracoli divini. La tradizione mitologica, attribuisce al fatto seguente l’origine dell’oracolo di Dodona.
Giove aveva fatto dono ad una delle sue figliuole per nome Teba, di due meravigliose colombe, le quali avevano sorprendente prorogativa di parlare. Un giorno le due colombe volarono una in Egitto, e propriamente nella Libia, ove poi fu il famoso oracolo di Giove Ammone ; l’altra fermò il suo volo in Epiro, nella selva di Dodona, ove disse agli abitatori del paese, che era volontà di Giove, che in quel luogo sorgesse un oracolo.
Erodoto nelle sue opere spiega codesta favola, dicendo che alcuni mercanti Fenici avessero rapito due sacerdotesse della città di Tebe ; e che avendo venduta una di esse nella Grecia questa avesse stabilito la sua dimora nella selva di Dodona, ove fece costruire a piè d’una quercia un’ara in onore di Giove, di cui ella era stata in Tebe sacerdotessa ; da ciò ebbe origine l’oracolo di Dodona, che poi fu famoso per tutta la Grecia.
Quanto ella favola delle colombe, essa avviene dalla parola Greca Πελεια, che significa colomba.
1488. Dodonee. — V. Dodonidi.
1489. Dodonidi o Dodonee. — Ninfe nudrici di Bacco ; quasi tutti gli scrittori si accordano nell’opinione che fossero le stesse che le Atlantidi.
1490. Dolichenio. — V. Dolicheo.
1491. Dolicheo o Dolichenio. — Sopranome di Giove, a lui venuto dal culto che gli si rendeva nella città di Dolichene.
1492. Dolone. — Trojano, celebre per la rapidità con la quale correva. Nella speranza di avere in premio i cavalli di Achille, egli accettò di essere spia trojana nel campo dei Greci ; ma sorpreso da Diomede e da Ulisse fu ucciso ; egli era figliuolo dell’araldo Eumede.
1493. Dolope. — Popolo della Tessaglia. All’assedio di Troja tutti coloro che appartenevano a questo popolo erano comandati da Pirro.
1494. Dolore. — I pagani ne avevano fatto una divinità, e lo scrittore Igino lo fa essere figliuolo della Terra e dell’Aria.
1495. Domicio. — V. Domizio.
1496. Domiduca. — Divinità che {p. 111}s’invocava al momento di condurre la novella sposa nella casa del marito. Si dava questo soprannome a Giunone, come protettrice delle spose.
1497. Domizio o Domicie. — Dio che i pagani invocavano nella celebrazione degli sponsali, perchè la sposa avesse preso cura del tetto maritale.
1498. Dorcre. — Al dire di Cicerone era questo il nome di un figliuolo dell’ Erebo e della Notte.
1499. Dorea o Dori. — Detta anche Dorisia, figlia dell’ Oceano e di Teti. Essa sposò suo fratello Nereo, da cui ebbe cinquanta figlie, che dal nome del padre furono dette le cinquan-Nereidi. I poeti si sono sovente serviti del nome Dori, proprio di una particolare divinità marittima, per indicare il mare istesso. Virgilio à detto : Doris amara.
Dori fu anche il nome di una delle Nereidi, così detta da sua madre.
1500. Dori. — V. Dorea.
1501. Dorielio. — Figlio naturale del re Priamo : Ajace lo uccise all’assedio di Troja.
Vi fu anche un altro Doriclio, figlio di Fineo, o re della Tracia.
1502. Doro. — Una delle cinquanta Nereidi.
1503. Doto. — Ninfa del mare : fu un’ altra delle Nereidi.
1504. Draconigena, Citta. — Vale a dire città surta dai denti di un drago. Si dava questa denominazione alla città di Tebe. V. Cadno.
1505. Draghi. — Questi animali erano consacrati a Minerva, forse per dinotare che la vera saggezza non si addormenta mai. Anche a Bacco erano consacrati i draghi, per dinotare che uno degli attributi dell’ubbriachezza è il furore. La parola drago viene dal greco Δρἁϰου che significa perspicace, vigilante.
Quei famosi draghi dai quali la favola fa custodire il giardino delle Esperidi, il vello d’oro, l’antro di Delfo, ecc. altro non furono che quei grossi e fedeli cani, ovvero degli uomini posti a guardia di quei luoghi o cose privilegiate.
Drago di Anchise. §
Narra la tradizione mitologica, che mentre Enea rendeva i funebri onori al corpo del padre Anchise, uscisse dal sepolcro un enorme drago, il cui dorso era coperto di squame gialle e verdi, e che dopo aver fatto il giro degli altari, assaggiò di tutte le vivande preparate pel sacrifizio, e poi rientrò nel fondo del sepolcro senza far male ad alcuno. Virgilio dice che Enea credè che quel drago altro non fosse che il genio tutelare dell’anima del defunto.
Drago d’Aulide. §
Un giorno mentre la flotta dei Greci era ancorata nel porto di Aulide, ed i guerrieri offrivano un sacrifizio agli dei, all’ombra di un gran platano, che sorgeva a qualche distanza dalla riva, uscì di sotto l’altare preparato pel sacrifizio, un orribile drago, che strisciando sull’albero divoro otto passere che con la loro madre vi annidavano ; e dopo d’averle divorate fu immantinente cangiato in pietra. I guerrieri greci, spaventati dal prodigio, ricorsero all’indovino Calcante per averne la spiegazione, ma questi, traendo dall’accaduto un favorevole augurio, disse che le otto passere e la loro madre divorate dal drago, altro non indicavano se non che il numero degli anni che i greci avrebbero impiegato per abbattere la potenza troiana, e che nel decimo anno le armi greche avrebbero avuto il coronamento del trionfo.
Draghi di Cadmo. §
V. Cadmo.
Drago di Delfo. §
Secondo narra la favola l’istesso drago che custodiva l’antro in cui Temi prediceva il futuro, era quello che pronunziava gli oracoli, Apollo lo uccise a colpi di frecce, quando si rese padrone di quell’antro, ove poi surse il famoso oracolo di Delfo. V. Delfo.
Draghi dell’ Inferno. §
V.Cerbero.
Draghi Cerere. §
Il carro di questa dea era tirato da due draghi, a cui la tradizione mitologica attribuisce una celerità prodigiosa, forse per alludere all’ansia con la quale essa cercò per tutta la terra la figliuola Proserpina, rapita da Plutone.
Draghi di Medea. §
La cronaca mitologica racconta che Medea, furibonda per l’abbandono di Giasone, fosse corsa sulle sue tracce, montata su di un carro tirato da due di questi mostruosi animali, che vomitavano flamme.
1506. Dranceo. — Uno dei grandi della corte del re latino, felice e bel parlatore, ma uomo sleale e vigliacco. Fu uno dei più accaniti nemici del re Turno.
1507. Dria. — Fu figlio di Fauno. La {p. 112}Tradizione mitologica racconta che essa era di una così severa castità, che fuggiva perfino la vista degli uomini. Anche nelle cerimonie del suo culto era espressamente proibito agli uomini d’intervenirvi.
1508. Driadi. — Ninfe che presiedevano ai boschi ed alle foreste, nelle quali dimoravano notte e giorno. Presso i pagani si credeva, che non si potesse entrare in un hosco o in una selva senza prima far delle offerte alle Driadi tutelari.
1509. Driantiade. — Licurgo, re della Tracia, figlio di Driaso, veniva così designato dal nome del padre ; i discendenti di Licurgo furono detti per la stessa ragione Driantiadi.
1510. Driaso. — Oltre al padre di Licurgo. di cui qui sopra. V. Driantiade, così avea nome uno dei principi che vennero in soccorso di Eteocle contro Polinice : Diana lo uccise.
1511. Drimaco. — Brigante che alla testa di un numeroso drappello di schiavi fuggitivi, depredava l’isola di Scio. Gli abitanti misero a prezzo la sua testa, e la cronaca racconta che egli stesso, stanco della sua vita di delitto, persuase il più povero dei suoi seguaci a consegnarlo alla giustizia, onde ottenere la somma promessa. Alcuni mitologi vogliono che gli abitanti di Scio, dopo la morte di Drimaco, lo avessero adorato come un dio. È questa però una opinione poco generalizzata.
1512. Drimo. — Una delle cinquanta Nereidi.
1513. Driope. — Ninfa d’Arcadia, amata da Mercurio. Un giorno, mentre essa teneva sulle ginocchia un bambino suo figlio, svelse un ramo di edera da una pianta vicina, per divertire l’infante. Bacco, a cui quella pianta era consacrata, irritato contro Driope, la cangiò in albero. La disgraziata ebbe appena il tempo di porre nelle braccia di sua sorella Iole il bambino, il quale, senza di ciò, sarebbe stato chiuso con lei nella corteccia dell’albero.
Driope era anche il nome di un popolo dimorante nelle circostanze del monte Parnaso.
1514. Druidesse. — Le mogli dei Druidi, sacerdotesse del culto religioso dei Celti, venivano designate con questo nome. Al pari dei loro mariti esse venivano circondate della più alta considerazione, ed avevano ingerenza nelle cose del loro culto. Esse comandavano e regolavano tutto ciò che riguardava i sacrifizii e gli affari della religione, ma sopratutto avevano fama di celebri indovine ; cosicchè venivano da ogni parte persone ad interrogarle e persino gl’imperatori, vennere sovente ad interpellarle.
Oltre le Druidesse, la religione Celtica aveva delle altre sacerdotesse che vivevano nel celibato, ed erano le Vestali del culto. E v’erano finalmente altre sacerdotesse, che se pure maritate, vivevano nel tempio a cui erano addette, senza che fosse loro permesso d’avere contatto coi loro sposi, meno che una sola volta l’anno, in un dato giorno. in cui era loro concesso, per qualche ora, di vivere sotto il tetto conjugale.
1515. Druidi. — Ministri del culto idolatra presso i Galli Celtici. Questo nome veniva loro dalla parola Deru, che in lingua celtica vuol dire quercia, che in greco si dice Δρὑς perchè essi dimoravano nelle foreste e compivano i riti della loro religione sotto quegli alberi. I Druidi aveano sotto la loro dipendenza molti altri sacerdoti e ministri di religione, come i Vati, gli Eubagi, i Bardi, i Sarronidi ec. Èssi menavano almeno in apparenza, una vita austera ed irreprensibile. Si dedicavano all’educazione della gioventù ed avevano sparsi in tutte le Gallie gran numero di collegi. In uno di questi risiedeva il gran sacerdote, o capo supremo dei Druidi. L’autorità dei Druidi ed il loro potere era onnipossente : essi presiedevano alle cose dello stato ; intimavano la guerra o la pace, secondo il loro talento ; deponevano dai loro uffici i magistrati, gli alti e bassi dignitarii, e per sino i generali ed i re, quando non osservavano le leggi del paese, senza che il popolo avesse menomamente mormorato, tanto era grande il rispetto e la venerazione che si aveva per essi.
Essi davano le loro lezioni sempre a voce, senza mai vergare parola per iscritto ; ma facevano imparare a memoria ai loro discepoli, un prodigioso numero di oscurissimi versi, che racchiudevano i principii fondamentali della loro teologia, della quale essi non spiegavano taluni dati articoli, se non con grandissima riserba, ed in casi estremamente rari. Tenevano le loro scuole negli antri dei boschì, nel mistero delle più cupe foreste, all’ombra di quercie secolari ; e ricevevano coloro che li andavano a consultare, con le cerimonie più solenni e misteriose.
La religione celtica non proibiva ai Druidi lo stato matrimoniale, e quando essi avevano tolta in moglie una donna, questa si chiamava Druidessa, ed aveva diritto all’universale venerazione.
1516. Due. — I Romani consideravano questo numero come di cattivo augurio, e perciò dedicato a Plutone al quale era anche sacro, per la stessa ragione, il secondo mese dell’anno e il secondo giorno del mese.
1517. Durichia. — Isola dipendente da quella di Itaca. Ulisse, nativo di quest’ultima, viene talvolta detto anche Dulichio.
1518. Dusiani. — Genii temuti e riveriti dai Galli.
E §
{p. 113}1519. Ea. — Nome della capitale della Colchide e di quella dell’isola di Circe. Anche all’intera isola si dava talvolta il nome di Ea, ragione per la quale si dava anche a Circe la stessa denominazione.
La favola racconta di un’altra Ea, ninfa che avendo implorato il soccorso degli dei, onde sottrarsi alle persecuzioni del fiume Paflo, fu cangiata in isola.
1520. Eaci. — Solenni giuochi che si celebravano in onore di Eaco.
1521. Eaco. — Figlio di Giove e di Egina, egli era re dell’isola Enopia, che egli chiamò Egina, dal nome di sua madre. Essendo stati distrutti tutti gli abitanti dei suoi stati, da una terribile pestilenza, egli ottenne da suo padre Giove che tutte le formiche si fossero cangiate in uomini, e a questo nuovo popolo impose il nome di Mirmidoni. Eaco regnò con tanta giustizia che alla sua morte Plutone lo associò a Minosse ed a Rodomonte per giudicare le anime dei morti.
1522. Eagro. — Così avea nome il marito della musa Polinia, che lo rese padre di Orfeo.
Eano. — Al dire di Macrobio si dava anche comunemente il nome di Iano a questa divinità, ritenuta come simbolo del mondo che gira sempre.
Secondo il citato autore, i Fenici raffigurano Eano, ossia il mondo sotto la forma di un drago che si morde la coda, volendo indicare che il mondo gira sopra sè stesso. A Roma vi erano dei sacerdoti ministri di Eano o Iano, che venivan detti Eani.
1524. Ebalo. — Marito di Gorgofona, figlia di Perso, che lo rese padre di Tindaro.
Ebalo fu uno dei migliori re di Sparta, i cui abitanti alla morte di lui, gl’inalzarono un monumento eroico.
1525. Ebe. — Figliuola di Giove e di Giunone e dea della giovanezza. La tradizione favolosa racconta che Giunone, invidiosa del supremo potere di Giove, che avea da sè solo procreato Minerva, dea della saggezza, volle fare altrettanto e sola dette l’esistenza ad Ebe.
Altri scrittori dell’antichità raccontano la medesima favola in altro modo. È detto che avendo Apollo invitato Giunone ad un festino, nel palagio di Giove, essa, che fino a quel tempo era rimasta sterile, mangiò dei legumi salvatici, rimase immediatamente incinta e partorì Ebe.
Giove, vedendola bellissima, le assegnò il compito di servire il nettare al banchetto degli dei ; ma essendo un giorno caduta in sconcia maniera, mentre attendeva al suo ufficio, Giove le tolse ii suo incarico e fece Ganimede il coppiere degli dei.
La dea che la più bella età governa.Nel nappo trasparente adamantinoAl re che la città regge superna,Solea il dolce portar celeste vino.Or mentre in un convito ella e pincernaE che porta il licor santo e divino.Le viene a sdrucciolare un piede e cade,E del nettar celeste empie le strade.E perchè ella era in abito succintaNella zona contraria in tutto al geto,E di seta sottil varia e dipintaS’avea coperto il bel corporeo velo ;Dall’aura la gonnella alzata e vintaMostrò le sue vergogne a tutto il cielo ;E dell’alme che stan nel santo regno,Mosse i giovani a riso, i vecchi a sdegno.ovidio — Metamor. — Lib. X. trad. di Dell’ Anguillara.
Giunone allora tenne presso di sè Ebe, assegnandole l’incarico di attaccare i cavalli al suo carro.
{p. 114}La cronaca mitologica fa Ebe moglie di Ercole, per simboleggiare, sotto questo connubio, l’eterna gioventù, unita al vigore ed alla forza.
Ebe vien rappresentata sotto la figura di una giovanetta bellissima, col sorriso sulle labbra, e coronata di flori. Aveva in tutte le città della Grecia e dello stato romano gran numero di templi, fra cui il più famoso era quello di Corinto, che avea il privilegio d’asilo.
1526. Ebone. — Dalla parola greca Ἔβη che vuol dire gioventù, si dava questo soprannome a Bacco per indicare che la giovanezza era inseparabile da quel dio.
La tradizione dell’antichità afferma che i popoli di Napoli adoravano un tempo Bacco sotto questa denominazione.
1527. Ebota. — Al dire di Pausania, cosi avea nome il primo degli Acheeni, che fu vincitore ai giuochi olimpici. Narra la cronaca che Ebota, fortemente sdegnato contro i suoi concittadini, perchè questi non avevano onorato la sua vittoria con un monumento, imprecò contro di essi una maledizione che fu esaudita dai celesti. Gli Acheeni vedendo coll’andare degli anni, che alcuno di essi non riusciva vincitore ai guochi olimpici, mandarono a Delfo a consultare l’oracolo, per saperne la ragione : e l’oracolo rispose che pesava su di essi la maledizione di Ebota. Allora gli Acheeni fecero innalzare una statua in onore di Ebota, e così l’anno seguente, Sostrate di Pellene, loro concittadino, fu proclamato vincitore ai giuochi. Da quell’epoca gli Acheeni, prima di recarsi agli esercizii olimpici, andavano a visitare il sepolcro di Ebota, e poi coloro che riuscivano vincitori, incoronavano la sua statua d’una ghirlanda di flori.
1528. Ecaerga. — Così avea nome una ninfa dei boschi che fu celebre cacciatrice, ed estremamente esperta negli esercizii del corpo. Comunemente veniva riguardata come sorella della dea Ope, divinità favorevole ai cacciatori. È opinione di varii accreditati mitologi che Ecaerga fosse uno dei soprannome di Diana.
1529. Ecale. — Nella città di Ecale, nel borgo dell’ Attica, era un tempio dedicato a Giove Ecale, ove in una data epoca dell’anno, si celebravano delle feste dette perciò Ecalesie.
1530. Ecastore e Mecastore. — Formola di giuramento assai in uso presso i pagani, con la quale essi giuravano per Castore nell’istesso senso con cui adoperavano la parola Meehrcole quando prestavano giuramento per Ercole.
1531.Ecate. — Secondo asserisce Esiodo, essa fu figliuola di Asteria e di Perseo. Secondo il citato autore, Giove, dopo aver avuto commercio con Asteria, la dette in moglie a Perseo e da questo connubio nacque Ecate. Teocrito lo Scoliaste, dice che Giove ebbe dai suoi amori con Cerere una figliuola che fu detta Ecate, la quale fu celebre per la sua grande statura. È detto anche che Cerere, quando Plutone rapì sua figlia Proserpina, avesse inviata sua sorella Ecate sulla terra, onde far ricerca della rapita.
L’opinione però più generalizzata fra gli scrittori della favola è che Ecate fosse uno dei nomi di Proserpina stessa : e che questa venisse detta la triplice Ecate e che fosse la Luna nel cielo, Diana quando abitava la terra, e Proserpina quando stava nell’inferno.
Presso i pagani veniva Ecate detta con nome particolare dea Triformis, appunto per alludere alla triplice denominazione di cui parlammo più sopra.
Al dire di Servio, Ecate avea tre facce e tre nomi differenti : si chiamava Lucina, come proteggitrice della nascita dei bambini ; si dicea Diana, come dea che presiedeva alla buona salute ; e finalmente era detta Ecate, come la dea che presiedeva alla morte.
Esiodo, nelle sue cronache dell’antichità, ci presenta Ecate come una dea terribile che ba nelle sue mani il destino degli uomini e degli dei ; quello della terra e del mare ; che distribuisce onori e ricchezze ; che presiede alle battaglie ai consigli dei re, ai parti, ai sogni ec.
Al dire del citato scrittore, Ecate veniva riguardata come madre di Medea e di Circe, come dea che presiedeva alle magiche operazioni e agli incantesimi. I pagani credevano fermamente che Ecate fosse la dea dei sogni, e che ella ispirasse quel vago terrore delle tenebre che degenera in ismanie, e produce uno spevento invincibile.
La tradizione favolosa ripete che Ulisse, onde liberarsi dai tetri sogni che lo conturbavano, facesse in Sicilia innalzare un tempio a Ecate, come dea delle visioni notturne.
1532. Ecatesie. — Così avevano nome alcune feste che si celebravavo in Atene, in onore di Ecate, la quale era grandemente venerata in quella città.
Durante il periodo di queste feste, che si celebravano in ogni novilunio, i cittadini più ragguardevoli davano, nelle principali strade della città, un pubblico banchetto, al quale si credeva fermamente che Ecate assistesse invisibilmente.
1533. Ecatombe. — Dalle due parole greche Εϰατὁν cento, e Βοὑς, buoi si chiamava così quel sacrifizio nel quale si svenavano cento buoi. Coll’andare del tempo fu trovato che cotesto sacrifizio era di così forte spesa, che furono sostituiti ai buoi altri animali di minor costo ; ma si seguitò a chiamare col nome di Ecatombe {p. 115}qualunque sacrifizio in che si uccidevano cento animali della medesima specie.
Lo scrittore Capitolino ricorda che quando una Ecatombe veniva offerta da un imperatore, le vittime erano abitualmente o cento leoni o cento aquile.
L’Ecatombe veniva nel medesimo tempo consumata sopra cento altari di cespugli, e da cento sacerdoti sacrificatori. Abitualmente non si offeriva un’ Ecatombe agli dei che in casi straordinarii ; sia per sollennizzare un felice avvenimento, sia per implorare il termine d’una publica calamità.
Diogene Laerzio, riferisce nelle sue cronache, che Pitagora ovesse offerto agli dei un’ Ecatombe in rendimento di grazie di aver trovata la soluzione di un problema geometrico. È questa per altro una notizia nè generalizzata nè ripetuta fra gli scrittori dell’antichità, di cui per contrario moltissimi ripetono che quel filosofo inculcava ai suoi discepoli di non uccidere gli animali.
Al dire di Omero, Nettuno andò nell’ Etiopia onde comperare cento tori e altrettanti agnelli per farne delle Ecatombi. E l’istesso autore ci ripete che l’indovino Calcante avesse consigliato ai Greci di offerire in Crisa una Ecatombe ad Apollo, onde placarne lo sdegno.
1534. Ecatombee. — Così avevano nome alcune feste che si offerivano in Atene durante il primo mese Attico, chiamato per questo Hecacatombion e nelle quali si offeriva una Ecatombe.
1535. Ecatombe. — Dal costume che i pagani avevano di offerire a Giove e ad Apollo, delle ecatombi, veniva dato cotesto soprannome a quelle due divinità.
1536. Ecatonchiri. — Dalle due parole greche Εϰϰτὁν cento, e Χειρ mani, si dava cotesto nome collettivo ai tre giganti Cotide, Gige, e Briareo, che la tradizione favolosa ci presenta come centimani.
1537. Ecatonfonie. — Presso i Messeni era costume che coloro i quali in guerra avessero ucciso cento nemici, dovessero poi, in rendimento di grazie della vittoria riportata, offrire agli dei una Ecatombe. Da questa costumanza si dava il nome di Ecatonofle ad alcune feste nelle quali si faceva l’ Ecatombe per la suddetta ragione.
Riferisce Pausania, che certo Aristomene di Corinto, avendo ucciso in guerra di sua mano trecento nemici, avesse offerto ai celesti tre Ecatonfonie.
1538. Ecatompedone. — Questo vocabolo deriva dal greco Πούς che significa piede e si chiamava così un tempio che Minerva aveva in Atene, la cui lunghezza era appunto di cento piedi.
1539. Ecdusie. — Venivano così denominate alcune feste e cerimonie che si celebravano in Fefte, città dell’isola di Creta, in onore di Latona, madre di Apollo e di Diana.
1540. Echidna. — Mostro metà donna e metà serpente. Secondo la favola esso generò Cerbero, la Chimera, il Leone Nemeo, e l’Idra di Lerna.
Echidna è una parola che deriva dal vocabolo greco Εϰιδρα, che significa vipera.
1541. Echidnea. — Regina degli Sciti. La cronaca favolosa narra che Ercole la tolse in moglie e ne ebbe diversi figliuoli.
1542. Echinadi. — Nome di alcune ninfe che furono cangiate in isole, perchè dimenticarono di chiamare Acheolo ad un sacrifizio di diec i tori, al quale avevano invitato tutti gli dei boscherecci ed acquatici.
1543.Echione. — Re di Tebe. La tradizione favolosa narra di lui che essendo sopravvenuta nei suoi stati una grande siccità, per la quale morivano gran numero dei suoi sudditi, le due giovanette, uniche figlie del re, si offrirono vittime volontarie, onde placare col loro sangue innocente lo sdegno degli dei.
Appena i loro corpi furono, secondo il costume degli antichi, bruciati, dalle ceneri uscirono due biondi giovanetti, coronati di flori, che celebrarono col canto la morte di quelle eroiche fanciulle.
Vi fu un altro Echione, padre di Penteo. Fu uno di coloro che la favola dice nati dai denti del drago di Cadmo — V. Cadmo — e che aiutarono quest’ultimo nell’edificazione di Tebe. Dal nome di costui i Tebani furono detti Echionidi.
La favola ricorda di un altro Echione, che fu uno degli araldi degli Argonauti.
1544. Echionide o Chionio. — Sotto questo nome si riconoscea comunemente Penteo, per essere figliuolo di Echione. V. l’articolo precedente.
1545. Echionio. — V. Echionide.
1546. Echmagora. — Fu figlio di Ercole e di Fillene. Alcimedone, padre di questa giovanetta, fortemente sdegnato degli amori colpevoli della figlia, la fece legare assieme al neonato in un bosco, e l’abbandonò ad essere divorata dalle fiere.
Ercole, consapevole del fatto, liberò la madre ed il figlio.
1547. Ecelissi. — I pagani credevano che la causa dell’ecclissi lunare fossero le visite che Diana, ossia la luna, faceva al suo amante Endimione, nelle montagne della Caria. Per altro come gli amori della dea non ebbero lunga durata, bisognò cercare un’ altra ragione {p. 116}meravigliosa degli ecclissi, e la più generalizzata fu questa. Si disse che le streghe e tutti coloro che esercitavano la magìa, e particolarmente le indovine della Tessaglia, luogo assai fecondo di erbe venefiche, avevano coi loro incantesimi il potere di far discendere dal cielo la luna ; e che bisognava fare un assordante rumore di calderoni, martelli ed altri strumenti, onde impedire che la luna sentisse le grida richiamatrici delle streghe.
Anche oggi abbiamo dei luoghi, come nel regno di Tunchino e nella Persia, secondo che riferisce il Taverniere, nelle sue relazioni di viaggi e scoperte, ove si crede che durante il tempo dell’ecclissi la luna combatta contro un drago che vorrebbe impadronirsene, e che allora gl’indigeni fanno uno strepito spaventevole con ogni specie di strumenti, per obbligare il mostro a lasciare la sua preda.
Qualche cosa di simile ci riferisce il sig. di Fontenelle, nella sua relazione di viaggio nell’Indie orientali.
Il certo per altro è che qualunque fosse la ragione alla quale i pagani attribuivano così fallacemente gli ecclissi, essi ritenevano che questi fenomeni della natura fossero del più funesto presagio.
1548. Ecmone. — Uno dei figliuoli del re Priamo.
In un combattimento sotto le mura di Troia, egli fu ucciso unito al fratello Cromio, da Diomede.
Due priamidi, Cromio ed Ecmone,Veniano entrambi in un sol cocchio. A questiS’avventò Diomede ; e col furoreDi lion che una mandra al bosco assaltaE di giovenca o bue frange la nuca,Cosi malconci entrambi il fier TididePrecipitolli dalla biga…Omero — Iliade — Libro V trad. di V. Monti.
1549. Eco. — Ninfa, figlia dell’ Aria e della Terra, che abitava le rive del fiume Cefiso. La tradizione della favola racconta di lei che avendo un giorno di comune accordo con Giove, intrattenuta Giunone coi suoi piacevoli discorsi, onde questa non avesse disturbato un colloquio amoroso che Giove aveva con una ninfa del seguito di sua moglie, Giunone, saputo l’inganno, condannò Eco a ripetere l’ultima parola di coloro che la interrogavano. Eco amò con passione Narciso, ma vedendosi da lui disprezzata, si ritirò nella solitudine, vivendo abitualmente nelle montagne, nelle foreste, e nelle grotte, e finalmente morì di dolore. La favola ripete che dopo la morte fu cangiata in roccia.
Ecuba. — Figlia di Cisseide, re della Tracia e moglie di Priamo, re di Troja, che la rese madre di molti figli, fra cui i più famosi furono Ettore, Paride, Eleno, Polite, Polidoro ; e quattro figliuole Creusa, Cassandra, Laodice e Polissena.
Al dire di Virgilio, Creusa fu madre di cinquanta figliuoli tra maschi e femmine : la maggior parte dei suoi figli morì sotto agli occhi della madre, durante il decenne assedio di Troja. Caduta questa città, Ecuba toccò ad Ulisse come parte del bottino di guerra ; ma essa non potè vincere il profondo sentimento di avversione che le ispirava il guerriero greco, che essa aveva veduto, quando era regina, implorare a suoi piedi la sua protezione, ond’essere salvato dai guerrieri Trojani, che lo avevano sorpreso travestito nel loro campo, onde spiarne le mosse. Egli pregò caldamente Ecuba di nasconderlo e di salvarlo da una certa morte ; ed ora, al gran cuore della decaduta regina, era una trafittura mortale il vedersi schiava di quell’istesso uomo che essa aveva protetto nei suoi giorni felici.
Dopo esser rimasta ancor qualche tempo presso di Ulisse, ov’ebbe anche il dolore di veder morire il piccolo Astianatte, suo nipote, Ecuba abbandonò le rive di Troja, dopo aver reso splendidi onori funebri al figliuolo del figlio suo, e fu condotta presso Polinnestore, re della Tracia, al quale il defunto re Priamo aveva affidato suo figlio Polidoro. Ma avendo saputo che Polinnestore aveva fatto morire l’amato figliuolo Polidoro, la povera madre, cieca di collera, frenando a stento il suo furore, dimandò ed ottenne di parlare in segreto al re Polinnestore ; ed avendolo condotto in mezzo alle donne Trojane, che l’avevano seguita, queste si avventarono sul traditore e lo acciecarono con uno spillo, mentre Ecuba di sua propria mano uccideva i due figliuoli di lui. Però le guardie del re trascinarono fuori della reggia Ecuba e la lapidarono.
Le cronache dell’antichità concordano nella gran maggioranza nel ripetere che, ai tempi di Strabone, si vedeva ancora nella Tracia una sepoltura, detta il sepolcro del cane, e nella quale fu rinchiusa la spoglia mortale dell’antica regina di Troja.
Ecuba, trista misera e cattiva,Poscia che vide Polissena morta,E del suo Polidoro in su la rivaDel mar si fu la dolorosa accorta,Forsennata latrò si come cane.Tanto il dolor le fe la mente torta.Dante — Infermo — Canto XXX.
Qualche autore ha ripetuto che Ulisse forse stato l’autore della morte di Ecuba, perchè {p. 117}ritornato nella Sicilia, fece innalzare un altare nel tempio di Ecate e lo dedicò ad Ecuba ; credendo così liberarsi dai sogni funesti che lo tormentavano.
1551. Edipo. — Re di Tebe, figlio di Lajo e di Giocasta.
L’oracolo aveva predetto a Lajo che morrebbe ucciso da suo figlio, il quale dopo aver consumato il parricidio, diverrebbe incestuoso, sposando la propria madre. Appena nato Edipo, il padre, onde scongiurare i terribili destini che si legavano alla vita del fanciullo, lo consegnò ad uno dei suoi ufficiali, con ordine espresso di farlo morire, ma quell’ufficiale, commosso alla vista dell’innocente creatura, per non spargere quel sangue, lo legò per i piedi ad un albero ed ivi lo lasciò sospeso. Un pastore, passando per di là, attratto dalle grida lamentose del bambino, lo prese e lo portò a Polibio, re di Corinto, il quale ne prese cura come di un suo proprio figliuolo, e lo chiamò Edipo, parola che significa dal piede gonfiato, e lo fece educare.
Edipo, divenuto adulto, credendosi figlio del re Polibio, volle consultare l’oracolo per conoscere qual fosse la sua sorte, e avendogli l’oracolo predette le stesse spaventevoli sciagure, che aveva già annunziate al suo vero padre, Edipo si esiliò volontariamente da Corinto, credendo di lasciare così la sua patria. Giunto nella Focide, ebbe querela con uno sconosciuto e lo uccise. Quello incognito era Laio, suo padre ! Seguitando il suo viaggio, dopo avere errato in diverse contrade, giunse a Tebe, ove entrò dopo aver decifrato l’enigma che la Sfinge proponeva ai viandanti, e come Giocasta, la vedova regina di Tebe, era il premio serbato a colui che avesse risposto alla Sfinge, egli la sposò dividendo per tal modo il talamo nuziale della propria madre. Da questo connubio nacquero i due fratelli Eteocle e Polinice, ed una figlia che ebbe nome Antigone. Gli dei, irritati dall’orribile incesto, che sebbene compiuto ad insaputa di Edipo, era pur sempre un fatto mostruoso, castigarono la città di Tebe con una orribile pestilenza, la quale non cessò che quando il pastore che aveva portato il fanciullo a Polibio, venne a Tebe, lo riconobbe e gli palesò la sua vera nascita. Edipo per disperazione si acciecò, e fuggi per sempre dalla sua vera patria.
1552. Edo. — Figliuola di Pandaro e moglie di Zetto, il quale fu fratello d’Anfione. Da questa unione non nacque che un solo figliuolo chiamato Itilo. La tradizione favolosa racconta che essendo Edo gelosa di vedere che Niobe, sua cognata, aveva una numerosa famiglia, mentre essa non aveva che un solo figlio, risolvette di uccidere il primo genito dei suoi nipoti, che dormiva nel medesimo tetto di Itilo. Onde mandare ad esecuzione il suo perverso disegno, Edo avvisò il figliuolo di cangiare di posto la notte seguente e mettersi nel luogo che occupava in letto il figliuolo di Niobe. Itilo, colla spensieratezza propria dell’infanzia, dimenticò di seguire le ingiunzioni materne e la notte, Edo, invece di trucidare suo nipote, come credeva, uccise il proprio figliuolo. Riconosciuto l’errore, ella si tolse di propria mano la vita. La cronaca favolosa aggiunge ch’essa fosse rapita dalle Arpie e trasportata da queste nell’Inferno, ove fu data in preda alle Furie.
1553. Edone. — Così avea nome una principessa figlia di Pantareo, di Efeso, la quale sposò un artista di Colofone, per nome Politecno.
Questi due sposi si amavano così teneramente ed erano così felici, che, resi orgogliosi dalla loro stessa felicità, osarono dire che si amavano più perfettamente di Giove e di Giunone. Irritati perciò gli dei, mandarono la Discordia onde disunirli, e ben presto il triste potere di questa terribile divinità, si fece sentire.
Essendo un giorno Politecno andato da suo suocero, per chiedergli Chelidonia, sorella di Edone, cbe questa bramava di rivedere, Pandareo assenti, e consegnò la giovanetta Chelidonia a Politecno, il quale durante il viaggio la condusse in un bosco, e calpestando i sacri dritti del sangue, la violentò. Chelidonia, giunta presso la sorella, piangendo disperatamente, la informo del proprio disonore. Le due sorelle allora giurarono di vendicarsi, e concepirono lo spaventevole disegno di far mangiare a Politecno il proprio figliuolo Iti. Politecno informato della trama, raggiunse le colpevoli nella casa di Pandareo, ove esse eransi rifugiate, e quivi impadronitosi, del suocero lo caricò di catene e così legato lo espose ai raggi ardenti del sole ed alle morsicature degl’insetti. Edone, allora, disperata della trista sorte del padre, corse vicino a lui per consolarlo colle sue filiali carezze ; ma quest’atto di pietà le fu imputato a delitto e glà Politecno, cieco di furore, moveva per trucidarla, allorchè Giove, mosso a pietà cangiò tutta la famiglia in uccelli. Da ciò la favola, ripetuta anche dal Boccaccio, che Edone fosse cangiato in un cardellino, uccello che canta con un tuono triste e malinconico.
1554. Edonidi. — Le Baccanti erano così soprannominate da una montagna della Tracia, conosciuta sotto il nome di Edone, ov’esse celebravano le orgie negli osceni misteri di Bacco.
1555. Edonio. — Uno dei soprannomi di Bacco. Vedi l’articolo precedente.
1556. Educa. — Divinità che presso i pagani, presiedeva alla nutrizione dei bambini.
{p. 118}Educa aveva diverse denominazioni come : Edulia, Edusi, e Edusa : di questi nomi il più usitato però è quello citato in margine.
1557. Edula, Edulia, o Edusia. — V. Educa.
1558. Edulia. — V. Educa.
1559. Edusia. — V. Educa.
1560. Eeta. — Figlio del Sole e di Persa : fu re della Colchide e padre di Medea, la quale per questa ragione vien anche detta Eetia, ed anche Eeeta.
1561. Efesio. — Questa parola in greco significa ardente, perciò i pagani ne fecero uno dei soprannomi di Vulcano, dio del fuoco.
1562. Efeso. — Celebre città dell’ Asia minore, nella Jonia
La tradizione mitologica ripete che il nome di questa città derivasse da una donna chiamata Efeso, la quale dette origine alle Amazzoni. Ma questa opinione è assai poco ritenuta in conto presso i più accreditati scrittori della favola.
La città di Efeso sorgeva in una pianura irrigata dal fiume Caistro, nelle circostanze del mare Egeo.
Rinomati autori pretendono che la esistenza di questa città, fosse di molti anni anteriore allo stabilimento dei Greci nell’ Asia minore ; ma che allora altro non fosse se non una piccola borgata, vicina al tempio di Diana, la quale fin da quel tempo era venerata in quei luoghi ; e che poscia una colonia greca avesse costruita la città di Efeso, che si rese poi tanto celebre.
Il famoso tempio di Diana, che fu una delle sette meraviglie del mondo, fu fatto costruire a spese di tutti i regnanti dell’ Asia minore. La costruzione di questo tempio costò molti milioni e più di duecento anni di lavoro, tanto che il celebre architetto Taesifonte, che ne fece il disegno e diresse per lungo tempo i lavori d’impianto, non potè vedere, come molti altri architetti che gli successero, neanche la metà di tutta la costruzione.
Questo famosissimo monumento aveva 426 piedi di lunghezza, 200 di larghezza, ed in tutto il vastissimo recinto delle sue mura, si contavano 227 colonne, innalzatevi da altrettanti sovrani, e che erano tutte dei marmi più rari e preziosi : le sue porte erano di legno di cipresso con intagli preziosissimi di legno di cedro, e con statue e quadri di un valore favoloso. E pure questa opera colossale, che riuniva tante meraviglie d’arte, e tanto lusso di ricchezze e di splendori, fu distruita in poche ore per mano di un uomo per nome Erostrato, il quale, inabile a rendersi celebre per opere valorose, volle eternare il suo nome coll’incendiare una delle più meravigliose opere dell’ingegno umano, e vi appiccò il fuoco la notte del sesto giorno del mese detto dai Greci Hecatombeon, 356 anni avanti Cristo, la notte medesima in cui nasceva Alessandro il Grande. Circa 25 anni dopo, gli abitanti di Efeso vollero ricostruire il loro tempio famoso, e in effetti cominciarono i lavori, respingendo persino l’offerta fatia loro da Alessandro il Grande, di pagare tutte le spese necessarie alla ricostruzione, purchè sulla porta principale del tempio fosse inciso, in lettere d’oro, il suo nome. Gli Efesiani, gelosi della loro nazionalità, non vollero condiscendere alla pretesa di Alessandro e continuarono, mediante enormi sagrifizii, la costruzione del loro tempio, che essi menarono nuovamente a termine dopo lunghissimi anni, con più magnificenza e ricchezza. Ma sembra che il destino si opponesse nei suoi voleri a che il tempio di Efeso rimanesse perenne monumento dell’arte greca, poichè ai tempi di Nerone fu spogliato di ogni ricchezza e poscia, sotto l’Imperatore Galieno, i Goti lo rovinarono quasi interamente, e finalmente fu distrutto dalle fondamenta in virtù dell’editto di Costantino imperatore, il quale, devoto alla religione di Cristo, ordino la demolizione di tutti i templi pagani.
La Città di Efeso fu egualmente celebre per aver dato i natali al pittore Parrasio, ed al filosofo Eraclito. Durante il terzo anno della sessantunesima olimpiade, Alessandro il conquistatore, entrò in Efeso alla testa dei suoi eserciti, e per ricompensare il popolo della confidenza che poneva in lui, vi ristabilì il governo democratico. Morto Alessandro, la città di Efeso fu preda dei successori di lui, quindi cadde in potere dei re di Siria, e finalmente ne divennero padroni i Romani.
Sotto la dominazione degl’imperadori greci, Efeso fu molte volte presa e saccheggiata dai Persiani. Sotto l’ Imperadore Alessio se n’impadronirono i Turchi, i quali la tennero schiava fino al 1206, epoca in cui passò nuovamente sotto il dominio dei Greci, che ne restarono signori fino al 1283. Da quest’epoca la città di Efeso fu sempre un punto d’invidiosa mira pergl’imperadori greci e per i califfi maomettani, i quali, a forza di togliersela di mano l’un l’altro, finirono per distruggeria interamente.
Secondo la favola Efeso fu anche il nome di un figlio del fiume Caistro, il quale in compagnia di Creso, prese parte alla fabbricazione del famoso tempio di Diana, di cui nell’articolo precedente.
1563. Efestee. — V. Efestie.
1564. Efestie o Efestee. — Era questo il nome di alcune feste che si celebravano in onore di Vulcano.
La cerimonia più saliente di esse consisteva nella corsa che tre giovanetti facevano, ciascuno {p. 119}con una torcia accesa nella destra. Quello fra i tre che giungeva alla meta con la torcia accesa, gualagnava il premio ; se poi le tre torcie si spegnevano tutte, il premio della corsa non veniva aggiudicato ad alcuno.
1565. Efestione. — Amico e confidente di Alessandro, il Macedone, che lo ebbe estremamente caro, e tanto che dopo la morte di quello, avvenuta nella città di Ecbatana, l’imperadore lo fece annoverare fra le divinità. Coll’andar del tempo gli vennero innalzati dei templi, sacrificate offerte ed olocausti, e dedicato per fino un oracolo. Luciano, nelle sue opere, asserisce che lo stesso Alessandro fu uno dei seguaci più caldi della novella divinità.
1566. Efestrie. — Venivano così chiamate le feste che si celebravano in onore dell’indovino Tiresia, il quale, passeggiando un giorno sul monte Cilleno, vide due serpenti attorcigliati insieme e li divise con un colpo di bastone : nell’istesso momento egli fu trasformato in donna, e secondo la tradizione mitologica, restò tale per lo spazio di sette anni. Finalmente al cominciare dell’ottavo, Tiresia trovò altri due serpenti, li divise nuovamente con non colpo di bastone e ritornò uomo.
Questa doppia trasformazione veniva segnatamente ricordata nelle cerimonie dette Efestrie, nelle quali i Tebani facevano girare per la loro città la statua di Tiresia, che all’andare era vestito da uomo ed al ritorno da donna.
Vedi Tiresia che mutò sembiante.Quando di maschio femmina divenue.Cangiandosi le membra tutte quante :E prima poi ribatter le convenneLi duo serpenti avvolti colla verga.Che riavesse le maschili penne.Dante — Inferno — Canto XX.
1567. Eflaite ed Oto. — Così avevano nome i due giganti figli di Nettuno e di Ifimedia. Essi avevano, secondo la tradizione, la strana, dote di crescere più cubiti ciascun anno, e d’ingrossarsi in proporzione. Non contavano che quindici anni allorquando gli altri giganti tentarono di dara la scalata al cielo.
Essi incatenarono Marte e lo tennero prigione per un anno e un mese, finchè Mercurio non andò a liberarlo :
Oto ed il forte Efialte l’annodaroD’aspre catene. Un anno avvinto e un meseIn carcere di ferro egli si stette,E forse vi peria se la leggiadraMadrigna Ecribea nol rivelavaAl buon Mercurio, che di la furtivoLo sottrasse, già tutto per la lungaE dolorosa prigionia consunto.Omero — Iliade — Libro V. trad di V. Monti.
Avendo Diana fatto sorgere un dissidio fra loro, essi morirono entrambi, in seguito alle ferite con che si erano reciprocamente offesi.
1568. Efialti. — Specie di sogni malefici che i latini chiamavano Incubi ; nome che poi è rimasto anche presso di noi a quella specie di dolorosa impressione che talvolta si risente nel sonno, accompagnato da spaventose visioni.
1569. Efidriadi. — Ninfe che presiedevano alle acque e che più comunemente venivano dette Idriadi, dalla parola greca Υδρδς, che significa acqua.
1570. Efira. — Figliuola dell’ Oceano e di Teti, la quale dette il suo nome alla città di Corinto, che dal principio chiamavasi Efira. Al dire di Virgilio essa fu madre di Aristeo.
In Grecia vi furono altre due città conosciute sotto il nome di Efira ; una nella contrada della Tessaglia, e propriamente nel luogo conosciuto sotto il nome di Tembe, e l’altra nella Tesprasia, provincia dell’ Epiro.
Anche nel golfo dell’ Argolide vi fu un’isola, vicina a quella di Melus, conosciuta sotto il nome di Efira, che fu patria di Sisifo.
Efira, una città, natia contradaDi Sisifo, che ognun vincea nel senno.Omero — Iliade — Libro VI trad. di V. Monti.
1571. Ega. — Ninfa-Gapra, figlia di Oleno e sorella di Elice. Giove in riconoscenza di essere stato da lei nutrito, la trasportò in cielo, sotto la costellazione conosciuta anche oggidì col nome di capra. Del vello di Ega, Giove rivestì il suo scudo, che perciò fu detto Egida. Questo scudo fu dato poi a Minerva, la quale ne fece anche un’arma offensiva, inchiodandovi sopra la testa della Gorgone. Vedi Gorgone e Medusa.
1572. Egea. — Soprannome dato e Venere per essere particolarmente adorata nelle isole del mare Egeo.
Egea era anche il nome di una delle Amazzoni, la quale morì annegata appunto nel mare Egeo.
1573. Egemone. — Che significa conduttrice.
Era questo il soprannome che Cromio dette a Diana, quando le fabbricò in Tegea, un tempio dopo di avere per consiglio di lei, ucciso Aristomelidas, tiranno di Orconomo. Sotto questo nome aveva Diana un culto particolare nelle città di Ambracia, Acacesio e Mileto, perchè in queste tre città ella servì di guida conduttrice a Cromio ed alla sua colonia.
1574. Egenete. — Ossia quotidianamente rinascente. Soprannome col quale gli abitanti {p. 120}dell’isola Camarin, adoravano Apollo, ossia il sole, che rinasce ogni giorno.
1575. Egeo. — Figlio di Pandio e fratello di Niso, di Pallante e Lico. Con essi egli riconquistò l’Attica di cui i Mezioniti eransi resi padroni.
Egeo fu il solo fra i suoi fratelli che non potette aver prole ; onde consultato l’oracolo, questo gli rispose di recarsi per qualche tempo nella corte di Pitteo, re di Trezene, famoso per la sua saggezza. Pitteo lo accolse regalmente, e una sera, dopo un sontuoso banchetto, nel quale Egeo avea molto bevuto, gli fece trovare nella sua camera la figlia Etra, giovanetta di rara bellezza, la quale nell’istessa notte fu anche visitata dal dio Nettuno. Poco tempo dopo, Egeo seppe da Etra che ella era incinta, e non dubitando che il nascituro fosse suo figlio, consegno ad Etra una spada, ingiungendole di conservarla onde suo figlio potesse con quella farsi riconoscere dal re di Atene. In prosieguo Egeo sposò la famosa Medea, abbandonata da Giasone, ma quasi che le maledizioni del cielo seguissero le orme di questa, le sventure lo assalirono di ripetuti e spietuti colpi. Androgeno, figlio di Minosse, fu ucciso in Atene e il re di Creta dichiarò la guerra agli Ateniesi per vendicare la morte del figlio, ed avendoli vinti, impose loro un sanguinoso tributo ;quello cioè, che ogni anno gli Ateniesi avessero dovuto mandare in Creta sette giovanetti ed altrettante vergini, per essere divorati dal Minotauro. Mentre volgeva codesto periodo di tempo Teseo, figlio di Etra, avea toccato l’età dell’adolescenza ed avea ricevuta dalla principessa Trezenia la spada del padre, onde Egeo avesse potuto riconoscerlo ; ma Medea, saputo l’arrivo del giovane in Atene, comprese ogni cosa e fece il possibile onde impedire il riconoscimento, e con seduzioni ed incantesimi avea quasi persuaso Egeo a far morir di veleno il giovine straniero, ma al momento fatale, la vista della spada riaccese nell’animo di Egeo più miti ed umani sentimenti, e poscia, seguito il riconoscimento, abbracciò il figliuolo e scacciò per sempre la colpevole Medea. Però la nemica sorte di Egeo non era stanca di farlo bersaglio del suo furore, poichè in quel turno di tempo la sorte cadde sopra Teseo, designandolo come una delle vittime che ogni anno, per patto della sconfitta, dovevano essere esposte alla ferocia del mostro di Creta, e Teseo dovè, come gli altri, sottostare alla comune fatalità. Egeo con le lagrime del più profondo dolore vide partire il figlio suo dilettissimo, al quale raccomandò con le più calde preghiere di far cangiare le nere vele del vascello, che faceva il terribile viaggio, con altrettante di colore bianco, ove mai egli, per una speciale grazia dei numi, fosse ritornato salvo in patria. Teseo promise e partì, ed avendo ucciso il Minotauro, fece ritorno in patria sull’istesso vascello che lo avea ricondotto in Creta ; ma egli e i suoi compagni, nell’ebbrezza della gioja, dimenticarono di sostituire alle vele nere le bianche, siccome avevano promesso ad Egeo, il quale, dalla riva vedendo il fatale colore, si precipitò nel mare, che da quel tempo prese il nome di Egeo.
Gli Ateniesi per onorare Teseo, loro liberatore, annoverarono Egeo fra le divinità marittime, e lo dichiararono figlio di Nettuno.
Molti accreditati mitologi concordano nella opinione di aver Egeo introdotto in Grecia il culto di Venere Urania, onde rendere la dea propizia alla sua brama di aver figliuoli.
1576. Egeone. — Conosciuto più comunemente sotto il nome Briareo, gigante figliuolo di Titano e della Terra. La favola gli attribuisce cento braccia e cinquanta teste.
…. In quella guisaChe si dice Egeon con cento bracciaE cento mani, da cinquanta boccheFiamme spirando e da cinquanta petti,Esser già stato col gran Giove a fronte,Quando contra i suoi folgori e i suoi tuoniCon altrettante spade ed altrettantiScudi tonava e folgorava anch’egli ;Virgilio — Eneide — Libro X. Trad. di A. Caro.
La tradizione mitologica racconta che Giunone, Minerva e Nettuno, vollero nella guerra degli dei, incatenar Giove e che sarebbero forse riuscili nel loro intento, se Teti non avesse persuaso Egeone a mettersi dalla parte di Giove, il quale, memore di questo servigio, gli rese la sua amicizia, dimenticando la parte più che attiva che Egeone o Briareo aveva avuto nella scalata che i Titani tentarono dare al cielo.
1577. Eger. — Nome di un gigante, famoso nella mitologia Scadinava.
1578. Egeria. — Ninfa di una rara bellezza, amica e consigliera di Numa Pompilio, secondo re di Roma, il quale finse d’aver con lei dei segreti colloquii, affine di dare più autorità alle leggi che impose ai Romani. La tradizone mitologica attribuisce ad Egeria anche il nome di Camena, cioè cantatrice e profetessa, e racconta che avesse presso forma umana, ed avesse sposato il re, in una selva presso le porte di Roma, la quale fu allora nominata Locus Camanarum e ch’è propriamente quel luogo che è detto oggi Caffarelli. Alla morte di Numa Pompilio, Egeria fu talmente afflitta, che pianse giorno e notte, riempiendo l’aria nei suoi lamenti, per modo che {p. 121} Diana, sturbata nei suoi sagrifizi, la cangliò in una fontana, che dal suo nome fu detta Egeria.
Tra i moderni scrittori taluni, sebbene non numerosi, han posto per fino in dubbio l’esistenza di Numa Pompilio. Altri, meno alieni dalle antiche significazioni mitologiche, e dalle idee informatrici delle credenze religiose dei tempi della favola, han voluto scorgere nella simbolica figura della ninfa Egeria, l’Idromanzia, personificando in essa l’idea informata della solitudine, che profonde i tesori del raccoglimento altesmoforo ed al saggio, amico dello studio lungo e meditativo. Numa non è altro che la personificazione della legge fatta uomo ; è lo spirito legislatore umanato sotto la figura di un re della terra, dalla poetica ed iperbolica favella delle primitive mitologie.
I Romani adorarono ancora un’altra Egeria, che presiedeva allo sgravo, ed alla quale le donne incinta facevano continui sagrifizii ed offerte, onde implorare un parto felice.
1579. Egghitree. — Con questa denominazione i Greci indicavano quelle donne e quelle fanciulle, che nelle funebri cerimonie portavano l’acqua lustrale per le libazioni sui sepolcri.
1580. Egialeo. — Fu figlio d’ Inaco e di Melisse, e diede il suo nome alla contrada di cui poi fu re, e che da lui fu detta Egialea. Questa contrada è propriamente quella che i moderni geografi chiamano Morea.
1581. Egibolo o Egobolo. — Dalla parola Greca άηξ άηγδς, che significa capra ; i pagani indicavano con questo nome un particolare sagrifizio espiatorio in cui s’immolavano un dato numero d’animali cornuti. Se le vittime erano capre il sacrifizio si chiamava Egibolo ; se tori dicevasi Taurobolo, se montoni, Criobolo. Allorquando si compivano le cerimonie di questi sagrifizii i sacerdoti, consacrati al culto del nume che si adorava, scavavano una fossa in mezzo ad un campo, o in altro luogo adattato, e facevano in essa discendere il gran sacerdote, o pontefice, rivestito di tutti gli attributi della sua autorità. Coprivano quindi la fossa con una tavola forata in più punti e si gettava su di essa il sangue fumante delle vittime sgozzate, per modo che il sommo sacerdote riceveva tutto su di sè il sanguinoso lavacro, e risaliva a compiere la cerimonia tutto grondante di sangue. Le vestimenta poi ancora intrise, venivano dagli altri sacerdoti sospese alle mura interne del tempio, onde i fedeli avessero potuto santificarsi al contatto di quelle.
1582. Egida. — I poeti detl’antichità danno questo nome allo scudo di tutti gli dei ; ed Omero dice che l’ Egida d’ Apollo era di oro, ma che questo nome fu proprio dello scudo di Minerva, dopo la vittoria da lei riportata sui mostro Egide — V. Egide ; e Virgilio dice che Minerva combatteva coprendosi tutta la persona con uno scudo, o Egida, su cui era incisa la testa della Gorgone Medusa.
Intorno agli omeri diviniPon la ricca di fiocchi Egida orrenda,Che il terror d’ogni intorno incoronava,Ivi era la Contesa, ivi la Forza,Ivi l’atroce Inseguimento, e il diroGorgonto capo, orribile prodigioDell’ Egioco signor.Omero — Iliade — Libro V trad. di V. Monti
L’ Egida, o scudo di Giove, era ricoperta della pelle della capra Amaltea, che avea col suo latte nutrito il re dei numi e che egli aveva chiamata col nome particolare di Egida, dalla parola greca άηξ άηγδς che significa Capra.
1583. Egide. — Mostro spaventevole nato dalla Terra, il quale vomitava fuoco e fiamme, e fumo denso e nerissimo. Per più tempo portò la desolazione nella Frigia, ed in altre contrade, finchè Giove ordinò a Minerva di combatterlo e questa lo uccise. La Terra, sdegnata per questa morte, partorì i Giganti, che poi mossero guerra agli dei.
1584. Egilia. — Sorella di Faetone, la quale a forza di piangere per la sciagura di suo fratello, fu insieme alle sorelle cangiata in pioppo.
La tradizione mitologica ricorda di un’altra Egilia che fu figlia di Adrasto, re di Argo, e moglie di Diomede. Venere, sdegnata contro Diomede per la ferita che quest’ultimo le fece all’assedio di Troja, onde vendicarsi di lui ispirò ad Egilia, l’infame desiderio di prostituirsi a tutti gli uomini che incontrava. Quando Diomede ritornò in patria, Egilia attentò alla vita di lui, perchè egli non soddisfaceva alla insaziabile voluttà di lei. Diomede si ricoverò nel tempio di Apollo e poi abbandonò la disgraziata donna.
1585. Egina. — Figlia del flume Asopo, la quale fu con passione amata da Giove, che sotto la forma di un’aquila la rese madre di Eaco e di Radamanto. Asopo, venuto a conoscenza del fallo di sua figlia, si dette a cercarla premurosamente, e saputo da Sisifo il nome del seduttore, giurò di vendicarsi anche di lui ; ma Giove scagliò i suoi fulmini e costrinse l’ Asopo a risalire verso la sua sorgente ; e per sottrarre Egina alla paterna vendetta, la nascose in una isola del Golfo Saronico, detta Enone o Enopia. Fu in quest’isola che Egina dette alla luce Eaco, il quale poi chiamò col nome di Egina l’isola in cui era nato, in memoria della madre. Dopo qualche tempo, Giove si rivolse ad altri amori, ed Egina fu tolta in moglie da {p. 122}Attore, figlio di Mirmidone, che la rese madre di Menezio.
1586. Egineti. — Con questo nome erano conosciuti gli abitanti dell’isola Egina, i quali furono prima detti Enoni o Enopii, e poi più conosciuti sotto la denominazione di Mirmidoni. Vedi l’articolo precedente.
Gli Egineti dopo essere stati governati da una lunga serie di re, dei quali solo pochi sono ricordati dalla tradizione mitologica, si attennero a reggimento repubblicano, eleggendo a loro capo Epidauro.
Durante il periodo delle guerre persiane, gli Egineti furono quelli che più si distinsero per aver fornito maggior numero di navi. Gelosi però della grandezza degli Ateniesi, e stimolati dai Beozi, i quali anch’essi vedevano di male occhio la crescente prosperità di Atene, gli Egineti si gettarono sull’Attica, e da questo tentato colpo di mano ebbe principio l’odio inestinguibile che divise poi sempre, con mortale inimicizia gli Ateniesi e gli Egineti, i quali furono poi scacciati dalla loro isola, e vedendosi costretti a cercare altrove miglior fortuna, si ritirarono nella isola di Tirea, nelle acque del golfo Argolica, presso i confini dell’Argolide e della Laconia. Ivi rimasero fino alla caduta della potenza Ateniese, epoca in cui ritornarono in patria, ma non poterono mai ricostruire la loro possanza, per quanto gloriosi ed antichi ne fossero i ruderi.
Strabone ed Eforo dicono nelle loro opere che gli Egineti fossero i primi fra i Greci a coniar moneta, e che fu uno di essi, per nome Fidone, che consiglio i suoi concittadini, onde facilitare il commercio marittimo, a servirsi delle monete, potendo con tal mezzo dar maggiore sviluppo allo scambio, e supplire in parte all’infeconda sterilità della loro isola.
1587. Egioco. — Soprannome di Giove, che a lui veniva, secondo la tradizione favolosa, dall’aver ricoperto il suo scudo, o Egida, della pelle della Capra Amaltea. In Omero ed altri poeti e cronisti della favola è assai di sovente chiamato Giove con questa denominazione.
1588. Egipane — Il dio Pane veniva così soprannominato perchè aveva le gambe e i piedi di capra, come quasi tutte le divinità campestri e boscherecce.
Taluni scrittori fanno di Egipane una particolare divinità, figlia di Giove secondo gli uni e di Pane e di Ega, secondo gli altri. È questa per altro un’opinione non convalidata da valevoli testimonianze. Ai Satiri in generale si dava dai pagani il soprannome di Egipani. V. l’articolo seguente.
1589. Egipani. — Così venivano col nome collettivo denotate tutte quelle divinità che nel culto religioso dei pagani si credeva abitassero le montagne, i boschi e le selve ; e che venivano rappresentate coi piedi di capra, colle corna sulla fronte e la coda dietro le reni.
Le tradizioni delle antichità, e più particolarmente quelle lasciateci da Plinio, fanno menzione di alcuni mostri della Libia, ai quali si dà propriamente il nome di Agipani e che al dire del citato scrittore, erano perfettamente simili alla figura che presso di noi rappresenta la costellazione dello Zodiaco, nota sotto il nome di Capricorno.
1590. Egipio. — Giovane Tessalo, figlio di Bulis, detto anche Bulea o Bulisa. Egipio, perdutamente innamorato di Timandra, madre di Neofronte, la quale era tenuta in conto della più bella donna de’suoi tempi, la sedusse a forza di oro, ma non riuscì a spegnere colla sazietà del possesso, l’ardente desiderio che questa donna bellissima gli aveva acceso nel sangue. Neofronte intanto, per vendicare l’offesa che gli aveva fatta l’amico, fece in maniera che tirò alle sue voglie Bulis, madre di Egipio ; nè contento di cio, e sembrandogli poca cosa il trionfo ottenuto, informatosi dell’ora in cui Egipio dovea recarsi ad un notturno convenio d’amore, fece destramente uscire Timandra, e pose nel letto di lei Bulis, la madre di Egipio ; il quale per tal modo non sospettando di nulla ebbe commercio colla propria madre, che, immersa nelle tenebre, ad arte procurate da Neofronte, non aveva riconosciuto il figlio.
Appena pero i primi albori del giorno illuminarono della loro luce serena l’orribile incesto gl’inscienti colpevoli vollero uccidersi, ma Giove, mosso a compassione, cangiò Bulis e Timandra in Sparvieri, ed Egipio e Neofronte in Avoltoi.
1591. Egira. — Così aveva nome una delle ninfe Amadriadi.
1592. Egisto. — Figlio di Tieste e fratello di Atreo. A vendo Tieste avuto commercio colla propria figlia Pelopea, senza pero averla riconosciuta, nacque da questo involontario incesto Egisto, il quale, abbandonato dalla madre in un bosco, fu allattato da una capra, e poi raccolto da alcuni pastori.
A che m’insegui, o sanguinosa. irataDell’inulto mio padre orribil ombra ?Lasciami… va… cessa, o Tieste : vanne,Le Stigie rive ad abitar ritornaTutte o in sen le tue furie ; entro mie veneScorre pur troppo il sangue tuo : d’infameIncesto il so, nato al delitto io sono :Nè ch’io ti veggia, a rimembrarlo è d’uopo.Alfieri — Agamennone — Tragedia Atto 1. Scena 1
{p. 123}Qualche tempo dopo, avendo Tieste abbandonato Pelopea, questa consegnò al figliuolo Egisto la spada del padre, e lo mandò alla Corte di Atreo, il quale prese a ben volere il giovanetto, senza saperne l’origine, e gli affido l’incarico di assassinare Tieste, che allora egli riteneva prigione. Tieste riconobbe la propria spada, e avendo interrogato Egisto, questi rispose che gliela aveva data la madre. Tieste alle parole del figlio, ed alla evidenza delle pruove, trovò compiuta la predizione dell’oracolo riguardo all’incesto, e cercò di calmare il dolore del figlio il quale, indegnato contro Atreo per l’infame incarico che gli aveva affidato lo raggiunse a Micene e lo uccise.
In seguito venuto Egisto in grande amicizia con Agammenone, re d’Argo e di Micene, questi, al momento di partire per l’assedio di Troja, affidò ad Egisto la reggenza dei suoi stati, e la custodia della propria moglie Clitennestra e dei suoi due figli Elettra ed Oreste. Egisto però sconoscente a tanti benefizii, spergiuro e traditore dei tanti doveri dell’amicizia, sedusse la libidinosa consorte di Agamennone, usurpò il supremo potere e quando dopo la caduta di Troja, quegli ritornò in patria, d’accordo con la colpevole moglie, lo assassinò, e tenne per lungo tempo schiava nella stessa reggia, Elettra, figlia dell’ucciso, la quale però riusci a salvare dalle mani degli sgherri di Egisto il fratello Oreste, allora fanciullo ancor di due lustri, che alla sua volta, ritornato adulto in Micene, uccise l’usurpatore Egisto, e trasportato dal furore trapassò con l’istessa spada il seno di Clitennestra sua madre.
Noi sotto Troja travagliando in armi,Passavam le giornate ; ed ei nel fondoDella ricca di paschi Argo tranquilla,Con detti aspersi di dolce, veleno,La moglie dell’Atride iva blandendo.Omero — Odissea Lib. III. trad. di I. Pindemonte.
Tutti ebbe i suoi desir l’iniquo Egisto :Agammennone a tradimento spense,Soggettossi gli Argivi ed anni setteDella ricca Micene il fren ritenne,Ma l’ottavo anno ritornò d’Atene,Per sua sciagura, il pari ai numi Oreste,Che il perfido assassin del padre illustreSpogliò di vita.Omero — Odissea lib. III. trad. di I. Pindemonte.
il ferroVibrasti in lei senza avvederten, ciecoD’ira, correndo a Egisto incontro.Alfieri — Oreste, tragedia atto V scena ultima.
1593. Egitto. — Dispari e contrarie sono le opinioni degli Storici e dei Cronisti sul personaggio a cui la tradizione mitologica attribuisce cotesto nome. Il falso velo che ricopre gran parte, anzi quasi tutta l’epoca dei tempi favolosi, non consente oggi a che noi battessimo nelle ricerche, una via libera e spianata : noi altro non possiam fare, che attenerci alle opinioni degli autori più accreditati e additare alla gioventù studiosa, la differenza e bene spesso la contradizione completa che esiste fra quei pareri a noi tramandati da numerosi scrittori dell’antichità.
Egitto secondo alcuni fu figlio di Belo e d’una figlia del fiume Nelo. Altri pretendono che fosse figliuolo di Nettuno e di Libia e fratello di Danao. Fu principe buono e giusto, e queste pregevoli qualità gli valsero l’onore di dare il suo nome alla contrada di cui era sovrano. Da sua moglie Argifia e d’altre sue concubine — le più celebri delle quali furono Gergones, Efestina, Tiria, Caliante, Arabia e Fusina ; ed altre — ed ebbe cinquanta figli, i quali tolsero in moglie le cinquanta figliuole di Danao, suo fratello, comunemente conosciute sotto il nome di Danaidi. Danao però, ch’era tanto iniquo per quanto più era Egitto, acconsenti alle nozze, ma impose alle figliuole l’infame comandamento che fu causa della morte dei quarantanove figliuolo di Egitto V. Danaidi.
È opinione generalizzata presso i cronisti più accreditati che Egitto regnasse trecento e sei anni prima della guerra di Troja.
Le tradizioni ricordano di un altro Egitto, figliuolo di Neilco, e fondatore della città di Priene.
1594. Egia. — Ninfa figlia del Sole e di Nereo, fu una delle più belle fra le Naiadi. Allegra e spensierata, faceva sovente vittime dei suoi scherzi i pastori e perfino gli dei campestri. La favola narra che avendo un giorno rinvenuto il vecchio Sileno che, preso dal vino, dormiva profondamente, essa chiamò due Satiri, Monatilo, e Cronide e con essi d’accordo, legò le mani al dormente con una catena di fiori, e gli unse il viso con il succo delle gelse more.
Egla era anche il nome di una delle tre Esperidi, della madre delle Grazie ; e finalmente di una delle tre Grazie.
1595. Egle. — Così veniva chiamata una figliuola di Epione e di Esculapio : essa fu sorella del famoso Maccaone. V. Macaone.
1596. Egnatia. — Ninfa riverita come una dea nella Puglia in cui gli abitanti credevano generalmente che il fuoco si appiccasse da sè stesso alle legna su cui si ponevano le vittime che le venivano immolate.
1597. Egobolo V. Egibolo.
1598. Egocero. — Soprannome del dio Pane, che a lui veniva da una parola Greca che {p. 124}significa capro, perchè egli essendo stato posto dal volere di Giove fra gli astri, aveva preso nel cielo la figura di un Capro.
1599. Egofaga. — Detta anche Caprivoca, vale a dire che divora le capre. Con questo soprannome i Lacedemoni indicavano Giunone, perchè gran numero di quegli animali le venivano immolati nei suoi sagrifizii.
1600 Egofora. — La tradizione favolosa ci ricorda in proposito di Questo soprannome della Dea Giunone che Ercole, dopo assersi vendicato dei suoi nemici, avesse fabbricato un tempio a Giunone in ringraziamento di non averla trovata ostile alla sua vendetta ; e le avesse sacrificato una Capra ; da cio il soprannome di Egofaro che significa porta capra.
1601 Egollo. — Giovanetto Cretese il quale in compagnia di altri suoi campagni entro in una caverna consacrata a Giove, (che secondo la tradizione era nato in quella) onde derubare il mele che una immensa quantità di Ape vi lavoravano. Egolio e i suoi amici onde evitare le punture di quegli animali si erano ricoperti di armature di rame ma Giove sdegnato della loro tracotanza stava già per fulminarli, allorchè Teni Leparche, gli fecero osservare che non era conveniente farli morire in un luogo sacro come quello, e allora Giove cangio quegli sconsigliati in uccelli notturni.
1602 Egone. — Famoso atleta il quale per dutamente innammorato della giovanetta Amarilli, trascino per i piedi un Toro furioso fin sulla vetta di un’altissima montagna, onde farne dono alla donna che amava.
La cronaca tradizionale ripete che la forza di Egone non fosse minore del suo appetito, mentre ad un banchetto a cui era stato invitato mangio senza soffrirne ottanta focaccie.
Egone fu anche il nome di uno dei re degli Argiri, i quali quando mori l’ultimo degli Erachidi, che reggeva il loro governo, consultarono l’oracolo onde sapere chi avessero dovuto in nalzare al potere. L’oracolo rispose : che un’aquila avrebbe palesato la volontà dei numi, ed essendosi dopo pochi giorni uno di questi animali posato sulla casa di un cittadino per nome Egone, questi venne all’istante proclamato re.
Egone era similmente il nome di varii pastori dei quali per altro la tradizione mitologica non ricorda alcun fatto importante.
1603. Eldotea. — Figliuola di un nume marino a cui i Pagani davano il nome di Proteo. Narra la cronaca che Menelao, ritornando dall’assedio di Troja fosse da una tempesta costretto a ricoverarsi in un’isola deserta nelle vicinanze dell’Egitto e che egli fosse costretto a far colà una lunga dimora perchè i venti spirarono per molti giorni per modo da rendere affatto impossibile l’uscita dall’isola. Tidotea mossa a pietà di Menelao, usci dal mare onde venire in soccorso di Lui, egli apprese il modo di rendersi Proteo favorevole. V. Menelao e Proteo.
1604. Eirena. — Detta anche semplicemente Irena : nome che i dei davano alla Pace.
1605. Elseterie. — In Atene celebravasi in alcune feste a cui si dava cotesta appellazione, e nelle quali si offrivano ricchi sacrifizii a Giove ed a Minerva per la prosperità della repubblica.
1606 Ejona. Cosi ebbe nome una delle cinquanta Enereidi.
1607 Ejoneo.Fu l’avo di Issinione : egli perdette la vita per l’astuzia di suo genere. V. Issinione.
1608. Elafebolle. — Festa celebrata dagli Ateniesi in onore di Diana : venivano cosi dette da una parola greca che significa Cervo, perchè in queste ceremonie si offerivano alla Dea delle focacce che avevano la forma di quegli animali. Da questo costume si dava a Diana il soprannome di Elafebolia o Tlafibola ; e siccome coteste feste si celebravano nel mese di febbraio, cosi questo fu chiamato Elafebalion.
1609. Elafoballa. — V. l’articolo precedente.
1910. Elagabalo. — In una città dell’alta. Siria per nome Emesa si adorava dagli abitanti una deità a cui essi davano il nome dil Elagabalo, e che comunemente si ritiene essere stata il Sole ; e che veniva rappresentata sotto la figura di un gran cono di pietra.
1611. Elaisa. — Una delle tre figliuole di Anio re dell’isola di Elato.
1612. Elatelo. — Cosi veniva comunemente Chiamato Ceneo, per essere figliuolo di Elato.
1613. Elea. — Uno dei soprannomi di Diana.
1614. Eleeno. — Soprannome di Giove a lui venuto da un ricchissimo tempio che aveva in una città del Peloponnese chiamata Elts.
1615. Elefante. — Si riteneva questo animale come simbolo dell’eternità, a cagione della lunghissima durata della sua vita.
Nei misteri di Bacco erano sovente adoperati degli Elefanti per ricordare il viaggio che quel Dio faceva nell’Indie.
Presso gl’Indiani, e segnatamente nel regno di Bengala venivano tributati gli onori divini agli Elefanti bianchi.
1616. Elefenore. — Figliuolo di Calcodonte e discendente della stirpe di Marte. Al dire di Omero egli comandava gli Abanti di Eubea che aveva condotto all’assedio di Troja sopra quaranta vascelli.
{p. 125}……………il prenceDi magnanimi Abanti, ElefennoreFiglio di Calcodonte.Omero — Iliade — libro VI. trad. di. V. Monti.
Il bellicoso Elefenor, figliuoloDi Calcodonte, e sir de’prodi Abanti……………………E quaranta di questi eran le vele.Omero — Iliade — lib. II. trad. di V. Monti.
1617. Eleidi. — Soprannome delle sacerdotesse di Bacco, che venivano così dette dal rumore che facevano nelle orgie dei baccanali. V. Eleleeno.
1618. Eleleeno. — Cioè che fa molto strepito : si dava cotesto soprannome a Bacco per alludere al gran rumore che si faceva nella celebrazione dei suoi misteri.
1619. Elena. — È questo uno dei più interessanti nomi della mitologia, avuto anche riguardo al dubbio ed alla incertezza degli avvenimenti di cui essa fu l’eroina. Poeti, scrittori, mitologi e cronisti d’ogni sfera, han descritto a loro talento i più dettagliati particolari di tali avvenimenti. Noi però ci atterremo alla stretta esposizione di quei fatti, che per essere più generalmente ripetuti dagli scrittori più rinomati, sono ritenuti come veri e positivi.
Elena fu figlia di Leda e del re Tindaro ; fu sorella di Castore, di Polluce e di Clitennestra, sebbene la tradizione della favola ripeta che tutti questi figli, ed Elena stessa, fossero nati dagli amori che Giove ebbe con Leda — V. Castore e Polluce.
Tindaro Re d’Ebalia fu consorteDi Leda, la qual Testio ebbe per padre :Giove in forma di cigno oprò di sorte,Che d’un uovo e tre figli la fè madre,Fra gli altri di quell’uovo usci la morteDelle superbe già Trojane squadre :Dico colei. ch’ebbe si raro il voltoChe ne fu il mondo sotto sopra volto.Ovidio — Metamor. — Lib. VI trad. di Dell’Anguillara.
Ebbe fama d’essere insieme la più bella e la più lasciva e corrotta donna dei suoi tempi. La bellezza di lei levò tanto grido, fino da’ suoi primi anni, che Teseo, affascinato alla vista di una così incantevole creatura, la rapì un giorno che essa insieme, ad altre fanciulle della sua età, eseguiva nel tempio di Diana, la danza detta dell’Innocenza, nella quale le donne ballavano nude innanzi al simulacro della Dea. Il rapitore portò seco Elena, dapprima a Tegea e poscia ad Afiana, dove, essendo essa divenuta incinta, Teseo la lasciò affidata alla custodia di Etra, madre di lui ; ma fu liberata dai suoi due fratelli Castore e Polluce, i quali la ricondussero a Sparta, ove essa dopo qualche tempo dette alla luce una bambina. Queste scandalose avventure lunge dal nuocere ad Elena accrebbero invece la già famosa rinomanza della sua divina bellezza, e tanto che ben quaranta fra i più rinomati principi della Grecia, dimandarono la sua mano ; ma il preferito fu Menelao, nipote di Atreo, re di Micene. I primi tempi di questo imeneo volsero lieti per la coppia avventurata, ma ben presto il destino cangiò in amara angoscia la gioia di che sembrava aver da principio sparsa la loro esistenza. Un bel giorno Paride, figlio di Priamo, re di Troia, giunse alla corte di Menelao, e la fatale bellezza di Elena lo innamorò perdutamente, ed essendo in egual modo corrisposto da lei, la indusse assai facilmente ad abbandonare il consorte, a calpestare i più santi doveri d’una moglie ed a fuggir seco alla corte di Priamo, ove la sposò. Fu quest’oltraggio fatto a Menelao, la vera cagione della sanguinosa guerra tra Greci e Troiani, che finì con la totale distruzione della città di Troia, dopo che i Greci l’ebbero assediata pel non breve spazio di dieci anni.
Elena vidi, per cui tanto reoTempo si volse……Dante — Inferno — Canto V
Elena dico. origine e cagioneDi tanti mali, e che fu d’Ilio e d’ArgoFuria comune.Virgilio — Eneide Lib. II. trad. di A. Caro.
Paride morì in battaglia nell’ultimo anno di quell’assedio memorabile, ed Elena fu tolta in moglie da Deifobo, altro figlio di Priamo, col quale alcuni scrittori dicono che fin dal tempo in cui Paride vivea, avesse ella avuto carnale commercio — V.Deifobo — Ma sebbene doppiamente legata alla famiglia di Priamo coi più santi vincoli del sangue, non si astenne dal seguire gl’impulsi del suo animo vizioso e corrotto, e quando vide imminente la caduta della città, pensò di riguadagnare la grazia del suo primo marito Menelao, col tradire i Troiani. Di notte tempo fece accendere molte torce sulla sommità della cittadella, dopo aver fatto avvisare i capitani dell’esercito greco, che a quel convenuto segnale avrebbero trovati i Troiani immersi nel sonno.
…… Una gran face in manoRiprese, e diè con essa il cenno ai Greci.Virgilio — Eneide L. VI trad. di A. Caro.
Ella stessa introdusse Menelao nella camera ove dormiva Deifobo, il quale subì prima le {p. 126}sevizie dei soldati greci, e poscia fu scannato nel proprio letto. L’animo abbietto di Menelao si tenne pago e soddisfatto della vendetta esercitata sopra i Troiani e riconciliatosi di buon grado con l’adultera sposa, la condusse come in trionfo a Sparta, dove ella restò fino alla morte di Menelao, avvenuta qualche tempo dopo, epoca in cui i Greci la scacciarono dalle loro città, ed essa prese rifugio presso Polixa regina dell’isola di Rodi, la quale però altamente sdegnata contro di lei per averla trovata fra le braccia di Tlepolemo, suo consorte, la fece segretamente strozzare, facendole così scontare gl’innumerevoli mali di cui la sua fatale bellezza e la lascivia dei suoi costumi era stata cagione.
Elena si chiamò pure una giovanetta Spartana che, secondo la tradizione, fu dalla sorte destinata ad esser vittima espiatoria in un sagrifizio, che i Lacedemoni aveano avuto imposto dall’oracolo, onde ottenere dal cielo la cessazione di una terribile pestilenza.
Al momento in cui tutto era pronto pel sacrifizio, un’aquila rapì dall’altare il coltello, e lo lasciò cadere sulla testa d’una giovenca, la quale fu immolata invece della giovanetta Elena.
1620. Eleno. — Uno dei figliuoli di Priamo. Amò una giovanetta per nome Cassandra e la favola racconta che dormendo un giorno con lei nel vestibolo interno di un tempio, due draghi s’insinuarono sino ad essi, e senza danno lambirono loro le orecchie. Da quel giorno i due amanti divennero due famosi indovini.
Cui non son de gli Dei le menti occulte,Che Febo spiri e ’l tripode e gli alloriDel suo tempio dispensi, e de le stelleE de’ volanti ogni secreto intendi.Virgilio — Eneide — libro III. trad. di A. Caro
Eleno fu tra i suoi fratelli quello che più sì distinse all’ assedio di Troja. Comandava la terza colonna delle schiere Priamee, il giorno in cui uccise di sua propria mano Deiporo.
Grande e battuta su le tracie incudiAlza Eleno la spada, ed alla tempiaDeiporo fendendo gli dirompeL’elmo, e dal capo glielo sbalza in terra.Ruzzolò risonante la celataFra le gambe agli achivi, e fu chi tostoLa raccolse : ma negra eterna notteDeiporo coperse.Omero — Iliade — libro XIII trad. di V. Monti
E feri Achille in un braccio in virtù dell’arco di oro che Apollo gli aveva regalato, senza di che sarebbe stato impossibile ferire Achille che era invulnerabile — V. Achille — quando Elena, vedova di Paride, sposò Deifobo, — V. Deifobo — , Eleno si recò presso Crise, e poi dimorò sul monte Ida ; ma siccome stava nel fato di Troja, che la città non poteva esser presa senza la presenza di lui, così l’indovino Calcante ne avvisò i Greci, i quali, dietro il parere di Ulisse e degli altri capi dell’esercito, s’impadronirono di Eleno con l’astuzia. Giunto al campo nemico egli predisse ai Greci che non avrebbero mai distrutta Troja, se non avessero prima indotto Filottete ad abbandonare la sua isola, e portarsi nel campo Greco, con le frecce di Ercole.
In seguito Eleno, divenuto schiavo di Pirro, figliuolo di Achille, seppe guadagnarsi l’affetto del suo signore, avendogli predetto molti prosperi successi, ed una felice navigazione.
L’avverarsi di tutte queste liete profezie, e più ancora l’avere Eleno distolto Pirro da un viaggio in cui perirono tutt’i passeggieri, fu causa della fortuna di Eleno, poichè Pirro, riconoscente ai buoni consigli di lui, gli dette in moglie Andromaca vedova di Ettore, che a lui era toccata in sorte come preda del bottino di guerra nella presa di Troja.
…… e fu ch’Eleno, figlioDi Priamo, re nostro, era a quel regnoDi greche terre assunto, e che di PirroE del suo scettro e del suo letto eredeTroiano sposo, a la trojana AndromacaS’era congiunto.Virgilio — Eneide — Libro III. Trad. di A. Caro.
E gli dono gran parte dell’Epiro, che egli in memoria di un suo fratello per nome Caone, da lui involontariamente ucciso, chiamò Caonia. — V. Caone.
…… e questa parteDe la Caonia ad Eteno r. caddeChe dal nome dl Caône trojanoCosì l’ha detta.Virgilio. — Eneide — Libro III trad. di A. Caro.
Eleno regnò molti anni su quella contrada, e al momento della sua morte istituì erede il figlio di Pirro, per nome Molosso, mentre al suo proprio figliuolo Cestrino, unica prole avuta da Andromaca, lasciò il governo di alcune poche città, da lui fondate. V. Cestrino.
1621. Elenore — Figlio di un re di Meonia, e di una schiava per nome Licinnia. Fu uno di coloro che dopo l’assedio di Troja, seguirono le sorti di Enea in Italia.
1622. Eleos. — Divinità adorata dagli Ateniesi, i quali avevano, nella piazza maggiore {p. 127}della loro città, un tempio a lei dedicato. Tutti coloro che, o per sventure, o per delitti, si rifugiavano nel sacro recinto di quel tempio, trovavano, presso il popolo Ateniese, protezione e soccorso.
1623. Elettra. — Figlia di Agamennone e di Clitennestra e sorella di Oreste.
… Elettra io son, che al sen ti stringoFra le mie braccia………… Pilade, Oreste, entrambiSgombrate ogni timor, non mento il nome.Al tuo furor, te riconobbi, Oreste :Al duolo, al pianto, all’ amor mio, conosciElettra tu.Alfieri — Oreste, tragedia Atto II. Scena II
All’epoca in cui Agamennone fu trucidato da Clitennestra sua moglie, per istigazione dell’ usurpatore Egisto, Elettra aveva appena 18 anni, e pure in una età così giovanile riuscì a salvare Oreste dalle mani dl Egisto, e lo inviò presso Strofio.
…… oh ! ben sovvienmi :Elettra, a fretta, per quest’atrio stessoLà mi portava, ove pietoso in braccioPrendeami Strofio ……Alfieri — Oreste — Tragedia Atto II Scena I.
Serbandolo così alla vendetta che quegli compì sette anni dopo, epoca in cui ritornato a Micene col suo fido Pilade, ordi, d’ accordo con la sorella, la congiura da cui risultò la morte dei due assassini di Agamennone.
…… Ove introdottiSiate a costni, pensier fla mio, del tutto,Il darvi e loco, e modo, e tempo, ed armiPer trucidario.Alfieri — Oreste — Tragedia Atto II Scena II.
Euripide dice che l’iniqua madre di Eletira per accontentare il desiderio del drudo Egisto, l’ avesse faita sposare ad un contadino, il quale mosso a compassione della trista sorte di lei, lunge dall’ abusare dei diritti del matrimonio la servì come uno schiavo fedele, fino al giorno in che Oreste la dette in moglie a Pilade. L’Eumenidi però straziarono ben presto Oreste per la uccisione da lui compiuta, sebbene inavvedutamente, della propria madre Clitennestra. Elettra, spaventata dal delirio e dalle smanie crudeli del fratel suo, consutò l’oracolo e questi ordinò ad Oreste di andare a rapire la statua di Diana. Egli corse pericolo della vita per compiere questa impresa, e tanto che la notizia della sua morte si sparse rapidamente per l’ Argolide. Elettra allora si recò ella stessa nella Tauride, ove le fu detto che la sacerdotessa Ifigenia aveva ella stessa vibrato il colpo mortale. Elettra a tale annunzio, quasi fuori di sè, armatasi di un tizzone ardente voleva recarsi nel tempio di Diana onde mettervi il fuoco, ma al momento di compiere il suo fatale disegno, sentì arrestarsi da due solide braccia e riconobbe Oreste, col quale ritornò a Micene.
Elettra era anche il nome di una delle figlie di Atlante e di Plejone, la quale sposò Corito, da cui ebbe un figliuolo per nome Iasio. Giove, invaghitosi di Elettra la rese madre di Dardano, che fu poi il fondatore di Troia.
Vi fu finalmente un’ altra Elettra, figlia di Edipo ; ed un’ altra che fu figlia dell’ Oceano e di Teti.
1624. Elettridi. — Piccole isole poste sulla imboccatura dell’ Eridano. In uno dei piccoli laghi, posti in queste isole, cadde Fetonte fulminato da Giove, e da quel tempo le acque di queì lago esalarono un così forte odore di zolfo, e tramandarono dei miasmi così ardenti, che gli uccelli cadevano morti se volando radevano troppo e da vicino la superficie delle acque. Le arene di quelle rive erano piene di una gran quantità di elettro, che è una specie di metallo, la quinta parte del quale è argento e il rimanente è oro : da ciò il nome di Elettridi a quelle isole.
1625. Elettrione. — Anche a riguardo di questo personaggio è grande la disparità dei cronisti della favola. Alcuni pretendono che fosse figlio di Perseo e di Andromeda : altri che fosse figlio di Alceo e fratello di Anfitrione. Il parere più generalizzato è il primo, seguendo il quale Elettrione tolse in moglie sua nipote Anaxo, che lo rese padre di Alcmena, Anfimaco ed altri — V. Anaxo — Da una schiava della Frigia per nome Medea, egli ebbe anche un altro figliuolo detto Licimnio. Ritornando vittorioso della spedizione contro i Telebei, Elettrione, fra le molte prede del bottino di guerra, condusse seco un immenso numero di vacche, tolte al nemico. Essendo Anfitrione andato ad inconirarlo, nel volere arrestare una di quelle giovenche ch’ erasi data alla fuga, le scagliò contro il suo giavellotto ma il ferro invece di colpire l’ animale, percosse Elettrione così violentemente in una tempia, che gli produsse una morte istantanea.
Elettrione era similmente il nome di una giovanetta che secondo la tradizione favolosa era figlia del Sole e della ninfa Rodi. Essendo morta vergine, i suoi concittadini le tributarono gli onori divini.
1626. Eleusi. — Figliuolo di Ogige e di Daira. {p. 128}Egli dette il suo nome alla città di Eleusi nell’Attica. In alcuni scrittori si trova l’opinione che la città ricevesse il nome di Eleusi, parola che in greco significa arrivo, dall’epoca in cui Cerere vi soggiornò per breve spazio di tempo, allorchè, per ritrovare la figlia Proserpina, rapita da Plutone, abbandonò le pianure della Sicilia.
1627, Eleusina. — Cerere veniva così denominata da un magnifico tempio ch’ella aveva nella città di Eleusi, di cui nell’articolo precedente, ove i suoi misteri venivano meglio che altrove celebrati.
1628. Eleusine. — Dette anche Eleusinie : feste celebri in onore di Cerere — V. l’articolo precedente. Queste feste venivano anche dette misteri per eccellenza e duravano nove giorni, nel qual tempo tutt’i pubblici affari erano sospesi ; i tribunali e gli ufficî erano chiusi, e non si poteva condurre alle prigioni i colpevoli di qualunque reato. Ai misteri Eleusini non venivano ammessi che i nativi dell’Attica ; pure si legge, in vari autori, che Anacarsi lo Scita, e Ippocrate, non che Ercole, Castore, Polluce, Esculapio, ed altri, fossero iniziati a quei misteri, per il loro merito personale.
1629. Eleuslo. — Così aveva nome quel greco a cui la dea Cerere insegnò l’agricoltura.
1630. Eleutera. — Bacco, prima d’intraprendere il suo viaggio per le Indie, liberò i popoli della Beozia dalla schiavitù, e fece in memoria di ciò fabbricare una città a cui fu dato il nome di Eleutera.
1631. Eleuteria. — Con questo nome i greci adoravano la dea della libertà.
1632. Eleuterie. — Così venivan dette alcune sacre cerimonie che i greci celebravano in onore di Giove-Eleuterio, vale a dire liberatore.
1633. Eleuterio. — Soprannome che i greci davano particolarmente a Bacco. Essi annettevano a questa parola la stessa significazione che i Latini al loro liber pater.
1634. Eleuto. — Dalla parola greca ῖλεω venire si dava cotesto nome alla dea Lucina, la quale, presiedendo allo sgravo, veniva in tempo per soccorrere le partorienti.
1635. Eliache. — Cosi avevano nome le feste che si celebravano in onore del Sole.
1636. Eliadì. — Venivano con tal nome conosciute le sorelle di Fetonte, figliuole di Elio e di Climene. A cagione del nome del fratello di cui esse piansero la morte sulle rive del Po, e dove furono cangiate in pioppi, esse venivano anche dette Fetontee. La tradizione ripete a traverso il velo di una bellissima allegoria, che anche dopo la loro metamorfosi, quelle pietose continuarono a piangere la morte del loro caro, e che le gocce di ambra che il tronco dei pioppi trasuda continuamente, altro non sono che le lagrime che, nel loro dolore, versano ancora quelle affettuose sorelle.
Eliadi erano similmente chiamati i figliuoli di un re dell’isola di Rodi, chiamato anch’egli Elio.
Quando gli Eliadi giunsero all’età virile, seppero da Apollo, che Minerva, dea della saggezza, aveva risoluto di fissare la sua dimora fra quel popolo che prima di ogni altro le avesse offerto un sacrifizio. Per troppa sollecitudine, gli Eliadi misero il fuoco alle legna preparate pel sacrifizio senza prima aver posto su di esse la vittima ; mentre Cecrope, re degli Ateniesi, profittando di ciò, sacrificò per il primo a Minerva e ottenne che la dea dimorasse in Atene. Da ciò la tanta saggezza degli Ateniesi. Gli Eliadi furono i primi a suddividere l’anno in quattro stagioni : si resero celebri per le cognizioni tecnologiche ed astronomiche, e dettero un grande impulso all’arte della navigazione.
Fra gli Eliadi, che erano sette fratelli di cui al dire di Diodoro ecco i nomi : Macare, Atti, Ochimo, Cercaso, Triopo, Candale e Tenage, il più famoso fu quest’ultimo, il quale fu per gelosia ucciso dai suoi fratelli. Scopertosi il delitto, gli autori di esso fuggirono in diverse contrade per sottrarsi al castigo ; e Atti, traversando l’Egitto, vi edificò una città a cui, in onore di suo padre Elio, dette il nome di Eliopoli. La tradizione aggiunge che Atti fosse il primo ad insegnare agli Egizii il corso delle stelle e degli altri pianeti.
1637. Elice. — Ninfa, figlia di Oleno. Avendo con sua sorella Ega, preso cura dell’infanzia di Giove, questi la trasportò fra le costellazioni, ed è propriamente quella conosciuta sotto il nome di Orsa maggiore, e che, secondo la tradizione, fu la guida costante di tutte le navigazioni dei greci.
Elice fu anche il nome di una città dell’Acaja, ove Nettuno aveva un tempio assai in rinomanza presso i pagani.
1638. Elielo. — I Romani con questo nome adoravano Giove e credevano che pronunziando alcune date parole, fra le quali veniva spesso ripetuto il nome di Elice, il padre dei numi discendesse sulla terra.
1639. Eliconia. — Detta più comunemente Elicona : montagna della Beozia che sorgeva tra il monte Parnaso e il monte Citerone. Questa montagna era consacrata alle muse e ad Apollo, e si credeva che esse vi abitassero quasi sempre, {p. 129}prendendo cura della fontana di Ippocrene e della tomba di Orfeo.
O musa, tu, che di caduchi alloriNon circondi la fronte in Elicona,Ma su nel cielo infra i beati coriHai di stelle immortali aurea corona ;Tasso. — Gerusalemme liberata. — Canto I.
Di voi talmente in ogni parte suonaLa fama, prudentissime sorelle,Ch’a celebrare il monte di EliconaTirato avete tutte le favelle ;Ovidio. — Metamorfosi. — Libro V trad. — Dell’Anguillara.
1640. Eliconiadi. — Nome collettivo delle nove muse abitatrici dell’Eliconia. V. l’articolo precedente.
O titolo di caste EliconiadiPiù vi diletta….Monti. — La Musogonia — Canto Ottava II.
1641. Elide. — Provincia del Peloponneso, celebre nell’antichità per gli spettacoli conosciuti sotto il nome di giuochi olimpici e che si celebravano in onore di Giove Olimpico.
1642. Elio. — Secondo riferisce Diodoro nelle cronache, Elio fu figliuolo di Basilea e di Iperione, e fu dai suoi zii, i Titani, annegato nell’Eridano. Al dire del citato cronista, Basilea non vedendo il figliuolo, si pose a ricercarlo lungo le rive di quel flume, ma stanca del faticoso cammino s’addormentò e vide in sogno il figliuolo che la confortò a non affliggersi della sua morte, giacchè egli era stato trasportato in cielo ove quella flamma conosciuta col nome di fuoco sacro si sarebbe chiamata Elio, cioè il Sole.
1643. Eliopoli. — Cioè città del Sole ; quest’antica contrada dell’Egitto è celebre pel culto del Sole. Alcuni scrittori pretendono che sia la stessa che Tebe. Era antico costume dei Fenici il portare ogni 100 anni in Eliopoli i corpi imbalsamati dei loro parenti e render loro gli onori del rogo.
Da questo costume religioso è forse nata la prima origine della favola del raro uccello Fenice, a proposito del quale Metastasio ha scritto :
Che vi sia, ciascun lo diceDove sia nessun lo sa.
Sorgeva in Eliopoli un superbo e splendidissimo tempio, esclusivamente dedicato al culto del Sole. In quel tempio era un oracolo i cui responsi venivano a chiedere gli abitanti delle più lontane contrade. Sulla parte posta di contro all’oracolo, posava una grande lamina inargentata, specie di specchio che rifletteva i raggi del sole, e collocata in modo che tutto il tempio ne era illuminato di una luce vivissima. Si narra nelle cronache, che allorquando l’imperatore Trajano mosse per la spedizione contro i Parti, vi fu taluno fra i suoi confidenti, che gli consigliò di consultare l’oracolo di Eliopoli, onde sapere quale sarebbe stata la sorte delle sue armi. Trajano che non divideva la superstiziosa credenza dei suoi contemporanei, rispose che non voleva fare il viaggio fino ad Eliopoli, tanto più che qualunque sarebbe stata la risposta dell’oracolo, egli avrebbe sempre compiuta la spedizione, che da lungo tempo meditava. Però avendo il confidente risposto all’obbiezione del suo signore, che non occorreva recarsi di persona onde consultare l’oracolo, ma che era sufficiente scrivere la dimanda su di un pezzo di papiro e mandarlo all’oracolo, Trajano finse di aderire alle brame del suo favorito, e mandò ad Eliopoli un plico suggellato, nel quale però, spinto dalla sua miscredenza, egli non scrisse nessuna domanda ; ma non andò guari che fosse rimorso, fosse, com’è più probabile, imperio delle superstiziose credenze di quei tempi, egli stesso mandò un altro messaggio all’oracolo, col quale gli domandava se dopo la guerra egli sarebbe ritornato in Roma. Per tutta risposta egli ebbe dall’oracolo una vite fatta in pezzi.
Macrobio, nelle sue opere, dice che l’evento si avverò in tutta la sua terribile verità, poichè Trajano fu ucciso in guerra, ed in Roma altro non ritornarono che le sue ossa, le quali secondo il suddetto scrittore, erano state figurate nella vite fatta in pezzi.
Oltre ai responsi che l’oraco lo di Eliopoli dava per iscritto, comunicava ancora il suo volere, sia chinando il capo, sia con far cenno con le braccia.
La città di Corinto si chiamava anch’essa Eliopoli, prima di chiamarsi Corinto, nome che le fu dato a causa del calore del clima e dell’aridità del terreno.
1644. Elisa. — Nome primitivo della regina Didone, allorchè fu sposata da Sicheo. V. Didone.
1645. Elisei-Patres. — Cosi venivano denominati i Cartaginesi da Elisa, poi detta Didone, che fu la fondatrice dell’impero di Cartagine.
1646. Elisi-Campi. — Parte degl’inferni in cui i poeti dell’antichità, immaginarono che regnasse una eterna primavera, e dove le {p. 130}ombre dei giusti godevano di una felicità perfetta.
Sul beato confineOdi intorno spirar soavementeL’aurette oceanine ;Vedi spuntar dorato il fior nascenteDall’amorosa sponda,Dall’arboscel, dall’onda ;E chi sen fa monili,E chi ne intreccia al crin serti gentili.Pindaro — Ode II trad. di G. Borchi.
Grand’è la disparità delle opinioni tanto degli antichi, quanto dei moderni filologi, nel definire la posizione topografica dei campi Elisi. Taluni vogliono che stessero presso l’Egitto : altri poco lungi da Lesbo, chi in Italia ; chi nelle isole Fortunate ; chi nel paese della Betica, oggi Andalusia in Ispagna ; ed altri finalmente nel centro della terra. Quest’ultima opinione è la più accreditata, e quella seguita dai più rinomati cronisti della favola.
Pindaro ed Esiodo ripetono, che Saturno era il sovrano dei campi Elisi ; ove egli regnava con sua moglie Rea. Omero e Virglio scrissero che gli eroi, abitatori di quel celeste soggiorno, trascorressero il tempo in occupazioni degne della loro grandezza. L’ombra di Achille, combatte le belve : quella di Ettore Troiano, addestra i cavalli ; ed altre finalmente cantano, accompagnandosi col suono della lira, l’eroiche gesta dei semidei.
È però a notare che i poeti osceni, di cui non è certo penuria fra gli scrittori dell’antichità, ripetono che gli abitatori degli Elisi, avessero in premio della loro virtù sulla terra, tutte le più raffinate lascivie che il genio della voluttà potesse mai immaginare.
1647. Elle. — Sorella di Frisso e figlia di Nefelea e di Atamante, re di Tebe. La cronaca mitologica narra, che stanca delle crudeli persecuzioni che la matrigna le faceva patire, ebbe il coraggio di mettersi in mare a cavallo del famoso ariete dal vello d’oro, e traversare lo stretto che divideva la Troade dalla Tracia e fuggire in Colco. Allorchè ella si vide in mezzo alle onde, il coraggio che fino allora l’aveva accompagnata, l’abbandonò per modo che affogò miseramente, rendendo, con la sua morte, celebre quel tratto di mare, che da lei fu detto Ellesponto.
1648. Ellera. — Questa pianta, che più comunemente si chiama edera, era consacrata a Bacco, perchè, secondo la tradizione favolosa, quel nume stette molto tempo nascosto sotto la forma di essa ; o secondo altri perchè l’eterna giovanezza del dio del vino, è benissimo raffigurata da questa pianta, sempre verdeggiante.
Presso i pagani, si coronavano d’edera i poeti, perchè le poesie venivano generalmente consacrate a Bacco, ed eccitavano l’entusiasmo.
…… o, pastori d’Arcadia, ornate di corona d’ellera, il poeta…Virgilio — Egloga VII.
Me traggono al consorzio degli deiL’edere, premio delle dotte fronti.Orazio — Odi — Lib. I. trad. di Toriglioni.
1649. Ello. — Al dire di Esiodo, era questo il nome di una delle Arpie, figliuola di Elettra e di Tamante.
1650. Ellotia. — Detta anche Ellozia : festa che si celebrava in Grecia in onore di Europa Ellote, e durante la quale si portava in giro una enorme corona di mirto, che, secondo la tradizione, si chiamava Ellotide, ed aveva venti cubiti di circonferenza.
1651. Ellotide. — In Corinto si dava cotesto soprannome a Minerva, dall’epoca in cui avvenne il fatto seguente.
Essendosi i Doriesi resi padroni della città di Corinto, essi appiccarono il fuoco al tempio di Minerva, fra le cui fiamme morì arsa la sacerdotessa Ellotide che lo aveva in custodia. Qualche tempo dopo una terribile pestilenza devastò il paese, e gli abitanti ricorsero all’oracolo onde sapere il modo di far cessare il flagello. L’oracolo rispose che bisognava rifabbricare il tempio di Minerva, e placare con grandi sacrifizii l’ombra della morta sacerdotessa. I Corinti seguirono l’uno e l’altro ordine dell’oracolo, ed in memoria di questo fatto dettero a Minerva stessa il soprannome di Ellotide.
I Cretesi, a somiglianza dei Corinti, dettero il nome di Ellote ad Europa allorchè la innalzarono agli onori divini, e celebrarono in onore di lei la festa di cui nell’articolo precedente. V. Ellotia.
1652. Elmo di Plutone. — I Ciclopi che, secondo la favola, fabbricavano i fulmini a Giove ebbero da Plutone l’incarico di fargli un elmo che aveva la singolare proprietà di rendere invisibile chi lo portava. La tradizione mitologica ripete, che quando Perseo ando a combattere la Gorgone Medusa, ottenne in prestito da Plutone, il suo elmo.
1653. Elonoforie. — Si dava questo nome ad alcune feste, nelle quali i Greci portavano alcuni vasi di giunco, a cui essi davano il nome di Elene.
1654. Elpa. — Figliuola del Ciclope Polifemo, Ulisse la rubò al padre, ma i Lestrigoni alleati, {p. 131}del famoso gigante, la tolsero al rapitore, e la restituirono al padre. V. Polifemo.
1655. Elpenore. — Fu uno dei compagni di Ulisse che, insieme agli altri seguaci di lui, fu dalla maga Circe, cangiato in majale. Avendo riacquistata la primitiva sua forma, egli corse con tanta velocità, onde raggiungere i suoi compagni, la cui nave già stava per far vela, che precipitò da una rupe assai alta e si uccise.
Un Elpenore v’era, il qual d’etadeDopo gli altri venia, poco nell’armiForte, nè troppo della mente accorto.……………………. e caddePrecipite dall’atto : il collo ai nodiGli s’infranse, e volo l’anima a Dite.Omero — Odissea Lib. XI. trad. di I. Pindemonte.
1656. Elpide. — Così avea nome quel cittadino di Samo, il quale in questa sua città, edificò il tempio di Bacco, noto sotto la strana denominazione di Bacco dalla bocca aperla. Plinio, nelle sue cronache, e con lui varii altri scrittori dell’antichità, narrano che essendo Elpide approdato in Africa, s’imbattesse in un leone che restò fermo innanzi a lui, con la bocca spalancata. Elpide, impaurito pensò sottrarsi al pericolo con la fuga, e si arrampicò su di un albero, ai piedi del quale il leone andò a distendersi aprendo continuamente la bocca, piuttosto in atto di domandare sollievo ad una sofferenza, che in attitudine minacciosa Elpide allora, sorpreso di quanto vedeva, promise a Bacco di dedicargli un tempio, e invocando la protezione di quel dio, discese dall’albero, si accostò all’animale, e si accorse allora che i lamenti di quello venivano dallo avere un osso a traverso la gola, che gli cagionava una dolorosa ferita. Elpide non esitò un momento ad immergere il suo braccio nella gola dell’animale, liberandolo così dalla sua sofferenza.
In memoria di questo fatto, ed in rendimento di grazie al nume che Elpide aveva invocato nel suo pericolo, egli, ritornato in Samo, innalzò a Bacco Samio un tempio assai ricco.
1657. Eleuro. — Nella mitologia Egiziana si dava cotesto nome al dio dei gatti.
1658. Emacuria. — Nel Peloponneso si celebrava una festa in onore di Pelopo, nella quale i giovani recatisi sulla tomba di lui combattevano una specie di duello con delle verghe, e solo cessavano dal duellarsi, allorchè il sangue di uno dei combattenti gocciolava sul sepolcro.
1659. Ematia. — Nome col quale s’indicavano le diverse contrade della Macedonia e più particolarmente la Tessaglia.
1660. Ematione. — Famoso masnadiere, figlio di Titone.
Feroce e sanguinario egli trucidava tutti i viandanti che cadevano nelle sue mani. Ercole lo uccise e le contrade da lui liberate furono dette Ematie.
1661. Emilo. — Detto anche Emilio, figlio di Ascanio, dal quale la patrizia famiglia degli Emilii pretendeva di discendere.
1662. Emitea. — In una città della Caria, nota nella geografia antica sotto il nome di Castabea si adorava una divinità chiamata Emitea. Le veniva attribuito un potere estesissimo, e si credeva generalmente che tutt’i malati che dormissero una notte nel recinto del tempio a lei dedicato, si trovavano l’indomani risanati del tutto.
Era inoltre Emitea ritenuta come protettrice dei parti ond’è che le donne incinta ne invocavano la protezione con ricchissimi doni.
L’opinione della potenza soprannaturale di questa divinità era estesa e divulgata per tutta l’Asia per modo che il suo tempio nella città di Castabea era carico di ricchezze immense, mandandosi continuamente da tutte le città circonvicine doni ed offerte ad Emitea di una ricchezza favolosa. Il suo tempio, sebbene non circondato di mura, fu sempre rispettato, e per sino i Persiani che spogliarono tutt’i templi della Grecia, lasciarono intatti i tesori raccolti in questo.
Tutti i mitologi e cronisti dell’antichità parlano di questa divinità, il cui nome primitivo era Malpadia, e che poi fu detta Emitea, dalla parola Greca Ἐμιδεα Semidea, secondo che suona il vocabolo stesso di Emitea.
1663. Emo. — Re della Tracia, il quale con sua moglie Rodope, volle farsi dai suoi sudditi adorare sotto la figura di Giove e di Giunone.
Gli dei, sdegnati della loro stolta superbia, li cangiarono entrambi in due montagne, note sotto l’istesso nome di Emo e di Rodope. Secondo la tradizione favolosa, Emo fu figliuolo di Oricia e di Borea.
1664. Emone. — Figliuolo di Creonte Re di Tebe : amò passionatamente Antigone figlia di Edipo. Allorquando Creonte condannò a morte Antigone per aver dato sepoltura a Polinice,
In me, deh volgiIl tuo furore in me — Qui sola io venni,Sconosciuta, di furto : in queste soglieDi notte entrai, per ischernir tua legge.Di velenoso sdegno, è ver, che aveaGonfio Antigone il cor ; disegni milleVolgeva in sè : ma tacita soffrivaPer l’orribil divieto ; e s’io non eraInfranto mai non l’avrebbe ella.Alfieri. — Antigone. — Trag. Atto 2. Scena 2.
{p. 132}Emone andò a gittarsi ai piedi di suo padre, onde supplicarlo a revocare il crudele comandamento ; ma non avendo potuto piegare il crudele animo del re, si recò sul luogo del supplizio, e quivi vedendo la sua amata Antigone sospesa al nodo che essa stessa aveva formato del suo velo, l’abbracciò fortemente, e pazzo di dolore, empì l’aria di altissime grida, imprecando sul capo del padre le maledizioni del cielo. Ed essendosi il re stesso portato a vedere se i suoi ordini fossero stati eseguiti, Emone brandì il ferro contro suo padre, e l’avrebbe ucciso, sè questi non si fosse sottratto al furore del figlio con la fuga. Allora Emone rivolse contro se stesso tutto il suo furore e abbracciando anche una volta Antigone, esalò l’estremo sospiro sul seno dell’amata fanciulla.
…. e là nel fondo dello specoLei veggiam d’un capestro al collo attortoPendere, e lui fra sue braccia serrarla,E plorarne la morte, e le traditeNozze, e l’opre del padre. Il padre a lui,Tosto che il vede, alto sclamando accorre,E con rotti singulti : Oh sciagurato !« Oh ! che mai festi ? e che pensier fu il tuo ?In qual guisa ti perdi ? Esci, deh figlio,Esci : vien meco ; lo te ne prego » — TruceLo guata il figlio, e minaccioso in faccia,Senza parlar que’detti rigettando,Il ferro trae : scampò fuggendo il padre :Misero : allor contro sè stesso iratoSovra l’acciar slanciandosi, sel figgeMezzo nel fianco, e con tremole bracciaStringe al petto la vergine, e versandoIn copia il sangue, e anelando, le spiraSu la candida guancia il fiato estremo.Presso all’estinta ei per tal guisa estinto,Sceso è nell’Orco a far sue nozze ; all’uomoInsegnando cosi, quanto per l’uomoInsana mente è d’ogni male il peggio.Sofocle. — Antigone. — Tragedia. trad. di F. Bellotti.
1665. Empanda. — Si dava cotesto nome a quella divinità sotto la cui protezione si credeva che stessero i villaggi.
1666. Emploei. — Pubblici giuochi celebrati con molta solennità dagli Ateniesi, i quali vi si recavano coi capelli intrecciati di nastri e di fiori.
1667. Empoleo. — Soprannome di Mercurio che veniva con esso riverito come protettore dei mercanti.
1668. Empusa. — Fantasma femminino che secondo la cronaca favolosa aveva un sol piede, e si transformava sotto le più spaventevoli sembianze. Secondo Aristofane, nelle opere, si attribuiva ad Ecate, il potere d’inviare questo fantasma ai colpevoli onde tormentarli. Forse Empusa altro non è che la personificazione del rimorso.
1669. Encaddiri. — Presso i Cartaginesi venivano così denominati i sacerdoti addetti al servizio di alcune loro particolari divinità.
1670. Encelado. — Il più formidabile fra i Titani che vollero dare la scalata al cielo. Era figlio del Tartaro e della Terra.
Anche a proposito di questo famoso personaggio della favola, sono divergenti e contrarie le opinioni ed i pareri a noi trasmessi dagli scrittori dell’antichità. Vogliono alcuni che Giove rovesciasse su di Encelado, il monte Etna e lo seppellisse sotto di questo. I poeti da ciò finsero che le eruzioni di questo vulcano, le quali scossero talvolta fino nelle visceri profonde, l’intera isola di Sicilia, altro non fossero che gli inutili conati e gli sforzi impotenti che di tratto in tratto il fulminato gigante ritenta onde volgersi su i fianchi, e che al suo più piccolo movimento l’Etna vomiti dal suo cratere, torrenti di lava devastatrice.
Vincenzo Monti nelle sue magnifiche ottave della Musogonia, ove dipinge la guerra dei Titani contro Giove, così si esprime, narrando il fatto a cui noi accenniamo, sebbene egli lo riporti chiamando Encelado, col nome di Tifeo ; e ciò perchè in alcune cronache dell’antichità, questi due Titani, sono di sovente scambiati l’uno con l’altro.
Schiaccia l’immensa fronte Etna sublime,Di fornaci e d’incudi Etna tonante ;Quindi come il dolor dal petto esprime,E mutar tenta il fianco il gran gigante,Fumo e flamme dal sen mugghiando erutta…Ne trema il monte e la Trinacria tutta.V. Monti — La Musogonia — Canto.
Altri narra che Encelado fosse schiacciato sotto il carro di Minerva. Altri pretende che egli fosse già in fuga e che Minerva lo arrestasse gettando l’isola di Sicilia innanzi ai suoi piedi. Però la gran maggioranza degli scrittori attribuisce questa ultima impresa a Giove fulminatore.
Secondo riferiscono Eschilo e Pindaro, il gigante fulminato sotto l’Etna, fu il Titano Tifeo ; e questa è la credenza seguita, come vedemmo più sopra dal nostro V. Monti. Seguendo l’opinione di Callimaco, l’Etna ricopre Briareo.
Questa differenza d’indicazioni, à, ciò non pertanto, un punto di contatto eguale e costante nella generalità dei cronisti ; eguaglianza che emerge dalla etimotogia stessa dei nomi. In fatti, la parola Encelado, significa rumore interno, sotterraneo rimbombo mentre la parola Tifeo, implica in sè stessa l’idea del fumo ; immagini e configurazioni queste, che si addicono entrambi con assai convenienza ad un vulcano.
{p. 133}La cronaca fa anche menzione di un altro Encelado, che fu uno dei cinquanta figli di Egitto che sposò una delle cinquanta Danaidi la quale, a somiglianza delle altre sue sorelle, uccise il proprio marito la prima notte delle nozze. V. Danaidi — Egitto.
1671. Encenie. — Festa celebrata dai Greci allorchè si consacrava un nuovo tempio ad una divinità.
1672. Endeide. — Detta anche Endia o Endeja. Fu figlia del centauro Chirone, e moglie di Eaco, che la rese madre di Telamone e di Teleo.
1673. Endimione. — Pastore della Caria, famoso per la sua bellezza, era nipote di Giove il quale, avendolo sorpreso un giorno fra le braccia di Giunone, lo condannò a dormire per lo spazio di trent’anni. In seguito, egli fu passionatamente amato da Diana, la quale per visitarlo abbandonava di notte il cielo, ravvolta in una nube. V. Diana. Da questo commercio nacquero diversi figli.
1674. Endoco. — Discepolo di Dedalo, che si rese celebre quasi quanto il suo maestro. In una piccola città della Grecia, nelle circostanze di Atene, si ammirava una statua di Minerva seduta, che era opera di lui, e che veniva altamente pregiata. Egli aveva pel suo maestro una grande amicizia, e nel tempo della disgrazia di lui, lo accompagnò sempre, professandogli la più sentita gratitudine.
1675. Endovellico. — Gli abitanti della Spagna adoravano, sotto questo nome, una divinità la quale, insieme ad Ercole, formava la coppia degli Dei tutelari degli spagnuoli.
1676. Enea. — Principe del ramo secondario della reale famiglia di Troja : fu figlio di Anchise e della dea Venere.
……… Enea preclaro figlioDel magnanimo AnchiseOmero — Iliade — libro V. trad. di V. Monti.
Vide la luce sulla riva del Simoenta, ai piedi del monte Ida, e fino all’età di cinque anni fu allevato dalle Driadi, ninfe alla cui custodia la dea sua madre lo aveva affidato. Ricondotto a Dardano nella casa paterna, ebbe a maestro il centauro Chirone, il quale sviluppò in lui i buoni germi della semi-celestiale sua origine ; e lo addestrò in tutti quegli esercizii che allora formavano l’educazione di un eroe ; compiuta la quale tolse in moglie Creusa, una delle figlie del re Priamo, e la rese madre di un figlio, chiamato Ascanio o anche Julo o Julio.
Allorchè Paride giunse con la rapita sposa di Menelao, alla corte di Priamo, Enea previde le fatali conseguenze che un tanto oltraggio avrebbe trascinato seco, e fece di tutto onde Elena fosse restituita al marito. Ma nei destini della Trojana gente era scritto altrimenti, e la guerra non tardò a scoppiare accanita e micidiale, fra le due nazioni belligeranti. Sebbene consigliero di pace, la guerra non trovò Enea nè meno ardimentoso, nè meno prode degli altri guerrieri della sua parte ; e ben presto egli fu ritenuto nelle file Trojane, uno dei più valorosi campioni, dopo Ettore ; ed invero egli combattè eroicamente in tutti gli scontri ch’ebbero luogo nel decenne assedio della Trojana città. Enea sostenne un particolare duello col più prode guerriero Greco, con Achille ; ed ebbe uno scontro non meno pericoloso con Diomede, nel quale però Enea, ebbe seco stesso a felicitarsi d’esser figliuolo d’una dea, perchè, senza il favore e la materna protezione di Venere, e l’intervento di Apollo, sarebbe stato ucciso.
Contro il figlio d’Anchise, il bellicosoDiomede si spinge, nè l’arrestaIl saper che la man d’Apollo il copre.Desioso di porre Enea sotterraE spogliarlo dell’armi peregrineNulla ei rispetta un si gran Dio. Tre volteA morte l’assali ; tre volte ApolloGli scosse in faccia il luminoso scudo.Omero. — Iliade — Libro V. trad. di V. Monti.
Nell’accanita pugna presso le trincee greche, Enea uccise di sua mano Cretone ed Arfiloco, ma fu costretto a piegare innanzi alle schiere comandate da Menelao e da Antiloco. Nelle successive battaglie, Enea si ebbe il comando della quarta colonna di attacco insieme ad Acamante ed Archiloco ; e potè vendicare la morte di suo cognato Alcatoo, trapassando col suo brando il petto di due chiari e prodi guerrieri greci per nome Afareo ed Enomao. Poscia combattendo intorno al corpo di Sarpedonte
Contra l’illustre Sarpedon…………. guerrieroDi gran persona e di gran possa.Omero. — Iliade — Libro V. — Trad. di V. Monti.
prestò man forte ad Ettore, il quale era violentemente attaccato da Ajace, ed uccise di sua mano Jaso e Medone.
….. e tali allor dall’astaD’Enea percossi caddero costoroCol fragor di recisi eccelsi abeti.Omero. — Iliade — Lib. V trad. di V. Monti.
{p. 134}Allorchè Patroclo, l’amico più caro di Achille, fu ucciso da Ettore, Enea fu quello che riaccese nell’animo dei già fuggenti trojani, il desiderio di portare il corpo del prode greco in Troja, quale trofeo del valore dei suoi soldati. Enea tentò varie volte d’impadronirsi dei superbi destrieri di Achille, ma non riuscì mai nel suo intento.
La protezione che Nettuno aveva accordata ad Enea onde accondiscendere alle preghiere di Vonere, madre di lui, gli fu estremamente utile, e potè all’ombra di questa, compiere le valorose sue gesta senza aver mai nulla a soffrire, poichè tutte le volte che Enea correva in uno scentro con l’inimico, un positivo pericolo, Nettuno lo ravvolgeva in una nube invisibile sottraendolo così alle ferite e alla morte.
Udito quel parlar, corse per mezzoAlla mischia e al fragor delle volantiAste Nettuno, e glunto ove d’EneaE dell’inclito Achille era la pugna,Una subita nube intorno agli occhiDel Pelide diffuse…….Omero — Iliade — Libro XX trad. di V. Monti.
Finalmente nella fatale notte in cui Troja cadde, Enea dopo averla eroicamente difesa, ne uscì la notte stessa con tutti quei Trojani che vollero seguire le sue sorti, fuggendo per una porta segreta portando sulle proprie spalle il suo vecchio padre Anchise e per mano il figliuolo Ascanio, e tutti ripararono momentaneamente in una caverna del monte Ida. In questa occas one Creusa sua moglie disperse le tracce del consorte Enea, il quale da quella notte non potette più averne notizia. Le cronache stesse che riportano il fatto doloroso, non tengono più parola della dispersa consorte di Enea. Forse sopraffatta dall’orda irrompente dei soldati vincitori, ella dovè pagare con la vita, e forse anche con l’onore, la triste gloria di esser moglie d’un vinto.
Enea, con tutti i suoi seguaci, potè dopo qualche tempo, imbarcarsi su d’una nave che la favola dice costrutta da Mercurio, e che i poeti e i mitologi fanno diventare un’intera flotta ; e avviandosi verso l’occidente giunse, dopo una fortunosa traversata, nella Tracia ove edificò una città che fu detta Eno, forse dal nome di lui. Recatosi quindi a Delo, fu da Anio, vecchio amico di Anchise, accolto con ogni amorevolezza, e dove, l’oracolo interrogato da Enea su quanto gli restava a fare, additò al principe trojano in modo forse più enigmatico ed oscuro del solito, la meta a cui doveva mirare.
Enea tratto in inganno dall’apparente significato del responso, si portò nell’isola di Creta, ma una violenta epidemia scoppiata in quell’isola, lo costrinse a riparare in Sicilia, ove egli e i suoi Trojani ebbero le più affettuose e cordiali accoglienze da Aceste principe originario della Troade.
Da ultimo Enea recossi in Cartagine ove regnava la regina Didone, la quale secondo la favola dei poeti e segnatamente di Virgilio, perdutamente innamorata di lui, e non potendo distoglierlo dal partire, disperata d’amore, si uccise. V. Didone.
….. e via più bello.Ma di beltà feroce e graziosaLe giva Enea con la sua schiera a lato.Qual se ne va da Licia e da le riveDi Xanto, ove soggiorna il freddo inverno.A la materna Delo il biondo Apollo,Allor che festeggiando accolti e mistiInfra gli altari i Drïopi, i Cretesi,E i dipinti Agatirsi in varie trescheGli s’aggirano intorno : o quando spaziaPer le piagge di Cinto, a l’aura sparsiI bei crin d’oro, e de l’amata frondeLe tempie avvolto, e di faretra armato,Tal fra la gente si mostrava. e taleEra ne’gesti e nel sembiante Enea.Sovra d’ogni altro valoroso e vago.Virgilio. — Eneide — Libro IV Trad. di A. Caro.
Ritornato in Sicilia ove dimorò breve tempo, gittò finalmente l’àncora sul lido Campano, ove ebbe il dolore di perdere la sua tida nutrice Cajeta e il suo fedel seguace Miseno. Enea ad onorare la loro memoria impose il nome della prima ad una città e quello del secondo ad una punta di terra conosciuta anche oggi sotto la denominazione di Capo Miseno. Dimorando nella Campania si recò a Cuma nel tempio dedicato ad Apollo, ove dalla bocca della celebre Sibilla Cumana, s’ebbe la rivelazione delle differenti vicende che ancora doveva affrontare. La tradizione favolosa narra che essendogli guida la stessa Sibilla, Enea discendesse negli inferni, onde visitare l’ombra di suo padre Anchise, morto a Drepano. Ritornato dalla regione delle ombre, andò nel Lazio, ove Latino, re dei Latini, istruito dall’oracolo, fece ad Enea le liete accoglienze, ed avendogli in prosieguo di tempo fatta sposare sua figlia Lavinia lo dichiarò suo successore al trono.
Sola d’un sangue tal, d’un tanto regnoRestava una sua figlia unica erede,Che già d’anni matura, e di bellezzaPiù d’ogni altra famosa era da moltiEroi del Lazio e de l’Ausonia tuttaDesiata e ricerca…….{p. 135}…… A questa il mio paternoOracolo, e del ciel molti prodigiVietan ch’io dia marito altro ch’esterno,D’esterna parte (tal d’Italia è ’l fato)Un genero dal ciel mi si promette,Per la cui stirpe il mio nome e ’l mio sangueErgerassi a le stelle. Or se del veroPunto è ’l mio cor presago, egli è quel dessoCred’io che ’l Fato accenna, e ’l credo e ’l bramo.Virgilio. — Eneide — Libro VII trad. di A. Caro.
Però Turno re dei Rutoli, a cui Lavinia era stata promessa dal padre prima della venuta di Enea, mosse guerra al principe trojano, ma fu da questi vinto e ucciso in battaglia.
E se morto mi vuol, morto ch’io siaRendi il mio corpo a’miei. Tu vincitoreEd lo son vinto. E già gli Ausoni tuttiMi ti veggiono a piè, che supplicandoMercè ti chieggio. E già Lavinia è tua.A che più contro un morto odio e tenzone ?Enea ferocemente altero e torvo………….…….. Ah, disse, adunqueTu de le spoglie d’un mio tanto amicoAdorno, oggi di man presumi uscirmiSi che non muoia ? Muori……………..E, ciò dicendo, il petto gli trafisse.Virgilio — Eneide Libro XII. trad. di A. Caro.
Enea regnò pacificamente per lo spazio di quattro anni, durante i quali sembrò che il destino volesse finalmente accordargli giorni più riposati, ma ben presto i Rutoli, nei quali non era ancora sopito il rancore per la morte del loro re Turno, collegatisi con Mezenzio re dell’Etruria, dichiararono la guerra ad Enea, il quale accettò l’intimazione nemica e ben presto sulle sponde del fiume Numico nell’Etruria, segui una sanguinosa battaglia, le sorti della quale già volgevano contrarie ad Enea, quando egli sparì ad un tratto, e l’opinione degli storici è che egli si annegasse nelle acque del fiume. La favola però dice che Venere, vedendolo coperto di ferite lo avesse trasportato nel cielo, dopo avere con materna sollecitudine lavato il suo corpo nelle onde del Numico ; sulle sponde del quale, ad eterna memoria del fatto fu innalzato un tempio, ove all’eroe trojano furono resi gli onori divini. Anche nella città di Eneo, nella Tracia, Enea veniva adorato siccome un dio.
Enea si ebbe fama, non solo di prode e valoroso guerriero, ma di principe buono e giusto, e di religiosi e pii sentimenti.
e cantai di quel giustoFigliuol d’Anchise che venne da Troja,Poi che il superbo Ilion fu combusto.Dante — Inferno — Canto I.
……. Capo e re nostroEra pur dianzi Enea, di cui più giusto,Più pio, più prò ne l’armi, più sagaceGuerrier non fu giammai.Virgilio — Eneide — Libro I Trad. di A. Caro.
La tradizione mitologica ricorda di un’altro Enea, figliuolo di Cefalo, che succedette nel governo della Focide a Dejoneo, suo avo.
1677. Eneo. — Apparteneva alla famiglia degli Eolidi. Fu figlio di Euride e di Portaone al quale successe nel governo della Calidonia, contrada dell’Etolia, da cui presero quei governanti, e tutt’i loro discendenti, il nome di Eolidi. Eneo sposò in prime nozze una giovanetta per nome Altea, che morì assai presto dopo averlo reso padre di Meleagro e di Dejanira. Unito a Peribea ebbe da questa Tideo che fu poi padre del famoso Diomede. Eneo in età assai avanzata fu cacciato dal trono, da Melas e da Agrio suoi nipoti, ma vi fu rimesso da Diomede. Egli però stanco delle cure del regno, e reso impotente al grave ufficio dalla vecchiezza, abbandonò il reggimento dei suoi stati investendo del supremo potere Andremone suo genero, e si ritirò come semplice privato presso Diomede, ove rese all’avo paterno, gli onori funebri con gran pompa e solennità, e volle che il luogo ove egli morì fosse dal suo nome detto Eneo.
È opinione di varii scrittori che durante la vita di Eneo, avesse avuto luogo la famosa caccia del cignale di Calidonia. È questo, per altro, un parere assai vago.
1678. Enialio. — Figlio di Bellona. Assai di sovente trovasi nelle tradizioni della favola indicato Marte, dio della guerra, con questo nome.
1679. Enia. — Soprannome di Bellona come madre di Enialio. V. l’articolo precedente.
1680. Eniochia. — La più antica città di cui si abbia nozione nella geografia del mondo antico.
Leggesi nella Genesi, che fu fabbricata da Caino, il quale la chiamò così dal nome di Enoc, suo figlio.
« E Cain conobbe la sua moglie. ed ella concepette e partori Henoc. Poi egli si mise ad edificare una città e la nominò dal nome del suo figliuolo Henoc.Genesi — cap. IV. trad. di G. Diodati.
1681. Enloca. — Dalla parola greca Ηυιολ che significa redini, si dava cotesto soprannome a Giunone per indicare ch’essa conduceva da sè stessa il suo carro. Comunemente non si andava a consultare l’oracolo di Trofonio, senza {p. 136}prima offrire un sagrifizio a Giove Re, ed a Giunone Enioca.
1682. Eniopea. — Così avea nome il conduttore dei cavalli di Ettore. Diomede l’uccise sotto le mura di Troja.
1683. Enipeo. — Fiume della Tessaglia. La tradizione racconta ch’egli fu passionatamente amato dalla ninfa Tiro, della quale era nello stesso tempo innamorato Nettuno. Il dio per ingannarla prese le sembianze di Enipeo, e la rese madre di due figli Pelio e Neleo.
1684. Enisterie. — Ossia feste del vino. Cerimonie che venivano celebrate in Atene dai giovanetti avanti di radersi per la prima volta la barba. Nella celebrazione di questa cerimonia i giovanetti portavano nel tempio di Ercole una data misura di vino e facevano libazioni al nume e davano a bere ai circostanti.
La parola Enisteria viene dal greco οωος che significa vino.
1685. Ennea. — Cerere veniva così soprannominata a cagione di un ricchissimo tempio ch’essa aveva nella città di Enna in Sicilia.
1686. Ennofigaso. — Uno dei soprannomi del Dio Nettuno.
1687. Ennomo. — Così aveva nome uno degli Auguri che era ritenuto come uno dei più sapienti dell’Asia. La tradizione ripete che egli comandasse i Miseni ausiliarii dei Trojani nel decenne assedio della loro città. Achille lo uccise sulle rive del fiume Xanto.
1688. Eno. — Così aveva nome una delle figliuole di Anio e di Dorippe. Essa fu con le sue due sorelle cangiata in colomba. V. Anio.
1689. Enodio. — Cioè indicatore di cammino. Così veniva soprannominato Mercurio dal costume in uso presso gli antichi di marcare le indicazioni delle strade con una pietra quatrangolare sulla quale era scolpita una testa di Mercurio.
1690. Enoe. — Antica città dell’Attica posta sulle rive di un fiume del quale, secondo la tradizione, gli abitanti arrestarono il corso per condurne le acque nei loro poderi, credendo così di renderli fertilissimi ; ma furono delusi nelle loro speranze perchè quelle acque guastarono interamente le loro campagne, a cagione delle fosse fatte dalla corrente, per modo che le loro terre divennero affatto inatte alla coltivazione. Da ciò, i greci resero comune il detto di fossa di Enoe volendo additare coloro ch’erano stati a sè stessi causa delle loro sciagure.
La tradizione mitologica ricorda di un’altra Enoe, regina dei Pigmei che fu cangiata in grue.
1691. Enomao. — Re della città di Pisa, in Elide. Le cronache mitologiche dicono, nella gran maggioranza, ch’egli fosse figliuolo della ninfa Arpina, e del Dio Marte. Al dire di Pausania, e di qualche altro scrittore dell’antichità, Enomao fu figlio di Alcione, e padre di una giovanetta bellissima, per nome Ippodamia. Secondo le cronache, Enomao, spaventato da un oracolo che gli aveva predetto ch’egli sarebbe ucciso da suo genero, essendo del continuo assediato dalle richieste che gli si facevano della mano della figlia, impose a questo matrimonio la condizione che lo sposo d’Ippodamia dovesse vincerlo nella corsa ; aggiungendo che coloro i quali volevano accettare questa condizione, sarebbero stati uccisi se riuscivano perditori.
Al dire di Pausania e di Pindaro nei loro scritti mitologici, furono fino a tredici coloro i quali restarono vittime della crudeltà del vincitore, il quale secondo il patto, non essendo stato vinto da essi nella corsa, li fece tutti morire contentandosi di farli seppellire in un luogo eminente.
È detto ancora che il principe Pelope il quale fu il quattordicesimo che accettò la sfida di Enomao, fosse riuscito vincitore essendo Enomao nella corsa caduto, e morto in seguito di quella caduta. Pelope gli succedette nel regno ed istitui una cerimonia funebre nella quale si recava ogni anno ad onorare il sepolcro dei tredici morti nel singolare duello.
1692. Enone. — Figlia del fiume Cebreno nella Frigia.
Fu una delle più belle abitatrici del monte Ida. Apollo se ne invaghì perdutamente, ed essa lungi dal resistergli, si abbandonò alle voglie di lui, che per mostrar le la sua gratitudine le concesse una larga cognizione dell’avvenire, e delle diverse virtù medicinali delle piante.
Avvenne intanto che Paride, al tempo in cui era ridotto alla condizione di pastore, dimorando sul monte Ida seppe farsi amare da Enone, e la rese madre di un bambino che fu chiamato Coritto.
Quando Enone intese che Paride voleva lasciarla per ritornare in patria, fece ogni sforzo per impedirgli il viaggio, predicendogli tutte le sventure che erano per accadergli, ma Paride la scacciò da sè e partì.
Allorchè questo principe fu ferito da Filolette sotto le mura di Troja, andò a ritrovare Enone sul monte Ida, ma questa per vendicarsi lo scacciò dalla sua presenza. Però essendone perdutamente innammorata, lo segui da lungi, col fermo divisamento di guarirlo, ma prima che avesse potuto raggiungerlo, Paride morì, ed essa disperata si strangolò con la propria cintura.
1693. Enopione. — Figlio di Arianna e di {p. 137}Bacco. Allorchè Radamanto, dopo la conquista fatta delle isole del mare Egeo, ne fece la distribuzione, ad Enopione toccò l’isola di Chios, della quale fu proclamato re.
Tolta in moglie la ninfa Elise, ebbe da questa una figlia che chiamò Merope. Questa giovanetta di soli tre lustri, fu amata passionatamente dal gigante Orione, il quale, non potendola ottenere diversamente, per le ripulse del padre di lei, la sedusse. Enopione giurò di vendicare l’oltraggio, ma non bastandogli l’animo di provocare il gigante, colse il momento che quegli, preso dal vino, dormiva e gli fece cavare gli occhi.
1694. Enoptromanzia. — Specie di divinazione che si faceva per mezzo di uno specchio ; ed era così detta dalla parola greca ευοπιρου ; che significa appunto specchio.
1695. Enorigeo. — Soprannome che si dava a Nettuno come personificazione del mare deificato.
Presso gli antichi ad Enorigeo si contraponeva Asfalione ; cioe Nettuno che sofferma la terra.
Nei poeti dell’antichità si trova di sovente il nome di Enossitone, adoperato nello stesso significato.
1696. Enotoceti. — Nelle opere di Strabone si trova che questo era il nome di alcuni popoli selvaggi, orribilmente mostruosi, i quali avevano le orecchie grandissime, lunghe e pendenti fino alle ginocchia, delle quali essi si servivano come di letto.
1697. Enotro. — Così ebbe nome il più giovane dei figliuoli di Licaone, re d’Arcadia. Egli fu il primo a stabilirsi in Italia con una colonia greca. Secondo Virgilio egli dette anche il suo nome a tutta questa contrada che da principio fu detta Esperia, poscia da questo Enotro fu chiamata Enotria, e finalmente Italia da Italo.
Una parte d’Europa è, che da GreciSi disse Esperia, antica, bellicosa.E fertil terra, da gli Enotrii colta.Prima Enotria nomossi. or. come è fama,Preso d’Italo il nome, Italia è detta.Virgilio — Eneide — libro I. trad. di A. Caro
1698. Endea. — Soprannome di Cibele. Gli antichi
chiamavano Entheus o Entheatus, vale a
dire : pieno di divinità, ispirato
, ogni persona che
predicesse l’avvenire, ed il luogo dove si davano gli oracoli.
1699. Entello. — Celebre atleta ; fu uno dei principali seguaci di Aceste, il quale dette il suo nome alla città chiamata Sicheliota di Entello. La cronaca narra, ch’egli aveva da più tempo rinunciato ai violenti esercizii dell’arte sua, allorchè la tracotanza di Darete, lo indusse a scendere nuovamente nell’arena, ove brandito il cesto, vinse, non ostante la tarda età, il suo giovine avversario.
In prima in su le punteDe’piè l’un contra l’altro si levaro :Brandir le braccia ; ritirarsi indietroCon le teste alte ; in guardia si posaroOr questi or quello ; altine ambi ristrettiMischiar le mani e a ferir si diero.Era giovine l’uno, agile e destroIn su le gambe ; era membruto e vastoL’altro, ma flacco in sui ginocchi e lento.E per lentezza fit fiato ansio scotendoLe gravi membra e l’affannata lenaPalpitando anclava. In molte guiseInvan pria si tentaro. e molte volteS’avvisar, s’accennaro e s’investiro.A le piene percosse un suon s’udiaDe’cavi flanchi, un rintronar di petti.Un crosciar di mascelle orrendo e fiero.Cadean le pugna a neuibi : e ver le tempie,Miravan la più parte : e s’eran voteRombi facean per l’aria e fischi e venti.Virgilio — Eneide Lib. V. trad. di A. Caro.
1700. Entitride. — Dalla tradizione mitologica creduta dagli abitanti dell’isola di Rodi, che cioè, Elena dopo la sua morte fosse stata sospesa ad un albero, i Rodiani le inalzarono un tempio e l’adorarono come una divinità, alla quale dettero il nome di Entitride, che significa appunto sospeso ad un albero.
1701. Eolo. — Figlio d’Ippote, discendente della stirpe di Deucalione. La tradizione mitologica lo fa figliuolo di Giove e dio dei venti e delle tempeste.
….. in un autro immensoLe sonore tempeste e i tempestosiVenti, si com’è d’uopo, affrena e regge,Eglino impetuosi e ribellantiTal fra lor fanno e per quei chiostri un fremitoChe ne trema la terra e n’urla il monte.Ed ei lor sopra, realmente adornoDi corona e di scettro, in alto assisoL’ira e gl’impeti lor mitiga e molee.Se ciò non fosse, il mar, la terra e ’l ciclo,Lacerati da lor, confusi e sparsiCon essi andrian per lo gran vano a volo.Ma la possa maggior del Padre eternoProvvide a tanto mal, serragli e tenebreD’abissi e di caverne, e moli e montiLor sopra impose, ed a re tale il frenoNe diè, ch’ei ne potesse or questi, or quelliCon certa legge o rattenere o spingere,Virgilio — Eneide — Libro I. Trad. di A. Caro.
Egli visse al tempo della guerra di Troja e regnò nelle isole Vulcanie, dette poi dal suo {p. 138}nome, Eolie di cui Lipara, la principale, fu sua abitual residenza. Eolo esperto nell’arte del navigare, erasi coll’ajuto di studii astronomici, dedicato alla conoscenza dei venti, ed all’osservazione del flusso e riflusso della marea, cosicchè spesso prediceva con felice successo, quale vento dovesse soffiare per qualche giorno, e dava utili consigli ai navigatori. Da ciò la tradizione favolosa che lo fa dio delle tempeste, e padre di dodici figliuoli sei maschi e sei femmine, che si maritano fra di loro e che altro non sono che i dodici venti principali che nei giorni delle burrasche sconvolgono l’aria, la terra ed il mare.
Dodici, sei d’un sesso e sei dell’altro,Gli nacquer figli in casa ; ed ei congiunsePer nodo marital suore e fratelli,Che avean degli anni il più bel fior sul volto.Omero — Odissea Lib. X. trad. di I. Pindemonte.
1702. Eolie. — Oggi conosciute sotto il nome di isole Lipari, e poste fra l’Italia e la Sicilia. Una di esse, essendo terra eminentemente vulcanica, è ritenuta dai cronisti della mitologia, come quella in cui Vulcano, dio del fuoco, avesse posto la sua fucina. Per questa ragione le isole chiamate oggi Lipari, furono da principio dette Vulcanie, e poi cangiarono questo nome in quello di Eolie, da Eolo, loro re. V. l’articolo precedente.
Al dire di Omero, una sola fra le isole Eolie, che è quella di cui egli fa menzione, era galleggiante, cinta tutta all’intorno di un muro di rame e al di fuori di massi di roccia innaccessibili.
Giungemmo nell’Eolia, ove il dilettoAgli Immortali Dei d’Ippote figlio,Eolo, abitava in isola natante,Cui tatta un muro d’infrangibil rame,E una liscia circonda ecceisa rupe.Omero — Odissea — Lib. X. Trad. di I. Pindemonte.
1703. Eona. — Presso i Fenicii era l’Eva della creazione ; ossia la prima donna del mondo, la quale consigliò ai suoi figliuoli di cibarsi di frutta.
1704. Eono. — Figliuolo di Licimnio fratello di Alcmena, e cugino di Ercole.
Narra la tradizione mitologica, che Ercole, ancora giovanetto, andando a diporto per le vie di Sparta, passò dinanzi la casa d’Ipocoonte, ed il cane che la custodiva gli si avventò addosso. Eono veggendo il pericolo di Ercole, scagliò contro l’animale una grossa pietra, ed allora i figli d’Ipocoonte uscirono dalla casa e senza ascoltar ragione accopparono di bastonate il giovane Eono il quale morì in conseguenza delle ferite. Ne successe una mischia nella quale Ercole stesso assai mal concio dovè ritirarsi.
Però qualche tempo dopo, accompagnato da una mano di suoi seguaci, ritornò nella casa d’Ipocoonte, ed uccise il padre ed i figli, onde vendicare la morte di Eono. Fu dopo questo fatto che Ercole innalzò un tempio a Giunone sotto il nome di Egofora, per non averla trovata ostile alla sua vendetta. V. Egofora.
Ed un altro a Minerva sotto la denominazione di αξιοποωη che significa vendicatrice. Dopo la morte Eono fu innalzato agli onori eroici e si consacrò un tempio ad Ercole vicino al sepolcro di lui.
1705. Eoo. — Così si chiamava uno dei cavalli del sole, e propriamente quello che dinota l’oriente. In alcuni poeti dell’antichità si trova dato l’istesso nome a Lucifero.
1706. Eorie. — Feste in onore di Erigone. Si crede comunemente che sieno le stesse dette Aletidi.
1707. Eoso. — Gigante che fu figlio di Tifone.
1708. Epafo. — Figlio di Giove e della ninfa lo, la quale sotto le forme di giovenca, lo dette alla luce sulle sponde del Nilo, dopo di aver ricuperato le sembianze umane.
Onde si tiene che a Giove nascesse,Epafo, un bel figliuol che usci di lei,Ovidio — Metamorfosi — Lib. I. trad. di Dell’anguillara.
Giunone, spinta dalla gelosia, ordinò ai Cureti di rapire quel frutto dell’adulterio ; essi obbedirono. e Giove irritato li fece tutti morire. Io, dal canto suo, abbandonò l’Egitto per andare in traccia del figlio, e dopo molte ricerche, lo trovò in Siria presso la moglie del re Biblo. Epafo divenuto adulto, tolse in moglie una giovanetta per nome Menfi, ed avendo in seguito edificata una città le impose il nome della moglie.
Fu questa la celebre città di Menfi.
1709. Epatoscopia. — Specie di divinazione che gli Aruspici facevano coll’osservazione del fegato delle vittime. Questa parola deriva da due vocaboli greci Ηπρα che significa fegato σϰοπἑω che suona io considero.
1710. Epaulie. — Cerimonie che i greci celebravano il secondo giorno delle nozze per consacrare la casa che lo sposo aveva scelto per domicilio. Lo stesso nome di Epaulie davansi ai doni che i convitati facevano agli sposi, e particolarmente si chiamava così il mobiliare ch il suocero regolava al genero.
{p. 139}Questi doni venivano portati pubblicamente, ed erano preceduti da un giovine vestito di bianco e con una fiaccola nella destra.
1711. Epemenide. — V. Epimenide.
1712. Epeo. — Figliuolo di Iperipnea e di Endimione e fratello di Etolo e di Peone. Secondo Pausania, Endimione propose in Olimpia un premio alla corsa a tre suoi figliuoli, proclamando che il vincitore gli sarebbe succeduto al trono. I fratelli Peone, Etolo ed Epeo, tennero la sfida, e quest’ultimo riuscito vincitore fu proclamato re degli Elei, che da lui presero la denominazione di Epei. Etolo, indifferente alla perdita, restò nella sua patria ; ma Peone inconsolabile della sconfitta, si esiliò volontariamente e qualche tempo dopo fermatosi sulle sponde del flume Assio, dette il suo nome a quella contrada conosciuta con la denominazione di Peonia.
1713. Epeuso. — Altro figliuolo di Endimione. La cronaca lo ricorda come un abilissimo operajo, e ripete ch’egli si rese celebre per l’invenzione di diverse macchine da guerra. Vari scrittori asseriscono che egli avesse fabbricato il famoso cavallo di Troja.
1714. Epi. — Città della Grecia il cui governo era tenuto da Nestore, il quale condusse gran numero dei suoi sudditi all’assedio di Troja.
Di novanta navigli capitanoVenlva il veglio cavalier Nestorre.Di Pilo ei guida e dell’aprica AreneGli abitanti e di Trio. guado d’Alfeo.E della ben fondata Epi.Omero — Iliade — lib. II. trad. di V. Monti.
1715. Epibaterio. — Diomede edificò sotto un tal nome un tempio ad Apollo nella Città di Trezene, in ringraziamento a quel dio di averlo salvato dal naufragio, che fece perire gran numero dei suoi compagni nel ritornare alle loro patrie.
1716. Epibati. — Era questo il vocabolo col quale i greci ed i romani denotavano i soldati di marina. Nelle opere di Senofonte si trova dato un simile nome ai guidatori di elefanti e di eammelli.
1717. Epibomo. — Nome di quel sacerdote di Cerere Eleusina, il quale assisteva il Gerofante all’altare.
1718. Epicasta. — La stessa che Giocasta, madre di Edipo, la quale, al dire di Omero si appiccò per disperazione appena ebbe conoscenza dell’incesto da lei commesso. V. Edipo.
La favola ricorda di un’altra Epicasta che fu figliuola di Egeo, ed una delle mogli di Ercole da cui ebbe un figliuolo chiamato Tessalo.
1719. Epicaste. — Figlia di Calidone e di Eolia.
Ella sposò il re Agenore, che la rese madre di Demonice e di Partaone.
1720. Epiclidie. — Feste che gli abitanti dell’Attica celebravano con gran pompa in onore di Cerere, in ringraziamento di aver loro insegnato l’agricoltura.
1721. Epicrene. — Ossia feste delle fontane. Così avea nome una pubblica cerimonia che i Lacedemoni celebravano in una data epoca dell’anno, intorno alle principali fontane.
1722. Epicurio. — Soprannome di Apollo nella significazione di benefico, avendo questo dio liberata l’Arcadia dalla peste.
Forse per la stessa ragione, aveva Apollo un tempio dedicato al suo culto nel borgo di Bassa, ove veniva adorato con la stessa denominazione.
1723. Epidauria. — Nella città di Epidauro, e poscia in Atene si celebrava una festa annuale in onore di Esculapio alla quale si dava il nome di Epidauria, in commemorazione della città ove da principio fu istituita.
1724. Epidauro. — Famosa città della Laconia ove Esculapio, dio della medicina, aveva il magnifico tempio ed oracolo celebre nell’antichità sotto lo stesso nome. La cronaca mitologica ricorda di un’altro Epidauro, che fu figlio di Argo e di Evadne, il quale dette il suo nome a quella contrada dell’Argolide detta perciò Epidauro.
1725. Epidelio. — Uno dei soprannomi di Apollo.
Narra la cronaca che quando Menofane comandava la flotta di Mitridate, essendosi impadronito dell’isola di Delo, la pose a sacco, e gettò nel mare la statua di quel Dio, la quale però lungi dal sommergersi, fu spinta dalle onde vicino al promontorio di Malia sulle spiagge della Laconia. I Lacedemoni per onorare Apollo gl’innalzarono un tempio all’istesso luogo ove si era fermata la statua, sotto la denominazione di Epidelio quasi a dinotare vemito da Delo, come suona in greco quella parola.
1726. Epidemie. — Gli abitanti di Delo e di Mileto ; celebravano in onore di Apollo, una festa, così chiamata, come quelli di Argo, ne celebravano in onore di Giunone a cui davano la stessa denominazione. Gli antichi credevano fermamente che quelle divinità assistessero invisibilmente alla cerimonia.
1727. Epidoti. — Dei che avevano un tempio in Epidauro, e che erano ritenuti come protettori della crescenza dei bambini. Giove stesso considerato come il supremo datore di {p. 140}ogni bene, veniva adorato particolarmente dagli abitatori di Mantinea, i quali gli dedicarono un tempio sotto il nome di Giove Epidote.
Presso i greci veniva data questa stessa appellazione al sonno, ed in generale a tutti i genii benefici che s’invocavano onde placare le anime dei trapassati.
1728. Epifane. — Soprannome dato a Giove, e che aveva presso i greci lo stesso significato della parola latina Elicius, colla quale i romani indicavano Giove stesso. Tanto la parola Epifane che Elicius racchiude il senso della presenza del padre degli dei sulla terra, rivelata agli uomini per mezzo del rimbombo del tuono, e del balenare dei lampi.
1729. Epigeo. — Fu figliuolo d’Ipsisto e frate’o di Gea. Egli in seguito fu chiamato Urano, ossia il cielo e sua sorella Gea, fu detta Rea ossia la terra. Con questi nomi al dire del cronista Sanconiatone, i greci denotavano esclusivamente il cielo e la terra.
1730. Epigle. — Ossia terrestri, dalle due parole greche υπί sopra e γη terra. Si dava questo nome alle ninfe della terra come si chiamavano Uranie quelle del cielo.
1731. Epigone. — Presso i pagani si chiamava la guerra degli Epigoni quella che fecero i discendenti di coloro che erano morti alla prima guerra di Tebe, combattuta dieci anni prima di questa, a cui fu dato il nome degli Epigoni.
1732. Epimelidi. — Ninfe che presiedevano alle mandre. Mercurio, per la stessa ragione veniva sovente soprannominato Epimelide.
1733. Epimeletti. — Si dava questo nome collettivo ai ministri del culto di Cerere, i quali, durante le funzioni sacre e le cerimonie di quella dea, erano addetti particolarmente alla persona del re.
1734. Epimeni. — Presso gli Ateniesi, al ricadere di ogni novilunio, si celebravano dei sagriflzii a cui si dava questo nome, e coi quali essi domandavano ai numi la prosperità dello stato.
1735. Epimenide o Epimenede. — Celebre indovino dei Cretesi, il quale visse ai tempi di Solone. La cronaca mitologica racconta di lui, che nella sua gioventù avendolo suo padre posto a custodire la gregge, egli assiso in una caverna fu sorpreso da un profondo sonno che durò per lo spazio di cinquantasette anni. Destato da un forte strepito egli cercò la sua mandra ma non avendola rinvenuta s’incaminò alla volta del suo villaggio. Estremamente sorpreso di trovar tutto cangiato, rinvenne dopo molte ricerche la sua casa, ma appena picchiò all’uscio, da persone a lui sconosciute, gli fu domandato che cosa volesse e chi fosse. Finalmente fu riconosciuto dall’ultimo dei suoi fratelli, che egli avea lasciato bambino di pochi anni, e che ritrovava vecchio, ed al quale Epimenide raccontò la sua storia. Ben presto la fama se ne sparse per tutta la grecia, i cui abitanti lo tennero come un favorito degli dei, e lo interrogarono come un oracolo. Essendo, in quel torno di tempo, scoppiata una terribile pestilenza in Atene, gli abitanti fecero venire Epimenide, persuasi che offerendo ai numi nn sacrificio espiatorio per le mani di lui, il flagello sarebbe cessato. Infatti, offerto da Epimenide un sacrificio di agnelli bianchi e neri, la peste finì. Gli Ateniesi allora vollero ricompensare Epimenide, offerendogli un’ingente somma di danaro, che egli ricusò, accettando solo un ramoscello di alloro.
1736. Epimeteo. — Vocabolo che nel linguaggio antico significa che non riflette se non dopo il fallo. Era questo il nome di un figliuolo del Titano Giapeto e di Climene, e fratello di Prometeo, il quale avea consigliato Epimeteo a non accettar mai un presente da Giove, temendo che questi sdegnato contro Prometeo per aver questi fatta con la creta una figura umana e detto che era anch’egli un creatore, non avesse voluto vendicarsene. Egli per altro trascurò l’avviso del fratello ed accolse il falal dono che Giove gli fece inviandogli per mezzo di Mercurio la bella Pandora che egli sposò e che lo rese padre di Pirra. Vedendo però Giove che ad altro non era riuscito che a far felice Epimeteo lo mutò in una scimmia.
1737. Epinicie. — Davasi questo nome alle feste che gli antichi celebravano per solennizzare una vittoria.
1738. Epinicio. — Si dava questo nome ad un inno che gli antichi costumavano di cantare per celebrare le vittorie riportate in guerra contro i nemici. Coll’andare del tempo si cantò l’Epinicio per acclamare coloro che riuscivano vincitori ai pubblici giuochi. Non bisogna confondere l’Epinicio con l’Epiodia canzone funebre, alla quale davasi comunemente il nome di Nenia e che si cantava ai funerali.
1739. Epione. — Moglie di Esculapio da cui egli ebbe varii figliuoli. Fra gli uomini i più celebri di essi furono Podalisio e Macaone ; e fra le femmine Panacea, Igiea, Egla e Giaso.
1740. Epipirgide. — Dalla parola greca Ηπηρλορ che significa torre gli Ateniesi avevan dato questo nome ad una statua altissima formata, di tre corpi in uno, ch’essi avevano consacrato ad Ecate e che rassomigliava molto ad una torre.
{p. 141}1741. Epipola. — Nome di una giovanetta, figlia di un greco chiamato Trachione. Narra la cronaca che Epipola fortemente sdegnata dell’oltraggio che Paride aveva fatto a tutti i greci, col rapimento di Elena, travestitasi da uomo, andò come semplice soldato, all’assedio di Troja. Essendo stata in un conflitto riconosciuta per donna, i suoi concittadini la lapidarono credendola una spia.
1742. Epiponsia. — Soprannome data a Venere per indicare che essa era nata dalla spuma del mare.
1743. Episcafie. — Dalla parola greca σϰηη che significa barca, si dava codesto nome ad una festa delle barche, che si celebrava con grande apparato nell’isola di Rodi.
1744. Episcira. — Ai 12 del mese di Sciroforione (Maggio) celebravasi nella città di Atene, una solennità religiosa in onore di Minerva Scirade, così detta dal tempio ch’ella aveva nella piccola città di Sciro. È opinione di pregevoli scrittori, che questa solennità venisse detta Episcira in commemorazione dell’ombrella che il sacerdote sacrificatore portava in tale congiuntura.
1745. Epitide. — Soprannome dato a Posiponte ajo di Ascanio figlio d’Enea : veniva così detto da Epito suo padre.
1746. Epitembia. — Una tale qualificazione si trovava aggiunta al nome di Venere sull’iscrizione del piedestallo della statua che questa dea aveva nel tempio di Delfo, per indicare che essa che come dea degli amori presiedeva ai nascimento, presiedeva in pari tempo alla morte, dovendo aver fine tutto ciò che ha principio.
1747. Epitragie. — Altro soprannome di Venere col quale si voleva ricordare un fatto avvenuto a Teseo mentre sacrificava a quella dea. L’eroe prima di far vela per l’isola di Creta, offri a Venere una capra, la quale istantaneamente congiossi in capro. Gli Elei in memoria di ciò rappresentarono Teseo a cavallo ad un capro, e lo chiamarono col nome di Epitragie, che significa popolare.
1748. Epizelo. — Era questo il nome di un soldato greco, nativo di Atene, il quale alla battaglia di Maratona fu improvvisamente colpito di cecità, senza aver ricevuto alcuna ferita.
Erodoto racconta di lui, sotto il manto della tradizione, che mentre si aggirava pel campo, gli comparve un uomo di una grande statura, e con lunga barba nera, e che avendolo ucciso rimase all’istante cieco per tutta la vita.
1749. Epona. — Era questo il nome che i romani del paganesimo, davano alla divinità protettrice degli asini, siccome chiamarono Ippona quella dei cavalli. In quasi tutte le scuderie di Roma si trovava il simulacro di queste divinità.
1750. Epopeo. — Dalla ninfa Canace ebbe Nettuno un figlio che chiamò con questo nome. Divenuto adulto, Epopeo, dotato di un animo ambizioso ed irrequieto, si recò in Tessaglia e fermossi per qualche tempo nella città di Sicione di cui Corace era re. Quivi, profittando con grande avvedutezza e coraggio, delle inimicizie che le crudeltà di Corace avevano accese nei suoi sudditi, lo detronizzò, ed aggiunse in breve tempo ai suoi novelli stati anche la città di Corinto. Finalmente avendo sedotta Antiope, figlia del re di Tebe, Nitteo, si vide costretto a sostenere una guerra contro i Tebani per tale ragione e morì in una battaglia.
Altri asserisce esser morto in seguito delle ferite fattegli da Nitteo stesso, il quale alla sua volta mori vittima dei colpi ricevuti da Epopeo, mentre tentava di ucciderlo.
Epopeo lasciò due figli avuti da Antiope ai quali dette il nome di Anfione e Zeto ; e fabbricò inoltre un tempio a Minerva per la quale egli ebbe in tutta la sua vita una particolare divozione. La tradizione favolosa dice che la dea, in attestato dell’affetto con che ebbe caro Epopeo, fece quand’egli morì, scaturire dal tempio che egli stesso le aveva innalzata una fontana di olio.
1751. Epopte. — Era questo il titolo che si dava all’ultimo iniziato ai misteri di Eleusi, ed al quale solo era permesso di assistere alle più segrete cerimonie, cosa che non ottenevasi se non dopo un lungo noviziato di cinque anni, durante il quale tempo non si poteva entrare nel santuario del tempio, ma bisognava rimanere nel vestibolo di esso.
Nei misteri del culto Eleusino vi erano pero delle cerimonie talmente occulte, alle quali non era concesso neanche all’Epopte di assistere, concessione questa, data ai soli sacerdoti.
1752. Epuloni. — I romani avevano istituito un ordine di sacri ministri, i quali avevano l’incarico speciale di preparare il banchetto a cui si credeva che gli dei prendessero parte, e che perciò veniva apparecchiato solo per essi. I sacerdoti Epuloni godevano del privilegio di vedere esenti le loro figliuole dall’essere Vestali ; e a somiglianza dei pontefici essi vestivano una tunica orlata di porpora.
1753. Equestre. — Soprannome dato alla Fortuna e col quale questa divinità aveva un tempio a lei edificato nel nono rione di Roma dal pretore Quinto Fulvio Flacco, il quale fece voto a quella dea di fabbricarle un tempio se avesse avuto la vittoria nella guerra contro i {p. 142}Celtiberi. In questa guerra ebbe Quinto Fulvio il comando delle cavalleria, e per fare che la battaglia fosse decisiva, dette ordine ai suoi soldati che al momento di caricare avessero tolte le briglie ai cavalli. Quest’ordine fu eseguito alla lettera, e l’urto della cavalleria fu così impetuoso che bastò una sola carica per decidere della vittoria. Sebbene più assai che alla protezione della dea, dovesse Quinto la riportata vittoria al suo non comune ardire, ed alla bravura dei soldati, pure egli tenne il voto e per fare che il tempio della Fortuna fosse quant altri mai, magnifico e splendido, fece togliere le grondaje di marmo che ricoprivano il tempio di Giunone Lucinia, negli Abbruzzi, e dette ordine che fossero trasportate in Roma.
Pero il popolo si oppose a quest’atto che riteneva come un sacrilegio e Quinto fu obbligato di far riportare le grondaje là dove erano state tolte.
1754. Equirie. — Romolo dette questo nome alle feste da lui istituite in onore di Marte, dio della guerra. Nel giorno 26 del mese di Febbrajo, che ricadeva nel periodo di questa solennità, si facevano le corse dei cavalli nel campo Marzio.
1755. Equità. — Veniva questa divinità rappresentata con una spada in una mano ed una bilancia nell’altra. Assai sovente si confondea con Astrea. Al dire di Pindaro l’Equità fu madre di tre figliuole che furono Eunomia. Dice e la Pace.
1756. Era. — Discordi sono le opinioni dei mitologi su questo soprannome di Giunone, imperocchè alcuni vogliono che venisse detta Era, per significare Sovrana essendo ella moglie del re dei numi ; ed altri pretendono che Era significhi aria, e che benissimo poteva venir dato a Giunone un tal soprannome, venendo ella stessa riguardata come l’aria deificata. Il certo si è che in Grecia il tempio di Giunone chiamavasi Ereone, e le feste di lei Eree.
1757. Eracle. — In Grecia si dava cotesta denominazione ad Ercole, forse per voler ricordare che le fatiche che Giunone fece intraprendere a questo eroe, furono a lui fonte di rinomanza e di gloria. La parola Eracle deriva da due vocaboli greci Ηρα che significa Giunone e ϰλιος gloria.
1758. Eraclea. — Sul monte Oeta dove la cronaca ripete che sorgesse il sepolcro di Ercole, si celebravano alcune feste in onore di quell’eroe e che in memoria di lui furono istituite dal re di Tebe Menezio.
Eraclea era anche il nome di una città della Friotide, nella quale la tradizione favolosa narra che Ercole si abbruciò.
1759. Eraclidi. — Nome collettivo dei discendenti di Ercole. Narrano gli scrittori della favola che Euristeo, re d’Argo, non soddisfatto di veder morto Ercole, volle sterminare anche i discendenti di lui. Perseguitò dunque i figli ed i nipoti di quell’eroe, di terra in terra, di provincia in provincia e fino in Atene, nel centro della Grecia, ov’essi si erano ricoverati, intorno ad un altare di Giove, Euristeo non ebbe ritegno di attaccarli coi suoi seguaci. Ma gli Ateniesi presero le difese degli Eraclidi e uccisero Euristeo al momento in che si accingeva a cogliere il frutto sanguinoso dell’odio. Gli Eraclidi dopo la morte del loro persecutore, si resero padroni del Peloponneso, ma poco tempo dopo la peste decimò siffattamente il loro esercito, che essi spaventati ricorsero all’oracolo di Delfo, onde sapere il mezzo di far cessare il flagello.
L’oracolo rispose ch’es si avevano invaso troppo presto il Peloponneso, e che perciò la peste non sarebbe cessata se non quando essi avessero prontamente eseguita la loro ritirata, cosa che fecero immediatamente. Trascorsi tre anni essi, interpetrando la primitiva risposta dell’oracolo (il quale aveva detto che per occupare il Peloponneso, gli Eraclidi avessero dovuto attendere il terzo frutto), essi ritornarono ad invadere quella contrada, ma ne furono novellamente scacciati da Atreo, ed allora essi compresero che per impadronirsi del Peloponneso, dovevano attendere la terza generazione, essendo questa la vera spiega della risposta dell’oracolo. Infatti non fu che un secolo dopo la morte di Euristeo, che gli Eraclidi poterono finalmente occupare quelle contrade tanto contrastate. A proposito di ciò le cronache mitologiche ricordano di uno strano avvenimento. È detto che gli Eraclidi prima d’intraprendere la loro spedizione, avessero consultato l’oracolo, e che questo imponesse loro di prendere per capo un uomo che avesse tre occhi. Nel cammino essi incontrarono un certo Ossilo, nativo dell’Etolia, il quale era guercio d’un occhio e faceva la sua strada montato su di un cavallo. Essi, allora, ritennero Ossilo come inviato dai numi e lo scelsero a loro capo e sotto i suoi ordini, non mancando egli nè di coraggio nè di senno, si resero padroni di Lacedemone, di Corinto, d’Argo e di Micene ponendo così le basi a quel ristabilimento che forma una dell’epoche principali della storia greca.
1760. Eratelea. — Cosi aveva nome il sagrifizio che si faceva a Giunone nella celebrazione di un matrimonio. Secondo la formola antica si sacrificava a Junoni Pronube e le si offriva una ciocca dei capelli della sposa, {p. 143}mentre il fiele della vittima sgozzata si gettava ai piedi dell’altare, volendo dinotare che gli sposi dovessero vivere sempre in pace tra loro. La parola Eratelea significa donna perfetta e si dava a Giunone in tali occasione, per significare che le fanciulle vanno a marito quando sono completamente donne. Questo vocabolo viene da due parole greche : Ηρα che significa donna, e ϰλιος perfetta.
1761. Erato. — Nome della sesta Musa, la quale presiedeva alla poesia lirica ed erotica. I romani l’invocavano particolarmente nel mese di aprile, consacrato all’amore.
Erato, che d’amor dolce sospiraMonti — La Musogonia — Canto
1762. Erceo. — Soprannome di Giove come protettore delle città e delle case. Assai di sovente, nelle opere degli antichi scrittori, vengono denotati col nome di Ercei gli dei Penati, forse nella significazione di protettori delle famiglie.
1763. Ercina. — Figliuola del famoso Trofonio e compagna ed amica di Proserpina. Al dire di Pausania, essa aveva nella città di Lebadia, molte statue che la rappresentavano con un’oca in mano.
1764. Ercole. — In greco Eraclide, ossia stipite degli Eraclidi. Ideale di un eroe la cui esistenza è tutta consacrata a suffragio dell’umanità, o a quello di una nazione. Le tradizioni favolose, relative a questo mito simbolico della forza, tal quale si trovano nei due poemi d’Omero, l’Iliade e l’Odissea, sono essenzialmente greche, non altrimenti che il nome stesso di Ercole. Infatti, se coteste tradizioni racchiudono in sè stesse qualche storico fondamento, il nome dell’eroe potrebbe facilmente derivare da due parole che in lingua greca significano gloria e soccorso. Se, per contrario, la grande figura del figlio di Alemena, è la creazione dovuta ad un qualche poeta, predecessore di Omero, la conseguenza storica è affatto la stessa, ritrovandosi la etimologia della parola Eraclide nelle due parole gloria e Giunone, essendo questa dea la principal causa della gloria immortale onde Ercole si rese famoso, compiendo le straordinarie fatiche, che il geloso odio della dea gli avea imposto fin dalla culla. Malgrado la formale asserzione di Erodoto, l’Ercole greco non può essere una copia, o almeno una riproduzione dell’Ercole Egiziano. Primieramente questo, nella lingua indigena, veniva chiamato Som ; in seguito egli era uno fra i dodici dei maggiori dell’antico Egitto, e non à nulla in sè che riveli l’eroica grandezza ; e finalmente il mito relativo al famoso figliuolo di Alcmena, à una tinta particolarmente greca, che armonizza con grande concordia tanto coll’assieme di tutta la configurazione mitologica, quanto coi singoli dettagli della concezione primitiva. Per metter d’accordo la opinione di Erodoto, con quanto ci detta il ragionamento e la conoscenza dei diversi scrittori dell’antichità, basterà ricordare che gli egiziani potevano avere una ampia conoscenza, e forse anche un culto di religioso rispetto per l’Ercole greco, per mezzo dei popoli di questa nazione che emigrarono in Egitto. Quanto a Melkarth, divinità Fenicia, che assai di sovente viene identificata con l’eroe greco, la si può relegare, come Som, nel numero di quelle locali e particolari divinità, che un cieco spirito di sistema à potuto, per una strana aberrazione, paragonare a creazioni completamente differenti. La etimologia che fa derivare Eraclide dalla parola racal, che significa errante, colono, merciajuolo, è senza dubbio estremamente ingegnosa, ma non à alcun caratteristico fondamento. L’Ercole greco non à nulla in se stesso, e nelle sue opere, che lo riveli di una indole di colono ; e nè si palesa costantemente, nel mito Omerico, come essenzialmente pedestre. Lunge dal riunire una numerosa flottiglia per attaccare Ilione, (secondo la erronea opinione di varii moderni mitologi,) egli, accompagnato da un piccolo numero di soldati e di marinai, muove al famoso assedio. In ciò non v’è nulla che possa a ver riguardo alla formazione di una colonia marittima, ed i moderni scrittori àn dato prova di una lodevole penetrazione storica, sforzandosi instintivamente di stabilire la origine greca degli eroi favolosi, imperocchè le loro asserzioni non potrebbero avere altro intendimento, quando noi vediamo che tutti si accordano nel ripetere che originariamente Ercole si chiamava Alcide (nome eminentemente greco) ; che egli ricevette poi a causa delle persecuzioni di Giunone, o per ordine dell’oracolo, il nome di Ercole, col quale dovea conquistare tanta gloriosa rinomanza. Da tuttociò si rivela nettamente la volontà di difendere la nazionalità, l’originalità di una creazione, che è quanto lo spirito inventivo dell’antica Grecia poetica, à prodotto di più grande e di più bello. D’altra parte, riportando la studiosa attenzione sulla primitiva infanzia dei popoli, si scorgerà sempre in essa la figura di un qualche benefico eroe, appartenente al primo periodo della civilizzazione, il quale accetta con gioia i più duri lavori, e compie le imprese più ardue. Egli purga la patria dai flagelli che la infestano, combatte i mostri, {p. 144}protegge i deboli, fertilizza il suolo con lo scolamento delle acque, e civilizzatore e guerriero, detta le leggi e combatte i nemici. Non bisognerà dunque meravigliare delle coincidenze, assai spesso sorprendenti, che presentano i diversi tipi dell’Ercole favoloso in Grecia, in E gitto, nell’antica Fenicia e persino nell’India istessa ; e non bisognerà soprattutto stupire delle numerose modificazioni imposte alle diverse tradizioni, le quali vanno tutte in un certo modo a concentrarsi sull’atletica figura dell’Ercole greco. Omero, nei suoi immortali poemi, non ci rivela traccia di una origine straniera o di diversi Ercoli : tutti i tratti caratteristici del mito, sono essenzialmente greci, rimanendo persino spoglio l’eroe della tradizionale tunica di pelle e della clava, attributi egiziani di cui lo si è voluto fregiare in prosieguo. L’inno Omerico ci presenta nello stesso ordine i fatti della tradizione, con la stessa semplicità con la quale gli stessi fatti sono esposti nell’Iliade e nell’Odissea. Allorquando i poeti delle età successive di Omero ebbero considerevolmente ingrandito la sfera mistica dell’eroe, cominciarono le alterazioni dall’aver da principio voluto paragonare, e poscia identificare gli dei ed eroi greci a quelli delle altre nazioni. Allora sembrando che l’enorme fardello delle tradizioni mistiche, accumulate sulla testa di un solo eroe, avesse troppo impicciolite le altre non meno divine personificazioni della tradizione favolosa, si comincio a riconoscere e ad adorare diversi altri eroi, divinizzati dopo la morte, ai quali si dette, per la stessa ragione, lo stesso nome. La confusione che naturalmente dovea portar seco codesta ampia suddivisione di un sol mito, fu sempreppiù aumentata dalla tendenza viziosa di ridurre alle proporzioni umane, le grandiose figure dei tempi eroici, di cui andò completamente smarrito o gravemente alterato, il primitivo senso profondo e poetico.
Prima di passare alla esposizione dei differenti fatti che la tradizione della favola ci ripete sull’Ercole greco, noi richiameremo l’attenzione dei nostri lettori su di un passo delle opere di Erodoto, la confutazione del quale ci servirà di chiusa a questo breve cenno. Questo storico fa menzione di due Ercoli, uno egiziano e l’altro fenicio, costituendo come tipo del secondo l’Ercole greco. A questo proposito emerge nitida e sfolgorante l’opinione di Plutarco, il quale ricorda che tanto Omero, quando Esiodo, Archilogo, Pindaro, Pisandro e molti altri scrittori, non ànno mai conosciuto altro Ercole, che quello dell’antica Grecia. Vero è che nelle opere di Esiodo si trova qualche traccia delle tradizioni fenicie, la quale armonizza in certo modo con l’Ercole greco. Cicerone conta fino a sei eroi di questo nome ; Lidio ne conta sette, e Varone non meno di quarantatrè. È chiaro per altro che un tale sistema storico tradizionale, non tendeva ad altro che ad individualizzare le azioni dell’eroe, e conseguentemente a snaturare la creazione del mito.
La tradizione favolosa ci presenta l’Ercole greco come figlio di Giove e di Alemena (Vedi Alemena) la quale lo partorì nella città di Tebe in Beozia, Ercole è il tipo perfetto di un eroe benefico che consacra la sua vita al bene dell’umanità ; e in pari tempo il più celebre guerriero dei tempi eroici. Dotato di un coraggio e di una forza prodigiosa egli spinge talvolta la sua audacia fino a disfidare gli dei, alla volontà dei quali per altro egli si sottopone durante tutta la sua vita. L’odio di Giunone, suscitandogli delle interminabili persecuzioni, lo costringe ad errare sulla terra e sul mare, per compiere i suoi alti destini. Il cerchio del suo pellegrinaggio non si estende, ciò non ostante, al di là della Grecia e dell’Asia minore. Giunone allora pacificata, non si cura più dell’eroe, il quale lasciando la sua spoglia mortale, che va ad abitare i regni di Plutone, s’innalza nell’Olimpo, ove al fianco di Ebe, dea della gioventù, sfolgora di una luce immortale fra le altre divinità. Tali sono almeno i tratti principali della storia mitologica di questo eroe.
Ei grato ai Numi onorasi.E re d’eletta sede.Alla Saturnia genero.Là d’Ebe ottien l’amor.Pindaro — Odi Ismiche — Ode IV. trad. di G. Borghi.
Le tradizioni moderne ci presentano Ercole nato a Tebe da Alemena e da Giove.
…….. In tempo alfineD’Alemena e Giove ad appagar mie brameGiunse l’inclito figlio….Sofocle — Le Trachinie — tragedia trad. di F. Bellotti.
Sua madre lo dette alla luce insieme ad Ificlo di cui già si trovava in cinta essendo moglie di Anfitrione re di Tebe, le cui sembianze Giove aveva assunto per avere l’amplesso della moglie di lui. Nato dopo di Ificlo, Ercole fu privato, per gelosia di Giunone, del dritto di successione al trono del supposto suo padre : Giove non potendo rimediare al già fatto, si contentò di stabilire fin dall’infanzia di Ercole che questi sarebbe annoverato fra gli immortali dopo la {p. 145}sua morte. Ma la gelosa Giunone desiderando la morte di lui, mandò due enormi serpenti onde Ercole, ancora bambino, perisse divorato in culla, ma l’eroe fanciullo uccise i due mostri strangolandoli con le mani.
Avidamente in tortuose spireStringean l’ecceiso figlio,Quand’ei levossi alla tremenda guerra.E fatal prova nel primier periglioDando d’immenso ardire.Con mano inevitabile n’afferraCli orridi mostri insani.E strangolati gli divelle in brani.Pindaro — Le odi Nemee — Ode I trad. di G. Borchi.
Questa tradizione è per altro completamente assurda e contraria al buon senso, tutte le volte che non si voglia vedere in essa il simbolo mitologico di una forza fisica, straordinariamente sviluppata fino dalle fasce. Pindaro, nelle sue opere, ci mostra l’indovino Tiresia, il quale alla vista dei due serpenti strangolati, predice le gloriose gesta dell’eroico fanciullo, e come, dopo la morte, egli verrà annoverato fra gli dei.
Tal magnanimo eroe sarà il tuo figlio,Che leverassi allo stellante cielo,E tutti vincerà mortali e belve,Compiute ch’egli avrà, dodici imprese,E suo destin, che alberghi in casa a Giove,E la Trachinia pira avrà il suo frale.Teocrito — L’Ercoletto — Idillio XXIV. trad. di G. M. Pagnini.
Ercole fu allevato nella città di Tebe, e Diodoro racconta, che Alcmena sua madre, spaventata dalgeloso furore di Giunone, avesse nascosto il fanciullo in un campo, dove fu raccolto da Minerva la quale lo rese alla madre. Secondo l’opinione di altri scrittori, Mercurio portò il neonato nell’Olimpo, e profittando del sonno in cui era immersa Giunone lo depose sul seno di lei. Giunone al suo svegliarsi strappò violentemente il fanciullo dal petto, e il latte cadendo formò la costellazione detta Via Lattea. Ercole si ebbe molti maestri, fra cui il primo fu Anfitrione il quale, sebbene si accorgesse di non essere suo padre, pure lo accettò come figlio, e gli insegnò l’arte di condurre i destrieri.
Il trar cavalli al cocchio giunti in corso.E alla meta piegar sicuri e illesiGli assi di rota, insegnò pure al figlioCon dolce cura Anfitrion medesmo.Teocrito — L’Ercoletto — Idillio XXIV. trad. di G. M. Pagnini.
Arpalico gli insegnò la lotta.
In quante guise i flessuosi ArgiviSeco lottando intralciansi le gambe.E quante ancora i pugili tremendiCo’cesti, e quante i lottator trovaroA terra chini maestrie dell’arte,Tutte imparò dal figlio di MercurioDal Fanopeo Arpalico……Teocrito — L’Ercoletto — idillio XXIV trad. G. M. Pagnini.
Lo Scita Eurito fu suo maestro nel tirar d’arco ;
Eurito, che da i padri ampie campagneRedato avea, l’instrusse a tender l’arco.E a dirizzar gli strali.Teocrito — L’Ercoletto — Idillio XXIV trad. di G. M. Pagnini.
Castore e Polluce, negli esercizii ginnastici e guerrieri.
Come con lancia in resta, e il tergo ascosoSotto lo scudo venir dessi a fronte,E sostener la punta delle spade,Dispor le schiere, e disegnar gli aguati.Affrontare i nemici, e comandareI soldati a cavallo, appien mostrogliIl Cavalcante Castore…..Teocrito — L’Ercoletto — Idillio XXIV. trad. di G. M. Pagnini.
Eumolpo nella musica ;
…. e cantor felloEumolpo Filammonide, e addestrogliSu cetera di busso ambe le mani.Teocrito — L’Ercoletto — Idillio XXIV.trad. di G. M. Pagnini.
Lino nelle scienze ; e finalmente Radamanto e Chirone completarono la sua educazione.
… Il vecchio Lino figlioD’Apollo, industre e vigilante eroe,Erudi nelle lettere il fanciullo :Teorico — L’Ercoletto — Idillio XXIV. trad. di G. M. Pagnini.
Colpito da Lino, egli lo uccise con un colpo di lira per il quale fatto, richiamato innanzi ai Tribunali, egli si difese, richiamando alla memoria dei giudici una legge di Radamanto stesso, la quale mandava assolto chiunque avesse respinto la forza con la forza. In conseguenza di questa legge, egli fu assoluto ; ma Anfitrione, temendo che l’indole irrascibile di lui, non lo avesse condotto a qualche male passo, lo inviò nelle campagne a custodire i suoi armenti.
Ercole divenne ben presto di una forza e di nna statura colossale. Apollodoro gli dà un’ {p. 146}altezza di otto piedi cirea. Per contrario Pindaro ce lo rivela piuttosto basso di statura, ma di un coraggio e di una forza indomabile.
Cosi d’Alemena il figlioNon vaste forme avea.Ma infaticabil animo.Pindaro — Odi Ismiche — Ode IV trad. di G. Borchi.
A dieciotto anni, uccise un leone che, uscendo dal monte Citerone, decimava gli armenti ch’ei custodiva, una grande porzione dei quali apparteneva al re Testio, le cui cinquanta figlie furono tutte rese madri da Ercole. Del resto la tradizione del leone del monte Citerone, non è che una copia di quella del leone Nemeo, la cui pelle riveste l’Ercole greco.
Per riannodare le differenti notizie pervenute tino ai nostri giorni, su
questo eroe dell’antichità pagana, riporteremo un breve passo delle opere di
Senofonte. « Ercole essendo divenuto adulto si ridusse in un
luogo appartato onde riflettere a qual genere di vita si sarebbe
dato : allora gli apparvero due donne di grande statura di cui una
bellissima, che era la Virtù, aveva il volto maestoso
e pieno di dignità, il pudore nei suoi sguardi, la modestia nei suoi
movimenti ed era rivestita di una tunica bianchissima ; l’altra,
che era la Voluttà, di forme provocanti e marcate e
vestita di abiti magnifici. Questa cercò di attirare a sè Ercole ma egli
la respinse e si decise a seguire il cammino della Virtù »
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Un giorno tornando dalla caccia Ercole si incontrò con gli araldi che Ergino inviava a Tebe onde ricevere il tributo imposto a quella città. Egli dopo averli battuti con la sua clava, ne fece alcuni prigionieri e dopo aver loro tagliato il naso e le orecchie, li rimandò imponendo dicessero al loro re esser quello il tributo che i Tebani intendevano pagare. Ergino allora alla testa del suo esercito, marciò contro Tebe, ma fu nella battaglia ucciso da Ercole stesso, a cui Minerva avea regalato una magnifica armatura. Anfitrione stesso fu ucciso in questo combattimento che valse ad Ercole, in premio del suo valore, la mano di Megara figlia di Creonte. Diodoro dice nelle sue opere, che Ercole riuscisse vincitore in questa battaglia perchè impedì alla cavalleria nemica di agire, mediante gran numero di rocce e di scogli che egli, con la sua forza soprannaturale, aveva fatto cadere sulle rive del flume Cefiso, ove si combatteva. Compiuta codesta gloriosa spedizione contro Ergino, Ercole, continuamente perseguitato dalla gelosia di Giunone, fu per opera di lei colpito di furore, e in un accesso di delirio gettò nel fuoco i figli che aveva avuto da Megara e due bambini figliuoli di Ificlo. Condannatosi volontariamente all’esilio pel dolore cagionatogli da questa azione crudele, egli si recò a Delfo onde consultare l’oracolo, per sapere il luogo che dovesse abitare, e fu, secondo il parere di Apollodoro, in questa città che egli ricevette per la prima volta dalla Pitonessa il nome di Ercole. L’Oracolo gli rispose di dimorare in Tirinto, di servire Euristeo durante lo spazio di dodici anni, di compiere i travagli che gli verrebbero imposti, e che dopo averli compiuti, avrebbe ottenuto l’immortalità. Gli scrittori mitologici sono, nella grande maggioranza, discordi sulle opinioni tradizionali che riguardano il periodo della esistenza di Ercole che precede il tempo che egli passò presso Euristeo. Essi sono soprattutto discordi sulla causa della follia di Ercole. Secondo Euripide, il delirio non lo colpì che al suo ritorno dai regni infernali. Fu allora che egli uccise Megara e i suoi figli, ma cadde egli stesso sotto il peso di un’enorme pietra che Minerva gli lanciò, onde raffrenare il suo terribile furore. Pindaro si accorda con Euripide per far perire i figli di Ercole sotto le frecce del suo arco micidiale. Secondo Diodoro, Giunone sofflò il delirio della follia nella mente del figlio di Alemena, dopo la riposta dell’oracolo. Altri pretende che avendo Ercole domandato all’oracolo di Apollo il mezzo di purificarsi della uccisione dei proprî figli, e non avendone ottenuta risposta, avesse involato il sacro Tripode, e non lo avesse rimesso al suo posto che dietro un assoluto comando di Giove, per la qual cosa, (come vedremo in prosieguo) Mercurio lo avesse venduto ad Onfale. La generalità degli autori non va similmente di accordo sulla causa della subordinazione di Ercole ad Euristeo. La tradizione Omerica accenna, ragionando di questa subordinazione, alla costante inimicizia di Giunone. Altri rapporta come, volendo espiare l’uccisione dei suoi figli, egli avesse seguito il comando di Apollo, e si fosse in conseguenza sottomesso ad Euristeo. Finalmente una terza tradizione dice che Euristeo. Finalmente una terza tradizione dice che Euristeo, mosso da un sentimento di gelosia, per la gloria che Ercole si acquistava, lo avesse richiamato presso di sè ; e che Giove avesse imposto ad Ercole di ubbidire, promettendogli la immortalità.
Piegando reverente alla voce dell’oracolo, Ercole si rese a Tirinto onde ricevere gli ordini di Euristeo. La più generale e la più ricevuta delle tradizioni antiche, è quella che egli eseguisse le sue celebri dodici fatiche, e che in premio di esse, avesse ottenuta la immortalità ; ma nè Omero, nè gli antichi poeti greci fanno menzione di questo numero {p. 147}determinato, il quale fu, con ogni probabilità, immaginato dagli Alessandrini in seguito dell’identificazione dell’Ercole greco, con l’Ercole egizia no, il quale nella sua qualità di Dio-Sole, passa per i dodici segni dello Zodiaco. Noi, seguendo la opinione più generalizzata dei mitologi, avvertiremo ancora che l’ordine delle dodici fatiche non è lo stesso presso tutti i cronisti della favola, che il tempo del servaggio di Ercole, à secondo alcuni la durata di dodici anni, e secondo altri quella di otto anni ed un mese. Confidando nel suo coraggio e nella sua forza soprannaturale, Ercole affronta la durezza della schiavitù ed esce trionfante da tutte le prove a lui imposte, mediante il soccorso e la protezione degli dei. Infatti, Mercurio lo presenta di una spada, Apollo di un gran numero di frecce, Vulcano di una corazza d’oro, Minerva di un mantello di nubi, ed egli stesso arma il suo braccio formidabile di una poderosa clava, tagliata da un secolare albero della foresta Nemea.
All’altra mano un baston saldo aveaDi frondoso olcastro, con sua scorza.Di non vulgar misura, che alle faldeDel sacrato Elicona intero svelsiCon le dense radici…..Teocrito — Idillio — XXV. trad. di G. M. Pagnini.
Gioverà qui notare che la maggioranza delle tradizioni favolose, ci presenta l’Ercole combattente sotto due aspetti particolari.
L’Ercole essenzialmente greco, è armato di armi greche come il casco, le frecce, lo scudo, la lancia e finalmente la corazza, opera di un Do. Egli tira d’arco con impareggiabile destrezza e persino uno dei suoi cavalli si chiama Airone, nome greco che Esiodo ed Omero ci ripetono nelle loro opere, essenzialmente greche. Una volta il periodo postomerico giunto, l’Ercole naturalizzato, vale a dire quello egiziano di nascita, è armato di una clava, e rivestito di una pelle di leone, spoglia opima tolta dal suo valore all’ucciso nemico.
…. e alle mie membra avvolsiSua pelle per riparo incontro a MarteLacerator de’ corpi…..Teocrito — Idillio — XXV. trad. di G. M. Pagnini.
Fra i poeti greci Stesicore e Pisanto, sono i primi a rappresentarlo in tal modo. Seguendo Apollonio, la sua clava fatta d’acciaio era un dono di Vulcano ; secondo altri scrittori era un ramo d’olivo selvaggio.
Pausania aggiunge che essendosi un giorno l’eroe appoggiato contro una colonna innalzata in onore di Mercurio, nella città di Trezene, quella avesse preso radici, e avesse poi fatto l’albero da cui Ercole taglïo la sua terribile clava.
Ci faremo ora, seguendo la più generalizzata delle tradizioni, a tener parola delle dodici fatiche di Ercole, il compimento delle quali valse all’eroe l’allegorica grandezza del mito, racchiuso sotto il simbolo della sua forza soprannaturale.
Il primo comando che Euristeo dette ad Ercole, fu quello dì combattere il leone Nemeo, mostro che desolava le campagne. Ercole lo combattè e l’uccise, ma al suo ritorno in città, Euristeo gli impose di rimanere fuori le mura, essendo spaventato della sua forza. Dopo questa impresa, Ercole combattè contro la terribile idra di Lerna, le cui sette teste rinascevano a misura che egli le avea troncate. Ciò non pertanto l’eroe trionfò anche vi questo terribile nemico e giunse ad ucciderlo.
Euristeo però non volle che l’uccisione dell’idra, fosse annoverata fra le dodici fatiche imposte ad Ercole, dicendo che per uccidere l’idra egli aveva dovuto avere il soccorso di qualche nume. Per altro un vantaggio positivo ne venne ad Ercole, poichè a contare dall’uccisione del mostro, le sue frecce ebbero la terribile facoltà di fare delle ferite incurabili.
Come terza fatica Ercole pervenne ad impadronirsi della cerva. Cerinitide, che egli raggiunse al corso, e che portò viva nella città di Micene. Dopo di questo, combattè e vinse il cignale di Erimanto, e mentre si recava nella Focide, le cui campagne erano desolate da quel mostro, egli mise in fuga e debellò i Centauri.
……. Oh maniOh mani ! oh dorso ! oh petto ! oh braccia mie !Foste pur voi che di Nemea l’orrendoLeon, feroce inaccessibil belva.Terror di mandre e di pastori, a vivaForza uccideste ; e il mostro d’Erimanto :L’idra di Lerna ; ed uno stuol di fiere.Che mezzo han d’uomo e di destier natura,Trista, oltraggiosa, insopportabil razza.Cui sol legge è la forza…..Sofocle — Le Trachinie — Tragedia. trad. di F. Bellotti.
Le stalle di Augia, che Ercole dovette nettare in un sol giorno, segnano una delle sue più ardue fatiche, poichè a raggiunger lo scopo, egli dovette deviare il corso dei due fiumi Alfeo e Peneo. Compiuta quest’altra gloriosa azione, Ercole fu esiliato dal re Augia, il quale ricusò di dargli il premio promesso, e allora fu che Ercole, resosi nella città di Oleno, ebbe a combattere contro il Centauro Euritione che voleva a viva forza sposare la figlia del re di quella {p. 148}contrada. Il brutale amante cadde sotto i colpi di Ercole, il quale tolse in moglie la giovane Mnesimachea che più tardi aiutò Ercole a vendicarsi di Augia.
Il toro di Creta fu un’altra delle fatiche di Ercole. Seguendo la opinione di alcuni scrittori, Minos re di quell’isola, avea promesso a Nettuno di sacrificargli qualunque cosa fosse uscita dal mare, e che il dio delle acque, per provare la fedeltà di Minos, avesse fatto uscire dai flutti un toro di una bellezza sorprendente. Minos colpito dalla straordinaria bellezza dell’animale, lo mandò nei suoi pascoli, sacrificandone un altro a Nettuno, il quale irritato contro Minos, rese feroce quell’animale. Ercole resosi in Creta, domò il toro, lo portò ad Euristeo e poscia gli rese la libertà. Diodoro dice che Ercole se ne servisse come cavalcatura e che montato su di esso traversò a nuoto il mare del Peloponneso.
I cavalli di Diomede, segnano un’altra delle fatiche di Ercole, il quale dopo di essersene impadronito, fondò la città di Abdera in onore del suo amico Abdero, ucciso in una battaglia. Poi, combattendo contro le Amazzoni ; egli si impadroni del famoso scudo della loro regina.
Il conquisto dei buoi di Gerione è un’altra delle grandi imprese di Ercole. Partito per impadronirsi di quegli armenti, Ercole traversò l’ Europa, combattendo contro molti popoli selvaggi e finalmente giunse nella Libia. Fu in questa traversata che egli uccise il famoso ladro Caco il quale aveva derubato porzione dei conquistati armenti. Ercole penetrò nella inaccessabile caverna del masnadiere, e lo strangolò fra le sue braccia V. Caco.
…… Ei che nè fugaAveva nè schermo al suo periglio altrondeDa le sue fauci meraviglia a dirlo !Vapori e nubi a vomitar si diedeDi fumo, di caligine e di vampa,Tal che miste le tenebre col focoTogliean la vista a gli occhi e’l lume a l’antro.Non però si contenne il forte Alcide,Che d’un salto in quel baratro gittossiPer lo spiraglio, e là v’era, del fumoLa nebbia e l’ondeggiar più deuso, e’l focoPiù roggio, a lui che’l vaporava indarno,S’addusse, e lo ghermi, gli fece un nodoDe le sue braccia, e si la gola e’l fiancoGli strinse, che scoppiar gli fece il petto,E schizzar gli occhi, e’l foco e’l fiato e l’almaIn un tempo gli estinse.virgilio. — Eneide — Libro VIII trad. di A. Caro.
Traversando la contrada di Tartessia, egli innalzò due colonne in memoria del suo viaggio, sulle due opposte montagne che terminano l’Europa e l’Africa. In questa spedizione essendo vivamente incomodato dai raggi infocati che il sole saettava su di lui, egli tese l’arco contro il Dio-Astro, il quale ammirando il suo coraggio, lo presentò di una barca d’oro di cui si servi per attraversare l’Oceano. Giunto ad Euritia egli s’impadronì degli armenti di Gerione, li mise nella sua barca e ritornato a Tartessia, offrit un olocausto al sole in ringraziamento del dono ricevutone. Passando in seguito nella Liguria egli combattè e vinse Alebione e Dercio i quali volevano appropriarsi gli armenti di cui egli s’era impadronito, avendo ucciso i suoi due nemici, si rese nella città di Tirrenia. Nella traversata uno dei suoi tori si sbandò, errando per le campagne di Reggio, ed uccise Ericio re di quella contrada. Avendo in seguito ritrovato il perduto animale, Ercole lo condusse insieme agli altri verso il mare Ionio, ma una tempesta violenta sollevata da Giuno ne, gli fece disperdere quasi tutti i conquistati animali nelle montagne della Tracia. Ercole gl’insegui, e ne ricondusse la maggior parte verso l’ Ellesponio.
Un’altra delle fati che di Ercole fu la distruzione degli uccelli del lago Stinfalo os sia delle Arpie le quali con la loro prodigiosa quantità, oscuravano il sole. In prosieguo di tempo tolse i pomi d’oro dal giardino dell’ Esperidi, i quali erano custoditi da un terribile drago che vomitava fiamme dalla bocca. Ercole combattè il mostro e l’uccise. Finalmente egli lottò col gigante Anico, e similmenie lo uccise, sollevandolo dalla terra, e togliendogli così lo strano privilegio che a lui accordava la Terra, sua madre, cioè, di raddoppiargli le forze, ogni volta che egli toccava il suolo. V.Anteo.
Finalmente dopo lunghe e penose fatiche, egli giunse a guidare quasi tutto l’armento ad Euristeo che lo sacrificò a Giunone. Tale è almeno il racconto che ce ne fa Apollodoro.
Un altro dei caratteri particolari dell’ Ercole greco, è di essere un gran bevitore, per il che lo si vede uscir vincitore dalla lotta contro Lepreo, famoso nelle sfide bacchiche. Gli antichi aveano simbolizzato codesta avidità del bere, la quale non à nulla di grossolano, quando si rapporta alla ruvida asprezza della vita eroica, per l’uso che essi aveano di vuotare completamente la coppa, nei sacrifizii che si offerivano ad Ercole.
Finalmente egli discese all’inferno, ove incatenò Cerbero V. Cerbero.
Terminate le sue dodici colossali fatiche, Ercole ritornò a Tebe ove fece sposare Megara a Iolase, ritenendo la sua primitiva unione con quella come disapprovata dagli dei. Seguendo la opinione di altri scrittori, Megara era già morta {p. 149}a quell’epoca, uccisa insieme ai suoi figli dalla mano stessa di Ercole.
Poco tempo dopo il suo ritorno a Tebe, avendo saputo che il re Euriteo aveva levato un bando, col quale prometteva la mano di sua figlia Iole, a colui che lo avesse vinto, insieme ai suoi figli, nell’esercizio dell’arco, Ercole si presentò alla disfida, ma il vinto re gli ricusò la mano di sua figlia. Tale è almeno la opinione di Apollodoro, la quale non si accorda con quanto ne dice Sofocle, secondo cui Ercole, era già marito di Dejanira quando si presentò al combattimento di cui era premio la mano di Iole. Qualche tempo dopo, viaggiando Ercole con Ifito figlio di Euriteo, lo uccise precipitandolo da una rupe, in un momento di furore.
Dall’eccelso pendio, mentre avea quegliOcchio e pensiero ad altra cosa intenti.Precipitolio. Opra siffatta a sdeguoMosse il padre e signor dell’universo.L’Olimpio Giove, e quella fraude in luiCol servaggio puni. Chè se vendettaFatto egli avesse con aperta forza.Perdonatò gi avria ; ma tradimentoNon lo soffrono i numi.Sofocle — Le Trachinie — tragedia trad. di F. Bellotti.
Ercole errò più tempo vagando in traccia di avesse voluto purificarlo da quella uccisione, e non fu che dopo lunghe ricerche, che incontrò finalmente Deifobo, figlio d’Ippolito, il quale gli rese un tale servigio. Ciò non impedì per altro all’Eterna Giustizia, di seguire il suo immutabile corso, ed Ercole colpito da una terribile malattia, andò a Delfo onde consultare quell’oracolo ; ma avendo la Pitonessa ricusato di rispondere alle domande di lui, Ercole rapì il sacro Tripode, e si costituì un suo particolare oracolo. Apollo allora sdegnato scese dall’Olimpo, e si accingeva a combattere contro di lui, e già i due nemici erano uno di fronte all’altro, allorchè Giove li separò con un colpo di fulmine. L’oracolo novellamente interrogato, rispose che Ercole guarirebbe dalla sua malattia, allorchè sarebbe venduto come uno scbiavo, ed avrebbe dato il prezzo di quella vendita ad Euriteo, onde com pensarlo della perdita di suo figlio, e si fosse in ultimo obbligato a rimanere al servigio di lui durante tre anni. Ercole si sottomise e allora fu che Mercurio lo vendette per tre talenti ad Onfale, regina di Lidia. Sofocle dice che l’eroe fu venduto per comando dell’oracolo di Giove, e che la sua schiavitù non durò più di un anno. Comunque ciò sia il periodo passato da Ercole fra le mollezze dell’amore, altro non è che la confusione surta fra le opinioni di molti scrittori dell’antichità, i quali hanno assai di sovente scambiato l’ Ercole greco col Sandon della Lidia. Da una schiava di Onfale a nome Cleoasia, e da Onfale stessa, ebbe Ercole un figlio che fu detto secondo taluni Lamio, e secondo altri Tirrenio o Agelao. Gioverà per altro ricordare che tuttociò riposa su tradizioni non molto antiche rapportate da Apollodoro e da Apollonio.
Durante la sua schiavitù, Ercole sconfisse ed incatenò i Cercopi specie di spiriti malefici. Passato quindi nella città di Aulide, egli uccise Sileo insieme alla figlia Xenodice, poichè d’accordo con suo padre obbligava i passanti a lavorare la terra. Altri scrittori pretendono che Sileo dimorasse sul monte Pelia in Tessaglia, e che il fratello di lui, Diceo, avesse fatto sposare sua figlia all’eroe.
La giovane sposa morì poco tempo dopo le nozze, ed Ercole fu colpito da tale disperazione, che volle gittarsi nelle fiamme del rogo di lei, ma gli astanti ne lo impedirono. Sbarcato in seguito all’isola Dolichea, egli vi trovò il corpo d’Icaro, l’onorò di sepoltura, e cangiando il primitivo nome di quell’isola la chiamò Icaria in onore del defunto. Dedalo riconoscente perciò gli fece innalzare una statua, contro la quale Ercole tirò una pietra credendo, mentre vi passava a fianco, che fosse un corpo animato. Avendo in seguito ucciso un enorme serpente che desolava le rive del fiume Sangaride, fu da Giove annoverato, sotto il nome di Serpentario, fra le costellazioni. Nè a ciò arrestossi la luminosa carriera delle gesta di Ercole, poichè irritato contro Literso figlio del re Mida, il quale massacrava tutti coloro a cui dava l’ospitalità, Ercole lo uccise per un movimento di generosa indegnazione.
Seguendo le tradizioni di Apollodoro, Ercole figura anche fra gli Argonauti, sebbene è opinione dello stesso autore, che Ercole rimanesse affatto estraneo alla famosa spedizione della Colchide. Altre notizie non meno tradizionali, raccolte da Apollonio, pretendono, per contrario, avere Ercole preso una parte attivissima nel memorabile fatto della conquista del Vello d’oro. Secondo questo scrittore, Ercole costrui la nave che servi a quella spedizione, dandole il nome di Argo in onore di un suo diletto amico così chiamato, e che la tradizione ci presenta come figlio di Giasone.
Gli Argonauti scelsero Ercole per loro capo ma egli ricusò quest’onore temendo di maggiormente eccitare la vendetta di Giunone, ed allora in sua vece fu eletto Giasone. Ercole fu aiutato dagli Argonauti a combattere le Amazzoni. Qualche altro autore pretende che gli Argonauti avessero abbandonato su di un’isola {p. 150}deserta Ercole, perchè l’enorme peso del suo corpo faceva affondare la nave, e che abbandonato dai suoi compagni egli fosse giunto in Colchide per un cammino sconosciuto.
Terminata la sua schiavitù e guarito della sua malattia, Ercole intraprese una spedizione contro Troja, e mosse con diciotto navi a cinquanta remi, e secondo altri, con sole sei navi, ed accompagnato da un drappello di valorosi che volontariamente il seguirono. Appena preso terra, Ercole lasciò le navi sotto la custodia di Oileo e mosse ad attaccare la città. L’assedio essendo durato qualche tempo, Telamone aprì una breccia nelle fortificazioni e si slanciò il primo sulle mura nemiche, ciò che gli valse, forse per gelosia, l’inimicizia di Ercole. Diodoro dice che insieme ad Ificlo, fossero stati inviati come parlamentarî, e che gettati in una prigione, essi si fossero aperta una via fra i nemici a colpi di spada. Padrone della città, Ercole fece morire a colpi di freccia il re ed i suoi figli, meno Podareo ed Esioda la quale dette in moglie a Telamone. Al suo ritorno da questa spedizione, egli fu spinto da una tempesta suscitata da Giunone, sull’isola di Coos, ma gli abitanti respinsero Ercole e i suoi compagni a colpi di pietre. Egli si vendicò impadronendosi dell’isola, e uccidendo Euripilo re di quella, della cui figlia ebbe Tessalo. Nel combattimento Ercole fu gravemente ferito, ma Giove lo guarì istantaneamente.
Dopo questa spedizione egli si rese a Flegra, ove per comando di Minerva, combattè contro i giganti in favore degli dei. Al suo ritorno egli instituì i giuochi olimpici, ed innalzò dodici altari in onore di dodici divinità. La sua prima impresa, dopo di ciò, fu la presa di Pilo, in cui ebbe a combattere Periclimene, Neleo ed i suoi figli i quali tutti caddero sotto i suoi colpi. Fu in questo combattimento che Ercole ferì Pluto ne, che era venuto in soccorso degli abitanti di Pilo. Da quest’ultima città egli marciò contro Lacedemone per vendicarsi di suo figlio Ippocoone, e in ciò si ebbe a compagno Cefeo ed i venti figli di lui, che tutti morirono in questa spedizione. Avendo ucciso Ippocoone, Ercole si impadronì della città, di cui ritornò lo scettro al suo legittimo re Tintaro. Di là Ercole si rese a Calidone per dimandare la mano di Dejanira, figlia di Oeneo, che Acheolo gli disputò invano. Inseguito i Calidonesi marciarono, da lui comandati, contro i Tesprodi ; avendo presa Efira di cui era re Fileo, Ercole ebbe dalla figlia di questo principe a nome Antigone, e secondo altri Astiochea, un figlio che chiamò Tlepolemo.
Poco tempo dopo resosi colpevole della uccisione di Eunomo, Ercole si sottomise all’esilio, e risolvette di ritirarsi nella città di Trachina presso Ceixo. Fu nell’andare in questa città, che Dejanira ebbe a sopportare l’oltraggio del centauro Nesso, il quale si vendicò su di Ercole mediante il dono del fatale Altro. (V. Delanira).
Soggiornando in Trachina, egli si impadroni delle città dei Driopi, protesse Eginio contro i Lapidi, che lo aveano detronizzato, e avendo resa a questo principe la corona, uccise Laogara, re dei Driopi, e tutti i suoi figli con lui, per punirli della loro ribellione. Al suo passaggio per Itone. Ercole fu disfidato ad un particolare combattimento da Cineo figlio di Marte e di Pelopia, ed uccise il suo audace rivale il quale seguendo l’opinione di Stesicore, uccideva tutti i viaggiatori, che transitavano per quella città, onde innalzare coi loro cranî un tempio al nume suo padre. Ercole andò in seguito ad Ormenio, di cui era re Amintore che egualmente Ercole uccise perchè si era opposto al suo passaggio per i suoi stati, quantunque Diodoro rapporto che Amintore fosse ucciso da Ercole per avergli negato la mano di sua figlia Astidamia. Seguendo le cronache di Apollodoro, e Diodoro, Ercole ritornato a Trachina, volendo vendicarsi di Euriteo, levò un’armata, marciò contro la città di Oecalia, che alcuni scrittori pongono nella Eubea, ed altri in Tessaglia. Resosi padrone delle città nemiche, egli uccise Euriteo e i tre figli di lui, e si rese padrone della capitale dei loro stati. Dopo aver dato la sepoltura a Ipposo, figlio di Ceixo, ad Argio ed a Melaso suoi compagni, caduti combattendo al suo fianco, egli mise la città a sacco ed a fuoco, e condusse con sè prigioniera la giovanetta Iole, di rara bellezza. La tradizione ripetuta da Sofocle differisce molto da questa : Ercole da quindici mesi è lontano dalla città di Trachina senza che Dejanira conosca il luogo del suo soggiorno. L’eroe serviva allora la regina Onfale, e parte direttamente dalla Lidia per assediare la città di O calia di cui si rende padrone. Abbordato al capo Cineo nell’Eubea, Ercole vi innalzò un altare a Giove, e volendo sacrificare a quel Dio, mandò uno dei suoi araldi a Trachina, onde avere un’abito da festa. Dejanira saputo dall’araldo, che Ercole avea con sè la giovanetta Iole, e temendo che innamoratosi di questa, non l’avesse completamente dimenticata, asperse del filtro di Nesso la tunica che mandò al marito, ed attese l’esito dell’incantesimo.
Ritornato l’araldo rimise ad Ercole la tunica ricevuta da Dejanira ma non appena Ercole se ne fu rivestito, il veleno dell’idra di cui era impregnata, accese un fuoco divoratore nel sangue di lui, rendendolo quasi demente. In {p. 151}eccesso di furore afferrò il giovanetto per nome Lica e lo lanciò dall’alto di una roccia nel mare.
…… poscia che il toscoSenti della fatal veste di Nesso,Svelse nel suo furor dalla radiceI tessalici abeti, e nell’EubeoLica scagliò dai vertici dell’EtaMiltonParadiso perduto lib. II. trad. di A.Maffei.
….. Già preparando ei stavaUn lauto sacrificio, allor che giunseLica l’araldo, e quel tuo don gli porge.Fatal vesta di morte. Ei ne l’indossa.Come tu gl’imponevi : e delle centoD’ogni sorta colà vittime addotte.Primizia eletta di sue prede immolaDodici egregi tauri. E pria tranquilloPreghi fea l’infelice, e di quel vagoAdornamento in sè godea : ma rattoChe dall’ostie e dai rami in su l’altareSurse la fiamma, per le membra un largoSudor gli si diffuse, e tutta, comeCon glutine tenace, alla personaGli si affessa la spoglia, e un rio nell’ossaGli penetro pruriginoso ardore.Ond’ei, poi che dell’idra il fatal toscoLe sue carni pascea. lo sventuratoLica, non rea del fallir tuo, sgridando.Domandò per qual fraude a lui recataAvea tal veste. Il misero, che nullaSapea, rispose che tuo dono ell’era,E tu sel che la mandi. A questi accenti,Ei che da fiero spasmo straziarsiLe viscere sentia, d’un piè l’afferraAlla giuntura, e via l’avventa incontroAd alto scoglio : il capo gli si spezzaPer mezzo, e misto col sangue e le chiomaNe va il cerebro sparso.Sofocle — Le Trachine — tragedia trad. di F. Bellotti.
Ercole tentò invano di strapparsi di dosso il fatale tessuto, il quale si era come incollato sulle sue carni, per modo che ad ogni sforzo che Ercole faceva per strapparselo di dosso, la carne di lui si lacerava a brani. Finalmente, quasi moribondo, si fece portare a Trachina, ove Dejanira vedendo il male che aveva fatto, si uccise per disperazione.
La luminosa carriera di questo eroe finisce secondo la tradizione mitologica in modo non meno famoso. Dappoichè salito sul monte Eta e avendovi fatto innalzare un rogo, egli dopo esservisi coricato ordinò che vi venisse appiccato il fuoco, obbedendo per tal modo all’oracolo al quale egli s’era rivolto nelle sue più crudeli sofferenze. Non vi fu alcuno che avesse voluto mettere il fuoco alle legna per molti giorni ; finalmente un pastore per nome Paeso accettò il compito doloroso, ricevendone in ricompensa le famose frecce dell’eroe. Non piccolo numero di autori pretendono che colui che compì codesta triste funzione fosse stato un greco per nome Morsimio. Mentre il rogo bruciava, il fiume Diraso scaturì dalla terra per portare qualche refrigerio alle sofferenze dell’eroe, il quale ricinto di una nube, su trasportato nel cielo in mezzo a replicati scrosci di fulmine, per comando dl Giove stesso.
E come la sua invitta e nobite almaScarca sarà dal suo mortal tormento,Vo che venga alla patria eterna ed alma,E credo che ogni Dio ne sia contento ;Che s’ei portò laggiú per noi la palmaDi mille imprese carche di spavento,Giusta cosa mi par che ’l suo gran lume,Nel ciel risplenda e sia celeste Nume.Ovidio — Metamorfosi — Libro IX trad. di Dell’ Anguillara.
Assunto nel numero degli dei, Ercole ricevette l’immortalità e si riconciliò con Giunone, la quale lo unì ad Ebe, da cui Ercole ebbe due sigli Alesiareo e Aniceto. Un’antichissima tradizione, seguendo la quale Ercole sottomesso alla legge della mortalità, prima della sua apoteosi, sarebbe stato richiamato in vita odorando una quaglia, farebbe credere ad uno scambio erroneo e vizioso con quell’Ercole che Cicerone sa esser siglio di Giove e di Asteria.
Prodigioso è il numero dei figliuoli che i cronisti della mitologia attribuiscono ad Ercole, concordandosi, quasi tutti, nello assegnare a quest’eroe fino ad ottanta e più figliuoli, avuti da un gran numero di mogli e di concubine. Similmente estesissimo e moltiplicato è il numero dei soprannomi allegorici ed allusivi a lui dati, dai differenti popoli dell’antichità, i quali soprannomi derivano quasi tutti, e fanno continua allusione, ai principali fatti da lui compiuti nella sua eroica carriera, o alla sua forza prodigiosa, alla sua voracità, alla sua nascita quasi divina, o a qualcheduna delle singole città che con un culto particolare, venerava codesto simbolo della forza.
Seguendo la opinione di Dionigi d’Alicarnasso, Ercole ebbe tempî ed altari in tutte le parti di Italia. Da ciò non bisognerà dedurre che il culto dell’eroe fosse, presso i popoli Italici, interamente conforme al culto che a lui tributavano i popoli della Grecia.
Questo culto si era necessariamente alterato, sia pel contatto delle diverse tradizioni indigene, le quali sono quasi tutte identiche, sia per la confusione necessariamente avvenuta fra le leggende Fenicie ed Asiatiche, che sopraccaricarono inevitabilmente della loro impronta particolare il colossale profilo del dio eroe. Per esempio, fra i tratti particolari del culto d’Ercole {p. 152}presso i romani, figura l’uso di consacrargil la decima parte dei beni della propria famiglia, secondo che fecero Silla, Crasso e Lucullo. Questa consuetudine derivava incontestabilmente dal culto dell’Ercole Tirio, al quale si offeriva una decima. È anche nella sola città di Roma, che Ercole viene adorato sotto il soprannome di Musagete, la cui denominazione non si sa con esattezza d’onde derivi. Il certo è che Marcio Filippo, ai tempi di Augusto, innalzò ad Ercole un magnifico tempio, nel quale il dio veniva adorato sotto la figura di un uomo dalle forme atletiche, con una lira nella mano. Tutte le diverse città della Roma Imperiale, possedevano monumenti simili, in cui egli veniva adorato o sotto il suo proprio nome, o con qualche particolare denominazione. Così Ercole vincitore aveva due templi particolari, uno posto presso la porta Trigemina e l’altro nel Foro Boario. Il suo famoso altare detto Ara Maxima, istituito da prima dalla famiglia dei Politioni, fu in seguito servito dagli schiavi pubblici, e finalmente custodito dal Pretore stesso della città. I giuramenti che si facevano sull’ Ara Maxima erano riguardati come doppiamente sacri. La festa principale di Ercole, si celebrava con gran pompa in Roma nel di 4 giugno ; quella di Ercole e di Cerere, nel 21 dicembre ; e quella di Ercole e delle Muse, nell’ultimo giorno di giugno. In tutte queste solenni ricorrenze era espressamente proibito d’introdurre nel sacro corteggio nè donne, nè schiavi nè cani. Il culto di Ercole fioriva ancora in Sicilia, a Malta, a Cadice, in Sardegna, in Corsica, e perfino nella Gallia e nella Germania presso le quali ultime contrade degli eroi indigeni furono con ben poca ragione, identificati con l’uomo Dio, figlio di Alcmena.
L’arte plastica ha fatto di Ercole l’oggetto delle sue più belle e ricche creazioni.
Essa ha quasi dato fine a questo tipo di creazioni ideali, e oltrepassando i limiti che la tradizione gli aveva assegnato, ha lasciato alla posterità più monumenti di questo eroe, che di alcun altro personaggio dell’antichità. Il carattere generale dei simulacri di Ercole, rivela una forza maschia e quasi soprannaturale, la quale apparisce egualmente nell’infanzia del figlio d’Alemena, e nello sviluppo della sua maschile maturità. Le statue che si trovano nelle Gallerie di Firenze, nel Museo di Napoli ed a Roma, ce lo rappresentano appena poppante che strangola i draghi mandati dalla gelosia di Giunone a farlo morire. Le sue membra sono vigorose ; i capelli crespi e foltissimi, il suo collo corto e muscoloso : i suoi tratti esprimono la temerità, la sua fronte la conoscenza della sua forza indomabile, tutto in lui annunzia infine l’eroe destinato a sostener con onore la lotta terribile ed accanita con tuttociò che si riveste di un apparato fisicamente brutale. A Roma si conserva sotto il nome di Ercole Aventino, una statua dell’Ercole adolescente, in cui la forza delle membra sviluppatasi dall’infanzia nella pubertà, non è in minor relazione di quella che già sorprende ed atterrisce quasi nel simbolico neonato, strangolatore di due serpenti. Ma il più gran numero delle opere d’arte, ci dipinge Ercole nel pieno sviluppo delle sue forze fisiche, nella sua comcompleta maturità maschile. Ordinariamente egli è rivestito d’una pelle di leone. Le sue armi sono un arco ed una clava. La testa e gli occhi, paragonati al resto del corpo sono piccoli ; i capelli corti e folti, la parte inferiore della fronte saliente, l’espressione del volto è grave e seria. Le spalle, le braccia, le cosce, le gambe, i piedi e le mani rivelano una forza tremenda, invincibile, soprannaturale e fanno quasi balenare l’idea della vittoria, che coronò tutte le fatiche di questo dio. La statua dell’Ercole in riposo, conosciuta comunemente sotto il nome d’Ercole Farnese, ce lo presenta appoggiato sulla sua clava, avente nell’altra mano i famosi pomi delle Esperidi. Questa bella statua è opera dello scultore Glicone quantunque l’idea primitiva appartenga a Lisippo, artista greco non meno illustre.
Il celebre torso del Belvedere, rappresenta anche un Ercole in riposo, ma qui le forme non rivelano quella prostrazione che segue dal compimento di penosi e lunghi lavori, ma sibbene una beatitudine completa, un riposo calmo e felice, un’assoluta tranquillità, retaggio invidiabile degli immortali abitatori dell’olimpo.
Gran numero di vasi antichi ci hanno nei loro bassorilievi trasmessa l’apoteosi d’Ercole, in cui lo si vede ascendere al cielò accompagnato da Minerva o da Mercurio con la fronte recinta di un’aureo’a luminosa.
Esistono ancora gran numero di monumenti, di quadri, di medaglie ec : in cui sono riprodotte le dodici fatiche di Ercole.
1765. Ere. — V. Es.
1766. Eresidi. — Ninfe che prendevano cura del bagno di Giunone. Nella città di Argo veniva dato lo stesso nome alle sacerdotesse che presiedevano al culto di quella dea. Esse godevano di tanta pubblica venerazione che gli anni del loro sacerdozio servivano di data nei pubblici monumenti, assomiglianza degli Arconti di Atene e dei consoli di Roma.
1767. Ereso. — Una delle città dell’isola di Lesbo, ebbe questo nome da un figliuolo di Macario che così si chiamava.
1768.Eretrio. — Uno dei figli del Titano
{p. 153}Fetonte il quale dette il suo nome ad una città della Beozia detta perciò Eretria.
1769.Erea. — Gli antichi davano questa denominazione al giorno in cui si celebrava nella città di Corinto, l’anniversario funebre dei figli di Medea, i quali, secondo la tradizione, furono sepolti nel tempio di Giunone.
1770Eretteo. — Secondo la favola fu figlio della Terra, e fu allevato da Minerva, la quale lo educò nel magnifico tempio ch’ella aveva in Atene. Divenuto adulto, fu re di quella città, e narrano le cronache, che essendo in guerra contro gli Eleusini, seppe dall’oracolo che per riuscire vittorioso, avrebbe dovuto sagrificare a Proserpina, una delle quattro figliuole che egli aveva carissime. Però le quattro giovanette si amavano fra di loro con tanta tenerezza, che si erano scambievolmente giurato, che ove una di esse, fosse venuta a morire, le altre tre si sarebbero uccise di propria mano. Eretteo per ubbidire all’oracolo sagrificò la maggiore delle sue figliuole per nome Ottonea, e le altre tre mantennero la fede giurata e si tolsero, nell’istesso tempo, la vita. Gli Ateniesi in commemorazione della loro gratitudine a questo loro re, che per il bene comune non aveva esitato un momento a sagrificare una figlia diletta, gli edificarono un tempio nella cittadella di Atene, e lo annoverarono fra gli dei.
Secondo Euripide, Eretteo fu precipitato nel seno della terra con un colpo di tridente da Nettuno.
Un’altra delle quattro figliuolo di Eretteo avea nome Creusa e fu secondo la cronaca, sedotta da Apollo.
1771. Ergameno. — Re di Meroe, città dell’Etiopia. Il nome di lui è ripetuto dai mitologi e dai cronisti dell’antichità, per avere egli fatto uccidere tutt’i sacerdoti del suo paese, temendo, non senza ragione, il potere della loro grave preponderanza nelle cose dello stato.
1772. Ergana. — Soprannome di Minerva riguardata come imventrice di varie arti e mestieri. Da ciò venivano dette Ergastine quelle giovanette le quali tessevano il peplo della dea, che si portava processionalmente anche nella celebrazione di altre feste dette Panatenee.
1773. Ergazie. — Nome di alcune feste che si calebravano a Sparta in onore di Ercole.
1774. Ergino. — Fu uno dei marinai, che in qualità di pilota, succedette a Tifi nel governo della nave degli Argonauti, secondo la cronaca egli fu figliuolo di Nettuno.
1775. Eribea. — Moglie di Astreo. Presso i cronisti della favola viene riguardata come madre degli astri, forse a causa del nome di suo marito. È questa peraltro un’opinione assai incerta e confutata da molti autori.
1776. Erice. — Re di Sicilia, il quale, dal suo nome, chiamò Ericia la contrada di cui era sovrano. La favola ce lo presenta come figlio di Buta e di Venere, e atleta famoso nel combattimento del cesto. Avendo un giorno sfidato alla lotta Ercole, questi accettò col patto che premio della pugna fossero, per parte del principe, i suoi stati, e per parte sua gli armenti di Gerione.
Nel combattimento Erice fu vinto ed ucciso, e venne sepolto nel tempio di Venere. Dopo la sua morte i Siciliani chiamarono una delle loro montagne col nome di Erice, e tributarono gli onori divini al morto re atlefa.
1777. Ericina o Ericinia. — Soprannome di Venere a lei venuto dall’avere un tempio fabbricato sul monte Erice, che essendo stato abbattuto fu poi rifabbricato da Claudio Imperadore e che si rese celebre nei fasti dell’antichità religiosa per le cerimonie dette Catacogie e Anacogie. Il nome di Ericina passò fino nell’Arcadia e fino in Roma, ove, presso la porta Collina, Venere ebbe diversi tempii a lei consacrati sotto una tale denominazione. Eliano ricorda di numerosi miracoli avvenuti nel tempio maggiore di Ericina. Egli narra che le vittime andavano senza esser guidate ad offrire il loro collo al coltello del Flamine sagrificatore ; che l’urna dei sacrificii si trovava sull’altare senza che alcino ve l’avesse deposta ; e che finalmente il fuoco del Sacrifizio si trovava acceso sull’ara senza bisogno nè di legna nè di carbone.
1778. Erifane. — Fu il nome di una giovanetta Greca la quale amò con passione un cacciatore chiamato Menalca. Ella non potendo sopportare la freddezza che il suo prediletto le addimostrava, morì consunta d’amore cantando una malinconica canzona, in cui rimproverava a Menalca la sua indifferenza crudele. Coll’andar del tempo, quella canzone fu ripetuta in tutta la Grecia, e sul ritmo di quella melodia, furono rappresentate le avventure di Erifane, e lo sventurato amore che l’aveva uccisa, sul fiore degli anni.
1779. Erifile. — Moglie di Anfiarao e figlia di Taleo. Essa tradì il marito, il quale venne a conoscenza della colpa di lei per essersi nascosto invece di andare all’assedio di Tebe, ove egli sarebbe morto, secondo che gli aveva rivelato l’arte della negromanzia, in cui era famoso. Venuto per altro in certezza del tradimento di sua moglie, Anfiarao decise di partire per la guerra, non ostante l’inevitabile morte che lo aspettava, ma prima di allontanarsi, impose ad Alcmeone, suo figlio, di uccidere l’ {p. 154}adultera Erifile, Alcmeone eseguì allla lettera il sanguinoso mandato.
Les oracles cruel enfin sont accomplis :Et je meurs par les mains, quand je retruove un fils !Le ciel est juste.Voltaire — Eriphile — Tragedie Acte V Scène derniere.
1780. Erigone. — Fu figlia di Clitennestra e di Egisto e moglie di Oreste, quantunque questi fosse suo fratello per parte materna, da questa unione naque un figliuolo chiamato Pentilo. Dopo la morte di Oreste, Erigone si consacrò al servigio di Diana.
La cronaca ricorda di un un’altra Erigone, che fu figliuola di Icaria. Seconda la tradizione, essa fu, dopo la morte, annoverata fra gli astri, ove formò, nei segni dello Zodiaco, la costellazione della Vergine.
1781. Erilo. — Fu figlio della dea Feronia e re di Preneste. La tradizione ripete di lui uno strano fatto, che egli cioè avesse ricevuta da sua madre tre anime e tre armature, per modo che per ucciderlo bisognava trucidarlo tre volte.
Evandro re di Arcadia gli tolse le armi e la vita.
………. ond’loSotto Preneste il primo incontro feiCo’ miel nemici, e vincitore i montiArsi de’scudi ; allor ch’Erilo stesso,Lo stesso re con queste mani ancisi.A cui nascendo avea Feronia madreDate tre vite e tre corpi, e tre volteMeraviglia a contarlo : era mestieroCombatterlo e domarlo ; ed io tre volteLo combattei, lo vinsi, e lo spogliaiD’armi e di vita ;Virgilio — Eneide Libro VIII. trad. di A. Caro.
1782. Erimanto. — Figliuolo di Apollo. Egli avendo sorpreso Venere che usciva dal bagno dalle braccia di Adone fu per volere della dea colpito di cecità. Apollo allora per vendicare il figliuolo, prese le forme di un cignale ed uccise Adone.
Erimanto era anche il nome di una montagna nell’Arcadia, famosa per il cignale che è conosciuto nella tradizione favolosa sotto lo stesso nome. Ercole lo prese vivo e lo portò ad Euristeo. È questa una delle dodici fatiche di quell’eroe. V. Ercole.
1783. Erinnie. — Venivano così in Grecia chiamate le Furie che sotto questa denominazione avevano un tempio in Atene nelle circostanze dell’Areopago ; più comunemente si dicevano Erinni. — V. Erinni.
1784. Erinni. — Nei poeti dell’antichità si trova di sovente data questa denominazione a quelle donne che furono cagione di grave danno al proprio paese. Lucano chiama Cleopatra l’Erinni dell’Italia ; e Virgilio dice lo stesso ad Elena.
Erinni era anche il nome che in Sicilia si dava a Cerere, a cui la tradizione favolosa lo attribuiva dal fatto seguente.
È detto che allorquando Cerere andava in cerca, nelle campagne della Sicilia, di sua figlia Proserpina, rapita da Plutone, essa venisse incontrata da Nettuno, il quale invaghitosi della bellezza di lei, la sedusse. Cerere su talmente afflitta di quanto le era avvenuto, che andò a nascondersi in una caverna. Inlanto colla lontananza della dea dell’agricoltura, la terra incominciava a soffrire una spaventevole sterilità, e la fame e la peste decimavano gli uomini. Allora gli dei la fecero cercare da per ogni dove, ma non giunsero a scoprirla, finchè il dio Pane entrando per caso nella caverna dove Cerere era nascosta, la riconobbe e andò immediatamente ad avvisarne Giove, il quale mandò subito a cercarla dalle tre Parche, che a forza di preghiere la persuasero ad uscire dal suo nascondiglio.
Da ciò i siciliani chiamarono Erinni, o anche Cerera Nera, la dea dell’agricoltura, perchè l’oltraggio fattole da Nettuno l’avea resa furibonda.
Erinni si chiamavano anche le furic infernali.
Ove in un punto furon dritte rattoTre furie infernal di sangue tinte,Che membra femminili avieno ed atto ;E con idre verdissime eran cinte :Serpentelli e ceraste avean per crine.Onde le fiere tempie eran avvinte.E quei che ben conobhe le meschineDella regina dell’eterno pianto :Guarda, mi disse, le feroci Erine.Dante — Inferno — Canto IX.
1785. Erinno. — Così avea nome una poetessa di Lesbo che le cronache del tempo fanno contemporanea di Saffo.
1786. Erisittone. — Così avea nome uno degli avi materni di Utisse che ebbe fama di audacissimo ed empio disprezzatore degli dei. La cronaca mitologica narra di lui che un giorno ebbe la temerità di fare oltraggio a Cerere rompendo a colpi di bastone alcune piante in un bosco consacrato a quella dea. Le Driadi che secondo la favola, abitavano quelle piante, ricorsero a Cerere onde ella punisse l’empio profanatore. E Cerere non tardò a vendicarsi in modo crudele perchè mentre Erisittone dormiva ella soffiò il veleno della carestia nella bocca di {p. 155}lui e glielo fece penetrare nella gola e in tutte le vene. Erisittone svegliatosi sentendosi a divorare dalla fame cominciò dal mangiare avidamente tutto ciò che gli cadeva alle mani e finì col lacerarsi coi proprî denti le carni.
1787. Ericinia — V. Ericina.
1788. Eritrea — In Eritra, città della Beozia, visse questa sibilla, conosciuta dalla tradizione sotto il nome di Eritrea dal suo paese natio. Ella predisse ai Greci il conquisto di Troia e la futura grandezza di Roma.
1789. Eritolde. — Fu una delle Esperidi che fu cangiata in olmo. V. Esperidi.
1790. Eritro. — Da un tempio che Ercole aveva nella città di Eritre, in Acaja, si dava cotesto soprannome a quel dio. Quella statua riposava sopra una specie di Zattera, ed una tradizione degli Eritrei ripeteva che fosse giunta nella loro città da Tiro per mare, e che entrata nel mare Jonio, si fosse fermata nelle vicinanze del promontorio di Giunone, fra Chio ed Eritre. Narra Pausania nelle sue cronache, che quando i due popoli delle suddette città scoprirono la statua, posero in opera tutt’i mezzi ciascuno dalla sua parte per tirarla alla propria spiaggia, ma non riuscirono a poteria rimuovere ; allorchè un pescatore di Eritrea, che era cieco, disse di essere stato avvertito in sogno, che se le donne di Eritrea avessero voluto tutte tagliarsi i capelli e formare una corda, avrebbero senza fatica tirato la statua alla loro spiaggia. Però le donne di Eritera, non vollero acconsentire a sacrificare la loro capigliatura. Allora le donne Tracie che servivano in Eritrea, spontaneamente accondiscesero a quanto imponeva il sogno del pescatore, e fatta una corda dei loro capelli, tirarono la statua di Ercole nella città senza ostacolo alcuno. Gli Eritrei per ricompensare lo zelo delle Tracie, stabilirono che in avvenire nel tempio di Ercole, avessero accesso solamente le donne. In quanto al pescatore, la tradizione ripete che da quel momento egli ricuperò la vista, della quale godè fino all’ultimo dei suoi giorni.
1791. Eritto. — Sul monte Emo in Farsaglia, e propriamente nel luogo ove fu combattuto la famosa battaglia fra Cesare e Pompeo, visse una maga di questo nome. Lucano ne fa il soggetto di uno dei più splendidi episodii di un suo poema in cui fa predire al padre di Sesto Pompeo, la perdita della battaglia e l’eccidio di tutta la sua famiglia.
1792. Erittonio. — Quarto re di Atene, che la tradizione mitologica fa figliuolo di Vulcano e di Minerva. La dea sua madre accorgendosi che Erittonio aveva la parte inferiore come quella di un serpe, lo chiuse appena nato in un canestro e lo consegnò ad Aglauro, perchè lo avesse abbandonato in un bosco. V. Aglauro.
La favola attribuisce ad Erittonio l’invenzione dei carri o piuttosto l’indroduzione dell’uso di essi in Atene. Dopo la morte egli fu assunto fra gli astri, sotto la costellazione di Boote, ossia guidatore del carro.
1793. Erizia. — Una delle Esperidi.
1794. Eritreo. — Dalla parola Greca Ἐρυδρδς che significa rosso, si dava questo nome ad uno dei cavalli del Sole. Al dire del Mitologo Fulgenzio, il nome di Eritreo gli veniva dal levare del sole, i cui raggi sono in quel momento di un colore rossiccio.
1795. Ermafrodito. — Gli antichi ne fecero una divinità, figlia di Mercurio detto anche Ermete e di Venere Afrodita. La significazione, etimologica si ritrova nella stessa parola. Secondo la tradizione, Ermafrodito fu allevato dalle ninfe Najadi, e crebbe di aspetto bellissimo, riunendo in sè la bellezza fisica del padre e della madre. Ancor giovanetto, bagnandosi nella fonte custodita dalla ninfa Salmatide, questa, vedendolo così bello se ne innammorò perdutamente e volle costringerlo a vivere con lei. Ermafrodito respinse le sue preghiere, e allora la ninfa si gettò nell’acqua, e abbracciatolo strettamente, supplicò gli dei perchè le concedessero la grazia che i loro corpi ne formassero uno solo. Da ciò la tradizione favolosa che dà ad Ermafrodito il soprannome di Antrogino, che significa maschio e femmina.
1796. Ermanubi. — Gli Egiziani davano questo nome particolare a Mercurio Anubi, la cui statua veniva rappresentata con un corpo umano avente una testa di sparviero o di cane. La statua poi di Ermanubi si riconosceva dalla sua tunica senatoria e perchè aveva nella mano destra un caduceo e nella sinistra un sistro.
1797. Ermapollo. — Si dava cotesta denominazione ad un simulacro composto delle due figure di Apollo e di Mercurio, e rappresentante, in una sola figura, questi due numi.
1798.Ermarpocrate. — Alla statua di Mercurio avente la testa di Arpocrate, si dava cotesto nome forse per voler significare che talvolta il silenzio, raffigurato da Arpocrate — V. Arpocrate — è eloquente quanto la parola facile, che era una delle qualità del dio Mercurio.
1799. Ermatene. — Così si chiamava il simulacro che rappresentava le due figure di Minerva, il cui nome Greco è Atene, e di Mercurio. Questa figura aveva da una parte l’elmo, lo scudo e le altre insegne di Minerva ; e dall’altra il cimiero colle ali, un seno di uomo, ed un gallo che erano gli attributi di Mercurio.
{p. 156}1800. Ermete. — Essendo Ermete uno dei nomi del dio Mercurio, si chiamaveno Ermee alcune feste celebrate in suo onore.
1801. Ermenitra. — Si dava cotesta denominazione ad un simulacro che aveva il corpo del dio Mercurio e la testa di Nitra V. Nitra.
1802. Ermeracle. — Altra statua composta delle figure di Mercurio e di Ercole, essendo Eracle il nome Greco di quest’ultimo dio. Si mettevano comunemente le statue degli Ermeracli nelle accademie e nei luoghi di esercizii, quasi a volere indicare che Mercurio ed Ercole ossia la destrezza e la forza, dovevano presiedere agli esercizii della gioventù.
1803. Ermero. — I Greci chiamavano Cupido colla particolare denominazione di Eros, e da ciò dissero Ermero quelle statue che avevano una testa di Cupido.
1804. Ermete. — I Greci davano questo nome a Mercurio, perchè secondo riferisce Diodoro, la parola Ermete significa interpetre o messaggiero. Gli Ateniesi, e dopo di loro tutti i popoli della Grecia, rappresentavano Mercurio Ermete con una pietra di figura cubica con la sola testa, senza piedi e senza braccia. Al dire di Servio, un’antica tradizione favolosa dette origine a questa strana configurazione. Il citato scrittore narra, che alcuni pastori avendo trovato su di una montagna la statua di Mercurio gli avessero tolto le braccia e tagliate le gambe, ed avessero poi collocato il tronco alla porta d’un tempio. Da ciò forse derivò l’uso di porre alla soglia delle case e per sino nelle crociere delle strade, un simulacro di Ermete.
1805. Ermia. — Giovane Greco il quale si annegò traversando il mare, sul dorso di un delfino, durante una tempesta. Un’antica tradizione, non molto divulgata, racconta che il delfino, sebbene Ermia fosse morto, lo riportasse alla riva, e che quivi morisse esso stesso, quasi conoscendosi colpevole della morte di lui.
1806. Ermione. — Fu uno dei più antichi re della Germania, il quale dopo la morte venne annoverato fra gli dei, in premio del suo eroico valore. In quasi tutti i monumenti della Germania, e particolarmente nei templi, si sono ritrovate delle statue di Ermione, rappresentato come un guerriero coperto di ferro con la lancia e lo scudo.
Ermione è anche un figlio di Europa, il quale dette il suo nome ad una città posta su di un estremo lembo della penisola Argolide. Una vecchia tradizione racconta che in questa città eravi una strada per la quale si discendeva all’inferno.
Le cronache mitologiche ricordano di un’altra Ermione figliuola di Marte e di Venere, e moglie di Cadmo re di Tebe. Il giorno in cui ella andò all’altare, tutti gli dei abbandonarono il cielo per assistere alle nozze di Lei. La sola Giunone fra tutte le dee non volle recarsi agli sponsali, per l’odio ch’essa nutriva contro la famiglia di Ermione, dopo il ratto di Europa. Ermione fu madre di un figliuolo, chiamato Polidoro e di quattro figlie dette Agave, Autonoe, Iaso, e Semele. Dalle numerose sventure di cui fu continuo bersaglio questa disgraziata famiglia ne è venuta la seguente tradizione favolosa.
Fu detto che Vulcano per vendicarsi della infedeltà di Venere, allorchè questa dea ebbe dai suoi amori con Marte, Ermione, avesse fatto presente quest’ultima di una clamide intrisa di tutt’i delitti, cosa che fece che tutt’i figliuoli della sventurata furono scellerati. Il nome di Ermione le viene, secondo la tradizione Mitologica dall’avere ella dimorato sul monte Ermo, che sorgeva tra Tiro e Sidone, allorchè Cadmo la tolse in moglie.
Le cronache dell’antichità fanno similmente menzione di un’altra Ermione che fu figlia della famosa Elena e di Menelao. Fino dalla sua infanzia Ermione fu promessa in moglie ad Oreste, figlio di Agamennone, dall’avo Pindaro che nell’assenza di Menelao teneva le redini del governo e della famiglia di lui. Però Menelao forse inconsapevole o non curante della promessa dell’avo di Ermione, promise la mano di lei a Pirro figliuolo di Achille, in riconoscenza di averlo aiutato nella famosa guerra di Troja. Pirro infatti, appena ritornato in Grecia pretese il compimento della parola di Menelao e senza por mente alle lagrime di Ermione, che era perdutamente innammorata di Oreste, la condusse seco insultando al suo rivale : Così in Euripide ed Ovidio. Però questi due autori discordano fra loro in un sol punto di tutta questa tradizione. Secondo Ovidio, Ermione fatta sposa di Pirro, ripianse sempre il perduto amante e non ebbe pel marito che odio e disprezzo. Mentre Euripide dal canto suo ci presenta Ermione amante del marito fino alla gelosia e ce la mostra rimproverando alla vedova di Ettore, divenuta schiava di Pirro — V. Andromaca — di averle rubato l’amore del proprio consorte.
…. Te il tuo consorte abborre,Non pe’farmachi mici, perché di moglieNon t’acconci allo stato : e questo ancoraConcilia amor. Non la hellezza, o donna,Ma le virtù legan de’sposi il core.Tu, se alquanto ei t’irrita, è Sparta è SpartaUna gran cosa, e nulla è Sciro, e solaTu ricca sei tra poverelle genti ;E più d’Achille è Menelao. Son questeDell’odiarti le cause.Euripide — Andromaca — Tragedia.
{p. 157}Sempre seguendo la opinione di Euripide, non potendo Ermione vincere la gelosia che le ispirava la vedova del famoso Trojano, stabilì in segreto accordo con Oreste, di uccidere Pirro.
Consumato il delitto Ermione sposò Oreste portandogli in dote il regno di Sparta.
Il Racine, nella sua tragedia Andromaca, ci presenta diversamente Ermione. Secondo il tragico francese, Ermione in un accesso di geloso furore, commette ad Oreste il truce incarico di uccidere Pirro. Ma pentita si uccide ella stessa sul corpo dell’amato marito.
Mais cependant, ce jour, il épouse Andromaque :Dans le temple déja le trône est élevéMa honte est confirmée, et son crime achevé.Enfin qu’attendez-vous ? il vous offre sa tête :Autour du fils d’Hector il les fait tous ranger :Il s’abandonne au bras qui me voudra venger.Voulez-vous, malgrè lui, prendre soin de sa vie ?Armez, avec vos Grecs, tous ceux qui m’ont suivie :Soulevez vos amis ; tous les miens sont à vous :Il me trahit, vous trompe, et nous méprise tous.Mais quoi ! déja leur haine est égale à la mienne :Elle épargne à regret l’èpoux d’une Troyenne.Parlez : mon ennemi ne vous peut échapper ;On plutôt il ne faut que les laisser frapper.Conduisez ou suivez une fureur si belle ;Revenez tout couvert du sang de l’infidéle ;Allez : en cet état soyez sûr de mon cœur.Racine — Andromaque — Acte IV. Scene IV.
1807. Ermopoli. — Che significa città di Mercurio. Era questo il nome di tre celebri città di Egitto, una delle quali era posta nel Delta, la seconda conosciuta sotto il nome di Hermopolis parva e l’ultima detta Hermopolis magna, che sorgeva a poca distanza dal Nilo.
1808. Ermosiride. — Si dava cotesta denominazione ad una statua di Osiride e di Mercurio, fusi insieme. Questa statua aveva gli attributi delle due divinità, cioè una testa di sparviero con un Aquila a fianco, per simboleggiare Osiride ; e un caduceo per ricordare Mercurio.
1809. Ermotimo. — Così aveva nome, secondo la tradizione, un abitante di Clazomene, il quale fu tenuto in conto di un possente mago. I suoi concittadini credevano fermamente che l’anima di lui si separasse dal corpo, andasse in lontani paesi di dove ritornava ben presto a raccontare quanto aveva veduto. Per simile credenza Ermotimo fu, durante la vita, riguardato come un essere soprannaturale e caro agli dei ; e dopo la morte gli furono tributati gli onori divini e dedicato un tempio nella città di Clazomene nel quale era inibito alle donne di entrare.
1810. Ero o Eros. — Sacerdotessa di Venere che visse molti anni della sua vita a Sesto, città dell’ Ellesponto.
Essa fu passionatamente amata dal giovine Leandro, abitante della città di Abido, posta sulla spiaggia del mare dalla parte dell’Asia. Essendo da imperiose ragioni obbligato Leandro a nascondere la sua fiamma, alla quale i suoi genitori, per antiche inimicizie, non avrebbero mai aderito, egli per vedere la sua amata traversava a nuoto un tratto di mare della lunghezza circa di 875 passi. Ero, conturbata dal pericolo a cui si esponeva il suo diletto per amore di lei, poneva ogni notte sull’alto di una torre una fiaccola accesa che serviva di faro al giovine nuotatore.
Sesto è città, cui da l’opposta AbidoBreve flutto disgiunge. Amor da l’arcoScoccando ivi uno stral, doppia ad un tempoPreda ei coglieva, un giovanetto ardendoE una donzella tenera. LeandroIl giovanetto dal gentil sembiante,Ero la vergin nomasi ; el d’Ahido.Ella di Sesto abitatrice : amabiliLeggiadre stelle d’ambo le cittadi,L’uno all’altro simili O tu che passiBuon peregrin su la deserta spiaggia,Vedi tu quella torre ? ivi una lampaGuida al fervido amante Ero appendea ;Mira lo stretto de l’antica AbidoOndisonante, che l’amor, la morteDi Leandro infelice anco deplora !Museo Grammatico Gli Amori di Ero e Leandro.
Avendo una tempesta sconvolte le onde del mare per più giorni, a Leandro su per sei notti, impossibile il recarsi all’amoroso ritrovo, ma finalmente non più reggendo all’ansia che lo divorava, nella settima notte egli si lanciò nell’onde, ma travolto dal furore di quelle, miseramente annegò. Le acque spinsero il cadavere di lui sulle spiagge di Sesto, ove fu riconosciuto da Ero, la quale disperata si precipitò nel mare volendo morire della morte istessa, che per amore di lei aveva incontrata quegli ch’ella adorava sopra tutte le cose.
……….. Il fatoAmor non valse a distornar : quà, làCon impeto terribile balzatoDal flutto d’ogni intorno accumulantesi,Pesto, infranto, già sente venir menoLa forza al piede ; inetta alla faticaLa man non regge, e largo inutil rioDe l’indomabil mar sprezzando ei beve.Già l’ingannevol lampa amaro estinseSoffiar di vento : e di Leandro estinseL’alma ad un tempo, e l’amore infelice !Mentre ei fra l’onde anco lottava, incerta,Palpitante, affannata, Ero vegliandoLa notte protraea ; venne l’aurora,E lo sposo non vide : intorno intornoMuta l’occhio volgea sovra l’immensoDorso del mar, se a comparir vedesse{p. 158}Lo sviato garzon. Spenta la face,Quando al piè de la torre estinto e guastoDagli scogli il mirò, forte uno stridoDisperata traendo, e intorno al pettoLacerando la vesta, in giù da l’altoCapovolta piomhò —Museo Grammatico Gli Amori di Ero e di Leandro.
1811. Eroe. — Cotesto appellativo davano i greci a quegli uomini che si erano resi celebri con una serie di azioni gloriose ed insieme utili e benefiche ai loro concittadini. Per altro, vi ha negli scrittori dell’antichità e soprattutto fra i cronistedella favola, un nom stretto numero di autori, la cui opinione concorda in generale col dare l’appellazione di eroe a quel mortale che aveva per madre una dea e per padre un uomo, o viceversa, per padre un dio e per madre una donna. La maggioranza di questi scrittori trae il nome di eroe dalla parola greca Ἐρως che significa amore.
Le anime degli eroi si alzavano fino alle stelle, e con ciò diventavano degne degli onori divini, e di quella adorazione che il culto superstizioso del pagane imo tributava alle proprie divinità.
Seguendo l’opinione di Lucano, il culto che si prestava agli eroi consisteva in una specie di pompa funebre, nella quale si celebrava la memoria delle loro imprese gloriose. Erodoto stesso è della medesima opinione, allorchè dice nelle sue cronache dell’antichità che all’ Ercole greco figlio di Alcmena, si fanno piuttosto dei funerali che dei sacrifizi.
In quanto ai monumenti eroici di cui troviamo così spesso menzione nelle cronache favolose, e in tutti gli scrittori della mitologia greca e romana, essi altro non erano, se non i sepolcri degli eroi, che ordinariamente erano circondati da un bosco sacro, sul limitare del quale sorgeva un altare, dedicato all’eroe sepolto in quel sacro ricinto. Così Omero pel sepolcro di Ettore.
…… Indi per tultoQueto il foco, i fratelli e i fidi amiciPieni il volto di pianto e sospirosiRaccolsero le bianche ossa, e composteIn urna d’oro, le coprir d’un molleCremisino. Ciò fatto, in cava bucaLe posero, e di spesse e grandi pietreUn lastrico vi féro, e prestamenteIl tumuto elevar.Omero — Riade — Libro XXIV trad. di. V. Monti
Infinito è il numero degli eroi di cui fa menzione la mitologia greca e romana, nelle quali si trova assai di sovente ricordato che gli onori eroici furono spesso rese anche alle donne.
1812. Erofila. — Nome di una sibilla figlia del pastore Teodoro, e di una ninfa del monte Ida. Erofila predisse ad Ecuba le sventure di cui sarebbe stato cagione alla propria patria, il figliuolo ch’ella portava nel seno quando andò ad interrogarla. Erofila passò una parte della sua vita a Claro, quindi andò a Delo poi a Samo e a Delfo, e finalmente fece ritorno al tempio dedicato ad Apollo Sminteo, dove mori. Ai tempi di Pausania si vedeva ancora il sepolero di Erofila, nel bosco consacrato al Tempo.
1813. Eromanzia. — Nome di una specie di divinazione che i Persiani praticavano per mezzo dell’aria. In greco la parola Ἀηρ significa avia.
1814. Erope. — Così avea nome la moglie di Atreo, che à poi acquistata tanta lagrimevole rinomanza, nella cronaca mitologica, per l’incestuoso adulterio con suo cognato Tieste. Erope era figlia di Euristeo, re di Argo, e la cronaca racconta di lei che, prima di cedere all’infame voglie del cognato, ma già innamorata di lui, lo avesse aiutato a derubare ad Atreo un montone, che aveva il vello d’oro, e che questo fosse il primo motivo che valse ad accendere la fiamma di quell’odio terribile, la cui fosca luce balenò per tanto tempo, nei fasti delittuosi della Grecia antica.
1815. Eros. — . V. Ero.
1816. Erostrato. — Così avea nome quell’abitante di Efeso, che per rendersi celebre concepì l’infame e pazzo pensiero d’incendiare il tempio che Diana aveva in quella città, e che era una delle sette meraviglie del mondo. Vi sono alcuni autori i quali pretendono che il suo vero nome fosse Erotostrato.
Erostrato era anche il nome di un mercatante
Nacraziano il quale si rese celebre per avere instituita la corona Naucratite di Venere. — V. Naucratite.
1817. Erotidi. — Dette più comunemente Erotidie ; feste in onore di Cupido che i Tespi celebravano con grande solennità e ricchezza ogni cinque anni.
1818. Erse. — Sorella di Pandrosa e di Aglaura, e figlia di Cecrope, re di Atene. Mercurio essendosene innamorato, mentre ella usciva dal tempio di Minerva, la dimandò in moglie al padre. Sua sorella Aglaura ingelosita della sorte di Erse, volle impedire a Mercurio l’accesso nell’appartamento della sorella, ma il dio, avendo cercato invano di piegarla colle sue preghiege, sdegnato del cattivo animo di lei, con un colpo di caduceo la cangiò in una statua di pietra di colore nerastro, forse per indicare che la bianchezza di quella era stata oscurata dal veleno dell’invidia e della gelosia. Erse dopo la sua morte ebbe in Atene un tempio ove le {p. 159}venivano tribulati gli onori divini, e da lei furono dette Erseforie, le feste che in suo onore si celebravano dai Greci nel mese di scroforione (Giugno).
1819. Erseo. — Soprannome di Giove che a lui veniva dall’essere i suoi altari in luogo scoperto e generalmente circondati di muraglie. Questa maniera particolare di fabbricare le are, consacrate al re dei muni era soprattutto comune nelle case dei principi. Il figliuolo di Achille uccise Priamo re di Troja presso un’altare di Giove Erseo, che sorgeva nella reggia trojana.
1820.Ersilia. — Fu una delle nobili giovanette Sabine, rapite dai Romani : era figlia di Tazio re di quei popoli. Romolo, colpito dalla bellezza di lei, la prescelse come sua sposa e n’ebbe un figlio che poi fu chiamato Aollio, ed una figlia per nome Prima.
La morte di Romolo penetrò Ersilia di tanto dolore, che Giunone mossa a pietà, la fece condurre da Iride sul monte Quirinale, ove Romolo le apparve circondato di luce e la trasportò con sè nel cielo. Dopo questo fatto i Romani resero ad Ersilia gli onori divini, e l’adorarono nell’istesso tempio di Quirino sotto il nome di Hora, o secondo altri Horta, perchè si credeva esortasse i giovani a seguire il sentiero della virtù.
1821. Erta. — Era questo il nome che gli antichi popoli della Germania davano alla madre degli dei, che essi adoravano in un’isola dello Oceano la quale, secondo riferisce Tacito, era quella di Rugen nel mar Baltico.
Narrano le cronache che in quell’isola vi era una selva conosciuta sotto il nome di Caslum e nel mezzo di essa si teneva un carro coperto a cui nessuno ardiva toccare, meno il gran sacerdote, perchè egli solo sapeva, il tempo in cui la madre degli dei si recava invisibile in quel luogo. Allora il gran sacerdote attaccava i buoi al carro coperto e lo seguiva, solo, a piedi, e con atti di grande venerazione. Il periodo di tempo che durava questa cerimonia era ritenuto come festivo ; il carro veniva accolto da per ogni dove con grande solennità, i pubblici affari erano sospesi ; le officine, le botteghe ed i negozì erano chiusi ; la guerra veniva sospesa ; le armi venivano nascoste, e non si respirava che la pace ed il riposo. Ciò finchè il sacerdote non guidava novellamente il carro coperto nel tempio, quasi ad indicare che la dea fosse stanca della conversazione degli uomini. Allora si scopriva il carro ; e gli schiavi addetti al servizio della cerimonia, venivano gettati nel prossimo lago.
1822. Es, Esculano o Ere. — Erano queste le differenti denominazioni che i pagani davano alla divinità che presiedeva alla fabbricazione della moneta di rame. Veniva rappresentata sotto la figura di una donna in piedi, con la mano sinistra poggiata su di un bastone e avendo nella destra una bilancia.
Esculano propriamente detto, era il padre del dio Argentino perché il rame e più antico dello argento. Anche per l’oro vi era una particolare divinità, e questa è la ragione per la quale si sono ritrovate non poche medaglie, coniate sotto il regno di diversi Imperadori Romani, sulle quali si vedono impresse tre dee aventi ognuna nella destra una bilancia ed ai piedi un corno dell’abbondanza ed un mucchio di varie monete, di rame, d’argento, e di oro.
1823.Esaco. — Figlio di Priamo e di Arisba, prima moglie di quel re. La tradizione mitologica narra che Merope, avola materna di Esaco, gl’insegnò l’arte di predir l’avvenire ; e che egli ancor giovanissimo, predisse a Priamo (quando questi ripudiò Arisba per sposare Ecuba) che il secondo siglio che avrebbe da questa seconda moglie, sarebbe stato cagione della rovina della sua patria e della sua reale famiglia.
Esaco tolse in moglie la ninfa Sterope, figlia del fiume Cedrene, la quale morì poco dopo le nozze. Egli ne fu talmente addolorato che si gettò dall’allo di uno scoglio nel mare, ma Teti lo cangiò in uccello prima che fosse caduto nelle onde.
1824. Esaforo. — Specie di lettiga portata da sei cavalli e della quale usavano i patrizî romani. Si chiamava anche Esaforo una specie di bara, su cui venivano trasportati al rogo i cadaveri dei ricchi.
1825. Eschinadi. — Così si chiamavano quelle isole che il fiume Acheolo formava all’imboccatura del mare Jonio. La tradizione mitologica raccontata da Ovidio, ripete, che alcune ninfe Najadi, avendo fatto un sacrifizio di dieci tori, avessero invitate tutte le divinità campestri, ma dimenticarono Acheolo ; il quale sdegnato di sì poco rispetto, gonfiò le sue acque e trascinò nel mare le incaute ninfe. Nettuno, mosso a compassione della loro disgrazia, le cangio in quelle isole conosciute sotto il nome di Eschinadi.
1826. Esculano. — V. Es.
1827. Esculaplo. — Dio della medicina. I cronisti ed i poeti non sono d’accordo sulla sua nascita.
Taluni lo fanno figlio di Apollo e di Coronide, della reale famiglia dei Lapidi. Le tradizioni più accreditate però raccontano, invece che Apollo avendo saputo per mezzo di un corvo che la sua amante aveva una tresca con Ischiso figlio di Elato, incaricò Diana di andare in Arcadia onde uccidere l’infedele Coronide. Diana eseguì il comando e già Coronide era presso a morire, allorchè Apollo accorse per salvare suo figlio {p. 160}Esculapio e lo trasportò presso il centauro Chirone da cui poi apprese la medicina.
Trasse del corpo dell’estinta fuoriL’ancor vivo fanciullo, e ’n braccio il tolse.E quindi il trasportò, poi che partissi.A te, saggio Chiron, perché ’l nutrissi.Ovidio — Metamorfosi — Libro II. trad. di Dell’Anguillara.
Altri racconta che Coronide, accompagnando suo padre Flegia nel Peloponneso, avesse partorito Esculapio, e l’avesse esposto ad Epidauro, sul monte Titteo, ove fu nudrito da una capra e custodito da un cane.
Il pastore Aristano vide brillare sulla testa del fanciullo un’aureola celeste. Coll’andare del tempo in tutte le circostanti campagne, corse la voce che un fanciullo miracoloso era nato, il quale guariva tutte le malattie e risuscitava i morti. Le differenti e moltiplici tradizioni della antichità favolosa, non si accordano punto sui modo col quale Esculapio avesse acquistato tanto meraviglioso potere : Apollonio riporta che Minerva gli avesse dato il sangue della Gorgone, col quale egli risuscitava i morti.
…… La cui somma virtuteDi te gloria sarà, d’altrui salute.Alma gentil, più che mai fosse in terraAccetta, salutifera e gradita :Tu l’alma, se dal corpo si disserra.Tornar potrai di nuovo al corpo nuita.Tu sol saprai trar l’anima sotterra,Donando al corpo si stupenda aita :Ma tì torrà da si mirande prove,Lo stral dell’avo tuo paterno Giove :Ovidio — Metamorfosi — Libro II. trad. di Dell’Anguillara.
Igino pretende che trovandosi Esculapio in casa di Glauco, il quale era gravemente infermo, vedesse un serpente che essendoglisi avvicinato, si avvolse intorno al suo bastone. Esculapio lo uccise, ma all’istesso momento un altro serpente con una certa erba nella bocca si avvicinò al morto compagno e lo richiamò alla vita stropicciandogli sulla testa l’erba che aveva fra i denti.
Da ciò, secondo Igino, Esculapio imparò a conoscere una certa pianta con la quale richiamava in vita i cadaveri. Esculapio ebbe una moglie per nome Epione (che significa calmante). Fra i suoi molti figli i più conosciuti sono Macaone, Podeliro, Alexenore, Arato, e fra le sue figlie Igia, Aglae, Iaso e Panacea.
Avendo preso parte alla spedizione degli Argonauti, rese loro dei grandi servigi curando i feriti e gli ammalati, e seguendo la tradizione, risuscitando gran numero di morti. Finalmente dopo aver richiamati alla vita Ippolito e Glauco, fu egli stesso ucciso dalla folgore che Giove gli lanciò temendo che il progresso della sua arte non giungesse a sottrarre tutti gli uomini alla morte.
…….. e l’iuventoreDi cotal arte, che d’Apollo nacque,Fulminando mandò nè regni hui.Virgilio — Eneide — Libro VII. trad. di A. Caro.
Però Giove stesso che lo aveva ucciso, sia per propria amicirazione, sia per accondiscendere alle preghiere di Apollo, mise Esculapio nel numero degli astri. Un’altra tradizione racconta che Apollo sdegnato contro i Ciclopi, che avevano fabbricata la folgore colla quale fu ucciso suo figlio, li avesse tutti esterminati. Giove irritato perciò contro di Apollo voleva lanciarlo nel Tartaro, ma poi cedendo alle preghiere di Latona, lo esiliò dall’olimpo e lo condannò a custodire gli armenti di Admeto come semplice pastore.
Ovidio nelle sue metamorfosi racconta che Esculapio avesse sposato Lampezia figlia del Sole. Dopo la sua morte Esculapio fu da tutta la Grecia adorato come un Dio, e non fu città, horgo o villaggio di questa popolosa contrada che non avesse un tempio a lui sacro. Così il tempio di Cillene era fabbricato sul capo Ermino ; quello d’Epidauro s’innalzava presso il mare ; altri sulle rive dei fiumi, o presso le sorgenti e le fontane generalmente ritenute siccome salutari. Il culto d’Esculapio fu da Epidauro trasportato in Roma in occasione di una peste. Questo Dio ha molti soprannomi come Arcagele fondatore di Città, Aglaope, raggiante, Apatexicacos, salvatore, Filolao, amico del popolo, e molti altri derivanti dai nomi dei luoghi in cui era venerato. Gli venivano sagrificati il gallo e le capre. Il lauro, il cane, la civetta, simbolo della saggezza erano a lui consacrati, e soprattutto il serpente che era intimamente legato ai misteri del culto di questo Dio. Presso gli egiziani, e presso tutti gli antichi popoli dell’Oriente si osserva il serpente quale attributo delle divinità adorate come dei della medicina. Da ciò si potrebbe arguire che tutte codeste numerose e diverse divinità avessero avuto una comune origine ; e che il cuito del serpente come emblema di sanità è un resto del feticismo egiziano, il quale fu dall’ Oriente trasportato in Epidauro dai mercatanti indigeni. Nella storia degli Israeliti troviamo ripetuto che persino Mosè avesse esposto alla vista del suo popolo un serpente di bronzo la cui {p. 161}vista guariva dalla peste. Più tardi, nell’infanzia del cristianesimo vediamo nelle sacre pitture un serpente uscire dal calice di S. Giovanni come simbolo dell’igiene.
Esculapio veniva rappresentato nel tempio di Epidauro assiso su di un trono, con una mano appoggiata sulla testa di un serpente e avendo nell’altra un bastone. A fianco a lui si vedeva ordinariamente un cane, e talvolta la figura del giovanetto Telesforo ritennto come simbolo della guarigione.
Esistono molte statue e busti in marmo ed in bronzo che rappresentano il dio della medicina, e si sono trovate buon numero di monete e di pietre su cui è scolpita la sua immagine.
Oltre a questo Esculapio ve n’era un’altro conosciuto sotto il nome di Esculapio di Epidauro di cui fa menzione Valerio Massimo, nella sua storia romana, e che fu portato in Roma nell’anno 462 della sua fondazione e che era adorato sotto la figura di un serpente, statua che gli fu, secondo la tradizione, eretta da Dionigi il tiranno.
Di un altro Esculapio fa anche parola la cronaca favolosa, e che, secondo Cicerone, nel suo libro IV De natura deorum, era figlio di Alcippe e di Arsinoe.
1828.Eseceste o Esserceto. — Re dei Focesi. Egli possedeva due anelli coi quali pretendeva di conoscere l’avvenire, percuotendoli uno contro l’altro. La tradizione dice che per mezzo di un simile incantesimo egli avesse saputa l’epoca della sua morte, ciò che per altro non gl’impedì di morire ucciso a tradimento.
1829. Eslchia. — Nella città di Clazomene si dava questa denominazione, dalla parola greca Ἠονπα che significa silenzio, alle sacerdotesse della dea Pallade Minerva, forse perchè esse compievano i riti del loro culto, nel più profondo silenzio.
1830. Esimnete. — Da una statua che Vulcano fece del dio Bacco, e che secondo la tradizione fu da Giove medesimo donata a Dardano, si dava il soprannome di Esimnete a Bacco stesso.
1831. Esione. — Figlia di Laomedonte, re di Troja e sorella di Priamo. La tradizione mitologica narra che fra Nettuno e Laomedonte fosse stabilito un patto, ma non fa menzione della ragione di questo ; e solo aggiunge che avendo Laomedonte mancato alla sua parola, Nettuno mandò un mostro marino che divorava tutti gli abitanti delle spiagge vicine, ed era seguito nel suo pasaggio da una terribile pestilenza, che non solo uccideva gli uomini e gli animali, ma faceva disseccare gli alberi e le piante. Adunatisi i capi del governo, il re decise di comune accordo con quelli di mandare una deputazione all’oracolo di Apollo, onde consultarlo sul modo di far cessare tanto flagello. L’oracolo rispose che la cagione di tanto lutto, era la collera di Nettuno, il quale non si sarebbe placato se non quando i troiani che avevano dei figli non avessero esposto alla voracità del mostro, quello tra i loro figliuoli che la sorte designerebbe. E la sorte volle che dall’urna fatale si estraesse il nome di Esione figliuola dilettissima di Laomedonte, la quale, ostìa innocente del disumano olocausto, fu incatenata alla spiaggia ad attendervi l’orribile morte. Ma Ercole che si trovava allora nelle circostanze di Troja, insieme agli altri Argonauti, impietosito al tristo fato della regale giovanetta, spezzò di propria mano, le catene di lei e promise al re Laomedonte di ucdere il mostro. Il principe trasportato di gioja impegnò la sua fede ad Ercole, promettendogli in ricompensa di tanto servizio, i suoi invincibili cavalli. L’eroe infatti combattè ed uccise il mostro, ed Esione fu fatta arbitra della propria volontà, avendule il padre lasciata la scelta o di seguitare il suo liberatore, ovvero di rimanere nella propria famiglia. La giovanetta preferi di seguire Ercole, ma questi, che dovea muovere in Colchide, alla conquista del Vello d’oro, lasciò Esione ed i cavalli che il re gli aveva donato, a Laomedonte stesso, a patto però che gli avrebbe restituito il tutto al suo ritorno dalla Colchide. Compiuta la gloriosa spedizione degli Argonauti, Ercole mandò il suo amico Telamone a Troja, onde esigere dal re il compimento della sua parola. Ma il fedifrago principe, per tutta risposta fece mettere in prigione il messaggiero. Ercole, sdegnato a tanta slealtà, cinse di assedio la città troiana, e dopo pochi giorni, essendosene impadronito, la mise a sacco ed a fuoco ; uccise di sua mano Laomedonte, e dette Esione stessa in moglie all’amico Telamone.
Esione fu anche il nome di una delle figliuole di Danao, la quale, amata da Giove, lo rese padre di un fanciullo che fu chiamato Orcomeno. Divenuto adulto egli fondò nella Beozia una città conosciuta sotto lo stesso nome.
….. e quante entran ricchezzeIn Orcomeno e nell’Egizia TebePer le cento sue porte.Omero — Iliade — Libro IX Trad. di V. Monti.
1832. Eso. — Con questo nome i Galli adoravano una divinità che si suppone fosse il loro dio della guerra. Quei popoli sagrificavano a questo dio non solo tutte le spoglie ed i cavalli tolti al nemico in battaglia, ma persino tutt’i prigionieri. Al dire di Luciano nelle sue {p. 162}che dell’antichità, i Galli spingevano la loro barbara superstizione fino a svenare sulle are di questa truce divinità, le loro mogli e i loro figliuoli onde rendersela favorevole. Si dipingeva il dio Eso mezzo ignudo e con una scure nella mano levata in atto di percuotere.
1833. Esonide. — Specie di veste usata generalmente dai servi e dagli operai : essa aveva una sola manica e lasciava scoperte le spalle.
1834. Esone. — Figlio di Creteo re di Isico in Tessaglia. Egli succedette al padre ma fu da suo fratello Pelia, detronizzato e costretto a vivere nella stessa città come un semplice particolare. Esone fu padre del famoso Giasone, che egli sottrasse con ogni amorevole cura, alla crudele gelosia di Pelia, il quale temeva in lui un vendicatore dei dritti paterni. La tradizione narra che Giasone, divenuto adulto al suo ritorno dalla conquista del Vello d’oro, trovando suo padre vecchissimo pregò la sua amante Medea di porre in opera alcuno dei suoi possenti segreti onde Esone ringiovanisse ; e che in fatti Medea, cedendo alle preghiere del suo amante fece scendere dal cielo un carro tirato da due draghi, vi montò sopra, e scorrendo rapidamente per varî paesi, raccolse gran quantità di erbe, e ritornata presso di Esone, ne compose una bevanda e fatto scorrere dalle vene di lui il sangue agghiacciato daila vecchiezza, vi filtrò il liquore che aveva preparato. La cronaca favolosa aggiunge che l’incantesimo riuscì pienamente e che Esone riacquistò da quel giorno forza e salute. Fin quì la tradizione. La storia però, semplificando a contatto della sua imponente severità, qualunque manto di allegoria favolosa, altro non ci ricorda se non che Esone, essendo stato obbligato da Pelia suo fratello, a bere del sangue di toro, fosse morto in seguito di ciò prima che suo figlio Giasone fosse ritornato dalla Colchide, che sua moglie pazza di dolore, si fosse appiccata, e che Giasone al suo ritorno avesse per onorare la memoria del padre fatto celebrare dei giuochi funebri dagli Argonauti in onore di Esone.
1835. Esperidi. — Nome collettivo delle tre figliuole di Espero, fratello di Atlante. Il nome proprio di queste tre sorelle era Aretusa, Egle ed Ipertuosa : alcuni scrittori ne aggiungono una quarta a cui danno comunemente il nome di Erizia. È questa però una opinione poco generalizzata.
Narrano le cronache mitologiche, che quando Giove sposò Giunone, questa regalasse al marito un albero di pomi che faceva le frutta di oro. Giove allora in segno di aver gradito il dono, fece piantar l’albero nell’orto delle Esperidi, e vi pose a guardiano un dragone che aveva cento teste e altrettante voci. Ercole uccise il Drago e portò le poma d’oro ad Euristeo. In questa una delle dodici fatiche dell’eroe. — VediErcole.
Diodoro nei suoi scritti sull’antichità, confonde le Esperidi con le Atlantidi, alle quali dà per madre una donna, per nome Esperide, da cui trassero il nome collettivo.
Al dire del citato scrittore, esse erano d’una tale bellezza, che la sola rinomanza di questa, spiese Busiride, re di Egitto, a comandare ad alcuni corsari di rapirle. I corsari infatti penetrarono nel giardiuo dell’Esperidi, e le trafugarono sui loro vascelli. Ercole li sorprese sulla spiaggia, ed avendo appreso dalle rapite, la loro disgrazia, uccise i corsari, e restitui le tre figliuole ad Atlante loro padre. Questo principe in ricompensa donò ad Ercole i pomi d’oro.
Al dire di Esiodo, le Esperid i furono, senza carnale commercio, generate dalla Notte, a somiglianza delle Gorgoni, delle Parche, di Nemesi, del Destino ec. ec.
Forse le Esperidi furono generalmente ritenute come figlie della Notte, perchè abitavano all’estremità dell’ Occidente, là dove ; secondo la tradizione favolosa, ba principio il regno delle tenebre.
1836. Espero. — Fratello di Atlante e figlio di Giapeto. Sua figlia detta da lui Esperide, fu tolta in moglie dal proprio zio paterno Atlante, da cui ebbe sette figliuole conosciute sotto il nome di Atlantidi, e più comunemente di Esperidi — V. l’arlicolo precedente.
La tradizione racconta ch’essendo un giorno Espero, salito sulla vetta di un monte, per studiare il corso degli astri, fu trasportato da un vento impetuoso, e non si seppe più novella di lui. Da ciò ha vita il simbolo mitologico che ha fatto dare il nome di Espero ad uno dei più brillanti pianeti.
1837. Espiatore. — Soprannome dato iu generale a tutti gli dei, el in particolare a Giove, il quale è ritenuto come Espiatore delle colpedegli uomini.
1838. Espiazione. — Specie di solennità o cerimonia religiosa che gli antichi istituirono per purificare le persone che aveano commesso un qualche misfatto ed i luoghi ove il delitto era stato consumato. Lo studio dei tempi dell’antichità rivela per altro che presso i romani ed i greci si faceva uso di tal cerimonia in moltiplici e svariate occasioni. La speranza di placare lo sdegno di un qualche nume, il timore delle pubbliche calamità ; l’invocazione ai celesti onde renderli propizie ad una intrapresa, all esito di una guerra, al compimento di un qualche fatto importante che interessasse {p. 163}radicalmente tutta una città, furono altrettante occasioni presso i pagani alla celebrazione di codesta cerimonia detta Espiazione. Da ciò le parole così sovente adoperate dagli antichi di lustrare, expiare, februare, altro non vogliono significare che il compimento di alcuni atti ritenuti proprî a cancellare una colpa, o a scongiurare il cattivo influsso di una qualche sventura che minacciasse la patria.
Presso i pagani le principali espiazioni si facevano per le armate, pei templî, per le città, per l’omicidio e pei prodigî. Nei tempi eroici l’espiazione per l’omicidio, detta anche espiazione di sangue, veniva compiuta per mezzo di cerimonie solenni, gravi, dolorose. L’omicida, quand’anche avesse ucciso involontariamente, perdeva i dritti civili e finchè non avesse placato le divinità vendicatrici, non poteva nè accostarsi alle statue degli dei, nè entrare in un tempio. Quando il reo apparteneva alla classe patrizia, i re stessi ed i personaggi più considerevoli e cospicui, ne compirono assai di sovente la cerimonia espiatoria. Infatti nello studio dell’antichità, vediamo Creso re di Lidia espiare per Adrasto, reo di omicidio ; Copreo uccisore di Ifiso fu espiato da Euristeo, re di Micene ; ed Ercole stesso vediamo espiato da Ceixo re di Trachina, e poi da Eumolpo dopo la morte del centauro Nesso ; Demofoonte, re di Atene, espia Oreste, e Circe compie le cerimonie espiatrici per Giasone e Medea. Allorquando il reo si presentava innanzi a colui che poteva espiarlo doveva, senza profferir parola, conficcare nel terreno l’arme che era stata strumento del suo delitto. Se l’espiatore accettava l’incarico che tacitamente gli dava il reo, col suindicato indizio di pentimento, allora faceva portare una pecora di un anno, e col sangue di questo animale purificava le mani dell’omicida. Quindi si passava alle libazione di vino puro in onore di Giove ; poscia si bagnavano con acqua e mele tre volte alcuni rami di olivo in simbolo della pace che l’omicida cercava di riacquistare. Finalmente si copriva l’ara di focacce che il reo inginocchiato offeriva alle sdegnate divinità, pregandole di perdonare al suo misfatto.
Si trova anche ripetuto in vari autori che molti rei d’omicidio si erano assoggettati a succhiare il sangue dell’ucciso, onde placare con più sicurezza le Furie.
Non tutte le cerimonie espiatrici per gli omicidi venivano fatte con la stessa pompa, nè all’istesso modo, e la tradizione ricorda più di un nome illustre e famoso, che avesse espiato una qualche uccisione in modo ben più semplice, come per esempio, il lavarsi nell’acqua corrente. Così fece Enea, il quale non ardì toccare gli dei Penati che volea portar seco prima di essersi tuffato nella corrente di un fiume.
…… e tu con le tue maniSosterrai, padre mio, de’ santi arrediE de’ patrii Penati il sacro incarco.Chè a me, si lordo e si recente uscitoDa tanta uccisïon, toccar non lecePria che di vivo fiume onda mi lave.Virgilio — Eneide — Libro II Trad. di A. Caro.
Così purificossi Achille dall’uccisione del re dei Lelegi.
Allorchè il delitto non erasi consumato ma si era solamente stato in procinto di cedere ad una delittuosa tentazione, bisognava purificarsi le orecchie, lavandole con acqua corrente onde placare le dee ultrici. Questa espiazione praticò Fedra, invasa dal colpevole amore che Venere le aveva inspirato pel figliastro Ippolito.
Par des cœx assidus je crus les détourner :Je lui bâtis un temple, et pris soin de l’orner :De victimes moi-même à toute heure entourée.Je cherchois dans leurs fiancs ma raison égarée :D’un incurable amour remèdes impuissantsEn vain sur les autels ma main brûloit l’enncens :Quand ma bouche imploroit le nom de la déesse,J’adorois Hippolyte ; et, le royant sans cesse,Même au pied des autels que je faisois fumer,J’offrois tout à ce dieu que je n’osois nommer.Racine — Phèdre — Tragèdie Acte I, Scene III.
Presso i romani era anche in vigore la cerimonia dell’espiazione, ma essi la compivano in modo diverso dai greci. A questo proposito riporteremo un brano delle opere di Dionigi d’Alicarnasso, nel quale è ripetuta la maniera con la quale fu espiato Orazio, per l’uccisione di sua sorella Camilla, all’epoca del famoso duello dei tre Orazii contro i tre Curiazii.
«
Dopo che Orazio fu assoluto dal delitto di parricidio, il re il
quale non credette che in una città in cui professavasi di temere gli
dei, il giudizio degli uomini bastasse per assolvere un delinquente,
fece venire i pontefici e volle che placassero gli dei e che il reo
subisse tutte le pruove che erano in uso per espiare quei delitti, in
cui non avea avuto parte la volontà. I pontefici eressero dunque due
altari, l’uno a Giunone protettrice delle sorelle, e l’altro al Genio
del paese ; offrirono su questo altare molti sacrifizî espiatori,
dopo di che fecero passare il reo sotto il giogo (specie di
forca)
»
.
Oltre a queste cerimonie espiatorie ne avevano i romani delle altre dette con vocabolo proprio lustrazioni, con le quali si redimevano gli {p. 164}eserciti dopo una guerra, e soprattutto le popolazioni al cessare di una pubblica calamità.
Però è da notarsi che nella cerimonia della lustrazione, l’esercito da purgarsi non passava, come ogni altro individuo reo d’omicidio, sotto il giogo ; invece il sacerdote espiatore girava intorno a questo, aspergendolo alternativamente del sangue delle vittime e dell’acqua lustrale. Non si deve però confondere questa lustrazione espiatoria, con quella che facevasi ogni cinque anni dal popolo, dopo il censo. La prima non avea periodo fisso, siccome la seconda, e praticavasi solamente quando si presentava l’occasione di dover purgare l’esercito dai delitti della militaire licenza.
Una delle più solenni espiazioni che troviamo ripetuta in tutti i cronisti della favola, era presso i romani quella che veniva solennizzata alla visibile manifestazione di un qualche prodigio. Il senato, in simili occasioni, ordinava preci pubbliche, sacrifizî, giuochi, lettisternj, feste, e giorni di digiuno. Tutta la città era in lutto, le botteghe, i negozî e le officine chiuse : i templi parati a bruno ; e i sacrifizî espiatorî reiterati, onde allontanare le calamità di cui gli abitanti credevano minacciata la loro città.
In quanto all’espiazione dei luoghi sacri e particolari, essa veniva similmente celebrata con differenti cerimonie.
Il calendario romano segnava dei giorni prestabiliti per la espiazione della città di Roma. Una di queste date era il cinque di febbraio, nel qual giorno venivano immolate le vittime dette amburbiati. Oltre a questa un’altra solennità espiatoria veniva celebrata ogni cinque anni, e da questa derivò la parola lustrare, nel significato di espiare, avuto riguardo al periodo di tempo che trascorreva tra una di queste pubbliche cerimonie ed un’altra, periodo mai minore di cinque anni, ossia di un lustro, come gli antichi chiamavano un elasso di tempo che comprendesse cinque anni.
I pagani ritenevano profanato un luogo sacro ove un reo si fosse ricoverato, e quindi la espiazione di quel luogo diveniva, secondo le antiche credenze, assolutamente necessaria.
Per citare uno dei tanti esempi, di che fà menzione la tradizione favolosa, ricorderemo il fatto di Edipo, il quale esiliato della sua patria, drizzò per caso i suoi passi verso Atene, si fermò nel tempio delle Eumenidi, in un bosco sacro presso la città di Colona. Gli abitanti, sapendolo reo, lo costrinsero alle espiazioni, le quali consistevano nella libazione dell’acqua di tre diverse fonti ; nel coronare le tazze della lana di fresco tosata di una pecora lattante ; il tutto volgendo il viso dalla parte ove nasce il sole, e finalmente offerendo tre volte nove rami di ulivi, onde placare le Eumenidi. Ismene, figlia di Edipo, si sottomise ad eseguir simil cerimonie onde espiare le colpe di suo padre.
Coro
Tu dei propizieFar queste dive, il cui terren dapprimaCol piè premestiEdipo
E come far ? mel diteCoro
Pria l’onda sacra di perenne fonteCon pure mani attingi.Edipo
E poi che attintaL’avrò ?Coro
Crateri troverai, lavoroDi dotto fabbro : orlo ne cingi, ed anse. —Edipo
Di fronde o lana ?Coro
Del recente peloL’una tenera agnella.Edipo
E che far poscia ?Coro
Far libagioni all’oriente in faccia.Edipo
Libar l’onda degg’io da quelle tazze ?Coro
Libarue tre ; tutta versar la quarta.Edipo
Ma questa pria, di qual licor fia d’uopoEmpierla ? di !Coro
D’acqua e di mel, nè stillaPur vi mescer di vinoEdipo
E quando poiCiò si bevve il terreno ?Coro
Allor tre volteNove rami di ulivo al suol ponendoCon ambe mani, a supplicar le divePrendi cosi.Edipo
Ciò udir vogl’io ; chè udirloRileva assaiCoro
Poi che il benigno nomeD’Eumenidi lor diam, benignamenteDi raccorti le prega (od altri il ritoCompai per te) ma con sommessa voceMormorando la prece ; indi partirneSenza volgersi addietro. — In tua difesa,Fatto questo, m’avrai : se ciò far nieghiPer te pavento………….…………….…………….Ismene
…… All’opra io corro………. A curaDi questo padre, Antigone, rimaniQuanto in favor de’genitor suoiAltri mai fa, nulla stimar si dee.Sofocle — Edipo a Colono — Tragedia. Trad. di F. Bellotti.
Oltre a queste avevano gli antichi molte altri cerimonie espiatorie, come quelle che si facevano in occasione di viaggi, di nozze e di funerali. Tutto ciò che si credeva di cattivo augurio, come l’incontro di un corvo o di una lepre, una tempesta improvvisa, un sogno funesto, e mille altri accidenti, erano presso i pagani, altrettante ragioni, per la celebrazione delle cerimonie espiatorie. Finalmente i pagani celebravano le espiazioni, tutte le volte che qualcuno veniva iniziato ai grandi o piccoli misteri di Eleusi, ed alle mistiche orgie di Bacco e di Priapo.
1839. Esserceto. — V. Eseceste.
1840.Essiterio. — Dalla voce latina Exitus
{p. 165}si dava questo nome alle feste che si celebravano in onore degli dei, prima della partenza. In queste cerimonie s’invocava la protezione dei numi e si offerivano loro dei donativi per averli propizî.
1841. Esta. — Nome particolare che si dava alle viscere delle vittime, che gli Aruspici esaminavano per prodire l’avvenire. Questa voce deriva dal latino Exta, che significa viscere.
1842. Estiel. — Dette anche Estie : religiose cerimonie e sacrifizî solenni, che si celebravano quasi in tutte le città della Grecia, e segnatamente in Corinto, ed a cui si dava questo nome in onore di Vesta, detta anche Estia, figlia di Saturno e di Rea. Durante simili cerimonie, era espressamente proibito il trasporto di qualunque oggetto che non fosse una delle vittime da immolarsi. Da ciò, forse, derivò l’antico proverbio che i pagani applicavano agli avari : sacrificare ad Estia, vol endo significare che gli avari non concedono ad altri la meno ma parte di quanto posseggono.
1843. Estipiel. — Nome particolare che si dava agli Aruspici quando esaminavano le viscere delle vittime. V. Esta. La parola Estipici deriva da due parole latine Exla, viscere, ed inspicere, considerare.
1844. Estipielo. — Istrumento del quale si servivano gli Aruspici per estrarre le viscere dal corpo della vittima.
1845. Eta. — Monte della Tessaglia più comunemente conosciuto nella tradizione favolosa sotto il nome di Oeta. Sorgeva nella Tessaglia tra il monte Parnaso e il Pindo. La cronaca narra che fu sul monte Eta che Ercole fece in nalzare il rogo sul quale abbruciò. Finsero i poeti dell’antichità che il sole, le stelle e la luna si levassero dal monte Eta, e che da esso nascesse il giorno e la notte. La storia greca ci ammaestra, come il famoso stretto delle Termopili era posto su questa montagna.
1846. Età. — I cronisti ed i poeti più accreditati della favola, concordano tutti sulla divisione del tempo primitivo, in quattro età o periodi, conosciuti sotto il nome di Età dell’oro, dell’argento, del rame, e del ferro. La prima di queste età, ebbe cominciamento subito dopo la formazione dell’uomo ; e secondo le cronache, sotto l’età dell’oro, fiorì il regno di Saturno, durante il quale regnò sulla terra la giustizia e il pudore. Allora la terra produceva, senza essere coltivata, i frutti ed i fiori, ed era irrigata da fiumi di latte e di miele, che scorrevano soavissimamente, fra sponde eternamente fiorite. Quest’età dell’oro è tolta dai libri di Mosè, dei quali i Greci e segnatamente gli Egizii dell’età primitive, avevano conoscenza.
L’età d’argento, segna un periodo meno felice, sebbene ancora riposato e tranquillo. Nell’età di rame gli uomini cominciarono a sentire lo stimolo delle passioni malvagie, e divennero vendicativi e perversi. Finalmente nell’età di ferro, la malvagità dei mortali non ebbe più limite, e la terra ricoperta dalle tenebre del peccato, grondò lagrime e sangue.
Peraltro tutto questo sistema immaginativo e fecondo di ricca poesia, non si sostiene a contatto delle rivelazioni tradizionali, imperocchè noi vediamo dalle cronache del tempo, che sotto il regno di Saturno, vale a dire quando correva il periodo dell’età dell’oro, le guerre più fratricide, ed i delitti più atroci, insanguinarono la terra.
Saturno stesso divora i suoi figli, e detronizza suo padre Urano, usurpando così il governo dei regni celesti, finchè Giove suo figliuolo, non lo detronizza a sua volta, scacciandolo dal cielo.
1847. Etalide. — Figlio di Mercurio e di una giovanetta discendente della stirpe reale degli Eolidi.
La tradizione favolosa racconta che Etalide avesse domandato a suo padre due grazie ; la prima di essere a conoscenza anche dopo la morte, di quanto avveniva nel mondo ; e l’altra che egli passerebbe metà dell’anno tra i vivi e l’altra nei regni delle ombre.
Il simbolo favoloso racchiuso sotto questa allegoria, riposa sull’essere stato Etalide araldo degli Argonauti ; e sugli obblighi della sua carica, che a lui imponevano di essere talora presente, e tale altra assente dall’armata.
1848. Eteocle. — Figlio primogenito di Edipo e di Giocasta e fratello di Polinice. Quando il loro genitore ebbe abdicato il trono di Tebe, Eteocle convenne col fratello, che avrebbero regnato a vicende un anno per ciascuno.
Come maggiore, Eteocle fu il primo a regnare per un anno, ma compiuto il suo tempo egli ricusò di cedere il potere al fratello. Polinice allora, deluso nelle sue mire ambiziose, e punto al vivo dalla mala fede fraterna, ricorse al suo suocero Adrasto, re d’Argo, e ottenuto da lui protezione ed appoggio, ritornò in patria alla testa di un formidabile esercito, dando così principio alla memorabile guerra di Tebe, la quale ebbe termine col duello dei due fratelli, che restarono entrambi vittime della loro inimicizia.
Le roi quì semble mort, observe tous ses pas ;Il le coit, il l’attend, et son âme irritéePour quelque grand dessein semble s’être arrêtée.L’ardeur de se venger flatte encor ses désirsEt retarde le cours de ses derniers soupirs.{p. 166}Prét à rendre la vie, il en câche le reste ;Et sa mort au vainqueur est un piege funeste :Et dans l’instant fatal que ce frère inhumainLui veut ôter le fer qu’il tenoit à la mainIl lui perce le coeur, et son âme ravieEn achevant ce coup, abandonne la vie.Polynice frappè pousse un cri dans les airs,Et son âme en courroux s’enfuit dans les enfers.Racine — Les frères ennemis — Tragèdie Acte V — Scène III.
Eteocle fu anche il nome di un re Orcomeno, nella Beozia, il quale, al dire di Pausania, fu il primo ad innalzare un tempio alle tre Grazie, e ad istituire le cerimonie del loro culto.
Per questa ragione, egli era riguardato come padre delle Grazie ; le quali anche perciò erano conosciute sotto il nome collettivo di Eteocle.
1840. Eteoclo. — Uno del sette capi dell’armata Greca che mosse alla famosa guerra di Tebe, fu fratello di Evadmo e figlio di Ifide.
Che con sette falangi e sette duciTutta cingono Tebe…..….. terzo fra questiÈ l’Argivo Etcoclo…Sofogle — Edipo a Cutono — Tragedia trad. di F. Bellotti.
Al dire di Euripide, questo eroe giovanetto, sfornito dei beni della fortuna, si acquistò molta gloria e rinomanza nell’Argolide. Egli era di un disinteressamento a tutta prova, e aveva per la sua patria, e per le leggi di questa, una devozione senza limite. Egli morì sotto le mura di Tebe.
Or di quest’altroTi dirò, d’Eteoclo, altro di tuttaBontà seguace. Era di cor valente ;Di povere fortune, è ver, ma colmoD’alle onoranze nell’Argiva terra.Volean d’oro gli amici a lui far dono :Ei ricusava, onde in sua liber’alma,Dalle ricchezze soggiogata poiServili non accor sensi e costumi,In odio aveva i cittadini rei.Non le città : chè le città non hannoColpa veruna ;Euripide — Le Supplicanti — Tragedia trad. di F. Bellotti.
1850. Etelina. — I Greci davano questo nome ad una specie d’inno lugubre che si cantava nelle cerimonie dei funerali. Era chiamato Etelina perchè fu cantato la prima volta alle esequie di un patrizio chiamato Lino.
1851. Etere — I greci appellavano con questa denominazione, i cieli distinti dai corpi luminosi.
Al dire di Esiodo, alla creazione del mondo, l’essere supremo formò da principio l’etere, quando ancora il resto dell’universo era tutto caos e notte. Secondo il citato scrittore, l’etere, nacque col giorno, dall’Erebo e dalla Notte, figliuoli del Caos.
1852. Eternità — I Romani ne avevano fatto una divinità, alla quale, però, non dedicarono alcun tempio nè altare. Veniva rappresentata sotto la figura di una donna, con la testa circondata di raggi ; con una Fenice d’appresso ; appoggiata ad un elefante e con un globo nella destra. Con questi differenti attributi si voleva denotare, per mezzo di simboli allegorici, i caratteri principali che il simbolo della favola attribuiva all’eternità. Infatti la Fenice (uccello che si rinnova sempre, rinascente dalle sue ceneri) era il simbolo dell’immortalità : l’elefante, quella della lunga vita ; e finalmente aveva il globo nella destra, perchè è un corpo che non ha confini.
1853. Eteta. — Giovanetta di Laodicea, città della Siria. Amò così perdutamente suo marito che, secondo riferisce la cronaca, domandò ed ottenne dagli dei la grazia speciale di essere cangiata in uomo, onde poter sempre accompagnare suo marito e difenderlo a costo della sua vita.
1854. Etilia. — Una delle molte figliuole del re Priamo. Caduta in potere di Protesilao, che la fece prigioniera all’assedio di Troja, ella profittò di una tempesta, che costrinse la nave dove si trovava, ad approdare fra le isole di Menta e Scio, e persuase le sue compagne ad appiccare il fuoco alle navi greche, onde Protesilao fu obbligato a stabilirsi nel paese ove avea preso terra colle sue prigioniere. Coll’andare del tempo Protesilao fabbricò in quel luogo una città alla quale diede il nome di Scio.
1855. Etione. — Detta anche Etionome, fu secondo la tradizione, una delle figlie del re Priamo. Etione era anche un nome dato di sovente dai pagani ai cavalli.
1856. Etna — La tradizione della favola racconta che la fucina del dio Vulcano, e quella dei ciclopi che fabbricavano i fulmini a Giove, stessero nelle viscere di questo monte.
…….. Etna sublime,Di fornaci e d’incudi, Etna tonante.V. Monti la Musogonia.
I pagani si servivano delle lave ardenti dell’Etna, per leggere in quelle la predizione del futuro. La cerimonia si faceva gettando nelle viscere del vulcano, ogni specie di vittime, le quali se venivano divorate dal fuoco si riteneva {p. 167}come presagio di lieto augurio ; se erano rigettate la predizione era riguardata come malaugurata e funesta.
1857. Etolo — Così ebbe nome il terzo figlio che Endimione ebbe dalla ninfa Naide. Divenuto adulto, Etolo si ritirò presso i sacerdoti cureti e dette al loro paese il nome di Etolia.
1858. Etosea. — Nome di una delle sette figliuole di Niobe.
1859. Etra — Figlia di Piteo, re di Trezene conosciuto per la sua saggezza. Etra fu segretamente, dallo stesso suo padre, maritata ad Egeo che la rese madre di Teseo.
Piteo per alcune particolari sue ragioni, delle quali la cronaca non fa parola, durante il tempo della gravidanza di Etra, non volendo palesare l’unione che le aveva fatto contrarre, sparse voce che Nettuno, nume particolarmente adorato in Trezene, innammoratosi della figlia, l’avesse resa madre ; e che per conseguenza Teseo era figlio di Nettuno. Allorchè Teseo, invaghitosi di Elena ancor giovanetta, la rapì, nel partire da Afidne la lasciò in custodia ad Etra. E quando Castore e Polluce corsero alle armi per vendicare il ratto della sorella e s’impadronirono di Afidne, profittando dell’assenza di Teseo, essi ricondussero con se Elena a cui dettero per schiava Etra stessa la quale seguitò da quel giorno a rimanere presso la sua padrona, finchè dopo la presa di Troja, riconosciuta da suo nipote Demofoonte, fu da lui liberata e ricondotta in patria.
1860. Etreo — Uno dei soprannomi di Vulcano col quale aveva un tempio a lui consacrato sul monte Etna.
1861. Etrurj — Nome particolare che si dava a coloro, che senza essere sacerdoti erano periti nell’arte degli Auguri.
1862. Ettore — Il più celebre fra i figliuoli di Priamo, re di Troja, e il più valoroso dei guerrieri che spesero la propria vita in difesa della sventurata città.
…… e questiFuriando parea Marte che crollaLa grand’asta in battaglia, o di voraceFuoco la vampa che ruggendo involveUna folta foresta alla montagna.Manda spume la bocca, e sotto il torvoCiglio lampeggia la pupilla : al motiDel pugnar, la celata orrendamenteSi squassa intorno alle sue tempie, e GioveIl proteggea dall’alto, e di lui soloTra tanti eroi volea far chiaro il nomeA ricompensa di sua corta vita.Omero — Iliade — Libro XV Trad. di V. Monti
Fu marito di Andromaca, e padre di Scamandrio più comunemente conosciuto sotto il nome di Astianatte. V. Astianatte.
L’oracolo avea predetto che finchè Ettore avrebbe vissuto, il regno di Priamo resisterebbe agli attacchi dei greci, onde è che questi fecero del terribile avversario il bersaglio vivente dei loro colpi ; ma l’eroico valore dei guerrieri greci fu vano per lo spazio di nove anni, mentre Ettore uscì sempre incolume dai replicati combattimenti e più di trenta fra i più famosi guerrieri greci perirono per mano di lui, sotto le mura della contrastata città. Correva il decimo anno del famoso assedio, allorchè Ettore, inorgoglito dalla fortuna che arrideva propizia alle armi trojane, e profittando dell’inazione in cui lo sdegno contro Agamennone riteneva Achille, si avanzò fin sotto le navi dei greci, appiccò a quello il fuoco e uccise di sua mano Patroclo, il compagno d’arme, l’amico, il fratello del famoso Achille.
Ed Ettore, veduto il suo nemicoRetrocedente e già di piaga offeso,Tra le file vicino gli si strinse,Nell’imo casso immerse l’asta e tuttaDall’altra parle rïuscir la fece.Omero — Iliade — Libro XVI trad. di V. Monti.
Questi, disperato d’aver perduto il suo amico, giurò la perdita del valoroso Troiano, e armatosi corse con disperato furore alla pugna.
Invano Ecuba sua madre, Andromaca moglie di Ettore, il vecchio re Priamo suo padre, e gran numero di guerrieri, di amici cercarono di dissuaderlo dall’affrontare una certa morte.
……. Desolata accorseD’altra parte la madre, e lagrimandoE nudandosi il seno, la maternaPoppa scoperse, e : A questa abbi rispetto,Singhiozzante sclamava, a questa, o figlio,Che calmò, lo ricorda. i tuoi vagiti.Rientra, Ettorre mio, fuggi cotestoSterminatore, non istargli a petto,Sciaurato ! Non io, s’egli l’uccide,Non lo darti potrò, caro germoglioDelle viscere mie. su la funébreBara il mio pianto, nè il potrà l’illustreTua consorte : e tu lungi appo le naviGiacerai degli Achivi, esca alle belve.Omero — Iliade — Libro XXII trad. di V. Monti.
Abbandonato dagli dei per avere disobbedito ad Apollo, Ettore giunto al cospetto di Achille, sentì, per un istante, vacillare il proprio coraggio, e quella intrepida energia che non lo aveva mai abbandonato un solo istante per lo spazio di dieci anni.
{p. 168}Ciò bon ostante egli attacca valorosamente il terribile nemico, del quale, forse, avrebbe trionfato, se Giove e Minerva non avessero deciso l’estremo fato dell’eroe Tro’ano. Ferito alla gola da un colpe mortale, Ettore cade, e Achille, fatto legare al suo carro il cadavere di lui, fa per tre volte il giro delle mura della città.
….. e contro l’estinto opra crudeleMeditando, de’ piè gli fora i nerviDal calcagno al tallone, ed un guinzaglioInsertovi bovino, al cocchio il lega.Andar lasciando strascinato a terraIl bel capo. Sul carro indi salitoCon l’elevate glorïose spoglie.Stimolò col flagello a tutto corsoI corridori che volar bramosi.Omero — Iliade — Libro XXII trad. di V. Monti.
Omero ci ripete che Apollo, tocco di compassione allo spettacolo miserando, preservò il cadavere di Ettore dalla putrefazione e coprì il corpo dell’eroe con la sua egida di oro, per impedire che Achille, col trascinarlo tante volte, così velocemente, intorno alle mura, non lo avesse ridotto in pezzi.
….. Ma del morto cropImpietosito Apollo ogni brutturaNe tien rimossa, e tutto coll’aurataEgida il copre, perchè nulla offesaLo strascinato corpo ne riceva.Omero — Iliade — Libro XXIV trad. di V. Monti.
Finalmente gli dei, mossi a compassione per un valoroso che li aveva sempre onorati, inspirarono al vecchio re Priamo, di ridomandare al vincitore il corpo del figlio. Achille si lasciò intenerire dalle preghiere del vecchio padre, il quale, traverso le lagrime del suo dolore, conservava la maestà dell’alto suo grado ; e gli permise di riportare in Troia il cadavere del valoroso guerriero, il quale con pompa solenne posto sul rogo, nelle mura stesse di quella città, che egli aveva difesa a costo della sua vita, fu abbruciato secondo il costume degli antichi.
…….. lagrimandoDal feretro levar del valorosoEttore il corpo, e postolo sul rogo.Il foco vi destar. RïapparitaLa rosea figlia del mattino, s’accolseIl popolo d’intorno all’alta pira.E pria con onde di purpureo vinoTutte estinser le brage.Omero — Iliade — Libro XXIV trad. di. V. Monti.
1863. Eubagl. — Nome particolare che si dava ad alcuni filosofi galli, la cui occupazione principale era lo studio delle scienze naturali.
1864. Eubea. — Così ebbe nome una delle amanti di Mercurio, che ebbe da lei un figliuolo chiamato Polibio.
La favola fa menzione di un’altra Eubea, figliuola del fiume Asterione : essa insieme alle sue sorelle Acrea e Posimna, furono fra le nutrici di Giunone.
1865. Eubuleo. — Al dire di Cicerone, era questo il nome di uno dei tre dei Dioscuri, conosciuti sotto il nome collettivo di Anaci. La tradizione favolosa ci presenta Eubuleo come figlio di Giove e di Proserpina, e nativo di Atene.
1866. Eubulia. — Ossia dea del buon consiglio. Era adorata in Roma, ove aveva un tempio. La parola Eubulia deriva da due parole greche Ευ bene ; e Βουλ η consïglio.
1867. Eubulo. — Figlio di Demetrio di Maratona, il quale fu, per decreto del senato, premiato con la sacra dei corona, in segno d’aver egli compiuti, con molto decoro della repubblica, alcune importanti missioni che aveva ricevuto dai sacerdoti di Bacco e di Esculapio.
1868. Eucherecrate. — La cronaca mitologica ci presenta sotto questo nome un giovine abitatore della Tessaglia, il quale recatosi a Delfo, per consultare la Pitia, s’innammorò così perdutamente di lei, che la rapì e la condusse nella sua patria. Ad ovviare che simili sconci si fossero ripetuti nell’avvenire, fu fatta una legge, con la quale la Pitia del tempio di Delfo, doveva avere cinquanta anni compiuti.
1869. Eucrate. — Una delle cinquanta Nereidi.
1870. Eudemonia. — Nome proprio della dea della felicità. In greco la parola Ευγαῳουια deriva da due vocaboli Ευ, ημερα che significano giorni felici.
1871. Eudora. — Una delle ninfe Oceanidi figliuola di Teti e dell’Oceano.
1872. Eufemo. — Uno degli Argonauti e propriamente quello che alla morte del pilota Tifi ebbe l’incarico di timoniere. La tradizione ce lo presenta come figlio di Nettuno.
1873. Eufiro. — Uno dei sette figliuoli di Niobe, ucciso, coi suoi fratelli, da Apollo a colpi di frecce. V. Niobe.
1874. Eufrade. — Così aveva nome la divinità che presiedeva ai conviti. In segno di allegria si metteva la statua di questo dio nella sala del banchetto e sovente sulla tavola stessa. La parola Eufrade deriva dal greco Εορων che significa allegro.
1875. Eufrobio. — Fu uno dei principali capi {p. 169}dei Trojani nel memorabile assedio della loro città. Era figlio di Penteo, e mori sotto le mura di Troja per mano di Menelao.
1876. Eufrona. — Dalle due parole greche φρης che significano consiglio si dette il nome di Eufrona alla dea della notte, riguardata, secondo l’antico proverbio, come la madre dei consigli.
1877. Eufrosina. — Nome particolare di quella fra le tre grazie che presiedeva all’allegria.
1878. Eugenia. — Si dava quest’appellazione tanto dal greci quanto dai romani alla Nobiltà, sebbene, presso quei popoli, essa non fosse stata annoverata fra le divinità. Veniva raffigurata sotto le sembianze di una donna in piedi, che ha nella mano sinistra una picca e nella destra una piccola statua della dea Minerva ; forse a ricordare non esservi cosa più nobile di Minerva, nata armata dal cervello di Giove.
1879, Eumelo. — Figliuolo di Alceste e di Admeto. Fu uno dei capi greci che assediarono Troja.
Omero ce lo addita come possessore delle due più belle cavalle dell’esercito, che secondo la tradizione favolosa, erano state nutrite sul monte Pierio da Apollo stesso.
…….. Prestanti assaiEran le fereziadi puledreCh’Eumelo maneggiava, agili e ratteCome penna d’augello ambe d’un pelo.D’età pari e di dosso a dritto filo.Il vibrator del curvo arco d’argento,Febo educolle nel pïerii prati.E portavan di Marte la pauraNelle battaglie.Omero — Iliade — Libro II. Trad. di V. Monti.
1880. Eumene. — Gli abitanti di Scio onoravano come una divinità l’eroe Drimaco a cui davano la denominazione di Eumene ossia Eroe pacifico. V. Drimaco.
1881. Eumenedie. — Feste e ceremonie celebrate in Atene in onore delle Eumenidi.
1882. Eumenidi. — Ossia benefattrici nome particolare che i greci davano alle furie. Questo vocabolo deriva dalle due parole greche Ευλεης benefattore e μενος animo. Racconta la tradizione favolosa che Apollo, per liberare Oreste dalle furie che lo tormentavano dopo l’uccisione di sua madre Clitennestra, lo avesse consigliato a recarsi in Atene, ad implorare il soccorso di Minerva.
……Te InseguirannoIn terra, in mar. nell’isole. per tutto ;Ma tu prosegui il tuo cammino. e stancoNon t’arrestar, fin che venuto seiAlla città di Pallade. Là siedi.Abbracciando l’antico simulacroDell’Alma dea : là vi sarà chi debbeGiudicar questa lite ; e suasiveParole e modi troverem, da trartiDi tutti i guai ;Eschilo — Le Eumenidi — Tragedia. Trad. di F. Bellotti.
La dea in fatti, mossa a compassione, placò le furie, ottenne da queste il riposo dello sventurato giovine. Da questo fatto furon dette Eumenidi le furie, o come dicemmo benefattrici ; e nella città di Atene fu con questo nome inalzato loro un tempio in prossimità dell’Areopago.
Minerva
— Pol che tal beneficio a questa terraPer lor s’appresta, lo ne vo lieta ; e grataSono alla dea Persuasion, che il labbroInspirommi e la lingua a piegar questeGià nel niegar si pertinaci. AltineVinse Giove Orator : portò la nostraGenerosa contesa intera palma.Eschilo — Le Eumenidi — Tragedia Trad. di F. Bellotti.
1883. Eumeo. — Così avea nome il figliuolo del re di Scio, isola del mare Egeo, che fu il più fedele seguace d’Ulisse. Narra la tradizione che Eumeo, nella sua infanzia, fu rubato da alcuni Pirati della Fenicia, i quali lo condussero nell’isola d’Itaca, e lo venderono al re di quella contrada per nome Laerte padre di Ulisse, il quale dopo qualche tempo lo adibì alla guardia delle sue greggi.
Là si rivolse, dove Palla mostroGli aveva l’inclito Eumeo, di cui fra tuttiD’Ulisse i miglior servi alcun non era.Che i beni del padron meglio guardasse.Omero — Odissea — Libro XIV Trad. di I. Pindemonte.
Fu in casa di questo Eumeo, che si ricoverò Ulisse, dopo venti anni di lontananza dalla sua patria ; e fu con l’ajuto di questo fedel servitore che egli potè sterminare tutti gli amanti di Penelope. V. Ulisse.
1884. Eumolo — Fu uno dei figliuoli di Atreo, il quale insieme ai suoi due fratelli Melampo ed Aleone vengono soprannimati da Cicerone col nome collettivo di Dioscuri.
Questa opinione del celebre oratore non è peraltro adottata da molti altri scrittori.
1885. Eumolpidi. — Così si chiamavano collettivamente i principali ministri delle cerimonie del culto di Cerere. Il loro sacerdozio aveva per ogni individuo la durata di dieci anni ed era creditario nella famiglia.
1886. Eumolpo. — Discordi sono le opinioni degli scrittori dell’antichità, su questo {p. 170}personaggio di origine egiziana. Secondo alcuni, egli era figlio del poeta Museo, e secondo altri di Orfeo. La tradizione più accreditata però, racconta di lui che, avendo contrastato il possesso della città di Atene ad Eretteo, questi gli mosse guerra. Nella battaglia decisiva che fu da ambe le parti combattuta con accanito furore, i capi degli eserciti nemici, rimasero entrambi uccisi, e allora gli Ateniesi assegnarono il regno di Atene alla famiglia di Eretteo e a quella di Èumolpo la dignità ereditaria di sommo sacerdote o Jerofante dei misteri Eleusini. Eumolpo fu colui che insegnò ad Ercole la musica. V. Ercole.
1887. Euneo. — Figliuolo di Giasone e della giovanetta Isifile, figlia di un re della Tracia per nome Toante. Giasone in un suo viaggio all’isola di Lemnos, s’innamorò d’Isifile e n’ebbe un figliuolo che fu questo Euneo. Secondo la tradizione egli diventò re di quell’isola alla morte dell’avo, e quando i greci assediavano Troja, mandò agli Atridi in dono molti cavalli carichi di vino.
1888. Eunice. — Nome di una delle ninfe Nereidi.
1889. Eunomia. — Fu figlia dell’Oceano e secondo la favola madre delle Grazie che furono il frutto dei suoi amori con Giove.
1890. Eunomo. — Fu un famoso musico della città di Locri. La cronaca favolosa narra di lui che recandosi nella città di Delfo, insieme ad un altro celebre suonatore della città di Reggio, per nome Aristano onde sostenere una sfida nella loro arte, avvenne strada facendo che una corda del liuto di Eunomo si fosse spezzata ; e nel tempo istesso essendosi una cicala posata sull’istromento, supplì col suo canto con tanta aggiustatezza al difetto della corda, che Eunomo fu il vincitore nell’artistica disfida. In memoria di questo fatto gli abitanti di Locri, gl’innalzarono una statua rappresentandolo con un liuto sul quale era posata una cicala. I Locresi ritenevano per fermo che le cicale cantavano solamente sulle rive del fiume Alex o Alice, (che divideva le due città di Locri e di Reggio), dalla parte della città di Locri mentre restavano mute sulla riva prossima alla città di Reggio.
1891. Eunosto. — Nella città di Tanagra, posta sulla sponda del fiume Asopo in Acaja, vi era un tempio eretto ad una divinità chiamata Eunosta. Essendo espressamente vietato alle donne di entrare in quel tempio, era generale credenza che tutte le volte che una pubblica calamità affliggeva la città di Tanagra, n’era causa la violazione di questa legge. Si facevano in simili congiunture le più severe ricerche, per conoscere se qualche donna fosse penetrata nel tempio anche per combinazione, e appena si scopriva la rea veniva irremisibilmente punita di morte.
1892. Eunuco. — I pagani ritenevano come un pessimo presagio l’incontro di un eunuco nell’uscire di casa. Quando la combinazione faceva che s’imbattessero in uno di essi, ritornavano in casa e non uscivano per tutto quel giorno.
1893. Euploca. — Soprannome che si dava a Venere prima d’intraprendere un viaggio per mare, onde ottenere, una felice navigazione. La geografia antica ci ammaestra che nelle circostanze della città di Napoli, vi era una montagna chiamata Euploca sulla quale Venere aveva un tempio sotto l’istesso nome.
1894. Eupompa. — Un’altra delle ninfe Nereidi.
1895. Euriale. — Figlia di Minosse la quale sedotta da Nettuno lo rese padre di Orione. Euriale era anche il nome di una delle tre Gorgoni, sorella di Medusa e figlia di Torcide. Al dire di Esiodo questa Gorgone non era soggetta nè alla vecchiezza nè alla morte.
Similmente Euriale aveva nome quella regina delle Amazzoni, la quale soccorse il re di Colchide, Aete contro Perseo.
1896. Eurialo. — Il più bello fra i guerrieri trojani e celebre nella tradizione per il grande amore che lo legava a Niso, altro giovane guerriero, e che fu causa della morte di entrambi.
Eurïalo era seco, un giovanettoIl più hello, il più gaio e’l più leggiadroChe nel campo troiano arme vestisse :Ch’a pena avea la rugiadosa guanciaDel primo flor di gioventute aspersa.Virgilio — Eneide Libro IX trad. di A. Caro.
Eurialo avea similmente nome un figliolo di Mecisteo, nipote del re Talao. Omero dice di lui che insieme a Diomede e Stenelo comandava gli argivi all’assedio di Troja, ed era simile agli dei.
….e il somigliante a numeEurialo figliuol di MecisteoTalaionide.Omero — Iliade — Libro II trad. di. V. Monti.
1897. Euribate. — Uno degli Argonauti che si rese celebre per la sua agilità negli esercizii del corpo, e per l’arte che aveva di risanare le ferite. Oileo gravemente piagato nel dare insieme ad Ercole la caccia agli uccelli del lago {p. 171}Stinfalo, fu completamente risanato da questo Euribate.
1898. Euribia. — Al dire di Esiodo fu figliuola della Terra, moglie di Crejo e madre di Perseo, di Pallante e di Astreo.
1899. Euridea. — Balia di Ulisse la quale fu la prima a riconoscerlo quando egli ritorno un giorno ferito dalla caccia al cignale. Omero ripete che Laerte, padre di Ulisse, avea comperata Euridea ancora bambina, per l’equivalente somma di venti buoi.
1900. Euridice. — Moglie di Orfeo. La tradizione favolosa racconta di lei che, qualche giorno dopo il suo matrimonio, essendo inseguita da certo Aristeo ; essa fu morsicata da una serpe, sulle sponde di un fiume, e morì in seguito di quella ferita. Orfeo, che amava teneramente quella sua dilettissima, si ritrasse in luogo deserto, e pianse notte e giorno, al suono dolcissimo della sua lira, la perdita irreparabile che aveva fatta, ma non potendo più a lungo sopportare l’amarezza ineffabile di quella angoscia, penetrò nel tetro regno di Plutone ; attraversò le selve tenebrose ove regna eterna la notte, si accostò al tetro monarca delle ombre, e col suono della sua lira discese nei più profondi recessi del Tartaro, e vide i pallidi abilatori di quel cieco soggiorno. Ma la potenza irresistibile dei suoi armonici concenti ; la celeste melodia ch’egli traeva dalle corde divine, ebbe l’arcano potere di commuovere gli inesorabili dei delle tenebre.
Le furie stesse ne fureno allettate : Cerbero cessò di latrare con le sue tre gole ; la ruota d’Isione sospese l’eterno suo movimento ; e Proserpina e Plutone stesso, inteneriti dalle divine armonie, ordinarono che la morta Euridice fosse ritornata sulla terra, sui passi dello sposo fedele ; con patto però che Orfeo non si rivolgesse a riguardarla, se non quando fossero entrambi completamente fuori dai regni della morte. Ma appena fatto breve cammino, Orfeo non seppe resistere al desiderio ardentissimo di rivedere le care sembianze della sua amata, e si rivolse a guardarla ; ma nell’istesso momento Euridice disparve.
Ei giva innanzi, ella ’l seguiva dopo(Perocchè con tal legge concedutaGlie l’aveva Proserpina allor quandoUn subito furor l’incauto amanteAssalse e prese veramente degnoDi perdono e pietà : se quello o questaSi ritrovasse nel Tartareo chiostro,Ritenne ’l piede, e già sott’essa luceA lei rivolto Euridice sua videScordato oimè dell’ aspra legge iniqua :Quivi perduta ogni fatica ogn’opra.Gettata vide : del tiranno crudoI patti rotti, fu tre volte uditoIl gran rumor ch’uscia dal lago Averno.Ella, oimè, disse, qual furor, o qualeAcerba sorte e dispietata, Orfeo.Me misera ad un tempo, e te perdeo ?Ecco che nuovamente i crudi fatiGià mi chiamano addietro : ecco ch’eternoSonno mi chiude I vacillanti lumi.Rimanti in pace, oimè, ch’io non più tuaDa grande oscura notte circondataRapir mi sento, a te stendendo indarnoAmbe le non possenti palme : e tostoCiò detto, gli spari dagli occhi, comeMisto col vento fugge in aria ’l fumoLieve, nè lui ch’indarno l’ombra vanaGiva abbracciando, e volea dir più cose,Vide dappoi, nè dal nocchier di StigeFu lasciato passar l’atra palude.Virgilio — Georgica — Libro IV trad. di M. Bernardin Daniello.
Orfeo desolato ritornò sulla terra e passò sette interi mesi sulle deserte rive del fiume Strimonio, riempiendo l’aria dei suoi gemiti dolorosi, e chiamando e piangendo la cara perduta. Finalmente si condusse nella città di Aorno, ove, secondo la tradizione, esisteva un oracolo che faceva rivedere le anime dei morti, richiamandole per poco al contatto degli uomini. Fu là che Orfeo rivide la diletta Euridice, e lusingandosi che ella l’avrebbe questa volta seguito per non abbandonarlo più mai, si rivolse a guardarla, ma Euridice era scomparsa. Allora fu che Orfeo, ripieno l’animo di un disperato dolore, si fece ad interrogare nuovamente l’oracolo, ma questo rispose che Euridice era morta per sempre, e ch’egli non l’avrebbe riveduta più. In seguito di questa risposta, perduta l’unica speranza che lo teneva in vita, Orfeo si uccise di propria mano, forse nella credenza dolcissima di raggiungere l’unico e costante oggetto dell’ amor suo.
Euridice fu anche il nome di una figliuola, che Endimione ebbe dalla ninfa Asterodia.
1901. Eurimedonte. — La favola dà questo nome äl gigante che fu padre di Prometeo. Giunone prima di diventar moglie di Giove lo aveva amato, e questa fu la vera ragione dell’odio che Giove ebbe poi tanto con Eurimedonte quanto col figliuolo di lui.
1902. Eurinome. — La più bella fra le figliuole dell’ Oceano. Giove l’amò passionatamente e la rese madre delle tre Grazie. Eurinome veniva rappresentata sotto le sembianze di uua giovane, che dalla cintura in giù aveva il corpo di pesce. Ebbe nella Arcadia un tempio nel quale la sua statua era legata con delle catene d’oro. Il suo tempio non si apriva che una sola volta l’anno e in un giorno determinato nel quale si facevano in suo onore pubblici e privati sacrifizii.
{p. 172}1903. Eurinomo. — Al dire di Pausania era uno degli dei infernali. Questa truce divinità, secondo la tradizione favolosa, si cibava della carne dei morti. Nel tempio di Delo vi era una sua statua, che la rappresentava seduta su di una pelle d’avvoltoio e mostrando i denti come un affamato.
1904. Euripile. — Figlio di Evemone. Fu uno dei capitani greci che assediarono Troja.
I lor prodi mandar sotto il comandoDel chiaro figlio d’Evemone Euripilo.Da quaranta carene accompagnatoOmero — Iliade — Libro II trad. di V. Monti.
Narra la cronaca che quando Troja cadde in potere dei greci, ad Euripile toccasse, come bottino di guerra, una cassa nella quale era rinchiusa una statua di Bacco, fatta da Vulcano, e che Giove stesso aveva donato a Dardano. Euripile impaziente di vedere ciò che contenesse la cassa, la ruppe, ma non appena ebbe guardata la statua, fu colpito di follia e divenne furioso. Per più tempo il male lo afflisse senza tregua ; ma poi cominciò ad avere qualche lucido intervallo. In uno di questi momenti, egli decise di andare a Delfo, onde consultare l’oracolo di Apollo ; ed infatti ebbe da questo risposta ch’egli avesse dovuto seguitare la sua strada, e fermarsi solamente in quel luogo ove avesse visto gli apparecchi di un sacrifizio cruento ; e che in quel luogo egli avesse dovuto deporre la cassa che gli era stata tanto fatale. Ubbidiente alla voce dell’oracolo, Euripile s’imbarcò nuovamente, e la sua nave girò per più giorni in balia dei venti, ma finalmente fu spinto sulle rive della città di Patrasso ; e nel mettere piede a terra, scorse un drappello di uomini, i quali si accingevano a sacrificare un giovanetto ed una fanciulla su di un altare di Diana Triclaria. Risovvenendosi allora della volontà dell’ oracolo, egli si fece riconoscere da quegli abitanti, e salvò la vita a quei due giovanetti. Dopo questa avventura, Euripile risanò completamente, e da quel tempo gli abitanti di Patrasso, celebrarono ogni anno, dopo, la festa di Bacco, i funerali di Euripile, e portavano ricche offerte al dio chiuso nella cassa, a cui, secondo Pausania, dettero il nome particolare di Esimnete.
Euripile fu anche un re della Libia e propriamente di quella contrada detta Cirenaica. Le cronache delle antichità dicono, a proposito di questo re, che essendo stati gli Argonauti spinti da una tempesta sulle spiagge del suo regno, egli avesse dato loro un naviglio onde servirsene di scorta, e avesse loro additato il modo di schivare gli scanni di sabbia, che s’incontrano nelle circostanze delle isole Sirti. Il simbolo della favola, prendendo, da questo fatto semplicissimo, argomento ad un altro dei suoi innumerevoli miti, racconta che essendo stata la nave degli Argonauti spinta da una burrasca sulle spiagge della Libia, apparve loro un tritone in forma umana e disse che mediante una ricompensa, avrebbe mostrato loro una via più sicura e sgombera di scogli. Giasone regalò allora al tritone un tripode di rame ; e in conseguenza di ciò il tritone, che non era altro che Euripile, staccò dal carro di Nettuno uno degli aligeri destrieri e lo mandò innanzi agli Argonauti, ordinando loro di seguire esattamente la via che avrebbe percorsa il divino corridore.
Finalmente Euripile si chiamava un nipote di Ercole, che fu uno dei più valorosi alleati dei trojani. La tradizione ripete, che Euripile non giungesse a Troja che verso la fine dello assedio e che in un aspro combattimento uccidesse di propria mano Macaone figlio di Esculapio. Al dire di Omero, egli era uno dei più belli principi dei suoi tempi e comandava i Cetei, popoli della Misia, i quali allorchè Euripile fu morto da Achille, si fecero tutti uccidere, difendendo il cadavere del loro capitano.
1905. Euristeo. — Figlio di Steneo e di Micippe figliuola di Pelope e re di Micene. La cronaca mitologica narra che avendo Giove giurato che dei due bambini Euristeo ed Ercole, quegli figlio di Micippe, e questi di Alemena quello che nascerebbe primo, avrebbe ottenuto un gran predominio sull’ altro, Giunone irritata contro Alemena, si vendicò facendo che Micippe partorisse di sette mesi Euristeo, procurandogli così la superiorità sul fratello. Divenuto adulto Euristeo, invidioso di Ercole, e temendo di essere da questi detronizzato un giorno lo perseguitò continuamente. Ciò non ostante Euristeo ebbe sempre gran timore di Ercole, e tanto, che non gli permetteva di entrare in città, e facevagli comunicare per mezzo di un araldo i suoi ordini. Quando Ercole mori, Euristeo perseguitò per fino i suoi discendenti. — V. Eraclidi. — La tradizione ripete, che durante la vita di Ercole, Euristeo ebbe tanta paura di lui che non osava presentarsi mai alla sua presenza, e che sì era fatto fabbricare una botte di bronzo per nascondervisi in caso di bisogno.
1906. Euristemone. — Statua della dea Tellure la quale veniva così chiamata perchè le si attribuiva una forma vi petto assai larga. Questo vocabolo deriva dalle due parole greche Ευρος largo, e σερυου petto.
{p. 173}Nella città di Ege in Acaja, essa aveva un tempio, che era il più antico della Grecia, e nel quale era adorata sotto questo nome. La sacerdotessa che veniva eletta al servigio di questo tempio, doveva esser stata maritata una sola volta nella vita, e dal momento che veniva insignita del suo sacro carattere, doveva far giuramente di viver celibe per tutto il rimanente dei suoi giorni.
1907. Eurito. — Uno dei giganti che dettero la scalata al cielo. Ercole lo uccise con un colpo di ramo di quercia.
Eurito aveva anche nome quello Scita, re di Oecalia, nella Tessaglia, che fu maestro di Ercole nel tirar d’arco. V. Ercole. Egli aveva una figlia per nome Jole, di cui aveva promesso la mano a colui che lo avesse vinto nell’esercizio della freccia. Inorgoglito della sua destrezza osò disfidare gli dei e allora Apollo irritato, lo uccise.
1908. Eurizione. — Detto anche Euritione. Il più crudele fra i ministri del tiranno Gerione. Ercole lo uccise insieme al suo spietato signore.
Eurizione si chiamava anche quel centauro che fu cagione della celebre contesa fra i Lapidi ed i Centauri. Al dire di Omero, durante il convito delle nozze di Piritoo, il vino alterò siffattamente le facoltà mentali di Eurizione, che insultò villanamente alcuni Lacedemoni che assistevano a quel banchetto. Questi sdegnati lo trascinarono fuori la sala e gli tagliarono il naso e le orecchie.
…… il saporoso vinoChe tracannato avidamente, e senzaModo e termine alcuno a molti nocque.Nocque al famoso Eurizion Centauro.Quando venne tra i Lapiti, e nell’ altaCasa ospitale di Piritoo, immensi,Compreso di furor, mali commise.Molto ne dolse a quegli eroi, che incontroSe gli avventaro, e del vestibol fuoriTrasserlo, e orecchie gli mozzaro e nariCon affilato brando, ed el, cui spentoDell’intelletto il lume avean le tazze.Sen gia manco nel corpo e nella mente.Quindi s’accese una cruenta pugnaTra gli sdegnati Lapidi e i Centauri :Ma, gravato dal vin, primo il disastroEurizion portò sovra sè stesso.Omero — Odissea — Libro XXI Trad. di I. Pindemonte.
1909. Europa. — Figlia di Agenore, re di Fenicia. Essa era di una bellezza incantevole, e avea la pelle così bianca, che si disse aver rubato il belletto a Venere. Giove innamoratosene si cangiò in toro e accostatosi a lei, lasciò ch’ella gli salisse sul dorso ; ma appena vi fu assisa, il toro si diede a correre verso il mare, e si tuffò nelle onde prendendo la via dell’isola di Creta, ove giunse per l’imboccatura del fiume Lete, che passava a Goritna.
Giove sotto il bugiardo e nove pelo.Con sì soave e preziosa salma.Per l’onda se n’andò tranquilla e cheta,Tantochè giunse all’isola di Creta.Ovidio — Metamorfosi — Libro II Trad. di Dell’ Anguillara.
La tradizione favolosa ripete che avendo i greci osservato che sulle sponde di questo fiume, gli alberi erano sempre verdeggianti, pubblicarono che fu sotto uno di questi, che si compirono i primi amori di Giove con Europa. Giove ebbe da Europa tre figliuoli Minosse, Sarpedone e Radamanto. Gli abitanti dell’ isola di Creta, quando Europa morì, la innalzarono agli onori divini, col nome di Hellotes, e chiamarono Ellozia una festa in suo onore. È opinione di varì scrittori dell’ antichità, che il nome di Europa fosse dato a questa principessa, perchè significa bianchezza, e che da ciò si chiamasse Europa quella parte del globo, i cui abitatori sono bianchi.
Europa si chiamava anche una delle ninfe Oceanidi, figlia dell’ Oceano e di Teti.
1910. Eurota. — Figlio di Egialeo e re di Sicione. Al dire di Apollodoro fu questo principe, che chiamò Europa una delle cinque parti del mondo. Questa opinione non è generalmente adottata.
Eurota si chiamava un fiume della Tessaglia. Al dire di Omero, le acque di questo fiume nel gettarsi in quelle dell’ altro detto Peneo rimanevano a galla come avviene comunemente dell’ olio, e ciòperchè, al dire del citato scrittore, le acque dell’ Eurota erano maledette per essere generate dalle Furie. Finalmente si chiamava Eurota un altro fiume del Peloponneso, il cui nome primitivo era Imero. Essendo i Lacedemoni in guerra con gli Ateniesi, aspettavano per fissare il giorno della battaglia, che fosse compiuto il plenilunio. Però il generale della armata Lacedemone per nome Eurota, mise in derisione cotesta credenza dei suoi soldati e poco curante dei fulmini e dei lampi di che era il cielo corrusco, schierò i suoi guerrieri in ordine di battaglia, ed appiccò la zuffa. Ma gli Ateniesi distrussero interamente l’esercito dei Lacedemoni, il cui comandante si precipitò per disperazione nel fiume Imero, che da quel tempo fu, per questa ragione, chiamato Eurota.
1911. Eusebia — Dalla parola greca ευοεβεια {p. 174}che significa pietà, si dava dagli antichi questo nome alla Pietà deificata.
1912. Eutenia — Nome proprio che i greci davano alla Abbondanza, che avevano personificata e deificata, senza però innalzarle nè tempi né altari.
1913. Euterpe — Una delle nove Muse detta così perchè rallegrava col suono del flauto e degli altri istrumenti da fiato, di cui si riteneva l’inventrice. La parola Euterpe deriva dai due vocaboli greci Ευ, τερπω che significano rallegro.
Euterpe amante delle doppie pive.V. Monti — La Musogonia.
1914. Eutico. — Narrano le cronache, che quando Augusto mosse da Roma, per la spedizione che poi finì con la battaglia di Azio, avesse incontrato fuori le porte della città, un uomo il quale spingeva innanzi a sè un asinello, pungendolo con un bastone. Quell’uomo avea nome Eutico, che in greco vuol dire ben formato ; e l’asino si chiamava Nicone, che vuol dire vinvitore, da ciò prese Augusto lieto presagio per la vittoria, ed è scritto che riportata che l’ebbe, fece fabbricare nel luogo stesso ove accampò il suo esercito, un tempio, nel cui atrio fece mettere le due figure di Eutico e dell’ asinello.
1915. Evadne — Moglie di Capaneo e figlia d’ Ifide. Allorquando suo marito morì sotto le mura di Tebe. V. Capaneo — ella si ritrasse nella città di Eleusina dove si rendevano gli onori funebri al morto re, e quivi, vestitasi degli abiti più ricchi, sali su di una rupe ai piedi della quale era preparato il rogo, e quando le fiamme ardevano l’amato cadavere, ella si precipitò fra quelle, volendo che le proprie fossero unite per sempre alle ceneri dell’uomo che essa aveva amato più della vita.
1916. Evagora — Una delle cinquanta ninfe Nereidi.
1917. Evan. — Soprannome di Bacco a lui dato dalla parola Evan, che le Baccanti ripetevano nella celebrazione delle sue orgie. Per la istessa ragione furono dette Evanti le sacerdotesse di quei misteri.
1918. Evandro — Così aveva nome il capo della prima colonia stabilita dagli Arcadi in Italia, nelle circostanze del monte Aventino.
Evandro insieme all’uso dell’agricoltura introdusse nella sue colonia anche quello delle lettere, fino allora sconosciute, e ciò gli valse la stima ed il rispetto dei popoli Aborigeni, i quali senza nominarlo re gli ubbidirono sempre ritenendolo come un uomo caro agli dei. Narra la cronaca che Evandro, accolse nella sua casa Ercole, senza sapere che era figlio di Giove : ma appena venne in conoscenza della origine divina dell’oreo, e seppe le gloriose azioni da lui compiute, l’onorò come una divinità. A tale uopo fece innalzare un altare, e innanzi ad Ercole stesso, vi sacrificò, in suo onore, un giovine toro. Coll’andar del tempo questo sacrifizio fu ripetuto una volta l’anno sul monte Aventino.
…… ed appressarsiLa ’ve per avventura il re quel giornoSolennemente in un sacrato boscoAvanti a la città stava onorandoIl grande Alcide.Virgilio — Eneide — Libro VIII. trad. di A. Caro.
Presso gli scrittori dell’antichità, è quasi generale l’opinione, che Evandro avesse portato in Italia il culto delle divinità greche ; che avesse istituito i sacerdoti Sali, ed i Lupercali ; e che avesse edificato, sul monte Palatino, un tempio a Cerere, come dea dell’agricoltura. Virgilio, nella sua Eneide, ha immaginato che Evandro vivesse ancora ai tempi di Enea, che fosse a lui legato coi vincoli della parentela, e che lo aiutasse colle sue soldatesche.
E non fia il sol dimaneDal balcon d’Oriente uscito a pena.Che le mie genti e i miei sussidi avrete.Virgilio — Eneide — Lib. VIII trad. di A. Caro.
Dopo la morte, Evandro fu innalzato agli onori divini, dalla gratitudine dei popoli ch’egli avea beneficati. Vi sono anzi alcuni scrittori i quali pretendono che Evandro, fosse la stessa divinità adorata in Italia col nome di Saturno, e che sotto il regno di lui fiorisse quel periodo di tempo conosciuto con l’appellazione di età dell’oro.
1919. Evarna — Al dire di Esiodo, era questo il nome di una delle cinquanta Nereidi.
1920. Evemerione. — Dio della medicina presso i Sicioni, i quali lo invocavano ogni giorno all’ora del tramonto. Il suo nome che significa che vive felicemente deriva da due parole greche Ev e ημερα giorni felici.
1921. Evio — Narra la cronaca che allorquando Bacco combattè nella guerra dei giganti a fianco di suo padre Giove, questi nel vedere che il figliuolo aveva ucciso un gigante, avesse gridato Eoyus. Da ciò si dava questo soprannome a Bacco.
1922. Evocazione — Cerimonia religiosa per mezzo della quale i pagani evocavano gli dei ovvero le anime dei morti. Se ne distinguevano {p. 175}tre specie marcate e distinte fra loro, sebbene impresse tutte dello stesso carattere.
La prima Evocazione era quella che si praticava per chiamare gli dei, quando si credeva necessaria la loro presenza in un dato luogo, non attribuendo la credenza religiosa dei pagani alle differenti divinità, il potere d’essere da per ogni dove.
In simili occasioni si cantavano alcuni inni propri all’evocazione, i quali venivano nella maggior parte attribuiti al poeta Proclo ed a Orfeo stesso. In essi si conteneva una specie di preghiera, che avea potere di far discendere gli dei, nel luogo ove si credeva utile la loro presenza : e quando il pericolo per cui si evocavano le divinità era cessato, si cantavano degli altri inni, specie di saluto, coi quali si dava loro commiato. Al dire di Plinio, gli Etrurî evocavano il fulmine per liberarsi da qualche nemico. Numa Pompilio, il più saggio re della Roma antica, evocò anch’egli di sovente il fulmine e Tullo Ostilio che succedette a Numa nel governo, volle fare anche egli la medesima evocazione ; ma non avendo adempiuto tutti i riti necessarî a simili cerimonie fu, secondo la tradizione, incenerito egli stesso.
La seconda specie di Evocazione era quella che i pagani praticavano per evocare gli dei tutelari. Dice Macrobio, che quando i romani cingevano d’assedio una città, avevano il costume di fare l’evocazione degli dei tutelari, cantando alcune strofe, senza di che credevano impossibile impadronirsi della città nemica ; e ritenevano che quand’anche avessero potuto rendersi padroni della città assediata, senza aver prima fatta l’evocazione sudetta, sarebbe stato un gran sacrilegio il far prigionieri gli dei penati e protettori della città nemica.
« Allora il Dittatore uscito fuori, avendo preso gli augurü, e comandato che i soldati pigliassero le armi, disse : O Apollo Pizio, per tuo conforto seguitando la tua deità, come mia scorta, vo’io ora a distruggere la città Veientana, della cui preda ti fo voto e prometto la decima parte. E te, o Giunone regina, la quale al presente abiti questa città, prego parimente, che tu seguiti noi vincitori nella nostra, e tosto tua città, dove tu sia ricevuta in un magnifico tempio, degno della tua grande deità.Tito Livio — Storia Romana — Lib. V. trad. di F. Nardi.
Finalmente la terza Evocazione era quella che si faceva per evocare le anime dei morti, ed era di tutte la più solenne e la più frequentemente adoperata. L’uso di questa evocazione dei morti, risale ai tempi più remoti dell’ antichità. Gli autori profani ritengono Orfeo come l’inventore di questa cerimonia, che aveva un ordinamento lugubre e solenne. Ai tempi di Omero l’evocazione dei morti non era ritenuta come colpevole ed odiosa e vi era non piccolo numero di persone, che facevano pubblica professione di evocare i defunti ; ed esistevano molti templi ove si celebrava la cerimonia dell’evocazione.
Pausania, nelle sue opere, fa menzione di un tempio nella Tespozia, ove andò Orfeo ad evocare l’anima della sua diletta Euridice. Ulisse, recandosi nel paese dei Cimmerj, per consultare l’ombra dell’indovino Tiresia, compie la cerimonia dell’evocazione ;
Poi degli estinti le debili testePregai, promisi lor, che nel mio tetto,Entrato con la nave in porto appena,Vacca infeconda, dell’armento fiore,Lor sacrificherei, di dono il rogoRiempiendo ; e che al sol Tiresia, e a parte.Immolerei nerissimo ariete,Che della greggia mia pasca il più bello,Fatte ai mani le preci, ambo afferraiLe vittime, e sgozzaile in su la fossa.Omero — Odissea — Lib. XI. trad. di I. Pindemonte.
e così tutti i pretesi viaggi fatti nel regno delle ombre dagli eroi e dagli dei stessi del paganesimo, altro non sono che altrettante cerimonie in cui si praticava cotesta evocazione dei defunti.
1923. Evoè. — Grido che ripetevano le baccanti nelle feste del loro dio. V. Evan.
Esse dicevano propriamente Ecohe Baeche.
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{p. 176}1924. Fabaria. — In Roma nel primo giorno del mese di giugno si celebravano sul monie Celio, alcuni sacrifizii, nei quali si offeriva alla dea Carna del lardo e della farina di fava. Da ciò fu chiamato Fabaria questo sacrifizio, e furon dette Fabariae, le calende di giugno.
1925. Fabiani. — Nome particolare che si dava dai Romani, ai sacerdoti del dio Pane, detti anche Luperci. In Roma essi erano divisi in due collegi, uno dei quali era detto dei Quintiliani, e l’altro dei Fabiani.
1926. Fabio. — Uno dei figliuoli di Ercole, che egli ebbe da una figlia del re Evandro, per nome Vinduna. Al dire di Festo, egli chiamavasi da principio Fovio dal latino Fovea che significa fossa, perchè, secondo la tradizione, gli amori di Ercole e di Vinduna, avvennero in una fossa. Altri scrittori pretendono che questo primitivo nome di Fovio, gli venisse per essere stato il primo ad insegnare ai suoi concittadini la maniera di prendere gli orsi vivi nei fossi. Tutti i cronisti dell’antichità, concordano nel considerare questo Fovio o Fabio come lo stipite dell’illustre famiglia dei Fabii in Roma.
1927. Fabulino. — Dal latino Fari, favellare. I romani davano questo nome al dio della parola, il quale presiedeva all’ educazione dei fanciulli. Gli venivano offerti dei sacrifizi, secondo riferisce Varrone, quando i bambini cominciavano a dire qualche parola.
1928. Fagesie. — Dette anche Fagesiposie, Cosi si chiamavano alcune feste celebrate dai Greci in onore di Bacco, nelle quali si costumava inbandire numerose e ghiotte vivande. La parola Fagesie deriva dal greco φαγειυ che significa mangiare.
1929. Faggio. — Albero consacrato a Giove, i cui altari nelle principali solennità, venivano ornati di queste foglie.
1930. Fagutale. — Soprannome di Giove Dodoneo dalla parola fagus, che significa, colui che abita nel faggio. I responsi dell’oracolo che Giove aveva in Dodona, uscivano dalla cavità di un’albero di faggio, e secondo altri da un albero di quercia. V. Dodona.
1931. Faja. — La cronaca favolosa dà questo nome alla cignala madre del famoso cignale di Calidone, e che desolò per più tempo le circostanze del borgo di Crommione, uel territorio di Corinto. Teseo le dette la caccia e l’uccise.
Secondo riferisce Plutarco, Faja fu il nome di una donna, che vivea di prostituzione, di assassinio e di furto. Teseo la fece morire e ad essa restò la denominazione di cignala, per alludere forse alla laidezza dei suoi costumi.
1932. Falce. — Questo strumento era l’attributo principale che i pagani davano a Saturno ossia il tempo ; volendo così caratterizzare il tempo che tronca e miete ogni cosa.
1933. Fallsio. — Così avea nome un uomo nativo della città di Naupatto, nella Focide. La tradizione mitologica narra di lui uno strano fatto, dicendo che egli aveva male gli occhi in così triste modo, che era quasi interamente cieco. Un giorno il dio di Epidauro, Esculapio, gli mandò per mezzo d’una donna chiamata Anite, una lettera suggellata, con ordine di aprirla e leggerla. Falisio credette da prima che la donna volesse prendersi giuoco di lui, insultando, per basso animo, alla dolorosa sventura che lo avea colpito ; ma sentendo poscia da Anite, che ella non faceva se non se ubbidire al comandamento del dio della medicina ; concepì qualche speranza, prese la lettera, l’aprì e gettandovi sopra gli sguardi si trovò così miracolosamente guarito che potè leggere da capo a fondo il contenuto di quel foglio, Allora rese grazie ad Esculapio, e rimandò Anite con un dono di duemila {p. 177}monete d’oro, secondo che era scritto nella lettera di cui ella era stata portatrice.
1934. Falliche. — Venivano così nominate alcune feste e cerimonie che si celebravano nella città di Atene, in onore di Bacco. L’istituzione di tali feste era dovuta ad un tale Pegaso nativo della città di Eleutera, il quale secondo riferisce la cronaca mitologica, avendo portate in Atene delle piccole statue di Bacco, si attirò per questo, senza alcuna plausibile ragione, il disprezzo è la derisione degli Ateniesi.
Poco dopo scoppiò in quella città una terribile epidemia, onde si andò a consultare l’oracolo per saperne la cagione, ed essere indicato il mezzo onde far cessare il flagello. L’oracolo rispose che quella era conseguenza dello sdegno di Bacco, irritato contro gli Ateniesi per l’indegno trattamento da essi fatto ad un suo protetto. Consultato nuovamente l’oracolo sul modo di placare l’oltraggiata divinità, si ebbe in risposta che dovevano ricevere Bacco nella loro città con solenni pompe e pubbliche cerimonie. Allora gli Ateniesi fecero fare gran numero di statue rappresentanti qual dio, e le portarono con grande apparato in processione per tutte le strade. Da quel tempo le feste dette Falliche vennero celebrate una volta l’anno. Vedi l’articolo seguente.
1935. Fallo. — Nelle feste di Osiride, costumavano gli antichi di portare in processione gran numero di pezzi di cera, e di altre materie, i quali avevano la configurazione delle differenti membra del corpo umano, cui si dava il nome collettivo di Fallo. Ciò in commemorazione della seguente tradizione. Avendo Tifone ucciso il fratello Osiride, ne tagliò in pezzi il cadavere onde far disperdere ogni traccia del misfatto. Però Iside raccolse con amorosa diligenza le disperse membra di Osiride e le rinchiuse in un’ urna : ma accorgendosi che non aveva potuto trovare tutte le membra, fece da valenti artefici, copiare in cera e in altre materie quelle parti del corpo che mancavano allo amato cadavere. Qualche cosa di simile facevano gli ateniesi nella celebrazione annuale delle feste dette Falliche — V. Falliche.
1936. Fallolori. — Nome collettivo, che si dava ai ministri delle orgie di Bacco per dinotare che essi portavano il fatto nella processione che si faceva durante le cerimonie falliche. I Fallolori correvano per le strade della città, mentre continuava la celebrazione di questa cerimonia, col viso impiastricciato di feccia di vino, coronati d’edera e facendo salti e mosse sconciamente oscene.
1937. Fama. — Nelle cronache dell’antichità si trova sovente personificata la Fama e posta nel numero delle multiplici deità del paganesimo. La tradizione mitologica ce la presenta come figlia della terra, e sorella dei giganti Encelado e Ceo, e ci ripete che la terra, irritata contro gli dei che nella guerra coi giganti, avevano distrutti tutti i suoi figli, avesse partorito questa specie di mostro, chiamato la Fama, affinchè rendesse noto all’ universo i loro delitti.
È questa fama un mal, di cui null’ altroÈ più veloce ; e com’ più va, più cresce.E maggior forza acquista. É da principioPicciola e debil cosa, e non s’arrischiaDi palesarsi : poi di mano in manoSi discopre e s’avanza ; e sopra terraSen va movendo e sormontando a l’aura,Tanto che ’l capo infra le nubi asconde,Dicon che già la nostra madre antica,Per la ruina de’ giganti irataContra i celesti. al mondo la produsse,D’Encelado e di Ceo minor sorella :Mostro orribile e grande, e d’ali prestaE veloce de’ piè : che quante ha piume,Tanti ha sott’occhi vigitanti, e tante(Meraviglia a ridirlo) ha lingue e bocchePer favellare, e per udire orecchi,Vola di notte per l’oscure tenebreDe la terra e del ciel senza riposo.Stridendo sempre, e non chiude occhi mal,Il giorno sopra tetti, e per le torriSen va de le città, spïando tuttoChe si vede e che s’ode : e seminando,Non men che ’l bene e ’l vero, il male e ’l falso,Di rumor empie e di spavento i popoli.
trad. di A. Caro.Virgilio — Eneide — Libro IV.
trad. di A. Caro
Al dire di Ovidio, la Fama dimorava su di un’alta torre, posta ad eguale distanza dal cielo, dalla terra, e dal mare.
La Fama s’ha quest’alto luogo eletto,E nella maggior cima ha la sua corte :Forato ha la mille luogbi il muro e ’l tetto :V’ha mille ampie finestre e mille porte.Quindi han mille aure il passo entro il ricettoDa cui sono alla dea le voci scorte :Da tutte le città, sian pur remote.Tutte ivi scorte son l’umane note.Ovidio — Metamorfosi — Libro XII.
trad. di Dell’ Anguillara.
Gli ateniesi le avevano innalzato un tempio, nel quale la onoravano con un culto regolare.
1938. Fame. — I pagani mettevano la Fame fra le loro divinità, insieme alle malattie, ai travagli, alla povertà, e a tutti i mali della vita, che similmente essi personificavano ed adoravano, supplicandoli a rimaner sempre lontani dalla propria patria.
{p. 178}La Fame veniva raffigurata sotto la sembianza di una donna smunta, pallida, emaciata ; cogli occhi incavati e vitrei, e col corpo magro e scarno.
1939. Fanatici. — Con questa particolare denominazione gli antichi chiamavano quelle persone, che dimoravano nei templi, e durante la preghiera cadevano in una specie di entusiasmo, e inspirate dalla divinità alla quale si erano consacrate, facevano dei gesti pazzi e sconci a somiglianza delle baccanti, e pronunziavano degli oracoli. Al dire di Giovenale, i fanatici erano invasi dal fuoco di Bellona, forse perchè essi dimoravano da principio nel tempio sacro a quella dea. I fanatici s’incidevano le braccia in tutta la loro lunghezza con un coltello, e in cotal guisa offrivano alla dea il sacrifizio del proprio sangue, agitando la testa in tutt’i sensi. I fanatici di Bellona erano anche detti particolarmente Bellonarii, ma oltre a questi ve ne erano degli altri nel tempio del dio Silvano, in quello di Serapide, d’Iside e in quasi tutti i tempi delle altre divinità. Del pari che presso di noi, presso gli antichi, il nome di fanatico era preso in mala parte ritenendosi in generale i fanatici come gente superstiziosa e cattiva.
1940. Faneo. — Dalla parola greca φανειν che significa illuminare, si dava questo nome ad Apollo nel significato di colui che dà la luce. Vi era anche un promontorio nell’isola di Chio, al quale si dava lo stesso nome, e di dove narra la tradizione mitologica, che Latona avesse visto l’isola di Delo.
1941. Fano. — Dio dei viaggiatori, che presiedeva anche all’anno. Riferisce Macrobio nelle sue cronache dell’antichità, che i Fenici rappresentavano il dio Fano, sotto la figura di un serpente ripiegato in cerchio, coll’ estremità della coda fra i denti.
1942. Fantasmi. — Assai di sovente si trova ripetuto nei fasti della mitologia pagana, che gli dei formavano spesso dei fantasmi per salvare e talvolta anche per ingannare gli uomini. Così Giunone per salvare Turno re dei Rutoli che si esponeva con troppo audace coraggio nella battaglia contro Enea, formò dal vapore di una densa nube un fantasma a cui dette la voce, le armi e la figura di Enea e lo presentò a Turno, il quale lo assali immantinenti, ma il falso Enea si dette a precipitosa fuga, e Turno lo inseguì fino su di un vascello che si trovava nel porto. Allora per volere della dea il fantasma disparve e il vascello fu spinto in alto mare.
……… Ivi di nebbia,Di colori e di vento una figuraForniò (cosa mirabile a vedere !)In sembianza d’Enea : d’Enea lo seudo.La corazza, il cimieto e l’armi tutteGli finse intorno, e gli dié il suono e’l motoPropri di lui, ma vani, e senza forzeE senza mente ; ……………………In questo legno, di fuggir mostrando,Ricovrossi d’Enea la finta imago.E vi s’ascose. A cui dietro correndoTurno senza dimora infuriatoIl ponte ascese. Era a la prora a penaChe Giunon ruppe il fune, e diede al legnoPer lo travolto mare impeto e fuga.Virgilio — Eneide — Libro X. trad. di A. Caro.
I cronisti ed i poeti dell’antichità pagana ci riportano innumerevoli esempi di simili fantastiche apparizioni.
1943. Fantaso. — Uno dei tre sogni che la tradizione mitologica fa figliuoli del Sonno. Il suo nome gli veniva dai differenti fantasmi che forma l’immaginazione durante il sonno. Al dire di Ovidio, Fantaso si trasformava sempre in cose inanimate.
1944. Faone. — Così avea nome un abitante della città di Mitilene, nell’isola di Lesbo, il quale si rese celebre per la sua straordinaria bellezza. I poeti della favola finsero che Venere lo avesse fatto così sorprendentemente belio, per ricompensarlo di un servigio che egli le aveva reso nel tempo che era padrone di una nave. Narra la tradizione, che Venere, un giorno, trasformata in vecchia, fosse stata ricevuta a bordo del bastimento di Faone, e tragittata da lui con ogni prontezza, e senza pretender nulla in pagamento. Venere, prima di scendere dalla nave gli donò un vaso di alabastro ripieno di un unguento maraviglioso, del quale appena Faone si fu unto il corpo, diventò di una bellezza simile a quello di un dio, per modo che tutte le donne di Mitilene furono pazze di lui.
……… Eccolo : ei sembraIl forte, il bello, la natura e l’arte :Par che sien fusi in quelle svelte membraAdone e Marte.L. Marenco — Saffo — Tragedia Atto III, Scena VI.
La poetessa Saffo, perdutamente innammoratasene, non potè piegarlo alle sue voglie, permodo che, disperata si precipitò nel mare dall’altezza dello scoglio di Leucade, sul quale Faone fece inalzare un tempio a Venere, in commemorazione di quel fatto. Peraltro Faone non fu con tutte le donne insensibile come lo fu con la disgraziata poetessa ; imperocchè la tradizione ci ripete che, colto in adulterio, morì ucciso dall’oltraggiato marito.
1945. Fare. — Nella contrada di Acaja, vi {p. 179}era una città conosciuta sotto questo nome, e celebre per un oracolo che la dea Vesta e Mercurio, avevano nella piazza maggiore di questa città. La statua di Mercurio era tutto di marmo, e lo rappresentava con una gran barba. Di contro a questa, sorgeva il simulacro della dea Vesta, similmente di marmo, e circondato tutto all’intorno di lampade di bronzo, attaccate le une alle altre. Prima di ottenere un responso da questo oracolo, bisognava sottomettersi a numerose e dettagliate cerimonie ; imperocchè era mestieri dapprima pregare in ginocchio la dea, poi incensarla, poi versar dell’olio in tutte le lampade e accenderle ; quindi avanzarsi verso l’altare e mettere nella destra della statua una moneta ; e finalmente avvicinarsi al simulacro di Mercurio, e mormorare all’orecchio di quello, la dimanda alla quale si voleva la risposta dell’oracolo.
1946. Fascino. — Nome particolare di una divinità a cui i romani attribuivano il potere di allontanare i cattivi effetti dell’affascinamento, delle magie, del mal’occhio, etc. Generalmente si appendea un piccolo amuleto, a cui si dava il nome di fascino, al collo dei bambini. Le Vestali avevano il carico particolare di fare i sacrifizi a questa divinità durante le feste romane.
1947. Faside. — Apollo ebbe da una delle ninfe oceanidi, chiamata Ociroe, un figliuolo al quale dette il nome di Faside. La cronaca mitologica racconta che divenuto adulto, avendo sorpresa la madre in adulterio, l’avesse uccisa, geloso dell’onore paterno. Le Furie impossessatesi di lui lo straziarono in modo che si precipitò nel fiume Arturo, il quale da quel giorno cangiò il suo primitivo nome in quello di Fasi.
1948. Fatalità. — Questo nome particolare davano gli antichi a quella necessità di un avvenimento che nulla poteva impedire e che veniva attribuito al destino. I pagani accagionavano tutto alla fatalità del destino, alla quale gli stessi numi erano sottomessi. V. Destino.
1949. Fatalità di Troja. — Tutte le cronache mitologiche, nonchè gli scrittori più accreditati concordano sulla opinione che fra i greci si ritenesse come certa ed immutabile la credenza che la caduta di Troja, andava collegata al compimento di alcune fatalità inesorabili, le quali dovevano restare compiute, a simiglianza del fato estremo della città Priamea. La prima di codeste fatalità, era quella la quale imponeva che i greci non si sarebbero mai impossati di Troja, se i discendenti di Eaco non fossero stati fra i combattenti nelle file degli Achei. Questa prima fatalità, inevitabile come tutte le altre, nasceva da una antica tradizione secondo la quale era detto che Apollo e Nettuno, occupati a fabbricare le mura di Troja, avessero richiesto Eaco dell’opera sua, affinchè il lavoro di un uomo mortale, avesse cooperato all’opera dei celesti. Fu questa la ragione per la quale i greci adoperarono ogni arte onde Achille nipote e discendente di Eaco, abbandonasse Deidamia, presso alla quale, la madre lo aveva nascosto, per trarlo allo assedio di Troja ; e fu similmente questo il motivo per il quale morto Achille i greci condussero al famoso assedio il figliuolo di lui Pirro, sebbene ancora fanciullo.
In secondo luogo, la fatalità voleva che per la caduta di Troja fossero adoperate le frecce di Ercole, le quali erano rimaste in potere di Filottete, che era stato dai greci abbandonato nell’isola di Lemnos. Onde riuscire nello intento desiderato fu inviato Ulisse il più scaltro dei greci, ed egli riusci nella impresa affidata alla sulla sagacia e condusse allo assedio di Troja Filottete, armato delle famose ed invincibili frecce.
La terza fatalità, e la più grave ed importante di tutte era quella che voleva si togliesse ai Trojani il Palladio, che essi custodivano accuratamente nel tempio di Pallade Minerva. Narra la cronaca che Ulisse e Diomede avessero trovato il mezzo d’introdursi di notte nella cittadella trojana, e traverso a mille pericoli fossero riusciuti ad involare questo pegno di sicurezza, che i trojani custo livano con ogni solerzia.
Bisognava inoltre al compimento dell’estremo fato di Troja, che i cavalli di Reso re di Tracia, non avessero bevuto l’acqua del fiume Xanto, nè mangiato l’erba dei campi trojani ; e quindi Ulisse e Diomede per raggiungere un tale scopo, sorpresero Reso in un campo vicino alla città, l’uccisero e impadronitisi dei famosi destieri li condussero seco loro.
In quinto luogo era mestieri che Troilo, figlio di Priamo fosse morto in combattimento, e il sepolcro di Laomedonte, che sorgeva vicino alla porta Scea, fosse stato abbattuto. Ed anche in ciò la fatalità fu compiuta in tutto il suo terribile volere ; imperocchè Achille uccise di sua mano il giovanetto Troilo ; e i trojani abbatterono il sepolcro di Laomedonte, allorchè fecero nelle mura della loro città una breccia che dette passaggio al famoso cavallo di legno.
Finalmente il destino imponeva che Troja non poteva essere presa senza che nelle file dell’esercito greco avesse combattuto Teleso, figliuolo, di Ercole e di Auge. Ma questo giovane principe era non solo amico ed alleato dei trojani, ma legato coi vincoli del sangue alla real casa Priamea, per aver tolta in moglie Astioca, figliuola del re Priamo. Eppure il destino inevitabile fece in modo che Teleso ferito in un combattimento abbandonò il campo trojano, e ingrato {p. 180}e traditore, combattè da quel giorno nelle file dei greci. In cotal guisa ebbero compimento tutte quelle fatalità che il destino imponeva alla finale caduta della città trojana, la quale è stata quella fra tutte le altre del mondo conosciuto dagli antichi, che è cosiata più sangue.
1950. Fatidica — Ossia indovina dalla parola latina fatum che significa destino, si dava questo nome particolare ad una indovina chiamata Fauna come quella che annunziava i decreti del destino, e prediceva l’avvenire osservando il volo degli uccelli.
1951. Fatua — Soprannome particolare che i pagani davano alle mogli degli dei campestri in generale, e dei silvani e fauni in particolare. Fatua era anche un soprannome della Buona Dea. V. Buone Dea.
1952. Fatuel — Al dire di Servio era questo il nome che si dava ad un Fauno, Il quale più sovente dei suoi compagni, prediceva l’avvenire, e dava persino degli oracoli.
1953. Faviani — Nome particolare che i romani davano a taluni giovani, i quali nei sacrifizii delle feste del dio Fauno, percorrevano le strade in modo indecente, essendo quasi nudi e facendo atti e movimenti sconci. In varie cronache dell’ antichità, è ritenuta come antichissima la esistenza di questi Faviani la cui istituzione è attribuita a Romolo e Remo.
1954. Favola — È questo il vocabolo che si dà generalmente ad una narrazione, ed in particolare ai racconti adorni di finzioni. Presso gli antichi poi si dava il nome di favola, a tutti quei singoli fatti che avevano relazione con la religione pagana, coi suoi misteri, colle sue feste, col culto onde venivano onorati gli dei e gli eroi, e con le cerimonie di esso.
Lo studio dell’antichità pagana è tutto composto di favole, che rinchiudono l’idea del simbolo mitologico e che sono suddivise, secondo la gran maggioranza degli scrittori, in favole storiche, filosofiche, morali, allegoriche e miste.
Favole storiche si addimendano le narrazioni delle antiche storie frammischiate di molte finzioni. Queste favole sono in gran maggioranza come quelle che hanno per sobbietto principale gli dei maggiori, e gli eroi più famosi dell’antichità, dei quali il sostrato storico ed informatore, è preso dal vero.
Favole filosofiche si addimandano quelle la cui invenzione è tutta dovuta all’immaginazione dei poeti ; ed altro non sono che una specie di parabole, sotto al cui velo trasparente e diafano, sono ravvolti i misteri della filosofia.
Le favole morali si dicevano quelle la cui invenzione era dovuta alla necessità di dettare quei precetti di morale, atti a regolare i costumi.
Favole allegoriche si chiamava quella specie di parabole che nascondeva sotto ad un precetto un senso mistico e configurato.
Favole miste finalmente si dicevano quelle che non avendo in se stesse alcun che di storico, facevano ciò non ostante diretta e limpida allusione alla fisica ed alla morale.
1955. Favore — Dalla voce latina Favor che in quella lingua è di genere mascolino, come nella italiana, i pagani avevano fatto di questo, uno dei loro dei. Secondo Lilio Giraldi, ch’è uno dei cronisti che si è addentrato nei più remoti recessi dell’antichità, era il Favore figlio della bellezza, seguace della fortuna e compagno dell’adulazione. Era sempre accompagnato dall’invidia, dal fasto, dagli onori e dalla voluttà come madre dei delitti. Veniva raffigurato cieco e con le ali, forse per dinotare che non riconosce i suoi amici quando s’innalza.
1956. Faula — Fu il nome di una della amanti di Ercole.
Lattanzio nelle sue cronache dell’antichità la pone fra le divinità romane.
1957. Fauna — Si dava questo nome alla moglie del dio Fauno la quale, secondo la tradizione, era di una tale scrupolosa pudicizia, che non guardò in viso altro uomo che suo marito. Era la stessa che sotto il nome di Buona Dea prediceva l’avvenire alle sole donne, e riceveva i sacrifizii in certi luoghi appartati e remoti ove non era permesso agli uomini di penetrare. L’oracolo di questa dea rimaneva sempre muto per gli uomini ; e non rispondeva neanche alle donne, quando talune di esse la interrogava per cosa che riguardasse un uomo.
1958. Faunali — Presso i pagani si celebravano due volte l’anno e propriamente nei mesi di decembre e di febbraio, alcune pubbliche cerimonie, in onore del dio Fauno, ed alle quali perciò si dava il nome di Faunali. Queste feste venivano solennizzate nella campagna, e propriamente nei prati ; e nel mese di decembre si sacrificava un capriuolo, mentre nel mese di febbraio si svenava una pecora.
1959. Fauni — Dei campestri, figliuoli di Fauno che ebbe per padre Pico. Ovidio li chiama Fauni bicornes, perchè a somiglianza dei satiri e di tutte le divinità boscherecce, avevano due piccole corna sulla fronte e i piedi di capra. L’ulivo selvatico ed il pino erano le piante consacrate ai Fauni.
1960. Fauno. — Discorde è l’opinione degli scrittori dell’antichità, sulla paternità di questo dio campestre della mitologia pagana. Taluni lo fanno figliuolo di Marte, mentre Ovidio, ed altri con lui, lo dicono figliuolo di Pico re dei Latini, e lo fanno successore al trono di suo padre.
{p. 181}Soventi volte nelle cronache della Favola, egli viene confuso con Saturno, forse perchè in alcuni cronisti si trova che Fauno a somiglianza di Saturno avesse introdotto in Italia il culto degli antichi dei della Grecia. Essendosi durante la sua vita dedicato costantemente a far fiorire l’agricoltura, fu dopo la morte, annoverato fra le divinità campestri ; e gli furono perfino assegnati degli oracoli in un vasto bosco prossimo alla fontana Albunea. Dice Virgilio, che l’oracolo di Fauno richiamava moltissima gente non solo dal paese di Oenotria, ma persino da tutta l’Italia. Al dire del citato scrittore, allorquando il sacerdote, che custodiva quell’oracolo, aveva sacrificato le vittime vicino alla fontana Albunea, ne stendeva le pelli per terra e vi si coricava sopra durante la notte. Per tutto il tempo che durava il suo sonno si credeva fermamente che egli s’intrattenesse cogli dei.
…… È questa selvaImmensa, opaca, ove mai sempre suonaUn sacro fonte, onde mai sempre esalaUna tetra vorago. Il Lazio tuttoE tutta Italia in ogni dubbio casoQuindi certezza, aita e’ndrizzo attende :E l’oracolo è tale. Il sacerdoteNel profondo silenzio de la notteSi fa de l’immolate pecorelleSotto un covile, ove s’adagia e dorme.Nel sonno con mirabili apparenzeSi vede intorno i simulacri e l’ombreDi ciò ch’ivi si chiede, e varie vociNe sente, e con gli Dei parla e con gl’InferiVirgilio — Eneide — Libro VII.
Trad. di A. Caro.
Tutto ciò che egli diceva al suo svegliarsi era ritenuto dai pagani come rivelazione dei voleri del dio Fauno. Presso i romani questo dio aveva un culto simile a quello che i greci avevano per il dio Pane.
1961. Faustolo — Ci ammaestra la tradizione storico-favolosa, che così aveva nome il capo dei pastori di Numitore, re della città di Alba. Narrano le cronache, che avendo un giorno osservato un uccello che col cibo nel becco volava sempre presso una data caverna, mosso da curiosità penetrò in quella, e vide due bambini allattati da una lupa. Sorpreso da tale fatto, e convinto che era quella una rivelazione divina, portò con se i due neonati e li consegnò ad Acca Laurentia sua moglie, affinchè li avesse allevati. Quei due infanti erano Romolo e Remo, i celeberrimi fondatori di Roma, ond’è che Faustolo, ebbe dopo la morte, una statua nel tempio stesso in cui si veneravano Romolo e Remo dopo la loro apoteosi.
1962. Feacidi — Al dire di Omero così aveva nome il popolo primitivo che abitò l’isola di Corcira, ora Corfù. Secondo il citato scrittore, esso viveva nel lusso e nella mollezza, non di altro occupato che di feste, conviti e banchetti. Ulisse onde mettere a pruova la propria virtù e fortezza, passò qualche tempo presso quei popoli, i quali dopo averlo colmato di doni, lo fecero, sopra una loro nave, passare nell’isola d’Itaca, e narra la tradizione, alla quale si rapporta Omero stesso, che Ulisse fosse trasportato sul vascello durante il sonno, e che così addormentato avesse fatto il tragitto senza risvegliarsi.
In questo porto ai Feacesi contoDirittamente entrò l’agile nave,Che sul lido andò mezza : di si fortiRemigatori la spingean le braccia !Si gittaro nel lido ; e Ulisse in primaCo’ bianchi lini e con la bella coltreSollevar dalla nave, e seppellitoNel sonno, siccom’era, in su l’arenaPoserlo giù.Omero — Odissea — Libro XIII.
trad. di I. Pindemonte.
Però Nettuno, che odiava Ulisse, sdegnato contro i Feacidi, per aver essi portato nell’isola di Itaca un uomo al quale egli era avverso, risolvè di vendicarsi, e appena il vascello fu di ritorno, nell’entrare nel porto, fu cangiato in uno scoglio. Allora ad un certo Alcinoo, anch’egli abitante dell’isola di Corfù, risonvenne di alcuni oracoli dei quali suo padre gli aveva fatto rivelazione, ed in cui era detto che Nettuno odiava i Feacidi per essere questi dei celebri piloti, e che perciò mostravano di poco curarsi di lui, come dio del mare ; onde egli avrebbe fatto perire fra le acque, uno dei loro migliori vascelli, nel giorno che avrebbe fatto ritorno nel porto, dopo aver lasciato un mortale nella sua patria.
Se non che Alcinoo a ragionar tra loroPrese in tal foggia : oh Dei ! colto io mi veggo.Qual dubbio v’ha ? Dai vaticinj antichiDel padre, che dicca, come sdegnatoNettun fosse con noi, perchè securoRiconduciam su l’acque ogni mortale.Dicea che insigne de’ Feaci nave,Dagli altrui nel redire ai porti suoi,Distruggeria nell’oscure onde, e questaCittade copriria d’alta montagna.Così arringava il vecchio, ed oggi il tuttoSi compie. Or via, sottomettiamci ognuno :Dal ricondur cessiam gli ospiti nostri,E dodici a Nettuno eletti toriSacrifichiam, perchè di noi gl’incresca,Nè d’alto monte la città ricuopra.Omero — Odissea — Libro XIII.
trad. di I. Pindemonte.
{p. 182}Interrogato l’oracolo, dopo le esortazioni di Alcinoo, i Feacidi ne ebbero in risposta che per placare lo sdegno di Nettuno, bisognava offrirgli un sacrifizio di dodici tori, e promettere con giuramento che non avrebbero più nell’avvenire ricondotto alcun forestiere che fosse approdato nella loro isola. E così fu fatto.
1963. Febade — Nome che si dava in generale a tutti i sacerdoti del tempio di Apollo in Delfo, ed in particolare alla sacerdotessa che presiedeva a quello.
1964. Feba ed Ilaria — Così venivano denominate le mogli degli dei Dioscuri. — Vedi Ilaria.
1965. Febea o Febe — Allorquando Diana veniva considerata come la Luna le si dava codesta particolare denominazione, sia come sorella di Apollo o Febo ; sia per voler intendere che la Luna riceve la luce dal Sole. La sorella di ’Saturno e di Rea che fu madre di Latona, chiamavasi anche Febe.
1966. Febo — I greci davano codesta appellazione ad Apollo come dio della Luce e forse per alludere anche al calore che emana dal Sole e che dà la vita a tutte le cose. In greco le parole φως τδ βιου significano : lume della vita. L’opinione più generale però è che Apollo si chiamasse Febo da Febea o Febe sua avola e madre di Latona. — Vedi l’articolo precedente.
1967. Febbraio — I pagani avevano personificato questo mese e lo dipingevano sotto la figura dì una donna vestita di una tunica succinta, che lasciava scoperto sino al ginocchio ; avendo nella destra un’anitra ed a fianco un pesce, un aghirone, uccello acquatico ed un urna da cui cade un’acqua abbondante. Al dire dello scrittore Ausonio si facevano durante il mese di febbraio delle espiazioni chiamate Febbrua dalla parola latina che significa purificazione.
1968. Februa o Februata — Giunone, come dea della purificazione, veniva onorata in Roma, sotto questa denominazione. Altri scrittori pretendono che la dea fosse così soprannominata, perchè sollevava le partorienti. Altri finalmente vogliono che Giunone venisse così detta dal mese di febbraio, durante il quale essa era onorata con un culto particolare.
1969. Februali o Februe — Secondo riferisce Macrobio, i romani costumavano di onorare le anime dei morti con alcune cerimonie, alle quali si dava questo nome durante il mese di febbraio. Queste feste, accompagnate da sacrifizi ed offerte si facevano, al dire di Plinio, per rendere propizii gli dei infernali, alle anime dei defunti. Le cerimonie Februali, avevano la durata di dodici giorni ; elasso di tempo che si occupava ordinariamente per tutte le specie di espiazioni, sia private, che pubbliche.
1970. Februo — Discorde è l’opinione degli scrittori della favola, su questa divinità ; imperocchè, Macrobio, dice che era un dio particolare, che presiedeva alle purificazioni ; e Servio pretende che fosse lo stesso che Plutone, al quale venivano anche offerti dei sacrifizii Februali. Questa ultima opinione è avvalorata dalle cronache di Cedreno, il quale ci ripete che la parola Februus, in lingua etrusca significa che sta nell’inferno, la qual cosa, come si vede, si addice perfettamente a Plutone.
1971. Febbre — I romani avevano ricevuta questa divinità per trasmissione dai primitivi abitatori della Grecia, presso i quali però questa era una dea, perchè la parola Febris in latino è di genere femminile ; mentre il vocabolo greco πρετος Febbre, è maschile. Al dire di Valerio Massimo, la dea Febbre aveva un tempio sul monte Palatino, e altri due in altri luoghi della città.
1972. Fectali — La istituzione di codesti ministri della religione pagana, i quali erano una specie di araldi d’arme, che intimavano la guerra, e dichiaravano la pace, è dovuta, secondo gli scrittori dell’antichità a Numa Pompilio, secondo re di Roma, il quale li costituì al numero di venti, scelti fra le più cospicue e nobili famiglie di Roma. Le persone dei feciali erano tenute come sacre, ed essi componevano un collegio tenuti in moltissima considerazione, non solo dal popolo, ma dalle autorità, e dal re stesso. Allorquando faceva mestieri dichiarare la guerra, i feciali eleggevano uno di essi per mezzo di votazione, e allora l’eletto portavasi, in abilo sacerdotale, e coronato di verbena, presso il popolo nemico, o innanzi alle porte della città ostile, e quivi, chiamando Giove e gli altri dei in testimonii, chiedeva ad alta voce riparazione dell’ingiuria fatta alla città di Roma. Se trascorsi trenta giorni da questa intimazione, i nemici non avevano cercato di riparare all’offesa in modo soddisfacente, allora il sacerdote Feciale lanciava nel territorio nemico un’asta, e invocando gli dei celesti e marittimi, dichiarava apertamente la guerra.
1973. Fecondità — Divinità romana che viene sovente confusa con la dea Tellure, che non è altro se non la Terra. Le donne romane invocavano la Fecondità, per avere dei figliuoli, e a tale uopo si assoggettavano ad una cerimonia per quanto oscena altrettanto ridicola.
Narrano le cronache dell’antichità, che quando le donne si recavano nel tempio della dea, per invocare la grazia di esser feconde, i {p. 183}sacerdoti le facevano spogliar nude, e le battevano con uno staffile di lana.
Sulle antiche medaglie si trova la fecondità rappresentata come una donna appariscente per florida bellezza, col seno interamente nudo fino a ! principio della cintura, e con quattro fanciulli, due fra le braccia e due fra le gambe.
1974. Fede — Vedi Fedelta’.
1975. Fedeltà — In latino fides, dea che presiedeva al giuramento delle promesse ed alla inviolabilità dei contratti. Presso i romani un giuramento fatto per la dea Fedeltà, era ritenuto come il più sacro ed inviolabile. Numa fu il primo a costruire un tempio alla fede pubblica, il quale sorgeva vicino a quello di Giove. La Fedeltà veniva rappresentata come una giovanetia coronata di foglie d’ulivo, con un’insegna militare in una mano, e con una tortorella nell’altra, essendo questo uccello il simbolo della fedeltà, per la fede che porta alla sua compagna.
1976. Fedra — Così aveva nome la famosa figlia di Minosse, re di Creta, e della infame ed impudica Pasifae. Fu sorella di Arianna e di Deucalione, e moglie di Teseo re di Atene. Narra la cronaca che Teseo aveva avuto da una prima moglie un figliuolo chiamato Ippolito, il quale egli fece allevare nella città di Trezene. Qualche tempo dopo le sue nuove nozze con Fedra, Teseo costretto a recarsi in Trezene, condusse seco la novella sposa, la quale restò appena ebbe visto Ippolito, ammaliata dalla non comune bellezza del giovane. A poco a poco crebbe così fattamente la fiamma colpevole nel seno della disgraziata donna, che temendo di dover ritornare in Atene, e di restar così priva della vista dell’amato giovane, fece edificare su di una montagna di Trezene un tempio consacrato a Venere, nel quale si recava assai di sovente sotto pretesto di adorare la dea, ma in verità perchè così aveva occasione di vedere il giovanetto principe, il quale si abbandonava agli esercizii dell’ equitazione e delle armi, nelle pianure circonvicine.
Al dire di Euripide, fece Fedra ogni sforzo per vincere da principio la funesta passione che le si era accesa nel sangue, ma non riuscì che a renderla vieppiù ardente e tanto che non reggendo al fuoco che la divorava, decise di darsi la morte.
……… Poi che feritaM’ebbe amor, divisai com’io potessiSoffrir meglio un tal male, e dal tacerio.Dall’occultario incominciai : chè nullaFidar vuolsi alla lingua : essa degli altriBen sa gli errori castigar : ma in suaPropria causa assai danni si procaccia,Poi mi proposi quella rea demenzaVincer con forte castità. Ma quandoNè con tal mezzo soggiogar non valsiD’amor la possa, alfin mi parve il meglioMorir.Euripide — Ippolito — Tragedia.
trad. di F. Bellotti.
Senonchè avendo confidato alla sua nutrice Oenone, il suo colpevole amore, questa che amava ciecamente la sua padrona prese impegno con lei di adoperarsi a soddisfare le sue brame colpevoli, e a tale effetto, palesò con accorte e seducenti parole ad Ippolito l’amore che bruciava il sangue della matrigna per lui. Ma avendo Ippolito respinto con orrore le infami proposte, Fedra cieca di passione, ebbe ricorso ad un infame rimedio onde salvare in faccia al mondo ed al marito, la sua riputazione. Narra la cronaca che ella, disperata si appiccasse, dopo aver scritta una lettera a Teseo, nella quale gli manifestava che tentata nell’onore dal figliastro Ippolito, ella si uccideva per sottrarsi all’infamia, preferendo la morte al disonore.
Una delle più antiche tradizioni della favola, aggiunge a questo proposito, che vicino alla sepoltura di Fedra in Trezene, sorgeva un albero di mitro, le cui foglie erano tutte bucate ; ma che quell’ albero non fosse così di sua natura, e che Fedra nel tempo in cui la sua funesta passione la distruggeva, passava molte ore del giorno vicino a quell’albero, bucandone le foglie con uno spillo, assorta nell’unico pensiero che le travagliava la mente.
1977. Fegoneo. — Soprannome particolare del Giove di Dodona, che a lui veniva dalla credenza che avevano i pagani che egli abitasse nel tronco del faggio che rendeva gli oracoli di Dodona. La parola Fegoneo deriva dal greco φηγος che significa fuggio.
1978. Felicità. — I greci e i romani ne avevano fatta una dea, alla quale essi davano sovente l’appellazione particolare di Eudemonia. V. Eudemonia. Veniva rappresentata sotto la figura di una donna giovane e sorridente, con un cornucopia nella sinistra ed un caduceo nella destra.
1979. Femonea — Ai tempi di Acrisio, avo di Perseo, viveva una donna così chiamata, la quale fu la prima Pitia, o sacerdotessa dell’oracolo di Delfo, che rispose alle interrogazioni in versi esametri.
1980. Feniee. — Uccello favoloso del colore della porpora, che gli antichi credevano unico della sua specie, e dotato della prodigiosa qualità di rinascere dalle proprie ceneri. Gli egiziani ne fecero una delle loro divinità, adorandolo sotto la figura di un uccello grande {p. 184}come un’aquila, con le piume del collo dorate e le altre colore della porpora bianche e verdi, e cogli occhi scintillanti come due stelle. Gli Egizi ritenevano per fermo, che quando l’uccello Fenice si sentiva prossimo a morire, formava da se stesso un nido di legna aromatiche e di gomma, e che coricatosi in quello, si consumava ai raggi del sole. Dalle midolle, ritenevano gli egiziani, che nascesse un verme da cui poi formavasi un’altra Fenice. L’opinione generale dei naturalisti è che l’uccello Fenice nasce nei deserti dell’Arabia ed ha una lunghissima esistenza, vivendo da 500 ai 600 anni.
Presso gli scrittori dell’antichità, è concorde ed unanime l’opinione, che fa contare a quattro sole le apparizioni di questo maraviglioso uccello. Secondo le cronache dell’antica cronologia, è segnata la prima apparizione della Fenice, sotto il regno di Sesostri ; la seconda durante quello del re Amasi ; la terza durante il regno dei Tolomei, e finalmente la quarta verso gli ultimi tempi del regno di Tiberio, imperatore romano, del quale, al dire di Dione Cassio, fu ritenuta come presagio di prossima morte questa apparizione della Fenice.
Nell’ intento di portar sempre l’attenzione dei lettori sulle idee da noi esposte nella introduzione di questa nostra opera, gioverà grandemente far notare che molti padri della chiesa cristiana, come S. Tertulliano, S. Ambrogio, S. Cirillo, S. Epifanio ed altri, si sono avvalsi nei loro scritti di questa credenza pagana del risorgimento, dalle proprie ceneri della Fenice per confermare l’idea miracolosa della resurrezione dei corpi, e cio non perchè essi prestassero fede alle superstizioni dei pagani, ma per mettere in atto uno dei loro principii ; cosa la quale viene altamente in appoggio a quanto noi esponemmo nello studio preliminare sulla mitologia che precede questa nostra opera.
L’opinione dell’esistenza della favolosa Fenice si trova anche presso i Cinesi e gl’Indiani, i quali attribuiscono anch’essi ad un certo uccello, la strana prerogativa di essere unico e di rinascere dalle proprie ceneri.
Sugli antichi monumenti e particolarmente sopra i sepolcri, si scolpiva l’immagine di una Fenice per risvegliare così la idea dell’eternità collegata alla morte.
Fenice fu anche il nome di un flume nella Tessaglia, che univa le sue acque a quelle del fiume Asopo.
Fenice si chiamava del pari un’istrumento da corda assai in uso presso gli abitatori della Tracia, a causa forse del nome se ne attribuiva l’invenzione ai fenici.
Fenice fu del pari chiamato un figliuolo di Amintore, re dei Dolopi, in Epiro. Narra la cronaca che Fenice per soddisfare il giusto risentimento di sua madre, la quale Amintore abbandonava per i laidi vezzi di una sua concubina per nome Lizia, si facesse amare da questa, la quale abbandonò facilmente il vecchio padre, per darsi in braccio al giovane figliuolo. Amintore, cieco di libidinosa passione, accortosi del tranello, maledisse il figliuolo, e lo consacrò alle furie dell’inferno.
………l’ira fuggendoE un atroce imprecar del padre mioAmintore d’Orméno. Era di questaIra cagione un’avvenente drudaCh’egli sprezzata la consorte, amavaFollemente. Abbracciò le mie ginocchiaLa tradita mia madre, e supplicommiDi mischiarmi in amor colla rivale,E porle in odio il vecchio amante. Il feci.Reso acceorto di questo il genitore,Mi maledisse, ed invocò sul mioCapo l’orrende Eumenidi. pregandoChe mal concesso non mi fosse il porreSul suo ginocchio un figlio mio.Omero — Iliade — Libro IX
trad. di V. Monti..
Allora Fenice, altamente irritato contro suo padre, concepì l’orrendo pensiero di ucciderlo, ma poscia, inspirato forse da qualche benefico nume, e temendo di cedere alla funesta tentazione, si esilio volontariamente dalla sua patria e si condusse nella città di Ftia, della quale era re Peleo, padre di Achille, che lo accolse con ogni cortese amorevolezza e lo fece aio del proprio figlio.
………M’accolseLietamente il buon Sire, e mi ditesseCome un padre il figliuol ch’unico in largoAver gli nasca nell’ età canuta :E di popolo molto e di molt’oroFattomi ricco, l’ultimo confineDi Ftia mi diede ad abitar, commessoDe’ Dolopi il governo alla mia cura.Omero — Iliade — Libro IX
trad. di V. Monti.
Da quel tempo un’amicizia più che fraterna, legò il riconoscente animo di Fenice, all’eroe giovanetto, dal quale non seppe più distaccarsi ;
Son io divino Achille, io mi son quegliChe ti crebbe qual sei, che caramenteT’amai ; ……Omero — Iliade — Libro IX
trad. di V. Monti.
{p. 185}e tanto che lo accompagnò perfino all’assedio di Troja e fu uno degli ambasciatori, che, al dire di Omero, il quale chiama Fenice l’amico di Giove.
Primamente Fenice, al Sommo GioveCarissimo mortale………Omero — Iliade — Libro IX
trad. di V. Monti.
Agamennone inviò ad Achille onde placarne l’ira funesta, che infiniti addusse lutti agli Achei. Allorquando Achille, spinto dal desiderio ardentissimo di vendicare la morte di Patroclo, ritornò alle armi, Fenice, sempre fedele amico, per quanto invitto guerriero, lo seguitò in tutti i pericoli delle battaglie, ma ebbe ben presto a soffrire l’ineffabile dolore di veder morto l’amico dilettissimo del suo cuore. Allora Fenice fu spedito dai Greci in traccia di Pirro, figliuolo del morto eroe, ed egli lo accompagnò sottò le mura di Troia, e seguitò ad avere per lui lo stesso paterno amore, e la stessa inalterabile amicizia, che aveva avuta per Achille. Finalmente, caduta Troia in potere dei greci e quando il superbo Ilion fu combusto, Fenice fece ritorno in patria, ma sorpreso nel traversare la Tracia, dalla morte, fu sepolto nella città di Eone.
Fenice è finalmente il nome di un figliuolo di Agenore, e fratello di Cadmo e di Europa. Allorquando Giove rapì la bellissima giovanetta, Agenore mandò i suoi figli Cadmo e Fenice, in traccia di lei. Ma non avendola essi rinvenuta, Fenice non ebbe il coraggio di affrontare la collera di suo padre e andò nella Bitinia, ove fondò una colonia, e diffuse il culto degli dei della sua nazione. Alcune cronache dell’antichità, pretendono che questo Fenice fosse l’inventore delle lettere e della scrittura ; e che avesse trovato il mezzo di servirsi di un piccolo verme onde dare alle stoffe il colore della porpora.
1981. Fenna. — Secondo riferisce Pausania, i Lacedemoni riconoscevano due sole Grazie, fra le dee che essi adoravano, una chiamata Fenna, dalla parola greca δαωεω che significa, risplendente ; e l’altra Clita, dal vocabolo ϰλειτες che significa tenebre.
1982. Fennide. — Così avea nome una figliuola del re di Caonia, la quale visse, secondo le cronache dell’antichità verso il cadere della 136’. Olimpiade, vale a dire circa 200 anni, prima della venuta di Gesù Cristo. Al dire di Pausania, Fennide era dotata della qualità di predire l’avvenire e dopo la sua morte, riferisce il cennato scrittore, che fu fatta una raccolta di tutte le predizioni di lei.
1983. Ferali. — Presso i romani, così avevano nome alcune feste funebri, che essi celebravano una volta l’anno, e propriamente nel giorno ventuno di febbraio in onore dei morti. Al dire di Ovidio, la celebrazione di queste feste, fu una volta impedita dai disordini delle guerre civili ; per la qual cosa durante la notte si intesero delle grida per la strade di Roma, e fu detto che le anime dei morti si agirassero per le vie della città. I Romani, spaventati da siffatti prodigi, rimisero ben presto in vigore la celebrazione delle feste Ferali e di tutte le altre cerimonie funebri. Secondo alcuni scrittori la parola Ferali deriva dal latino Fero che significa portare, perchè durante la cerimonia si portava un desinare sulle sepolture. Altri pretendono invece, che quel vocabolo venga da Fera ossia Crudele, essendo questo il soprannome qualificativo, che gli antichi romani davano alla morte.
1984. Ferefatta. — Soprannome primitivo che si dava a Proserpina, sotto il quale si celebravano in Sicilia delle feste in suo onore, dette perciò Ferefattie.
1985. Ferepola. — Ossia portatrice del polo. Gli abitanti di Smirne innalzarono alla dea fortuna una statua, che aveva il polo sulla testa e un cornucopia fra le mani. Da ciò, al dire di Pindaro, fu dato questo nome alla dea fortuna, per dinotare che ella governa e sostiene il mondo.
1986. Feretrio. — Dalla parola ferire, battere, si dava comunemente presso i romani un tal soprannome a Giove, come vincitore dei loro nemici che aveva abbattuti col terrore. Altri scrittori pretendono, che si desse questo epiteto al padre degli dei, perchè i vincitori delle battaglie costumavano di appendere nel tempio di quel dio, le spoglie tolte ai vinti.
1987. Ferie. — I romani chiamavano con questo nome alcuni particolari giorni dell’anno, che erano consacrati agli dei ; e durante i quali si facevano in loro onore feste, cerimonie e sacrifizi d’ogni sorte. Nel periodo delle Ferie non era permesso alcuna specie di lavoro. Vi erano differenti e moltiplici specie di Ferie, delle quali le più comunemente ripetute nelle cronache dell’antichità, erano quelle dette con nome particolare Saturnali, Vendemmiali, Paganali, Estivali, Quirinali, Vulcanie etc. etc.
Secondo l’ordine alfabetico, parleremo partitamente d’ognuna di esse : e solo terremo nell’articolo seguente menzione delle così dette Ferie latine, come quelle che hanno un carattere particolare nelle credenze religiose del paganesimo romano.
1988. Ferie Latine. — Riferiscono le {p. 186}cronache codeste Ferie fossero istituite da Tarquinio per solennizzare Roma come capitale del Lazio. I magistrati delle principali provincie al numero di 47 si riunivano ai magistrati romani sul monte Albano, e quivi tutti uniti sacrificavano a Giove Laziale, un toro e gli offerivano del latte ed altre specie di libazioni. Da principio le Ferie Latine duravano due soli giorni poi tre, e finalmente il loro periodo fu fissato a quattro giorni ; durante i quali non era permesso neanche di dichiarare la guerra.
1989. Feronia. — Dea degli orti, dei boschi e protettrice degli schiavi liberti. Era tenuta dai pagani in grande venerazione in tutta l’Italia ; le si facevano continue e ricche offerte, oltre ad un sacrifizio annuale in un determinato giorno. Aveva il suo tempio sul monte Soracte, vicino alla città di Feronia, dalla quale prese il suo nome particolare. Credevano i pagani, secondo che riferisce Strabone, che coloro i quali erano posseduti dallo spirito di questa dea camminavano sui carboni accesi senza soffrire. Orazio ripete, che aveva prestato omaggio e devozione alla dea Feronia, lavandosi il volto e le mani nella fonte sacra, che scorreva presso il tempio di lei.
Una cronaca alla quale si rapporta Ovidio, narra che avendo una volta il fuoco consumato un bosco sacro alla dea Feronia, gli abitanti vollero trasportare in altro luogo la statua della dea ; ma che al momento in cui si accingevano al trasporto, furono visti gli alberi abbruciati coprirsi istantaneamente di foglie. Ritenendosi allora quel prodigio come manifestazione della volontà della dea, di rimanere in quel bosco, fu lasciato il simulacro di lei dove si trovava.
Finalmante Virgilio riferisce che la dea Feronia si deliziava di vivere nei boschi.
Molti scrittori dell’antichità credono che Feronia sia la stessa che Giunome vergine.
1900. Ferro. — Fu l’ultima delle quattro età nota te dai poeti e dai cronisti della favola come i quattro staccati periodi del tempo primitivo. V. Eta’.
Ma sebben v’era rissa, odio e rancore,Non v’era falsità, non v’era Inganno,Come fu nella quarta età più dura.Che dal Ferro pigliò nome e natura.Il ver, la fede e ogni bontà dal mondoFuggiro, e verso il ciel spiegaro l’ali,E ’n terra usciro dal tartareo fondoLa menzogna, la fraude e tutti i mali,Ogn’infame pensiero, ogni atto immondoEntrò nei crudi petti dei mortali,E le pure virtù candide e belleGiro a splender nel ciel fra l’altre stelleOvidio — Metamorfosi — Libro I.
trad. di Dell’Anguillara.
1991. Ferula — Secondo la tradizione, allorquando Prometeo rubò il fuoco dal cielo lo nascose in una ferula ed insegnò agli uomini a conservare il fuoco nel gambo di questa pianta, che per naturale conformazione, puo, ritenerlo acceso in sè per più giorni senza esserne divorata.
Riferisce Diodoro, nelle sue cronache della favola, che Bacco, che fu uno dei più famosi legislatori dell’ antichità avesse proibito ai primitivi abitanti della terra che servirono del vino come bevanda, di far uso di altri bastoni fuorchè di quelli di Ferula. Forse i seguaci di quel dio colpiti da ebbrezza per troppo larghe libazioni, dovettero offendersi scambievolmente coi bastoni di cui erano armati ; e allora fu che il dio legislatore, impose loro di servirsi sola mente di bastoni di Ferula, imperocchè questi sebbene forti abbastanza per servire di appoggio, erano troppo fragili per percuotere.
1992. Ferusa — Una delle cinquanta ninfe Nereidi.
1993. Fessonia o Festoria — Dea del riposo : veniva particolarmente onorata dai guerrieri che la invocavano dopo le fatiche del campo.
1994. Feste — Straordinarie ed innumerevoli erano le feste, i giuochi pubblici, le cerimonie ecc. che erano in vigore presso i popoli della antichità favolosa e sopra tutto presso i romani ed i greci. Questi ultimi particolarmente avevano tante e si moltiplici feste, che non v’era quasi giorno dell’anno, in cui non ne ricadesse la celebrazione.
Riserbandoci di parlare partitamente delle principali feste e cerimonie del paganesimo, a misura che l’ordine alfabetico che noi seguitiamo nella esposizione di questa nostra opera ce ne darà il destro, ci limiteremo qui a dare il nome delle principali feste religiose dei romani e dei greci.
Presso i romani le principali feste e cerimonie erano le seguenti, cioè : Angeronali, Apollinari, Armilustrie, Baccanali, Caristie, Crapotine, Compitali, Cereali, Faunali, Furinali, Ferali, Fornicali, Ilarie, Latine, Liberali, Lupercali, Matrali, Matronali, Megalesie, Opalie, Polifie, Quirinali, Regifugie, Robigali, Saturnali, Terminali, Vertunnali e Vulcanie o Vulcanali.
Presso i greci erano : Asiache, Agranie, Agrianie, Aloe, Ambrosie, Anfiarie, Anacee, Anagogie, Androgeonie, Antesforie, Antessirie, Aputire, Apollonie, Afrodisie, Aratee, Ariadnee, Arresorie, Artemisie, Asclepie, Ascoie, Bendilie, Boedromie, Borealmee, Brasidie, Busfonie, Cabirie, Clausidie, Callispie, Calliuterie, Carie, Calcie, Caonie, Carisie, Chitonie, Cloie, {p. 187}Claudeterie, Coree, Coribantiche, Cronie, Daidie, Dedalee, Dafneforie, Delfinie, Delie, Demetrie, Dimastigose, Dionisie o Dionisiache, Eiseterie, Ecdusie, Elefebolie, Eleuterie, Eleusinie, Elenoforie, Efesterie, Epidaurie, Epliclidie, Epricrene, Eumenidie, Effiterie, Ecalesie, Ecatombee, Ecatonfonie, Eraclee, Ermee, Effestie, Ferefattie, Gallafie, Giacintee, Idroforie, Isterie, Itomee, Ifee, Festa delle lampade, Lampeterie, Leontiche, Lernee, Linie, Licee, Licurgie, Mematerie, Menelanie, Musee, Misie, Neleidie, Nemesie, Nefalie, Nestee, Olimpie, Omopagie, Oncestie, Oree, Panatee, Pambie, Paufanie, Pelopie, Pelorie, Prologie, Prometee, Pitie, Saronie, Scire, Sparzie, Strofie, Talifie, Targente, Teenie, Toganie, Teofanie, Tefee, Telle, Titenie, Titanie, Tonie, Tossaridie, Trieclarie, Tritterie, Triopie, Tirbee.
1995. Fetonte. — Al dire di Esiodo, così ebbe nome un figliuolo di Cefalo e dell’Aurora il quale dopo essere stato cangiato in genio, fu da Venere adibito alla custodia d’uno dei suoi tempii.
Fetonte era similmente il nome di quel famoso figliuolo del Sole e di una ninfa per nome Climene. Le cronache della favola ne fanno tutte menzione, come di colui che si rese celebre per la sua famosa caduta, la cui origine si attribuisce al fatto seguente.
Fetonte avendo avuto una contesa con Epafo, questi lo insultò, dicendogli che egli non era, come se ne dava vanto, figliuolo del Sole. Fetonte punto al vivo dalle oltraggiose parole, se ne lamentò con sua madre, e questa lo inviò al Sole, affinchè dal labbro di suo padre avesse inteso la verità. Il giovanetto narrò al padre quanto gli era avvenuto, e lo supplicò a non negargli una grazia speciale che avrebbegli domandata. Il Sole, trasportato d’affetto pel figliuolo suo, giuro per lo Stige, che non gli avrebbe nulla negato, e allora l’audace giovanetto dimando in grazia, di potere per un sol giorno illuminare la terra, conducendo il carro del Sole.
Non si potrà negar giammai. Fetonte.Ch’un ramo tu non Sia dell’arbor mio.Per quel che mostran l’animo e la fronte.Che ti scopron figliuol d’un grande Dio :Non mente Febo e Climene, ed ho pronteLe voglie ad empir meglio il tuo desio :Chiedi pur quel che più t’aggrada e giova.Che di questo vedrai più certa prova.Della proferta il giovinetto altieroTroppo si confidò del suo valore,E disse, un giorno voler esser duceDel suo bel carro e della sua gran luceOvidio — Metamorfosi — Libro II
trad. di Dell’Anguillara.
Spaventato il padre dal pericolo a cui volea esporsi l’incauto fanciullo, cercò con ogni persuasiva, di dissuaderlo dal proprio divisamento, ma vane riuscirono le preghiere del genitore ; poichè Fetonte, facendosi forte del paterno giuramento, e disprezzando ogni pericolo, montò sul carro conducendo egli stesso i bianchi destrieri del Sole. Ma ben presto ebbe a pentirsi della sua audacia, imperocchè i cavalli riconoscendo di non essere governati dalla solita mano che li guidava, si sviarono dal loro ordinario cammino, e salendo ora troppo alto, minacciavano il firmamento di un immane e terribile incendio ; ora discendendo troppo verso la Terra, bruciavano le foreste, e le montagne e inaridivano i fiumi. La terra allora, arsa fino nelle viscere profonde, e sentendo insopportabile il dolore che le dilaniava i fianchi fecondi, portò a Giove i suoi lamenti, supplicandolo che la liberasse da tanta rovina ;
L’alma gran Terra ch’é cinta dal mare.Non può vietar che’l fuoco empio non entreDove son seco ritirati a stareI fonti nel materno ombroso ventre :Alza il fruttifer volto per parlare,Oppon la mano all’arsa fronte, e mentreVuol dir, trema e si move, e gir si lassaPiù che star non solea, terrena e bassa.Ovidio — Metamorfosi — Libro II.
trad. di Dell’Anguillara.
e Giove allora, per prevenire la catastrofe universale, di cui l’audace inespertezza di Fetonte minacciava il creato, arrestò il giovanetto con un colpo di fulmine, e lo precipitò nell’Eridano.
Si volge in prec pizio il corpo estinto,Ardendo l’aureo crin doppia facella.E per l’aria all’ingiù gran tratto spinto,Sembra quando dal ciel cade una stella.……………Lontan dalla sua patria il Po l’accoglie.E lava lui con l’infiammate spoglieOvidio — Metamorfosi — Libro II
trad. di Dell’Anguillara.
1996. Fetonziadi. — Conosciuto più comunemente col nome di Fetontee e di Eliadi, erano le sorelle di Fetonte, che furono cangiate in pioppi per aver pianto troppo lungamente la morte del loro fratello — V. Eliadi.
La scorza intanto tutte le circonda.E toglie a loro il volto e le parole :Il pianto no, che più che main’abbondaL’arbor ch’or sol col lagrimar si dole :{p. 188}Beu ch’alfin perdon la forma dell’ondaLe lagrime indurate a più d’un SoleEsse or son pioppi, ambre i disfatti lumi :Queste adornan le donne. e quelli i fiumi.Ovidio — Metamorfosi — Libro II
trad. di Dell’Anguillara.
1997. Fetusa. — Nome della maggiore fra le sorelle di Fetonte.
Stauca Fetusa, la maggior sirocchia,
Peusa sedersi, e trova l’infelice
Le giunture indurate e le ginocchia,
Nè come prima più seder le lice.
Ovidio — Metamorfosi — Libro II
trad. di Dell’ Anguillara.
Fetusa e Lampezia avevano nome due figliuole del Sole, e della ninfa Neerea. Esse erano le custodi delle mandre, che il loro immortale genitore possedeva in Sicilia — V. Lampezia. Il nome di queste due immortali ha qualche cosa del linguaggio simbolico, che rivestiva generalmente il nome stesso delle differenti deità della favola : infatti Fetusa, secondo che riferiscono le cronache mitologiche alludeva allo splendore del Sole e Lampezia a quello della Luna. Neerea poi, loro genitrice, raffigurava la gioventù, le cui figlie non invecchiano mai.
1998. Fia. — Al dire di Erodoto, così aveva nome una donna ateniese, di un’altezza quasi gigantesca ed assai bella di volto, della quale le cronache mitologiche raccontano un curioso accidente che ci rivela, a somiglianza di molti altri, la fecondità d’immaginativa che avevano i pagani per tutto ciò che si collegava alle loro religiose credenze. È scritto che i parieggiani del tiranno Pisistrato, volendo che gli ateniesi lo avessero riconosciuto come loro re, avessero rivestito la bella Fia degli stessi abiti che aveva Minerva nel maggior tempio di quella città ; e che facendola salire su di un carro, riuscirono a far credere al popolo, che la stessa dea conduceva Pisistrato al governo di Atene.
1999. Fidio. — Nome particolare che si dava al dio della fedeltà, per il quale si prestava il giuramento dicendo : Me Dius Fidius. Pretendono alcuni scrittori, che il dio Fidio altro non fosse Giove, considerato come vendicatore dei falsi giuramenti : altri vogliono che sia Ercole figliuolo di Giove. Come che sia il dio Fidio aveva molti templi in Roma ed era venerato con generali divozioni.
2000. Fidolao. — La tradizione mitologica alla quale si attiene Pausania stesso dà questo nome ad uno abitante della città di Corinto, il quale nel prendere parte ai giuochi olimpici, si lasciò cadere dal dorso della sua cavalla, al principio della corsa. Però l’animale come se fosse stato sempre guidato, compi tutto il giro dello steccato ; al suono della tromba raddoppiò di velocità e avendo sorpassato gli altri corridori, andò a fermarsi innanzi ai giudici, come avesse avuto coscienza d’aver guadagnato il premio. I giudici infatti dichiararono Fidolao vincitore e gli permisero in com memorazione di quel fatto d’innalzare un monumento sul quale egli era scolpito insieme alla sua cavalla.
2001. Figliuoli degli del. — Presso i pagani, e particolarmente dai loro cronisti e poeti, si dava codesta qualificazione alla simbolica e immaginaria personificazione di esseri inanimati : così il fiume Acheronte, fu figliuolo della dea Cerere ; Eco fu figlia dell’ aria ; l’Amore fu figliuolo della povertà etc. etc.
Furono in secondo luogo ritenuti come figliuoli degli dei, coloro che si illustrarono nelle arti stesse, esercitate da qualche nume come Orfeo, Lino ed altri moltissimi. Tutti coloro che si distinsero per gloriose azioni, o fatti memorandi compiuti sul mare, furono rig uardati come figliuoli di Nettuno ; quelli che si illustrarono in guerra per invitto coraggio, e intrepidezza di valore, furono ritenuti come figliuoli di Marte. Nè a ciò si arrestava la sbrigliala immaginazione delle religiose credenze dei pagani, imperocchè erano ritenuti come figliuoli della terra tutti coloro la cui origine era sconosciuta, così per esempio, i giganti che dettero la scalata al cielo, i mostri etc. Sarà facile intendere come il tenebroso potere sacerdotale, che in tutte le epoche, ha sempre cercato di tener schiava l’intelligenza dei popoli per mezzo di falsità, d’ipocrisia e di superstizione, si fosse largamente avvalso di queste credenze, facendo passare come figliuoli degli dei, tutti quei fanciulli che la sfrenata libidine sacerdotale, aveva dalle donne che i ministri della divinità subornavano nei templi e perfino sui gradi ni degli altari. E, come ci ammaestra la storia, si vide sovente in quelle remote epoche dell’età primitive, a somiglianza di quanto è avvenuto anche in età più recenti e civilizzate, il potere assoluto e dispotico dei re della terra appoggiarsi largamente, e con solida sicurezza, all’empio e tenebroso potere dei ministri della divinità, per modo che la tradizione mitologica, ci ammaestra del vero allorquando ci dice che tutte le volte che un principe aveva ragione di nascondere un qualche scandaloso commercio, faceva sparger voce che un dio era il padre di quel frutto della colpa : così Ercole fu figliuolo di Giove e di Alcmena ; Romolo fu figlio di Rea e di Marte, Perseo fu figlio di Danae e di Giove ecc. ecc. Così il maggior numero dei sovrani, degli eroi, dei principi, che sono stati deificati per mezzo {p. 189}dell’apoteosi, dopo la morte, erano ritenuti sempre, come altrettanti figliuoli degli dei.
2002. Figliuoli. — In generale tutti gli dei detti Epidoti e molte altre divinità, di cui parleremo secondo il loro ordine alfabetico, avevano presso i romani la particolare protezione della nascita dei fanciulli e della educazione dei figliuoli. Le principali fra queste divinità erano Opis, Rumina, Levana, Paventia, Carnea, Orbona, Nondina, Deverra, Rumia ed altre.
2003. Fila. — Dalla parola greca φιλεω che significa amare, si dava dai pagani codesta denominazione a Venere come madre dell’ amore.
2004. Filace. — Ossia custode : da questa significazione si dava un tal soprannome ad Ecate.
2005. Filachide e Filandro. — Figliuoli della ninfa Acadallide e di Apollo.
La tradizione mitologica dice che essi furono allattati da una capra, la quale essendo per ciò ritenuta come sacra, ebbe una statua nel tempio di Delfo.
2006. Filaco. — Un’antica tradizione alla quale si rapportano le cronache di Pausania, dice che questo era il nome d’un cittadino di Delfo, il quale al tempo dell’insurrezione dei Galli sotto Brenno, appariva nell’aria insieme ad altri fantasmi e combattè nelle file dei greci contro i barbari, onde salvare la città. In commemorazione di questo fatto, Filaco fu dichiarato eroe e gli fu innalzato un monumento nel tempio stesso di Delfo.
2007. Filammone. — Figlio di Apollo e della ninfa Chiona. Resosi celebre per la sua bellissima voce e per la perfezione colla quale suonava la lira, la tradizione mitologica lo fa figliuolo di Apollo, dio della musica. Altri lo pongono nel numero degli Argonauti.
2008. File. — Figlio di Augia, re d’Elide, il quale fu da Ercole posto sul trono del padre suo, perchè volle opporsi alla ingiustizia che Augia voleva usare ad Ercole, con negargli la ricompensa dei suoi servigi.
L’eroe sdegnato contro la slealtà del re, lo uccise e pose File al governo del regno.
2009. Filemone. — V. Bauci.
2010. Fileni. — Le cronache storico mitologiche, narrano di questi due fratelli un’eroica avventura, che ad essi costò la vita, ma valse a dimostrare l’immenso amore che essi portavano a Cartagine loro patria. Fra gli abitanti di Cirene e quelli di Cartagine, surse una grave contesa a causa dei rispettivi contini ; e onde non sparger sangue, fu dopo lunghe discussioni, stabilito che si sarebbero scelte due persone di ciascuna città, le quali avessero dovuto partire contemporaneamente, facendo il giro per opposta via ; e che quel punto ov’esse si sarebbero incontrate, avrebbe marcato il limite dei rispettivi confini. Accettatasi la proposta, avvenne che i fratelli Fileni che rappresentavano gli interessi dei Cartaginesi, s’incontrarono coi Cerenesi quando avevano percorso un ben lungo tratto del loro territorio. Senonchè, quelli di Cirene pensarono di sotterrar vivi i due fratelli Fileni, quante volte essi non avessero accettato di ritornare sui loro passi. Ma gli eroici fratelli, ricusarono recisamente, per lo che furono dai Cirenesi che erano più forti, uccisi dell’orribile morte. I Cartaginesi innalzarono due altari presso il sepolcro dei fratelli Fileni e li onorarono come dei.
2011. Filira. — Figlia dell’Oceano. La tradizione mitologica narra di lei che Saturno l’amò passionatamente ; e che per sottrarsi alle gelose investigazioni di sua moglie Rea, prendeva la figura di un cavallo, tutte le volte che si recava presso la bella Filira.
Ciò per altro non bastò a deludere la gelosia di Rea, la quale un giorno sorprese i due amanti, per il che Saturno si dette a fuggire rapidadamente, facendo risuonare il monte Pelio dei suoi nitriti.
Cosi Saturno a vista della moglieDiffondeva la chioma, e di anitritiIn voce di cavallo il Pelio empiva.Virgilio — Georgiche — Libro III
trad. di Dionigi Strocchi.
Ma Filira, vergognosa di più mostrarsi nella sua patria, dopo lo scandalo avvenuto, si rifuggi nelle montagne dei Pelagi, ove, dopo qualche tempo, dette alla luce un figliuolo, che poi fu il famoso Chirone, Centauro. Il dolore però di aver posto al mondo un mostro, metà uomo e metà cavallo, la ferì così crudelmente che supplicò notte e giorno gli dei, di toglierle la sua umana natura ; per lo che mossi a compassione i numi, la cangiarono in un albero di tiglio.
2012. Fillide. — Discorde è l’opinione dei cronisti della mitologia sulla paternità di questa principessa ; poichè alcuni la fanno figliuola di Sitone, re di Tracia ; ed altri di Licurgo, re dei Dauni.
Ma la maggioranza delle opinioni, la ripete figlia di Sitone e dice che ella non aveva l’età di venti anni, quando per la morte del padre fu fatta regina. Un’antica tradizione, narra che Demofoonte, re d’Atene, gettato da una tempesta sulle rive della Tracia, al suo ritorno in patria dall’assedio di Troja, fu accolto con ogni cortesia dalla giovane regina, la quale finì per innammorarsi passionatamente di lui. Ben presto però Demofoonte dovè fare ritorno in Atene, ove {p. 190}lo chiamavano le gravi cure del suo regno ; e onde calmare il dolore disperato di Fillide, le promise che dopo un mese sarebbe a lei ritornato. Ma trascorsi tre mesi egli non aveva ancora mantenuta la promessa, sicchè Fillide disperata scrisse all’amante lontano, una lettera piena di rimproveri, nella quale gli diceva terminando che si sarebbe di sua mano uccisa nel modo più crudele, se egli avesse ancora tardato a ritornarie d’accanto. Al dire d’Igino, Demofoonte rispose all’innammorata donna, fissandole perfino il giorno del suo arrivo. Venuto quel giorno. Fillide, si recò per nove volte alla spiaggia, sperando sempre veder da lungi comparire la vela desiderata ; ma ginnta la sera nè vedendo esaudito il suo ardente desiderio, disperata d’amore, si precipitò in mare.
Il luogo ove la sventurata regina mori, fu chiamato, le nove strade, in ricordanza della corsa che la povera Fillide aveva fatto per nove volte ; e coll’ andare degli anni fu nel medesimo luogo edificata una città al la quale si dette il nome di Amfipoli, conosciuta comunemente sotto la denominazione del sepolcro di Fillide.
La tradizione allegoria della favola aggiunge che gli dei mossi a compassione del triste fato di Fillide, l’avessero cangiata in albero di mandorlo, perchè in greco la parola ιλλα significa mandorlo ; e che Demofoonte approdando qualche tempo dopo su quella spiaggia, vide improvvisamente florire l’albero, che cresceva sulla quella riva fatale ; quasi che la povera Fillide fosse anche dopo la morte sensibile alla prova d’affetto che le dava il suo amante. Igino nelle sue cronache delle antichità, non tiene parola di tale metamorfosi, ma riferisce solo, che alcuni alberi di mandorlo, che crescevano sul sepolcro dell’innammorata regina, in una data stagione dell’anno, avevano le foglie inumidite, come se fossero bagnate e che quell’umore altro non era se non le lagrime della disgraziata Fillide, morta per amore.
2013. Fillo. — Alcimedonte ebbe una figliuola così chiamata, la quale fu da Ercole resa madre di un bambino. Narra la cronaca, che Alcimedonte, severo custode dell’onore della famiglia, per punire la figlia dell’onta ch’ella riversava su questa, appena ella ebbe partorito, l’avesse fatta insieme al neonato esporre sulla montagna detta Ostracina, nelle circostanze della città di Figalia, e che quivi una gazza sentendo continuamente gridare il bambino, avesse imparato a contraffarne la voce con tale incredibile perfezione, che un giorno passando Ercole per di là, sentendo la voce, della gazza la credette il grido d’un bambino abbandonato, onde datosi a cercare per quelle foreste, trovò la madre e il fanciullo, e avendoli riconosciuti li liberò dal grave pericolo. In commemorazione di quel fatto, fu in quel luogo costruita una fontana, alla quale fu dato il nome di fontana della gazza. Il fanciullo fu chiamato Ecmagora, di cui alcuni scrittori chiamano la madre Fillo o Fillene. — V. Ecmagora.
2014. Fillodamea. — Una delle figlie di Danao. Mercurio l’amò e ne ebbe un figliuolo chiamato Faride. Divenuto adulto fondò nella Messenia una città, alla quale dette il nome di Fare.
2015. Filodoce. — Così aveva nome una ninfa che apparteneva al seguito di Cirene, madre di Aristea.
Al suon delle querele in quella stanza.Che all’imo soggiacea dell’alto fonteCirene si destò ; sedute in cerchioMilesia lana del color del cieloAlle fusa avvolgevano le ninfeFilodoce e……..!Virgillo — Le Georgiche — Libro IV.
trad. di D. Strocchi.
2016. Filgeo. — Dalle parole greche φιλω amo e λη terra si dava questo nome ad uno dei cavalli del sole, nella significazione di amante della lerra, perchè il sole quando tramonta sembra abbandoni la terra col lento rammarico di un amante.
2017. Filolao — Che significa salutare agli uomini. Con questo glorioso soprannome si venerava Esculapio, in un tempio ricchissimo a lui consacrato nella città di Asopo in Laconia.
2018. Filomena e Progne — Così avevano nome le due giovanette figliuole di Pandione re d’Atene, rinomate per la loro estrema bellezza. La cronaca mitologica narra di loro un truce fatto. Avendo Tereo, re di Tracia, sposato Progne, la più giovanetta delle due sorelle, questa che amava teneramente Filomena, non potendo vivere lontana da lei, ottenne dal marito che egli stesso sarebbe andato in Atene, onde avere da Pandione, la grazia che Filomena sarebbe andata a vivere in Tracia, presso la sorella. Infatti Tereo giunto in Atene, dopo lunghe preghiere riuscì nell’intento, e Filomena lo seguì in Tracia onde vivere presso la diletta Progne. Però, come dicemmo, Pandione acconsenti con molta repugnanza a staccarsi dalla sua figliuola carissima, quasi il suo animo paterno fosse stato presago dell’amarissima sventura che minacciava la cara giovanetta. Pure, amorosissimo com’era delle sue figliuole, il buon re finì per accondiscendere, e permise a Filomena di seguire Tereo. Ma, durante il tragitto, questi, affascinato dalla sovrumana bellezza di Filomena, concepì l’infame pensiero di gioire della bella {p. 191}persona ; onde posto piede a terra, la rinchiuse in un suo antico ed abbandonato castello, ove la violò. Ma non potendo a lungo sopportare i sanguinosi rimproveri di lei, e le contumelie e gli oltraggi di che l’eroica giovanetta lo ricolmava, le fece tagliare la lingua e la lasciò in quel vecchio castello, affidata alla custodia di persone a lui devote.
Consumato l’infame delitto, Tereo fece ritorno presso la moglie, alla quale ebbe il coraggio di presentarsi, ed a cui affettando il più alto dolore, narrò come la diletta sorella Filomena fosse morta improvvisamente durante il viaggio. A tale annunzio altrettanto funesto per quanto inatteso, la gentile ed affettuosa anima di Progne, fu colpita dal più profondo dolore, e tanto che passò lunghi giorni a piangere, rinchiusa nelle sue stanze. Poscia a poco a poco, calmato alquanto il dolore acerbissimo, essa pensò di onorare la cara anima della defunta, alla quale fece innalzare un magnifico monumento.
Intanto Filomena gemeva in potere degli scherani di Tereo, i quali la custodivano con vigilante solerzia, e tanto che passò un anno intero, senza che ella avesse potuto informare l’amorosa sorella, dello stato miserrimo in cui si trovava. Finalmente un giorno, colpita quasi da un ispirazione del cielo, ella trapunse su di una tela, con un ago da ricamo, l’infame attentato di Tereo, e la triste sua situazione, e si adoperò in modo che quella tela, capitò nelle mani di Progne ; la quale conscia per tal modo di quanto era avvenuto, non si perdette in inutili lamenti, ma pensò di vendicar la sorella in modo terribile ; e spiò con indefessa alacrità di pensiero, ogni favorevole occasione di vendetta. Infatti, giovandosi della ricorrenza di una festa a Bacco, che si celebrava nella Tracia, con grande solennità, e nella quale era permesso alle donne di correre sole a traverso i campi, l’animosa giovanetta si recò al castello ov’era rinchiusa Filomena, la liberò, la condusse seco, e la rinchiuse nelle più segrete camere del suo palazzo insieme al piccolo Iti, figlio di Tereo e della sventuratissima Filomena. Posta per tal modo in sicuro la sorella, la quale non meno di lei anelava alla vendetta, le due giovanette pensarono a compierla in modo spaventevole ; infatti Progne uccise di sua mano il fanciullo Iti, e dopo avergli tagliato la testa, ne fece cuocere le membra, le quali la sera ella stessa fece ser vire al banchetto che il marito dava in occasione della festa di Bacco. Alla tine del convito Filomena comparve e gittò sulla tavola innanzi a Tereo la testa del figlio suo. All’orribile vista, Tereo forsennato si gittò sulle sue armi, onde uccidere le due donne, ma queste si dettero ad una precipitosa fuga, e veleggiarono alla volta di Atene, su di un vascello all’uopo preparato, prima che Tereo avesse potuto raggiungerle.
Al dire di Pausania, le due sorelle a cui le terribili vicissitudini della loro vita, avevano completamente distrutta la serenità dell’anima, morirono entrambe dopo qualche tempo, consumate dai loro amarissimi ricordi ; e ciò diede motivo alla cronaca favolosa di ripetere, che Filomena fosse stata cangiata in usignuolo e Progne in rondinella ; alludendo, con poetica immagine, alla mestissima dolcezza del canto di questi uccelli.
Ovidio fa di questo avvenimento una delle sue più belle Metamorfosi.
E mentre che per l’aria anch’ei s’affretta.E si sostien per non cader sul piano,Come alle Greche insidiose avvenne,Vede le membra sue vestir di penne.Lascia il ferro crudel l’irato artiglio.Ed alla bocca un lungo rostro innesta :L’armano molte penne intorno il ciglioEd ha l’insegne regie ancora in testa ;E dimostra il dolor, ch’egli ha del figlio,Con la sdegnata vista atra e molesta :Upupa alza la cresta, e bieco mira,E mostra il cor non vendicato, e l’ira.Nel più propinquo bosco entra, e s’asconde,La Greca, che restò senza favella :La lingua oggi ha sputata, e corrispondeIn parte alla sua sorte iniqua e felia.Piangendo va il suo duol di fronde in frondeCon una melodia soave e bella :Tien del suo incesto ancor vergogua e curaE non osa albergar dentro alle mura.Progne, che diede alla vendetta effetto,E fu d’ogni altro error monda e innocente.Il nido tornò a far nel regio tettoE non ebbe vergogna della gente :Nel sangue del figliuol ancora ha il pettoMacchiato, e se talor le torna a mente,Tanta pietà per lui la move e ancide,Che si querela un pezzo, e alfine strideOvidio — Metamorfosi — Libro VI.
trad. di Dell’Anguillara.
2019. Filonome. — La tradizione mitologica fa menzione di una figlia di Craugaso così chiamata, aggiungendo che ella fosse stata colpita dalla stessa sventura che colpì nel fiore degli anni la disgraziata Fedra. V. Fedra ; e che pazzamente innammorata di un suo figliastro per nome Tene, nè potendo piegarlo alle sue voglie, si appiccasse per disperazione.
Filonome era similmente chiamata una figliuola {p. 192}di Nittimo e della ninfa Arcadia. Narra la tradizione mitologica, che Filonome, accompagnando un giorno Diana alla caccia, fosse stata veduta dal dio Marte, il quale s’invaghi così violentemente di lei, che sotto le spoglie di un pastore la piegò alle sue voglie e la rese madre di due gemelli. Al dire di Plutarco quando Filonome li ebbe partoriti, temendo lo sdegno del padre suo, ebbe il coraggio di gettarli nel fiume Erimanto, pensando così di nascondere una colpa con un delitto. Però al dire del citato scrittore, il dio Marte preservò dalla morte i figli dell’amor suo.
2020. Filottete. — Figlio di Peante, e il più caro e fedele amico di Ercole, il quale prima di morire, onde attestargli l’immenso affetto col quale lo aveva avuto carissimo, gli lasciò in dono le sue famose frecce, facendogli prima promettere con giuramento, che non avrebbe mai palesato ad anima viva il luogo ove riposavano le sue ceneri. Dopo qualche tempo dalla morte di Ercole, i greci i quali avean saputo dall’oracolo, che nel destino di Troja era scritto, che essi non si sarebbero impadroniti della città, senza le famose frecce di Ercole, V. Fatalita di Troja, mandarono una deputazione a Filottete, onde sapere da lui il luogo dove, insieme alle ceneri dell’ eroe, erano sepolte le frecce di lui. Filottete posto nel crudel bivio di essere spergiuro, o di cagionare il danno dei suoi concittadini, credè di poter eludere la propria coscienza, rivelando non con le parole, ma cogli atti, il luogo ov’ erano nascoste le frecce.
Ma ben presto gli dei, sdegnati contro lo spergiuro, lo punirono con quelle istesse armi ch’erano state cagione del suo tradimento ; imperocchè nel passare per l’isola di Lemnos, volendo far vedere ai suoi compagni di viaggio la potenza delle sue frecce contro gli animali, nell’ adattare una di esse sull’ arco, questa gli cadde sul piede stesso col quale egli aveva accennato ai greci il luogo ov’erano sepolte, gli fece una mortale ferita, la quale ben presto si cangiò in una orribile piaga da cui esalava un insopportabile puzzo, per modo che i greci temendo che egli non, fosse stata causa d’infettazione, lo abbandonarono sull’ isola di Lemnos, vedendo nell’ accaduto un giusto castigo degli dei contro lo spergiuro.
Questa di Lenno è la deserta riva,Da uman piè non calcata, ov’ lo glà tempo,…………ubbidienteAl comando de’ regi abbandonaiIl Meliense di Peante figlio,Cui di piaga vorace un piè stillava.Sofocle — —Filottete — Tragedia
trad. di F. Bellotti.
Filottete dunque restò su quegli scogli deserti, solo, abbandonato, in preda ad acerbi dolori, e privo d’ogni umano conforto su quelle rocce ove i suoi lamenti e le sue grida suonavano vuote ed inutili. Una caverna gli servì di rifugio ; l’acqua che scaturiva dal fondo di essa, valse a dissetarlo, e le frecce istesse che aveano richiamato sul suo capo l’ira degli dei, servirono a prolungargli la vita, poichè uccideva con quelle gli uccelli di cui poi si cibava.
Intanto i greci non riuscivano ancora ad impadronirsi di Troja, perchè, come vedemmo, essendo rimaste le frecce in potere di Filottete, i destini della città non potevano compirsi ; ond’ è che Ulisse, sebbene si sapesse mortalmente odiato da Filottete, acconsenti di mettersi a capo di un’ altra deputazione, e di muovere alla volta dell’ isola di Lemnos, onde farsi cedere da Filottete le famose sue frecce ; e ciò fece l’astuto greco onde riaccendere l’ardire dei suoi, i quali scorati dalia morte di Achille, disperavano omai della caduta di Troja. Ulisse infatti in compagnia di Nettolemo, figlio di Achille, e di altri guerrieri greci, giunse a Lemnos, e trionfò d’ogni ostacolo, riconducendo al campo greco Filottete colle sue fatate armi.
Al dire di Sofocle, Ercole apparve in una nube a Filottete e gli ordinò, in nome di Giove, di seguire i greci all’ assedio di Troja.
……. Or tu la voceD’ Ercole ascolli e ne contempli il volto.Vengo per te dalla celeste sede,Di Giove il senno ad annunziarti, e in quellaVia. cui t’appresti, a rattener tuoi passi.Dunque orecchio mi porgi — lo dopo tanteSuperate fatiche, e tanti affanni,Stato immortal, qual or tu vedi, ottenni.E tu pur, sappi, a gloriosa vitaSorgerai da tue pene. A Troja giuntoCon questo prode, all’ egro piè ristoroTroverai primamente, è là fra tuttiPoi riputato per valor primiero,D’alma privo cader con mie quadrellaQuel Paride farai, funesto capoDi tutti mali, e struggerai di TrojaLa fortuna e le mura. Alle tue case,Al padre tuo là nell’ Etea contradaLe opime spogliè invierai del campo :E trofeo de’ miei strali alla mia piraTu poi le reca……..………Ivi EsculapioRisanator della ferita in breveTi manderò. Fato é che Troja in sommaRicada ancor per l’armi mie.Sofocle — Filottete — Tragedia
trad. di F. Bellotti.
Terminato l’assedio della città Priamea, e {p. 193}resisi i greci padroni di essa Filottete del tutto risanato da Esculapio della sua ferita al piede, pensò dapprima di ritornare in Grecia, ma poi avendo saputo la morte di suo padre, s’imbarcò alla volta della Calabria in compagnia di alcuni Tessali, che lo avevano seguito da Troja, e aiutato da questi, fondò in quella contrada la città di Petilia. Fu in Calabria che egli combattè il celebre duello col re Adrasto di cui parla Fénélon nel suo libro delle Aventures de Télémaque.
Cependant Adraste et Philoctéte se cherchaient : …
Déjà ils se voient l’un l’autre, et Philoctète tient en main une de ces fléches terribles qui n’ont jamais manqué leur coup dans ses mains. et dont les blessures sont irremédiables :
…………………
Dans le moment où Philoctète veut l’attaquer, il est blessé lui-même par un coup de lance que lui donne Amphimaque,……………...
il perdait son sang et ses forces ; son ancienne blessure même, dans l’effort du combat, semblait prête à se rouvrir et à renouveler ses douleurs :
Fénélon — Télémaque — Livre XV.
Omero dice finalmente che Filottete fosse stato uno degli Argonauti ; e a proposito della sua famosa ferita ripete che questa non fu cagionata dalla freccia, ma sibbene dalla morsicatura di un serpente.
2021. Fineo. — Re di una città della Tracia conosciuta nella geografia antica sotto il nome di Salmidessa : e figliuolo di Agenore. Egli sposò una fanciulla figlia di Borea e di Oritia, chiamata Cleobola, e secondo altri Cleopatra, che lo rese padre di due figliuoli Pandione e Plesippo. Coll’ andare del tempo innammoratosi di una figliuola di Dardano, per nome Idea, egli ripudiò Cleobola per sposare la novella amante. Ben presto Idea prese in odio i suoi figliastri e per liberarsene li accusò a Fineo dicendo che essi avevano attentato al pudore di lei. Fineo perdutamente innammorato della perversa donna, credè alle sue parole e fece cavar gli occhi ai suoi due figliuoli. Ma gli dei sdegnati fecero per mezzo d’Aquilone acciecare il crudele re, il quale fu sottoposto da Borea suo avo all’istesso crudele supplizio che egli aveva fatto subire ai suoi innocenti figliuoli. La cronaca aggiunge che gli dei non soddisfatti del supplizio che avevano imposto a Fineo, lo dettero in preda alle arpie, le quali infettavano tutto ciò che si apprestava sulla mensa di Fineo facendogli per tal modo soffrire la fame e la sete.
….. Finco senz’occhi e d’anni graveEra dall’empie arpie continuo offeso :Ovidio — Metamorfosi — Libro VII.
trad. di Dell’Anguillara.
Finalmente elasso un non breve spazio di tempo, essendo stati gli Argonauti accolti cortesemente da Fineo, in ricompensa delle sue larghezze, lo liberarono dalle arpie dando loro la caccia. Diodoro nelle cronache dell’ antichità aggiunge a questo proposito che Ercole il quale, come vedemmo, faceva parte della spedizione degli Argonauti, avesse chiesto a Fineo la grazia di porre in libertà i suoi sventurati figliuoli ; ma che quegli avesse recisamente negato di condiscendere alla preghiera dell’eroe, per il che sdegnato Ercole liberò a viva forza Pandione e Plesippo, uccise Fineo e divise fra i suoi due figliuoli i domini di lui.
2022. Fiscoa. — Nella parte inferiore della contrada d’Elide visse una giovanetta chiamata in tal modo, che fu amata da Bacco e resa da lui madre di un figliuolo conosciuto sotto il nome di Narcea. Divenuto adulto e assai popolare in Elide, egli fu il primo a stabilire in quella città dei solenni sacrifizi a Bacco suo padre, nei quali si cantava un coro che fu per lungo tempo chiamato il coro di Fiscoa, per onorare la memoria della madre di Narcea.
2023. Fitalo — Fu uno degli eroi dell’ Attica, divinizzato dopo la morte. La tradizione ce lo presenta come quello che accolse in sua casa Cerere, allorquando questa dea andava in cerca di sua figlia Proserpina. Cerere per ricompensare Fitalo della sua buona accoglienza, gli fece presente di un albero di fico, facendo per tal modo conoscere agli uomini questa pianta, il cui prezioso frutto non era servito, prima di quella epoca che al banchetto degl’immortali.
2024. Flumi — Quasi tutti i fiumi conosciuti nel mondo antico erano stati personificati e deificati dalla religione pagana, la quale come abbiam visto e come seguiteremo a vedere nel corso della nostra opera, personificava ed adorava sovente cose assai meno considerevoli.
La gran maggioranza dei templi pagani presso i romani e i greci, racchiudeva le statue dei loro fiumi ; e specialmente in Grecia ed in tutto l’ Italia non vi erano che ben pochi templi, nei quali oltre al simulacro dei loro fiumi non vi fossero degli altarî a questi consacrati e dove il culto dei pagani offeriva del continuo incenzi, voti e sacrifizi.
Al dire dello scrittore Massimo di Tiro, gli Egiziani adoravano con un culto particolare ed esteso in tutte le città e le borgate dell’Egitto, il fiume Nilo che era uno dei più venerati numi della loro religione ; a motivo degl’immensi vantaggi che essi ricevevano dalle acque di quel fiume. Gli Sciti veneravano il Danubio ; i popoli dell’ Etiolia adoravano l’Acheolo per aver combattuto con Ercole ; i Tessali, il fiume {p. 194}Peneo ; i Lacedemoni adoravano l’Eurota in virtù di una legge che imponeva siffatto culto ; e finalmente gli Ateniesi ebbero un culto particolare per il fiume Ilisso.
Faremo ancora notare a testimonianza della verità delle nostre asserzioni, la grande e conosciutissima venerazione colla quale gl’ Indiani adoravano il Gange ; il Reno veniva rappresentato ed adorato, coniandosi persino in suo onore delle medaglie, su cui erano incise le parole Deus Rhenus ; il Paniso era una della principali divinità dei Messeni, i quali gli offerivano ogni anno pubblici e solenni sacrifizi ; il Clitunno, fiume dell’Umbria, aveva non solo simulacri ed altari, ma perfino un oracolo, e finalmente il Tevere era una delle divinità pro tettrici della Roma pagana.
Al dire di Esiodo tutti i fiumi erano ritenuti nelle credenze religiose del paganesimo, come figliuoli dell’ Oceano e della ninfa Teti ; e generalmente gli antichi effigiavano la personificazione di un fiume sotto la figura di un vecchio venerando per dinotare l’antichità di essi ; con la barba e i capelli lunghi e generalmente incollati alle tempie, quasi a dinotare che fossero bagnati e appoggiati ad un’ urna da cui scaturisce l’acqua che forma il flume.
Da ultimo aggiungeremo che nelle cronache dell’antichità, ve n’è qualcuna secondo la quale parrebbe che i pagani avessero fatta una distinzione nella configurazione generale dei fiumi ; e avessero rappresentato i fiumi che sboccano immediatamente nel mare, sotto la figura di altrettanti vecchi ; e quelli che metton foce in altri fiumi, li avessero rappresentati come giovanetti e talvolta anche come donne. È questa però un’ opinione respinta’ dalla gran maggioranza degli scrittori della favola, e in completa contradizione a quanto asseriscono i cronisti più accreditati.
2025. Fiumi dello inferno. — I pagani credevano che cinque fiumi scorressero nell’inferno, ai quali tanto i greci quanto i romani davano i seguenti nomi : l’Acheronte,
……. Un fiume é questoFangoso e torbo, e fa gorgo e voragoChe bolle e frange…….Virgilio — Eneide — Libro VI
trad. di A. Caro.
lo Stige,
Noi ricidemmo il cerchio all’altra rivaSovra una fonte, che bolle, e riversaPer un fossato che da lei diriva.L’acqua era buia molto più che persa :E noi in compagnia dell’ onde bige.Entrammo giù per una via diversaUna palude fa, c’ ha nome Stige,Questo tristo ruscel, quand’ è discesoAppiè delle maligne piagge grige.Dante — Inferno — Canto VII.
il Cocito,
Poi sen van giù per questa stretta docciaInfin là ove più non si dismonta :Fanno Cocito :Dante — Inferno — Canto XIV.
il Flegetonte ed il Lete.
Ed io ancor : Maestro, ove si trovaFlegetonte e Letè, chè dell’ un taci,E l’altro di che si fa d’esta piova ?In tutte tue question certo mi piaci,Rispose ; ma ’l bollor dell’ acqua rossaDovea ben solver l’una che tu faci.Letè vedrai, ma fuor di questa fossa.Là ove vanno l’anime a lavarsi,Quando la colpa pentuta è rimossa.Dante — Inferno — Canto XIV.
Oltre a questi, gli antichi riconoscevano pure come fiumi infernali il Periflegetonte e il lago d’Averno ; e tutte quelle acque alle quali essi attribuivano una qualche misteriosa e sinistra potenza.
2026. Flamine. — Dal latino flamen. Si dava questo nome ad un ordine di sacerdoti del culto religioso dei romani e la cui istituzione, secondo Tito Livio è dovuta a Numa Pompilio ; e secondo Plutarco a Romolo.
Al principio della loro istituzione, i sacerdoti Flamini erano tre ed ognuno di essi prendeva la sua denominazione individuale dalla divinità a cui era consacrato : così il flamine di Quirino si chiamava Flamen Quirinalis ; quello di Giove, Flamen Dialis ; e quello di Marte, Flamen Martialis. In seguito furono i Flamini divisi in due ordini distinti. Il primo di questi si componeva di tre sacerdoti o ministri Flamini, scelti fra i più cospicui personaggi del senato romano : l’altro era composto di-dodici individui scelti fra il popolo. Il primo di questi ordini si chiamava quello dei Flamini maggiori : il secondo quello dei Flamini minori. Però ognuno di questi sacerdoti era addetto ad un dio particolare.
I Flamini godevano di molti previlegi e fra {p. 195}gli altri di quello d’avere le loro figliuole, esenti dall’ essere scelte come Vestali.
La cerimonia della consacrazione si faceva dal Pontefice massimo ; e l’elezione tanto dei Flamini maggiori quanto dei minori si faceva per votazione dal popolo.
La dignità di Flamine era a perpetuità, vale a dire che essa durava quanto la vita dell’ individuo ; però ognuno di essi poteva essere rimosso dal suo grado per alcune date ragioni ; ciò che si diceva, con frase speciale : Flaminio abire, cioè deporre il ministero di Flamine.
Gli imperatori romani si erano riservato il diritto di creare dei sacerdoti Flamini, i quali in questa occasione prendevano oltre al nome della divinità a cui erano consacrati. anche quello dello imperatore che li avevano istituiti. Così la storia romana ci ricorda di un Flamine, istituito dall’ imperatore Commodo, in oncre di Ercole, che fu detto Flamen Herculaneus Comodianus. Però questo sacerdote fu abolito dopo la morte dell’ imperatore, che lo aveva creato e ciò a testimonianza dell’ odio e del disprezzo che i romani ebbero per lui.
Similmente troviamo la istituzione di un Flamine fatta dall’ imperatore Augusto e chiamato per conseguenza Flamine Augustale.
2027. Flamine Diale. — Ossia Flamine di Giove. Questo sommo sacerdote era presso i romani tenuto in grande venerazione e onorato del rispetto universale. Egli andava sottomesso ad alcune leggi particolari, che lo distinguevano dagli altri sacerdoti.
2028. Flamine Falacro. — Questo sacerdote prendeva il suo nome dall’ antico dio Falacro, di cui fanno menzione ben pochi cronisti dell’ antichità, e del quale è quasi spento e sconosciuto il nome stesso.
2029. Flauto. — Strumento musicale assai in uso presso i pagani, i quali generalmente lo fabbricavano dalla gamba di un asino, quando se ne servivano nei pubblici giuochi ; mentre quello di cui facevano uso nei sacrifizi era di bosso o di argento.
Tanto presso i gréci quanto presso i romani erano comuni i suonatori di due flauti, come si vede da gran numero di medaglie e di monumenti dell’ antichità.
Finalmente i pagani avevano anche il flauto del dio Pane, perchè ne attribuivano a questo nume l’invenzione. Questo istrumento chiamavasi con voce propria Siringa. V. Siringa.
2030. Flegetonte. — Dalla parola greca φλεγω che significa ardere, si dava questo nome ad un fiume dell’ inferno che secondo la tradizione, circondava d’un triplo cerchio le carceri dei dannati, e nel quale invece di acque correvano torrenti di flamme. VediFiumi Dell’Inferno.
….. e sotto un’ alta rupeVide un’ampia città che tre gironiAvea di mura, ed un di fiume intorno :Ed era il fiume il negro FlegetonteCh’ al Tartaro con suono e con rapinaL’onde seco traea, le flamme e i sassi.Virgilio — Eneide — Libro VI
trad. di A. Caro.
2031. Flegia. — Re della Beozia e propriamente di quella contrada che dal suo nome fu detta Flegiade. La tradizione mitologica ce lo presenta come figlio del dio Marte e di una giovanetta per nome Crisa figliuola di Almo. Flegia non ebbe che una sola figlia chiamata Coronide la quale fu sedotta da Apollo che la rese madre di Esculapio. V. Coronide.
La cronaca favolosa ripete che Flegia per vendicare l’ingiuria fattagli da Apollo, avesse appiccato il fuoco al tempio di Delfo ; onde gli dei per punirlo lo precipitarono nel Tartaro, dove Flegia è condannato a rimanere eternamente sotto ad una rupe che minaccia di cadergli da un momento all’altro sul capo e schiacciarlo sotto l’immano peso.
Come io vidi una nave picciolettaVenir per l’acqua verso noi in quella,Sotto il governo d’un sol galeoto,Che gridava : Or se’giunta, anima fella !Flegiàs, Flegias, tu gridi a vòto,Disse lo mio signore, a questa volta :Più non ci avrai, se non passando tl loto.Quale colui che grande inganno ascoltaChe gli sia fatto, e poi se ne rammarca,Tal si fe Flegiàs nell’ ira accolta.Dante — Inferno — Canto VIII
…… In un petron confittoVi siede e sederavvi eternamenteTeseo infelice ; e Flegia infelicissimoVa tra l’ombre gridando ad alta voce :Imparate da me voi che mirateLa pena mia. Non violate il giusto.Riverite gli dei.Virgilio — Eneide — Libro VI
trad. di A. Caro
2032. Flegiani. — Secondo asserisce la tradizione mitologica, era questo : il nome di un popolo composto tutto di uomini arditi e valorosi, che Flegia aveva riuniti da tutte le parti della {p. 196}Grecia e condotti seco ad abitare quella parte della Beozia, che dal nome di lui fu detta Flegia — vedi l’articolo precedente. — Al dire di Pausania furono questi popoli e non il loro re Flegia che incendiarono e saccheggiarono il tempio di Apollo in Delfo. Essi furono distrutti da continui terremoti, dalla peste, e finalmente dal fuoco del cielo che piovve sopra di loro.
Un moderno scrittore è di avviso che a questi popoli Flegiani, e con loro a tutti gli empi e sacrileghi che le cronache dell’ antichità, ci presentano come dannati nel Tartaro, siano rivolte le famose parole che Flegia, ripete fra i tormenti, allora che dice, secondo Virgilio :Imparale dal mio esempio a non disprezzare gli dei. È per altro a notare che questo passo del classico scrittore, si trova contradetto in altri brani del suo poema.
2033. Flegonte. — Al dire di Ovidio era questo il nome di una dei cavalli del Sole e propriamente di quello che presiedeva all’ ora del mezzogiorno.
2034. Flora. — Ninfa delle isole Fortunate che i greci chiamarono Clori ed i latini Flora.
L’allegoria mitologica rivestita del suo poetico ammanto, ci rivela che Zeffiro attratto dalla risplendente bellezza di Flora se ne fosse perdutamente innammorato ; ond’ella per sottrarsi alle persecuzioni di lui si dette a fuggire ; ma Zeffiro più leggiero di lei la raggiunse ben presto, la rapì, la fece sua sposa e le dette l’impero dei fiori ed una perpetua giovanezza.
La mère du Printemps, jeune, fraîche et vermeille.Flore, dans sa riche corbeille.Assortit un tribul de ruses et de lis,Et le donne au Zéphyr pour l’offrir à son fils,Les plaisirs enfantins, les jeunes amourettesSuicent en jouant du hautbois,Et chassent vers le nord l’Hiver au fond des boisEn lui jetant des violettes.Dei’moustier — Lettres XLIX a Emilie
sur la Mythologie.
Il culto della dea Flora era in pieno vigore presso i Sabini, molti anni prima della fondazione di Roma ; lo che ci dimostra che la dea Flora è una più antiche divinità del paganesimo. Plinio ci parla di una statua di questa dea dovuta allo scalpello dell’immortale Prassitele, dandoci così un attestato innegabile dell’ essere il culto della dea Flora passato dalla Grecia in Italia.
Una somiglianza di nome fece nascere sul proposito di questa dea una leggiera confusione, la quale emerge unicamente dal fatto che riporteremo qui appresso. Una cortigiana il cui primitivo nome era Larenzia e che poi si fece chiamare Flora, aveva guadagnato un’ ingente ricchezza con l’osceno mercato dei propri vezzi. Venuta a morte lasciò erede di tutte le sue sostanze il popolo di Roma, il quale per ricompensa la mise fra le sue numerose divinità. Fu questa la ragione che fece confonderla spesso coll’antica dea Flora, in onore della quale si celebravano dei giuochi detti dal suo nome Florali, a cui, coll’andare degli anni si unirono delle turpi oscenità degne novella Flora, e dei quali si prevaleva annulmente la spesa dalle sostanze che la cortegiana aveva lasciato a Roma. Poi coll’andare del tempo furono assegnati alla celebrazione delle feste Florali i danari delle pene e delle confiscazioni pagate nel corso dell’anno.
Il tempio dell’ antica Flora sorgeva in Roma dirimpetto al Campidoglio e questa dea veniva rappresentato sotto la sembianza di una giovanetta bellissima e sorridente, con in mano un cornucopia da cui cadeva un’ abbondante pioggia di fiori. Cicerone ed Ovidio danno a questa dea il soprannome di madre chiamandola madre Flora.
2035. Florali. — Dette anche Antistesie. Feste celebrate in Roma in onore della dea Flora. Esse duravano sei giorni, terminando alle calende di Maggio.
Florali si chiamavano del paro i giuochi istituiti in onore della dea Flora. Varrone asserisce che sotto il regno di Romolo furono istituiti questi giuochi, i quali al dire del cennato scrittore, furono soventi volte sospesi, ma poi rimessi in vigore sopra tutto quando la terra, era minaccinta di siccità, o secondo altri perchè i libri delle sibille ne riordinarono la celebrazione. Le cronache c’insegnano che non fu se non all’ anno 580 di Roma che fu fissato annualmente la celebrazione di queste cerimonie in occasione di una sterilità che durò lungo tempo e produsse gravissimi danni.
Il Senato ordinò allora che si celebrassero ogni anno i giuochi Florali alla fine di Aprile. I giuochi Florali si facevano durante la notte a lume delle torcie in un vastissimo circo che stava sulla strada patrizia. Al dire di Giovenale, vi si commettevano turpissime oscenità ed infami dissolutezze, riunendosi al suono di una tromba le pubbl che cortegiane e le meretrici più abbiette, le quali affatto nude davano al popolo il più abbominevole spettacolo. Narra la cronaca, che essendo una volta intervenuto ai giuochi Florali, Catone il saggio, il popolo pieno di venerazione per un uomo di così severi costumi, non osò di dimandare il solito oscenissimo spettacolo. Favonio amico di Catone, lo avverti del riguardo che avevano per lui i suoi concittadini, ond’egli per non turbare la festa, {p. 197}e non essere presente a così turpi disordini, si ritrasse sollecitamente.
2036. Fluonia. — Soprannome di Giunone, che veniva a lei dato dalle buone cure che si credeva fermamente prestasse alle partorite.
2037. Fobetore. — Dalla parola greca φοβεω che significa atterrisco, si dava questo nome ad uno dei tre Sogni che la favola fa figliuoli del Sonno. I pagani credevano fermamente che Fobetore fosse quello, che atterriva e spaventava, presentandosi nei sogni sotto tutti gli aspetti che ispirano il terrore.
2038. Fobo. — Dea della paura : i greci l’avevano divinizzata e la rappresentavano con una testa di leone.
2039. Foco. — Figlio di Eaco e della Nereide Pfammate. Narra la cronaca, che Eaco aveva avuto da una sua prima moglie due altri figliuoli chiamati Peleo e Telamone, i quali ad istigazione della matrigna erano in continua dissenzione fra loro. Avvenne un giorno, che Foco giuocando con Telamone e Peleo al giuoco della piastrella, Telamone nel lanciare la sua, ferì così gravemente al capo il piccolo Foco che l’uccise sul colpo. Eaco, loro genitore, informato del fatto e conscio delle continue dissenzioni dei suoi figliuoli, vide nell’ accaduto, più un perfido assassinio, che una dolorosa combinazione, mandò in perpetuo bando dai suoi regni Peleo, Telamone e, la stessa Pfammate.
2040. Folo. — Centauro, figlio della ninfa Melia e del dio Sileno. Le cronache della favola narrano di lui, che allorquando Ercole dette la caccia al famoso cinghiale di Erimanto, si fosse riposato nella casa del Centauro Folo, il quale lo accolse con ogni amorevole cortesia e gli offrì una lauta cena. Durante il banchetto, avendo voluto Ercole assaggiare del vino che era di proprietà di altri centauri, questi si opposero, e passando dalle minacce ai fatti, si precipitarono contro Ercole armati di grossi bastoni e di pietre ; ma l’eroe ne uccise molti a colpi di clava, per modo che gli altri intimoriti si dettero alla fuga. Folo finita la mischia, alla quale egli non aveva presa parte alcuna, si dette a raccogliere i morti, ma sventuratamente si ferì in una mano, nel togliere ùna freccia da uno dei cadaveri e dopo qualche giorno mori di quella ferita. Ercole riconoscente alla ricevuta buona accoglienza, onorò Folo di splendidi funerali e lo seppelli sulla montagna che da lui prese il nome di Foloe.
2041. Fontinali. — Presso i romani si celebravano nel mese di ottobre alcune feste così chiamate, dall’ uso che essi avevano di gettare in quel giorno nelle pubbliche fontane delle ghirlande di fiori, di cui poi coronavano i fanciulli, che prendevano parte alla festa.
2042. Forbante. — Uomo sanguinario e crudele, il quale eletto capo dei popoli Flegiani, postosi alla testa di un forte stuolo dei suoi seguaci, costringeva tutti i passaggieri che transitavano per la via principale, che conduceva a Delfo, a battersi con lui al pugillato, e dopo averli vinti li faceva morire fra i tormenti. La tradizione mitologica dice, che Apollo sdegnato contro questo masnadiere, assunse l’aspetto di un atleta e presentatosi alla lotta, lo accoppò con un pugno, liberando così quelle contrade.
2043. Forco. — Detto anche Forcide, era al dire di Esiodo, figliuolo della Terra e del Mare. Atlante lo vinse in un combattimento ed egli per disperazione si gettò nelle onde. Fin quì la parte mitologico-favolosa. La parte storica di questa allegoria, è che Forco era un re della Corsica, il quale sconfitto in un combattimento navale da Atlante, morì senza che si potesse trovare il suo cadavere. Da ciò i pagani immaginarono che fosse stato cangiato in dio marino.
2044. Forculo. — Divinità che presiedeva alla custodia delle porte e propriamente ai ganci di esse : questo nome gli veniva probabilmente dalle sue attribuzioni, perchè la parola gancio in latino sì dice fores.
2045. Fordicali. — Pubbliche feste che si celebravano in Roma il 15 aprile di ogni anno, ed alle quali si dava anche il nome di Fordicidie. Durante la cerimonia, i pagani avevano per costume, di sacrificare alla terra un dato numero di vacche prossime al parto. Secondo le cronache, l’istituzione di queste feste è dovuta a Numa Pompilio.
2046. Formiche. — Gli antichi popoli della Tessaglia, credevano che essi avessero tratta la la loro origine da quest’insetti, e propriamente dalle formiche della selva di Egina. Avevano quindi per esse un culto particolare. V. Mirmidoni.
2047. Formione. — Nella città di Eritrea, visse un pescatore così chiamato, il quale per una malattia d’occhi perdette la vista. La tradizione ripete che egli dovette la sua guarigione ad Ercole Eritreo.
2048. Fornacali. — In Roma si celebravano delle feste così chiamate in onore della dea Fornace, alla quale si facevano dei sacrifizi d’innanzi ai forni, cuocendo il pane, e arrostendo le biade — vedi l’articolo seguente.
2049. Fornace. — I romani ne avevano fatta una divinità ed avevano in suo onore consacrata una pubblica festa, che si celebrava annualmente dodici giorni prima delle calende di Marzo e della quale secondo le tradizioni dell’ {p. 198}antichità Numa Pompilio fu il fondatore. La dea Fornace presiedeva ai forni e propriamente alla cottura del pane.
2050. Foroneo. — La tradizione storica ce lo presenta come figlio d’ Inaco, re di Argo, e come colui che avesse insegnato agli abitanti del suo paese, a vivere sotto leggi miti e dolci, laddove prima traevano vita di selvaggi. Egli edificò una città che dal suo nome fu detta Foronica. Fin qui la storia.
Secondo la tradizione favolosa, Foroneo fu figlio del fiume Inaco e fu in compagnia degli altri due fiumi l’ Asterione ed il Cefiso, arbitro fra Giunone e Nettuno, per la contesa surta fra queste due divinità, a chi fosse toccato il regno del paese di Argo. I tre fiumi giudicarono in favore di Giunone, e Nettuno allora fortemente sdegnato li disseccò tutti.
2051. Fortuna. — Tra le divinità del paganesimo, la Fortuna fu quella che si ebbe il culto più esteso e generalizzato, e il più gran numero di templi e di altari.
I greci scrittori ebbero ognuno delle idee individuali e particolari su questa dea. In fatti, Pausania asserisce che nella città di Egina, vi era una statua della Fortuna, in cui essa veniva effigiata con un cornucopia nella mano, ed avendo vicino un Cupido alato, per significare, secondo il citato scrittore, che in amore val più la fortuna che l’ aspetto. Pindaro invece, fa della Fortuna, una delle Parche, dandole un potere assai più forte di quello delle sue sorelle.
Or dunque alla tremendaLachesi tosto il dio si volse, a leiChe il crin si vela di dorata benda,E chiese in quel momentoChe protendendo ambo le man, procedaDe’ sempiterni DeiAl sommo giuramento,Chiese ch’ egual volereCol signor delle sfereTal’ ella mostri, ch’ ove uscir si vedaL’ eletto suolo, al suoi desir si ceda.Pindaro — Ode VIII
trad. da G. Borghi.
Presso i popoli Fareati, vi era un antichissimo tempio dedicato alla Fortuna ; e gli abitanti di Smirne, dettero incarico al famoso statuario Bupalo, di lavorare per essi una statua colossale di questa dea, avente il polo sulla testa. Nella città di Tebe si venerava una statua della Fortuna che la rappresentava conducente per mano Plutone fanciullo, per dinotare che la fortuna è arbitra del dio delle ricchezze.
Vi sono molte medaglie dell’ antichità, nonchè gran numero di monumenti e di bassorilievi, nei quali è rappresentata la Fortuna talvolta con un sole sulla testa e tal’ altra con una mezza luna, per esprimere che essa al paro di questi due pianeti, regola e presiede a tutto ciò che accade sulla terra. Col suo braccio sinistro cinge due corni dell’abbondanza, per dimostrare che essa è la dispensatrice dei beni del mondo, e appoggia la mano destra sul timone di una nave, per spiegare che essa governa tutto l’ universo e che impera egualmente, con assoluto e dispotico potere, sulla terra e sul mare.
Pommi, disse, la destra entro la chioma,E vedrai d’ ogni intornoLiete e belle veutureVenir con aureo piede al tuo soggiorno :Allor vedrai, ch’ io sonoFiglia di Giove, e che germana al FaloSovra il trono immortaleA lui mi siedo a lato.Alessandro Guidi — La Fortuna — Canzone.
Assai di sovente si dipinge la Fortuna con una ruota nella mano, per simboleggiare l’ incostanza e la volubilità di quei beni, di cui essa è la dispensatrice.
Il culto della Fortuna presso i romani, era stato trasmesso dai greci ; e il primo dei sovrani che adoro questa dea, fu Servio Tullio, che le fece inalzare un magnifico tempio nel mercato di Roma ; e la tradizione aggiunge a questo proposito, che la colossale statua in legno che Servio Tullio aveva fatto porre nel tempio, fosse rimasta intatta da un incendio, che distrusse quel monumento pochi anni dopo la sua costruzione.
Coll’ andare del tempo il culto della Fortuna divenne generale in tutta Roma, ove essa sola ebbe più templi, altari, statue, sacrifizi ed offerte, di quante non ne ebbero le altre divinità dell’ olimpo pagano tutte insieme riunite. A simiglianza della infinita moltiplicità delle statue e dei templi di questa dea, erano del pari infiniti e svariati i nomi ed i soprannomi che i pagani le davano. Così tutte le tradizioni dell’antichità sono del continuo intercalate dai nomi di Fortuna feminea, di Fortuna virile, o viriplaca, di Fortuna stabile, di Fortuna reduce, di Fortuna buona, di Fortuna detta Primigenia, Seja, Respiciens, Obsequens, ecc. ecc. di Fortuna grande e piccola, di Fortuna dubbia, di Fortuna cattiva e d’ infinitissimi altri.
Non sarà quindi a meravigliarsi di un cosa esorbitante numero di appellativi dei quali i {p. 199}pìgani accompagnavano la veneratissima dea, quaute volte si rifletterà, che essi la consideravano come le dispensatrice suprema di tutti i beni. Siccome ognuno si studiava di rendersela propizia e favorevole, così le venivano eretti altari, e fabbricati templi, sotto nomi differenti e moltiplici, secondo i diversi bisogni di coloro che la invocavano. Il più famoso tempio della Fortuna, fu quello che le venne fabbricato nella città di Preneste, il quale aveva più che di tempio, la forma e la configurazione di un vasto teatro, e dove veniva adorata sotto la denominazione di Dea Proenestina. Nerone al principio del suo regno, fece costruire in onore di questa dea un tempio fabbricato tutto di una certa pietra, che aveva la durezza e la bianchezza del marmo, e finalmente sulla spiaggia del mare, vicino alla città di Anzio, sorgeva un altro famosissimo tempio delle Fortune, chiamato propriamente il tempio delle sorelle Anziatine.
O dea, che in Anzio a te diletta hai sede,Pronta a inalzare i più vili mortaliE a cangiare i trionfi i più superbiNella lugubre pompa del sepolcro ;…………….………nonna del mareTe ïnvoca chi su nave di BitiniaAccingesi a solcar l’ onde Carpazie.Te il fero Daco, il fuggitivo Scita.Te le città paventano ed i popoli.Ed il Lazio guerriero ;Orazio — Ode XXXV
trad. da Camillo de’ Conti Toriglioni.
2052. Forza. — I pagani ne avevano fatta un’altra delle loro tante divinità, alla quale seguendo la configurazione simbolica dei loro miti religiosi, davano per madre la dea Temide, e la facevano sorella della Giustizia e della Temperanza.
2053. Fraude. — Ben pochi sono gli scrittori dell’ antichità, i quali facciano menzione di questa dea ; e solo Esiodo, nelle sue cronache della favola, la mette nel numero dei figliuoli della Notte. Il Boccaccio, nella sua Genealogia degli dei, la mette nel numero delle deità romane.
2054. Freccie di Apollo. — È opinione generalizzata fra i più rinomati scrittori e mitologi dell’antichità, che le freccie di Apollo altro non erano se non i raggi del sole ; cosicchè quando la tradizione della favola ci ricorda che i figliuoli di Niobe fossero uccisi da Diana e da Apollo a colpi di freccia, altro non deve intendersi se nonchè la pestilenza, la quale ordinariamente vien cagionata dall’ eccessivo calore dei raggi del sole, fu la cagione della morte di tutti i figli di quella sventuratissima madre. V. Niobe.
Allorquando la peste distrusse tanta parte del campo greco, al tempo dello assedio di Troja, si disse che Apollo sdegnato contro i greci che non volevano lasciar libera la figlia di Crise, suo sacerdote, avesse ucciso a colpi di freccie gran numero di guerrieri greci.
…..L’ udi Febo, e sceseDalle cime d’ Olimpo in gran disdegnoColl’ arco su le spalle, e la faretraTutta chiusa. Mettean le frecce orrendoSu gli omeri all’ irato un tintinnioAl mutar de’ gran passi : ed ei simileA fosca notte giù venia. PiantossiDelle navi al cospetto : indi uno straleLiberò dalla corda, ed un ronzioTerribile mandò l’ arco d’ argento.Prima i giumenti e i presti veltri assalse,Poi le schiere a ferir prese, vibrandoLe mortifere punte ; onde per tuttoDegli esanimi corpi ardean le pire.Nove giorni volar pel campo acheoLe divine quadrella.Omero — Iliade — Libro I
trad. di V. Monti.
È nota similmente la tradizione mitologica, la quale ripete che dalle acque del diluvio di Deucalione e propriamente dalla fermentazione del fango che quelle lasciarono sulla terra, fosse nato il Pitone, mostruoso serpente, che Apollo uccise a colpi di freccia.
L’ arco, che solo in cervi, in capri e in dameDal biondo dio fu nelle cacce usato,Forò la pelle e quelle dure squame,Onde il mostro crudel tutto era armato :E cosi Febo quella ingorda fameSpense, che il mondo avria tutto ingoiato ;Ed ucciso che l’ ebbe, si disperse.E come prima in terra si converse.Ovidio — Metamorfosi — Libro I
trad. di Dell’Anguillara.
2055. Freccie di Ercole. — Secondo la tradizione mitologica, Ercole, dopo avere uccisa l’Idra di Lerna, bagnò le sue freccie nel sangue avvelenato del mostro, per modo che le ferite fatte con quelle armi, erano incurabili. Con una di queste, Ercole uccise il Centauro Nesso, e furono similmente queste le famose freccie che Ercole legò a Filottete. V. Fatalita’ di Troja e Filottete.
2056. Frisso. — Figlio di Nefelea e di Atamante. Avendo suo padre tolta un’altra moglie dopo la morte della prima, Frisso fu esposto a {p. 200}tutti i cattivi trattamenti della matrigna, onde egli esortato anche dai consigli del suo ajo, fece segretamente preparare una nave e tolto parte dei tesori paterni, in compagnia di sua sorella Elle, veleggiò alla volta della Colchide ; ove giunto fu cortesemente ospitato da un suo parente per nome Aete, re di quell’ isola, il quale gli dette in moglie la figlia Calciope. I primi anni di questa unione furono felici, ma scorso qualche tempo, Aete pensò d’ impadronirsi dei tesori di Frisso, e lo fece segretamente morire onde rendersene signore, promettendo in cor suo di far subire l’ istessa sorte ai figli di Frisso, senonchè la loro madre Calciope li sottrasse alla funesta sorte che li attendeva e li fece passare in Grecia. V. Élle.
2057. Fruttessea. — Più comunemente Fruttifera e Fruttifea, divinità che presiedeva alle frutta e che i pagani invocavano per ottenere un largo raccolto.
2058. Fulgora. — Nome della divinità che presiedeva ai lampi ed ai luoni ; e che non deve confondersi con l’ appellativo di Fulgur soprannome col quale i pagani invocavano Giove, come padrone dei fulmini. Fra gli scrittori dell’antichità, Seneca è quello che fa menzione della dea Fulgora, dicendo che essa era una dea vedova. A ciò solo si limitano le delucidazioni del citato scrittore.
2059. Fulmine. — La tradizione favolosa racconta che essendo stato Cielo, padre di Saturno, liberato da Giove, suo nipote, dalla prigione ove Saturno lo aveva rinchiuso per impadronirsi dei suoi regni, per ricompensare il suo liberatore lo avesse presentato di un fulmine, facendolo così padrone degli uomini e degli dei. Le cronache dell’ antichità favolosa ci presentano i Ciclopi come i fabbricanti dei fulmini ; e Virgilio ci ripete, che ogni fulmine conteneva tre raggi di grandine, tre di fuoco, e tre di pioggia e vento. Nella fabbricazione di essi i Ciclopi mischiavano le strisce di flamma, lo strepitoso rimbombo e i lampi terribili, coi quali si rivelava la collera di Giove e che produceva un invincibile terrore nel petto dei mortali.
Stavan ne l’ antro alloraSterope e Bronte e Piracmone ignudiA rinfrescar l’ aspre saette a Giove.Ed una allor n’ avean parte polita.Parte abbozzata, con tre raggi attortDi grandinoso nembo, tre di nubePregna di pioggia, tre d’ acceso foco.E tre di vento impetuoso e flero.I tuoni v’aggiungevano e i baleni.E di flamme e di furia e di spaventoUn cotal misto.Virgilio — Eneide — Libro VIII
trad. di A. Caro.
Presso i pagani, il Fulmine, era il contrassegno della suprema autorità ed è appunto perciò che nel tempio di Diana in Efeso, Alessandro, il conquistatore, si fece ritrarre dal celebre Apelle con un fulmine nella destra, volendo così dimostrare che al suo potere nulla resisteva.
Il fulmine di Giove veniva raffigurato in due modi, tanto dai poeti quanto dai pittori dell’ antichità ; sia come un tizzone fiammeggiante alle due estremità ; sia come una specie di freccia puntuta da ambe le parti.
Al dire di Pausania, la principale divinità dell’ antica Seleucia, era il fulmine, che veniva onorato con un culto particolare.
Al dire di Servio, fra tutte le divinità del paganesimo solamente Giove, Minerva e Vulcano possedevano il terribile privilegio di scagliare i fulmini ; e solo Stazio, fra gli scrittori dell’ antichità, asserisce che la Giunone di Argo aveva lo stesso potere.
Presso i pagani i luoghi dove era caduto il fulmine, erano ritenuti come sacri e vi veniva innalzato un altare dedicato generalmente a Giove. Plinio nella sua storia naturale, dice, che era per fino proibito di abbruciare il cadavere di un uomo colpito dal fulmine, ma che bisognava seppellirlo tal quale esso lo aveva lasciato.
Faremo qui notare che questa antica tradizione religiosa, riferita da Plinio, non avesse dovuto restare in vigore ai tempi di Euripide, da poi che quest’ ultimo scrittore ne istruisce, come essendo stato Capaneo atterrato da un colpo di fulmine lanciatogli da Giove per punirlo delle sue atroci bestemmie, fosse stato posto sul rogo, dove sua moglie Evadne si lanciò, onde le sue ceneri fossero unite a quelle del suo diletto.
Qual giorno il Sol, qual malCarreggiò tristo giorno, e qual la LunaDalle celeri ninfe accompagnataEquitanti per mezzo all’ aura bruna.Rischiarò de’ suoi raiInfausta notte, quandoGiulivi canti alzando.Me tutt’ Argo acclamò sposa beata.Di quest’ inelito eroe, di Capaneo.Nel solenne imeneo !Or io fuor di mia casa.Quasi baccante invasaRatta qui corro, onde la flamma auch’ ioPartecipar col mioConsorte, e in tomba andar con lui sepolta,Giù nell’ Orco discioltaDal sentimento de’ miei mali amaro,Soavissima morte,Se così vuol la sorte.Egli è il morir con chi più a noi fu caro.Euripide — Le supplicanti — tragedia
trad. di F. Bellotti.
{p. 201}2060. Famo. — Presso i pagani era assai in uso una specie di divinazione chiamata Capnomanzia, nella quale si osservava attentamente l’ agglomeramento, la densità, il colore e tutti gli accidenti del fumo. V. Capnomanzia.
2061. Fuoco. — Fra tutte le divinità del paganesimo, il Fuoco, fu quella il culto della quale era esteso a tutti i popoli della terra. Essendo il fuoco il più nobile degli elementi, e quello che racchiude in se l’ immagine più fedele del Sole, così tutte le nazioni si accordarono nel venerarlo.
I Caldei che sono i più antichi fra i primitivi popoli della terra, e quelli coi quali ebbero dapprima relazione gli Ebrei, dettero il nome di Ur ad una città, perchè ivi si adorava il Fuoco.
In Persia si spingeva anche più oltre l’ adorazione del fuoco. In questa contrada, vi erano alcuni dati recinti chiusi tutto all’ intorno da alte muraglie senza tetto, dove il popolo correva devotamente in alcune ore del giorno, a fare le sue preghiere innanzi ad un gran fuoco che ardeva continuamente. I patrizi e per sino le dame appartenenti a cospicue ed illustri famiglie si recavano del paro all’ adorazione del fuoco, gettavano nella flamma flori odoriferi e preziose essenze, e profumi d’ ogni maniera, la qual cosa era ritenuta dai persiani come il più alto privilegio della nobiltà. Allorquando un re persiano era moribondo, il fuoco veniva spento in tutte le principali città del regno e non si riaccendeva se non quando fosse stata fatta la coronazione del novello signore.
Comune ed estesissima era la credenza dei persiani, che il fuoco fosse stato portato dal cielo e posto suil’altare nel primo tempio che Zoroastro innalzò nella città di Xis nella Media ; ed era tanta la venerazione che quei popoli avevano per il fuoco, che non osavano neppure di guardarlo fissamente, e ritenevano per fermo che la sacra fiamma ardesse di per sè e senza alimento. Così fatta credenza, figlia del’a superstizione e della ignoranza, fomentata presso i pagani dalla impostura dei loro sacerdoti, era comune alla Grecia, ove si credeva che nel tempio, che Minerva aveva nella città di Atene, ardesse continuamente il fuoco consacrato alla dea, senza essere alimentato. Lo stesso si credeva per il tempio di Apollo in Delfo ; nonchè pel famoso tempio di Vesta in Roma.
Non è quindi a maravigliare se nel culto del paganesimo non si vedesse alcun sacrifizio, nè alcuna religiosa cerimonia, ove il fuoco non avesse la sua gran parte, venendo per fino onorato con ogni specie di riguardo, quello che si preparava per consumare le vittime.
La tradizione favolosa dice che Prometeo fosse quello che rubò il fuoco sacro dal cielo, e lo dette in dono agli uomini. Diodoro, nelle sue cronache dell’antich tà, dice che fu un re d’Egitto, per nome Vulcano, quello che insegnò agli uomini il modo di servirsi del fuoco. Da ciò l’ allegoria del mito simbolico, che fa Vulcano dio del fuoco.
2062. Fuochi di Castore e Polluce. — V. Castore e Polluce.
2063. Furie. — Divinità infernali ritenute dai pagani come le ministre inesorabili delle vendette celesti contro gli empi. Comunemente erano tre chiamate con nome particolare di Tesifone, Megèra ed Aletto.
Questa è Megera dal sinistro canto :Quella, che piange dal destro, è Aletto :Tesifone è nel mezzo :Dante — Inferno — Canto IX.
Appellazioni che rispon lono nel nostro idioma alle parole Rabbia, Strage ed Invidia ; qualificazioni tutte, che si addicono perfettamente a queste terribili divinità, di cui la tradizione mitologica ci fa il più spaventoso ritratto.
Discorde ed oltre ogni credere contradittoria è la opinione dei più accreditati scrittori e poeti antichi, sulla paternità di queste ministre dell’ ira dei numi, ciascuno assegnando loro quei genitori che parve meglio convenissero al loro carattere ed alle funzioni a cui erano addette. In fatti secondo Esiodo le Furie erano figliuole della Terra, e concepite dal sangue di Saturno ; sebbene in altre opere del citato scrittore egli asserisca che esse erano figliuo’e della Discordia e nate nel quinto della Luna. Eschilo le fa figliuole del flume Acheronte e della Notte, e le nomina Dire.
Prole siam noi dell’ atra notte, e DireSiam sotterra nomate.Eschilo — Le Eumenidi — Tragedia
trad. di F. Bellotti.
Apollodoro asserisce esser nate le furie nel mare, dal sangue che grondò dalla ferita che Saturno fece a Cielo, suo padre. Al dire di Sofocle esse furono generate dalla Terra e dall’Erebo
Possanza v’ bannoLe terribili dive, della TerraE dell’ Erebo figlie :Sofocle — Edipo a Colono — Tragedia trad. di F. Bellotti.
{p. 202}ed altri finalmente asseriscono esser le Furie figliuole di Plutone, dio dell’ Inferno, e sorelle delle Parche.
Nè solamente sulla loro paternità si trova, come vedemmo, grande disparità negli scrittori antichi ; ma anche sul numero di queste ministre della giustizia eterna, dappoichè Virgilio le porta ad un numere maggiore di tre unendo nella istessa idea collettiva tanto le Furie, quanto le Arpie, delle quali ultime egli chiama quella nota sotto il nome proprio di Celeno, con l’ appellazione di Furiarum Maxima.
Io son furia supremaChe annunzio a voi quel ch’ l gran Giove a Febo,E Febo a me predice,Virgilio — Eneide — Libro III trad. di A. Caro.
Le furie venivano anche dette con altri nomi Eumenidi, Erinni, Dee rispettabili ; Dee vendicatrici, Dee benefattrici, Dire, o Diree ec. ec.
In quanto alle loro attribuzioni, tanto sulla terra quanto nel regno della morte, le Furie venivano sempre considerate come dee tremende ed inesorabili, e come sacerdotesse della vendetta degl’ immortali.
Il loro ministero era quello di punire i delitti e le colpe degli uomini, non solo nell’ inferno, con gli eterni castighi del Tartaro ; ma anche sulla Terra, ove esse straziavano coi rimorsi l’ anima degli empi, ai quali non lasciavano un istante di riposo, perseguitandoli continuamente con spaventevoli visioni, che facevano di sovente perdere il senno a quegli sciagurati, a cui un qualche atroce delitto aveva richiamato sul capo la terribile espiazione, di cui le furie si facevano ministre.
De sinistres tableaux, de songes effroyablesElles tourmentent son sommeil ;De souvenirs affreux, de spectres tamentablesElles entourent son réveil.Aux chants joyeux de l’ Allégresse,Aux ris de la Gaîté, aux accents du Plaisir.Son cœur, prêt à s’épanouir.Se resserre, accablé du fardeau qui l’oppresseIl voit, sans les goûter, les biens qu’il a perdus ;Et le Remords lui dit : Tu ne dormiras plus.Demoustier — Lettres LXVII a Émilie : sur la Mythologie.
Moltiplici sono gli esempi, che gli scrittori dell’ antichità ci riportano delle persecuzioni che le Furie facevano subire ai colpevoli ; così Stazio, nella Tebaide, ci descrive i rimorsi di Eteocle e Polinice, dei quali la furia Tesifone fu la inesorabile persecutrice. Virgilio ne dipinge le orrende visioni cagionate dalle furie nella corte del re Latino,
Tu puoi, volendo, armar l’un contra l’altroI concordi fratelli : odj e zizzanieSeminar tra’ congiunti : e per le caseCon mill’ arti nocendo, in mille guiseInfra ’mortali indur morti e ruine.Scuoti il fecondo petto, e le sue forze.Tutt’ a quest’ opra accampa. Inferma, annullaQuesta lor pace : infiamma i cori a l’ armi :Arme ognun brami : ognun le gridi e prenda.Virgilio. — Eneide — Libro VII trad. di A. Caro.
ecc. ecc. e finalmente è nota a tutti gli studiosi dell’antichità, l’orrenda confusione prodotta in Tebe ; dalle Furie mandate da Giunone per vendicare Atamante ; nonchè quello che ebbe a soffrire Ifide per la Furia suscitatale contro dalla vendetta di Giunone ; come riferisce Ovidio, e finalmente il crudele strazio di Oreste il cui animo fu lacerato in mille modi dalle Furie vendicatrici del suo matricidio.
Non è strano che divinità cotanto terribili venissero dalla pagana superstizione, onorate con un culto particolare, quasi a voler scongiurare, per mezzo di preghiere e di adorazioni, lo spaventevole potere di cui erano armate. In fatti secondo asserisce Euripide, il rispetto che i pagani avevano per le Furie, era cosi grande che non osavano nemmeno di nominarle nè di alzar gli occhi sui templi ov’esse venivano venerate. Sofocle asserisce che il ricoverarsi in un bosco consacrato alle Furie, veniva considerato come un sacrilegio.
In quasi tutte le città della Grecia sorgevano templi ed altari consacrati alle Furie, e presso i Sicioni, secondo che riferisce Pausania, si faceva ogni anno la loro festa, e in quel giorno si sacrificavano alle Furie un buon numero di pecore pregne ; e venivano loro offerte corone e ghirlande di fiori, e specialmente di narcisi, credendosi che questo fosse il fiore più ad esse gradito.
Nella contrada di Acaja, e propriamente nella città di Corina, vi era un altro tempio famoso, dedicato alle Furie, nel quale si conservavano, con grande venerazione, delle piccole statue di legno, che le rappresentavano. La tradizione mitologica ripete, che questo tempio delle Furie in Corina, era così fatale ai colpevoli, che appena essi entravano in quel temuto recinto, venivano assaliti da una specie di furore, che faceva loro perdere la ragione.
{p. 203}Un altro non meno famoso tempio si ebbero le furie nella città di Atene, e propriamente presso il tribunale noto sotto il nome di Areopago Quel tempio fu fatto costruire da Oreste, quando le Furie cessarono di tormentarlo ; e fu in esso che il celebre oratore Demostene, fu per un dato spazio di tempo ministro e sacerdote di queste implacabili divinità, secondo che egli stesso asserisce. Tutti coloro che si presentavano al tribunale dell’ Areopago, dovevano prima di entrare in quello, giurare sull’ altare delle Furie, che erano pronti a rivelare il vero sul fatto, pel quale venivano chiamati in giudizio.
Le tradizioni dell’antichità, ci rivelano ancora che Oreste, avesse innalzato alle Furie altri due tempi nel Peloponneso ; il primo nel luogo stesso ove esse cominciarono la loro tremenda persecuzione contro di lui ; e l’ altro là dove gli si erano mostrate meno avverse.
Nei sacrifizi che si facevano alle Furie veniva loro offerto il narciso, il ginepro ed il zafferano ; e sui loro altari si svenavano conemente delle tortore e delle pecore.
Eschilo fu il primo, fra i poeti dell’antichità, che fece comparire sul teatro, nella sua tragedia intitolata le Eumenidi, queste divinità in tutto il loro spaventevole apparato, e fu tale l’ impressione di orrore prodotto negli spettatori, che la tradizione ripete che molte donne si sconciarono, e molti fanciulli morirono di paura. Esse venivano raffigurate sotto le sembianze di tre donne con faccia tetra e spaventosa ; con serpenti invece di chiome ; vestite di abiti neri e insanguinati ; con una torcia ardente in una mano ed uno staffile anche di serpenti nella altra e seguite dal Terrore, dalla Rabbia e dalla Morte.
Senz’ aliSon queste, e negre, e abbominande in lutto,Russan con ributtanti aliti : un tristoUmor cola dagli occhi : il vestimento,Qual non lice indossar nè visitandoI seggi degli dei, nè de’ mortaliLe cuse entrando. Una simil geniaNon vidi io mai : terra non è che possaDi nudrir cotal razza impunementeSenza dolor nè lagrime vantarsi.Eschilo — Le Eumenidi — Tragedia trad. di F. Bellotti.
Generalmente venivano in tal modo effigiate intorno al trono di Plutone, in atto di attendere ansiosamente i suoi ordini, onde slanciarsi a straziare i colpevoli. V. Aletto — Diree. — Erinni — Eumenidi — Nemesi ecc. ecc.
2064. Furina. — Divinità dei ladri che presso i romani veniva onorata con una pubblica festa detta Furinalia, che si celebrava il sesto giorno precedente alle calende di Settembre. Nel quattordicesimo rione di Roma sorgeva il tempio consacrato alla dea Furina, del quale era custode un sacerdote eletto fra i quindici flamini del popolo chiamato Flamen furinalis.
Vicino a questo tempio vi era un bosco consacrato alla dea, e nel quale, secondo la tradizione storica, fu ucciso Cajo Gracco.
La parola furina deriva dal latino Fur che significa ladro.
Si trova talvolta negli scrittori dell’ antichità dato il nome collettivo di Furine alle Furie.
2065. Furinale. — Nome particolare del flamine sacerdote della dea Furina. V. l’ art. precedente.
2066. Furinali. — Feste in onore della dea Furina. V. Furina.
2067. Furore. — Divinità allegorica seguace delle Furie. Veniva raffigurata orribilmente col volto ed il petto coperto di piaghe insanguinate ; con un elmo e con le mani legate dietro la schiena ; assisa sopra un mucchio d’arme d’ogni maniera e fremente in tutto il corpo per tremito rabbioso. I pagani credevano che in tempo di guerra il Furore spezzasse le sue catene per volare sui campi di battaglia, ove si compiaceva tra la strage e la morte.
Comunemente si riteneva il Furore come figlio della Notte.
{p. 204}G §
2068. Gabalo. — Nella città di Emesa, nonchè in quella di Eliopoli, si adorava una divinità cosi chiamata, la quale veniva rappresentata sotto la figura di un leone con la testa circondata di raggi. È opinione di molti scrittori dell’antichità, che questa divinità sia la stessa che quella conosciuta sotto la denominazione di Elagabalo.
2069. Gabia. — Conosciuta più comunemente sotto il nome di Gabina. Si venerava con questo soprannome la dea Giunone, particolarmente onorata in Gabia città del Lazio. Virgilio la chiama : Juno Gabina.
2070. Gaditano. — Nella città di Gades in Ispagna (oggi Cadice) si dava questo soprannome ad Ercole perchè si riteneva che fosse in quel punto ch’ egli avesse innalzate le famose colonne dette da Strabone portae Gaditanae.
2071. Galantide. — Schiava di Alcmena. La tradizione ricorda a proposito di lei, che essendo la sua padrona tormentata dai dolori del parlo, Galantide fosse uscita per breve tempo dal palazzo della sua signora e che nel rientrare premurosamente in quello, avesse osservato presso alla porta una vecchia donna immobile in un atteggiamento assai strano. Sospettando che quella vecchia fosse la stessa Giunone, che per gelosia contro Alcmena le ritardasse il parto, per farla partire di là, dopo essere rientrata presso la sua padrona, ritornò premurosamente vicino alla vecchia, dicendole, con i controsegni della più viva gioia, che la sua padrona si era sgravata. All’ annunzio inatteso Giunone si alzò ad un tratto, e Alcmena fu immediatamente sollevata dai suoi dolori. L’ incauta Galantide dette in un forte scoppio di riso e allora Giunone altamente sdegnata contro di lei, l’afferro pei capelli, la gettò al suolo e mentre ella cercava di liberarsi, la cangiò in quell’animale conosciuto sotto il nome di Donnola, condannandola a partorire per la gola.
Al dire di Eliano, i Tebani adoravano quell’animale, credendo che avesse sollevata Alcmena dagli atroci dolori del parto.
La tradizione mitologica parlando del castigo inflitto a Galantide dalla sdegnata regina delle dee, allude ad un errore reso popolare dall’ ignoranza, da poi che la Donnola porta quasi sempre in bocca i suoi piccoli nati, e cangia quasi continuamente di posto.
2072. Galassauna. — Figliuola dell’ Oceano e di Teti : fu una delle numerosissime ninfe Oceanidi.
2073. Galassia. — Nome particolare che i greci davano a quella lunga zona, bianchiccia e luminosa che i moderni astronomi han chiamata Via lattea. Dice Ovidio che per questa via si andava al palazzo di Giove ; ed era anche per questa, che gli eroi avevano accesso in cielo. Al dire del citato scrittore, la via lattea era fiancheggiata dalle dimore degli dei più potenti.
Una splendida via nel ciel riluce :Candida si, che del latte s’ appella :La nobiltà del ciel vi si riduce,La plebe alberga in questa parte e in quellaQuesta è la via, la qual dritto conduceAlla corte real, superba e bella ;Ovidio — Metamorfosi — Lib. I. trad. di Dell’ Anguillara.
La tradizione mitologica, dice, che la via lattea fosse stata formata dalle goccie di latte cadute dal seno di Giunone allorquando essa, per consiglio di Minerva, nudrì del suo latte il piccolo Ercole, abbandonato in un campo. Il pargolo atleta succhiò con tanta forza il seno che gli veniva offerto, che il latte cadde da quella in gran copia, macchiando di numerosi punti bianchi l’incontaminato azzurro del cielo.
Una tradizione popolare, confondendo il nome di Galassia con quella di Galizia, dà alla via lattea il nome di strada di S. Jacopo, e ciò {p. 205}perchè è costume quasi generale di compiere una volta l’anno un pellegrinaggio di S. Jacopo nella città di Galizia : da ciò la confusione che abitualmente si fa, fra i due nomi di Galassia e di Galizia, i quali sono del tutto differenti nella loro etimologia.
2074. Galassie. — Feste consacrate ad Apollo. Alcuni cronisti della favola vogliono, che le feste Galassie prendessero la loro denominazione, dal costume che avevano i pagani, di cibarsi nei giorni delle Galassie, di una certa minestra di orzo cotta col latte, la quale formava la principale offerta nei sacrifizii di quelle cerimonie.
2075. Galatea. — La più bella fra le cinquanta Nereidi.
Più mobile dell’ onda,Più della luce bionda.Del Zeffiro più snella,L’insigne nome aveaOnde nel mito ellenicoEterna è Galatea.Prati — Nuove poesie Vol : II — pag. 105.
Più candida di candido ligustro,O Galatea, de’ prati più florita,Ed elevata più di nobil alno,Splendida più del vetro, d’ agnellettoMorbida più, più liscia di conchigliaDa’ flutti travagliata senza posa :Gradita più che nell’ inverno il sole.E più che l’ ombra nella sferza estiva.Più gentil d’ ogni frutto, e più vistosaDi platano sublime, più lucenteDel ghiaccio, dolce più ch’ uva matura.Delle piume del cigno ancor più molle.E di rappreso latte ; e di fecondoGiardin più vaga.Ovidio — Metamorf : Libro XIII — Fav. VII. trad. dal Cav. Ermolao Federico.
e fu figlia di Nereo e di Dori
Ma quantunque padreA me sia Nereo, e la cerulea DoriMia genitrice.Ovidio — Metamorf. Libro XIII. — Fav. VIII. trad. del Cav. Ermolao Federico.
La tradizione mitologica narra di lei un lagrimevole fatto.
Galatea amò passionatamente un bellissimo giovane pastore per nome Aci, dal quale fu controcambiata con tutta l’ ardenza di una vera passione. Ma la sciagura volle che Polifemo, un orrido e spaventevole Ciclope, avendo vista Galatea, restò perdutamente preso della bellezza di lei ; e dimentico d’ ogni altra cura, non più avido di sangue e di stragi, seguì come un fanciullo le traccie della bella creatura, che lo innamorava, ricercando continuamente di lei. E avvenne un giorno, che assiso su d’ una rupe sotto alla quale erano ascosi Aci e Galatea, l’ uno in braccio dell’ altra, perduti in un’ ebbrezza di voluttà senza nome,
Mentre il Ciclopo rio scorre la costaDall’ira spinto e dalla pena acerba,Ver dove io mi glacea molto discosta,Viene a girar la luce empia e superba ;E vede me, ch’ esser credea nascosta.In grembo ad Aci mio, tra’ fiori e l’ erba :Ben la sua voce allor cruda ed alteraPassò, per quel che udii, la nona sfera.Ovidio — Metamorf : Libro XIII trad. di dell’ Anguillara
Polifemo si dette a cantare le lodi della sua amata, facendo risuonare tutta la spiaggia dei suol innammorati lamenti ; i quali si traducevano in una così aspra e rimbombante dissonanza che Aci e Galatea spaventati vollero darsi a fuggire.
Posato il pin, che suol guidar l’ armento,Ch’ arbor farebbe ad ogni grossa nave,Comincia a far sonar quello stromento ;Che allato avea di perforata trave :La fistula dà fuor l’ usato accento,Più tosto strepitoso, che soave ;E da lo stral d’ Amor piagato e punto,Col canto al dolce suon fa contrappunto.Ovidio — Metamorf : Libro XIII. trad. di Dell’ Anguillara
Ma accortosi Polifemo della presenza del suo rivale e fatto conscio di quanto era avvenuto fra i due amanti, mentre egli cantava, reso cieco per furore di gelosia, lanciò un enorme masso sul povero Aci, il quale morì schiacciato sotto l’immane peso, mentre Galatea all’ orribile vista, pazza di dolore, si precipitò in mare, dove fu raccolta dalle Nereidi sue sorelle.
Lo persegue il Ciclope, ed abbrancataUna roccia che parte era del monte,La scagliava divelta, e benchè il massoSolo coll’ orlo estremo Aci cogliesse,Pur sotto ne restò sepolto intero.Ovidio — Metamorfosi — Libro XIII. Fav. VIII trad. del Cav. Ermolao Federico
La parola Galatea deriva dal greco γαλα che significa di latte, e si dava a questa Nereide a causa della sua bianchezza.
{p. 206}2076. Galena. — Un’ altra delle cinquanta Nereidi.
2077. Galeote — La tradizione della favola fa di questa divinità, uno dei principali numeri degli Illei, antichi popoli abitatori del monte Etna in Sicilia, ove veniva adorato con un culto particolare e ritenuto come figliuolo di Apollo.
2078. Galeoti — Si dava codesto nome collettivo ad alcuni indovini Siciliani, i quali pretendevano di scendere dallo stesso figliuolo di Apollo, di che nell’articolo precedente. Al dire di Cicerone, la madre di Dionigi, il famoso tiranno di Siracusa, quando era incinta di questo bambino, consultò gl’indovini Galeoti per sapere la sorte del figlio ; ed essi le risposero che il fanciullo sarebbe stato l’uomo più felice di tutta la Grecia.
2079. Galintia — Una delle eroine della Grecia, in cui veniva onorata con una festa, che dal nome di lei fu detta Galintiade. Fu figliuola di Proeto.
2080. Galli — Riferiscono le cronache dell’antichità che cotesti sacerdoti di Cibele, traevano la loro denominazione da un fiume nella Frigia, chiamato Gallo.
Ma gli eunuchi di lei perchè chiamiamoGalli : mentre passar si spaziosoTratto tra i Galli e il Frigio suol sappiamo ?Infra l’ alta Celene ed il frondosoCibele, disse, un fiume si presenta,Detto Gallo, d’ insane acque spumoso.Ovidio — I fasti — Libro IV trad. di G. B. Bianchi.
La istituzione di codesti sacerdoti, ebbe da principio vita nella Frigia ; ma poi, coll’ andare degli anni, si sparse in tutta la Grecia, nell’ impero romano, in Siria e perfino nell’ Africa.
I primi sacerdoti Galli formavano una specie di tribù vagabonda e ciarlatana, la quale girovagava di contrada in contrada, sonando una specie di crotalo, e raccogliendo le elemosine che essi chiedevano in nome della loro dea, e distribuendo immagini, filtri e rimedi per ogni male.
Girando batteran gli eunuchi GalliCavi tamburi, e gran rumor farannoI metalli percossi dai metalli,Ovidio — I Fasti — Libro IV trad. di G. B. Bianchi
Generalmente i galli appartenevano alla classe più abbietta della plebe, e siccome rispondevano alle varie dimande che loro venivano fatte, servendosi di una specie di ritmo cadenzato e monotono, così si diceva comunemente che i sacerdoti galli rendevano i loro oracoli in versi. Da ciò, al dire di Plutarco, ne venne il grande disprezzo in cui, generalmente, era tenuta la poesia degli oracoli.
Cicerone aggiunge, che i sacerdoti galli conducevano seco loro delle vecchie, ritenute come altrettante incantatrici o streghe ; le quali davano la buona ventura e predicevano l’ avvenire. Al dire del citato scrittore, codeste incantatrici vendevano al popolo dei filtri e delle medele, che avevano il potere di turbare la pace delle famiglie.
Il cronista Luciano, riferisce nelle suo cronache sull’ antichità, che allorquando uno dei sacerdoti galli moriva, i suoi compagni portavano il cadavere sulle spalle, e gettavano, la bara in un monte di pietre ; quindi si ritiravano, astenendosi durante il periodo di sette giorni dopo questa funebre cerimonia, dall’ entrare in un tempio ; ritenendo come un sacrilegio il metter piedi in un sacro ricinto, prima che questo periodo di tempo fosse passato. Oltre a ciò, al dire del citato scrittore, i sacerdoti galli, avevano una gran quantità di obblighi e di doveri, imposti loro dal culto della loro fanatica religione. Per esempio essi non potevano entrare in un tempio, durante tutto il giorno nel quale si fossero trovati a vedere un corpo morto.
I loro sacrifizii non potevano essere d’ altre vittime, che di capre, di pecore, di vacche e di tori. Era loro espressamente proibito di sacrificare dei maiali ; come pure di cibarsi della carne di questi animali. Essi ritenevano come sacri i colombi ; e credevano fermamente che essi non potevano toccare nemmeno uno di questi volatili, riguardando come impuro e maledetto quello, fra i loro compagni, che ne avesse toccato uno, anche inavvertentemente.
I sacerdoti galli erano sottoposti al comando di uno fra essi, a cui davano il nome di Archigallo, ossia sommo sacerdote di Cibele. V. Archigallo.
Galli si chiamavano similmente alcuni popoli dell’antichità, che Giulio Cesare ci dipinge, nei commentari, come un popolo eminentemente superstizioso, che avesse dato origine e fondamento alla religione dei Druidi V. Druidi.
2081 Gallo — I pagani consacravano questo volatile a Minerva, come simbolo della vigilanza e per dimostrare che la vera saggezza non si lascia mai sorprendere dal sonno.
Presso i pagani era comune l’ uso di sacrificare questo animale agli dei Lari o Penati, alludendo all’ uso domestico di allevare i galli nelle case, di cui i Lari erano le divinità protettrici.
{p. 207}Si dava il nome di Gallo al primo sacerdote di Cibele, il quale, secondo la tradizione, si fece da se stesso eunuco V. Ati. Da ciò i sacerdoti galli erano tutti eunuchi : almeno tal’ era la credenza dei pagani.
Si chiamò finalmente Gallo un giovine amico e confidente del Dio Marte, il quale lo poneva a guardia della sua tenda, tutte le volte che la dea Venere, perdutamente innammorata di lui, abbandonava furtivamente il cielo, per inebbriarsi d’ amore nelle sue braccia. Narra la cronaca favolosa, che un giorno Gallo si addormentò alla porta della tenda di Marte, e lasciò sorprendere Venere nelle braccia dell’ amante suo, da Vulcano marito di lei. Sdegnato Marte della poca solerzia del suo confidente, lo cangiò in quello animale che porta anche oggi lo stesso nome, condannandolo a cantare tutte le volte che spunta il Sole.
Il annonce aux amants le lecer de PhébusEt Mars, en l’ écoutant, sort des bras de VènusDemoustier — Lettre XXXV a Émilie sur la Mythologie
2082. Gamella. — Dalla parola greca γαμος che significa nozze, i greci davano questo nome a Giunone, come protettrice del talamo nuziale. Nel mese di Gennajo si celebravano in tutta la Grecia delle feste in onore di Giunone, Nuziale dette Gamelie, durante le quali venivano fatti più matrimoni che in tutto il rimanente dell’ anno, ritenendosi come più fortunato il connubio contratto in quel periodo di tempo.
Da ciò il mese di Gennajo era detto, dagli Ateniesi, Gamelione.
2083. Gamelie. — Feste celebrate dagli Ateniesi in onore di Giunone Gamelia V. l’ art. precedente.
2084. Gamelio. — Uno dei soprannomi di Giove, che gli veniva dall’essere ritenuto come protettore dei matrimoni.
2085. Gange. — Fiume delle Indie ritenuto da quegli abitanti come una delle loro più possenti divinità, e che essi adoravano con un culto particolare. Le acque di quel fiume erano considerate dagl’ Indiani come sacre e si attribuiva loro ogni più segreta, e sconosciuta virtù.
2086. Ganimede. — Figliuolo di Tros, re di Troja, che si rese celebre per la sua incomparabile e femminea bellezza. Narra la cronaca mitologica, che Giove perdutamente preso dalla bellezza di questo giovanetto, si fosse cangiato in aquila e lo avesse rapito in cielo, ove lo mise nei dodici segni dello zodiaco, sotto la configurazione dell’ acquario, facendolo servire come coppiere al banchetto degli dei, e assegnandogli le funzioni che prima di lui aveva Ebe, dea della giovinezza. V. Ebe.
Arse d’ amore un tempoPel Frigio Ganimede il re de’ numi.……………….. l’ aere con mentite pennePercuotendo, il figlinol d’ Ilio rapisce,Che di Giuno a dispetto, oggi pur ancoCoppier di Giove il nettare ministra.Ovidio — Metamorfosi — Libro X Fav. IV trad. del Cav. Ermolao Federico
Codesta allegoria favolosa ha un fondamento storico che noi riporteremo per maggiore delucidazione.
Tros re di Troja aveva un figlio chiamato Ganimede, o secondo altri, Genimede, al quale dette incarico di recarsi in Lidia, onde offrire dei sacrifizi a Giove in un tempio, che quel dio aveva in quella contrada. Ganimede obbediente ai voleri paterni, partì accompagnato da un numeroso seguito di signori e di valletti. Senonchè Tanalo, re di Lidia, prese per spie i Trojani e li fece tutti mettere in prigione, obbligando il giovine Ganimede a servirlo a mensa come coppiere. Vi sono vari scrittori dell’ antichità, i quali asseriscono come vero un tal fatto, dicendo che Tanalo usasse come un diritto di rappresaglia verso i Trojani che accompagna ano il principe giovanetto e verso Ganimede stesso, per risarcimento di alcune vecchie ingiurie fattegli da Tros padre di lui. Comunque sia, questo fatto dette principio ad una lunga guerra fra i due sovrani, la quale ebbe fine quando Troja cadde dopo il famoso assedio.
Ganimede o Genimede era similmente il soprannome della dea Ebe, la quale al dire di Pausania, era adorata sotto questa denominazione nella cittadella di Fliasi, in un bosco di cipressi.
2087. Garamantide. — Una delle ninfe Napee amata da Giove. Essa fu madre di diversi figli di cui i più famosi furono Pilunno e Giarba o Iarba, re dei Getuli V. Giarba.
2088. Gargaro. — Presso i pagani si dava questo nome alla più alta sommità del monte Ida, dove Giove aveva un tempio ed un altare a lui consacrati. Al dire di Omero, fu sulla più alta estremità del Gargaro, che Giove andò a posarsi onde essere testimonio di una battaglia combattuta fra i greci e trojani, durante il dedecenne assedio della città Priamea.
2089. Gastromanzia. — Specie di divinazione collà quale si pretendeva conoscere l’ avvenire, coll’accendere un gran numero di candele poste in alcuni vasi di vetro rotondi e pieni di {p. 208}acqua limpida. Dopo di aver invocato i demonii, si prendeva una donna incinta od un fanciullo e si faceva osservare attentamente la superficie dell’acqua.
Si dava similmente il nome di Gastromanzia ad un’altra specie d’incantesimo, praticato comunemente dagl’indovini, i quali rispondevano alle differenti interrogazioni che venivano loro fatte, senza muovere le labbra, per modo che sembrava che una voce aerea avesse risposto alle dimande.
2090. Gatti. — Gli egiziani ritenevano che allorquando i Titani dettero la scalata al cielo, la dea Diana si fosse cangiata in gatto, onde sottrarsi al furore degli assalitori.V. giganti. Da ciò ne venne la grande venerazione che quei popoli tributarono a quest’animale, del quale fecero una delle divinità del loro culto, adorandola assai di sovente sotto la sua forma naturale ; e talvolta anche sotto la figura di un uomo colla testa di gatto.
Al dire di Erodoto, allorquando in una casa moriva un gatto di morte naturale, tutti i componenti la famiglia, a cui aveva appartenuto quell’animale, si radevano le sopracciglia in segno di alta mestizia, e dopo avere imbalsamato Il cadavere lo seppellivano con pompa.
Presso il popolo egizio veniva severamente punito e sottoposto ai più crudeli supplizi, colui che anche inavvedutamente avesse cagionato la morte di un gatto.
2091. Ge. — Uno dei più antichi cronisti della favola per nome Sanconiatone, riferisce che Ge fu figlia d’Ipisto, e moglie del proprio fratello Urano, che la rese madre di molti figliuoli, di cui più rinomati furono Saturno, Atlante e Batilo.
2092.Gegania.—Secondo la tradizione storica, così aveva nome una delle prime quattro vestali istituite de Numa Pompilio, secondo re di Roma.
2093. Gelanore. — Ultimo discendente della illustre prosapia degli Inachidi, il quale teneva il governo di Argo, allorquando Danao per sottrarsi alle persecuzioni del fratello Egitto, si ricoverò in quella città. Gelanore accolse generosamente l’ospite fuggitivo ; ma ben presto la sua cortesia gli riuscì fatale ; imperocchè Danao, profittando slealmente di alcune turbolenze intestine, si pose alla testa di un partito, detronizzò il suo benefattore, ponendo così termine alla discendenza d’Inaco.
2094. Gelasia. — Sebbene negli scritti dei mitologi più accreditati, nonchè dei cronisti dell’antichità, non si faccia particolare menzione di una vera ed unica denominazione delle tre Grazie ; pure è quasi generale l’opinione che queste tre dee giovanette si chiamassero Gelasia Lecori e Comasia.
Almeno con questi nomi vengono più comunemente indicate le tre Grazie.
2095. Gelone. — Uno dei figli di Ercole e della ninfa Gelania. Secondo la tradizione Gelone si stabili nella Scizia Europea, e fu lo stipite della nazione Scitica, che dal suo nome prese quella di Gelone, popoli che si resero celebri per la loro forza e pel loro coraggio, che li fece generalmente ritenere come discendenti da Ercole stesso.
2096. Gemini o Gemelli. — Il terzo fra i dodici segni sotto la cui configurazione, al dire del cronista Manilio, i pagani riconoscevano il dio Apollo e l’Ercole egiziano. Questa opinione però non è seguita da molti autori ; e vi sono anzi altri i quali danno a questo segno zodiacale diversa interpretazione. Taluno asserisce che i Gemini siano i due figliuoli di Borea Leto e Anfione. Igino pretende che siano Giasione e Trittolemo, favoriti della dea Cerere. Però di tutte queste differenti e discorde opinioni, quella più generalmente seguita da tutti i poeti dell’antichità, è che sotto il segno dei gemini siamo raffigurati i due famosi Tindaridi, Castore e Polluce.
Il fratel racquista, e in ciel si annida.Ove a vicenda or l’uno, or l’altro siede :Alle ansie navi stella entrambi fida.Ovidio — I Fasti — Libro V. trad.Giambattista Bianchi.
2097. Gemino. — Uno dei soprannomi che si dava al dio Giano, a causa delle due facce che gli venivano attribuite.
2098. Genetillidi. — Il solo autore antico che parli di questa divinità è il cronista Pausania, il quale riferisce che nel tempio di Venere Colliade, vi era un certo numero di statue, che ne riproduceva l’immagine. Però lo stesso citato scrittore, non dà sul conto delle dee Genetillidi maggiori schiarimenti.
2099. Gentali. — Anche sul conto di questi altri numi del paganesimo, è discorde il parere degli scrittori, i quali però tutti si accordano nel convenire che geniali era il nome collettivo degli dei che presiedevano alla generazione. Al dire di Festo, gli dei Geniali erano i quattro principali elementi cioè il Fuoco, l’Aria, la Terra e l’Acqua. Altri pretendono che sotto la de nominazione di numi Geniali s’intendeva Priapo, Venere, la Fecondità e il Genio. Glio astrologi e gli indovini davano il nome di dei Geniali ai donici segni dello zodiaco.
2100. Genio. — I pagani ritenevano per {p. 209}fermo che ogni uomo nascendo avesse avuto il suo genio tutelare ; nè più nè meno che i cristiani, i quali ritengono per positiva e reale la guida celeste d’un Angelo Custode. La credenza religiosa dei pagani ammetteva perfino l’esistenza di due genii uno buono e l’altro cattivo. Da questa credenza largamente diffusa nei tempi della religione pagàna, emerge giustissima l’osservazione che Plinio ci fa tenere nelle sue opere dell’antichità ; cioè, che al tempo del paganesimo, dovevano esistere più numi e genii, che non uomini mortali ; quante volte si volesse ritenere che ogni uomo nascendo avesse due Genii, il buono ed il cattivo.
Assai di sovente i geni sono stati rappresentati sotto la figura di altrettanti giovanetti con le ali ; talvolta però venivano anche rappresentati come uomini maturi con il mento ornato di folta barba ; e talvolta sono stati anche effigiati sotto la figura di un serpente o di altri animali.
Il popolo romano raffigurava il suo genio tutelare sotto le sembianze di un giovane bellissimo della persona rivestito d’un manto bianco e con un cornacopia nella mano.
Al dire del cronista Apulejo, i pagani ritenevano ancora che le anime dei defunti apparissero loro soventi volte sotto la figura di altrettante Geni, prendendo cura di quelli che rimanevano della loro famiglia ed erano pacifici e consolatori. Altri poi, si credeva, andassero errando in questa o in quella parte come condannati all’esilio. Questi Geni erano quelli che cagionavano il terrore panico, e spaventavano i cattivi. I primi venivano detti con nome particolare Geni familiari ; e i secondi Dei Lari. Agli uni ed agli altri si dava il nome collettivo di dei Mani, alludendo sempre alla loro trasfigurazione nelle anime dei morti. Si dava anche il nome di Genio ai dei Lari, ai Lemuri, ai Penati ed ai Demoni. V. queste differenti voci.
2101. Genisse. — Era questa la denominazione collettiva, che si dava a tutte le vittime sacrificate in onore della dea Giunone.
2102.Genita Mana. — Secondo asseriscono Plinio e Plutarco, si chiamava così quella dea, che presiedeva al parto. Era una specie di configurazione della Giunone Lucina. Il sacrifizio più comune che i romani offerivano a questa divinità, era un cane : a somiglianza di ciò che praticavano i greci in onore di Ecale, e gli Argivi in onore della dea Illichia, ritenute anche esse come protettrici delle partorienti e dei neonati.
2103. Gennajo. — Questo mese era presso i pagani consacrato al Dio Giano, perchè a somiglianza di questa divinità, che aveva due facce, una per l’avvenire l’altra pel passato ; il mese di Gennajo stando sul limitare del nuovo anno guarda in certo modo da una parte l’anno trascorso ; e dall’altra l’anno corrente. È questa una delle configurazioni allegoriche più spiccate dei tipi mitologici e del linguaggio figurato del paganesimo.
2104. Geomanzia. — Dalle due parole greche γη terra, e μαντεια divinazione, si dava questo nome ad una specie d’indovinamento, che si faceva in generale presso i pagani in diverse maniere.
Talvolta essi praticavano la Geomanzia osservando attentamente i crepacci e le fessure che si trovano naturalmente’ sulla superficie della terra. Essi ritenevano che da quelle fenditure uscissero come dall’antro di Delfo, alcune profetiche esalazioni. Altravolta si faceva la geomanzia, segnando sul terreno una gran quantità di linee e di cerchi ; e tal altra finalmente segnando a caso sulla terra o sulla carta una gran quantità di punti. Le figure che la combinazione dei diversi punti producevano, venivano attentamente studiate ritenendosi che da quelle differenti combinazioni si potesse predire l’avvenire.
2105. Gerania. — A proposito di questa città, che secondo la geografia antica, sorgeva sul monte Emo, nella Tracia, narra la tradizione mitologica, che gli abitanti non avevano più di un cubo di altezza e che fossero discacciati dalla loro patria da una immensa quantità di grù. Al dire dello scrittore Salmasio, la città di Gerania era il punto di ritrovo di questi volatili, allorquando movevano contro i PigmeiV. Pigmei.
2106. Gerere. — Si chiamavano così nella città di Atene, quelle quattordici donne, che servivano la regina dei sacrifizi, in occasione di qualche solenne funzione.
2107. Gerione. — Secondo riferisce Esiodo, fu il più forte degli uomini e figliuolo di Calliroe e di Crisauro. La cronaca favolosa ne ha fatto un mostruoso gigante, il quale custodiva da se stesso le sue numerose mandre, a cui facea guardia insieme ad un cane a due teste e ad un mostruoso dragone che, vomitava flamme dalle sue sette bocche. Ercole lo combrattè e lo vinse e portò gli armenti di lui ad EuristeoV. Ercole.
Al dire dello storico Svetonio, ai tempi dell’imperatore Tiberio, v’era un oracolo di Gerione a cui l’imperatore andò a chiedere un responso prima di partire per la spedizione nell’Illiria. Da ciò il cronista Cluverio, conclude che dovea esservi anche un tempio di Gerione, perchè non v’era oracolo senza tempio.
2108. Geris o Geride. — Nome di una divinità pagana, che al dire di qualche autore, era {p. 210}la stessa che Cerere o la Terra. E questa per altro un’opinione seguita da ben pochi scrittori accreditati della mitologia.
2109. Germani. — Antichissimi popoli della Germania, i quali al dire di Giulio Cesare nei suoi commentari, non avevano altre divinità che il Sole, la Luna ed il fuoco ossia Apollo, Diana e Vulcano. Tacito però nomina nelle sue storie molti altri numi adorati dai Germani, e fra questi Marte. Mercurio ed Ercole, a cui offrivano sacrifizi d’umane vittime.
2110. Geroestie. — Nell’isola di Eubea sorgeva un promontorio, detto di Geroeste, ove in onore di Nettuno, che vi aveva un tempio famoso, venivano annualmente celebrate alcune feste, a cui si dava il nome di Geroestie.
2111. Gerontree. — A Gerontre, che era una delle isole Sporadi, si celebravano dai greci delle altre feste in onore del dio Marte, a cui dall’isola istessa si dava la denominazione di Gerontree.
2112. Ghianda. — Abbiamo dalle più antiche tradizioni della favola che i capi delle prime colonie Egizie e Fenicie che andarono a stabilirsi in Grecia, insegnarono agli abitanti di questa l’uso di cibarsi delle ghiande ; cosa della quale quel popolo ancora quasi selvaggio non aveva punto idea. Noi faremo notare per altro che non essendo la ghianda atta a nudrir l’uomo, qui si deve intendere sotto la denominazione particolare di ghianda, l’uso di cibarsi d’altri frutti, rivestiti di un guscio più solido, come le noci, le castagne, eccetera. Sarebbe stato invero un ben strano attestato d’incivilimento quello, di far nudrire un intero popolo coll’istesso modo col quale presso di noi vengono nudriti i majali.
2113. Giacco. — Dalla parola greca ιαγωυ che significa gridatore, i greci davano questo soprannome a Bacco, per alludere alle alte grida, con che le baccanti celebravano le orgie di quel dio. Questa almeno è la opinione più generalizzata degli scrittori della favola, sulla parola segnata in margine.
Vi sono però alcuni mitologi e cronisti i quali distinguono Bacco da Giacco e fanno quest’ultimo figliuolo della dea Cerere ; aggiungendo che sua madre lo avesse preso in sua compagnia, allorquando andò per le campagne della Sicilia, in cerca della rapita Proserpina. Quando la dea stanca del lungo e faticoso cammino prese riposo nella capanna della vecchia Bauci V. Bauci e Filemone, Giacco, colle sue facezie, divertì per poco la madre sua e le dette a bere certo liquore chiamato Cyceon, che valse a farle per brev’ora dimenticare la sua angoscia materna. Perciò nei misteri Eleusini, celebrati in Grecia in onore di Cerere, questa dea veniva adorata insieme a Proserpina e a Giacco.
2114. Giacintee o Giacintie. — Feste celebrate in onore di Apollo nella Lacedemonia, e che avevano la durata di tre giorni. Vicino al sepolcro del giovanetto Giacinto si vedeva una statua di Apollo, innanzi alla quale si offerivano i sacrifizi, mentre i giuochi furono istituiti e celebrati in onore del principe giovanetto, favorito del dio Apollo V. L’articolo seguente.
2115. Giacinto. — Figlio di Oebalo re della città di Amicle, nella Laconia. Suo padre l’aveva fatto educare con molta cura, cosicchè il giovanetto Giacinto, versato nelle scienze e nelle arti, fu ritenuto come favorito di Apollo e delle Muse. La tradizione mitologica ripete a proposito di lui un fatto altrettanto doloroso per quanto poetico.
Giacinto era così passionatamente amato da Apollo, che questi abbandonò sovente la sua celeste dimora per seguirlo da per ogni dove, e star sempre in sua compagnia. Un giorno stabilirono di giuocare insieme al disco, e spogliatisi si unsero scambievolmente il corpo con olio profumato ; e quindi cominciarono il giuoco. Apollo essendo il primo a lanciare il suo disco, lo spinse così forte e con tanta destrezza, che quasi si nascose fra le nubi. Nel momento che con tutta la forza di gravità ricadeva sulla terra, Giacinto trasportato dall’ardore del giuoco corse per raccoglierlo, ma sventuralamente non fu in tempo a riceverlo nelle mani e colpito invece sulla fronte si ricopri all’istante di un pallore mortale. Apollo raccolse fra le sue braccia il giovanetto morente ; osservò la ferita ; v’applicò le erbe più salutifere ; lavò con l’acqua della fonte vicina quelle care sembianze ; ma tutto fu indarno, perchè poco dopo il giovanetto Giacinto esalò l’estremo sospiro, curvando a somiglianza d’un bel fiore, la sua pallida e nobile testa, sul seno di quel dio di cui era stato l’amico. Apollo pazzo di dolore, e rimproverando a se stesso la morte dell’amato giovanetto, volle eternare la memoria di lui e lo cangiò in quel fiore che porta anche oggli lo stesso nome. Infatti dal sangue del morto spuntò un fiore del color della porpora, sulle cui foglie era impresso un doppio Ahi !
Voce che anche oggidì esprime il dolore.non è più sangueQuel che sparso pur ora, avea dipintoIl suolo erboso. Spunta un flor che vinceDi splendore la porpora di Tiro.Che tien de’gigli non diversa forma :Se non che questi argenteo hanno colore.Purpureo l’altro. Nè ciò basta a Febo ;{p. 211}(Tanto l’amico d’onorar gli piacque !)Che nelle foglie i suoi lamenti imprime :E doppio. ua Ai nel fior trovassi scritto,E fur di lutto quelle note emblema :Ovidio — Metamorf : Libro X Fav V trad. del Cav. Ermolao Federico
È questa almeno la tradizione più generalizzata e più nota sul giovanetto Giacinto, ma non è la sola, imperocchè alcune altre cronache dell’antichità ripetono, che Giacinto fosse in pari tempo amato da Apollo e da Borea ; e che quest’ultimo vedendo di mal’occhio la preferenza che il giovane accordava a Febo, avesse per vendicarsi lasciato cadere il disco sulla fronte di Giacinto e gli avesse così cagionata la morte.
2116. Giacra. — Secondo riferisce Esiodo, era questo il nome di una delle tante ninfe Nereidi.
2117. Gialemo. — I greci davano codesto nome al dio che presiedeva tutte le cerimonie funebri in generale, e le esequie in particolare. Coll’andare del tempo si dette l’istesso nome di Gialemo alle canzoni che si cantavano ai funerali. V. Nenie.
2118. Gialmeno o Ialmeno. — Figlio della bella Astioche e del dio Marte. Fu uno degli eroi che più si distinse all’assedio di Troja, ove insieme ad Ascalafo comandava i Beozi di Orcomeno. V. Astioche e Ascalafo.
2119. Giamidi. — In Grecia vissero due famiglie, una detta de’Giamidi, e l’altra dei Clitidi, alle quali era devoluto, per diritto ereditario, di servire alle funzioni degli Auguri.
2120. Giana. — Era questo il primitivo nome della dea Iana, detta poi per uso abituale Diana.
2121. Giane. — V. Giano.
2122. Gianessa. — Un’altra delle ninfe Nereidi.
2123. Gianicolo. — Fra i setto colli di Roma, si chiamava così quello dedicato a Giano, perchè egli vi aveva la sua abituale dimora. Al dire di Ovidio, coll’andare degli anni s’innalzò un altare nell’istesso luogo ove sorgeva la casa di Giano.
Era mia residenza il vicin colle.Che dal min nome quest’età devotaGianicolo fin qui nominar volle.Io qui regnai finchè alla terra ignotaSendo la colpa ria. di numi, i qualiMisti qua e là soffria, non restò vota.Ovidio — I Fasti — Libro I. trad. di Giovan Batista Bianghi
2124. Gianira. — Nome di una ninfa Oceanide e di una Nereide.
2125. Giano o Giane — Il più antico fra i re dell’Italia ; era originario della Grecia e propriamente della città di Perebo, o secondo altre opinioni, di Atene.
Un’antica tradizione narra, che Creusa, figlia di Eretteo re di Atene, avesse innamorato della sua stupenda bellezza il dio Apollo, il quale la sorprese, e ne ebbe un figlio, che fece nudrire ed educare in Delfo — Eretteo intanto, inconsapevole della tresca della figliuola, la dette in moglie a Xifeo, il quale però non potendo, dopo qualche tempo aver prole, pensò di consultare l’oracolo, onde essere indicato il mezzo di averne.
L’oracolo rispose, che avrebbe dovuto adottare il primo fanciullo, nel quale si fosse imbattuto l’indomani
In fatti Xifeo il giorno seguente a quello in cui l’oracolo aveva dato siffatto responso, s’imbattè per via in un fanciullo chiamato Giano, che era appunto il figliuolo che Creuse aveva avuto dai suoi amori con Apollo, e lo adottò. Giano divenuto adulto, dotato di un animo intraprendente ed ardito, si pose alla testa di un forte stuolo di suoi seguaci, corredò una flottiglia, approdò in Italia ove fece delle conquiste, e fabbricò una città detta da lui Gianicola. La tradizione favolosa stabilisce un parallelo cronologico frala edificazione della città Gianicola, e la cacciata di Saturno dal cielo per opera di Giove ; e ripete che Giano accogliesse amorevolmente Saturno, e lo associasse al suo regno. Da ciò la prima interpretazione data ai due visi, coi quali si è fin dai più remoti tempi rappresentato Giano, per dinotare che la potenza reale era divisa fra questi due principi e che essi tenevano a vicenda le redini del loro governo.
È detto ancora, che Saturno, per mostrarsi riconoscente della reale ospitanza, avesse dotato Giano di una rara prudenza, e lo avesse rivestito del doppio donativo di ricordare il passato, e di saper l’avvenire. Questa è un’altra congiuntura che dà interpretazione alle due simboliche facce di Giano, dicendo che con una di esse guardava il passato, e con l’altra leggeva nell’avvenire.
Numa Pompilio che fu il secondo e il più saggio dei re di Roma, fece innalzare un tempio a Saturno come dio della Pace, considerando che il regno di questo dio non era stato turbato da alcuna guerra. Coll’andare degli anni questo tempio divenne quello di Giano, e fu tenuto aperto in tempo di guerra e chiuso in pace.
{p. 212}Al dire di Ovidio, Giano era ritenuto anche dagli antichi come il Caos.
La prisca età (che cosa antica io sono)Diemmi il nome di Caos : osserva un pocoDi quanto antichi fatti io qui ragiono.Ovidio — I Fasti — Libro I. trad. di Giambattista Blanchi.
Gli venivano del paro attribuite due facce, alludendo al potere che egli aveva sul cielo e sulla terra ; ritenendosi che egli avesse in custodia la vasta estenzione dell’universo.
Allor io, ch’era un globo e mole informe,Di volto e membra presi altra struttura.E nuove a un nume più decenti forme.Ritengo della già mista figuraUn picciol segno ancora, e quel ch’è avanteE dietro a me, sembra di ugual natura.Ovidio — I Fasti — Libro I. trad. di G. B. Bianchi.
Nelle cerimonie del culto di Giano, gli si facevano dei sacrifizi, in cui gli veniva offerto del farro misto al sale, e del pane condito di mele. Moltiplici erano i nomi e i soprannomi di lui ; e si ritrova sovente nelle cronache dell’antichità, sotto la denominazione di Giunonio, Quirino, Palulejo o Palulcioe Clusivio o Clusio.
Quindi Giano mi chiamo, il quale alloraChe col farro al sal misto, e pan melatoPosto sull’ara il sacerdote onora :Rideresti a’miei nomi : che or mi è dato.Quel di Clusio da lui che il sacrifizioCompie, e talor Patulcio io son chiamato.Ovidio — I Fasti — Libro I. trad. di G. B. Bianchi.
Al dire di Macrobio, i pagani invocavano il dio Giano in tutti i loro sacrifizi, ritenendo per fermo che egli fosse stato il primo ad istituire i sacri riti della loro religione, e a fabbricare i templi.
Plutarco, nelle sue Quistioni Romane, asserisce esser due le ragioni per le quali Giano veniva raffigurato con due facce. Una ritenendo che Giano avesse insegnato agl’italiani l’agricoltura, contribuendo per tal modo largamente alla loro civilizzazione : e l’altra perchè Giano essendo greco d’origine, e propriamente nativo della città di Perebo, fosse venuto a stabilirsi in Italia, ove si dette ad incivilire quel popolo da principio barbaro ed incolto.
Estesissimo ora in Roma il numero dei templi consacrati a Giano, sotto le due denominazioni di Giano Bifronte, e di Giano Quadrifronte, venendogli attribuite due facce e talvolta anche quattro. Questi templi ven’ivano detti col nome collettivo Giani e quelli di Giano Quadrifronte avevano una porta e tre finestre sopra ognuna delle loro facciate, le quali indicavano le quattro stagioni dell’anno, mentre le tre finestre che si aprivano sopra ognuno dei quattro lati, indicavano i tre mesi d’ogni stagione, formanti insieme i dodici mesi dell’anno.
Varrone riferisce a questo proposito, che in Roma vi erano dodici altari consacrati a Giano, indicanti ognuno un mese dell’anno ; ed ed ifificati al di là della porta Gianicola fuori le mura di Roma.
2126. Giante. — Figliuola di Teleste e rinomata per la sua bellezza. Un’antica tradizione ripele, che ella fu tolta in moglie da un giovane per nome Ifi o Ifide che si cangiò in uomo lo stesso giorno delle nozze. — V. Ifi.
Tra le festiadi vergini costeiAndò famosa per beltade egregia.E dal Dittéo Teleste ebbe i natali.Ovidio — Metamorf. — Libro IX Favola X, trad. del Cav. ermolao federico.
Giante era similmente il nome di una delle ninfe Nereidi.
2127. Gianuale. — Festa in onore di Giano, che i romani celebravano il primo dell’anno, con tutti i contrassegni della più pazza allegria. Era loro costume offerire in quel giorno a Giano delle ceste di datteri, di fichi e di miele, ritenendo la dolcezza di queste frutta, come simbolo della felicità, di cui avrebbero goduto in tutto il corso dell’anno.
Gianuale era similmente il nome di una delle porte di Roma, la stessa alla quale si dava da principio la denominazione di Viminale, cangiata poscia in quella di Gianuale, in occazione di un preteso miracolo operato dal dio Giano.
Narra la cronaca alla quale si attengono Macrobio ed Ovidio stesso, che allorquando i Sabini cinsero d’assedio le mura di Roma, avevano già attaccata la porta che è sotto al monte Viminale, la quale i romani avevano ben chiusa all’avvicinarsi del nemico. Immantinenti però la porta si apri ad un tratto per tre volte di seguito, senza che i ripetuti sforzi fatti dai romani per rinchiuderla, andassero coronati di successo. E ciò, secondo riferisce Ovidio, avveniva per volontà di Giunone, la quale per gelosia contro i romani aveva tolto i ganci e abbattuti i chiavistelli, e infrante le toppe, che assicuravano quella poria.
Colpiti i sabini da siffatto prodigio si {p. 213}precipitarono per penetrare nella città, di cui si sarebbero certamente impadroniti, se Giano, protettore dei romani, non avesse in quell’istesso momento fatto scaturiré dal suo tempio, una larga sorgente di acqua bollente, che travolse nei suoi gorghi gl’irrompenti nemici e gli fece tutti morire soffocati.
Ella i Sabin già fatti avea veuireAlla porta, la qual punta da i morsiD’invidia, Giuno accorsa era ad aprire.Lo, perchè un troppo osar saria l’opporsiA si gran diva con aperta guerra.Alle usate arti mie scaltro ricorsi.Coll’alto suo poter mia man disserraDelle fonti le bocche, e larghi fiumiVersa improvviso ad innondar la terra.Ovidio — I Fasti — Libro I. trad. di G. B. Bianchi.
Da ciò il senato decretava che le portedel tempio di Giano fossero aperte in tempo di guerra, quasi a lasciare libero il passo al dio protettore di Roma, di venire novellamenle in soccorso della sua città, tutte le volte che ne avesse avuto bisogno.
2128. Giapeto. — Gigante figliuolo di Urano e fratello di Saturno. Fu uno dei Titani che mossero guerra a Giove, e dettero la scalata al cielo. Diodoro lo fa marito della ninfa Asia, e padre di un figliuolo per nome Vespero, o più comunemente Espero ; mentre Esiodo riferisce aver Giapeto tolta in moglie la bella Climene, figliuola dell’Oceano, da cui ebbe quattro figliuoli : Prometeo, Menezio, Epimeteo ed Atlante. I grecî riconoscevano Giapeto come capo della loro schiatta, e ritenevano non esservi cosa più antica di lui. Da ciò l’uso tradizionale, presso quel popolo di dare il nome collettivo di Giapeti ai vecchi decrepiti.
È opinione forse non infondata ai vari scrittori dell’antichità, che il Giapeto della mitologia pagana sia lo stesso che lafet, figliuolo di Noè.
2129. Giapi. — Figlio di laso. Ancor giovanetto, a somiglianza di Giacinto fu amato da Apollo, il quale gli offerse tutti i suoi doni : vale a dire il suo arco, le sue freccie ; la sua lira, e perfino l’arte di predir l’avvenire. Ma Giapi ricusò tutti gli altri splendidi donativi, di che l’amore di un dio lo faceva signore, e pregò solo Apollo d’insegnargli la maniera di guarire le malattie, per mezzo della conoscenza dell’erbe e delle piante : e ciò egli fece per prolungare l’esistenza del suo amatissimo genitore già vecchio ed infermo.
Comparso intanto era a la cura lapiD’Iaso il figilo, sovr’ogni altro amatoDa Febo. E Febo stesso, allor ch’accesoEra da l’amor suo, la cetra e l’arcoE ’I vaticinio, e qual de l’arti suePiù gli aggradasse, a sua scella gli offerse.Ei che del vecchio infermo e già caducoSuo padre la salute e gli anni amava.Saper de l’erbe la possanza, e l’usoDi medicare clesse, e senza linguaE senza lode e del futuro ignaroMostrarsi in pria, che non ritorre a morteChi gli diè vita.Virgilio — Eneide — Libro XII. trad. di A.Caro.
2130. Giara. — Una delle isole Cicladi. Narra un’antica tradizione che l’isola di Delo fosse stata lungo tempo fluttuante sulla superficie delle acque, finchè Apollo l’avesse resa immobile fissandola, con due catene, una attaccata all’isola di Micona, e l’altra a quella di Giara.
Ma fatta di Latona e de’suoi figliRicetto un tempo, dal pietoso arcieroTra Gïara e Micon fu stretta in guisa.Che immota e colta e consacrata a luiEbbe poi le tempeste e i venti a scherno.Virgilio — Eneide — Libro VI. trad. di A. Caro.
2131. Giarba. — Figliuola di Giove Ammone e di Garamantide una delle ninfe Napee, fu re di Getulja. La tradizione narra che egli avesse fatto nei suoi stati innalzare in onore del dio, suo padre, cento templi, sulle cui cento are si sagrificavano ogni giorno delle vittime a Giove. Giarba innammoratosi della regina Didone allorquando essa costruiva la città di Cartagine, voleva ad ogni costo sposarla ; ma Didone invaghita di Enea, respinse le offerte di Giarba, il quale dichiarò la guerra ai cartaginesi. La morte però della sventurata regina, troncò d’un colpo le speranze di Giarba e pose fine alla guerra.
Era d’Ammoue,E de la Garamantide Napea,Già rapita da lui, questo re nato.Onde a Giove suo padre entro a’suoi regniCento gran tempi e cento pingui altariAvea sacrati, e di continui fochiMantenendo a gli Dei vigilie eterne.Di vittime, di fiori e di ghiriandeGli tenea sempre riveriti e colti.Virgilio — Eneide — Libro IV. trad. di A. Caro.
{p. 214}2132. Giardano. — Re della Lidia. È ricordato nella tradizione mitologica, come padre di quella giovanetta Jole, che fu così appassionatamente amata da Ercole — V.jole.
2133. Glardini. — Presso i pagani quattro erano le principali divinità che presiedevano alla cultura dei Giardini, cioè Priapo, Flora, Pomona e Vertunno.
Fra le sette meraviglie del mondo antico, andavano annoverati i giardini pensili di Babilonia, tanto famosi fra i greci — V. Meraviglie Del, Mondo.
2134. Giaside. — Una delle ninfe Jonidi — V. jonidi.
2135. Giasione. — La tradizione mitologica lo fa figliuolo di Giove e di Elettra, una delle ninfe Atlantidi. È detto che Giasione sposasse Cibele, da cui ebbe un figliuolo per nome Coribante. Siccome Giasione perfeziono di molte l’agricoltura, di cui Cerere era la dea, così la tradizione favolosa, narra che egli fosse divenuto amante di Cerere e che avendola voluta tentare nel pudore fosse stato colpito da un fulmine.
Il cronista Igino asserisce invece, che Giasione sposò legittimamente Cerere, da cui ebbe un figliuolo che fu Plutone dio delle ricchezze ; volendo con ciò alludere all’agricoltura che è fonte di ricchezza per quelli che lavorano la terra.
Dopo la morte, Giasione fu posto nel numero degli dei non solo come figlio di Giove, ma anche per aver contratto nozze con due dee.
2136. Giaso. — Figliuolo di Epione e di Esculapio. Presiedeva alle malattie, come sua sorella Ifica alla buona salute.
2137. Giasone. — Fu figlio di Alcimeda e di Esone, re di Jolco. Narra la tradizione, che avendo l’oracolo predetto a Pelia, zio di Giasone ed usurpatore del trono, che sarebbe stato alla sua volta spogliato, da un principe degli Eolidi, del potere che aveva usurpato, Pelia perseguitò il piccolo Giasone fin dalla culla, cercando tutti i mezzi di farlo morire. Ma Esone, spinto dalla forza dell’amore paterno, per sottrarre il figlio alle persecuzioni dell’usurpatore, fece sparger voce che il bambino fosse morto, pochi mesi dopo la sua nascita ; e ad avvalorare la pietosa menzogna fece tutti gli apparecchi dei funerali ; mentre con gran segretezza confidò il piccolo Giasone alla madre Alcimeda, la quale lo portò sul monte Pelio, el o affidò alle cure di Chirone, il più saggio uomo dei suoi tempi. Questi prese cura dell’educazione di lui, e divenuto adulto gl’insegnò le scienze, e sopratutto la medicina, ciò che al dire di vari scrittori, valse algiovanetto principe il nome di Giasone, invece di quello di Diomede, che dapprima gli era stato imposto.
Giunto Giasone all’età di venti anni, e sospinto dalla sua indole avventurosa ed ardita, e mal sofferendo di rimanere ancora nascosto nell’ombra e nel silenzio del suo ignorato ritiro ; mosse a consultare l’oracolo, onde sapere i destini che lo attendevano. La fatidica voce rispose che egli avesse dovuto rivestirsi, come il suo maestro Chirone, di una pelle di leopardo ; armarsi di due lance ; e recar si in tal modo a Jolco, onde pretendere dall’usurprtore Pelia, la restituzione di quel diadema che era paterno ed esclusivo retaggio del giovanetto. Giasone seguì alla lettera quanto gli veniva imposto dalla volontà degli dei, e lo stesso giorno si mise in cammino per alla volta di Jolco. Strada facendo giunse in vicinanza del fiume Anauro, o secondo altri Anavo, ma non potette guatarlo, a causa dello straripamento delle sue onde ; ond’egli rimase in forze su quanto gli restava a fare, senonchè una vecchia apparsagli improvvisamente, si offerse di tragittarlo all’altra sponda sulle proprie spalle. Giasone accettò l’offerta della vegliarda, e per siffatta maniera traversò l’Anauro, e giunse all’altra sponda, non avendo a lamentare altro accidente, se non che la perdita di una scarpa, caduta nel fiume mentr’egli lo traghettava sulle spalle della canuta portatrice. Questa congiuntura però della perdita di un oggetto tanto insignificante, aveva, secondo riferisce Diodoro, un grave peso, nei destini futuri dell’eroe giovanetto ; imperocchè l’oracolo stesso che aveva predetto a Pelia, che un principe discendente della stirpe degli Eolidi, lo avrebbe un giorno spogliato della mal conquistata corona, aveva anche soggiunto che egli avesse dovuto guardarsi da un uomo che gli sarebbe venuto incontro con un piede ignudo e con l’altro calzato.
Arrivato Giasone nella città di Jolco, attrasse dapprima tutti gli sguardi per la sua strana vestitura ; e la sua nobile e bella persona, la fierezza che traspariva nei suoi atti, la disinvolta eleganza dei suoi movimenti, impressi di reale maestà.
Forte di braccio, d’allo cor, di umaniDolci costumi, d’avvenente aspetto,In Colco eroe.della valle — Medea — tragedia Alto 2. Scena III.
tutto cio valse a conciliargli le simpatie degli abitanti di Jolco, ai quali era già in odio il ferreo giogo dell’usurpatore.
Intanto Giasone si avviò alla reggia e fattosi riconoscere da Pelia come figliuolo di Esone, dimandò lealmente allo zio, gli rendesse il retaggio paterno, e gli restituisse l’usurpata {p. 215}corona. Ma Pelia, astuto per quanto perverso, avendo osservato l’interesse che il popolo prendeva a favore del giovanetto, e sapendosi odiato, cercò di eludere le incalzanti dimande di lui, e gli propose, onde allontanarlo da Jolco, una gloriosa e pericolosissima spedizione. L’astuto vecchio persuase Giasone a muovere alla volta della lontana e barbara Colchide, onde impadronirsi del famoso ariete dal vello d’oro, e portarlo in Grecia. Esaltato Giasone dalle accorte parole ; inebriato di gloia all’idea della gloria di cui avrebbe ricoperto il proprio nome ; spinto da quel desiderio di avventure onde sentiva fremersi in petto il core baldo e giovanile, condiscese facilmente alla volontà di Pelia, tanto più che questi gli promise formalmente che al suo ritorno dalla gloriosa spedizione della Colchide, lo avrebbe pubblicamente assunto al trono di sua spettanza, e del quale gli avrebbe fatta piena restituzione. Giasone era in quella età in cui si cerca avidamente la gloria ; in cui lo splendido fantasma della rinomanza, fa battere di precipitosi palpiti un cuore, appena quadrilustro ; e quindi non è strano che fece, con ogni sollecitudine, spargere per tutta la Grecia la nuova della prossima sua spedizione, ed ebbe la gioia di vedere che il fiore della nobiltà e della cittadinanza greca, s’affrettava a correre a Jolco, onde accompagnare l’eroe giovanetto attraverso il glorioso cammino che si riprometteva di percorrere.
Giasone, compiuti i preparativi del viaggio, riunì tutti coloro che erano accorsi per dividere con lui gloria e periglio, e ordinò un solenne sacrifizio a Giove, come stipite divino della sua stirpe, e a tutte quelle divinità di cui voleva guadagnarsi il favore come proteitrici della sua intrapresa.
Voce di tuono dall’eterno empiroFausta rispose ai caldi preghi e santi.E dalla nube romorosa usciroLucidissimi raggi folgoranti :pindaro — Odi Pitie — Ode IV trad. di G. borghi.
Fu questa l’origine della famosa spedizione conosciuta nelle cronache, sotto il nome di spedizione degli Argonauti, la quale ebbe per scopo di andar nella Colchide, onde rapire ad Aete, re di quella contrada, il montone dal Vello d’oro, che Frisso vi aveva lasciato, — V. frisso — e che veniva custodito da un enorme ed orrendo drago, e da due tori furiosi che vomitavano flamme e fumo dalla bocca.
Le tradizioni mitologiche aggiungono, a questo proposito, che perfino gli dei avessero preso interesse alla perigliora intrapresa di Giasone ; e tanto che giunse felicemente al Porto Pegaso, da cui fece partire la nave e con prospero vento, fu condotto in Lenno, dove essendo quell’isola governata da donne sole, le quali sprezzando l’imperio dei mariti gli avevano tutti ammazzati e regnando Isifile già figliuola del re Toante, Giasone avendo insieme con i compagni vinto quelle, fu da Isifile amato, ma egli in seguito l’abbandonò, lasciandola incinta.
Quelli è Jason, che per cuore e per seunoLi Colchi del monton privati feneEgli passò per l’isola di Lenno.Poi che le ardite femmine spietateTutti li maschi loro a morte dienno.Ivi con segni e con parole ornateIsifale ingannò, la giovinetta.Che prima l’altre avea tutte ingannate.Lasciolla quivi gravida e soletta :Tal colpa à tal martirio lui condanna :Ed anche di Medea si fa vendetta.Dante — Inferno — Canto XVIII.
Minerva e Giunone stessa, sempre per proteggerlo, convennero fra di loro di fare che Medea, figlia di Aete, si fosse innamorata di Giasone, ond’ella che era già, sebbene giovanetta, una famosa maga, avesse potuto sottrarre coi suoi incantesimi Giasone, ai molti pericoli che lo circondavano. Alcune altre cronache aggiungono ancora che Medea, essendosi incontrata con Giasone presso il tempio di Ecate, la quale entrambi erano andali ad impiorare, colpita dalla bellezza di Giasone, e attratta da un sentimento di irresistibile simpatia, gli avesse promesso ogni soccorso quante volte le avesse giurata la fede.
Un giorno approda all’aspra mia contradaGiovin cercante sotto stranio cieloQuel che cercau gli eroi, gloria e periglio.Chiede del padre mio ! M’appar !.. Me misera :Crudeli Dei ! Venere inesorata !Al primo sguardo suo, pria d’ogni accento.Restal stupida e muta. Errano a casoLe vaganti pupille. Entro mi rodeAspra smania ; vien men, Vinta, la salma…Soffro ! Ei parla !… E di subito a torrentiDentro mi scorre del gioir la piena.Come un Nume in delirio m’avvolgesse.Il labbro ribellante a mio volereGli sorridea ; e stavan le pupilleAl suo votto confitte accesamente :Aspiro ! Guardo ! Ascolto ! Amo !legouvé — Medea — tragedia Atto I Scena VI. Trad. di G. montanelli
{p. 216}Giasone acconsentì facilmente alle richieste della giovanetta, e dopo reciproci giuramenti, Medea fece sollecitamente ritorno alla reggia, onde porre in opera quant’era necessaria a secondare le vedute del suo amante.
Aete aveva imposto a Giasone alcune condizioni che egli riteneva insormontabili ; e quasi a farsi giuoco dell’audacia del giovane eroe, aveva prescritto che per avere il possesso del vello d’oro, avesse dovuto in un sol giorno, prima aggiogare i due tori, i quali avevano i piedi e le corna di bronzo, e che erano un dono del dio Vulcano : quindi attaccarli ad un aratro di diamante, e dissodare con esso quattro jugeri di terreno di un campo consacrato a Marte, e non mai lavorato ; che quindi avesse dovuto in quei solchi seminare i denti di un drago, dai quali sarebbero nati altrettanti guerrieri, che bisognava uccider tutti l’unn dopo l’altro, senza che ne fosse rimasto uno solo ; e che finalmente, a coronare la difficile e pericolosissima impresa, bisognava combattere ed uccidere il dragone mostruoso che vegliava del continuo alla difesa del prezioso deposito.
Giasone sicuro dell’appoggio di Medea, e protetto per forza d’amore, dalle arti incantatrici di lei, accettò le immani condizioni ; e il giorno dopo si radunarono tutti gli Argonauti da una parte, e il re con gran seguito di cortigiani e di sudditi dall’altra, nel campo consacrato a Marte, fuori le porte di Colco, onde assistere alle differenti ed ardue prove che il giovanetto eroe si accingeva ad affrontare. In fatti furono da prima lasciati i due terribili tori, la cui sola vista fece fremere di orrore gli spettatori, ma che non valse ad intimorire l’eroico coraggio di Giasone, il quale si accostò ad essi, e dopo averli carezzati, li aggiogò, arò con essi il terreno, seminò in quei solchi i denti di un drago, e poscia lanciò nel mezzo di un numeroso stuolo di guerrieri, che come per incanto sursero da quelli, una grossa pietra, onde essi ciechi di furore, vennero alle mani fra loro, e si distrussero gli uni cogli altri. Compiuta questa prima parte della sua colossale impresa, Giasone si reco là dove era rinchiuso il famoso ariete dal vello d’oro, alla cui custodia vegliava notte e giorno lo spaventevole dragone ; e appena giunto si accostò alla terribile fiera, l’addormentò con una bevanda incantata, preparata da Medea stessa, e profittando del souno del terribile nemico, lo uccise, s’impadroni del prezioso vello, e quindi, presa con sè Medea, s’imbarcò coi suoi compagni per alla volta della Grecia.
Ritornato a Joico si presentò a Pelia, onde pretendere da lui la restituzione del trono paterno, che ora gli era doppiamente dovuto, sia per essere suo retaggio, sia per gli enormi pericoli che aveva dovuto affrontare onde riconquistarlo. Ma Pelia trovò mezzo di traccheggiare il giovane ancora per qualche tempo, finchè Medea, mal soffrendo di vedere il marito fatto giuoco dell’astuto vegliardo, persuase a questo d’aver mezzo di ringiovanirlo, e indusse le proprie figliuole del re, ad uccidere il genitore, persuadendole che lo avreb bero visto rinascere giovane e rigoglioso.
Però l’uccisione di Pelia non valse a Giasone il possesso dell’ambito soglio paterno, imperocchè, Acasto, figliuolo primogenito dell’ucciso, s’impossessò della sanguinosa corona e costrinse Giasone ad abbandonar la Tessaglia e a ritrarsi a Corinto, in compagnia della sua inseparabile Medea, avvinta ora indissolubilmente a lui dall’amore. dalla colpa, e dal delitto, imperocchè ella acciecata dalla funesta passione inspiratale dall’eroe greco, fuggendo con lui, e col rapito tesoro, uccise di propria mano il fratello Absirto, e ne lasciò sulla via la spoglia ancor palpitante, onde arrestare il padre, che accortosi della fuga di lei, la inseguiva.
Sopra il moi carro i figli io traggo.Medea sull’altro rol fratel mi sogneMa, oh Ciel, hentosio il furihondo AetaCi apparisce alle spalle ; e si c’insegne.E si c’incalza, che parea perdutaOgni speme per noi — Furente allora.Fremo in ridirlo. allor Medea furenteSpegne…. Il germano….. e sulla via ne lasciaLa spoglia palpitante… inciampo…. al padre.della valle — Medea — tragedia Atto I Scena III.
Giunti a Corinto, vissero in quella città per lo spazio di dieci anni, secondo le cronache dell’antichità : nella più perfetta concordia, ma al compiere di questo periodo di tempo, Giasone ponendo in non cale gl’immensi obblighi da lui contratti verso Medea ; e calpestando le promesse ed i giuramenti, la ripudiò per sposare Creusa, figlia di Creonte, re di Corinto, alla quale in effetti si unì senza tener conto delle disperate lagrime della tradita. Ma Medea si vendicò atrocemente dell’infame suo seduttore ; e la sanguinosa rappresaglia segui ben presto la non meno crudele ingiuria ; imperocchè la rivale Creusa, il resuo padre, e per fino i due figliuoli di Medea che ella uccise di propria mano, furono le ostie cruenti della terribile vendetta di lei ; la quale compiuta appena quell’opera di sangue, montò, secondo la tradizione favolosa, in un carro tirato da due dragoni alati, e si dileguò fra le nubi in mezzo allo scrosciare delle folgori.
{p. 217}Giasone dopo la sparizione di Medea e la morte di Creonte re di Corinto, visse vita errante e vagabonda. Al dire di Euripide, una predizione che Medea stessa gli aveva fatta, che, cioè egli sarebbe morto sotto gli avanzi della nave degli Argonauti, sì compì qualche anno dopo, imperocchè riposando un giorno sulla spiaggia del mare, all’ombra di quella nave già tirata a secco, una grossa trave cadde dalla tolda del vascello e fraccassò il cranio del dormente.
Giasone dopo la morte fu venerato come un dio, e gli furono innalzati gran numero di monumenti e di statue.
2138. Gehud o Jehud. — Così aveva nome, secondo il cronista Porfirio, un figliuolo di Saturno e della ninfa Anobret. Secondo il citato scrittore, durante il regno di Saturno, questi ebbe da Anobret un figliuolo al quale pose il nome di Gehud, per essere unico. Avendo dovuto Saturno sostenere una sanguinosa battaglie, fece rivestire l’unico figliuolo cogli ornamenti reali, e poscia lo sacrificò su di un altare.
Forse da questa tradizione dell’antichità mitologica, emerge il simbolo allegorico di Saturno, che divora i propri figliuoli.
Notino i nostri lettori quanta affinità esista fra l’allegoria mitologica di questo Gehud favoloso ; e la bibblica figura del patriarca Abramo che al cenno di Jehova si accinge ad offrire in olocausto, Isacco suo figliuolo.
2139. Glera. — Una delle isole Vulcanie, note oggidì sotto il nome di Lipari, aveva codesto nome presso i pagani, i quali ritenevano che in questa isola, Vulcano avesse una delle sue fucine.
Giera era anche il nome di una delle Nereidi.
2140. Gierace. — Così aveva nome un giovane che, secondo narra la tradizione, Mercurio cangiò in sparviere, sdegnato che egli avesse col suono del suo flauto rotto il sonno di Argo, al momento istesso che Mercurio si accingeva a rapirgli la ninfa Io, che Argo aveva in custodia. Non potendo a causa della negligenza di Gierace liberare la ninfa, Mercurio uccise Argo, e cangiò Gierace in sparviero. La parola Gierace viene dal greco ιεραξ che vuol dire sparviere.
2141. Gieracuboschi. — Nome che si dava in Egitto a quei sacerdoti, i quali avevano l’incarico di nudrire gli sparvieri consacrati ad Apollo, ossia al Sole.
2142. Gierococerici. — V. cerici.
2143. Gierocoraci. — Dalle due parole greche ιεπος sacro, e ϰεραξ corvo, si dava questo nome ai ministri o sacerdoti del dio Mitrà, perchè essi avevano il costume di rivestirsi con abiti che figuravano quegli animali, di cui portavano il nome.
2144. Gleroglifici. — Così furono chiamati fino dai più remoti tempi dell’antichità quei segni o caratteri di cui particolarmente si servirono gli Egiziani ed i Caldei, per esprimere senza parlare i loro pensieri. La parola Gieroglifici deriva da due vocaboli greci ιερος, γλυφω che suonano scolpisco, perchè gli Egiziani quando cominciarono a servirsi di questo mezzo per comunicarsi le loro idee senza parlare, cominciarono, per disegnare e scolpire diverse figure di animali, di pietre, di piante, di strumenti, e più sovente ancora delle differenti membra del corpo umano. Queste ultime anzi furono le figure più sovente ripetute dai Gieroglifici, non solo per le diverse attitudini ed usi delle differenti membra del corpo dell’uomo ; quanto per la moltiplicità di esse. Il senso configurato, e l’allegoria simbolica che forma il sostrato principale della mitologia pagana aveva in questa specie di scrittura un largo campo di configurazioni e di forme esprimenti l’idea principale a cui gli antichi egiziani volevano far servire i diversi Gieroglifici, che adoperavano per rendere un’idea ; così per esempio, per allontanare la folla dalla casa di un ministro o di un pubblico funzionario, gli egiziani costumavano di disegnare sulla porta dell’abitazione di quello, varii Gieroglifici i quali formavano insieme la figura di un vecchio che aveva un dito alla bocca e gli occhi bassi, come persona raccolta nei suoi pensieri. Sulle mura dei templi, e più segnatamente sulla facciata principale, venivano disegnati vari occhi e varie orecchie umane, per dimostrare che nulla sfugge agli dei e che essi veggono e sentono ogni cosa.
Nè solamente a questi usi destinarono i primi egiziani le figure Gieroglifiche, ma se ne servirono ancora per comporre dei discorsi interi. Al dire di Clemente Alessandrino, si vedeva sulla porta maggiore di un tempio, nella città di Diospoli in Egitto, una specie di lapide i cui Gieroglifici formavano un’intera frase, dice il citato scrittore che da una parte si vedeva effigiato un bambino, simbolo delle vita ; un vecchio, simbolo della morte ; un pesce, simbolo dell’odio ; e finalmente un avvoltojo che raffigurava l’idea della divinità. Dall’altra parte si vedeva un grosso coccodrillo, come simbolo dell’impudicizia e della temerità. Tutte queste figure, secondo che riferisce il suddetto cronista, significavano un’intera frase la quale tradotta nel nostro idioma comprenderebbe in sè la seguente idea : O voi che nascete e morite, riflettete che la divinità odia coloro che sono impuri, sfacciati e temerarii.
2145. Gierofanti. — Sacerdoti consacrati a Cibele, e secondo altri ad Ecate. Essi {p. 218}Vano ad un ordine distinto fra i ministri del culto religioso di Atene, ed erano destinati particolarmente all’insegnamento dei novizi per tutto ciò che riguardava i misteri della loro dea. Essi erano tenuti in grande considerazione. Secondo alcune tradizioni dell’antichità questi sacerdoti erano eunuchi. V. Ati.
2146. Gierofanzie. — Dette anche Gerofantrie, erano queste presso i greci le appellazioni che si davano alle donne dei sacerdoti Gierofanti. Però questa opinione è combattuta da diversi scrittori e mitologi accreditati, imperocchè è scritto in varie cronache dell’antichità, che i Gierofanti avevano fra i loro obblighi quello di vivere nel celibato. Altri scrittori pretendono similmente che ai sacerdoti Gierofanti era inibito solamente il passare a seconde nozze ; e finalmente altri autori dicono che il nome di Gierofanzie si dava ad alcune sacerdotesse similmente consacrati a Cibele od Ecate, le quali avevano i loro riti e le loro incombense pel servigio della dea, completamente diverse e divisi dai Gierofanti.
2147. Glerogrammatei. — Discorde è in generale l’opinione dei cronisti, sull’applicazione di questo nome presso gli egiziani. Taluni pretendono che fossero dei sacerdoti, i quali presiedevano alla spiega dei misteri religiosi, ed alle cerimonie del culto. Altri vogliono invece che quest’appellazione si dava a quei sacerdoti che scrivevano i geroglifici sacri, e ne davano la spiegazione al popolo ; come facevano di tutta la dottrina della loro religione. Finalmente altri, ed il cronista Suida fra questi ultimi, asseriscono che il nome di Gierogrammatei si dava agli indovini, che si servivano delle cognizioni astronomiche per spiegare i gieroglitici e che erano tenuti in somma considerazione.
2148. Gieroscopia. — Sorta di divinazione che si faceva dal riflettere e ricordare tutto quanto avveniva durante le cerimonie dei sacrifizi ; notando le più leggiere congiunture, come le cose più gravi. La parola Gieromanzia deriva da due vocaboli greci ἱερος, σϰοπεα che significano considero.
2149. Giganti. — Era questa la denominazione generale che si dava a quegli esseri favolosi che mossero guerra a Giove. Per quanto moltiplice e svariate sieno le opinioni degli antichi scrittori, su queste fantastiche e soprannaturali personalità della mitologia pagana ; per altrettanto differenti sono le varie opinioni degli autori in generale, sulla nascita dei giganti, e sulle differenti azioni che ne resero famosa la vita. Esiodo li fa nascere dal sangue che grondò dalla ferita di Urano ; mentre Apollodoro, Ovidio ed altri ; ripetono che i Giganti fossero figli della Terra, la quale per vendicare la morte dei suoi figliuoli Titani, sterminati dagli dei, li avesse vomitati dal suo seno, per farli ministri della sua collera.
E come sotto alle lor moli istesseGiacquer sepolti i corpi scellerati,Dal molto sangue de’ suoi figli aspersaChe fatta fosse tiepida la Terra,È fama, e desse vita al caldo sangue :E che quello mutasse in corpi umani,Onde ogni resto della fiera stirpeStrutto non fosse.OVIDIO — Metamorf : Libro I. Fav. IV. trad. del Cav. ERMOLAO FEDERICO.
E qui cade in acconcio di far notare ai nostri lettori, che sehhene vi siano molti autori i quali, nelle loro opere, danno il nome collettivo di Titaui ai Giganti ; non bisogna punto confondere questi con quelli, di cui noi ci occuperemo particolarmente, parlandone allorchè l’ordine alfabetico che noi seguiamo in questa nostra opera, ci porgerà piu propizia occasione a tenerne diffusamente parola.
I Giganti erano di una forza straordinaria, e di una struttura mostruosa, proporzionata alla loro smisurata altezza
Gli vedevam da lunge in su l’arena,Quantunque indarno, minacciosi e torviStender le braccia a noi, le teste al cielo.Concilio orrendo ; che ristretti insiemeErano qual di querce annose a Giove,Di cipressi coniferi a DianaS’ergono i boschi alteramente a l’aura.Vircilio — Eneide — Libro III. trad. di A. Caro.
L’allegoria favolosa e le tradizioni dell’antichità ripetono che ognuno di essi, aveva cento mani e spesso dei serpi invece di gambe. Essi a cui niuna umana potenza resisteva, spinsero il loro orgoglio fino a far guerra agli dei ; e nell’intento di detronizzar Giove, lo assediarono fin nell’Olimpo, e dettero la scalata al cielo, imponendo sulla montagna chiamata Pelio, le alire due dette Ossa ed Olimpo
Ma coraggio no perde la terrestreStirpe, nè par che troppo le ne caglia.Di divelte montagne arman le destre.E fan con rupi e scogli la battaglia.Odonsi cigolar sotto l’alpestrePeso le membra, e ognun fatica e scaglia,Tre volte all’arduo ciel diero la scossa.Sovra Pel o imponendo Olimpo ed Ossa.MontiLa Musogonia — Canto.
{p. 219}e scagliarono contro agli dei enormi massi di pietre, dei quali, secondo la tradizione mitologica, quelli che ricadevano nel mare diventavano isole ; e quelli che piombavano sulla terra formavano altrettante montagne. E fu tale la scossa che questi spaventosi figli della Terra dettero a tutto il creato, che Giove stesso altamente atterrito dagli sforzi sovrumani, chiamò in suo soccorso tutti gli dei ; ma questi spaventati fuggirono chi in questa e chi in quell’altra parte del globo, sotto la figura di animali diversi.
…….. e che sotto mentiteForme si nascondessero gli Dei.E narrò che in marito della greggiaGiove si trasformasse, onde pur ancoSculto il Libico Ammone è con le corna.Delio in un corvo si nascose, il figlioDi semele in un capro, in una gattaLa sorella di Febo, in una biancaVacca Giunone, Venere in un pesce.D’un ibi il Cilleneo sotto le penne.Ovidio — Metamorf : Libro V. Fav. Iv. trad. del Cav. Ermolao Federico.
Un’antica tradizione narra, a questo proposito, che una predizione dell’oracolo aveva profetizzato, che i Giganti sarebbero stati invincibili, e che nessuno degli dei, compreso lo stesso Giove, avrebbe potuto mai sconfiggerli, se un mortale non fosse venuto in ajuto del sommo Gione. Allora fu che Pallade Minerva, vedendo lo scompiglio ed il terrore che aveva invaso tutti gli animi, e ricordando la minacciosa profezia dell’oracolo, persuase a Giove di chiamare Ercole, onde avesse combattuto al suo fianco. Giove seguì il salutare consiglio che le veniva dalla dea della saggezza, ed in fatti, aiutato nella disastrosa battaglia da Ercole, sconfisse i Giganti a colpi di fulmini, precipitandone porzione nel fondo del Tarlaro e seppellendone altri sotto il monte Etna.
I più famosi fra i Giganti furono :
Encelado — V. Encelado — Anteo,
Noi procedemmo più avanti allottaE venimmo ad Anteo, che ben cinq’alle.Senza la testa, uscia fuor della grotta,Dante — Inferno — Canto XXXI
Gige — V. Gige — Briareo,
…… S’esser puote, i vorreiChe dello smisurato BriareoEsperienza avesser gli occhi miel.…………..Quel che tu vuol veder, più là è molto.Ed è legato e fatto come questo,Salvo che più feroce par nel volto.Dante — Inferno — Canto XXXI.
Cotto — V. Briareo — Sterope, Bronte, Piracmone — V. Ciclopi — Polifemo — V. Galatea.
Mostro orrendo, difforme e smisurato,Che avea come una grotta oscura in fronteIn vece d’occhio, e per bastone un pino,Onde i passi fermava.Virgilio — Eneide — Lib. III trad. di A. Caro.
Porfirione, Eurito — V. Eurito — I due Aloidi Oto ed Efialte. — V. Aloidi ed Efialte.
Questo superho voll’esser spertoDi sua potenza contra ’l sommo Giove.Disse ’l mio Duca, ond’egli ha cotal merto,Fialte ha nome ; e fece le gran prove.Quando i giganti fer paura ai Dei :Le braccia ch’ei menò, giammai non muove.Dante — Inferno — Canto XXXI.
Pallante, Agrio, Polibote, Tizio, Graziano ed altri, ed il terribile Tifeo che valse egli solo, al dire di Omero a portar più terrore fra gl’immortali, di quello che non facessero tutti i suoi formidabili compagni riuniti insieme.
E narra che Tifeo dal più profondoDella terra sorgendo, alto terroreA’celesti portasse, onde rivoltiTutti fossero in fuga, infin che asiloStanchi trovaro nell’Egizio suolo,E presso al Nilo in sette rami spartoChe pur quivi il terrigeno TifeoGli perseguisse.Ovidio — Metamorfosi — Libro V Fav. IV trad. del Cav. Ermolao Federico
E qui, a proposito di questa favolosa scalata, che i figli della Terra, nella loro cieca superbia, tentarono contro il cielo, noi seguendo sempre il caratiere speciale e propria dell’opera nostra, richiameremo l’attenzione dei lettori sulla grande analogia che passa fra la sognata impresa dei Giganti, che vollero detronizzare il Giove pagano, e penetrare con la forza nei celesti recessi dell’Olimpo ; e la costruzione della famosa torre di Babelle, la quale può benissimo essere considerata come l’opera più stolta dell’umana superbia, e la cui primitiva tradizione, tramandata di generazione in generazione, avrebbe potuto essere la origine di questa favolosa guerra mossa dai Giganti a tutte le divinità dell’Olimpo pagano.
Oltre a questi figliuoli della Terra, conosciuti nella storia della mitologia, sotto il nome di Giganti, le cronache della favola e gli scrittori ed i poeti più rinomati di essa, fanno continua menzione di uomini che si resero celebri per la loro gigantesca figura. Cosi, al dire di Virgilio, {p. 220}Turno re dei Rutoli, era di una colossale sia tura.
Turno infra’primi, di persona e d’armiRiguardevole e fiero, e sopra tuttiCon tutto ’l capo, in campo appresentossi.Virgilio — Eneide — Lib. VII trad. di A. Caro.
Omero favellando degli eroi che assediavano Troja, dice ve n’erano alcuni, le cui atletiche forme, e la forza straordinaria, permetteva loro di lanciare delle pietre di tale grandezza, invano sarebbero state rimosse da quattro uomini di ordinaria struttura. Al dire di Pausania, Filostrato il giovane ripeteva che Ajace aveva undici cubiti di altezza ; e che il gigante Ariade, il cui cadavere fu trovato sulle sponde del fiume Oronte, ne aveva cinquantacinque ; e che finalmente fu rinvenuto un cadavere nell’isola di Lemnos, la cui testa era di tale grandezza che per riempirla di acqua bisognò vuotarvi due intere zucche, secondo che gli antichi chiamavano questa misura di liquido, e che era la più grande da essi adoperata. Al dire del cronista Flegone, furono ai suoi tempi, rinvenuti in una caverna in Dalmazia, alcuni cadaveri giganteschi, le costole di cui avevano non meno di ventotto braccia di lunghezza ; e che presso ad Atene fu rinvenuto un sepolcro, lungo cento cubiti, entro il quale era stato deposto il corpo del gigante Macrofiride. Plinio asserisce, che essendo nell’isola di Creta crollata una montagna, fu trovato un cadavere lungo quarantasei cubiti ; e finalmente al dire del cronista Solino, fu mostrato al proconsole romano Metello, un gigantesco cadavere che aveva trentasei cubiti di altezza. Narra Plutarco, che essendosi Sertorio, Generale romano, impadronito della città di Tingi, fece aprire il sepolcro del gigante Anteo, e avendone fatto misurare il corpo, lo trovò di sessanta cubiti. Il Boccaccio nella sua Genealogia degli dei, scrive che in una caverna del monte Erice, in Sicilia, fu rinvenuto il corpo di un gigante seduto, il quale si appoggiava ad un bastone che era un albero di nave ; e che appena toccato si ridusse in polvere, meno tre denti, ed una porzione del cranio, che furono portati nella città di Erice, per ordinamento dei magistrati ; e che in quella porzione di cranio si contenevano varie staja di biada, della misura di Sicilia. Secondo il cronista Fazello, questo cadavere di cui parla il Boccaccio, era quello di un gigante ucciso da Ercole, e che si chiamava appunto Erice ; il cui corpo, che aveva venti cubiti di lunghezza, si ridusse in polvere appena toccato, meno pochi denti, ognuno dei quali pesava circa cinque once.
Da tutti questi numerosi esempi da noi finora citati, e facendo un parallelo storico — mitologico, sarà facile dedurne la conseguenza che altra volta la terra sia stata in realtà abitata da uomini di gigantesca struttura. Noi però senza internarci in ragionamenti che ci allontanerebbero di troppo dalla nostra meta, diremo che tutto ciò che si racconta in generale, di questi avanzi mostruosi, di questi sepolcri scoperti, di questi cadaveri di smisurata grandezza, potrebbe benissimo non aver il suo fondamento che su relazioni di artefici e di operai ; ovvero su racconti di tradizioni piu o meno fantastiche e favolose.
2150. Gigantofontide. — Dalla parola greca φωντος che significa che uccide ; e dall’altra latina Gigas. Si dava questo soprannome a Pallade Minerva, per ricordare che essa aveva aiutato Giove suo padre nella guerra contro i Giganti — V. l’articolo precedente.
2151. Gige. — Uno dei formidabili Giganti che insieme a Briareo ed a Cotto suoi fratelli, dettero l’assalto a Giove, scalando le montagne — V. Briareo e Cotto.
Al dire di Esiodo, e di altri molti scrittori dell’antichità, essi avevano cento mani e cinquanta teste. Allorquando Giove li sconfisse, insieme a tutta la formidabile falange dei Giganti, essi al dire di vari scrittori e poeti rotolarono per nove giorni nel vuoto e finalmente nel decimo furono sprofondati nel Tartaro.
E tre voile il gran padre fulminandoSpezzò gl’imposti monti e li disperseE dalle stelle mal tentale in bandoNel Tartaro carciò le squadre avverse :Nove giorni le venne in giù rotandoE nel decimo al fondo le sommerse :Orribil fondo d’ogni luce muto,Che da perpetui venti è combattuto.Monti — La Musogonia — Canto
Il cronista Vossio professa differente opinione, circa questi tre formidabili fratelli giganti. Egli dice che essi altro non erano che tre impetuosi venti, e dà il nome di Gige al maggiore, dalla parola greca γογαιος che significa oscuro ; perchè, secondo il citato scrittore, egli rinchiuse i suoi fratelli in un cupo antro, ove regnava perpetua la notte.
Gige era anche il nome di un pastore del re di Lidia per nome Candaule, del quale la cronaca mitologica narra uno strano avvenimento.
Al tempo in cui Gige viveva, esercitando la sua modesta professione, la terra si sprofondo in diversi punti per continue ed abbondanti {p. 221}piogge. A Gige prese vaghezza di penetrare in una di quelle cupe voragini, di che era solcata la terra, e posto ad esecuzione il suo audace disegno, penetrò per oscuro e tenebroso cammino finnei visceri della terra, ove trovò il simulacro di un cavallo di bronzo, che aveva ai fianchi due aperture a guisa di porte. Avendo aperta una di quelle, rinvenne chiuso nel corpo del cavallo lo smisurato cadavere di un uomo, che aveva al dito un anello d’oro, che Gige passò immediatamente alla propria mano, dopo di che fece ritorno presso i compagni. Appena ritornato alla sua abituale dimora, egli s’accorse che quante volte la pietra preziosa, che ornava il centro dell’anello, si volgeva verso l’interno della mano, egli diveniva invisibile ; mentre quando la pietra era al di fuori, rimaneva nello stato normale. Non appena Gige si fece accorto della strana prerogativa, peusò servirsene onde accostarsi sino al letto della regina, colla quale concertatosi si liberò poco a poco di tutti coloro che potevano fare ostacolo ai suoi ambiziosi disegni ; fece morire lo stesso Candaule, suo sovrano, e giunse a rendersi padrone del regno. Le cronache dell’antichità aggiungono che l’uccisione di Candaule fu causa d’una sommossa nel popolo, già diviso in due partiti, uno a favore, l’altro contrario all’usurpatore. Però ad evitare l’imminente spargimento di sangue, fu convenuto di rimettersi per una decisione, a quanto avrebbe risposto l’oracolo di Delfo ; il quale fu favorevole a Gige, per il che egli restò pacifico possessore del trono. Qualche tempo dopo questo avvenimento, Gige pensò interrogare novellamente l’oracolo, onde chiedergli se ci fosse al mondo uomo più felice di lui, al che l’oracolo rispose che un certo Aglao era assai più fortunato. Plinio, nella sua storia Naturale, dice che questo Aglao era un modesto pastore, che viveva lavorando il suo campicello, dal quale ritraeva tutto quanto abbisognava alla sua famiglia, e che, libero da ogni altra cura, viveva tranquillo e felice.
2152. Gineccocratumeni. — Dalle due parole greche γυνη, γυαιϰος, donna, e ϰρατουμενος, vinto, e si dava questo nome, secondo asserisce Plinio, ad alcuni antichi popoli della Scizia Europea, i quali dimoravano sulle sponde del fiume Tanai. Seguendo l’opinione del citato scrittore, questi popoli furono sconfitti dalle Amazzoni in una battaglia che combatterono contro di esse sulla riva del Termodonte. Rimaste vincitrici, le Amazzoni imposero ai vinti guerrieri di avere commercio con esse, a patto che i figliuoli che sarebbero nati da questo connubio, sarebbero stati Amazzoni, se erano donne, e sacerdoti se fossero uomini.
2153. Ginniel. — Dal vocabolo greco γνμνοε, che significa ignudo, furono così detti alcuni giuochi e combattimenti, in cui gli atleti che vi prendevano parte, erano nudi, per essere più liberi nei movimenti del corpo. Da principio i giuochi Ginnici non venivano celebrati da persone ignude ; ma semplicemente vestite di leggiere e corte tuniche ; e non fu che alla 32’ Olimpiade, che un greco per nome Orcippo, introdusse l’uso di andare nudi. Nella celebrazione dei giuochi Ginnici, si eseguivano varie specie di esercizii, di cui i principali erano la corsa, il disco o piastrella, la lotta detta auche pancracio, l’asta, il salto ed il pugillato. Fra tutti questi esercizii la corsa era quella ritenuta in più considerazione ; sopratutto se fatta a cavallo o sulle bighe, specie di piccoli carri che si guidavano in piedi. Per contrario il pugillato, eseguito dai gladiatori, era fra gli esercizi Ginnici il meno stimato.
Questi differenti esercizi costituivano l’insieme di ciò che noi chiameremmo Ginnastica. E a notare che presso i pagani non si celebrava nessuna gran festa senza gli esercizi Ginnici.
2154. Ginnopedia. — Dalle due parole greche παις fanciulla, e γυμνος ignudo, i Lacedemoni davano questo nome ad una specie di ballo che alcuni giovanetti interamente nudi, ballavano durante i sacrifizi delle feste in ouore d’Apollo. Al dir del cronista Ateneo, era questa una specie di danza bacchica, durante la quale i danzatori cantavano degl’inni in onore di quel dio.
2155. Ginnosofisti. — Presso gl’indiani veniva dato codesto nome ad una corporazione di filosofi, i quali facevano professione di rinunciare a tutti i beni del mondo, e darsi esclusivamente alla contemplazione delle meraviglie della natura. I Ginnosofisti ammettevano la metempsicosi, e facevano consistere tutta l’umana felicità, nel disprezzo dei beni della fortuna ; e nell’abborrimento dei piaceri del senso. Nelle antiche tradizioni indiane, è scritto, che i Ginnosofisti giunti all’età della vecchiezza, si abbruciavano da sè stessi onde non lasciarsi opprimere da quei malori, che sono generalmente inevitabili compagni dell’età caduca.
2156. Giobate. — Detto anche Lobate, re della Licia — V. Bellorofonte.
2157. Gioeasta. — Moglie di Lajo, re di Tebe. Per volere inevitabile del destino fu moglie di Edipo, che era nell’istesso tempo suo figlio
D’Edippo io moglie, e in un di Edippo madre,Inorridir di madre al nome io soglio ;Alfier — Polinice — Tragedia Atto I. Scena I.
V. Edipo. Da questo incesto nacquero quattro figli, Eteocle e Polinice, che si distrussero a vicenda spinti dal cicco furore dell’odio — V. Eteocle e Polinice — e due figlie, Antigone ed Ismene.
Al dire di Sofocle, Giocasta appena scoperto il fatale mistero in cui era avvolto il suo incesto, si appiccò per disperazione.
e la sua madre e moglie(Moglie e madre ad un tempo) uscì di vitaA torto laccio appesa ;SOFOOLE — Antigone — Tragedia trad. di F. Bellotti.
{p. 222}Secondo Euripide invece, ella più forte del destino sopravvive al suo dolore ; resta in Tebe, dopo l’esilio di Edipo ; cerca di pacificare le ire furibonde di Eteocle e Polinice, dai quali ottiene una tregua ; ma poi, non essendo riuscita a pacificarli ; vedendoli cadere sotto i propri occhi, coperti di quel sangue che essi a vicenda facevano grondare dai loro corpi ; ella, quasi pazza di dolore, svelse dal corpo di Eteocle la spada che il fratello vi aveva confitta, e si uccise di propria mano, abbracciando in un ultimo amplesso di madre, quei corpi adorati nei quali durante la vita non aveva potuto far germogliare un mite seutimento d’amore. E questa anche l’idea seguita da Alfieri.
…….. il ferroEcco, dal fianco palpitante ancoraDi Polinice ha svelto, e in men ch’io il dico,Nel proprio sen lo immerge ; e cade e spira.Alfieri — Antigone — Tragedia Atto I. Scena III.
Queste opinioni dei due famosi scrittori sono combattute da vari antori antichi, fra cui Pausania ed Omero, i quali asseriscono che l’incesto di Giocasta, per essere stato incontanente scoperto non obbe alcuna seria conseguenza.
2158. Gioja — I pagani avevano fra le loro divinità, personificata anche la Gioja, alla quale davano comunemente il nome di Lætizia ; e la raffiguravano sotto le sembianze d’una donna giovane e sorridente, con una corona nella mano destra, e con la sinistra appoggiata su di un’ancora. Gli antichi facevano una differenza fra la dea Lætizia e la Ilarità. — V. Ilarità.
2159. Giorno. — Il paganesimo che raffigurava sotto differenti e sensibili sembianze, anche gli oggetti inanimati, innalzandoli sovente al posto di una divinità, dette anche un’immagine palpabile al Giorno, considerandolo in sè stesso, e senza relazione coll’anno, col mese e con la settimana. Nè si creda che quanto noi ci facciamo ad asserire sia una nostra personale opinione.
In tutto il corso della nostra opera noi ci siamo già avvalsi di numerosissime citazioni, le quali per esser tutte tolte ai classici serittori antichi e moderni, debbono valerci come testimonianze irrecusabili della verità di quanto esponemmo. Così per esempio il cronista Ateneo, descrivendo una magnifica pompa, fatta in Grecia ad Antioco Epifane, ripete che si vedevano nel corteo un gran numero di statue, e fra queste una che rappresentava la Notte, un’altra il Giorno e un’altra l’Aurora. Per maggiore chiarezza noi faremo notare ai nostri lettori, che essendo in lingua greca la parola Giorno γμερο di genere femminile, cosi i pagani raffiguravano il giorno sotto le sembianze d’una donna ; mentre il Crepuscolo, in greco ορδρος che è di genere maschile, veniva rappresentato come un giovanetto, coperto d’un gran velo che dal capo gli scendeva fino ai piedi, e avente una torcia nella mano, volendo con siffatta configurazione esprimero che il Crepuscolo è come il punto intermedio fra il Giorno e la Notte.
Anche il Mezzogiorno veniva raffigurato sotto le sembianze d’una donna, essendo la parola greca μιοημβρια che significa mezzodi di geuere femminile. Per la stessa ragione la Sera e propriamente il Vespero, veniva rappresentato sotto la figura d’un uomo.
Finalmente il crepuscolo della sera veniva raffigurato identicamente al crepuscolo dell’aurora, ma senza la torcia, per alludere che quell’ora della sera va a precipitarsi nella Notte. Aveva nelle mani le redini di uno dei cavalli del carro di Diana, ossia la Luna, per significare che all’ora del Crepuscolo serale, suole abitualmente levarsi la Luna.
2160. Giorni. — I pagani facevano una grande distinzione fra i giorni fortunati e i disgraziati. Secondo si rileva dalle cronache dell’antichità, gli Egizii ed i Caldei furono i primi a fare codesta distinzione ; ed i romani ed i greci non fecero che seguire le orme di quelli, attenendosi ad una consimile distinzione.
Esiodo, nel suo trattato intitolato Le opere ed i giorni, ci ha trasmesso un esatto catalogo dei giorni fortunati e dei disgraziati ; additandoci in quello, come uno dei più infelici giorni, il quinto di ogni mese. Al dire del citato scrittore, nel 5.° giorno di ogni mese le Furie lasciavano l’inferno e passeggiavano sulla terra. Virgilio nelle sue Georgiche, si attiene alle istesse idee, dicendo che nel quinto giorno del mese erano nate le Furie e l’Orco ; e che la terra avesse partorito Giapeto, Tifeo e gli altri mostruosi giganti, che dettero la scalata al cielo.
Non uno ordi la Luna ordin di giorniFavorevoli all’opre ; il quinto fuggi :Nacquero in questo di le Furie e l’Orco,La terra infausta partori Tifeo,Giapèto e gli altri ad assalire il cieloCongiurati fratelli ;VIRGILIO — Delle Georgiche — Libro I.trad. di Dionigi Strocchi.
Al dire di Platone e di Esiodo, il quarto, il settimo, l’ottavo, il nono, l’undecimo e il dodicesimo giorno del mese, erano ritenuti come fortunati.
Tito Livio riferisce che presso i romani tutti i giorni che seguivano le None, gl’Idi e le Calende d’ogui mese, erano ritenuti come giorni felici o infelici, a seconda degli avvenimenti.
Al dire del sudetto scrittore, questa superstiziosa credenza dei romani ebbe origine dal fatto seguente.
Nell’anno di Roma 363, i tribuni militari, avendo notato che la repubblica aveva di sovente a soffrire qualche danno, esposero questa loro osservazione al senato, affinchè ne venisse indagata la ragione. Il senato allora decise che fosse chiamato l’indovino Lucio Aquinio, onde rispondere alle domande. L’indovino rispose che tale era la volontà degli dei, i quali erano sdegnati contro i romani per aver questi, quando combatterono contro i Galli sulle sponde del fiume Allia, fatto un sacrifizio nel {p. 223}giorno dopo gl’Idi di luglio ; e che per la stessa ragione i Fabii furono tutti uccisi nella battaglia di Cremera.
Dietro questa risposta, il senato promulgò una legge di comune accordo col collegio dei Pontefici, ordinando che in avvenire non si fosse nè intrapresa cosa alcuna, nè combattuta una battaglia nel giorno dopo gl’Idi, le None, e le Calende di ciascun mese.
Oltre a questi giorni riconosciuti da tutti come fortunati o sfortunati ; vi erano presso i pagani dei giorni ritenuti come felici o infelici, a seconda degli eventi particolari ad una famiglia o ad un individno. Così Augusto non intraprendeva cosa alcuna nel giorno delle None ; altri classici personaggi dell’ antichità, non uscivano nemmeno di casa nei giorni delle Caleude, altri in quelli degli Idi ecc.
Nè a ciò solo si limitava la superstiziosa credenza dei romani riguardo ai diversi giorni del mese. Infatti gli scritti dell’antichità rivelano, come essi ritenevano per giorni infausti quelli in cui sacrificavano alle ombre de’ morti ; le Ferie Latine, le Saturnali, il giorno che seguiva le Volcanali, il quarto prima delle None di Ottobre, le None di luglio propriamente dette Caprotine, il quarto prima delle None di agosto, a motivo della famosa rotta di Canne ; la sesta chiamata Lemuria nel mese di maggio ; gl’Idi di marzo, per essere stato in quei giorni ucciso Giulio Cesare ; e molti altri giorni designati come infausti nel calendario romano.
Sebbene la superstizione fosse il fondamento universale della religione dei pagani, pure vi erano molti che disprezzavano coteste ridicole credenze, riguardo ai giorni del mese.
Così la storia ci ammaestra della bella risposta data da Lucullo a coloro che volevano dissuaderlo dal combattere contro Tigrane, nelle None di ottobre, facendogli osservare, con superstizioso timore, che qualche anno prima in quegli stessi giorni, i Cimbri avevano fatto a pezzi l’esercito di Cepione : io, rispose Lucullo, attaccherò l’ inimico e farò in modo che le None di ottobre diventino fauste alla potenza di Roma. E Giulio Cesare stesso non tralasciò di comandare che le milizie romane passassero in Africa, sebbene il movimento doveva eseguirsi in alcuni giorni che gli Auguri avevano additati siccome infausti. E finalmente Dione di Siracusa, combattendo contro il tiranno Dionigi, lo mise in completa rotta, sebbene la battaglia si fosse combattuta in un giorno di ecclissi.
2161.Giove — Dio supremo della mitologia greca e romana, la quale lo riguardava come padrone e signore di tutte le cose, e creatore dell’universo.
Tu beato, tu saggio e onnipossente,E degli uomini padre e degli Dei :Tu provvida del mondo anima e mente :Tu regola dei casi o fausti o rei :A te cade la pioggia obbediente :A te son ligi i dì sereni e bei :A te consorte è Temi, e Palla è figlia,E da te scende il saggio, e ti somiglia.MONTI — La Musogonia — Canto.
La tradizione mitologica lo fa figliuolo di Rea e di Saturno, aggiungendo che questi lo avrebbe divorato, a somiglianza di tutti gli altri suoi figliuoli, se Rea, non avesse dato al marito, invece del pargoletto Giove, una pietra ravvolta nelle fascie, che Suturno ingoiò, credendo così di distruggere il proprio figliuolo. Seguendo sempre la tradizione favolosa, Saturno divorava i propri figli, perchè un’antica predizione a lui fatta dal Cielo e dalla Terra, gli aveva annunziato ch’ egli sarebbe detronizzato da uno dei suoi figli.
Però Rea, addolorata di veder distrutti i suoi figli, non appena dati alla luce, pensò di sottrarre alla morte il bambino che aveva in seno, e sentendo prossimo il tempo di darlo alla luce, si ritrasse nell’ isola di Creta, ove in una caverna conosciuta sotto il nome di antro Ditteo, partorì Giove affidandolo alla custodia dei sacerdoti Cureti, e delle ninfe Melisse.
Mollement elles y posèrentCes membres delicats, et ces débiles mainsQui dans la suite terrassèrentLe peuple des Titans, et ses fiers souverains,Du jeune dieu les Jeux et l’Innocence,Et la Gaîte, compagne de l’enfance,Composoient la naissante cour,L’heureuse Paix habitait ce sèjour ;Les Aquilons en respectoient l’asile.Au regne tranquille du jourSuccédoit une nuit tranquille.Les oiseaux gazouillant leurs aimables concerts,Le murmure des eaux, le doux calme des airs,Les Nymples en silence, et le tendre Zéphire,Dans ces paisibles lieux exerçant son empire,Annonçoient le repos du roi de l’univers.DEMOUSTIER — Lettre IV a Émilie sur la Mythologie.
Esse lo allevarono facendolo nutrire del latte della capra Amaltea ; mentre i Cureti o Coribanti, armati di picche e di scudi e d’ogni altro clamoroso istrumento, facevano nell’ antro un assordante rumore, esegueudo così il comando di Rea, la quale avea loro imposto di soffocare colle loro grida i vagiti del neonato, affinchè Saturno non avesse avuto mai sospetto di quella pietosa astuzia materna.
Rea la scelse già per cuna fidaDel suo figliuolo, e, per celarlo meglio,Quando piangea, vi facea far le grida.DANTE — Inforno — Canto XIV.
Giove, diventato più adulto, si accompagnò con Meti, ossia la Prudenza, e la cronaca mitologica aggiunge che egli avesse dato a suo padre {p. 224}Saturno una bevanda, la quale ebbe la potenza miracolosa di fargli recere dapprima la pietra, e poi i diversi figliuoli che avea divorati. Ciò fatto, sentendosi Giove forte dell’ appoggio dei suoi fratelli, pensò di detronizzare il padre, onde impadronirsi del regno dell’ universo ; ed avendogli la Terra predetto, che egli non avrebbe raggiunto il suo scopo, se non quando avesse potuto avere l’ appoggio dei Titani rinserrati nel Tartaro ; egli tentò l’ impresa, e avendo ordinato ai Ciclopi di fabbricargli il fulmine, il tuono, ed il lampo, se ne servi per detronizzare il padre suo, e rendersi così padrone assoluto dell’ universo.
Te le animose man, non l’orba sorteForza e virtù, che sempre è tua vicina,Han fatto re della superna corte.CALLIMACO — Inno a Giore — trad. di DIGNIGI STROCCHI.
Restò così per alcun tempo pacifico signore del mondo ; finchè i Giganti non tentarono di dare la scalata al cielo (V. GIGANTI). Essendo però riuscito, come vedemmo, vincitore dall’ardua prova, Giove divise l’ impero dell’universo coi suoi fratelli, Nettuno e Plutone, dando al primo il regno delle acque, ed al secondo quello dell’ inferno.
Sterminato è il numero delle mogli e delle concubine, che resero Giove padre di un eguale sterminato numero di figli ;
Non quando per la sposa Issionea,Che Piritóo, divin senno, produsse,Arsi d’amor, non quando alla gentileFiglia d’Acrisio generai Perséo,Prestantissimo eroe, nè quando EuropaDel divin Radamanto e di MinossePadre mi fece. Nè le due di TebeBeltà famose Sémele ed Alcmena,D’Ercole questa genitrice, e quellaDi Bacco de’mortali allegratore ;…………………………OMERO — Iliade — Libro XIV. trad. di V. MONTI.
i quali furono poi quasi tutti posti nel numero delle divinità pagane.
Europa lo rese padre di Radamanto e di Minosse ; Alemena di Ercole ; Danae di Perseo ; Leda di Castore e Polluce ; Elettra di Dardano ; Garamantide di Giarba, Pilunno e Filo ; Maja di Mercurio ; Latona di Apollo e Diana ; dalla propria moglie Giunone ebbe Vulcano, Marte ed altri figliuoli, e da Mnemosina nove figliuole che furono poi le nove Muse.
Tre volte e sei l’onnipossente padreDella figlia d’Urano in grembo scese,Ed altrettante avventurosa madreDi magnanima prole il Dio la rese :Di nove, io dico, vergini leggiadreDel canto amiche e delle belle imprese.MONTI — La Musogonia — Canto.
Giove era ritenuto dai pagani come il padre degli dei e degli uomini, ricinto di una gloria immortale, e padrone assoluto di tutto, sebbene sottomesso anch’ egli alla legge inevitabile del Destino V. DESTINO. Il culto di Giove e i misteri, le cerimonie ed i sacrifizii che lo accompagnavano, erano sparsi universalmente come i suoi templi, i suoi altari, ed i suoi oracoli ; fra i quali i più famosi furono quello di Trofonio, di Dodona e di Lidia. Le vittime che ordinariamente si sacrificavano a Giove, erano la pecora, la capra ed il toro bianco, del quale si doravano le corna prima del sacrificio. Similmente venivano a lui offerte la farina ed il sale, mentre sulle are di questa onnipossente divinità, ove mai non venivano svenate vittime umane, bruciava del continuo l’ incenso più prezioso.
Al dire di Pausania, il solo Licaone, fu quello che una volta sacrificò a Giove un fanciullo, ma l’esempio crudele non fu seguitato, e le are di Giove rimasero, sino alla caduta del paganesimo, monde di umano sangue.
Ovidio dice che Licaone svenasse su di un altare di Giove, un prigioniero di guerra, in ringraziamento dell’ottenuta vittoria ; ma che questo sacrifizio, cruento di umano sangue, gli valse lo sdegno di Giove stesso, e l’ odio di tutti i suoi contemporanei.
della MolossaGente ad un tale a lui mandato ostaggio,Tronca col ferro il collo ; e delle membraSemivive una parte entro bollentiOnde ammollisce, e l’ altra parte aggiraIntorno al foco sottoposto.OVIDIO — Metamorf.. Libro I Fav. V. trad. del Cav. ERMOLAO FEDERICO.
Fra gli alberi, l’ulivo e la quercia erano sacri a Giove ; e al dire di Cicerone le dame romane onoravano questo dio, con un culto castamente particolare.
Generalmente Giove veniva raffigurato sotto le sembianze di un uomo, nella completa pienezza delle sue fisiche qualità ; con folta barba scendente a metà del petto ; colle spalle larghe e quadrate ; seduto su di un trono, circondato di raggi in tutto lo splendore della sua divina maestà, e avente nella mano destra i fulmini, e ai piedi un’aquila con le ali spiegate. La tradizione aggiunge che al muovere del suo capo divino, tremasse il mondo.
egli dal seggioPiù sublime, appoggiato in sull’eburneoScettro, del capo la tremenda chiomaSquassò tre volte e quattro, e terra e mareE stelle ne tremaro :OVIDIO — Metamorf : Libro I Fav. V. Trad. del Cav. ERMOLAO FEDERICO.
I più accreditati mitologi, seguendo sempre la configurazione della idea allegorica, rinchiusa {p. 225}in tutti i simboli della mitologia pagana, ripetono che Giove veniva generalmente raffigurato nella suddetta maniera, perchè il trono sul quale egli era seduto, dimostrava la stabilità del suo potere : l’aver egli la parte superiore del corpo denudata, significa ch’egli era visibile alle intelligenze : la parte inferiore ricoperta d’un manto, alludeva ad esser la suprema divinità, nascosta agli occhi di questo basso mondo : il fulmine, ricordava il suo invincibile potere, che dalle sfere supreme si estendeva agli dei ed agli uomini : e finalmente l’aquila, che con le ali spiegate riposa a’ suoi piedi, era l’emblema della supremazia di Giove, su tutti gli esseri creati, siccome l’aquila ha la supremazia su tutti i volatili.
I singoli popoli non solo della Grecia e di Roma, ma di tutto il mondo conosciuto dagli antichi, avevano delle particolari maniere di raffigurare Giove. Così i Lacedemoni lo raffiguravano con quattre orecchie, volendo dimostrare ch’egli ascoltava le preghiere degli uomini, qualunque si fosse la parte del mondo da essi abitata. Per contrario gli abitanti dell’ isola di Creta, rappresentavano Giove privo affatto di orecchie, volendo con simile configurazione ricordare che la suprema divinità non doveva ascoltare alcuno in particolare, ma accogliere benignamente i voti e le preghiere di tutti.
A somiglianza del largo ed esteso numero delle mogli e dei figliuoli di Giove, è ugualmente altissima la cifra dei nomi e dei soprannomi coi quali lo chiamavano i pagani. Di questi soprannomi moltissimi derivavano dai luoghi, nei quali veniva adorato ; molti altri dai popoli che ne introdussero in altre contrade il culto ; e finalmente moltissimi dal motivo per cui gli erano stati innalzati dei templi o consacrate delle are.
I nomi e i soprannomi più generalmente dati a Giove erano : Padre degli dei, Rettore, Moderatore, Vittorioso, Onnipotente, Invincibile ecc. Come pure dei suoi innumerevoli soprannomi i più generalmente usati anche dagli scrittori dell’antichità sono : Ammone, Olimpico, Egioco, Tuonante, Dodoneo, Capitolino, Trofonio, Fulminante, Espiatore e moltissimi altri che sebbene non molto ripetuti dalla grande generalità degli scrittori, e cronisti della Favola, pure erano, al paro dei sopraccennati, assai in uso presso i pagani.
Gli storici, i filosofi e i cronisti dell’antichità hanno parlato, nelle loro opere, del Giove pagano assai diversamente di quello che han fatto i poeti. Infatti secondo le opinioni più solide e generalmente adottate presso i primi, Giove altro non era se non la divina personificazione dell’ Etere, ossia della parte superiore dello spazio, occupato dall’ aria.
Vi sono varii scrittori, e fra questi Cicerone, i quali considerando il Giove pagano, sotto l’ aspetto puramente storico e filosofico, asseriscono che vi fossero stati più di un Giove. Secondo l’ opinione del cennato scrittore, nell’Arcadia si riconoscevano due Giovi, l’uno figliuolo del Cielo, e padre di Minerva, dea della saggezza ; e l’altro figliuolo dell’ Etere, e padre di Bacco e di Proserpina. Lo stesso autore asserisce similmente, che nell’isola di Creta si vedeva il sepolcro di un Giove, il quale aveva avuto per padre Saturno.
La tradizione mitologica, appoggiando l’opinione del classico scrittore sopra cennato, ripete che dei due Giovi d’ Arcadia, uno era antico quanto il mondo, e nato da ignoti genitori, e che si fosse fatto poi conoscere dagli Arcadi, ed avesse esercitato su di loro un potere quasi misterioso, e li avesse a poco a poco ammaestrati, spargendo fra di loro i benefici semi di una civiltà primitiva e conducendoli a vivere sotto una specie di civile ordinamento, e non una vita selvaggia, occupata solo nella caccia e nella pesca.
Ben presto gli abitanti dell’Arcadia, risentendo i benefici effetti dell’incivilimento onorarono di un culto quasi divino l’uomo al quale essi andavano debitore di un tanto bene ; ed allora fu che per nascondere la origine di lui, lo dissero figliuolo dell’Etere, ovvero del Cielo, lo chiamarono Giove, e ne fecero la prima delle loro divinità.
Le cronache dei tempi favolosi ci ammaestrano peraltro, che non fu il Giove dell’Arcadia quello che primo portò un simile nome. Infatti presso i cronisti più accreditati, è generale l’opinione che il primo di tutti fosse il Giove Ammone della Libia, la cui origine rimonta ai tempi primitivi della creazione, e tanto che molti lo hanno confuso con Cam, figliuolo di Noè. Da questa prima configurazione del Giove pagano, ne venne poi che ogni popolo dell’ antichità, ebbe il suo Giove particolare ; così gli Sciti onoravano il Giove Pappeo ; gli Etiopi il Giove Assabino ; i Galli il Giove Tarano ; gli Egizii il Giove Serapide ; i Persi il Giove Celo ; gli Assiri il Giove Belo ecc. Nè solo a questo si arrestava la sbrigliata superstizione dei pagani, imperocchè noi vediamo che nella città di Argo, si venerava il Giove Api, ritenuto nipote d’ Inaco ; nell’ isola di Creta, il Giove Asterio, che rapisce Europa ed è padre di Minosse e di Radamanto ; e poi il Giove Proeto, zio di Danae, il Giove Tantalo, rapitore di Ganimede, e finalmente il Giove padre di Ercole, il quale, secondo la cronologia mitologica visse circa ottant’anni prima dell’ assedio di Troja.
Per quanto riguarda poi la divisione dell’ impero dell’ universo, fatta da Giove coi suoi fratelli, Nettuno e Plutone, essa pure ha dato ragione alla disparità delle opinioni dei cronisti e degli scrittori. Infatti molti fra questi pretendono che una tal divisione, fosse quella che stabilirono fra di loro i figliuoli di Noè. Altri vogliono che essendosi i Titani dispersi per tutta la terra, avessero indefinitivamente esteso i confini del loro impero ; il quale non solo abbracciava la Tracia, l’isola di Creta, la Grecia, la Siria, e tutta l’Asia Minore, ma si estendeva persino sulle coste dell’ Africa, e che Giove avesse diviso coi suoi fratelli l’ immenso dominio, ritenendo per sè i paesi orientali, l’Olimpia e la Tessaglia ; e dando a Plutone le province dell’ {p. 226}occidente, fino alla Spagna ; ed a Nettuno la supremazia su tutti i mari. È questa forse la ragione che fece ritenere questi tre fratelli come altrettante divinità onnipotenti, ed esclusivamente indipendenti l’una dall’altra nelle loro attribuzioni.
Secondo riferisce Pausania, codesta particolare divisione dell’ universo in tre regni distinti, altro non vuole raffigurare se non l’idea della suprema onnipotenza di Giove, il quale imperava sul cielo, sulla terra e sull’inferno. E lo stesso autore, a proposito d’una statua di Giove, che si adorava nella città di Argo, in un tempio consacrato a Minerva, riferisce che quel simulacro aveva tre occhi, uno in mezzo alla fronte, e gli altri due al medesimo posto ove gli ànno le teste degli uomini ; e che ciò dinotava il trino potere di Giove sul cielo, sulla terra e sull’inferno. Omero stesso dà a Giove il soprannome d’infernale e Tacito chiama Plutone col nome di Giove Dite.
Secondo l’opinione di Cicerone, e di molti altri scrittori e cronisti dell’antichità, la denominazione di Giove deriva da due parole latine juvans pater.
2162. Gioventù — Presso i pagani della Grecia, due erano le divinità che presiedevano alla giovanezza, cioè : Ebe ed Orta. I romani a queste ne aggiungevano una terza detta Giuventa, la quale veniva invocata dai giovanetti dopo d’avere indossata una veste, alla quale si dava il nome di Pretesta. La dea Giuventa veniva onorata in un tempio che sorgeva nel Campidoglio.
Al dire di Tacito, l’altare della Gioventù, sorgeva vicino a quello di Minerva e vi si osservava un quadro di Proserpina.
Durante il periodo della seconda guerra Punica, essendo censore Livio Salinatore, questi dedicò un tempio alla Gioventù, e furono allora istituiti i giuochi in onore di questa dea, della continuazione dei quali non fa menzione alcuno scrittore dell’antichità.
2163. Giovio — Uno dei soprannomi di Ercole che a lui veniva per esser figlio di Giove.
2164. Giromanzia — Specie di divinazione la quale si eseguiva camminando intorno ad un cerchio su cui erano seguati alcuni caratteri cabalistici, lettere ed altre figure. Coloro che eseguivano questa divinazione giravano con tanta celerità, intorno al cerchio tracciato, che finivano per cadere per terra, e dall’unione delle differenti lettere sulle quali essi andavano a cadere, si cavava il presagio del futuro.
La parola Giromanzia deriva dal greco ύρος che significa rotondo.
2165. Giuba — Re di Mauritania, il quale fu dai suoi sudditi venerato come un dio.
Al dire di Minuzio Felice, il nome di Giuba si avvicina molto a quello di Jehova, cioè : Dio.
2166. Giudici dell’Inferno — Scrivono i più rinomati cronisti e storici dell’ antichità, fra i quali Platone, che esisteva un’antichissima legge, la quale imponeva che le anime dei morti, dovessero essere giudicate all’ uscire di questa vita, onde ricevere il premio o il castigo delle buone o delle cattive azioni. Però la tradizione favolosa ripete, che questo giudizio sommario venendo pronunziato al momento istesso in cui avveniva la morte, aveva dato luogo a numerosi errori, e sovente anche ad ingiustizie. Giove allora per mettere un argine al grave sconcio, creò i due suoi figliuoli, Eaco e Radamanto, giudici dell’Inferno, i quali sotto la presidenza di Minosse, dovevano giudicare tutte le anime dei morti.
Qui progenie divinaDel tuono il Sire ottenne,Eaco in terra dio,Che le liti ai celesti anco partio.PINDARO — Odi Ismiche — Ode VIII. trad. da G. BORGHI.
Questo è di Radamanto il tristo regno,Là dov’egli ode, esamina, condannaE discopre i peccati che di sopraSon da le genti o vanamente ascosiIn vita, o non purgati anzi a la morte :VIRGILIO — Eneide — Libro VI. trad. di A. CARO.
Radamanto ebbe il giudizio degli Asiatici ; Eaco quello degli Europei ; e Minosse la supremazia inappellabile in caso di oscurità.
Stavvi Minos orribilmente, e ringhia :Esamina le colpe nell’entrata,Giudica e manda, secondo che avvinghia.Dico, che quando l’anima mal nataLi vien dinanzi, tutta si confessa ;E quel conoscitor delle peccataVede qual loco d’inferno è da essa :Cignesi colla coda tante volte,Quantunque gradi vuol che giù sia messa.DANTE — Inferno — Canto V.
Questo supremo tribunale sorgeva fra il Tartaro e i campi Elisi, in un luogo chiamato campo della Verità, per alludere che non vi poteva mai penetrare nè la menzogna uè la calunnia.
Secondo riferisce lo scrittore Diodoro, l’idea di questo giudizio dopo la morte, era stata dagli Egiziani trasmessa ai Greci.
2167. Giudizio di Paride — V. PARIDE.
2168. Giuga — Dalla parola latina jugum, che significa giogo, i greci davano codesto nome a Giunone, come dea che presiedeva al matrimonio ; alludendo così al giogo, che durante la cerimonia nuziale, si metteva per poco sopra gli sposi.
In Roma vi era una piccola strada in mezzo alla quale sorgeva un altare consacrato a Giunone Giuga, e che per questa ragione si chiamava Vicus Iugatinus.
2169. Giugantino — I pagani non riconoscevano che due soli numi così chiamati, uno che presiedeva, come la Giunone Giuga, alle cerimonie nuziali ; e l’ altro alla sommità delle montagne, forse perchè queste in latino si chiamano juga.
{p. 227}2170. Giugno — Questo mese era presso i pagani consacrato a Mercurio, il quale ne era in pari tempo la divinità tutelare.
Secondo riferisce lo scrittore Ausonio, il mese di giugno veniva raffigurato sotto le sembianze d’un giovanetto bellissimo, interamente nudo, e con una torcia accesa nella mano destra, per dinotare che portava i bollori della stagione.
2171. Giuliani — Presso i romani l’ordine dei sacerdoti Luperci ; detti anche Lupercali, veniva suddiviso in tre collegi distinti, conoscinti sotto il nome di Collegio dei sacerdoti Fabii, dei Quintilliani e dei Giuliani.
2172. Giulio — Conosciuto più comunemente sotto il nome di Ascanio, fu figliuolo del famoso Enea. Secondo Virgilio, nella notte in cui Troja cadde, incendiata per mano de’greci, non sapendo Enea col padre Anchise risolversi a prendere la fuga, Venere, madre d’Enea, li spinse a questa risoluzione, che fu poi cagione della loro salvezza, per mezzo di un prodigio.
……e la materna scortaSeguendo, da’nemici e da le fiammeMi rendei salvo : chè dovunque il passoVolgea, cessava il foco, e fuggian l’armi.VIRGILIO — Eneide — Libro II. trad. di A. CARO.
2173. Giuna — Conosciuta anche sotto l’appellazione di Giuna Torquata. Così, al dire di Tacito, avea nome una delle prime Vestali, la quale si rese celebre per la sua grande virtù, che le valse, dopo la morte, gli onori divini. Il cennato scrittore racconta che il fratello di lei, Cajo Silvano, proconsole in Asia, accusato di malversazione, e tratto innanzi ai giudici, fu rimandato assoluto a causa delle virtù della sorella.
2174. Giunone — È questa una delle più importanti personalità della mitologia pagana. Infatti le cronache dell’antichità, ce la presentano come figlia di Saturno e di Rea, sorella e moglie di Giove, e come regina delle dec.
Ch’io pur son nume, e a te comune io traggoL’origine divina, io dell’astutoSaturno figlia, e in alto onor locata,Perchè nacqui sorella e perchè moglieSon del re degli Dei.OMERO — Iliade — Libro IV. trad. di V. MONTI.
Gli abitanti di Samo, e quelli di Argo, erano del continuo in dissenzione fra di loro, perchè si disputavano l’onore della nascita di Giunone, ognuno pretendendo che la dea fosse nata nella rispettiva patria.
Al dire di Omero, Giunone fu allevata dall’Oceano e da Teti, sua moglie.Dell’alma terraAi fini estremi a visitar men vadoL’antica Teti e l’Oceàn de’numiGenerator, che présami da Rea,Quando sotto la terra e le profondeVoragini del mar di Giove il tuonoPrecipitò Saturno, mi nudriroNe’lor soggiorni, e m’educàr con moltaCura ed affetto.OMERO — Iliade — Libro XIV. trad. di V. MONTI.
Altri scrittori pretendono che la cura della sua educazione venisse affidata alle Ore ; e finalmente altri sono di opinione che Giunone fosse stata allevata dalle tre figliuole del fiume Asterione, conosciute sotto il nome di Porsinna, Eubea ed Acrea.
La tradizione mitologica racconta che Giove, innamoratosi di sua sorella Giunone, l’avesse ingannata trasformandosi in quell’uccello chiamato Cuculo V. CUCULO — e che dopo qualche tempo, l’avesse sposata con tutta la pompa, venendo le nozze celebrate — secondo asserisce Diodoro — nel territorio dei Gnassi, sulle sponde del fiume Tereno, ove, al dire del citato scrittore, si vedeva ancora ai suoi tempi un altare di cui prendean cura i sacerdoti di quel paese.
Le cronache mitologiche aggiungono, a proposito delle famose nozze, che Giove avesse ordinato a Mercurio d’invitare alle feste, non solo tutti gli dei e tutti gli uomini, ma persino tutti gli animali. Solo la ninfa Chelonea ricusò di tenere l’invito, e fu per questo cangiata in tartaruga V. CHELONEA.
Giove e Giunone non vissero lungo tempo in buon’ armonia fra di loro ; a causa della insopportabile gelosia di lei ; di cui fan fede tutti i cronisti più accreditati dell’antichità, i quali riferiscono a centinaja gli esempi di avvaloramento a quanto asseriamo. Infatti, Giunone contendeva sovente con Giove, e questi non solamente l’ingannava del continuo, assumendo moltiplici e differenti aspetti, per darsi buon tempo con le sue innumerevoli amanti, ma spingeva la sua brutalità fino a batterla e, secondo asserisce la cronaca mitologica, una volta la sospesa in aria ad una catena d’oro, con due incudini ai piedi.
E non rammenti il dì ch’ambe le maniD’aureo nodo infrangibile t’avvinsi,E alla celeste volta con due graviIncudi al piede penzolon t’appesi ?Fra l’atre nubi nell’immenso votoTu pendola ondeggiavi,….OMERO — Iliade — Libro XV. trad. di V. MONTI.
Vulcano, che tentò liberarla, fu da Giove precipitato dall’Olimpo con un calcio, per modo che percosse violentemente sulla terra e ne restò zoppo per tutta la vita.
Per altro i mitologi asseriscono che Giunone, sebbene divorata dalla gelosia, avesse più d’una volta contracambiato i tradimenti del marito, con {p. 228}altrettanti oltraggi conjugali, dandosi in braccio al gigante Eurimedonte ed a molti altri.
Nè paga a ciò, insieme a Minerva ed a Nettuno, cospirò contro Giove, onde detronizzarlo ; e forse vi sarebbe riuscita, se Teti Nereide, non avesse avvisato Giove del pericolo, e chiamato il gigante Briareo a difenderlo.
La sola presenza del terribile Centimano V. Briareo — valse ad arrestare i rei disegni di Giunone, e dei suoi aderenti. Giunone perseguitò senza tregua non solo le amanti di Giove, ma i figli che egli ebbe, tanto da altre dee, quanto da donne mortali, il cui numero raggiunge una cifra incalcolabile V. Ercole, Europa, Jo, Semele ecc.
Presso i pagani era generale credenza, che Giunone odiasse tutte le donne di facili costumi, e questa credenza fu maggiormente avvalorata presso i romani, allorquando il loro re Numa Pompilio, proibi a tutte le donne pubbliche, di entrare nei templi consacrati a Giunone. In Grecia stessa, e propriamente vicino alla città di Argo, vi era una fonte chiamata Canatosa, e secondo altri Canata — V. Canatosa, la quale era consacrata a Giunone, perchè si riteneva che la dea andasse a bagnarvisi una volta l’anno. Si credeva anche che le acque di quella fonte avessero la strana prerogativa, di ritoruare la verginità alle donne che l’avevano perduta.
Ma se in molti punti opinioni degli scrittori, e cronisti della favola, sono, nella grande generalità, unanimi e concordi su molti particolari riguardanti la Giunone pagana ; altrettanto differenti sono le notizie trasmesseci da molti di essi riguardo ai diversi figliuoli di questa dea. Infatti Esiodo asserisce aver Giunone avuto quattro figli, cioè : Vulcano, Ebe, Venere e Lucina ; altri vogliono che a questi si aggiungessero altri due, cioè : Marte, Dio della guerra, e Tifone. Fra gli scrittori che aggiungono questi ultimi due, ai figli di Giunone, ve ne sono molti i quali allegorizzano con simbolica configurazione la nascita di questi figliuoli. Infatti, troviamo nelle cronache, che Giunone divenne madre di Tifone, facendo uscire dalla terra una specie di miasmo che ella ricevette nel seno ; che dette la luce a Marte, ponendosi in grembo un fiore ; ad Ebe, mangiando delle lattughe ecc.
Siccome nel culto dei pagani, essi attribuivano a tutte le loro divinità un qualche speciale incarico ; così le cronache mitologiche, ripetono che Giunone sopraintendeva agli imperi e alle ricchezze della terra. Da ciò si asserisce che ella offerisse a Paride, gran parte dei beni della terra, se avesse voluto aggiudicarle il pomo d’oro su cui la Discordia avea scritto : Alla più bella — V. Giudizio di Paride — Nè a ciò solo si limitavano i poteri e le attribuzioni di Giunone ; ma essa nel culto pagano era ritenuta ancora come la dea che presiedeva ai matrimonii, alle nozze, ai parti — V. Damiduca, Giuga, Lucina, Pronuba ecc. — Aveva ancora la speciale presidenza degli abbigliamenti muliebri, e di tutti gli ornamenti, e presiedeva anche alla moneta per modo che veniva sovente chiamata col soprannome di Juno Moneta.
Il culto di Giunone era uno dei più estesi e solenni di tutto il paganesimo, sparso e riconosciuto in tutte le parti del mondo autico. Il racconto dei pretesi prodigi da essa operati, e delle terribili vendette compiute, su coloro che aveano osato sprezzarla, o solamente paragonarsi a lei ; aveva inspirata tanta rispettosa paura, che i pagani non trascuravano nulla onde placare il terribile sdegno di lei, quante volte aveano la sventura di aver fatto cosa che menomamente offendesse la sua maestà.
Essa non veniva onorata in Europa soltanto, ma il suo culto era penetrato in Asia, nell’impero di Cartagine, in Egittò e nella Siria. In Italia ed in Grecia si trovavano da per ogni dove templi, oratori, are ed oracoli a lei dedicati, e soprattutto nella città di Argo, di Samo e di Cartagine.
Ci cade in acconcio di far qui notare ai nostri lettori, che presso i pagani tutte le primitive statue delle differenti divinità altro non erano se non delle pietre informi ; e che da principio anche la statua della Giunone d’Argo, era una semplice colonna ; e non fu che allorquando l’incivilimento dette all’arte greca e latina un così splendido sviluppo, come avvenne di poi, che le differenti statue delle deità pagane, raggiunsero quel grado di perfezione, che anche oggidì si ammira, come una prova stupenda d’arte.
Ordinariamente però, Giunone veniva rappresentata sotto la figura d’una donna d’imponente e maestosa bellezza ; ricoperta d’un manto reale ; con uno scettro in una mano, e con una corona sul capo, irradiata di raggi. Ai suoi piedi riposava comunemente un pavone, suo uccello favorito, che non si dà come attributo a nessun’altra divinità.
Anche il papero e lo sparviere erano gli uccelli a lei consacrati, ed è questa la ragione per la quale si vedono auche oggidi, molte statue di quella dea, con uno di questi volatili a fianco.
I greci e i romani, offerivano generalmente a Giunoue il papavero, il dittamo ed il granato ; e l’animale che le si sacrificava era l’agnella ; mentre il primo giorno d’ogni mese, s’immolava sui suoi altari una scrofa bianca. Si badava però con ogni accuratezza di non svenar mai sugli altari di lei, una vacca ; perchè la tradizione mitologica ripeteva, che durante la guerra dei giganti contro Ciove, Giunone spaventata si fosse rifuggita in Egitto, sotto la sembianza d’una vacca.
Secondo riferisce Varrone, il nome di Giunone deriva dalla parola latina juvare, a simiglianza della etimologia del nome di Giove, che deriva da juvans pater. V.Giove.
Finalmente per completare le notizie storicomitologiche de gli scrittori dell’antichità ci hanno trasmesso sulla dea Giunone, aggiungeremo che i pagani le davano una gran quantità di appellativi e soprannomi ; alcuni dai nomi dei luoghi in cui era adorata, ed altri moltissimi da qualche suo attributo. I più comuni fra i {p. 229}soprannomi di Giunone erano : Aerea, Argolia detta anche Argiva, Candrena, Citeronia, Gabia, Lacedemonia, Olimpica, Talchinia ecc. come pure Caprotina, Calendaride, Equestre, Februale, Gamelia o Nuziale, Enioca, Pronuba, Regina, Giuga, Lucina, Natale, Quirita, Conservatrice, Sospita, Moneta, Placida ecc. ecc. Per tutti questi nomi vedi gli articoli particolari.
2173. Giunoni — Nome collettivo che i pagani davano ai genii particolari delle donne. Era credenza generalizzata presso gli antichi, che tutte le donne avessero una loro Giunone particolare e tutti gli uomini un genio.
Della verità di quanto asseriamo, fanno fede le molte iscrizioni antiche, che
ci sono state tramandate sia dai ruderi dei monumenti rispettati dal tempo,
sia nei papiri. Infatti su di una pietra d’un monumento che si vuole sia
quello della vestale Giunia Torquata, di cui parlammo all’articolo
particolare, si leggono in greco queste parole che noi traduciamo alla
lettera : Alla Giunone di Giunia Torquata celeste
protettrice
.
Presso i greci le donne giuravano comunemente per la loro Giunone, e questo giuramento era ritenuto come sacro.
2174. Giunonie — Feste particolari celebrate in Roma in onore della dea Giunone.
2175. Giunonio — I pagani credevano che il dio Giano Bifronte avesse introdotto in Italia il culto delle dea Giunone e perciò lo designavano col soprannome di Giunonio.
2176. Giuoehi — Il culto religioso dei pagani sopratutto fra i greci ed i romani aveva reso sacri questa specie di pubblici spettacoli, i quali eran sempre dedicati a qualche dio in particolare e talvolta anche a più d’uno di essi insieme.
Vi sono anzi varì cronisti dell’antichità, i quali asseriscono che in Roma il senato avesse promulgata una legge, la quale ordinava che tutti i pubblici giuochi fossero solennizzati con gran pompa in onore di qualche nume ; che non si poteva dar principio a questa pubblica solennità se non dopo aver offerto dei sacrifizii alla divinità in onore della quale veniva celebrata, e svenate le vittime e compiute molte altre religiose cerimonie.
Da ciò emerge chiara e nitida la conseguenza, che la istituzione dei giuochi pubblici, presso i pagani, ebbe per motivo apparente la religione ; ma lo studio dell’antichità ci prova abbastanza chiaramente che la politica aveva, nella celebrazione di questi pubblici divertimenti, la sua gran parte ; imperocchè la gioventù acquistava per mezzo di questi esercizi, amore alle cose militari e marziali ; ed i giovani si rendevano più disposti, più svelti, e robusti, essendo continuamente occupati in questi esercizi, che sviluppano così potentemente le forze del corpo, procurando a questo una sanità vigorosa e robusta.
Fra i giuochi pubblici si distinguevano dai pagani le corse, i combattimenti e gli spettacoli.
Le corse dette anche con nome proprio giuochi equestri o curuli, consistevano in alcuni esertcizì che si eseguivano nel circo dedicato a Nettuno, e secondo altre opinioni, al Sole, dopo le consuete cerimonie religiose. I combattimenti detti anche giuochi agonali, consistevano nella lotta, nel pugillato e in altri combattimenti eseguiti tanto da uomini contro uomini, quanto da uomini contro animali. Comunemente i giuochi agonali venivano celebrati nello anfiteatro di Marte, e si facevano in onore di questo dio e talvolta anche di Diana. Finalmente gli spettacoli ai quali si dava più propriamente il nome di giuochi scenici, consistevano nella rappresentazione di alcune satire, commedie e tragedie, che si ese guivano nel teatro pubblico, in onore di Apollo, di Bacco e di Venere.
Oltre a queste tre specie di pubblici spettacoli ve ne erano molti altri in uso presso i pagani, fra cui i principali tanto in Roma quanto in Grecia, erano i giuochi detti Olimpici, i Nemei, gl’Istmi ed i Pilj, che erano tenuti in grande considerazione, sopratutto gli Olimpici, la cui celebrazione marcava perfino con cronologica importanza una data nel corso dell’anno, alla quale i romani e sopratutto i greci davano il nome di Olimpiade. Oltre a questi principali pubblici spettacoli, ve ne erano dei secondari, la cui celebrazione si faceva con minor pompa dei sopracennati, ma che ciò non pertanto avevano presso gli antichi una tal quale importanza. Fra questi bisognerà ricordare i giuochi detti Capitolini, gli Aziacei, gli Apollinarii, i Pirrici e i Megalesi, e poi gli Equestri, i Florali, i giuochi di Cerere detti anche Cereali, V. Cereali, i Giovenali, quelli del Circo ecc. ecc. e finalmente i giuochi detti Neroniani, i secolari, i romani, i trojani ed infine i giuochi detti funebri, celebrati con grandissima pompa e solennità, e con tutto l’apparato di una importantissima cerimonia religiosa, in onore di qualche illustre defunto. Così Virgilio ci ripete la descrizione dei solenni giuochi funebri, che Enea celebra sul sepolcro di suo padre Anchise. Similmente Omero nell’Iliade, ci descrive i giuochi funebri celebrati da Achille in onore del morto amico Patroclo, e l’istesso autore ci ha nell’Odissea trasmesso la descrizione dei solenni giuochi, celebrati nella corte di Alcinoo.
ed io quando l’AuroraTranquillo e queto il nono giorno adduca,A’ solenni spettacoli v’invitoDi navi, di pedoni e di cavalli,Al corso, a la palestra, al cesto, a l’arco.Ognun vi si prepari, ognun ne speriDegna del suo valor mercede e palma.Virgilio — Eneide — Libro V Trad. di A. Caro..
Tronco ogn’indugio, Achille il terzo giuocoPropose, il giuoco della dura lotta,E de’premii fè mostra ; al vincitoreUn tripode da fuoco, e a cui di dodiciTauri il valore dagli Achei si dava{p. 230}Ed al perdente una leggiadra uncellaQuattro tauri estimata, e che di moltiBei lavori donneschi era perita.Rizzossi Achille e a quegli eroi rivoltoSorga, disse, chi vuole in questo ludoDel suo valor far prova. ImmantinenteSurse l’immane Telamonio Aiace,E il saggio mastro delle frodi Ulisse.Nel mezzo della lizza entrambi accintiPresentarsi, e stringendosi a vicendaColle man forti s’afferrar, siccomeDue travi che valente architettoreCongegna insieme a sostener d’eccelsoEdificio il colmigno, agli urti invittoDegli aquiloni. Allo stirar de’validiPolsi intrecciati scricchiolar si sentanoLe spalle, il sudor gronda, e spessi appaionoPe’larghi dossi e per le coste i lividiRosseggianti di sangue. Ambi del tripodeA tutta prova la conquista agognano,Ma nè Ulisse può mai l’altro dismuovereE atterrarlo, nè il puote il Telamonio,Che del rivale la gran forza il vieta.Gli Achei nojando omai la zuffa, AiaceAll’emolo guerrier fe’questo invito :Nobile figlio di Laerte, in altoSollevami, e sollevo io te : del restoAbbia Giove la cura. E cosi detto,L’abbranca e l’alza. Ma di sne malizieMemore Ulisse col tallon gli sferra.Al ginocchio di retro ove si piega.Tale un sùbito colpo, che le forzeScioglie ad Aiace, e resupino il gittaCon Ulisse sul petto. Alto levossiDe’riguardanti stupefatti il grido.Tentò secondo il sofferente UlisseAlzar da terra l’avversario, e alquantoLo smosse ei si, ma non alzollo. IntantoL’altro gl’impaccia le ginocchia in guisaChe sossopra ambedue si riversaroE lordarsi di polve. E già risurtiSariano al terzo paragon venuti,Se il figlio di Peleo levato in piediNon l’impedia, dicendo : Oltre non vadaLa tenzon, nè vi state, o valorosi,A consumar le forze. Ambo vinceste,E v’avrete egual premio. Itene, e restiAgli altri Achivi libero l’aringo.Obbedir quelli al detto, e dalle membraTersa la polve, ripigliar le vesti.Omero — Riade — Libro XXIII Trad. di V. Monti.
Del corso fu la prima gara Un lungoSpazio stendeasi alla carriera ; e tuttiDalle mosse, volavano in un groppo,Densi globi di polvere levando.Avanzù gli altri Clitoneo, che, giuntoDella carriera al fin, lasciolli indietroQuell’intervallo, che i gagliardi muliI tardi lascian compulenti buoi,Se lo stesso noval fendano a un’ora.Succedè al corso l’ostinata lotta.Ed Eurialo prevalse. Il maggior saltoAmfialo spiccollo, e il disco lungeNon iscagliò nessun, come Elatreo.Laodamante, il real figlio egregio,Nel pugile severo ebbe la palma.Omero — Odissea — Libro VIII Trad. di I. Pindemonte.
2177. Giuramenti — I pagani avevano moltiplici e differenti formole di giuramenti, ma la più comune era quella di giurare per Giove Pietra — Deum Lapidem — Gli dei stessi giuravano per le acque stigie, e questo giuramento era ritenuto come inviolabile o sacro. Giove presiedeva ai giuramenti, e i pagani ritenevano per fermo che il violatore d’un giuramento veniva colpito dal fulmine.
La tradizione mitologica racconta a proposito dell’inviolabile giuramento che gli dei stessi facevano per le acque stigie, che avendo la Vitto ria figlia del fiume Stigie, soccorso Giove nella guerra contro i giganti, il padre dei numi in riconoscenza verso di lei, comandò che tutti gli dei avessero giurato per le acque stigie ; e che quello che avesse violato codesto giuramento, dovesse aggirarsi privo di vita e di senso nello spazio, durante il periodo di 9mila anni.
Lo storico Serbio, rende ragione di simile tradizione col dire che gli dei essendo beati ed immortali giuravano per lo stigie, che è un fiume di mestizie e di dolore, come per una cosa completamente ad essi contraria ; e che quindi questo era ritenuto come un giuramento di esecrazione.
Al dire di Diodoro, gli abitanti dell’isola di Sicilia, andavano uel tempio degli dei Palici a fare i giuramenti ; e che gli spergiuri venivano immediatamente puniti ; e tanto che al dire del cennato scrittore, vi sono state delle persone colpite di cecità, al momento stesso di uscire dal tempio, nel quale avevano spergiurato.
Presso i romani era anche comunissimo l’uso di giurare per gli dei e per i semi dei. Comunemente essi giuravano per Quirito, per Ercole, per le corna di Bacco, e per Castore e Polluce, con una formola particolare V. Castore e Polluce.
Riguardo quest’ultima formola di giuramento, lo storico Aulo Gellio dire che questa fu introdotta presso i romani anche nei misteri Eleusini.
Le donne gioravano ordinariamente per le loro Giunoni, e gli uomini per i loro genii V. Giunoni.
Sotto il governo degl’imperatori romani, era comunissimo il giuramento per l’imperatore regnante.
Al dire dello storico Svetonio, l’efferata mattezza dell’imperatore Caligola, giunse a tal punto che impose si giurasse pel cavallo bucefalo, facendo punire di morte chi ricusava di farlo.
2178. Giustizia — A questa divinità i greci davano il nome proprio di Astrea, ed i romani quello di Temi ; sebbene vi sono varii scrittori e cronisti dell’antichità i quali asseriscono che in Roma la dea chiamata Temi era diversa dalla giustizia.
{p. 231}Scrive Anlo Gellio che la giustizia veniva comunemente raffigurata sotto le sembianze di una donna maestosamente severa, colla mestizia negli occhi e una spada nella mano. I greci la raffiguravano con una bilancia ed una spada nuda, per dinotare che la giustizia premia e castiga, dopo aver pesato le azioni degli uomini.
Esiodo ripete che la giustizia figlinola di Giove stava nel cielo sul carro del padre suo, al quale dimandava vendetta contro gli uomini, tutte le volte che questi offendevano le sue leggi.
Al dire di Arato, la giustizia abitò sulla terra durante tutto il periodo dell’età dell’oro, conversando giorno e notte con gli uomini d’ogni età e d’ogni condizione, e insegnando loro le sue leggi. Durante l’età d’argento, ella non si fece vedere che in tempo di notte ; e finalmente venuto il terribile periodo della età di ferro, ella inorridita alle colpe degli uomini, si ritrasse nel ciclo nè fece più ritorno sopra la terra.
2179. Giuturna — Sorella di Turno, re dei Rutuli e figlia di Dauno. La tradizione ci ripete che Giove, innamoratosi di lei, la richiese dei suoi favori ed ella aderì volentieri volentieri alle voglie del suo amante immortale ; il quale in premio dei favori ricevuti da lei, l’innalzò fra le divinità, e le dette la presidenza sugli stagni e sui piccoli fiumi.
Le cronache raccontano, che Giuturna, informata da Giunone che Turno ed Enea avrebbero posto fine a la guerra che sostenevano l’uno contro l’altro, con un particolare duello, nel quale sarebbe caduto vittima il fratello di lei ; ella rivestì la divisa dei guerrieri di suo fratello e mischiatasi ai soldati di lui, si adoperò a fare in modo che questi avessero rotto il trattato. Ma non essendo riuscita nel suo intento, e vedendo che Enea incalzava da vicino Turno, montò sul carro del fratello, e lo sottrasse alla vista del suo nemico. Ma tutto ciò non valse ad impedire il fatale duello, nè a salvare Turno, il quale morì per mano di Enea, e allora Giuturna disperata si gettò nel fiume Numico, e Giove la cangiò in una fonte, conosciuta sotto l’istesso nome.
………E così detto,Grama e dolente, di ceruleo ammantoIl capo si coverse. Indi correndoNel suo fiume gittossi, ove s’immerseInfino al fondo, e ne mandò gemendoIn vece di sospir gorgogli a l’aura.Virgilio — Encide — Libro XII. trad. di A. Caro.
Infatti le cronache dell’antichità, ci rivelano che nel Lazio, vi era una fontana chiamata Giuturna, che metteva foce nel fiume Numico, alle cui acque i pagani attribuivano salutari virtù e se ne servivano particolarmente nei sacrifizi della dea Vesta, ragione per la quale si chiamava l’acqua della fontana di Giuturna, con l’appellativo di acqua verginale.
Al dire di Varrone, Giuturna era anche il nome di un’altra divinità, che i romani invocava no particolarmente quando intraprendevano una qualche impresa.
2180. Giuventa — Dea della gioventù V. Gioventù.
2181. Gladiatore — Antichissimo era presso i pagani l’uso di sacrificare i prigionieri di guerra, gli sehiavi, all’ombre degli uomini grandi, caduti in battaglia.
…….Gli fa gir legatiCon le man dietro, i destinati a mortePer onoranza del funereo rogo.Virgilio — Eneide — Libro XI trad. di A. Caro.
Preso alfin da spietata ira, le goleDi dodici segò prestanti figliDe’magnanimi Teucri, e sulla piraScagliandoli, destò del fuoco in quellaL’invitto spirto struggitor, che il tuttoDivorasse…………Omero — Itiade — Libro XXIII trad. di V. Monti.
Coll’ andare del tempo questo barbaro uso, fu seguitato ; e ai funerali dei ricchi s’immolavano gli schiavi che loro avevano appartenuto.
Però a misura che la civiltà spandeva la sua luce rigeneratrice presso i popoli antichi, codesta barbara usanza cadde poco a poco in disuso ; e allora fu che alle pompe dei funerali solenni, fu introdotto il costume di far che gli schiavi combattessero fra di loro, piuttosto che ucciderli come bestie. Da ciò ne venne che la professione di gladiatore, fu poi un’arte pubblicamente esercitata.
Generalmente i gladiatori si servivano nelle loro lotte di una spada corta e larga ; specie di brando, al quale si dava il nome di gladius donde deriva la parola gladiatore.
Il popolo romano accorreva folto e numeroso ad assistero al combattimento dei gladiatori, e prendeva un crudele diletto nel vederli morire coperti di sangue.
Al dire di Cicerone, quando in Roma furono stabiliti i giuochi dei gladiatori, si dovè distruggere il tempio della Misericordia, non essendo possibile che si fosse adorata questa mite e soave divinità da un popolo che assisteva con tanta passione ad un si disumano spettacolo.
2182. Glauca — La stessa conosciuta nella tradizione storico mitologica sotto il nome di Creusa, che fu figlia di Creonte, re di Corinto.
….Unica figliaDi Creonte son io……Della Valle — Medea — tragedia Atto 2.° Scena III
Sposata da Giasone, fu per gelosia fatta morire da Medea con un cinto avvelenato. V. Creusa.
{p. 232}.....Il fatal cintoIo le porgeva ; e l’inducca co’prieghiA farne prova al sen. Misera ! Ed ecco,Atrocissimo duol le membra e l’ossaTutte le invade, e un brivido di morteLe ricerca ogni fibra. In alte stridaAllor prorompe l’infelice : indarnoAl suol si prostra e si contorce, e tentaSveller dal fianco l’infernal tuo dono.Corrono indarno ad aitarla il padre,Il marito, le ancelle… Ahime ! Chi puoteTutta ridir la miseranda scena….DellaValle — Medea — tragedia
Atto 5.° Scena III
2183. Glauce — Così avea nome una delle cinquauta ninfe Nereidi.
Al dire di Cicerone, si dava anche il nome di Glauce ad una terza Diana, moglie di Upi.
2184. Glauconoma — Un’altra delle cinquanta Nereidi.
2185. Glauco — Le cronache mitologiche ricordano di molti individui noti sotto codesto nome ; e noi verremo qui appresso partitamente menzionando dei più importanti.
Glauco avea nome uno dei figliuoli d’Ippolito, del quale la tradizione racconta, che essendo caduto in una botte di miele, vi restò soffocato e che il dio Esculapio, l’avesse ritornato alla vita, filtrandogli nella bocca il sangue di un dragone.
Lo scrittore Palesat, spiegando nelle sue cronache sull’antichità, codesta tradizione favolosa, dice che Glauco, avendo fatto troppo e frequente uso di miele, era presso a morte per anemia ; e che un famoso medico per nome Dracone, lo avesse ritornato alla sanità per mezzo di un suo specifico.
Glauco fu similmente il nome di un figliuolo di Minosse, re di Creta : egli fu fratello di Andropeo.
Il più famoso personaggio a cui le tradizioni della favola, danno lo stesso nome di Glauco, fu un dio marino che alcuni mitologici presentano come figlio di Nettuno e di Naide ; e altri come figliuolo di Alcione e di Antedone ; ed altri finalmente di Polibio e di Eutea.
La tradizione mitologica narra di questo Glauco, uno strano avvenimento ; dicendo che egli che era un famoso pescatore della città di Antedone in Beozia, avesse preso un giorno gran quantità di pesci con le sue reti ; e che avendoli posti sull’erba della spiaggia, vide saltare quei pesci come se fossero ancora nel loro naturale elemento. Colpito da quel fatto per sè stesso semplicissimo, Glauco non dubitò che l’erba che nasceva su quelle spiagge, avesse una qualche segreta e particolare virtù ; onde volendo farne l’esperienza ne masticò all’istante vari fili. Ma non appena ebbe ciò fatto intese uno strano commovimento nelle vi. scere e nel cuore ; e fu immantinenti colpito da un ardente ed indomabile desiderio di cangiar natura ; per modo che si precipitò in mare ; ove al della tradizione, la dea Teti e l’Oceano lo misero nel numero delle divinità marine.
In ordine distendo i pesci presiSovresso l’erba ; cosi que’che coltiFur nelle reti, come quei che troppoCreduli s’impigliar nell’amo adunco.Sembra menzogna il fatto : (ma qual fruttoIo m’avrei del mentir) ? toccando l’erba,Si diero ad agitarsi i miei cattivi,E a voltarsi in sul fianco, e in sulla terraGuizzar così come già fean nel mare.E mentre io bado, e maraviglio a un tempo,Nell’onde sua sbrisciò la turba tutta,Il padron nuovo abbandonando, e il lido.Stupefatto rimango, e a lungo incerto,Investigarne la cagione agogno ;Se per voler d’un nume, o per lo succoDell’erbe il fatto nacque. Or qual virtute.Diss’io tra me, puote albergar nell’erbe ?E di quelle un manipolo strappando,Fra’denti il maciullai. Disceso appenaEra il succo novel giù per la gola,Quando tutte le viscere commosseMi sentii d’improvviso, e da un desioDal natural diverso il cor rapito.Nè restarmi potei, là dove io m’era.E, terra, dissi, sovra cui per sempreIlo di posar cessato, io ti saluto ;Ed il corpo tuffai per entro all’onde.Con ceremonie di compagno, accoltoFui da’numi del mare. Ond’io m’andassiSciolto da tutte qualitadi umane,Oceano e Teti a me maestri furo,E perchè forte io fossi ad ogni prova.Ovidio — Le Melamorfosi — Libro XIII, fav. IX Traduz. del Cav. Ermolao Federigo.
Egli veniva adorato sotto la figura di un uomo con folta e lunga barba ; con le sopracciglia unite in modo da formarne una sola ; col petto coperto di alga marina fino alla cintura, da cui usciva una larga coda di pesce ripiegantesi sulle reni.
Il cronista Ateneo ampliando codesta strana tradizione, aggiunge che Glauco s’innammorò di Arianne, quando Bacco l’abbandonò ; e si dette ad amarla con passione ; ma che Bacco per castigarlo lo avesse fatto legare ad un albero con alcuni sarmenti di vite, dai quali egli poi trovò mezzo di sciogliersi.
Nella città di Antedone, vi era uno scoglio conosciuto, al dire di Pausania, sotto il nome di Salto di Glauco ; che sorgeva nel luogo ove egli si precipitò in mare, e dove a poca distanza s’innalzò poi un tempio e quindi anche un oracolo, consultato in particolar modo dai marinai.
Secondo le opinioni di Diodoro, questo Glauco dio-marino, fu quello che servi di scorta agli argonauti, quando mossero al conquisto del vello d’oro V. Argonauti.
Ancora di un altro Glauco fa menzione la cronaca mitologica, presentandocelo come figlio di Sisifo e di una ninfa atlantide chiamata Merope.
Dall’ Eolide Sisifo fu natoGlaucoOmero — Iliade — Libro VI tradi. di V. Monti
{p. 233}Le cronache dell’antichità raccontano ch’egli morisse sotto i piedi delle proprie cavalle, imbizzarritesi durante la celebrazione dei giuochi funebri in onore di Pelia.
Virgilio però attribuisce ad altra ragione la morte di Glauco.
Secondo il cennato poeta, Glauco non volle accondiscendere che le sue cavalle fossero fecondate dagli stalloni all’uopo nudriti, credendo di renderle più veloci alla corsa. Venere allora, sdegnata contro di Glauco, rese le cavalle di lui furiose al punto, che fecero in pezzi il loro padrone.
Ma non cadde si forte ad altre belveAmoroso furor come a giumente ;Per entro l’acque di Beota fonteVenere ad esse lo spirò nell’oraChe lasciarono andar l’irato denteAlle membra di Glauco.Virgilio — Delle Georgiche — Lib. III trad. di D. Streocchi.
Di un altro Glauco pure fanno menzione le cronache dell’antichità, presentandocelo come nipote di Bellorofonte, e figliuolo d’Ippoloco ; e come uno dei comandanti dei Licii, che sotto gli ordini del famoso Sarpedone, soccorsero i Trojani nell’assedio della loro città. Suo padre, al dire di Omero, al momento della partenza lo avea caldamente esortato a distinguersi nelle battaglie pel suo valore, ingiungendogli di vincere in generosità i più celebri eroi, onde onorare degnamente l’illustre nome dei suoi antenati.
… . .e a me la vitaIppoloco donò, di cui m’è dolceDirmi disceso. Il padre alle trojaniMura spedimmi, e generosi sproniM’aggiunse di lanciarmi innanzi a tuttiNelle vie del valore, onde de’mieiPadri la stirpe non macchiar… …Omero — Iliade — Lib. VI. trad. di V. Monti.
Durante l’assedio, avendo Diomede sfidato Glauco ad una singolare battaglia, essi si accingevano al combattimento, allorchè Diomede avendo saputo che Glauco era nipote di Bellorofonte, la cui famiglia era sacra all’eroe greco per dritto d’ospitalità, depose a terra l’asta che avea brandita ; abbracciò Glauco con effusione d’affetto ; e giurò che non avrebbe più combattuto contro di lui.
Però non potendo fare entrambi a meno di compiere il loro dovere, uno fra le fila dei greci, e l’altro fra quelle dei trojani, essi scambiarono le loro armi, volendo con ciò dimostrare che se pure nemici per ragioni di patria, essi erano amici per l’affetto che li legrava insieme. Glauco ricordandosi le ingiunzioni paterne di vincere, cioè in generosità ogni altro guerriero, dette in cambio delle armi di bronze che Diomede gli avea dato, un’intera armatura d’oro, stimata al valore di cento buoi.
Questo fatto dette, presso i troiani, vita ad un proverbio che diceva : Questo è il baratto di Glauco e Diomede. Glauco fu ucciso in battaglia poco tempo dopo questo fatto, e Enea lo rivide all’inferno fra i più famosi guerrieri.
Finalmente Glauco avea nome un figliuolo di Dimilo, discendente di quello stesso dio marino, di cui parlammo più sopra. Egli si rese celebre nei fasti del paganesimo, per la sua destrezza e per la sua forza ; cosa che gli valse più volte gli onori del premio nei giuochi Ginnici.
Narra la tradizione che un giorno, mentr’egli era ancora giovanissimo, suo padre lo vide accomodare con un pugno l’aratro, che si cra torto, mentre coltivava la terra. Sorpreso di tanta forza, il vecchio genitore condusse Glauco ai giuochi olimpici, e lo fece iscrivere fra i combattenti la lotta. Però a principio Glauco con tutta la sua forza, stava per essere vinto, allorchè suo padre Dimilo, gli gridò ad alta voce : Ricordati dell’aratro. Questa semplice esortazione bastò a rianimare il coraggio di Glauco, il quale ebbe il premio della lotta. Con l’andare del tempo egli fu vittorioso otto volte nei giuochi Nemei e negli Istmi, e due nei giuochi Pitii. In memoria di ciò, gli fu innalzata una statua in Cariste, sua patria, nella contrada Eubea ; e dopo la sua morte i suoi concittadini gl’innalzarono un monumento eroico e dettero alla città di Eubea il nome di isola di Glauco.
2186. Globo — I pagani rappresentavano il Tempo con un gran globo nella destra, il quale raffigurava l’universo.
Sulle antiche medaglie portanti l’effigie del sovrano che le avea coniate, si vedeva spesso un globo nella mano del principe, come simbolo della sua potenza.
2187. Goezia — Dalla parola greca οντεια che significa incantesimo. I pagani davano questo nome ad una specie di magia, che si faceva per compiere i maleficii. I genii malefici erano i soli evocati durante questo incantesimo, che si faceva di notte, presso i sepolcri, con gemiti e lamenti.
2188. Gordiano — La tradizione mitologica spiega nel seguente modo il fatto che si rapporta a questo nodo così chiamato.
Il padre del fameso Mida, re di Frigia, aveva un carro, il cui giogo era legato al timone per mezzo di un nodo di così intrigato e difficile magistero che non era possibile, non solo di scioglierlo, ma di comprendere come fosse fatto. Ora un’antica tradizione Frigia diceva, che l’oracolo avea predetto che colui che avesse saputo sciogliere quel nodo, avrebbe avuto l’impero della Asia.
L’imperatore Alessandro, trovandosi di passaggio per la Frigia, ebbe vaghezza di vedere il nodo Gordiano, e persuaso che la predizione dell’oracolo lo riguardasse personalmente, fece molti tentativi per scioglierlo ; ma non essendone venuto a capo, temendo che i suoi soldati non avessero da ciò tratto cattivi auspici per le battaglie avvenire, lo tagliò con un colpo di spada, compiendo così la predizione dell’oracolo.
{p. 234}Il cronista Arriano aggiunge, a questo proposito, che appena Alessandro ebbe tagliato il nodo ; si ritrasse con tutto il suo seguito, come se avesse del tutto compiuta la predizione ; cosa che fu confermata nell’opinione generale, dalla tempesta, che segui nella notte di quel giorno, durante la quale s’intesero tuoni e saette ; cosicchè Alessandro ordinò il giorno seguente molti sacrifizii agli dei, in ringraziamento dei segni di favore che gli avevano dato.
2189. Gordio — Padre di Mida V. l’articolo precedente.
Di questo Gordio le cronache mitologiche narrano uno strano avvenimento. Durante la sua gioventù, egli era stato niente altro che un povero lavoratore, ricco solo d’un pajo di buoi ; uno dei quali gli serviva per tirare il carro, e l’altro per arare la terra. Un giorno, mentr’egli lavorava, un’aquila andò a posarsi sul giogo dell’aratro e vi restò fino alla sera. Sorpreso Gordio e pieno di maraviglia, si recò ad interrogare i Telmissi, specie di sacerdoti, dotti nell’arte d’indovinare, e ai quali, secondo asserisce il cronista Arriano, l’arte della divinazione era così naturale, che perfino le loro donne e i loro fanciulli eseguivano gl’incantesimi e predicevano l’avvenire. Avvicinatosi Gordio ad uno dei villaggi ove dimoravano i Telmissi, s’incontrò in una giovanetta che andava ad attinger acqua ad una prossima fonte ; e attratto da quella confidenza che ispira sempre un volto sereno e giovanile, Gordio le palesò il motivo del suo viaggio, e quella fanciulla, che era della schiatta degli indovini, gli rispose che doveva sagrificare a Giove sotto l’appellazione di Giove re o di sovrano. Gordio pregò allora la giovanetta che volesse accompagnarsi con lui, onde insegnargli la formola del sacrificio. Essa accondiscese al suo desiderio, e dopo qualche tempo Gordio la sposò, e ne ebbe un figlio che fu chiamato Mida. Intanto con l’andare degli anni essendo fra gli abitanti della Frigia surte delle gravi dissensioni ; essi fecero ricorso all’oracolo, il quale rispose che la pace sarebbe ritornata nel loro paese, per mezzo di un re che fosse venuto ad essi su di un carro. Mentre gli abitanti della Frigia stavano in attenzione del compimento dell’oracolo, videro andare alla loro volta Mida con suo padre e con sua madre, seduti su di un carro. Allora riconoscendolo per l’uomo cui accennava l’oracolo, lo elessero re, ed egli pose fine a tutte le loro dissensioni. Mida in riconoscenza della grazia ottenuta da Giove, fece sospendere nel tempio di questo dio il famoso carro sul quale avea fatto il viaggio.
2190. Gorgizione — Uno dei figliuoli del re Priamo, e della bellissima Castianira, la quale, al dire di Omero, rassomigliava per la sua bellezza alle dee. Gorgizione morì all’assedio di Troja, ucciso per mano di Teucro con una freccia che avea mancato Ettore.
Al colpo tuttaEi l’anima diresse, e nondimenoFalli la freccia, chè l’accolse in pettoDi Prïamo un valente esimio figlioGorgïzon, cui d’Esima condottaPartori la gentil Castïanira,Che una Diva parea nella persona.Omero — Iliade — Lib. VIII. trad. di V. Monti
2191. Gorgofona — Una delle figlie di Perseo : fu tolta in moglie da Peririete, re dei Messeni.
2192. Gorgofora — V. Gorgonia.
2193. Gorgoni — Queste tre sorelle figlie di Forco, dio marino, e di una donna per nome Ceto, formavano la triade che insieme alle Arpie, ai Ceutauri e agli altri mostri, dimoravano nell’inferno, ed avevano la special cura di punire i dannati. Esse erano individualmente chiamate Medusa, Steno, ed Euriala.
Al dire di Esiodo, esse soggiornavano al di là dell’oceano, vicino alla dimora della Notte, alla estremità del mondo.
Secondo la tradizione favolosa, a cui si attiene il citato scrittore, le Gorgoni non avevano fra tutte e tre che un occhio solo, ed nu sol dente, di cui si servivano a vicenda l’una dopo l’altra. La loro capellatura era formata di serpenti ; le mani erano di bronzo ; ed un solo loro sguardo valeva ad uccidere un uomo.
Pindaro ripete che bastava che le Gorgoni avessero fissato un uomo, perchè questo restasse all’istante pietrificato.
Virgilio asserisce che Medusa era la loro regina e che quando questa fu disfatta V. Medusa le tre sorelle andarono ad abitare vicino alle porte dell’inferno insieme alle furie, alle arpie ecc. e a tutti i mostri di cui fa mezione la cronaca favolosa.
In su le porteI biformi Centauri……………… . .e con MedusaLe Gorgoni sorelle,Virgilio — Encide — Lib. VI. trad. di A. Caro.
Il cronista Diodoro, che è uno dei più accreditati scrittori dell’antichità, ripete che le gorgoni abitavano la Lidia, vicino al lago Tritonide, e che altro non erano se non donne guerriere governate da Medusa, loro regina, e che fossero poi completamente distrutte da Ercole. Per altro, codesta opinione di Diodoro è combattuta dal cronista Ateneo, secondo il quale le gorgoni non erano altro che dei terribili e mostruosi animali che uccidevano con lo sguardo. Il citato autore ripete che nella Lidia, i popoli conosciuti col nome di Nomadi, chiamavano gorgone un animale che so migliava ad una pecora ; il cui alito era così velenoso, che uccideva all’istante tutti coloro che gli si avvicinavano. Aveva sulla testa una massa folta e pesante di lunghissimi crini, i quali ricadendo sul davanti della fronte, gli impedivano di vedere gli oggetti, se non dopo d’essersi tolti innanzi agli occhi quei foltissimi e ruvidi crini. Allora qualunque fosse stato l’uomo sul quale s’arrestavano quegli sguardi fatali, immediatamente lo rendevano cadavere.
{p. 235}La cronaca storico-favolosa, a cui s’attiene lo stesso Ateneo, asserisce che alcuni soldati dell’esercito di Mario, nel tempo che le legioni romane combattevano nella guerra contro Giugurta, avendo incontrata una delle gorgoni le dettero la caccia per farla morire, ma essa li prevenne e con uno sguardo le rese tutti cadaveri. Finalmente è scritto che alcuni cavalieri Nomadi, essendosi un giorno imbattuti con una delle gorgoni, la uccisero da lontano senza che essa avesse potuto vederli, a colpi di freccia.
Non sono queste le sole notizie pervenuteci dagli scrittori dell’antichità, sulle gorgoni ; e per quanto moltiplici sono i ragguagli trasmessici su di esse, altrettanto differenti e contradittori sono i pareri di molti altri autori.
Infatti alcuni pretendono, che le gorgoni, lungi dall’essere degli animali mostruosi e terribili, erano invece delle donne giovani e bellissime, largamente fornite di tutti i doni e le prerogative della bellezza, che vale ad ammaliare con uno sguardo. L’impressione che produceva la loro bellezza era così istantanea, che fu detto caugiassero in pietre gli uomini. Plinio ne parla come di donne selvagge, abitatrici delle Gorgati, da cui venne loro il Lome di gorgoni ; ed aggiunge che il solo Annone, generale dei cartaginesi, fosse penetrato fino alla loro dimora ; ove trovò alcune donne le quali avevano la prerogativa di correre così velocemente, come il più rapido uccello nell’aria.
Annone cercò d’impadronirsi di alcuna di esse, ma dopo molta fatica non potè prenderne che due sole, il cui corpo era tutto coperto di foltissimi e lunghi crini. Il citato scrittore ripete che Annone per conservare memoria dello strano avvenimento, facesse appendere la pelle delle gorgoni, nel tempio sacro a Giunone, ove restò fino alla distruzione di Cartagine.
Il cronista Palesato, a sua volta, ripete che le Gorgoni regnarono su tre isole dell’Oceano, e che alla sopraintendenza degli affari del loro governo, non avevano che un solo ministro, di cui si servivano a vicenda. E questo l’unico occhio di cui fa parola l’allegoria della favola.
Perseo, trascorrendo il mare, sorprese il ministro delle Gorgoni, mentre passava dall’una a l’altra isola, e lo fece prigioniero, ricusando di restituirlo alle sue regine, se queste in cambio non gli avessero ceduta una statua di Minerva, di oro massiccio, alta quattro cubiti, e che le Gorgoni custodivano nel loro tesoro.
La cronaca mitologica aggiunge che, non avendo Medusa voluto accondiscendere alla volontà di Perseo, questi l’avesse ucciso.
Anche fra gli scrittori moderni, tanto italiani quanto stranieri, differenti e contradittorie sono le opinioni sulle Gorgoni. Infatti il Fourmont, facendo capo alle lingue orientali, scopre nel nome delle tre Gorgoni, quello di altrettante navi mercantili, che facevano il traffico sulle coste dell’Africa, ove scaricavano del continuo oro, pietre preziose, denti di elefante, occhi di iene ecc.
Queste navi avevano la figura di un qualche mostro, e Perseo scorrendo i mari si sarà, forse, impadronito di qualcuna di quelle navi, e ne avrà portato in Grecia le ricchezze.
Or dunque alla magnanimaGente da Palla ScorioVenia l’invitto PerseoValor mostrando accor.o.E spinse all’atra foceLa Gorgone feroce.Poi tornando all’orridoTeschio che avea pendenti,Di chioma invece, squallidiViluppi di serpenti,Di Serfo entro le porteReco lapidea morte.Pindaro — O di Pitie — Ode X. trad. G. Borgin.
Secondo altre moderne credenze vi sono autori che pretendono essere le Gorgoni una razza di cavalle allevate dai Fenici, i quali avevano un loro capo per nome Perseo. Queste erano le donne coperte di peli di cui parla Plinio, le quali generavano senza la partecipazione dell’uomo, fecondate solamente dal Zeffiro, come asserisce Virgilio.
Quando il primo calor di primaveraLe scaldo nelle vene, a bocca apertaStanno sui monti a ber l’aura di Zefiro ;E meraviglia a dir ! mercè del ventoE non d’altri imenei gravate il fiancoFuggono per montagne e per convalli.Virgilio — Delle Georgiche — Libro III trad. di D. Strocchi.
2194. Gorgonia o Gorgofora — Soprannome che si dava a Pallade Minerva, perchè essa portava, uno seudo, su cui era impressa una testa della Gorgone Medusa.
2195. Gortina — Detta anche Cortina, città dell’isola di Creta ; famosa per gli ottimi pascoli che vi si trovavano.
Riferisce Omero che ivi pascevano i cavalli del carro del Sole.
2196. Gracco — Gracco Tiberio, padre dei due famosi tribuni della plebe, tanto celebri presso i romani, e marito della famosa Cornelia. Fu uo mo di rigidi e severi costumi, e ottimo cittadino. La cronaca mitologica narra a proposito di lui un bizzarro avvenimento. È scritto che un giorno ci trovasse due serpenti nella sua casa e che sorpreso d’avere gl’inaspettati ospiti nei suoi domestici lari, egli avesse interrogati gli Aruspici, onde saper il modo di regolarsi. Gli Aruspici risposero che s’egli avesse lasciato audare il maschio dei due serpenti, ben presto Cornelia moglie di Tiberio sarebbe morta ; e che per contrario cesserebbe egli stesso di vivere, se lasciava andare la femmina. Gracco allora, amando teneramente la moglie sua, ed essendo già iu età molto avanzata, pensò che era meglio sacrificare la propria vita a quella della moglie, ancor {p. 236}giovane e fiorente ; e lasciò andare la femmina dei due serpenti, e dopo pochi giorni morì.
A questa tradizione favolosa si attiene lo stesso Cicerone nella opera sull’antichità intitolata De Devinatione.
2197. Gradivo — Dalla parola latina gradior che significa cammino. I pagani davano questo soprannome a Marte, dio della guerra, quando veniva raffigurato sotto le sembianze di un guerriero, in atto di marciare, con l’elmo, la picca e lo scudo. In Roma vi era un tempio dedicato a Marte Gradivo. V. Quirino.
2198. Grajè — Dalla parola greca γραιαι che vuol dire vecchie. Gli antichi davano questo nome collettivo alle due figliuole maggiori di Forco e di Ceto, sorelle delle Gorgoni, e il cui nome particolare era Enio e Pefredo.
La tradizione mitologica, a cui si attiene Esiodo, riferisce che i capelli della Graje incanutirono nel punto stesso in cui esse nacquero. Il citato scrittore spiegando codesta favola allegorica dice che le Graje essendo figliuole di Glauco dio marino altro non crano che la personificazione mitologica delle onde del mare, le quali biancheggiano di spuma, appena si muovono.
2199. Granea — Detta anche Amadriade. Fu figliuola di Ossilo, e della ninfa Amadriade, la quale ebbe da lui sette altre figliuole, che insieme a questa Granea furono dal nome, della loro madre, chiamate ninfe Amadriadi.
2200. Gran madre — Con l’appellazione di Magna mater indicavano Cibele che come dea dell’agricoltura, che feconda la terra, è madre comune di tutti gli uomini.
2201. Grazie — Fra l’estesissimo numero delle divinità pagane, non ve n’era alcuna che come queste tre sorelle riunite insieme, avessero avuto maggior numero di adoratori, e templi, e are, e feste come ne avevano le tre Grazie ; perchè i beni dei quali si supponevano le dispensatrice, erano desiderate da tutti.
Discorde è l’opinione dei cronisti e dei mitologi, sulla paternità delle tre Grazie : infatti alcuni ce le presentano come figliuole di Giove e di Eunomia, ninfa Oceanina ; altri come figlie del Sole e di Egle ; altri di Giove e di Giove e di Giunone ; ma l’opinione più generalmente adottata è che le tre Grazie fossero figliuole di Bacco e di Venere.
Secondo questa ultima asserzione più divulgata, le Grazie avevano nome Talia, Egle ed Eufrosina.
Presso i popoli dell’antichità ve ne erano per altro alcuni, come i Lacedemoni, i quali non riconoscevano che due sole Grazie chiamate Faenne e Clito ; e gli stessi Ateniesi avevano la medesima credenza, e le chiamavano Auxo ed Egemone.
Per contrario in altre città della Grecia, si riconoscevano quattro Grazie, e perciò talvolta esse venivano confuse con le quattro stagioni.
Pausania mette nel numero delle Grazie, la dea della Persuasione, volendo per tal modo indicarci che il mezzo più efficace a persuadere è quello di piacere.
Al dire del citato scrittore, le Grazie facevano parte del seguito di Venere, dea degli amori ; e venivano raffigurate sotto le sembianze di giovinette bellissime e sorridenti, inghirlandate di fiori, vestite di lunghe tuniche dorate e col viso, le mani ed i piedi d’una bianchezza marmorea. Comunemente una di esse, portava in mano una rosa ; un’altra un rame di mirto, e la terza finalmente una freccia.
Questa è almeno l’opinione del citato scrittore ; quantunque altri cronisti suoi contemporanei, attestano che le Grazie venivano dipinte interamente nude ; e questa opinione è presso di noi avvalorata da gran numero di medaglie e di bassorilievi dell’antichità, nei quali, se pure ve ne ha qualcuno che ci presenta le Grazie secondo la descrizione fattaci da Paufania, pure è estesissimo il numero di quelli che ce le mostrano interamente nude.
I pagani ritenevano le Grazie come vergini ; sebbene Omero ne dà una per moglie al dio del Sonno ed un’altra a Vulcano.
Un uso assai strano erasi adottato presso gli antichi, riguardo alle tre Grazie ; e questo consisteva nel raffigurarle sempre circondate dei più brutti e lurudi satiri ; e sovente le statue ed i simulacri di questi ultimi, eran vuoti nello interno, per modo che aprendosi vi si trovavano quasi sempre delle statuette rappresentanti le Grazie.
Con questa singolare costumanza, volevano forse gli antichi ammaestrarci del come non si debba prestar fede alle apparenze ; che i difetti della persona possono mitigarsi con le grazie dell’anima, e che un fisico ributtante allo sguardo, può nascondere un’anima ricca delle più amabili virtù.
Estesissimo era, come dicemmo, il numero dei templi o degli altari consacrati alle Grazie.
Eteocle re di Orcomeno, fu il primo ad innalzare in loro onore un tempio, e a stabilire un culto particolare, per il che fu detto ch’egli fosse loro padre.
Secondo riferisce Pausania, in tutte le principali città della Grecia e della Tracia, vi erano dei templi consacrati alle Grazie, e i più famosi fra quelli furono quello di Bisanzio, di Elide, di Delfo, di Perge ecc. Nella isola di Paros, una delle Cicladi, avevano similmente un tempio alla custodia del quale sopraintendeva un sacardote, la cui durata cra a vita. A proposito di questo tempio, riferisce Apollodoro, ch’essendovisi recato Minosse, re di Creta, per offerire un sacrifizio alle Grazie, nel momento che s’accingeva a dar principio alla sacra cerimonia, fu avvisato della morte repentina di un suo amatissimo figliuolo. Alla dolorosa notizia il re gettò la corona che, secondo l’uso di tali cerimonie, gli ornava la fronte e ordinò tacessero i suoni di che era costume accompagnare le offerte alla divinità ; e poscia ordinò si seguitasse il sacrifizio.
Da questo fatto fu adottato il costume, nell’isola di Paros, di sacrificare alle Grazie senza corona e senza suono d’istrumenti.
I templi dedicati a Venere, dea della bellezza {p. 237}Cupido, dio dell’amore, lo erano comunemente anche alle Grazie.
Così avveniva pure di quelli dedicati a Mercurio, volendo con ciò significare che lo stesso dio dell’eloquenza, avea bisogno dell’aiuto delle Grazie per persuadere. E ciò deve ritenersi anche per i templi consacrati alle nove Muse, le quali dovevano avere stretta correlazione con le Grazie, come quelle che presiedevano alle arti che ingentiliscono lo spirito.
A cui d’arcanto la magion d’AmoreSorge con quella delle Grazie amicheDive senza il cui nume opra e favellaNulla è che piaccia, e nulla cosa è bella.Monti — La Musogonia — Canto.
La primavera era la stagione consacrata alle Grazie ed a Venere, loro madre ; ed i pagani aveano la costumanza di cominciare tutti i loro banchetti con una triplice libazione in onore delle tre Grazie.
Nè a ciò solo si limitava la superstiziosa venerazione, che i pagani avevano per queste tre divinità ; imperocchè essi a render loro maggior tributo d’omaggi e di generale considerazione, credevano fermamente che le tre Grazie fossero le dispensatrici dell’allegria, della sanità, del benessere, della eloquenza e perfino della gratitudine e della riconoscenza.
Gli Ateniesi, che erano il popolo più incivilito di tutta la Grecia antica, avendo soccorsi d’aiuti è di danaro gli abitanti del Chersoneso, in una grave congiuntura in cui versavano, per eternare la memoria di questo fatto, innalzarono un altare consacrandolo a quella fra le tre Grazie, che presiedeva alla riconoscenza.
Finalmente, secondo asserisce Macrobio, le statue del dio Apollo si scolpivano sempre aventi nella sinistra mano l’arco e le frecce ; e nella destra un piccolo gruppo rappresentante le tre Grazie, e ciò per significare che se con la sinistra feriva, con la destra arrecava la sanità, di cui le Grazie si ritenevano le dispensatrici.
2202. Grazione. — Uno dei giganti che dettero la scalata al cielo.
2203. Grifone. — Uno dei tanti mostruosi animali, di che la mitologia fa del continuo menzione. Secondo la cronaca, questo animale era nel fisico un misto del leone e dell’aquila ; aveva una lunghissima coda, quattro piedi armati di artigli, e le orecchie diritte e puntute.
Molti scrittori dell’antichità, fra cui Eliano, Solino ed Erodoto, han creduto che simili mostri esistessero davvero nel regno animale e che nel paese degli Arimaspi vi era una miniera di oro, custodita dai Grifoni. Questa opinione però, è completamente smentita, tanto dai naturalisti dell’antichità stessa, quanto dai moderni, non facendo alcuno di essi menzione di questi favolosi animali, che non hanno avuto vita che nell’immaginazione dei poeti.
Il Grifone mitologico dev’essere considerato come un simbolo allegorico, il quale, sotto la strana configurazione, racchiude alcune idee morali, come tutti gli altri simboli della mitologia pagana.
Per esempio, le orecchia tese con le quali si distinguevano i Grifoni, alludevano all’attenzione che si deve avere ai propri doveri. La forma di leone, la forza e l’audacia ; il becco uncinato d’aquila, la prudenza.
I greci e i romani del paganesimo non ebbero essi l’idea primitiva dei Grifoni, ma la ereditarono dalle credenze degli egizii, i quali davano a questi favolosi animali, un senso allegorico molto più elevato ed importante. Infatti presso gli egiziani, le due configurazioni fisiche di leone e di aquila, unite insieme nel corpo del Grifone, esprimevano il concetto più alto della divinità, vera forza della terra e dell’aria.
Vi sono per altro molti monumenti dell’antichità greche e romane, nei cui ruderi si trova l’attestazione dell’esistenza dei Grifoni nelle credenze pagane ; imperocchè vediamo che il Grifone si trova come uno degli attributi di Apollo, ossia del Sole ; e veniva sovente consacrato a Giove stesso, e alla dea Nemesi.
2204. Grinea. — Questa antica città dell’Eolide, nell’Asia minore, viene ricordata nelle cronache mitologiche, solamente perchè in essa Apollo aveva un tempio ed un bosco a lui consacrato.
I poeti antichi chiamano questa città col nome di Cryncus.
2205. Gru. — Presso i pagani questi uccell i erano ritenuti, al paro degli avvoltoi e delle aquile, come annunziatori di lieti presagi.
2206. Grua. — Si dava questo nome ad una specie di danza, di cui si pretendeva fosse stato Teseo l’inventore, perchè fu la prima volta ballata nell’isola di Delo, in una festa celebrata in onore di questo eroe, per solenuizzare la sua vittoria contro il Minotauro V. Teseo, Minotauro. Coll’andare del tempo questa danza fu eseguita anche nella città di Delfo, dalle giovanette Ateniesi, le quali la danzavano intorno all’altare di Apollo, nel giorno delle Delie. Si vuole che gl’intricati giri che le danzatrici eseguivano {p. 238}guivano ballando, figurassero i numerosissimi andirivieni del Labirinto, ove Teseo uccise il mostro.
2207. Guadaletta. — Così avea nome un piccolo fiume, che metteva foce nel golfo di Cadice e del quale i pagani avevano fatto il loro Lete le cui acque valevano a dare l’oblio — V.Fiumi dell’Inferno.
2208. Gufo. — Uccello dei cattivi presagi, e che, come simbolo della vigilanza, era consacrato a Minerva.
Fè nel suo tetto un solitario gufoMolte fiate con lugubri accentiFè di pianto una lunga querimonia.Virgilio — Eneide — Libro IV trad. di A. Caro.
2209. Grundili. — Divinità che i romani ponevano nel numero dei loro Penati.
Si vuole che Romolo li avesse istituiti in occasione del parto di una scrofa, che dette alla luce trenta porcellini.
{p. 239}H §
2210. Hada. — I babilonesi davano questa appellazione alla loro più alta dea : la stessa che i greci chiamano Giunone.
2211. Hafedà. — I popoli Aditi, e propriamente quelli della tribù araba dell’ Hadramaut, chiamavano così uno dei quattro dei, ritenuti come i fondatori della loro religione. Un’antica tradizione del paese, diceva, che il profeta Ud avesse fatto abbandonare, coll’andare degli anni, il culto di questo dio dagli stessi popoli che l’avevano collocato nel numero delle loro divinità. Ciò nonostante il nome di Hafedà si seguitò a dare presso gli arabi, ad una specie di dio preservatore, ch’essi invocavano al cominciare di un’impresa qualunque, e segnatamente nell’intraprendere un viaggio.
2212. Hakem. — I popoli drusi davano codesto nome al loro dio incarnato.
Hakem era presso quei popoli l’identica idea di quello che è il Gesù Cristo dei cristiani : vale a dire la più alta intelligenza umana, che si offre ostia espiatrice, per la redenzione universale.
2213. Halden. — I cimbri indicavano con questo nome uno dei loro Penati.
2214. Har-Heri. — Le cronache della mitologia indiana, danno questo nome ad un dio composto, nel quale si riunivano, oltre la propria configurazione, quella di altre due divinità o genii, chiamati Siva e Visnù. Secondo la tradizione, queste tre divinità, informantesi in una sola, erano state da principio non solo divise, ma nemiche fra loro ; e non si riunirono insieme che per combattere Brahma.
Gl’indiani rappresentavano Har-Heri mezzo di color bianco e mezzo azzurro ; Visnù tutto azzurro : e Siva tutto bianco. Vi sono varie cronache indiche nelle quali Har-Heri viene anche chiamato Sankare-Narajana.
2215. Haraopopa. — Divinità Polinesia, la cui statua, tagliata grossolanamente nella pietra o nel legno, non conserva però nulla di mostruoso, come avviene della gran maggioranza degli dei Scandinavi, Indiani, Persiani ecc. Haraopopa veniva sempre rappresentato interamente nudo, con un solo lembo di drappo rosso avviluppato alle parti sessuali.
2216. Havan. — Era presso i Parsi uno dei loro cinque dei Gahi, e propriamente quello che presiedeva alla prima parte del giorno, vale a dire nell’inverno, dalla levata del sole fino alle 3 del pomeriggio ; ed in estate del sorgere del sole fino a mezzodi.
Nei libri Zendi, Havan viene indicato come una divinità femmina, col sóprannome di Benefattrice delle strade.
I Parsi danno pure il nome di Havan ad un mortaio e ad un pestello, ch’essi ritengono come sacri e dei quali si servono per infrangere il legno dell’albero Hum.
2217. Heja. — Presso i Samojedi si dava questo nome alla divinità che rappresentava il dio supremo : era lo stesso che il Giove dei greci e dei romani.
2218. Hell. — Idolo adorato un tempo in Sassonia, e propriamente sulle rive del flume Fromo, nella contea di Dorset.
Sono ben pochi gli autori che ne han fatta menzione.
2219. Heriafadur. — Fu da principio un re guerriero degli Asi. Coll’andare del tempo, e probabilmente dopo la morte di lui, il nome di Heriafadur, che significa padre della guerra, fu una delle più celebri appellazioni di Odino, il quale nelle credenze religiose di quei popoli, rappresentava lo stesso che il dio Marte presso i greci.
2220. Higolajo. — Detto anche Guleo, dio della morte e della suprema felicità : almeno così era ritenuto ed adorato da tutti gl’isolani dell’arcipelago. Un’antica tradizione locale assicurava, che gli dei stessi servivano dopo la {p. 240}morte gli uomini virtuosi, che Higolajo ammetteva nel soggiorno dei beati.
2221. Hnossa o Hnòss. — Nella mitologia scandinava, era la dea della Perfezione, figlia di Odur e di Freja, dea dell’Amore.
La tradizione aggiunge che Hnossa fosse più bella della stessa madre, e che aveva in sè tanto splendore e tanta bellezza, che dal nome di lei furono detti Hossir o Hnosser i giojelli, le gemme, gli ori e tutte le ricchezze della terra.
2222. Hoang-Ti. — Nella tradizione favolosa dei cinesi, si dà questo nome al secondo successore del famoso Fo-Hi, fondatore della monarchia di mezzo.
2223. Hobal. — Nelle lingue semitiche il Sole si chiama Baal, e da ciò gli arabi danno il nome di Hobal, ad un loro dio che raffigurava il Sole.
Il simulacro di Hobal era una grande statua di pietra, la quale veniva circondata da altre 360 statue più piccole, ognuna delle quali era consacrata ad un giorno dell’anno. Hobal veniva raffigurato sotto le sembianze di un vecchio venerando, dalla lunga barba d’argento.
Le cronache arabe ripetono che essendosi una volta infranta la mano destra di quella statua, i Horaisciti gliene avevano fatta un’altra di oro massiccio, la quale stringeva sette frecce dell’istesso metallo, ed a cui dettero il nome di frecce della sorte. È probabile che queste sette frecce raffigurassero simbolicamente i sette giorni della settimana.
Finalmente la statua di Hobal era deposta nella Caaba, tempio maggiore della Mecca, e quivi fu distrutta da Maometto, quando egli entrò trionfante nella città, annientando tutte le vestigie del culto.
2224. Hopamè. — Divinità suprema del Tibet, nella cui lingua significa splendore infinito. Secondo la tradizione, Hopamè regnava solo ed indivisa nella parte occidentale del mondo.
{p. 241}I §
2225. Ibi. — Uccello tenuto in grande venerezione dagli egiziani, i quali punivano di morte chiunque ne avesse anche involontariamente ucciso uno. Essi tributavano a questo volatile, gli onori divini, adorandolo come una delle loro divinità, con un culto particolare, forse in ringraziamento dei molti vantaggi che quest’animale recava loro. Infatti nel tempo della primavera, scendevano dall’Arabia, nugoli di cavallette e di bruchi, nonchè un gran numero di serpenti alati, che gli ibi distruggevano interamente.
I naturalisti asseriscono, che quando un ibi viene trasportato in altro paese, si lascia volontariamente morir di fame, affetto da una inguaribile nostalgia.
Il cronista Eliano a sua volta ripete, che quest’animale, quando mette la testa sotto le ali, assume una forma somigliantissima al cuore nmano. Finalmente in alcuni naturalisti antichi e moderni, si trova ripetuta una singolare credenza su questo volatile. Si vuole che l’ibi avesse per il primo fatto nascere l’idea di servirsi dei cristieri come rimedio medicinale ; imperocchè fu osservato che da sè stesso si appresta un tal rimedio, a cui si piega, con assai facilità, la lunghezza del suo becco e del suo collo.
Nei ruderi dell’antico Egitto, si trovano sovente delle statue di Iside con una testa di ibi.
2226. Ibristiche. — Nella città di Argo, si celebravano in nna data epoca dell’anno, alcune pubbliche e solenni feste, alle quali si dava cotesto nome. Le cerimonie ibristiche, furono istituite in onore di quelle valorose donne che, senza aiuto degli uomini, presero le armi e respinsero vittoriosamente i Lacedemoni, quando questi cingevano d’assedio la città di Argo.
2227. Icadi. — In onore di Epicuro, i pagani celebravano nel nono giorno della luna, alcune feste così chiamate, perchè si credeva appunto che in un novilunio fosse nato Epicuro.
Nella celebrazione di queste feste, era costume di adornare le case, e di portare in processione di camera in camera, il ritratto o la statua di Epicuro e di offrirgli dei sacrifizii.
2228. Icarlo. — Padre della famosa Penelope, sposata da Ulisse. Allorquando l’astuto greco gli chiese la mano della figliuola, Icario trovavasi nella città di Sparta, ove aveva già avuto numerose richieste, ond’egli per evitare le contese che sarebbero certamente surte fra i molti pretendenti, bandì in Sparta solenni e pubblici giuochi, dicendo che il vincitore avrebbe riportato in premio la mano di Penelope. Ulisse riportò il premio ed ebbe infatti in moglie la bellissima giovanetta. Icario pero che amava teneramente la figlia sua, fece di tutto per persuadere il genero a restar seco, onde non separarsi dalla figlia carissima ; ma Ulisse fu irremovibile nel suo volere, e forte dei suoi diritti, condusse seco Pelenope. Nel momento ch’ella col marito salì sul carro, Icario segui correndo i veloci corsieri, che gli rapivano il suo tesoro, per modo che Ulisse, stanco della tenace importunità del vecchio, arrestò i cavalli e disse alla moglie che non reggendogli più oltre il core di vedere così addolorato il padre di lei, la faceva arbitra assoluta della sua volontà : scegliesse ella o di seguitarlo in Itaca, ovvero di rimanere col suo vecchio padre.
Posta nel crudele bivio di sacrificare uno dei due soli esseri, a cui ella fosse affezionata, Penelope si copri il volto col velo, e volgendosi dalla parte del marito, non disse parola. Icario allora, interpetrando l’eloquente silenzio di lei, lasciolla andar col marito ; e in memoria di questo fatto, e del casto rossore che avea veduto sul volto della figlia adorata, dedicò alla pudicizia una statua, che poi fece mettere nello stesso luogo, ove Penelope s’era pudicamente velata la fronte. V. Penelope.
2229. Icaro. — Figlio di Dedalo, il quale si {p. 242}sottrasse insieme al padre suo, colla fuga dalle persecuzioni di Minos, re di Creta, che li teneva rinchiusi nella sua isola.
Riferisce Diodoro, nelle sue cronache sull’antichità, che i due fuggitivi, giunti ad una remota spiaggia lontanissima dall’isola inospitale, prendessero terra con tanta precipitazione, che Icaro ricadde nell’acqua e si annegò ; e che da quell’epoca, tanto quel tratto di mare, quanto l’isola stessa ov’essi approdarono, fossero detti dal nome di lui mare e isola d’Icaro.
Diversa, per altro, sebbene informata su questa base, è la favola che i poeti e i cronisti della mitologia, foggiarono sulla tradizione accennata da Diodoro. Infatti, presso tutti i poeti dell’antichità, si vuole che Dedalo, famoso operajo fabbricasse per sè e pel figliuolo delle ali, le cui penne erano unite fra loro per mezzo della cera, e che con queste ali intraprendesse la fuga dall’isola di Creta. Prima di mettersi in viaggio Dedalo, prudente ed accorto, esortò caldamente il figliuolo a non volare nè alto nè basso, ma a spingere il suo volo nè troppo vivino al sole, temendo che gl’infocati raggi di quello non avessero liquefatto la cera ond’erano assicurate le ali ; ovvero nè troppo accosto alla terra, temendo che la esalazione dei miasmi non avesse prodotto l’istesso effetto ; che nella sua posizione sarebbe tornato funesto allo strano volatore. Icaro da principio si attenne strettamente alle raccomandazioni paterne, e per non breve tratto, l’aereo viaggio segui senza accidenti ; ma poi rassicurato dal vedere i suoi sforzi coronati di successo, e trasportato dalla foga propria dell’età giovanile ed inesperta, Icaro spinse l’audace suo volo troppo oltre le nubi, così che i raggi del sole, saettando caldi ed infuocati le spalle del temerario giovanetto, liquefecero la cera per modo, che mancato ad un tratto l’appoggio che lo manteneva in equilibrio nel vuoto, egli precipitò da un’altezza smisurata nel mare, e vi restò miseramente annegato.
Il sole il dorso al giovine percuote.E le composte cere abbrucia e fonde ;Invan l’ignude braccia Icaro scuole,S’ajuta invan per non cader nell’onde :L’aure con l’ali più prender non puole,E cade, e chiama il padre, e ’l mar l’asconde.Vicino a terra fur l’Icarie someTolte dal mar ch’a lui tolse anche il nome.Ovidio — Metamorf : Libro VIII, trad. di dell’Anguillara
Da questo fatto, quella parte del mare Egeo fu detto mare Icario.
La tradizione mitologica fa menzione di un altro Icaro, padre di Erigone e nativo di Atene, ove dimorava all’epoca in cui, secondo la favola, ospitò nella sua casa il dio Bacco, il quale in ricompensa gl’insegnò l’arte di coltivare le viti e di fare il vino. Icaro con l’andar del tempo insegnò l’istessa arte ad alcuni pastori dell’Attica, i quali appena ebbero fatto il vino ne bevettero in così larga quantità, che esaltati dai fumi dell’ubbriachezza, credendosi avvelenati, uccisero il disgraziato Icaro. Bacco sdegnato allora contro gli abitanti dell’Attica disertò la loro contrada con una terribile pestilenza, la quale non ebbe fine se non quando furono morti un dopo l’altro, gli uccisori d’Icaro ; che fu dopo la morte posto nella cosiellazione di Boote.
2230. Icelo. — Dalle due parole greche ιϰελυς simile ; e ειϰω rassomiglio. Si dava questo nome ad un figliuolo del Sonno, fratello di Fantoso e di Morfeo.
Riferisce Ovidio, ch’egli aveva il potere di cangiarsi in tutte le forme che voleva assume re alle quali somigliava con una perfezione incredibile. Da cio l’etimologia del suo nome Icelo come dio, e Fobetore come uomo V. Fobetore, Morfeo.
2231. Icnea. — Con questo soprannome, che deriva dalla parola greca ιϰνοω che significa vestiglo, i pagani indicavano talvolta la dea Nemesi, vendicatrice delle colpe degli uomini ; e tal’altra Temi, dea della Giustizia. La parola Icnea nella lingua degli antichi racchiudeva il significato che cammina sulle vestigia altrui ; e si dava dai pagani a queste due divinità ritenendosi fermamente che esse seguitassero le tracce dei rei senza mai abbandonarli.
2232. Icneumone. — Gli egiziani in generale, e in particolare gli abitanti di Eracleopoli, tributavano a questo animale gli onori divini.
Ciò avveniva, secondo asserisce Diodoro, da un sentimento di riconoscenza, imperocchè l’Icneumone è una specie di grosso sorcio, il quale ha l’istinto di distruggere i coccodrilli che infesterebbero le rive del Nilo senza di lui.
Scrive il citato autore, che l’Icneumone, dopo essersi avvoltolato nel fango profittando del momento in cui il coccodrillo dorme con la bocca aperta, si lancia nelle sue viscere e, senza mangiarle, gliele rode in modo da cagionargli la morte. Presso i pagani l’Icneumone era consacrato a Lucina ed a Latona.
2233. Icziomanzia. — Dalla parola greca ιχὀνς che significa pesce. Veniva così denominata una specie di divinazione che si faceva consultando le viscere dei pesci.
Si vuole che Polidamante e Tiresia si servissero di questo incantesimo nei loro indovinamenti.
{p. 243}2234. Ida. — Celebre montagna che sorgeva nel mezzo dell’isola di Creta, e che veniva chiamata anche monte Giove perchè la tradizione mitologica ripete che Giove vi nascesse e vi fosse allevato. Anche Enea ebbe, secondo la cronaca tradizionale, i suoi natali su questa montagna, ove Venere, sua madre, lo dette alla luce.
…:…. il valorosoFigliuol d’Auchise Enea. cui la divinaVenere in Ida partori……Omero — Riade — Libro II. Trad. di V. Monti.
Un’antica cronaca dice anche a proposito del monte Ida, che essendo una volta caduto del fuoco dal cielo, poco tempo dopo il diluvio di Deucalione, i Dattili, abitatori di quella montagna, osservarono che il ferro essendosi fuso pel calore del fuoco, scorreva liquefatto. Essi appresero da questo il modo di fondere i metalli.
Questa tradizione è peraltro oppugnata da Diodoro, il quale asserisce nelle sue cronache, che fu la madre degli dei, quella che insegnò agli uomini un così utile ritrovato.
Ida era anche un’altra montagna nell’Asia minore, ai piedi della quale, secondo la tradizione, sorgeva la famosa città Troja.
Al dire di Diodoro, era questa una delle più alte montagne dell’Ellesponto.
Secondo le cronache dell’antichità, nel mezzo di questa montagna era scavato un antro ove, si vuole, che Paride avesse pronunciato il suo famoso giudizio. — V.Paride.
Ida era similmente una ninfa dell’isola di Creta, la quale con la sorella Adrastea, fu tra le nutrici di Giove.
Ida finalmente era il nome di un figliuolo di Afareo, re di Messenia, il quale per essere della schiatta degli Eolidi, e per conseguenza, parente di Giasone, lo seguì nella Colchide per la famosa spedizione del Vello d’oro. Ida prese anche parte alla caccia del cinghiale di Calidone. Riferisce Omero, che Ida aveva tanto coraggio che avendogli Apollo derubata la moglie, che fu la bellissima Marpesa, figlia di Venere, Ida oso prendere le armi contro di Apollo stesso.
…… di quell’Ida io dicoChe tra’guerrieri de’ suoi tempi il gridoDi fortissimo avea, tanto che contraLo stesso Apollo per la tolta ninfaArdi l’arco impugnar…….Omero — Hiade — Libro IX. trad. di V. Monti.
Finalmente egli uccise Castore, perchè, a simiglianza di Apollo, gli aveva sedotta la moglie Febe, figliuola di Leucippo, da lui sposata in seconde nozze.
Però Polluce, per vendicare il fratello, trucidò Ida stesso.
2235. Idalia. — Così avea nome una città dell’isola di Cipro, la quale era consacrata a Venere. La tradizione a cui si attiene Virgilio, ripete che vicino alla città di Idalia, sorgeva un bosco sacro visitato assai di sovente da Venere stessa ; e che anzi fu colà che ella trasportò durante il sonno il giovanetto Ascanio,
…….. e ne la cimaDe la selvosa Idalia, entro un cespuglioDi lieti fiori e d’odorata persa.A la dolce aura, a la fresc’ ombra il poseVirgilio — Eneide — Libro I. trad. di A. Caro :
mentre che Cupido, sotto le sembianze di Ascanio stesso, erasi recato presso Didone, ad offerirle i donativi dei Trojani.
2236. Idea. — Soprannome di Cibele, a cui si dava assai di sovente, chiamandola Jdea Magna Maler.
Dionigi di Alicarnasso ripete che ogni anno, si celebrava una festa in onore della madre Idea, con pubblici giuochi e sacrifizii solenni ; e portandosi per le strade la statua di lei a suono di flauti e di timballi. — V. Palatina.
È opinione assai ripetuta fra gli scrittori dell’antichità, che il nome d’Idea si dava più particolarmente ad una divinità protettrice e madre delle arti.
2237. Idei. — Riferisce Strabone, che si dava il soprannome di Dattili Idei, ai primi abitatori del monte Ida, e a tutti i discendenti di quelli.
2238. Ideo. — Figlio di Festio e fratello di Altea. Secondo lo scrittore Igino, Ideo fu ucciso da Meleagro suo nipote, perchè egli, avea voluto a forza togliere ad Atalanta le spoglie del cinghiale di Calidone — V. Meleagro.
2239. Idi. — I romani davano questo nome particolare al giorno 13 e 15 d’ogni mese. Nelle loro credenze essi ritenevano che il dio Mercurio fosse nato negli Idi di maggio, e percio erano a lui consacrati.
Gli idi di Agosto erano dedicati a Diana e quei giorni venivano ritenuti come festivi tanto che gli schiavi non lavoravano. Per contrario gli idi di marzo erano riguardati come giorni sfortunati dopo la morte di Giulio Cesare, avvenuta in quel tempo.
2240. Idia. — Figlia dell’Oceano e madre della famosa Medea. Idia fu una delle più belle donne dei suoi tempi.
2241. Idmone. — Celebre indovino della città {p. 244}di Argo, il quale, secondo la tradizione, avea preveduto che, seguendo Giasone nella famosa spedizione degli Argonauti, sarebbe morto durante la traversata ; ma attratto dello splendido fantasma della gloria, preferi la rinomanza alla vita, e segui in Colchide l’eroe avventuriero. Però l’infausto vaticinio ch’egli stesso avea letto nel roprio destino, si compì in tutta la sua terribile verità. Un giorno, mentre gli Argonauti davano in una città della Tracia la caccia ad un cinghiale, Idmone ricevè una ferita, e morì poco dopo a causa di quella. Gli Argonanti lo onorarono di magnifici funerali.
2242. Idomeneo. — Figlio di Deucalione e nipote di Minosse secondo. Egli che era re di Creta condusse all’assedio di Troja un’armata composta di 80 vascelli, e si distinse in più di un fatto d’arme, per l’intrepidezza del suo valore.
Il gran mastro di laurta IdomeneuGuida i Cretesi….………….Di questi tutti Idomeneo divideCol Marzio Merion la glorlusaCapitananza, e oltanta navi hau sere.Omero — Hiade — Libro II. trad. di V. Monti.
… Per vigoria di forzePari a liero ringhiale IdomeneoGuidava l’antiguardia……Omero — Hiade — Libro IV. trad. di V. Monti.
Caduta Troja in potere dei greci, Idomeneo, carico delle spoglie trojane, fece ritorno in Creta, ma nella traversata, assalita la sua nave da una furiosa tempesta, era prossima a far naufragio. Spaventato dal pericolo imminente, Idomeneo fe voto a Nettuno, di sacrificargli la prima persona che gli si presenterebbe allo sguardo, nel metter piede nell isola nativa.
Nettuno, pago del voto cruento, fece all’istante calmare la tempesta, e la nave d’Idomeneo potè felicemente approdare nel porto. Ma ben presto l’incauto guerriero ebbe a pentirsi atrocemente del voto disumano ; imperocchè la prima persona che gli si parò innanzi fu il proprio figliuolo, l’unico suo figliuolo, il quale avvisato dell’arrivo del re, era corso con trasporto d’amore, a dare al padre diletto il bacio del ritorno.
A lingua umana non è concesso descrivere con le parole la sorpresa, il dolore e la disperazione di Idomeneo, allorchè incontrò il proprio figliuolo. Indarno però la voce dell’amore pa terno parlò all’anima del fanatico religioso i miti e soavi sensi della paternità. Acciecato dalla superstizione e dalla ignoranza, Idomeneo risolvè d’immolare il proprio figliuolo sulle are sanguinolenti del dio del mare.
Fra gli autori antichi ve ne ha molti i quali pretendono che il sacrificio fosse consumato ; e questa opinione è seguitata anche da varii autori moderni, fra cui il Fénélon, nelle sue avventure di Telemaco.
Vi sono per altro alcuni autori, i quali asseriscono che il popolo di Creta impedisse con la forza delle armi che il padre dispietato compisse il suo voto, e lo scacciarono dai suoi stati e lo costrinsero a ricoverarsi sulle spiagge della grande Esperia, ove la tradizione ripete, che il profugo re avesse fondata la città di Salento, della quale si fece sovrano.
Dopo la morte di lui, gli abitanti della novella città riconoscenti verso la memoria d’Idomeneo per aver egli mantenuto in vigore le savie leggi di Minosse, suo trisavo, gli tributarono gli onori divini e gl’Innalzarono eroici monumenti.
Tale non è per altro l’opinione del cronista Diodoro, il quale asserisce nelle sue cronache che Idomeneo, caduta Troja, ritornò felicemente nei suoi stati, ove morì poco tempo dopo nella città di Gnosso, i cui abitanti gl’innalzarono un magnifico sepolcro ; gli tributarono gli onori divini, e nelle battaglie ne invocarono il nome come quello di un nume protettore e benefico.
2243. Idotea. — Una delle ninfe Melisse, nutrici di Giove.
Idotea era anche chiamata una delle figliuole di Proteo.
2244. Idra di Lerna. — Secondo riferisce Esiodo, questo spaventevole mostro era nato da Tifone e da Echidna.
La tradizione mitologica, a cui s’attiene il cennato scrittore, dice che l’Idra avea sette teste le quali avevano la spaventevole prerogativa di rinascere appena erano tagliate ; quante vol te però non fosse immediatamente applicato il fuoco sulla ferita.
Il veleno di questo mostro era così terribile, che una sola goccia di esso, applicato su di una parte qualunque del corpo, cagionava istantaneamente la morte.
Le cronache ripetono che l’Idra fece, per più tempo orrende stragi di uomini e di animali, nelle circostanze della palude di Lerna, ov’essa aveva il suo covo. Ercole per combatterla pensò di salire su di una piccola biga, di cui dette a guidare i destrieri al suo fedele amico Iolao, il quale gli servi da cocchiere. La favola aggiunge, che quando l’eroe greco attaccò l’Idra, un enorme cancro fosse venuto a proteggerla contro i colpi di Ercole ; ma questi schiacciò il cancro con un colpo di clava, e uccise l’Idra.
{p. 245}La generalità degli autori ripete, che Ercole bagnasse le sue famose frecce, nel sangue della Idra, col fine di rendere inguaribili le ferite di esse, mediante il terribile veleno di che erano asperse. V. Filottete.
2245. Idria. — Gli egiziani davano questo nome ad una specie di grande anfora, forata da tutte le parti, e che presso di loro raffigurava il dio dell’acqua.
Al dire dello scrittore Mitruvio, i sacerdoti egiziani, in alcuni giorni dell’anno adornavano l’Idria con ricca magnificenza, e la mettevano su di un’alta impalcatura, specie di teatro, su cui tutti gli abitanti salivano per adorare, con le mani levate verso il cielo, questa loro strana divinità. Con tale cerimonia il culto egiziano rendeva grazia agli dei, pei vantaggi che l’acqua reca agli uomini e l’adoravano come il principio di tutte le cose e che dà vita e movimento a tutto ciò che respira.
2246. Idroforie. — Funebri cerimonie celebrate dagli egineti e dagli ateniesi, in memoria di quelli che erano morti nel diluvio di Deucalione.
2247. Idromanzia. — Dalle due parole greche υδρω acqua e μανταια divinazione ; si dava questo nome ad una delle quattro specie generali d’incantesimi, in uso presso i pa gani e che si faceva con l’acqua. L’idromanzia veniva comunemente praticata in due modi : o invocando gli spiriti che si supponeva si vedessero in fondo alla conca all’uopo preparata ; ovvero riempiendo una conca di acqua e lasciando pendere nel mezzo di essa un filo, a cui era attaccato un anello, e facendo che questo anello battesse, oscillando, nelle pareti della conca. La prima maniera fu quella, secondo la tradizione, che adopero sempre Numa Pompilio. La seconda era in grande estimazione presso i greci, ed è scritto che Pitagora stesso, se ne servì per tutta la vita.
2248. Idullo. — Così si chiamava la vittima del sacrificio, che si offeriva a Giove negli idi d’ogni mese.
2249. Ifi. — Padre di Eteoclo e di Evadne, che fu moglie del famoso Capaneo.
Allorquando Evadne fuggì segretamente onde andare a morire sul rogo stesso, che dovea divorare il corpo del suo diletto consorte, caduto sotto le mura di Tebe. V. Capaneo. Ifi le corse dietro e la raggiunse sull’alto di una rupe, ove colle lagrime agli occhi, la supplicò in nome del suo amore paterno a far ritorno presso di lui. Ma Evadne sorda, per disperato dolore, alle preghiere del vecchio genitore, si precipitò sotto i suoi occhi sul rogo del marito, per morire con lui. Ifi fuori di sè alla vista terribile, volle darsi la morte, ma Stenelo, suo nipote, ne lo impedì promettendogli, per calmare il suo dolore di vendicare sui tebani, la morte della diletta figliuola. V. Evadne.
Ifi ebbe pure nome una giovanetta che fu amato da Anassarete.
Ifi finalmente era il nome di una schiava giovanetta rinomata per l’eleganza delle sue forme, e che divise una notte il letto di Patroclo, quando questi si recò nella tenda del suo amico Achille.
Dormi Patroclo in altra parte, e a latoIfi gli giacque, un’elegante schiavaOmero — Hiade — Libro IX trad. di V. Monti.
2250. Ifianassa. — Così si chiamava la figliuola di Gefte. Ciò, secondo riferisce Fozio, ha potuto lasciar credere che i greci dal sagrifizio della figlia di Iefte, di cui parla la sacra bibbia, avessero preso l’idea configurata del sacrificio d’Ifigenia.
Ifianassa, secondo Sofocle, fu una delle quattro figliuole di Agamennone ; e Omero ripete che Ifianassa, avesse nome quella principessa, che Agamennone mandò ad offerire in isposa ad Achille insieme ad altri ricchissimi donativi, onde placarne lo sdegno terribile.
Ho di tre figlie nella reggia il flore,Crisotemi, Laòdice, Iflanassa,Qual più d’essa il talenta a sposa ei prendaSenza dotarla, ed a Peleo la meni.Omero — Hiade — Libro IX trad. di V. Monti
Ifianassa finalmente aveva nome una figlia di Proteo, re degli argivi, la quale fu tolta in moglie da un medico chiamato Melampo, per questo singolare avvenimento.
Narra la cronaca, che Ifianassa in compagnia delle sue sorelle, Ifinoe e Lisippa, fossero un giorno entrate in un tempio di Giunone, ove ben lontane dal rimanere con quel devoto e castigato contegno, che imponeva la divina maestà del luogo ; avessero mostrato un sacrilego disprezzo per la dea, proclamandosi più belle di Giunone stessa ; la quale, sdegnata contro le incaute giovanette, turbò loro siffattamente la ragione, che credendosi cangiate in vacche, si dettero a correre furiosamente per la campagna. Proteo, addolorato di vedere le proprie figlie ridotte a così mal partito, proclamo un bando in tutti i suoi stati ; promettendo la mano di una di esse, all’uomo che le avesse guarite.
Un famoso medico per nome Melampo, a cui la tradizione ripete che Apollo istesso avea {p. 246}conceduto il dono di predir l’avvenire, si presentò al re, promettendo di guarire le sue figliuole, alle condizioni da lui imposte. Il re ordinò si eseguissero alla lettera i cenni di Melampo ; e questi cominciò dall’ordinare un gran numero di sacrifizii, onde placare lo sdegno della dea. Tolta così questa prima ragione del male, venne facilmente a capo, con la protezione di Apollo, del suo intento, ed infatti, poco tempo dopo, ridonata completamente la salute alle reali inferme, Melampo divenne genero del re.
2251. Ificlo. — Fu figlio di un re di Tessaglia, per nome Filaco. Non avendo potuto aver figli, dopo varii anni di matrimonio con la bella Astioca, sua consorte, egli consultò il medico Melampo ; lo stesso di cui parlammo nell’articolo precedente ; onde sapere da lui il mezzo di aver prole. Melampo gli disse allora che avesse conficcato un largo coltello in un albero consacrato a Giove e ve lo avesse lasciato irruginire, e che dopo qualche tempo avesse stemperato quella ruggine in una coppa di vino, e ne avesse bevuto per dieci giorni. Ificlo eseguì alla lettera le istruzioni di Melampo e coll’andare del tempo divenne infatti padre di varii figliuoli, fra cui il più celebre fu il famoso Protesilao, che fu il primo dei greci guerrieri, caduto combattendo sotto le mura di Troja. Ificlo è ricordato nelle cronache mitologiche, come uno degli argonauti, e come vincitore al premio della corsa nei giuochi funebri, che Giasone fece celebrare in onore di Pelia.
Ificlo ebbe anche nome uno dei guerrieri che presero parte alla prima spedizione di Ercole, contro gli Elei. Ferito mortalmente dai figli di Attore, egli morì poco dopo e fu sotterrato a Feneone, nell’Elide. I Feneati onorarono annualmente il sepolcro di lui con solenni funerali ritenendolo come un eroe.
Le cronache dell’antichità aggiungono che questo Ificlo ebbe un figliuolo per nome Iolao che fu uno dei più fedeli amici di Ercole. V. Idra di Lerna.
Ificlo similmente avea nome un altro fra gli Argonauti che fu figlio di Testio, e fratello di Altea.
Ificlo da ultimo si chiamò il fratello gemello di Ercole figlio di Anfitrione e di Alecmena. V. Anfitrione, Alecmena, Ercole.
La tradizione mitologica alla quale si attiene Apollodoro, nelle sue cronache pagane, dice che questi due fanciulli nacquero di 10 mesi e fossero gemelli benchè concepiti tre mesi uno prima dell’altro ; perchè Giove, secondo riferisce Plauto, avesse voluto risparmiare alla sua amante Alcmena gli atroci dolori di un doppio sgravo.
2252. Ifide. — A proposito di questa fanciulla la tradizione mitologica alla quale si attiene Ovidio stesso, nelle sue Metamorfosi, ripete che ella era nata femmina e che al momento di contrar matrimonio cangiasse di sesso divenendo uomo.
Il citato scrittore riferisce che nella città di Festo viveva un uomo poverissimo per nome Ligdo il quale aveva una moglie chiamata Feletusa. Vedendola prossima al parto le impose di uccidere la sua creatura se fosse stata femmina, non avendo i mezzi di poterla allevare. Sgomentata la povera madre pregò caldamente gli dei che le avessero mandato un figliuolo maschio ; ma il destino voleva altrimenti, e Feletusa dopo qualche tempo dette alla luce una bambina. Però l’istinto santissimo della madre suggerì a Feletusa una pietosa astuzia, ed ella fece credere al marito che si fosse sgravata d’un maschio. La cosa rimase per lungo tempo nascosta, perchè forse per un miracolo che gli dei vollero operare in favore di Feletusa, la creatura ch’ella partorì, avea tutte e due i sessi. Ma giunto Ifide in elà di 13 anni fu dal padre destinato in consorte alla più bella giovanetta di Festo, chiamata Giante, e non è a dire le astuzie di cui si valse Feletusa, onde differire almeno codeste nozze, di cui ella sola conosceva l’impossibilità ; ma finalmente stretta dalle continue ingiunzioni del marito, nè sapendo qual’altro pretesto trovare, onde impedire il matrimonio, pensò di ricorrere nuovamente alla protezione degli dei, e si recò in un tempio in compagnia di Ifide, onde implorere l’ajuto del cielo. Infatti dopo avere per qualche tempo pregato, nel far ritorno presso il marito, la buona madre si accorse che Ifide camminava più spedito ; che il colorito del suo volto, lasciando quella tinta rosea propria della donna, acquistava un tono più bruno e maschile ; vide che le si accorciarono i capelli ; e finalmente si convinse che Ifide aveva completamente acquistata la natura maschile.
Dalle guance fuggeLa candidezza, e un che più forte appare :E il volto istesso più severo è fatto ;E la chioma più ruvida e più breve.Più di vigor che a femmina s’addicaIn te si manifesta, e giovanettoGià sel tu, che pur ora eri donzella.Ovidio — Metamorf. — Libro IX Favola X, trad. del Cav. Ermolao Federico.
Ifide stessa altamente compiaciuta dell’inatteso cangiamento, ritornò nel tempio a ringraziare gli dei ed in memoria di questo fatto fece incidere su di una pietra la seguente iscrizione : {p. 247}Ifide giovanetto scioglie i voti che avea fatto fanciulla. Nel giorno seguente furono celebrate le nozze. V. Giante.
2253. Ifigenia. — Moltiplici e diverse sono le opinioni, i pareri, e le credenze che gli autori così antichi come moderni ci hanno tramandato su questo nome conosciutissimo nei fasti del paganesimo.
Plutarco, Pausania e molti altri scrittori dell’antichità, pretendono che Ifigenia fu figlia di Elena e di Teseo, e che quando la madre di lei fu tolta al suo primo rapitore, avesse nella città di Argo, dato i natali ed una bambina, che fu appunto questa Ifigenia ; e che Clitennestra sorella di Elena, onde salvare l’onore della sorella, fece passare la piccola Ifigenia come sua propria figliuola. e come tale la fece allevare in Argo, nella propria corte del consorte Agamennone. Venuto questi coll’andar del tempo a conoscenza delle cosa non vide mai di buon occhio la principessa Ifigenia, e si vuole che cogliesse con piacere l’occasione di liberarsene, allorchè si trattò di sagrificare una propria sua figlia.
In varie cronache dell’antichità si trova perfino ripetuto che il famoso oracolo di Aulide, che richiedeva il cruento sacrificio, fosse dato di comune accordo dall’indovino Calcante con lo stesso Agamennone.
Altri scrittori fanno particolare menzione di due Ifigenie, una figlia di Agamennone e Clitennestra, l’altra figliuola di Elena. É questa almeno l’opinione seguita dal Racine, nella sua Iphigénie, che è una delle più belle tragedie del teatro tragico francese ; e dove chiama Erifile, la figlia di Teseo e di Elena ; ed Ifigenia marcatamente quella di Agamennone e di Clitennestra.
Ifigenia in Aulide è poi il titolo della famosa tragedia di Euripide, di cui daremo brevemente la tessitura storica, valendoci di essa come esposizione del fatto.
Trattenuta l’armata greca nel porto di Aulide da una interminabile bonaccia, i capitani greci, e segnatamente Agamennone, che aveva il comando supremo pensarono di ricorrere allo indovino Calcante, onde additasse loro il modo di placare lo sdegno degli dei, e l’ira inesorabile di Nettuno. Compiutesi dall’ indovino Calcante le solite cerimonie e gl’incantesimi, che si credevano indispensabili a conoscere la volontà dei celesti, egli rispose che le navi greche avrebbero novellamente avuto favorevoli i venti, allorquando il duce supremo delle loro schiere, avesse col sacrificio della propria figliuola Ifigenia placata la collera degl’immortali. A questa sola condizione, aggiungeva l’inesorabile indovino, i greci si sarebbero un giorno impadroniti di quella città, che già tanto sangue costava alla Grecia.
Ifigenia,….. doversiA Diana immolar, di questo suoloAbitatrice diva : amici i venti,Certa la presa diventar di Troja,Svenando lei, non la svenando. nulla.Ecripide — Ifigenia in Aulide. Tragedia. Trad. di F. Bellotti.
Agamennone stette lungamente sospeso tra il compimento del proprio dovere come re e come guerriero ; e la tenerezza det suo cuore di padre ; ma finalmente il pensiero della grandezza e del benessere della patria, trionfò in lui ed egli condiscese a sacrificare la propria figliuola. Ma anche innanzi a questa terribile risoluzione ; sorgevano ostacoli e difficoltà d’ogni maniera, e la più insormontabile era quella di sottrarre Ifigenia, all’ affettuosa vigilanza materna di Clitennestra, che seco in Argo la teneva carissima. Per raggiungere il suo scopo, Agamennone allo ra scrisse alla regina, ordinandole di fare immediatamente recare in Aulide la giovanetta Ifigenia ove, diceva, Achille voleva sposarla. Clitennestra prestò fede allo scritto del re e si pose immediatamente in viaggio, con l’amata figliuola, alla volta del campo greco ; ma appena giuntavi le fu palesato il fatale mistero, ond ella fece ricorso ad Achille, implorando la sua protezione a favore della supposta sua sposa.
In quanto ad Ifigenia, il poeta greco ce la presenta da principio atterrita alla vista del terribile destino che le era preparato ; implorar grazia dal padre, e porre tutto in opera onde piegarlo a più miti sensi. Clitennestra stessa tenta ogni sforzo a raggiungere lo scopo, e con ragioni e con lagrime e con lusinghe tenta, ma invano, di stornare dal capo amatissimo della figlia il destino inesorabile ; ma finalmente inabile a lottar sola più lungo tempo, e convinta in certo modo dalle ragioni di patria e di gloria che Agamennone le pose sott’occhio finì ella stessa per accettare eroicamente il sacrifizio della propria figlia ; respinse il soccorso che Achille era pronto a portarle ; preparò ella stessa l’altare per l’orribile cerimonia, e spinse il suo eroico coraggio fino ad accompagnare ella stessa la vittima innocente all’altare ed offrirne il seno denudato al flamine sacrificatore. Questi brandisce il ferro e dono avere invocato gli dei, lo configge nel seno verginale della vittima e tutti gli astanti ne risentono il colpo ; ma improvvisamente Ifigenia sparisce, come per incante, e {p. 248}sull’ara si trova, svenata e palpitante, una cerva bianchissima, di una rara bellezza, che Diana stessa ha sostituito alla giovane principessa in premio della sua eroica sommissione ; e Agamennone persuade alla regina e a tutti i testimoni del fatto maraviglioso, che Ifigenia fosse stata trasportata nel cielo, e posta nel numero delle divinità.
…. Ed ecco all’improvviso apparveGran prodigio : il vibrar della feritaDistintamente ognun l’udi : nessunoPiù la vergine vide. Inalza un gridoIl sacerdote, e tutto il campo acclama,Riguardando il divino inopinatoSpettacolo, che fede anco vedutoNon otteneva. Palpitante al suoloUna cerva giacea di grande corpoE d’egregia figura, e lo cui sangueTutta cosparsa avea l’ara del numeEuripide — Ifigenia in Aulide — Tragedia trad. di F. Bellotti
Differentemente dalla tradizione mitologica seguita dal tragico greco, e che noi abbiamo di sopra esposta, è opinione di altri non meno accreditati scrittori e cronisti dell’ antichità, che Ifigenia fosse cangiata in una giovenca ; secondo altri in una vecchia e finalmente secondo altri in un’orsa.
Il cronista Lucrezio pretende invece che Ifigenia fosse stata realmente svenata, e che l’innocente sangue di lei avesse bagnato le are della superstizione religiosa dei soldati.
L’opinione però più generalmente adottata si è che minacciato Agamennone dello sdegno celeste avesse risoluto di sacrificare la figlia onde placare gli dei ; ma che i soldati greci si fossero opposti vivamente al disumano disegno, e che allora l’indovino Calcante temendo una sollevazione nel campo greco, avesse fatto credere che Diana, placata dalla sommessione del padre e della figlia, si sarebbe contentata del sacrificio di una cerva invece di quello di Ifigenia la quale avesse dovuto recarsi in Tauride, e servire la dea, per un dato numero di anni, come sacerdotessa.
Il cronista Candiotto, combatte quest’ultima opinione, asserendo che Agamennone non volle accondiscere a questo suggerimento di Calcante ; e che allora Ulisse fosse segretamente partito dal campo greco senza il consenso di Agamennone e si fosse recato presso Clitennestra, alla quale consegnò una lettera falsificata in cui era scritto, contraffacendo la scrittura del re, di lasciar partire la figlia Ifigenia per alla volta del campo greco ; ove la giovanetta sarebbe senza dubbio stata sacrificata, se Ulisse istesso, atterrito da alcuni presagi, e spaventato dalle minacce di Achille, che aveva scoperto il raggiro, non avesse rimandata Ifigenia in Tauride, ordinando che in sua vece si fosse sacrificato, sull’altare della cruenta divinità, una cerva bianca.
Ifigenia in Tauride, è un’altra tragedia di Euripide, il più illustre fra i tragici greci. Il soggetto di quest’altra tragedia altro non è che la continuazione ed il compimento dell’idea informatrice di quella intitolata Ifigenia in Aulide. Tolta la principessa dalla altare, su cui in sua vece fu svenata la cerva, ella fu inviata in Tauride nella Scizia ove fu fatta sacerdotessa del tempio, e dove per doveri della sua carica l’era imposto d’iniziare le vittime umane, che doveano sacrificarsi alla divinità del luogo, e di prepararle al sacrifizio ; mentre l’atto di ucciderie era destinato ad altre mani.
Così Ifigenia trascorse diversi anni nella Tauride, generalmente ritenuta da tutti siccome morta già da tempo in Aulide, sotto il ferro sacrificatore dell’indovino Calcante. Ma un giorno improvvisamente giunse in quella città, accompagnato da Pilade, Oreste fratello d’Ifigenia, il quale avea ricevuto comando da Apollo di recarsi in Tauride, levare dal tempio la statua di Diana, che si credeva discesa dal cielo, e trasportarla in Attica.
Una barbara usanza voleva, intanto, che si svenassero sull’ara della dea Diana tutti i forestieri che approdavano in Tauride ; per modo che Oreste e Pilade furono entrambi presi e trascinati nel tempio, per esservi sacrificati ; allorchè Ifigenia, avendo inteso che quegli stranieri erano di Argo, propose loro di sacrificarne uno solo quante volte l’altro si fosse legato con giuramento di portare al fratello Oreste una lettera. A questo nome succede il riconoscimento, e di comune accordo concertano di salvarsi insieme. Infatti Ifigenia delude la vigilanza di Toante, re della Tauride, e col pretesto di una cerimonia espiatoria, che dovea farsi sulle rive del mare, s’imbarca, con Oreste e Pilade portando seco la statua di Diana.
2254. Ifimedia. — Moglie di Aloo e figlia di Triopante.
Nettuno s’innammorò perdutamente di lei, e la rese madre di due giganti, che dal nome del loro supposto padre, furono detti Aloidi. Vedi questo nome.
Ifimedia aveva avuto da suo marito una figliuola per nome Pancratide, la quale stando un giorno con sua madre a celebrare i misteri di Bacco, sulla riva del mare, entrambe furono rapite da alcuni corsari traci, i quali giuocarono {p. 249}a sorte chi avrebbe dovuto possedere la madre e chi la figlia ; e Pancratide ebbe la fortuna d’esser vinta dal re stesso dei Traci ed Ifimedia da uno dei favoriti.
2255. Ifito. — Re dell’Elide, che si rese celebre nei fasti del paganesimo, per aver ritornato in vigore la celebrazione dei giuochi Olimpici. La tradizione ripete che ai tempi d’Ifito, la Grecia, lacerata da intestine discordie, e desolata dalla peste, gemeva sotto il pesò di tante sciagure ; onde il re di Elide pensò di recarsi in persona a Delfo per consultare l’oracolo di Apollo, ed avere così il mezzo di far cessare tante sciagure. La Pitia sacerdotessa dell’oracolo, rispose che, ripristinamento dei giuochi Olimpici avrebbe fatto la salute della Grecia. Ifito allora senza por tempo in mezzo ordinò un sacrifizio ad Ercole, onde placare questo dio, che i suoi popoli credevano loro nemico, e appena tornato in patria ritornò nel loro primitivo vigore la celebrazione dei giuochi Olimpici, interrotta già da lunghi anni.
In Grecia e propriamente nella città di Elide, nel tempio consacrato a Giunone, fu per lunghi anni conservato il disco d’Ifito, sul quale si leggevano impresse in grosse lettere le leggi dei giuochi Olimpici. V. Olimpici.
2256. Ifitima. — Mercurio s’innamorò di questa ninfa e la rese madre dei satiri.
2257. Igiea. — I greci adoravano questa divinità come dea della buona salute, e la facevano figlia di Esculapio e della ninfa Lampezia, famosa nei fasti della favola, per la bellezza. Igiea aveva nella città di Sicione, in un tempio dedicato a suo padre. una sua statua, ricoperta interamente da un velo, e innanzi alla quale le donne di Sicione andavano ad offrire le loro chiome alla dea.
Generalmente i pagani rappresentavano Igiea, sotto la figura di una donna giovane ed imponente d’aspetto ; coi tratti del volto d’una bellezza regolare e severa ; con una corona sul capo come regina della medicina ; con una coppa nella sinistra, e con uno scettro nella destra e avendo attoreigliato al braccio un grosso serpente che ripiegandosele sul seno sporge la testa per bere nella coppa ch’ella ha nella mano sinistra. Sotto questa configurazione si sono trovate moltissime statue della dea della sanità ; perchè era costume assai generalizzato, soprattutto fra i ricchi pagani, di dedicare alla dea Igiea una sua statua, tutte le volte che risanavano da una malattia.
Si trova in varie cronache che il nome di Igiea si dava sovente a Minevra, la quale veniva dai greci adorata sotto questa denominazione. Anche i romani adoravano Igiea come dea della salute, credendo che da essa dipendesse la salute dell’impero.
2258. Ila. — Figlio di Tiodamante, re della Misia, e compagno di Ercole, che seguì in Colchide. La tradizione narra, a proposito di questo giovane principe un luttuoso avvenimento, ripetendo che giunti gli Argonauti sulle spiagge della Troade mandarono una mano di esploratorl, comandati da Ila, ai quali dettero anche il carico di provvedersi di acqua per la navigazione. Ila però non fu più rinvenuto dai suoi compagni, i quali ritennero ch’egli si fosse annegato in qualche torrente, ovvero fosse stato divorato da qualche belva.
La cronaca della favola ripete invece, che le ninfe del luogo, innamorate della stupenda bellezza del giovine Ila lo avessero rapito. Ercole intanto che lo aveva carissimo, discese sulla spiaggia per ricercarlo facendo risuonare gli echi di quelle rive abbandonate del nome mille volte ripetuto dell’amico carissimo : almeno questa è la tradizione a cui si attiene Virgilio stesso.
Molti autori moderni italiani e stranieri, fra cui il Clerc sono di opinione che la parola Hila significhi legno, e che Ercole discendesse dalla nave insieme a Telamone, e ad altri suoi compagni, per tagliare le legna sul monte Ida, onde fabbricare un vascello per la spedizione di Troja ; e che il rumore prodotto dai rami tagliati, ripetuto cento volte dagli echi della foresta, avessero dato motivo alla favola d’Ila.
2259. Ilapinasto. — Gli abitanti dell’isola di Cipro davano codesto soprannome a Giove, il quale nei loro templi veniva onorato con solenni e magnici banchetti.
2260. Ilaria e Febea. — Queste due giovanette si son rese celebri nei fasti del paganesimo per il ratto che Castore e Polluce fecero di esse, nel momento istesso che stavano per dare la loro fede di spose, a Linceo ed Ida, cugini germani dei due divini gemelli.
Narra la tradizione che Linceo ed Ida ricorsero alle armi, per vendicare l’offesa mortale, ma nel conflitto Castore privò di vita Linceo, mentre Ida fu ucciso da Polluce, dopo però di avere egli stesso trucidato Castore.
In quanto ad Ilaria e Febea furono, dopo la morte, onorate come immortali solo perchè ebbero varii figliuoli da Castore e Polluce. V. Castore E Polluce.
2261. Ilarie. — In Roma si celebravano, in onore di Cibele, detta anche Magna Mater, alcune pubbliche feste alle quali si dava il nome di Ilarie, forse alludendo alle molte allegrezze di coloro che vi prendevano parte. Ognuno recava con sè quanto aveva di più prezioso e se ne faceva offerta alla dea. Era altresì permesso {p. 250}di vestire qualsivoglia foggia di abito, come pure il portare le insegne di qualunque dignità. Nelle feste Ilarie veniva invocata la Terra come madre degli dei ; e durante la celebrazione di esse erano sospese tutte le lugubri cerimonie e avea tregua ogni specie di pubblico e privato dolore.
2262. Ilarità. — V. Allegrezza.
2263. Iliade. — Il nome di questo classico poema, che è la più stupenda creazione epica della immortale intelligenza di Omero, che l’Alighieri stesso chiamò il poeta sovrano, viene da Ilio o Ilione. V. l’articolo seguente. L’Iliade e l’Odissea, sono la fonte da cui scaturisco tutti i simboli allegorici che formano il sostrato e la vita dell’antica mitologia, e delle credenze superstiziose della religione pagana.
2264. Ilio. — Detto anche Ilione. Il quarto re di Troja, chiamato Ilo, fece edificare una cittadella nelle mura di Troja e da ciò i poeti e gli scrittori dell’antichità, chiamano col nome d’Ilio o Ilione, non solo la cittadella, ma la città intera di Troja.
2265. Iliona. — Così avea nome una delle tante figliuole di Priamo, re di Troja.
Gli scrittori dell’antichità narrano a proposito di questa principessa un lagrimevole fatto. Il re suo padre la concesse in moglie a Polinnestore, re di Tracia, famoso per le sue crudeltà.
Durante il decennio assedio di Troja, Priamo volendo mettere in salvo dalle crudeli vicissitudini della guerra, il piccolo Polidoro, prediletto fra i suoi figliuoli, lo mandò presso il genero Polinnestore ; il quale però, secondo ripete la tradizione, lo fece uccidere dopo poco tempo e la sorella Iliona morì anch’essa di dolore.
Il cronista Igino espone, però, diversamente il truce avvenimento. Secondo il citato scrittore, Iliona moglie di Polinnestore, ricevè il piccolo Polidoro, suo fratello, bambino ancora nelle fasce ; e conoscendo, per prova, il perverso animo del marito, fece passare Difilo figlio di Polinnestore, come suo fratello ed allevò iuvece con ogni materna sollecitudine il piccolo Polidoro. Intanto Polinestore volendo far morire il figliuolo di suo suocero, dette ordine che si uccidesse il fanciullo, e senza aver coscienza dell’inganno usatogli dalla moglie, fece morire il proprio figliuolo Difilo. Qualche anno dopo avendo Polinnestore ripudiata Iliona, questa ad istigazione dei greci, scoprì l’arcano a Polidoro, e ritrovò in lui un vendicatore.
2266. Ilissidi. — Dette anche Ilissiadi : soprannome che i pagani davano alle muse e che loro veniva dal flume Ilisso nell’Attica, le cui acque erano ritenute come sacre perchè, secondo riferisce il cronista Massimo di Tiro, sulle rive di quel flume s’innalzavano le mura d’un istituto religioso detto il sacro istituto.
2267. Ilizia. — Sorella di Ebe e figlia della dea Giunone. I pagani credevano che Ilizia, a somiglianza di sua madre, presiedesse al doloroso mistero dello sgravo. Durante i dolori del parto, le donne facevono dei sacrifizi a questa dea, credendo così di liberarsi più presto.
Le cronache dell’antichità ci ammaestrano che il re Servio Tullio, avesse stabilito in Roma che si dovesse portare nel tempio consacrato alla dea Ilizia, una moneta, alla nascita ed alla morte di ogni persona, e ripetono che il saggio re avesse promulgata codesta legge, per avere esatta conoscenza del numero dei cittadini romani.
2268. Ilo. — I cronisti della mitologia dicono, che Ascanio figliuolo di Enea, si chiamasse con questo primitivo nome durante tutto il tempo che la cittadella d’Ilione, stette in piedi ; e che non fu che dopo la caduta di questa che egli si chiamasse Iulio e secondo altri Ascanio.
Ilo ebbe anche nome quel quarto re vi Troja edificatore della famosa cittadella — V. Ilio.
La favola lo fa figliuolo di Tros e della ninfa Calliroe, e fratello di Ganimede e di Assaraco, e padre di Laomedonte.
Ilo detto anche Ilio, fu finalmente un figliuolo di Ercole e della bella Dejanira. Durante il tempo che Ercole trascorse a compiere le sue 12 famose imprese, V. Ercole, egli aveva affidato la moglie e i figliuolo alla custodia di Ceice, re di Trachina.
Narra la cronaca che trascorso più d’un anno senza che Ercole avesse fatto ritorno, Dejanira, inquieta sulla sorte dello sposo, esortò il figliuolo Ilio ad andare in traccia di suo padre, per cer care di saperne il destino. Ilio cedendo alle preghiere della madre partì, e dopo molte ricerche ritrovò finalmente, nella città di Cenea, l’eroe suo padre occupato nella fabbricazione di un tempio a Giove ; ma sventuratamente giunse presso di lui nel momento in che il fatale dono della camicia di Nesso. V. Dejanira, Ercole, Nesso — aveva sconvolta la ragione dell’eroe, che riconoscendo il figliuolo lo incaricò di portare alla madre le sue imprecazioni. Ilio informato del funesto errore, in cui Deianira era caduta ad istigazione del perverso Centauro, scusò la madre presso di Ercole, il quale sentendo approssimarsi l’ultima sua ora, ordinò ad Ilio, di portarlo sul monte Oeta, di stenderlo sul rogo, e di accenderlo con le proprie sue mani, imponendogli sotto pena della sua maledizione di sposare Iole.
Morto Ercole, Ilio si ritrasse presso Epalio, re dei Dorii, il quale essendo stato rimesso nei suoi stati da Ercole, accolse benignamente il figlio {p. 251}di lui, riconoscente al beneficio che avea ricevuto dal morto eroe. Ma l’irreconciliabile odio di Euristeo, il quale anche dopo la morte di Ercole perseguitò i discendenti di lui, temendo in Illo un vendicatore andò a turbarlo nel suo ritiro, ond’egli non sentendosi più sicuro presso di Epalio, ricorse a Teseo, re di Atene. Questo principe, legato di parentela e d’amicizia con Ercole prese a difendere gli Eraclidi suoi discondenti ; assegnò ad essi uno stabilimento nell’Attica ; legò i suoi sudditi d’interessi e di relazioni con quelli ; e allorquando Euristeo mosse alla testa di un esercito alla volta di Atene per scacciarne gli Eraclidi, Illo, duce supremo delle milizie ateniesi, impegnò la battaglia contro il proprio nemico e lo uccise di sua mano. Ma con la morte di Euristeo non ebbe fine l’inimicizia fra gli Eraclidi ed i Pelopidi ; e la guerra minacciava di durar Inngamente, allorchè Illo, per porvi un termine, mandò ai nemici un bando di sfida, offerendo di battersi personalmente contro chiunque si fosse presentato, a condizione però che s’egli restava vincitore, Atreo, re dei Pelopidi, dovesse cedergli lo scettro dei suoi stati ; mentre se era vinto, gli Eraclidi non avrebbero potuto entrare nel Peloponneso che dopo un periodo di cento anni.
Nel combattimento Illo fu ucciso e gli Eraclidi perciò non poterono entrare nel Peloponneso che dopo il tempo stabilito.
2269. Imbrasia. — Soprannome di Giunone, che a lei veniva da un flume chiamato Imbraso, che scorreva nell’isola di Samo. I sacerdoti della dea in alcuni giorni dell’anno andavano a lavare la statua di lei nelle acque di quel flume che perciò erano ritenute come sacre.
2270. Imene. — Detto anche Imeneo.
Le cronache mitologiche, ci parlano di questo giovane ateniese come di un uomo di estrema bellezza, ma di oscuri natali e poverissimo. Ancora fanciullo s’innamorò perdutamente d’una giovanetta ateniese e non potendo nemmeno sperare di farla sua un giorno per esser ella di nobile e ricca famiglia, si contentò di seguitarla da per ogni dove, felice di poterla almeno vedere e di sentire qualche volta il suono della sua voce adorata.
Avvenne intanto, che nella città di Atene si cominciavano a fare i preparativi per le feste di Cerere, che con gran pompa si celebravano una volta l’anno sulla spiaggia del mare ; e siccome a quelle feste intervenivano tutte le dame ateniesi, così Imene seppe che anche la diletta del suo cuore si sarebbe recata alle feste e spinto dell’amore concepì il pensiero di vestirsi da donna onde poter rimanere vicino alla sua amata durante il tempo delle feste. Infatti egli pose ad esecuzione il suo disegno e con l’ajuto del travestimento e della sua fisonomia dolce ed imberbe fu ricevuto fra le dame ateniesi. Mentre le feste erano già cominciate e Imene assaporava la felicità di star vicino alla diletta del suo cuore, una mano di corsari piombarono improvvisamente sulle donne ateniesi e profittando della confusione se ne impadronirono, e trafugatele prestamente sulle loro navi si avviarono verso una lontana e remota spiaggia dove giunti dopo aver sbarcato la loro preda si dettero in braccio al riposo. Imeneo allora profittando del sonno dei rapitori propose alle sue compagne di aventura di uccidere i corsari ; e postosi alla testa delle più coraggiose fra le rapite, uccise quelli che dormivano e si dette con le sue poche seguaci a correre precipitosamente verso la spiaggia ove imbarcatosi veleggiò verso Atene. Quivi giunto, radunò il popolo e propose ai magistrati, di liberare le altre donne ateniesi dalle mani dei corsari richiedendo in premio di quanto egli avrebbe operato, la mano di una giovanetta ch’egli amava. La proposta fu accettata e Imene parti la sera stessa per l’isola dei corsari alla testa di una forte mano di soldati e provveduto di quanto era necessario alla spedizione, la quale andò coronata di lieto successo, imperocchè dopo pochi giorni il giovane Imene ritornò vincitore e in premio dell’eroico coraggio sposò la nobile giovanetta che formava tutto il suo amore. Gli ateniesi in commemorazione di questo fatto invocarono sempre Imene nella celebrazione dei matrimonii e stabilirono delle feste in suo onore chiamate Imenee.
Da ciò emerge il simbolo di Imeneo dio delle nozze, che alcuni autori fanno figliuolo di Bacco e di Venere, altri di Urania ed altri finalmentedi Apollo e di Calliope.
I pagani rappresentavano Imeneo sotto le sembianze di un giovanetto bellissimo, coronato di fiori ; con una fiaccola accesa nella mano destra ed un velo di color giallo nella sinistra, e ciò, secondo Plinio, perchè le spose greche costumavano adornarsi d’un velo di questo colore, quando andavano all’altare.
2271. Imero. — Figlio di Lacedemone e di una ninfa bellissima per nome Taigete. A proposito di questo giovanetto le cronache dell’antichità ci han trasmesso un doloroso ricordo. Ripete la tradizione che essendosi Imero tirato addosso l’ira di Venere, la dea per vendicarsi fece in modo, che una sera egli senza conoscere la propria sorella Cleudice avesse gioito di lei. Il giorno seguente venuto a conoscenza dell’incesto commesso n’ebbe tanto dolore che disperato si gittò nel fiume Maratona ove si annegò ; e da quel giorno il fiume fu detto Imero.
{p. 252}Plutarco il geografo, che riferisce lo stesso fatto, aggiunge che appena Imero si fu anneganelle acque del fiume che poi prese il suo nome, uscisse dalle onde una pietra che aveva la forma di un elmo che gli antichi chiamarono Trafitide ; e che questa pietra aveva la strana facoltà di saltare da sè sola, sulla sponda tutte le volte che gli echi circostanti ripetevano lo squillo di una tromba.
Altre opinioni asseriscono che il fiume Imero cangiasse nuovamente il suo nome in quello di Eurola, per una consimile congiuntura V. Eurota.
Imero era anche il nome di un dio dei desiderii, che i pagani ponevano insieme ad Ero e a Poto, numi che raffiguravano i desiderii dell’amore, e che tutti e tre venivano simboleggiati sotto la figura di tre amorini.
2272. Imezio. — Nelle circostanze di Atene sorgeva una montagna conosciuta sotto il nome di Imetto, sulla quale Giove aveva un tempio a lui consacrato, perchè la tradizione asseriva che le api di quella montagna avevan cibato Giove bambino del loro miele ; e che in ricompensa di ciò, il padre degli dei avea conceduto a quelle api la facoltà di fare il miele più squisito di tutte le altre. Da questo fatto si dava il nome d’Imezio a Giove stesso.
2273. Imperatore. — Un altro dei soprannomi di Giove, col quale aveva nel Campidoglio una statua chiamata Jupiter-imperator e che secondo la cronaca, Tito Quinzio Flamminio portò dalla Macedonia.
2274. Imprecazioni. — In latino dirœ. Era questa la denominazione di alcune divinità, che presso i pagani eran ritenute come le vendicatrici delle colpe degli uomini. Secondo la cre naca favolosa, erano figlie della Notte e del fiume Acheronte. Esse venivano sovente confuse con le Furie e si chiamavano più particolarmente, come asserisce Servio, Lirœ o Imprecazioni nel cielo ; Furie sulla terra, ed Eumenidi nell’inferno. La credenza religiosa dei romani non riconosceva che due sole Dirœ ; mentre i greci ne ammettevano tre : entrambi questi popoli le invocavano per la distruzione dei nemici. Così Sofocle, nel suo Edipo, ci dà un’idea della maniera con la quale gli antichi pronunciavano le imprecazioni, allorquando ci ripete quelle contro l’uccisore di Lajo.
Di questa terra, ond’ho possanza e trono,Non sia nessun ch’osi tal uomo accorre,O seco favellar, nè porlo a parteDe’ sacri riti, nè spruzzar sovr’essoL’onda lustral : ma lo respingan tuttiDa’ proprii lari : ei d’ogni danno è capo.Chiaro il disse l’oracolo. Del numeCosi le parti, e dell’estinto lo prendo :E il reo consacro, o (se più sono) i reiOrribil vita a strascinar, da tuttoE da tutti divisa. E se in mia reggia,Conscio me, stassi il regicida occulto,Io sovra me, sovra me stesso invocoCiò che agli altri imprecal.Sofocle — Edipo Re — Tragedia trad. di F. Bellotti.
Presso i pagani varie erano le formole delle imprecazioni, ma le più terribili erano o quelle contro i violatori dei sepolcri.
2275. Impudenza. — Anche di questa avevano i greci fatta una divinità e le aveano consacrato un altare ed un uccello, propriamente la pernice, che nòn sappiamo per quale ragione era ritenuto presso i pagani come un animale senza pudore.
2276. Inace. — Fondatore del regno di Argo e stipite fondamentale degli Inachidi : fu figliuolo dell’Oceano. Pausania riferisce a proposito di lui, che avendo fatto scavare un nuovo letto al fiume Anfileo, cangiò questo col pr oprio nome.
Al dire del citato autore, e se condo riferisce la tradizione alla quale egli si attiene, fra Nettuno e Giunone surse una contesa, pretendendo ognuna di queste divinità di avere la supremazia sul regno di Argo. A giudici della contesa furono chiamati Inaco, ed altri due fiumi, del paese e questi di comune accordo giudicarono in favore di Giunone. Nettuno sdegnato disseccò i tre fiumi.
Inaco fu padre di varii figliuoli di cui i più ricordati sono Foraneo ed Io.
2277. Inarima. — Piccola isola del mar Tirreno conosciuta oggi sotto il nome d’Ischia.
Virgilio dice che sotto le rupi di quell’isola giace fulminato da Giove il gigante Tifeo.
2278. Incubi. — Specie di Genii che i pagani classificavano fra i loro dei rustici. I greci li chiamavano Ifialti ; e i latini Incubi da incubare, perchè ritenevano che questi genii dividessero la notte il letto delle donne.
2279. Indicanie. — Soprannome che si dava ad Ercole, secondo Cicerone, dal fatto seguente. Nel tempio di questo dio, si conservava fra gli arredi sacri, una tazza d’oro pesantissima di grande valore, la quale un bel giorno fu rubata serza che si potesse scoprire l’autore del furto. Narra la cronaca che il poeta Sofocle, ebbe in sogno una visione nella quale gli apparve Ercole stesso e gli mostrò la persona che avea consumato il furto. Il poeta tacque per allora, ma essendosi lo stesso sogno ripetuto per tre notti di seguito, all’indomani del terzo giorno si presentò al tribunale dell’Areopago, e svelò il sogno ; e avendo i {p. 253}giudici ordinato che il reo fosse posto alla tortura, questi confessò il delitto e restituì la tazza, che fu rimessa al suo posto. Da questo fatto Ercole ebbe il soprannome di Indicante.
2280. Indigeto. — Con la denominazione di Giove Indigeto, i romani indicavano Enea, perchè un’antica tradizione diceva, che avendo questo principe perduta la vita in una battaglia, contro Mezenzio, combattuta sulle rive del fiume Numico, il corpo di lui non si potè più rinvenire, perchè Venere, madre dell’eroe, loavea trasportato in cielo e l’aveva posto fra gli dei, dopo averne purificato il corpo nelle onde di quel fiume. Al dire di Tito Livio, si vedeva ancora ai suoi tempi un monumento consacrato a Giove Indigeto, ove gli venivano offerti continui sagrifizii.
La parola Indigeto deriva dal latino in diis ago cioè : sono fra gli dei.
Oltre a questo i romani davano la denominazione collettiva di dei indigeti a tutti gli eroi che essi avevano divinizzato, per mezzo dell’apoteosi, come per esempio, a Romolo, a Giulio Cesare, a Vesta ecc.
La regina Didone, presso i Cartaginesi, e Minerva in Atene, aveano, secondo riferisce Servio, il soprannome d’Indigete e allora questa parola deriva da inde genitus, cioè : nato nel paese.
2281. Indovinazione. — Detta anche divinazione. Dallo studio continuo ed accurato dei più rinomati scrittori e cronisti dell’antichità pagana ; e da quanto essi ci hanno trasmesso sulle costumanze dei popoli antichi, si rileva che la Indovinazione altro non fu da principio se non una specie di arte ignota e misteriosa, la quale per mezzo di assiduo studio sugli avvenimenti del passato, procurava di scoprire l’avvenire, e quanto potea succedere col passare degli anni, riportando congiunture ed avvenimenti, presso a poco simili a quelli già compiutisi negli anni trascorsi : e ciò dovea tanto più facilmente accadere presso quei popoli, che professavano un culto di religione pieno a ribocco di superstiziose credenze : tanto più poi perchè l’uomo per sua natura preoccupato sempre ed inquieto dell’avvenire, ha cercato sempre di penetrare negli arcani di quello e di squarciare il fitto velo che lo nasconde ai suoi occhi mortali.
I primi popoli che formarono della indovinazione, una scienza arcana e misteriosa, furono gli egizii ed i greci, i quali osarono di formarne una scienza fondata su regole e su precetti più o meno strani, e di legarla alla religione, onde fare che, venendo essa accettata dagli uomini in generale, ne fosse meno scrutata l’origine.
Presso i pagani, la divinazione si esercitava più generalmente dai sacerdoti Lupercali, dagli Auguri, dagli Astrologhi, e dagli Indovini, i quali gettavano le sorti, esaminavano le visceri ancora fumanti delle vittime, spiegavano i prodigi ec. A tutti costoro si dava collettivamente il nome d’Indovini.
Riserbandoci a parlare partitamente al vocabolo Teurgia, di quanto concerne la divinazione naturale, diremo qui che quattro erano, presso i pagani, le specie di divinazioni più in uso ; alle quali, si dava il nome proprio di, Aeromanzia, quante volte si faceva uso dell’aria ; di Idromanzia quando s’adoperava l’acqua ; di Geomanzia quando adoperavano il terreno e finalmente di Piromanzia, quando si servivano del fuoco. Oltre a queste principali specie di divinazione, ve ne era un altro larghissimo numero, i cui vocaboli abbiamo noi già menzionati, secondo che l’ordine alfabetico da noi seguito nel corso di questa nostra opera, ce ne ha porto l’occasione. Queste differenti e moltiplici specie di divinazioni erano dette, astrologia, assinomanzia, artinomanzia, bolomanzia, costinomanzia, chiromanzia, epaloscopia, lionomanzia, litomanzia, negromanzia ecc. ecc. e un altro infinito numero di denominazioni delle quali han fatto menzione quasi tutti gli autori antichi.
2282. Indovini. — I greci li ritenevano come ministri della religione e come tali li tenevano in grande venerazione. Quando si praticava una qualunque divinazione, gl’indovini eran chiamati sempre ad assistere al sacrifizio, onde leggere l’avvenire nelle viscere della vittima. Vedi l’articolo precedente.
I pagani seguivano alla lettera le decisioni degl’Indovini.
2283. Indulgenza. — I pagani ne avevano fatta una divinità, e la rappresentavano sotto lo aspetto di una donna tranquilla e sorridente ; dallo sguardo dolce e malinconico ; e seduta tra un toro ed un bue, forse per indicare che l’indulgenza ammanzisce gli animi più brutali.
2284. Inferno. — Questa parola veniva adoperata dai pagani, per denotare in generale, il luogo dove andavano tutte le anime, dopo la morte e che nella loro credenza religiosa come prendeva i campi Elisi, l’Olimpo, abituale dimora degli dei, e il Tartaro, ove era la reggia di Plutone.
Al dire dei filosofi dell’antichità, l’inferno era egualmente distante da tutti i luoghi della terra ; e ciò, secondo l’opinione di Cicerone, veniva asserito per esprimere che dev’essere agli uomini indifferente il morire, piuttosto in un luogo, che in altro ; e che qualunque sia l’angolo della terra, ove si muoia, l’anima avea sempre a percorrere eguale distanza per giungere all’Inferno.
{p. 254}I poeti dell’antichità assegnavano tutti, alcuni dati luoghi come passaggi particolari dai quali, si andava all’inferno ; così la caverna di Tenaro, nella Lacedemonia ; la caverna Acherusia, in Epiro ; il passo, detto Bocca di Plutone, nella Laodicea ecc. Senofonte, scrive che Ercole penetrò nello Inferno dalla parte della penisola Achenesiade, vicina ad Eraclea del Ponto. Virgilio asserisce, che Enea discese nei regni della morte, traversando il lago d’Averno ; ed Omero ripete, che Ulisse per scendere all’Inferno, traversò l’oceano dal paese dei Cimmeri.
Il cronista Apulejo, fa, che Psiche per discendere all’Inferno e presentarsi a Plutone, passi la caverna di Tenaro in fondo alia quale ritrovò il fiume Acheronte, che traversò sulla barca di Caronte, la quale la lasciò innanzi al trono di Plutone, custodita da Cerbero. Secondo ripete la cronaca, a cui si attiene Strabone nelle sue opere, la strada che conduceva all’Inferno, era brevissima, ond’è che i concittadini del celebre scrittore, non avevano la costumanza adottata da tutti gli altri abitanti della Grecia, quella cioè, di mettere nelle labbra dei loro morti, una piccola moneta, che serviva a pagare a Caronte navicellajo dell’Inferno, il tragitto delle anime. V. Caronte.
Nell’Inferno scorrevano cinque fiumi. Vedi Fiumi Dell’Inferno.
Plutone e sua moglie Proserpina, avevano lo impero assoluto del regno delle ombre, e Eaco, Minosse e Radamanto, giudicavano le anime dei trapassati. VediGiudici Dell’Inferno.
Oltre a ciò, secondo asserisce Virginio istesso, nella stupenda descrizione ch’egli fa dell’Inferno dei pagani, avevano loro abituale residenza nell’Inferno le Furie. Vedi Furie. Le Eumenidi, l’Idra di Lerna, i Giganti, le Arpie, i Centauri, la Discordia, la Guerra, la Paura, la Fame, l’Indigenza, la Morte, la Chimera, le Gorgoni e tutti infine i mostri, di che l’immaginazione dei poeti dell’antichità, e le superstiziose credenze di quei tempi, avevano largamente popolata la religione pagana.
Nel primo entrar del doloroso regnoStaano il Pianto, l’Angoscia e le voraciCure, e i pallidi Morbi e ’l duro AffannoCon la debil Vecchiezza. Evvi la Tema,Evvi la Fame : una ch’è freno al bene,L’altra stimolo al male ; orrendi tuttiE spaventosi aspetti. Havvi il Disagio,La Povertà, la Morte, e de la MorteParente, il Sonno. Havvi de’ cor non saniLe non sincere Gioie. Havvi la GuerraDe le genti omicida, e de le FurieI ferrati covili, il Furor folle,L’empia Discordia che di serpi lui ’l crine,E di sangue mai sempre il volto intriso.Nel mezzo erge le braccia annose al cieloUn olmo opaco e grande, ove si diceChe s’annidano i Sogni, e ch’ogni frondaV’ ha la sua vana immago e il suo fantasma.Molte, oltre a ciò, vi son di varie fereMostruose apparenze. In su le porteI biformi Centauri, e le biformiDue Scille : Brïareo di cento doppi :La Chimera di tre, che con tre hoccheIl foco avventa : il gran Serpe di LernaCon sette teste ; con tre corpi umaniErilo e Gerïone ; e con MedusaLe Gorgoni sorelle, e l’empie Arpie,Che son vergini insieme, augelli e cagne.Virgilio — Eneide — Libro VI. trad. di A. Caro :
2285. Iniziali. — Detti anche Initali, dal vocabolo latino initiare, che significa consacrare, introdurre. Si dava codesto nome ai misteri di Cerere, perchè bisognava essere iniziato al culto di quella dea per assistervi.
2286. Ino. — Figlia di Cadmo e di Armonia. Ella fu tolta in moglie, in seconde nozze da Atamante, re di Tebe, il quale la rese madre di due figliuoli, Melicerta e Learco. Ella trattò con vero cuore di madrigna, Elle e Frisso, figliuoli del primo letto di suo marito ; e tanto che, sapendo che, per diritto di primogenitura, sarebbe a questi spettato di succedere al trono del padre loro, a detrimento dei propri figliuoli, pensò di far morire i suoi figliastri, e per raggiungere con più sicu rezza lo scopo crudele, profittò delle superstiziose credenze dei suoi concittadini, e dette ai suoi tenebrosi maneggi, una tinta di religione.
In quel torno di tempo, la città di Tebe, fu desolata da una terribile carestia, (della quale molti autori ripetono che Ino stessa fosse stata cagione, avendo, secondo alcuni, fatto avvelenare il grano ; e secondo Igino, per averne consumato il germe facendolo bollire). E siccome in ogni pubblica calamità, i pagani avean per costume d’interrogare l’oracolo, così quando si cercò il modo di far cessare la carestia, i sacerdoti del maggior tempio di Tebe, subornati dall’oro della regina, e venduti alle infami mire di lei, risposero che a far cessare il flagello, bisognava immolare sull’ara della divinità, Elle e Frisso. Questi però si sottrassero, con una precipitosa fuga, al destino che era loro riserbato ; ma, Elle morì nel traversare il mare. V. Elle e Frisso.
Atamante, venuto a conoscenza dei crudeli raggiri della moglie, trasportato dall’ira, uccise di sua mano il proprio figliuolo Learco e si dette ad inseguire la madre istessa, la quale afferrato il figliuolo Melicerta, si dette con esso a {p. 255}precipitosa fuga verso il mare ; ma inseguita sempre dal furibondo marito, si precipitò nelle onde insieme al figliuolo.
Ovidio favoleggia diversamente codesta tradizione.
Secondo il citato scrittore, la dea Giunone, non ancora placata dalla morte di Semele, perseguitò Ino, sorella di quella, per aver preso cura del piccolo Bacco, figlio di Giove e di Semele ; e giurò di riportare su di Ino tutto lo sdegno della sua terribile vendetta. A tale uopo, comandò alle furie di turbare la ragione di Atamante, ed egli infatti percosso nello intelletto dalle terribili dee vendicatrici, credè che il suo palagio fosse trasformato in un bosco ; la moglie ed i figliuoli in fiere, e in un accesso di questa abberrazione schiacciò contro il muro il capo del proprio figliuolo Learco.
Tosto in mezzo alla reggia furibondoD’Eolo il figliuolo esclama : Orsù, compagni,Le reti distendete in queste selve :Io con due leoncini una lionessaQui pur or vidi ; e, quasi d’una belva,Corre sull’orme della sposa, insano ;E Learco il figliuol, che stendea lietiLe pargolette braccia, della madreStrappa dal seno, e d’una fionda a guisa,Due volte e tre nell’aria l’arrandella,E manda infraute contro duro massoFerocemente le infantili membra.Ovidio — Metamorf — Libro IV Fav. VII trad. del Cav. Ermolao Federico
Ino quasi pazza alia vista dell’orrendo spettacolo fuggì scapigliata portando fra le braccia l’altro figliuolo Melicerta, e si precipitò con esso nel mare. Ma la ninfa Panopea, seguita da altre cento najadi, sue sorelle, ricevè la madre ed il fanciullo fra le sue braccia e li condusse entrambi in Italia traversando i sentieri sottomarini a lei solo cogniti. Ma la implacabile vendetta di Giunone, non si tenne paga alle sventure sofferte dalla povera Ino, e appena ella giunse in Italia suscitò contro di essa le Baccanti le quali un giorno circondandola e riempiendo l’aria, secondo il loro costume, di grida assordanti, colpirono Ino di durissime battiture ; sotto le quali la sventurata sarebbe morta per certo, se non si fosse trovato a passar per di là Ercole, il quale ritornava dalla Spagna. L’eroe sentendo le grida dolorose, volò in soccorso della vittima gemente e liberò Ino, ponendo in fuga le baccanti. Dopo (questo fatto, Ino si portò presso la celebre indovina Carmenta, onde sapere da lei quale sarebbe per essere il proprio destino, e quello del figlio suo ; e Carmenta, invasa dello spirito divino d’Apollo, rispose ad Ino, che ben presto ella in premio delle sofferte persecuzioni sarebbe stata cangiata in una divinità marittima, che i romani avrebbero adorata sotto il nome proprio di Matuta, e i greci sotto quello di Leucotoe.
Infatti Nettuno, poco tempo dopo cedendo alle preghiere di Venere, ricevè Ino e il figliuolo Melicerta fra le divinità secondaire del suo regno. V. Leucotoe e Matuta.
2287. Intereidona. — Dal verbo latino intercidere, i romani davano questa denominazione, alla divinità che presiedeva a tutti i lavori che si facevano con la scure. Alcuni autori ripetono, che la dea Intercidona era onorata anche come la protettrice delle donne gravide e che la invocavano insieme a Deverra e Piluno, per essere protette contro le persecuzioni del dio Silvano.
Non si saprebbe in verità dare una spiegazione esatta, dell’analogia che vedevano gli antichi, fra il nome d’Intercidona e la protezione che credevano accordasse alle donne incinte.
2288. Intestina delle vittime. — L’incarico di esaminare le viscere delle vittime, svenate nei sacrificii, era esclusivamente devoluto ai sacerdoti Aruspici, che soli leggevano in quelle, i presagi dell’avvenire.
Cicerone ripete, nelle sue opere, che era questa una delle più forti mattezze, che la superstizione facea commettere ai pagani ; i quali credevano fermamente che gli dei cangiassero le viscere delle vittime, nel momento stesso che esse venivano esaminate, onde significare per mezzo di quelle, la loro volontà.
Però presso gli antichi stessi, vi erano ben molti che non prestavano fede a
codesti superstiziosi raggiri dei sacerdoti pagani, i quali si avvalevano
dell’ignoranza del popolo, come han fatto i sacerdoti di tutti i tempi, onde
mantenere schiave la masse, e disporre a lor talento delle cose degli
uomini ; e noi troviamo infatti registrata nelle cronache
dell’antichità, la risposta che il guerriero Annibale, dette al re Prusia,
il quale si ricusava a combattere, asserendo che le visceri degli animali
svenati nel sagrificio da lui offerto agli dei, non gli avevano dato una
favorevole risposta, circa le sorti della battaglia. « Come,
rispose Annibale, presterete più fede agli intestini d’un bue, che all’
esperienza e al parere d’un vecchio generale ?… »
2289. Inverno. — A somiglianza delle altre stagioni, gli antichi aveano personificato anche l’inverno, rappresentandolo sotto le sembianze di un uomo di matura età, coperto di panni pesanti, inghirlandato d’una corona di rami senza foglie, e con in mano un uccello acquatico.
{p. 256}2290. Invidia. — I greci aveano fatto di questa triste passione un dio, essendo la parola φδονος di genere mascolino ; mentre i latini ne aveano fatto una dea, essendo nella loro lingua la parola invidia di genere feminile.
Le cronache dell’antichità non fanno menzione, nè di altari, nè di statue erette a questa divinità ; e solo alcuni autori come Luciano ed Ovidio, ci hanno trasmesso delle descrizioni di questa funesta passione, prese dagl’invidiosi medesimi.
Sta il pallor sulle gote, e la magrezzaNel corpo tutto ; mai diritto é ’l guardo,Lividi sono i denti e rugginosi :Verdeggia il petto per lo fiele : aspersaDi veleno è la lingua : il riso manca,Salvo quel ch’eccitò l’altrui dolore :E macerate da costante affannoDi riposo non gode, ma rivolgeIn mente de’ mortali gli abborritiSuccessi : e questi rivolgendo in menteIntisichisce, e sè rode ed altrui.E porta in se medema il suo castigo.Ovidio — Metamorf. — Libro II. Fav. XII. trad. del Cav. Ermolao Federico.
2291. Invincibile. — Era uno dei soprannomi di Giove.
In Roma durante gl’Idi di Giugno, venivano celebrate solenni feste in onore di Giove Invincibile.
2292. Io. — Figlia del fiume Inaco. La cronaca mitologica racconta di lei, che essendosene Giove perdutamente invaghito, la sorprese un giorno mentre usciva sola della casa paterna, e per impedirle la fuga, la ricinse di una densa nuvola, la cui oscurità si sparse tutta all’intorno. Sorpresa Giunone a veder la terra coperta di tenebre, mentre il cielo era sereno, scese subito sulla terra, in preda a gelosi sospetti e disgombrò la nuvola. Giove allora per sottrarre la sua amata al furore della moglie, cangiò lo in una giovenca.
……….. Ma previstoAvea Giove il venir della consorte,E della figlia d’Inaco le formeIn candida giovenea trasmutava.Ovidio — Metamorf. — Libro I Favola X, trad. del Cav. Ermolao Federico.
Ma la bellissima giovanetta, conservò anche sotto la novella sembianza tutto l’incanto delle sue forme, per modo che Giunone stesso non potè fare a meno di ammirarla, e fingendo di ignorare quanto era avvenuto, dimandò a Giove di chi fosse quella giovenca e a qual mandra appartenesse ; e avendole Giove risposte che l’avea prodotta la terra, Giunone chiese al marito di donarle quella giovenca. Giove suo malgrado condiscese alla inchiesta e Giunone la dette in custodia ad Argo, che secondo la favola avea cent’occhi. V. Argo.
Avuta in sua balia la concubina.La dea non tosto, pose ogni sospetto :Nè fiduciava in Giove, e nel pensieroFitto le stava un furto : si che quellaCommise in guardia all’Aristorid’Argo.Ovidio — Metamorf — Libro I. Fav. X. trad. del Cav. Ermolao Federico.
Ora avvenne che mentre Io, sotto la custodia instancabile di Argo, pascolava un giorno sulle sponde del fiume, Inaco padre di lei, attratto dalla bellezza di quello animale, le mise d’innanzi un fascio d’erba. Commossa Io dall’atto cortese, ed avendo riconosciuto suo padre, lambì a lui le mani in atto di riconoscenza, mentre due lagrime le caddero dagl’occhi ; ed in mancanza della parola, segnò sulla sabbia col piede il suo nome.
Giove intanto addolorato suile persecuzioni che la gelosa Giunone, faceva soffrire alla sventurata giovanetta, mandò Mercurio ad uccidere Argo : ed infatti avendo un giorno Mercurio sorpreso nel sonno l’incorruttibile custode, lo uccise. Però alla morte di lui, non diminuirono i mali della perseguitata, imperocchè Giunone vieppiù sdegnata contro di lei, le fece apparire una furia, la quale turbandole la mente, e straziandola senza riposo, la costrinse ad andare errante e raminga per città e per borgate. Incalzata così dalla vindice mano della sua divina persecutrice, Io giunse finalmente sulle rive del Nilo, ove oppressa della fatica e dalla stanchezza, si lasciò cadere sulla sabbia e pregò Giove che le concedesse il riposo. Giunone allora commossa dalle preghiere del marito, ridonò ad Io la primitiva sua forma umana. Dopo qualche tempo lo dette alla luce un bambino, che fu chiamato Epafo, ed ella stessa fu adorata sotto il nome d’Ifide come una dea.
È questa almeno la tradizione alla quale si attiene Ovidio, però nella gran maggioranza degli scrittori greci, tanto cronisti come poeti, si narra il fatto medesimo con l’aggiunta di altre congiunture.
{p. 257}Infatti, presso quasi tutti gliantichi scrittori, è detto che Giunone, per vendicare sull’odiata giovanetta la morte del suo fedele Argo, avesse mandato ad Io una grossa mosca, la quale pungendola senza posa, la mise in furore, per modo che agitata in strana guisa, e quasi demente si precipitò nel mare, che dal suo nome fu detto mare Ionio,
…….. e tutto poiQuel gran tratto di mar, sappi che sempreSarà Ionio nomato, appo i mortaliDel tuo viaggio monumento eterno.Eschilo — Prometeo Legato — Tragedia trad. di F. Bellotti
e andò nell’Illino, donde traversando il monte Emo calò nella Tracia. Giunta al golfo che porta lo stesso nome, lo passò come il mare e da questo prese il nome di Bosforo.
…….. onde poi sempreBimarrà fra’ mortali una gran famaDel tuo tragitto, e Bosforo nomatoSarà quel golfo.Eschilo — Prometeo Legato — Tragedia Trad. di F. Bellotti.
Ma non si arrestò quivi, perchè spinta sempre dal furore che le sconvolgeva la mente andò nella Scizia, in Europa, nell’Asia, e si arrestò finalmente sulle sponde del Nilo.
Eschilo, nella sua tragedia intitolata Prometeo legato, fa che lo giunga nella Scizia sulla rupe, ove egli era incatenato, e fa che Prometeo disveli ad Io la durata delle sue pene e le mostri gli altri travagli che la gelosa Giunone le riserbava, e le dice finalmente che avrebbe fissato la sua dimora in Egitto, ove avrebbe avuto da Giove un figliuolo chiamato Epafo, il cui dominio si estenderebbe quanto il Nilo.
Del paese all’estremo evvi CanopoCittà posta alla foce ed alle duneDel Nil vicina : ivi al primiero statoGiove ti tornerà, con amorosaMan ti palpando e carezzando ; e il brunoEpafo a lui partorirai tu quindiChe fia signor di quanto suolo irrigaIl Nilo ampiofluente.Eschilo — Prometeo Legato — Tragedia Trad. di F. Bellotti.
A queste rivelazioni, un novello accesso di furore colpisce la sventurata Io, la quale lasciando Prometeo sulla sua rupe, riprende la sfrenata sua corsa traverso la terra.
Fin qui la parte mitologica. Per ridurre però tutte codeste simboliche allegorie, alla parte storica, diremo attenendoci alle opinioni dei più chiari scrittori dell’antichità, che Io, sacerdotessa di Giunone, fu amata da un re di Argo, per nome Api, il quale era soprannominato Giove ; e che ingelosita la regina avesse fatto rapire Io, affidandola alla custodia di un suo seguace, per nome Argo, il quale Api avesse fatto uccidere per riavere la sua amante. Questa però temendo la vendetta della regina, s’imbarcò per lontani viaggi su di una nave, che avea nella prora la figura di una vacca, e questo ha dato motivo alla favolosa metamorfosi di Io in giovenca.
Pausania riferisce che lo non fosse figliuola del fiume Inaco, come vuole la maggioranza degli autori, ma invece la madre di lei avesse nome Iaso, figlinola di Triopante, detto anche Triopa, settimo re di Argo.
Erodoto ripete invece, che la principessa Io, fosse stata da alcuni mercadanti fenici, rubata ai proprii genitori, in Argo, come rappresaglia vendicativa del ratto di Europa, Figlia di Agenore, re di Fenicia. V. Europa.
Finalmente il nome di Ifide, col quale Io fu adorata come una Dea, le venne dato solo perchè Inaco, suo padre, portò dall’Egitto in Grecia il cutto della dea Ifide, la quale i greci confusero con Io V. Argo.
2293. Ipar. — Con questa parola, i greci dinotavano i due segni sensibili e manifesti della presenza degli dei ; poichè la opinione generale presso i pagani, era che gli dei si rivelassero agl’uomini, o per mezzo dei sogni ; o con un’azione reale ; o finalmente col dare dei contrassegni sensibili, della loro presenza, col compimento di qualche prodigio.
Dionigi d’Alicarnasso, era talmente persuaso della manifestazione degli dei agli uomini, che riguardava come atei tutti coloro che la negavano.
Cicerone stesso, al quale fra tutti gli altri autori dell’ antichità, non si può dar certo nome di credulo, ripete sovente, nelle sue opere, che le frequenti apparizioni degli dei, provavano la loro vigilanza sulle città e sui cittadini.
2294. Iperborio. — Dalle due parole greche υπερ, βορεης di la e Borea ; si dava, secondo riferisce Diodoro, il nome d’Iperborei, a quei popoli che abitavano le parti settentrionali del mondo conosciuto dagli antichi, quasi si volesse dire di la dal vento Borea.
Il soprannome d’Iperboreo, si dava poi dai pagani ad Apollo.
{p. 258}Secondo l’opinione del cennato scrittore, eravi nel paese abitato dai popoli Iperborei, un’isola grande quanto la Sicilia, la quale era comunemente ritenuta come il luogo ove nacque Latona, madre d’Apollo e che perciò quegl’ isolani venerassero con un culto particolare questo dio. Nel mezzo dell’ isola sorgeva un magnifico tempio, a lui dedicato, e dove gli si facevano le più ricche offerte.
Finalmente gl’ Iperborei ritenevano per fermo che Apollo discendesse nella loro isola, ogni diciannove anni ; e che egli stesso nella notte anniversaria della sua nascita, ballasse, al suono della sua lira, come a rallegrarsi degli onori che gli si rendevano.
Ricchissime e continue erano le offerte e i sacrifizii, che quei popoli facevano ad Apollo ; e spingevano la loro devozione fino a mandare ogn’ anno, le primizie della terra, come offerta nel tempio di Delo.
Da principio anzi queste offerte erano umane, imperocchè si mandavano tre vergini accompagnate da cento giovani di sperimentato coraggio, che portavano le offerte ; ma poi essendo state una volta violate le leggi dell’ ospitalità, fu stabilito di far passare le offerte di mano in mano, fino a Delo, e si presero perciò gli accordi nenessarii con gli abitanti delle differenti città, che si trovavano sulla via, che dal paese degl’ Iperborei, conduceva all’ isola di Delo, ove Apollo a causa di questa grande devozione che aveano per lui quegl’isolani, veniva generalmente additato col soprannome d’Iperboreo.
2295. Iperione. — Fratello minore di Saturno e figlio di Urano. Secondo la tradizione a cui si attiene Esiodo, egli fu padre del sole e della luna, e dei maggiori pianeti. Diodoro, dando una spiegazione più logica a codesta allegoria della favola, dice che Iperione era un principe Titano, il quale erasi dato, con grande amore, allo studio dell’astronomia ; e che avendo conosciuto con l’assiduità delle sue osservazioni, il corso del sole, e il movimento di rotazione degli altri corpi che occupano lo spazio ; marcò distintamente il periodo ed il ritorno delle stagioni, che sono la conseguenza diretta del movimento dei corpi celesti. Avendo comunicate queste sue cognizioni agli uomini, fu dagli antichi ritenuto come padre del sole e della luna.
Nè a ciò si arrestano le notizie che gli autori dell’ antichità, ci hanno tramandate su questo celebre uomo, inperocchè lo stesso Diodoro aggiunge, che Iperione avesse tolta in moglie la stessa sua sorella chiamata Basilea, che lo rese padre di due figliuoli, un maschio ed una femmina ; il primo che fu chiamato Elio, e la seconda Selene ; vocaboli che in lingua greca significano il sole e la luna. Ingelositi intanto gl’altri re dal vedere che Iperione avesse prole di così stupenda e maravigliosa bellezza, congiurarono fra di loro di togliere la vita ad Iperione, e di annegare nel fiume Eridano il figliuolo Elio, ancora bambino. V. Basilea.
2296. Ipernestra. — Una delle cinquanta figliuole di Danao, e propriamente quella che si ricusò di uccidere il suo sposo nella prima notte delle nozze, come fecero, secondo il crudele comando paterno, le altre sue quarantanove sorelle. V. Danao e Danaidi.
Ipernestra invece di pugnalare il suo sposo, per nome Linceo, gli porse il mezzo di sottrarsi alla grave sciagura che lo minacciava. Danao intanto, sdegnato contro Ipernestra, per averla trovata ribelle agli ordini suoi, la fece trascinare in una orrida prigione, coll’ intenzione di lasciarvela morire ; ma il popolo prese le parti deli’innocente perseguitata, e costrinse Danao a ridonare Ipernestra allo sposo. In memoria di questo fatto Ipernestra fece edificare un tempio alla dea della Persuasione.
2297. Ipertura. — Una delle Esperidi.
2298. Ipetri. — Presso i pagani s’indicavano con tale denominazione alcuni templi, che aveano all’intorno nella parte esterna due ordini di colonne, ed altrettanti nella parte interna, rimanendo scoperti nel mezzo. Pausania e Vitruvio fanno menzione, il primo, di un tempio sacro a Giunone costruito in siffatta guisa, senza tetto nè porte, e che sorgeva nella strada che da Falera conduceva ad Atene ; ed il secondo ricorda il tempio di Giove Olimpico, nella capitale stessa della Grecia, similmente costrutto, e detto come tutti gli altri simili, Ipetro.
Al dire di Strabone, gl’Ipetri erano adorni di un gran numero di statue, rappresentanti le diverse divinità.
Nel famoso Ipetro, ove si adorava la Giunone di Samo, si ammiravano tre colossali statue del celebre artefice Mirone.
2299. Ipoprofeti. — Nome particolare, col quale, venivano indicati certi servienti degl’ indovini, i quali avevano il carico di pubblicare gli oracoli e di accudire a quanto abbisognava nelle funzioni dei sacrificii.
2300. Ippa. — Secondo riferisce Orfeo, così ebbe nome una delle nutrici di Bacco.
2301. Ippia. — Dalla parola greca ιππος che significa cavallo, si dava codesto soprannome a quella Minerva ritenuta comunemente come figliuola di Nettuno, e che veniva raffigurata a cavallo : da ciò il soprannome di Ippia cioè, la cavaliera.
2302. Ippio. — Ossia Equestre. Soprannome che si dava assai generalmente a Nettuno, {p. 259}perchè, secondo riferisce Diodoro di Sicilia, si attribuiva a quel dio, l’arte di domare i cavalli.
Scrive Pausania, che il più antico tempio di Nettuno Ippio sorgeva di là da Mantinea, e che non era permesso ad alcuno di entrare in quel tempio. La cronaca tradizionale, dice che traverso la porta maggiore di quel tempio era stata posta, dalla parte interna, una fascia tessuta in lana di color rosso ; e che questo fragilissimo riparo bastava a non fare entrare alcuno nell’ interno. Il solo Epito, figliuolo d’Ipoteo, spezzò la fascia ed entrò arditamente nel sacro recinto, quasi disfidando con proterva audacia gli dei ; ma rimase immediatamente punito dell’ atto sagrilego, perchè da una delle pareti del tempio scaturì una larga vena di acqua marina, la quale percosse Epito così violentemente negli occhi, che lo sciagurato fu cieco per tutta la vita.
Ippio era anche il soprannome particolare di Marte, il quale con Minerva e Nettuno formavano la triade delle pagane divinità particolarmente designate dagli antichi col nome di Equestri, perchè erano i soli numi che il paganesino raffigurava montati a cavallo.
2303. Ippo. — Nome di una delle tante ninfe Oceanidi.
2304. Ippocampi — Nome particolare dei cavalli di Nettuno e che erano anche assegnati alle altre divinità del mare.
Sebbene l’esistenza degl’Ippocampi sia da molti ritenuta come favolosa e fantastica ; pure alcuni naturalisti dell’antichità, e Plinio, fra questi, dicono che si dà il nome di cavallo marino o Ippocampo ad un insetto lungo circa sei once, e che non ha alcuna somiglianza con la figura che i poeti antichi davano agl’Ippocampi di Nettuno.
2305. Ippocentauri. — I primi popoli abitatori della Tessaglia conosciuti comunemente sotto il nome di Centauri, venivano sovente detti anche Ippocentauri, perchè essendo stati i primi a montare i cavalli, si credette che essi fossero dei mostri, metà cavalli e metà uomini. La tradizione mitologica che dette principio a codesta credenza, raccontava che essendosi quei popoli mischiati in carnale commercio con le cavalle, nacquero da questo mostruoso connubio gl’Ippocentauri, che avevano nel tempo stesso della natura umana e di quella del cavallo.
È a notare per altro che non sono pochi gli autori dell’antichità, i quali attestano l’esistenza positiva degli Ippocentauri : e Plinio stesso racconta nelle sue opere, d’aver veduto ai tempi dell’ Imperator Claudio, un Ippocentauro portato dall’Egitto e che era stato imbalsamato col miele, secondo l’uso di quei tempi. Anche fra i padri della chiesa cattolica gioverà ricordare che ve ne è taluno, che riferisce come positiva l’esistenza di simili mostri ; e S. Girolamo, dottore di santa chiesa, ripete che portandosi S. Antonio nel deserto della Tebaide a visitare S. Paolo eremita, incontrò un Ippocentauro, ed aggiunge che l’ Africa produceva sovente di tali mostri.
2306. Ippocrazie — Dalle due parole greche ιππος ποσειδῶυ si chiamavano così alcune feste solenni che si celebravano nell’Arcadia in onore di Nettuno cavaliere. Presso i romani si dava il nome di Consualia a cerimonie identiche. Durante la celebrazione di queste feste, i cavalli erano esenti da qualunque fatica e si lasciavano andare liberi per le strade e per le campagne, magnificamente bardati e coperti di ghirlande di fiori.
2307. Ippocrene. — Famosa fontana che scaturiva nella Beozia sul monte Elicona. La tradizione mitologica ripete, che il cavallo Pegaseo battendo con l’unghia sonora su di una pietra, ne avesse fatto scaturire questa sorgente, che poi da lui prese il nome di fonte del cavallo, dalle due parole greche ιππος cavallo, e ϰροσα fontana.
Coll’ andare del tempo le nove muse furono anch’esse dette Ippocreni, perchè abitatrici del monte Elicona sulla cui sommità scaturiva quella fontana.
La tradizione storica narra che Cadmo il quale introdusse in Grecia le scienze fenicie, fosse stato il primo a scoprire quella fontana, che fu per questa ragione chiamata fonte delle muse — V. Muse e Pegaso.
2308. Ippodamia. — Moglie di Piritoo — V. Deidamia.
Ippodamia chiamavasi anche la figlia del sacerdote Brise, che fu causa primiera della inesorata ira di Achille — V. Briseide.
Ippodamia finalmente avea nome la figliuola di Enomao, re di Pisa, nell’Elide, a proposito del quale la tradizione mitologica narra, che giunta la figlia in età da marito, era di una così sorprendente bellezza, che colpì vivamente l’istesso suo padre, il quale non volendo concederla in moglie ad alcuno dei molti principi, che gliene avevano fatto formale richiesta, e carezzando nel pensiero l’infame disegno di possederla solo, ricorse ad un’astuzia altrettanto colpevole, per quanto turpe era il suo amore. Essendo egli possessore dei più veloci cavalli della sua contrada, promulgò un bando nel quale esponeva, che la mano d’Ippodamia sarebbe conceduta a quel principe che lo avesse vinto nella corsa del carro ; sottoponendosi però ad essere ucciso se fosse riuscito perditore. Ben tredici furono i concorrenti alla strana disfida ; ma questi riuscirono l’un dopo l’altro perditori, e secondo il patto sanguinoso, appena scesi dal carro {p. 260}furono posti a morte : per modo che Enomao si credeva già unico possessore della fatale bellezza della propria figliuola, allorchè gli dei sdegnati contro di lui, gli suscitarono contro Pelope, al quale concessero, per la disfida, quattro immortali destrieri, e fecero che egli si presentasse quattordicesimo concorrente. Pelope infatti riportò il premio della corsa, e sposò la bella Ippodamia.
Vi sono vari scrittori che raccontano l’istesso fatto con qualche leggiera variante — V. Enomao — Mirtillo — Pelope.
2309. Ippodete. — Al dire di Pausania, un tale soprannome era dato ad Ercole, per essergli attribuito il singolare fatto che riportiamo qui appresso. Essendosi l’armata degli Orcomeni, avanzata fino nella pianura di Teneto, in Beozia, per combattere i Tebani ; Ercole pensò di ricorrere ad uno strano stratagemma, onde portare la confusione e la morte fra le file dell’ inimico e fece legare le code dei loro cavalli, le une alle altre, per modo che, al momento della battaglia la cavalleria nemica fu quasi interamente distrutta.
2310. Ippolita. — La più celebre fra le regine delle Amazzoni. Ercole la dette in moglie a Teseo, dopo di aver distrutta le Amazzoni a Temiscira, ed uccisi i suoi due fratelli Amico e Migdone. Egli portò ad Euristeo la famosa cintura di lei, di cui quel re gli avea imposto di impadronirsi.
2311. Ippolito. — Dal nome della madre così fu chiamato il figliuolo che Teseo ebbe dalla famosa regina delle Amazzoni. V. l’articolo precedente, e che fu allevato da Piteo suo avolo, nella città di Trezene. Questo principe giovanetto, dedito solo allo studio e alla caccia avea in altissimo dispregio le donne ; perlocchè si tirò sopra il terribile sdegno di Venere, la quale per vendicarsi ispirò a Fedra, madrigna di lui una violenta passione d’amore, che crebbe al punto che la misera regina ebbra d’amore, fece dalla sua nutrice offrire sè stessa al bellissimo giovane, pel quale era pazza di passione. Ippolito però, pieno d’orrore alla infame proposta, la rigettò spaventato e respinse le inique proposizioni con tutta l’energia della sua tempra, e in modo da toglierle ogni speranza.
….. Ma surprise est extrême :Je ne puis sans horreur me regarder moi-même.Phèdre… mais non, grands dieux, qu’en un profond oubliCet horrible secret demeure enseveli.Ragine — Phédre — Tragedie Acte II. Scene VI.
Disperata Fedra, di vedersi siffattamente di sprezzata, giurò di vendicarsi, e temendo che Ippolito non l’avesse accusata al proprio consorte, pensò di prevenirlo, e lo incolpò, scrivendo a Teseo una lettera, nella quale gli diceva, che il figliastro avea voluto attentare all’ onore di lei ; e poscia si dette di propria mano la morte. Teseo intanto, ingannato dall’ accusa che Fedra avea lanciata contro d’Ippolito, maledisse il proprio figliuolo, e lo abbandonò alla vendetta di Nettuno, dal quale aveva ricevuto promessa di soddisfare ad ogni sua richiesta a tre dei suoi desiderii.
Infatti, Ippolito nell’ uscire dalla città di Trezene, guidando egli stesso il proprio carro, fu arrestato sulla spiaggia del mare da un enorme toro furioso, i cui terribili muggiti, spaventarono siffattamente i destrieri che indocili alle redini, nè più riconoscendo la voce, e la mano del proprio padrone, lo trascinarono nella loro corsa precipitosa per modo che, dopo poco, altro non rimase del bellissimo giovanetto che, un ammasso informe lacero e sanguinoso. È questo aimeno il soggetto della famosa tragedia d’Euripide, intitolata Ippolito.
…. Al di là del confin nostroV’ è una spiaggia deserta, che fa lidoM Saronico mar : quivi un rimbombo,Come di Giove un sotterraneo tuonoRomereggiò con fremita profondo.Spaventoso ad udirsi. Alto i cavalliRizzar le teste con aguzzi orecchi :E it’avetamo noi pur molto terrore,Bonde ciò, non sapendo. Indi rivolioLo sguardo al mar, vedemmo un’onda enorme.Che tanto al ciel s’alzava, che la vistaDelle Scironie rupi ne impedia.E ascondea l’istmo e d’Esculapio il sasso,Poi più e più gontiandosi, e shuffandoMulta schiuma dintorno, al lido lende.Alla mira del cocchio, e giunge, ed eccoDal tempestoso immane grembo cruttaPortentoso un gran tauro, al cui muggitoTutta ripiena spaventosamenteRimugghiò la contrada : orrendo mostro :Tal che ogni sguardo si smarri. S’apprendeUn subito ai cavalli alto spavento :E il signor nostro assai nell’ arte espertoDell’ aurigar con ambe man le rediniAbbranca e stringe, e forte a sè le lira.Come il remo il vogante, e tutto addictroPende da quelle col corpo. Ma i freni.Le putedre mordendo, a furia slanciansi.Nè senton più nè del nocchier la mano,Nè le briglie, nè il carro. E se alle pianeParti l’auriga dirigeva il temo.Ecco il mostro pararsi a lui davanti.Onde far per paura alla quadrigaDar volta indictro : e se i corsier furentiVerso le rupi rivolgean la corsa,Cheto appresso ei correva : infin che urtando.Rudemente la rota ad un macigno.N’andò il cocchio a fracasso : sottosopra{p. 261}Ogni cosa : sbalzar le rote e i chioviNell’asse infissi ; e fra le guide avvoltoNe va il misero Ippolito, la testaTrabattendo fra’ sassi, straziandoLe carni :Ruripide — Ippolito — Tragedia. Trad. di F. Bellotti.
Diodoro poi narra, nelle sue cronache, che dubitando Teseo della verità dell’ accusa terribile, lanciata da Fedra contro Ippolito, avesse comandato a questo, di venire a raggiungerlo nella città, ove egli si trovava, e giustificarsi del delitto che gli veniva apposto. Ippolito intraprese il viaggio, e montato sul suo carro, mosse, obbediente al volere paterno, senonchè, intese al suo passaggio vociferare ripetute volte l’infame calunnia che lo colpiva, onde turbato profondamente nell’animo innalzò un grido disperato, che ripercosso dall’eco, spaventò siffattamente i cavalli che guadagnarono la mano, e trascinarono il misero giovanetto, il quale rimase ucciso. Gli abitanti di Trezene in memoria delle sue virtù, gli resero gli onori divini : e Diomede gli fece innalzare un tempio, alla custodia del quale, vigilava un sacerdote perpetuo, e gli dedicò una festa annua.
Le giovanette di Trezene, costumavano di offrire a questo nuovo dio la propria capellatura, prima di andare a marito, piangendo sulla sorte sventurata del virtuoso Ippolito.
Coll’ andare del tempo, i sacerdoti sparsero la voce, che Ippolito fosse stato preservato dalla morte per volere degli dei, dai quali fosse stato ammesso in cielo fra le castellazioni, e propriamente in quella conosciuta sotto il nome di Boote, ossia condultore del carro.
Un’antica tradizione racconta, che ai tempi di Numa Pompilio, comparve in Italia un uomo per nome Virbio, il quale abitava nella selva Aricina e si spacciava per Ipppolito figlio di Teseo, miracolosamente risuscitato da Esculapio.
2312. Ippolizione. — Fu questo il nome che Fedra impose ad un tempio, che ella avea fatto fabbricare su di una montagna vicino la città di Trezene, in onore di Venere. Col pretesto di andare ad adorare la dea Fedra, si recava quasi ogni giorno in quel tempio, che per la sua elevata posizione, dominava la pianura ove Ippolito eseguiva i suoi esercizii equestri ; ed aveva così agio a vedere il giovanetto bellissimo di cui la misera donna era così perdutamente innamorata V. Ippolito.
Coll’ andare degl’ anni il tempio costruito da Fedra, col nome d’Ippolizione, in memoria dell’ amato giovane, cangiò la sua prima denominazione con quella di tempio di Venere specolatrice.
2313. Ippomene. — Figlio di Merope e di Maccareo, e marito di Atalanta.
2314. Ippona. — I romani davano questo nome alla dea protrettrice delle razze dei cavalli, e delle scuderie.
2315. Ippopotamo. — Ossia cavallo di fiume, dalle due parole greche I ππος cavallo, e Πδιαμος fiume.
In Egitto, e propriamente nella città di Ermopoli, veniva l’ Ippopotamo considerato come il simbolo di Tifone, a cagione del suo naturale maligno e nocivo agl’ uomini. Per altro nella città di Papremide, l’Ippopotamo veniva adorato con un culto particolare, volendo con ciò gli Egizii scongiurare il male che egli avrebbe potuto fare agli altri animali, che essi avevano deificato.
2316. Ippotette. — Così avea nome il nipote di Ercole, ricordato nelle cronache dell’ antichità, come l’uccisore dell’ indovino Arno, da lui creduto spia dei Pelopidi. Narra la tradizione, che Apollo, per vendicare la morte di uno dei suoi sacerdoti, avesse mandata la pestilenza nel campo degli Eraclidi ; i quali interrogarono l’oracolo onde far cessare il fiagello, e quello rispose che bisognava esiliare l’ uccisore di Arno, e placare l’ombra dell’ucciso, con solenni funerali, e giuochi funebri, celebrati in suo onore. Ippotette allora prima che si fosse agito contro di lui, cedette a suo figlio Alete il comando dell’armata che avea sotto i suoi ordini, e si esiliò dalla città di Naupatto. Suo figlio Alete s’impadroni poi della città di Corinto.
2317. Ippoteo. — Le cronache mitologiche fanno menzione di due ninfe Nereidi così chiamate.
2318. Ippotoe. — Figliuola di Lisidice e di Nestore. Nettuno invaghitosene la rapì e la condusse in una delle isole Eschinadi. Dopo qualche tempo ella dette alla luce un figliuolo che fu poi chiamato Tasio.
2319. Ippotoo. — Figliuolo di Alope e di Nettuno. È opinione fra varii accreditati scrittori che il suo nome che ha qualche somiglianza etimologica con la parola cavallo abbia dato vita alla tradizione favolosa, la quale racconta che Ippotoo, fosse, appena nato, esposto in un bosco per ordine di Cercione, suo avolo ; e che quivi egli fosse stato nudrito da due cavalle V. Cercione. Ippotoo regnò nella contrada di Eleusi, della quale fu assunto al governo dopo che Teseo ebbe ucciso Cercione.
2320. Ippotono. — Dalle due parole greche Ιπτος cavallo e ϰοἠνο uccido ; veniva dato {p. 262}questo soprannome ad Ercole come all’ uccisore dei furiosi cavalli di Diomede.
2321. Ipsipile. — Figliuola di Toante, re dell’ isola di Lenno, e di Mirina. A proposito di questa giovanetta, le cronache dell’antichità ci ricordano un singolare avvenimento. Dice la favola che avendo le donne di Lenno trascurati gli altari di Venere, la dea per punirle, le rese di un tale insopportabile odore, che esse furono tutte abbandonate dai loro mariti. Irritate da questo crudele, sebbene non ingiusto procedimento, le donne di Lenno si unirono tutte, e concordi nel desiderio della vendetta, congiurarono contro gli uomini, e in una sola notte ne uccisero quanti ne capitarono loro per le mani. La sola Ipsipile abborrendo dall’ atto sanguinoso, e piena l’anima di soave tenerezza filiale, salvò la vita del proprio padre, facendo fuggire Toante nell’isola di Chio.
Intanto compiutasi la strage, Ipsipile (che alcuni scrittori chiamano semplicemente Isifile, e l’ Alighieri fra questi, V. Giasone) fu assunta regina al governo dell’isola, che tenne per qualche tempo pacificamente.
Allorquando gli Argonauti, capitanati da Giasone, mossero verso la Colchide, al conquisto del famoso vello d’ oro, Ipsipile accolse regalmente benigna gli avventurieri navigatori, e trattenne per lungo spazio di tempo Giasone stesso, dal quale ebbe varii figliuoli, non avendo potuto frenare l’impetuosa passione d’amore che il bellissimo eroe le aveva acceso nel core. Così trascorsero due anni interi, allorchè Giasone scuotendosi dall’ ebbrezza in cui giacevasi ricordò dell’alta missione che avea giurato di compiere, e volle ad ogni costo partire per alla volta della Colchide.
Invano Ipsipile pianse, pregò, supplicò il suo amante di non abbandonarla : Giasone, stanco di quell’amore interamente sodisfatto, volle assolutamente partire, e per calmare la disgraziata giovanetta le giurò, come ella chiedeva, che al ritorno della gloriosa spedizione sarebbe, prima di entrare in Grecia, ritornato presso di lei. Ipsipile fiduciosa nelle parole del suo amante, lo lasciò partire ; ma Giasone appena giunto nella Colchide, perdutamente innamoratosi di Medea, dimenticò ben presto le lagrime della sventurata sedotta ; l’ amore col quale ella lo avea amato ; e per fino i figli di cui lo avea reso padre.
Intanto però il destino non cessava di perseguitare la sventurata Ipsipile, alla quale un’altra sciagura fece, verso quel torno di tempo, una novella e profonda ferita nell’enima.
Le donne di Lenno scoprirono finalmente che Toante padre della loro regina, lunge dall’esser stato ucciso, come esse credevano, dalla propria figliuola, viveva ancora e regnava in Chio ; furono così fattamente sdegnate contro d’Ipsipile che la costrinsero ad abbandonare il trono, e andare in bando dall’isola nativa. Rifuggitasi su d’una spiaggia deserta, fu rapita da alcuni corsari e da questi venduta a Licurgo, re di Tessaglia, il quale prese a proteggere la sventurata giovanetta e la fece nudrice d’un suo figliuoletto. Un giorno avendo lasciato a piè d’un albero il bambino addormentato, onde mostrare ad alcuni forestieri il cammino che essi aveano smarrito, al suo ritorno trovò il bambino strangolato da una serpe. Licurgo furibondo contro di lei volle farla morire, senonchè Adrasto e quei forestieri argivi, ai quali avea mostrato la via, presero la difesa di lei e giunsero a salvarle la vita.
2322. Ipsisto. — Al dire del cronista Sanconiatone, fu marito di Berut, la quale lo rese padre di un figlio chiamato Urano, e di una figliuola detta Ge ; nomi questi che significano il Cielo e la Terra e che al dire del citato scrittore, i greci dettero alle loro due più antiche divinità. La parola Ipsisto deriva dalie parole greche ῦποιϛος allissimo, e ῦποος allezza e perciò forse i fenici ritenevano il dio Ipsisto come il padre degli dei ; nè più nè meno che i romani ed i greci ritenevano il loro Giove.
2323. Ipsuranio. — Secondo Sanconiatone, così ebbe nome il figlio dei primi giganti, il quale abitò in Tiro, e fu il primo a costruire delle capanne di canne. Gli viene ancora attribuita l’invenzione di alcuni giuochi, e l’uso dei papiri. Aggiunge la cronaca che dopo la sua morte, i suoi figliuoli dedicarono alla memoria di lui alcuni massi informi di legno e li adorarono, istituendo anche alcune feste annuali, in onore del loro morto genitore.
2324. Iria. — Così avea nome la madre di Cigno. Narra la cronaca che ella amasse così teneramente il figliuolo, che all’ annunzio della morte di lui, si precipitò in uno stagno e ne divenne la divinità tutelare.
2325. Iride. — È questo il nome che Esiodo nelle sue cronache dell’antichità, dà ad una delle tre Arpie. Le altre due, secondo l’ opinione del cennato scrittore avevano, nome Ocipeta ed Ello.
Iride era similmente chiamata quella divinità dei pagani, che essi ritenevano come la messaggera degli dei, e segnatamente di Giunone, come Mercurio lo era di Giove. La favola la fa figliuola di Elettra e di Taumante.
Iride veniva raffigurata come una giovanetta bellissima, con agli omeri due lunghe ali trasparenti di varii colori. Al dire di Virgilio, il suo {p. 263}incarico più importante era quello di tagliare alle donne moribonde il fatale capello.
…… De l’affannosa morteFatta Giuno pietosa, Iri dal cieloMandò, che ’l groppo disciogliesse tosto,Che la tenea, malgrado anco di morte,Col suo mortal si strettamente avvinta ;Ch’ anzi tempo morendo, e non dal fato,Ma dal furore ancisa, non le aveaProserpina divelto anco il fataleSuo dorato capello, nè dannataEra ancor la sua testa a l’ Orco inferno.Virgilio — Eneide — Lib. IV trad. di A. Caro.
Oltre a ciò la credenza religiosa dei pagani attribuiva ad Iride la cura dell’appartamento di Giunone, quella di abbigliarla e di purificarla coi profumi tutte le volte che la dea ritornava dall’ inferno nell’ Olimpo.
La Iride pagana dev’ essere considerata come una divinità puramente fisica, la cui idea configurata può ritrovarsi nell’ arco baleno, i cui differenti colori sono ricordati da quelli che Iride aveva nelle ali. La dicevano figliuola di Taomante, il cui nome significa in greco ammirare per dimostrare che non c’ è cosa più mirabile dell’arcobaleno, formato dalla ripercussione dei raggi del sole, sulle gocce d’acqua contenute dalle nuvole situate in linea opposta al pianeta maggiore ; e le si attribuiva, secondo Esiodo, Ello per sorella, perchè in lingua greca questa parola vuol dire tempesta ; ed infatti l’apparizione di quella meteora non si rende visibile alla terra, se non dopo una tempesta ; e siccome l’ arco-baleno ci annunzia le mutazioni dell’ atmosfera, così il simbolo mitologico fa che Giunone, dea dell’aria, abbia Iride come messaggera della sua volontà.
2326. Irieo. — Nome del padre di Orione. Narra la cronaca mitologica a cui si attiene il cronista Igino, che al tempo in cui Nettuno, Giove e Mercurio viaggiavano sulla terra, fossero accolti benignamente da Irieo, al quale i tre numi promisero di concedere qualunque cosa avesse domandata, per ricompensarlo della lieta accoglienza. Irieo allora anelando da lungo tempo a diventar padre, chiese agli dei che gli avessero conceduto un figliuolo, ed infatti dopo poco tempo, sua moglie dette alla luce un bambino, che fu poi il famoso Orione.
Irieo è anche il nome di un ricco greco, ricordato nelle cronache dell’ antichità per aver fatto costruire dai celebri architetti Trofonio ed Agamede, un grande edifizio onde rinchiudervi i suoi tesori.
2327. Iringa. — Una delle figliuole del dio Pane e della ninfa Eco. Non bisogna confonderla con la ninfa Siringa, di cui parleremo a suo tempo.
2328. Irminsul. — La più antica e la più famosa divinità del culto religioso dei popoli sassoni. È opinione di varii accredita ti scrittori che quei popoli l’ avessero in conto del loro Marte ; ma vi sono anche altro opinioni che dicono Irminsul essere lo stesso che il Mercurio Ermete dei greci.
I sacerdoti e le sacerdotesse che si consacravano al culto religioso d’ Irminsul, venivano scelti fra le più illustri e considerate famiglie della nazione.
Il più famoso tempio che le cronache ci additano come eretto in onore d’Irminsul, sorgeva nella Vestfalia, e fu fatto atterrare da Carlo Magno.
2329. Iro. — Nativo dell’ isola d’Itaca, che si rese celebre per le sue mariolerie, per essere uno degli amanti di Penelope e per la sua grande povertà, da cui i suoi concittadini trassero argomento al proverbio : Più povero d’Iro. Il suo vero nome era Arneo, ma siccome egli traeva la vita col portare i messaggi di cui veniva incaricato, così fu detto Iro dai due vocaboli greci ιρῆν per ῆρην che significano portar la parola.
Egli avea nome Arneo : cosi chiamollo,Nel di che nacque, la diletta madre :Ma dai giovani tutti iro nomatoEra, come colui, che le imbasciatePortar solea, qual gliene desse il carco.Omero — Odissea — Libro XVIII trad. di I. Pindemonte
Riferisce Omero che nell’isola d’Itaca viveva alla porta di un palazzo un mendico, il quale era reso famoso per la sua fame, che non era mai satolla. Egli era di una grande statura, ma privo di coraggio e di forza.
Aggiunge la cronaca a cui si attiene il citato scrittore, che Arneo detto Iro, avesse provocato ad un singolare combattimento Ulisse medesimo che pure stette qualche tempo sotto le spoglie di mendico. V. Ulisse. Ulisse accettò la sfida, la quale doveva essere combattuta alla presenza di Telemaco e di altri principi ; e al primo assalto, se pure il famoso guerriero greco sembrasse all’ aspetto di tarda età, assestò un {p. 264}tale colpo ad Iro, che gli fracassò una mascella, e lo stese al suolo coperto di sangue.
2330. Irpie. — Famiglie romane, le quali, al dire di Plinio, avevano la strana prerogativa di caminare su di un rogo acceso senza bruciarsi, durante il sacrifizio annuale che si faceva in onore d’ Apollo sul monte Soracte. Aggiunge la cronaca che in considerazione, di questa maraviglia, il senato romano avesse promulgata una legge, la quale esentava i discendenti di esse da qualunque balzello.
2331. Ischenio. — Nipote di Nettuno, in onore del quale si celebravano in Grecia, delle pubbliche feste dette dal suo nome Ischenie.
2332. Isee. — V. Isie.
2333. Isiaca. — Sotto il nome di favola Isiaca, additavano i pagani uno dei più considerevoli monumenti dell’antichità, il quale conteneva l’immagine d’Iside, gli atti della religione degli Egizii e i misteri d’ Iside. Codesto monumento, che secondo riferiscono le cronache, avea cinque piedi d’altezza e tre di larghezza, fu la prima volta ritrovato in Roma, nel famoso sacco di quella città avvenuto nel 1525 ; e fu varie volte copiato all’ incisione nella sua naturale grandezza. È opinione di molti accreditati scrittori, che il monumento originale fosse andato nuovemente smarrito nel 1730 ; cosicchè della famosa favola Isiaca, non restano ora che delle copie.
Dallo studio per altro delle figure che ci sono restate della favola Isiaca, non si può chiaramente decifrare se essa conteneva semplicemente la storia d’Iside e degli altri dei dell’Egitto, ovvero alcuni staccati principii e precetti di religione.
Molti autori moderni, come il padre Kirker, il Pignorio, ed altri, han tentato di spiegare le numerose configurazioni contenute nella misteriosa favola Isiaca ; ma le loro spiegazioni, le loro congetture, i loro ragionamenti, non riescono che ad avviluppare di più dense tenebre il già impenetrabile significato di quel monumento.
2334. Isiache. — Così chiamavano i pagani le sacerdotesse della dea Iside. Al dire di Diodoro e di Plutarco, esse scorrevano per le strade della città, coperte di lunghe vesti di lino, con una campanella in una mano ed una bisaccia a tracollo ; e portavano sovente sulla spalla sinistra la testa della dea Iside. Al sorgere del sole, esse cantavano le lodi della loro dea, e passavano tutto il giorno chiedendo la limosina e vendendo dei filtri, di cui si servivano nelle loro cerimonie ; e non rientravano nel tempio che la sera, ove restavano qualche tempo in piedi adorando la statua della dea. Portavano abitualmente i piedi coperti di una scorza d’albero finissima, cosa che ha fatto dire che esse andavano a piedi nudi. Dai precetti del loro culto, era proibito alle Isiache di mangiar carne salata e di bere vino assoluto onde conservarsi più caste : portavano finalmente il capo completamente raso.
2335. Iside. — La maggiore divinità del culto religioso degli Egiziani. Discordi e contradittorie sono le opinioni della gran maggioranza degli scrittori, intorno alla origine della dea Iside ; ma tutti convengono con l’essere ella più antica della Io dei greci.
Secondo Plutarco, Iside fu figliuola di Rea e di Saturno, e sorella e moglie di Osiride. Attenendosi il citato scrittore ad una strana tradizione egizia, aggiunge che Iside ed Oriside concepiti gemelli, si erano congiunti coi legami maritali nell’ alvo stesso della madre loro, per modo che Iside nell’ istesso momento in che nacque, era già gravida di un figlio.
Iside ed Osiride regnarono per più tempo in Egitto, vivendo fra loro nel più perfetto accordo fraterno, e dedicandosi a civilizzare i loro sudditi, a cui insegnarono l’ agricoltura e le arti, che ingentiliscono la vita. Coll’andare del tempo, essendo Osiride morto in seguito delle persecuzioni, che ebbe a soffrire da suo fratello Tifone, Iside ne pianse lungamente la morte e onorò la memoria del suo consorte e fratello, con splendidi e magnifici funerali ; placò l’ombra dell’ucciso perseguitando il tiranno Tifone, e poscia si consacrò tutta al benessere dei suoi sudditi governando l’Egitto finchè il più grande dei suoi figli, chiamato Oro, non ebbe raggiunta l’eta maggiore.
Gli Egiziani, quando Iside morì l’adorarono insieme col consorte ; istituirono in loro onore delle splendidissime feste ; e dedicarono loro il bue e la vacca, come simboli dell’ agricoltura, della cui salutare conoscenza andavan loro debitori.
In seguito si disse che Osiride, ed Iside erano andati a dimorare nel sole e nella luna, cosichè spesso il loro culto andò confuso con quello di questi due pianeti.
Un’ antichissima tradizione egiziana, prendendo argomento dallo straripamento delle acque del Nilo, che avveniva in una data epoca dell’anno, diceva che il Nilo, ingrossato dalle lagrime che Iside versò alla morte del benamato consorte, straripava e rendeva fertilissima la terra egiziana.
Moltiplici sono i nomi, coi quali veniva sovente indicata la dea Iside, ma
l’appellazione più comunemente datale era quella di Dea Universale, secondo
asserisce il cronista Apuleio, il quale si appoggia su di un’ antica
iscrizione, {p. 265}trovata da tempo immemorabile, e che
diceva « dea Iside che è una e tutte le
cose »
.
Io sono la sola Divinità che sia nell’uníverso ; che tutta la terra onora sotto diverse forme, con nomi e cerimonie diverse.……………….I popoli Etiopi che il sole illumina dei primi suoi raggi, e gli Egiziani, che sono i primi sapienti del mondo, mi chiamano col mio vero nome Iside regina, e mi onorano con solenni cerimonie.Apuleio — L’asino d’oro o le Metamorfosi Lib. XI.
Iside veniva adorata in tutto l’ Egitto, ma particolarmente, secondo asserisce il cronista Eliano, nella città di Alessandria, a Copto ed a Bubaste.
Pausania ripete, che la dea Iside era invisibile agli uomini e che l’assistere solo ai misteri di lei recava la morte ; e ripete che essendo un uomo nella città di Copto, entrato nel tempio di quella dea, durante la celebrazione dei suoi misteri, fu all’uscire, colpito da morte istantanea.
Presso i romani, sebbene fosse stato per lungo tempo proscritto il culto della dea Iside, pure coll’ andare degl’ anni finì con l’essere riconosciuto da tutti, e tanto che molti luoghi pubblici furono perfino controsegnati col nome di Iside.
L’attributo più usuale che veniva assegnato ad Iside, era il sistro, strumento vuoto nel mezzo con un lungo manico, che ha la parte superiore più larga dell’ inferiore, e che finisce in forma di mezzo cerchio, dal cui vuoto escono talvolta tre, e talvolta quattro bacchette di ferro a guisa di corde. Plutarco asserisce che assai comunemente sulla parte superiore del sistro d’Iside, veniva scolpita la figura d’un gatto colla faccia umana, ovvero una sfinge ; e altra volta un globo, o un flore di loto.
Aggiungeremo finalmente che il culto d’ Iside passò dall’ Egitto nelle Gallie ; e vi sono varii scrittori, i quali pretendono che la stessa città di Parigi, avesse preso il suo nome dall’ avere un tempio d’ Iside a qualche distanza dal luogo, ove fu fabbricata. Da ciò le due parole greche παρα λοιδος che significano : vivino al tempio d’ Iside.
2336. Isle. — Famose feste e cerimonie sacre in onore della dea Iside, durante la celebrazione delle quali, si esigeva il più stretto silenzio da coloro, che prendevano parte ai misteri di quelle cerimonie. Sebbene molti storici abbiano avuto l’impudenza, di vantare l’austerità e il buon costume delle cerimonie Isie, pure le tradizioni dell’antichità, ci ripetono che durante il periodo delle feste Isie, che era di nove giorni, i sacerdoti, le Isiache, e tutti gl’ iniziati, commettevano le più orrende e turpi dissolutezze, e tanto che il senato romano verso l’anno di Roma 696, proibì rigorosamente la celebrazione delle feste Isie, le quali non furono che 200 anni dopo rimesse in pieno vigore dall’ Imperatore Commodo, che non ebbe ritegno di mischiarsi personalmente agl’ inverecondi ministri di quelle orgie e di prender parte col capo raso a quelle infami lascivie.
2337. Ismene. — Figlia di Edipo e di Giocasta e sorella di Eteocle, di Polinice e di Antigone.
……. Ismene,La figlia tua, la mia sorella…..Sofocle — Edipo a Colono — Tragedia. trad. di F. Bellotti.
2338. Ismenidi. — Ninfe abitatrici del fiume Ismeno. V. Ismeno.
2339. Ismenia. — Soprannome di Minerva, che a lei veniva dall’avere un tempio sulla sponda del fiume Ismeno.
2340. Ismenio. — Figlio della ninfa Melia e di Apollo, il quale gli concesse il dono d’indovinare. Ismenio, fu dalla madre partorito sulle sponde del fiume Ladone nella Beozia ; e da ciò quel fiume fu detto Ismeno. V. Melia. Per altro Plutarco, il geografo, dà un altra origine al cangiamento di nome di quel fiume. V. l’ articolo seguente.
2341. Ismeno. — Fiume della Beozia che scorreva nelle circostanze di Tebe. Da principio questo fiume si chiamava il piede di Cadmo, a cagione di un’ antica tradizione, la quale racconta che avendo Cadmo ucciso a colpi di freccia, il dragone custode di quella fonte, e sospettando che quelle acque fossero avvelenate, fece il giro di tutta Ia parte opposta del paese onde rintracciare una sorgente d’acqua pura a cui avesse potuto dissetarsi senza pericolo. Giunto ad un luogo ove vi era un antro, chiamato Corcireo. egli cacciò nel fango il suo piede destro, e vide scaturire una sorgente di acqua limpida, che formo poi quel fiume chiamato, da questo fatto, il piede di Cadmo. Qualche tempo dopo, Ismeno figliuolo della sventurata Niobe, per liberarsi dagli atroci dolori, che gli cagionavano le ferite fattegli da Apollo con le sue frecce, si precipitò in quel fiume, che dopo questo luttuoso {p. 266}avvenimento cangiò il suo nome di piede di Cadmo, con quello di fiume Ismeno.
Ismeno era anche il nome del maggiore dei figli di Anfione e di Niobe— V. Niobe.
2342. Isole. — Al dire di Plutarco la maggior parte delle isole dell’ arcipelago inglese, erano deserte di uomini e solo abitate da demonî e da genî, e consacrate agli eroi.
Il citato autore racconta, che essendo stato il viaggiatore Demetrio, incaricato dall’ imperatore di riconoscere quelle isole, egli fosse approdato alla prima isola che incontrò nel suo cammino, ove poco dopo si scatenò un furioso uragano, accompagnato da fulmini di così spaventevole rimbombo, che tutti ritennero come cosa certa, che uno dei principali demonî abitatori di quell’isola, fosse morto.
Lo stesso Demetrio nelle sue cronache di relazione del viaggio, aggiunge che una di quelle isole era la prigione di Saturno, il quale sepolto in un sonno perpetuo era custodito dal gigante Briareo, e da gran numero di demoni.
2343. Issa. — Così avea nome una delle figliuole di Maccareo. Apollo la sedusse sotto l’aspetto di un pastore.
2344. Issedoni. — Al dire di Erodoto, così aveano nome taluni popoli vicini degli Iperborei, i quali non aveano che un occhio solo. Il citato scrittore aggiunge, che allorquando alcuno degli Issedoni perdeva il proprio genitore, tutti i suoi parenti gli portavano in dono gran numero di animali come pecore, buoi, agnelli e volatili, e che in questa occasione essi compivano una barbara e truce usanza ; la quale consisteva nel tagliare a pezzi la carne del morte e frammischiarla a quella degli animali portati in dono, ed egualmente tagliati in minuti pezzi ; poscia in un orrendo banchetto essi si cibavano dell’orribile vivanda riserbando solo intatta la testa del morto, che poi legata in oro formava un idolo, a cui venivano annualmente offerti solenni sacrifizii.
2345. Issione. — Figlio di Giove e della ninfa Meleta, e re dei Lapidi nella Tessaglia. Almeno è questa la opinione più generalizzata ; sebbene è assai discorde quella degli autori antichi sulla paternità d’ Issione.
Infatti Igino asserisce esser egli figliuolo di Leonzio ; e Diodoro pretende che suo padre si chiamasse Anzione. Checchè ne sia, le cronache dell’ antichità ripetono tutte nel seguente modo la storia d’ Issione. Egli avea preso dimora nelle circostanze del monte Pelion, ove sposò Dia, figliuola di Deioneo, la quale lo rese padre di Piritoo. Presso gli antichi aveva vigore di legge una tradizionale costumanza, la quale voleva che allorquando si toglieva in moglie una donzella, lo sposo di lei invece di ricevere una dote, come è uso dei moderni, dovea fare ricchi donativi al padre ed alla madre della sposa, prima e dopo il loro consentimento. Issione trascurò di adempiere a questo dovere, nè si curò di fare i ricchi donativi di obbligo, tanto a Deioneo, quanto alla moglie di lui. Sollecitato più volte dal padre della sua futura sposa, di adempiere al suo dovere, Issione lo traccheggiò sempre con belle parole e con larghe promesse ; finchè stanco Deioneo d’esser preso in trastullo, fece un giorno rapire i giumenti di Issione che pascevano nelle campagne della Tessaglia. Issione punto al vivo da questa abusiva maniera di procedere, sebbene in qualche modo giustificata, finse di riconoscere i proprii torti, e fece le viste di volersi riaccomodare col suo futuro suocero, e lo invitò ad un banchetto.
Deioneo di nulla sospettando, tenne l’invito, e si recò per questo nella città di Larissa ove Issione si trovava in quel tempo. Colà giunto vi fu ricevuto con splendida magnificenza, ma nel recarsi al luogo ov’ era imbandita la mensa, avendo Issione fatto scavare una larga fossa piena di legna e di carboni accesi, sul luogo del passaggio, Deioneo cadde in quella e vi perdè miseramente la vita. Immenso fu l’orrore che l’atroce misfatto, che tutti addebitavano con certa ragione ad Issione, suscitò contro di lui, e tanto che invano egli sollecitò tutti i principi della Grecia a concedergli l’ospitalità ; tutti respinsero spaventati l’atroce assassino, per modo ch’ egli fu costretto ad errase per molto tempo, fuggendo la luce del giorno, nè potendo trovare ricovero alcuno. Finalmente fu ricevuto nella propria dimora da un principe, che aveva il soprannome di Giove, il quale meno suscettibile degli altri, accolse alla sua mensa Issione e consentì perfino a fargli le cerimonie dell’ espiazione.
Ma ben presto il perverso Issione retribuì della più nera ingratitudine le larghezze dell’ospite suo, del quale sedusse la moglie, intrattenendo per più tempo con essa, un’ infame tresca. Avvertito il principe del tradimento d’Issione, volle accertarsi coi propri occhi del fatto incredibile ; onde fece travestire coi ricchi abiti della principessa, una schiava per nome Nefele, la quale entrata di notte nella camera d’ Issione, fu da questi ricevuta con tutte le testimonianze della passione e divise il letto di lui. Sdegnato allora il principe contro Issione, lo scacciò ignominiosamente dai suoi stati.
La tradizione mitologica prendendo argomento dal soprannome del principe, racconta invece che il padre degli dei, mosso a pietà {p. 267}d’Issione, abbandonato da tutti, lo avesse accolto nell’ Olimpo, concedendogli perfino l’ immortale onore di farlo sedere alla mensa degli dei. Ma un così straordinario benefizio fu pagato da una ingratitudine tanto più abbietta, per quanto audace, imperocchè Issione acciecato dalla divina e risplendente bellezza di Giunone, moglie di Giove, ebbe l’incredibile tracotanza di dichiararle il suo amore. Sdegnata la severa Giunone contro tanta audacia, accusò Issione al consorte ; ma Giove considerandolo come un insensato, a cui il nettare degli dei avea stravolta la ragione, nen se ne dette per offeso e solamente consigliò alla moglie di aderire agl’ insani desiderii d’Issione, senza macchiare l’ immortale suo talamo. Sebbene a malincuore, Giunone accondiscese al volere di Giove e questi allora formò di una nuvola una donna a cui dette le sembianze della propria moglie e la fece presentare ad Issione, il quale disfogò sulla supposta dea l’ardenza della passione che lo inebbriava ; e poscia non ebbe ritegno di vantarsi d’aver posseduta la regina delle dee.
Simil ben parve alla celeste figliaDi saturno possenteNel bel volto la nube e nelle ciglia.Per lui le man di Glove.Bella cagion di danno,La fabbricar con meditato inganno :Ma intanto quel dolenteCon forsennate proveA sè stesso compose. orrida pena,Di quattro raggi la fatal catena.Ivi costretto le prostese membra,Disperato sospira,Pindaro — Odi Pitie — Ode II trad. di G. Borghi.
Al girato Issïon le luci volseDi nuovo la Regina degli Dei :Che si ricorda quel che far le volse,Nel tempo che credendo abbracciar lei,Una nube in suo cambio in braccio accolse,Ovidio — Metamorf : Libro IV. trad. di Dell’ Anguillara
Sdegnato allora Giove contro tanta perfidia, palesò il vero e con un colpo di fulmine, precipitò Issione nel fondo del Tartaro, dove Mercurio per suo ordine, legò lo sciagurato millantatore ad una ruota circondata d’innumeri serpenti e che doveva girare eternamente ; al dire di Ovidio una sola volta Issione fu slegato dalla sua ruota, e fu quando Proserpina fu da Plutone fatta regina del regno delle ombre.
2346. Isione. — Principe della stirpe degli Eraclidi e figliuolo di Alete, re di Corinto. Alla morte del padre suo, gli successe nel governo di quella città.
2347. Isterie. — Feste in onore di Venere : il sacrifizio più usuale che si faceva alla dea nella celebrazione di quelle feste, era di svenare sulle sue are, gran numero di piccoli maiali.
2348. Istmiei. — Detti anche Ismici : così venivano chiamati alcuni giuochi e combattimenti assai in onoranza presso i greci.
Le cronache dell’antichità, asseriscono che il nome di questi giuochi prese occasione dall’istmo di Corinto, dove furono istituiti ; ed aggiungono che i giuochi istmici ebbero la loro istituzione da Sisifo, e furono la prima volta celebrati in onore di Melicerta, il cui corpo fu dalle onde gettato sulle spiagge dell’ istmo.
Plutarco invece asserisce nelle sue opere, che i giuochi istmici fossero istituiti da Teseo, in onore di Nettuno, il quale come dio del mare aveva sotto la sua particolare protezione l’istmo di Corinto. Aggiunge il prelodato scrittore, che Teseo volle in ciò seguire l’esempio di Ercole, che alla sua volta era stato istitutore dei giuochi Olimpici.
Gli abitanti di Corinto ritenevano come sacra la celebrazione dei giuochi istmici, i quali venivano eseguiti con la maggiore magnificenza ogni tre anni, e questa usanza era per i Corinti così importante, che anche allorquando la loro città fu distrutta da Mummio, essi legarono ai Sicioni, loro vicini, l’incarico di continuare la celebrazione di quei giuochi.
Immenso era il concorso di popolo che affluiva in Corinto, da tutte le altre città della Grecia, onde assistere ai giuochi istmici e solo gli Eleati erano fra tutti i greci quelli che si astenevano dal recarsi in Corinto, in quella occasione ritenendo per fermo quanto un’ antica tradizione favolosa della loro città, asseriva a questo proposito. Gli Eleati ritenevano per fermo, che avrebbero evitate gravi sventure col non recarsi in Corinto, durante la celebrazione dei giuochi istmici, imperocchè si sarebbero sottratti alle imprecazioni ed agli anatemi che Moliona, moglie di Attore, aveva lanciati contro qualunque degli Eleati che avesse assistito a quei giuochi.
I giuochi istmici marcavano per i greci una data epoca ; nè più, nè meno che la celebrazione annuale dei giuochi olimpici, conosciuta sotto la denominazione particolare di Olimpiade.
Gli eserczii equestri e ginnastici come la lotta, la corsa a cavallo nelle bighe e a piedi, il pugillato ecc. erano gli abituali esperimenti che si eseguivano nei giuochi istmici, {p. 268}coll’ andare del tempo poi, a renderli maggiormente solenni, si aggiunsero alcuni esercizii musicali e poetici, e da ultimo vi fu anche introdotta la rappresentazione di una gran caccia, per la quale i Corinti facevan venire da lontane contrade, i più rari animali.
I vincitori dei giuochi Istmici venivano coronati di ghirlande di pino ; poscia, prendendo esempio dai giuochi Nemei, i vincitori furono coronati di apio ;
….. nè sconosciuta io cantoL’ Ismia vittoria, doveDei corridori il vantoA Senocrate diè l’equoreo Giove ;E dal dorio confineApio mandôgli a incoronargli il crine :Pindaro — Odi Ismiche — Ode III. trad. di G. Borghi.
con la differenza, però che i vincitori dei giuochi Nemei erano inghirlandati di apio verde ; e quelli dei giuochi Istmici, di apio secco. Poi fu decretata una somma di danaro da Solone fissata a cento dramme che doveva unirsi alla ghirlanda ; e finalmente i romani spinsero la loro liberalità verso i vincitori, fino a fer loro dei preziosissimi donativi.
Il poeta Pindaro, che è uno dei più leggiadri scrittori dell’antica letteratura greca, ha scritto gran numero di odi in onore dei vincitori dei giuochi istmici, e per questa ragiòne il quarto libro delle opere di lui, porta il titolo di odi ismiche e talvolta semplicemente di istmia.
2349. Istmo di Corinto. — Secondo riferisce Pausania ; i corinti avevano un’ antica loro tradizione, la quale ripeteva che Nettuno ed il Sole avevano avuto fra loro una contesa, pretendendo ognuno di essi di avere la supremazia sul paese dei Corinti. Chiamato a giudice della querela Briareo, questi per conciliare le differenze, decise che il paese intero avrebbe la protezione di Nettuno, e il promontorio che sovrasta a quelio avrebbe riconosciuta la supremazia del Sole. Da quel tempo gli abitanti riconobbero Nettuno, come dio protettore dell’ ismo di Corinto.
2350. Itaca. — Piccola isola del mare Jonio nelle circostanze di Cefalonia.
Nei fasti del paganesimo, l’isola d’Itaca è famosa come la patria di Ulisse, il più astuto dei greci. Omero l’ha resa per questa ragione, celebre nella sua immortale Odissea.
Itaca al polo si rivolge, e menoDal continente fugge : aspra di scogli,Ma di gagliarda gioventù nutrice.Omero — Odissea — Libro VIII. Trad. di I. Pindemonte.
Oggi la patria del famoso inventore del cavallo troiano, altro non è che un piccolo scoglio, perduto nelle onde, e abitato da poveri pescatori.
2351. Iti. — Figliuolo di Tereo e di Progne, fu ucciso dalla propria madre e presentato in orrido banchetto al suo genitore per atroce vendetta — V. Filomena e Progne.
2352. Itifallo. — Al dire di Plinio, così chiamavano i greci una specie di amuleto in forma di cuore, a cui attribuivano molta segreta virtu e che generalmente si appendeva al collo dei fanciulli e delle vestali, le quali conservavano l’ Itifallo fra gli oggetti sacri e lo avevano in grande venerazione.
Itifallo era anche il soprannome particolare che gli egiziani e dopo di essi i greci, dettero a Priapo, il dio delle orgie e delle dissolutezze.
2353. Itifallori. — Nome particolare dei ministri delle orgie, che si celebravano in onore di Priapo e di Bacco. Osceni e tenebrosi misteri, ove sotto il manto della religione si commettevano le più turpi dissolutezze, e gli accoppiamenti bestiali e contro natura. Gli Itifallori sopraintendevano e prendevano parte attiva a codeste turpitudini, cantando in onore di Bacco, sconce ed oscene canzoni.
2354. Itilo. — Figlio di Zeto e di Aedo. Morì ucciso involontariamente dalla madre.
2355. Itomalo. — Soprannome di Giove, col quale veniva particolarmente adorato in Messenia, per un magnifico tempio che egli aveva sul monte Itome vicino a quella città. Un’antica tradizione non molto generalizzata, vuole che si sacrificassero a Giove Itomato, vittime umane ; e che certo Aristomene, nativo di quella città avesse fatto una volta svenare in un sacrifizio trecento schiavi, sulle are di Giove Itomato.
Nella città di Messenia si celebrava annualmente una festa chiamata Itomea nella quale si compiva una strana cerimonia. Tutti coloro che vi prendevano parte passavano l’intera giornata portando con gran divozione l’acqua attinta nelle parti inferiori della città, fino alla estremità del monte Itome, ove sorgeva il tempio dedicato a Giove, e versavano in un vasto serbatoio espressamente scavato in una parte del tempio, tutta quell’ acqua che poi serviva ad uso dei sacerdoti.
2356. Itonia. — Minerva veniva così soprannominata dall’ avere nella città di Coronea, in Beozia, un tempio comune con Plutone dio delle ricchezze. Con questa unione allegorica delle due divinità, i pagani volevano alludere alla prudenza ed alla industria, che è la fonte della ricchezza.
2357. Iuga. — Uno dei soprannomi più generalmente dati a Giunone come protettrice dei matrimonii — V. Giunone.
{p. 269}J §
2358. Ja. — Fratello delle Jadi : egli morì sbranato da una leonessa. — V. Jadi. — Vi sono varii autori che lo chiamano anche Jade.
2359. Jacco. — Uno dei soprannomi di Bacco.
2360. Jadi. — Così avevano nome complessivamente, le sette sorelle figliuole di Etra e di Atalante, chiamate individualmente Ambrosia, Coronide, Eudora, Fileto, Prodica, Polifo e Tiona. Racconta la cronaca che allorquando il loro fratello Ja, morì sbranato da una lionessa, esse piansero così disperatamente la morte di quel loro caro, che gli dei mossi a compassione, le cangiarono in stelle, e le posero nella costellazione del toro, ove esse piangono ancora il fratello. Da ciò ne è venuto a queste stelle il nome complessivo di Jadi, dalla parola greca ιαδος che significa pioggia. Altri scrittori dicono, che le Jadi fossero sette nudrici di Bacco, e che Giove, onde sottrarle all’odio persecutore della gelosa Giunone, le avesse trasportate nel cielo e poste fra le costellazioni.
2361. Jafet. — Nella sacra scrittura è questo il nome del terzo figliuolo del patriarca Noè ; ma non pochi fra i più accreditati mitologi, pretendono che il gigante Japeto, conosciuto più comunemente sotto il nome di Giapeto — V. Giapeto — fosse l’identico personaggio dello Jafet biblico.
2362. Jagni. — Così aveva nome il padre di Marsia, il quale viene ricordato nelle cronache dell’antichità, come l’inventore del flauto. Non pochi scrittori dànno a questo personaggio il nome di Jagnede. V. Marsia.
2363. Jale. — Così avea nome una delle ninfe del seguito di Diana, che si trovava in compagnia della dea allorquando Atteone la sorprese nel bagno.
2364. Jante. — Detta anche Giante, fu sposata da Ifide quando questa cangiò il suo sesso e divenne uomo. V. Ifide. Jante era già famosa per la sua bellezza, quando si maritò con Ifide, sebbene non contasse che 13 anni.
Giungea fra tanto il tredicesim’annoAllor che il genitor la bionda JanteA te, Ifi, in isposa destinava.Ovidio — Metamorf. — Libro IX Fav. X. trad. del Cav. Ermolao Federico.
2365. Japeto. — Plù comunemente detto Giapeto. Fu uno dei giganti che Giove fulminò per aver dato coi suoi compagni la scalata al cielo. V. Giapeto.
Ivi Giapeto si rivolve e CeoE l’altra turba che i celesti assalse.MontiLa Musogonia — Canto.
2366. Jarba. — Lo stesso al quale si dà, da quasi tutti gli scrittori, il nome di Giarba, che fu uno degli amanti della regina Didone. — V. Giarba.
2367. Jasio. — Fratello di Dardano, e figlio di Giove e di Elettra. Egli fu ucciso inavvedutamente dal fratello.
Italia è detta.Questa è la terra destinata a noi,Quinci Dardano in prima, e Jasio uscio.Virgilio — Eneide — Libro III trad. di A.Caro.
2368. Jodama. — Madre del famoso Deucalione, che ebbe dai suoi amori con Giove.
2369. Jola. — Detto più comunemente Jolante {p. 270}e talvolta anche Jolao, fu figliuolo di Ificlo e nipote di Ercole, e compagno di tutte le sue fatiche. Egli si rese celebre per la sua grande perizia nel condurre il carro a quattro cavalli.
O Jolao maestroNegli equestri perigli.Pindaro — Odi Ismiche. Ode VII. trad. di G. Borghi.
A lui saprò di Castore,O adattar di Jolao gl’ inni canori :In Tebe e in Sparta ei nacqueroTra i sommi eroi di cocchi agitatori.Spesso in palestra nobileGustando il frutto del conteso alloro.Le patrie soglie ornaronoDi tripodi lebeti. e vasi d’oro.Nè men gagliardi a splendereMovean sudando nello stadio ignudi,E nelle corse armigere,Infra il rimbombo de’percossi scudi.Pindaro — Odi Ismiche — Ode I. trad. di G. Borghi.
Allorquando suo zio Ercole sposò Megara, figlia di Creonte re di Tebe, Jolao lo accompagnò, secondo era suo costume. Dopo qualche tempo, convinto l’ eroe che quella unione gli sarebbe tornata funesta, fece sposare Megara a Jolao, il quale per la grande affezione che aveva per lo zio, accondiscese anche in ciò a fare il voler suo.
Morto Ercole, Jolao si pose alla testa degli Eraclidi e mosse con essi alla volta di Atene, onde fare che Teseo, re di quella contrada, avesse preso i discendenti del morto eroe, sotto la sua protezione. E quando Euristeo mosse, a capo d’un esercito, contro gli Eraclidi, Jolao, sebbene assai vecchio d’ età, prese il comando degli Eraclidi, e si accinse a combattere l’inesorabile persecutore della stirpe d’ Ercole. Però non potendo reggere al peso delle armi, troppo grave alle sue membra affralite dagl’anni, Jolao fu costretto a farsi sorreggere da alcuni guerrieri.
Ma appena squillò la tromba annunziatrice dell’ attacco imminente, gli dei ritornarono il vigore giovanile alle membra dell’ invitto guerriero, che nella pugna si coprì di valore, e uccise di sua mano il superbo Euristeo.
Occasion pur valeD’ ogni opra il sommo, e Jolao la tenneGià redivivo nel mio suol natale,Quando Euristeo superboGiunse di colpo acerbo,E stanza sepolcraleD’ Amfitrion nell’ ima fossa ottenne ;Pindaro — Odi Pitie — Ode I.
trad. di G. Borghi.
I greci dopo la morte di Jolao, gl’ innalzarono varii eroici monumenti, ed in suo onore eressero un altare nella città di Atene, e celebrarono delle feste dette perciò Jolee. V. Jolee.
Le cronache mitologiche fanno anche menzione di un altro congiunto di Ercole, similmente conosciuto sotto il nome di Jolao, il quale, fu da quell’eroe ucciso in un accesso di furore, a cui egli soggiacque, al suo ritorno dall’ inferno.
2370. Jolco. — Patria di Giasone. Questa città marittima della Tessaglia, giaceva sulla spiaggla dell’arcipelago, ai piedi del monte Pelio. Fu in questa città che Giasone, dopo il suo ritorno dalla famosa conquista del vello d’oro, celebrò i giuochi funebri in onore di Pelia, che poi ebbero tanta rinomanza in tutta la Grecia.
2371. Jole. — Discorde è l’opinione degli scrittori dell’antichità, sulla paternità di questa giovanetta : infatti alcuni pretendono che ella fosse figlia di un re della Lidia, per nome Giardano ; ed altri, segnatamente Ovidio e Sofocle, che ella fosse figliuola di Eurito, re di Ecalia.
D’ Eurito figlia,Ed è Jole nomata. …..Sofocle — Le Trachinie — Tragedia trad. di F. Bellotti.
Ercole, perdutamente invaghito di lei, a causa della stupenda bellezza che la rese famosa, volle ottenerla in isposa ; ma avendogli Eurito recisamente negata la mano della figlia, Ercole sdegnato uccise il re, padre di lei, e dopo d’ aver saccheggiata la città, s’impadronì di Jole, e con ogni cura la portò seco.
Questa Jole fu la principale ragione della morte di Ercole, avendo suscitata la gelosia di Deianira. V. Ercole.
……. Ercole al padrePer furtiva consorte la richiese ;Ma indarno : ond’ egli di mentita accusaFatto pretesto al suo voler, con l’armiEcalia assale, ove sedea regnanteEurito, il padre di costei ; l’uccide ;La città ne devasta, e lei, qual vedi,Fa qui condur, non senza cura, o donna,Nè in sembianza di schiava :Sofocle — Le Trachinie — Tragedia. trad. di F. Bellotti.
2372. Jolee. — Feste in onore di Jolao che gli ateniesi celebravano con gran pompa nella loro città.
{p. 271}2373. Jone. — Figliuolo di Apollo e di Creusa. Sua madre è quella stessa figlia di Eretteo, re di Atene, della quale si è servito il famoso poeta Euripide, come soggetto di una sua tragedia, intitolata Jon.
Creusa, sedotta da Apollo, dette alla luce un fanciullo senza che il padre di lei si fosse accorto di nulla ; ma quando ebbe partorito il bambino, non avendo altro mezzo di tener nascosta la colpa d’amore, abbandonò il proprio figliuolo in quella stessa grotta, ove lo aveva partorito ; ma per quel santo istinto della maternità, che parla potentemente al cuore più indurito, rinchiuse il neonato in un paniere avvolgendolo in alcuni finissimi lini che ella aveva. Apollo intanto, mosso a compassione sulla sorte del proprio figlio, incaricò Mercurio di andare in soccorso di lui ; ed infatti Mercurio, recatosi alla grotta ove Creusa aveva lasciato il bambino, lo portò nel tempio di Diana. Quivi la sacerdotessa custoditrice del tempio, inspirata da Apollo, concepì una passione quasi materna per l’abbandonato bambino e lo allevò con solerte e vigile affetto. Così Jone crebbe per varî anni sotto gli occhi della sua affettuosa liberatrice, e all’ombra degli altari, affatto ignaro di chi fossero i suoi genitori, i quali restarono similmente ignoti alla sacerdotessa che lo aveva allevato.
Fatto adulto, Jone si acquistò l’affetto degli abitanti di Delfo e la loro fiducia ; per modo che, ad onta della sua età giovanissima, lo fecero depositario dei ricchissimi tesori del tempio.
Intanto Creusa era stata tolta in moglie da Xuto, e Apollo, spinto sempre dal suo affetto pel figliuolo, si adoperò, con solerte cura, onde fare in modo, che Jone passasse un giorno come figlio di Xuto, onde procurare a quel suo dilettissimo la gloria di essere nell’avvenire il fondatore della Jonia.
Xuto addolorato per non aver figliuoli, dopo qualche tempo di matrimonio, portossi a Delfo, onde saper dall’ oracolo che cosa avesse dovuto fare per averne ; e l’oracolo rispose che la prima persona che avrebbe incontrato all’ uscire dal tempio, sarebbe stato suo figlio. A questa risposta, Xuto con l’anima giubilante, si risovvenne di aver avuto una tresca amorosa, in un viaggio ch’egli fece a Delfo, durante le feste di Bacco, e dalla quale avrebbe potuto infatti avere un figliuolo. Non reggendo al consolante pensiero di conoscere quest’ essere caro, uscì precipitosamente dal tempio, e non appena fatti pochi passi oltre la soglia, s’incontrò nel giovanetto depositario dei tesori di quello, e lo chiamò col dolcissimo nome di figlio. Riflettendo poi che l’età del giovanetto era in esatta corrispondenza con la data del suo viaggio, lo riconobbe per figliuolo, e gl’ impose il nome di Jone, dalla parola greca εξιοντιμες che racchiude in sè il significato d’essersi quel giovane offerto il primo, alla vista di lui, uscendo dal tempio.
Intanto Creusa venuta a conoscenza di quanto aveva operato suo marito Xuto, considerò l’adozione del giovanetto Jone, come un tradimento, mirante solo a porre sull’ avito trono degli Erettidi, il figlio di qualche schiava ; e giurò di farne vendetta. A tale uopo dette l’incarico ad un vecchio servo, suo confidente, di uccidere Jone col veleno. Quando fu portata la tazza avvelenata nel convito che Jone avea fatto imbandire, per sollennizzare il suo riconoscimento, il giovanetto invece di bere il vino di quella coppa, ne fece offerta agli dei, spargendo il liquore al suolo. Il tentato delitto sarebbe così rimasto nelle tenebre, se non che un colombo che era entrato nella tenda, ove Jone banchettava, avendo bagnato il becco nel vino sparso dalla coppa, cadde come fulminato al suolo, ucciso dal terribile veleno. Spaventati gli astanti, arrestarono immediatamente il coppiere, il quale, non esitò a confessare che la regina in persona, gli avea dato l’incarico micidiale.
All’ inattesa rivelazione, Jone, seguito da tutti i convitati, corse nel tempio, e dimandò ad alta voce giustizia. I sacerdo ti non potendo negare la verità del fatto, condannarono Creusa ad essere precipitata da una rupe. A questa notizia, Creusa colpita da spavento, si ricoverò presso l’ altare d’ Apollo, in vocando la protezione del dio. Ma già i seguaci di Jone erano sul punto di avanzarsi contro di lei, per trascinarla al supplizio, quando la sacerdotessa mandata da Apollo, comparve nel tempio, con un piccolo paniere nelle mani, che era quello stesso, in cui l’avea riposto la madre al momento d’abbandonare Jone. A quella vista, Creusa levò un altissimo grido e slanciandosi verso di Jone lo coprì di baci e di carezze, chiamandolo suo figlio. Ma la suprema gioia, che Jone sentiva nell’ aver ritrovata la madre sua fu presto intorbidata dall’aver ella confessato che Jone era figlio di Apollo e non già di Xuto. Non è a dire l’alta costernazione che una simile notizia sparse negli astanti, i quali rimasero indecisi e perplessi su quanto sarebbe succeduto, se non che Minerva, apparendo d’improvviso, consigliò Creusa a fare che Jone fosse erede del trono degli Erettidi, non palesando a Xuto la verità del fatto, e non togliendo al buon re l’illusione d’un errore tanto soave al suo cuore paterno.
La gran maggioranza degli storici greci riconosce Jone come figlio di Xuto e di Creusa, e aggiunge che la posterità di lui, fu così {p. 272}numerosa, che coll’ andare degl’ anni, divenuta la contrada dell’ Attica troppo angusta, Jone andò con tutta la sua famiglia ad abitare nell’ Asia minore, ove fondò le colonie conosciute col nome collettivo di Ionie.
2374. Jonidi. — Nome collettivo di alcune ninfe, le quali, secondo Pausania, abitavano nella città di Eraclea in Elide, ove scaturiva una fonte, sulla cui sponda v’era un tempio consacrato ad alcune ninfe, chiamate individualmente Callifae, Pegea, Sinallaffi e Jafide ; e complessivamente Jonidi.
2375. Jonna. — Madre di Trittolemo e moglie di Eleusio. Ella prese parte ai famosi onori funebri che i greci resero al figliuolo suo. V. Trittolemo.
2376. Jopa. — Re di una contrada dell’ Africa. Secondo Virgilio fu espertissimo nell’arte musicale, e fu uno degli amanti della regina Didone.
……. Comparve intantoCo’capei lunghi, e colla cetra d’oroIl biondo Jopa.Virgilio — Eneide — Libro I. trad. di A. Caro.
2377. Josso. — Dejoneo, figlio d’ Eurito, re di Tessaglia, ebbe da una giovanetta per nome Perigona, un figliuolo chiamato Josso. Divenuto adulto, egli si stabilì nella Caria, e fu capo di una colonia da cui poi discesero gli Jossidi.
A proposito di questi, scrive Pausania, che per una superstiz iosa credenza, piuttosto di famiglia, che di religione, essi conservavano, di padre in figlio, l’uso di non cuocere gli asparagi e di non sbarbicare le canne ; tributando a queste piante, una specie di particolare venerazione. Nè il citato scrittore, nè alcun’altro cronista dell’antichità, ci hanno trasmessa la ragione di questa singolare costumanza.
2378. Jou. — Era questo il primitivo e vero nome di Iove ossia Giove. I celti chiamavano questo dio col nome di Jov che nella loro lingua vuol dire giovane, per dinotare l’eterna giovanezza di un dio.
Presso i latini il Mons Jovis ossia monte di Giove, era una montagna delle Alpi consacrata a quel dio ; come il dies Jovis ossia giovedi, era il giorno della settimana a lui sacro. Finalmente anche nelle Gallie, sotto il nome di Jov, veniva venerato il dio Giove.
{p. 273}K §
2379. Kacimana. — Presso i popoli dell’Atabasso, dell’Inirinda e dell’ alto Orenoco, così si chiamava la personificazione del dio del bene, ritenuto come principio assoluto di tutto ciò che è buono. Presso quei popoli, Kacimana regolava le stagioni e presiedeva alle ricolte.
Come antitesi del principio del bene, rappresentato da Kacimana, vi era Arimane genio meno potente, ma più astuto e maligno, a cui si dava talvolta anche il nome di Jolo-Kiamo.
2380. Kaleda. — Nella mitologia slava veniva così chiamato il dio della pace, che ha molta rassomiglianza col dio Giano, venerato dai pagani greci e romani. Nel solstizio invernale, e propriamente nel giorno ventiquatto dicembre, i popoli slavi celebravano solenni feste accompagnate da giuochi, da banchetti e da sacrifizii in onore del dio Kaleda.
2381. Kama. — Detto anche Kamadeva. Gli Indiani davano questo nome al loro Cupido, dio dell’ amore.
Veniva rappresentato con un arco di canna di zucchero, e con delle frecce di fiori, e a cavallo di un pappagallo.
Sebbene il culto di Kama non si fosse mai molto generalizzato nelle Indie, pure in molte città di quelle contrade, si venerava il fanciullo Kama come dio dell’ amore, e gli si dava perfino una moglie chiamata Rati. Gli si era consacrato l’ albero chiamato in botanica Tulasi, che è una delle numerose varietà del gran fico delle Indie, e che è notevole per la sua ricca e splendida floritura. Le statue e le pagodi del dio Kama erano sempre ornate di ghirlande di quei fiori.
2382. Kamis. — Divinità indigena del Giappone, e propriamente di alcune città di quella contrada. I giapponesi, individualmente parlando, chiamano col nome collettivo di Kamis quegli uomini che, divinizzati dopo la morte, hanno meritata l’ immortalità eroica. Si vede la grande relazione che passa fra i Kamis del Giappone e gli Eroi o Semidei della mitologia greca e romana.
È ancora a notare che i dogmi della religione giappone e ammettono un ente supremo, come capo di tutti i Kamis. I templi di queste divinità, alle quali, con vocabolo proprio, si dà il nome di Nia, sono quasi sempre privi di ornamenti e di statue.
Il solo arredo che vi si osserva è uno specchio assai grande, che, come emblema di purezza, sta in quei templi, quasi a voler significare che all’ occhio della divinità sono palesi tutte le macchie dell’ anima, come lo specchio riflette e palesa tutti i pregi e i difetti del corpo.
2383. Kang-l o Cang-v. — Nella mitologia cinese si dà questo nome al dio dei cieli inferiori, il quale ha diritto assoluto di vita e di morte su tutta la specie umana.
Credono i cinesi che altri tre dei subalterni, chiamati Tei-Kuan, Zui-Kuan, e Tan-Kuan dipendano dagl’ ordini supremi del dio Kang-i, ma abbiano delle particolari attribuzioni. Così Tei-Kuan presiede alla nascita degli uomini, all’ agricoltura ed alla guerra : Zui-Kuan, al mare ed alle navi : e finalmente Tan-Kuan alle procelle, alla pioggia, a’venti e a tutti i fenomeni metereologici.
2384. Kano o Kanon. — È questo il nome che nel culto mitologico del Giappone, detto con vocabolo particolare Buddaismo, si dà al dio delle acque e dei pesci. Egli viene riguardato come figliuolo di Amida e come creatore della luna e del sole. Nella città di Osaka il dio Kanon ha un ricchissimo tempio, ove si vede la sua statua in atto di uscire dalla gola spalancata di un enorme pesce. Questa statua ha 4 braccia, due al diritto, e due al sinistro lato ; delle quali però, una destra ed una sinistra, sono levate in aria, e le altre due sono cadenti. Delle mani, una sola è chiusa, mentre delle tre altre, {p. 274}una stringe una lancia, un’ altra uno scettro, e un’ altra dei fiori. Ricche catene di perle e di pietre preziose ornano il collo, il petto e le braccia della divinità ; un fiore gli adorna il capo ; mentre ai suoi piedi è deposto un grosso corno marino, da cui esce fino alla cintola, il corpo di un giovane con folta barba e nudo.
2385. Kao-Mancon o Khahho-Manson. — Ente maraviglioso e fantastico, ritenuto come il principe delle scimmie, che morì annegato in un pozzo.
2386. Kaor-Buk. — Gli abitanti del regno di Asem dànno questo nome al dio dei quattro venti. I sacerdoti che in Africa esercitano tutti la medicina, mandano alla capanna, chiamata il tempio di Kaor-Bus, quegl’infermi che essi non han potuto guarire, e questi debbono offrire al dio quattro uccelli, prima di esporre la malattia che li affligge.
2387. Kapa, Laighne e Luassat. — Nelle cronache della mitologia irlandese, così vengono chiamati tre vigorosi pescatori che, provenienti dalla Spagna, si resero celebri nell’Irlanda, fino al punto di essere innalzati agl’onori immortali della divinità. La tradizione mitologica irlandese narra, che il diluvio sorprese Kapa e i suoi due compagni in un luogo chiamato Tuat-Imbir, e che da quel giorno essi divennero i tre più grandi e famosi numi del culto religioso dei Tuata-Dadan. Generalmente si dà loro il nome di Bit, Bit-Fiontaîn e Ladra, e si ritiene il primo come padre della famosa dea Keasaire, il secondo come suo marito, ed il terzo come suo fratello.
Però è a notare che, il più delle volte, questi tre grandi numi tenuti in tanta venerazione dai Tuatadanici, sono tre donne, tre dee possenti e benefattrici, tre madri occidentali, dirozzatrici e incivilitrici dell’Irlanda ; e che queste tre dee vengono considerate come tre idee individuali, svolgentesi dall’idea informatrice della potenza celeste feminile rappresentata da Keasaire, dea suprema. Da ciò risulta che il sesso feminile domina nella storia mitica dell’Irlanda, e forma il tipo verso cui convergono tutte le tradizioni e le cronache mitologiche irlandesi, le quali parlano tutte di tre donne che prendono possesso di quella contrada, dànno il loro nome a varii luoghi di essa, e finalmente soccombono nella loro impresa.
2388. Kasia ed Anna. — Presso i giapponesi, sono questi i nomi di due sacerdoti, i quali scrissero su foglie di albero, le più belle massime della religione di Budda, e i principali avvenimenti della vita di quel dio. Quest’ opera chiamata in lingua giapponese Fokckio, o semplicemente Kio, cioè libro dei fiori eccellenti, è una specie di catechismo religioso, che poi divenne la bibbia dei Buddisti.
2389. Kekki. — Nella Lapponia si dava questa denominazione al dio protettore della agricoltura. I popoli Carelii poi avevano altri dei particolari per l’avena, l’ orzo e la segala.
2390. Ker. — E opinione di varî scrittori dell’ antichità pagane, che i Kers fossero degl’enti immaginarî e fantastici, i quali rappresentavano le cause immediate sia violenti, sia naturali della morte. Esiodo, nelle sue opere, qualifica Ker come un dio, figlio della Notte ; ed aggiunge che abitualmente veniva raffigurato con gli occhi spalancati e terribili con la bocca attratta da uno spaventoso sogghigno, e con le vesti grondanti di sangue.
Anche fra gli scrittori dell’antichità si fa menzione di un Dio Ker, a cui si dànno presso a poco simili sembianze.
2391. Keraone. — Presso gli spartani era questo il nome del dio, che presiedeva particolarmente ai banchetti e segnatamente alla preparazione del vino.
2392. Kuan-in. — Nella Cina è questo il nome della dea, che si crede guarisca le donne dalla sterilità. Viene rappresentata con un bambino fra le braccia.
2393. Kurù. — Nel culto religioso degl’ indiani, è questa la dea che presiede al giorno in cui succede il novilunio.
Kurù è una delle divinità alla quale i Bramani debbono, per legge della loro religione, offrire ogni giorno un sacrifizio sul focolare che stà in tutte le case, e sul quale si debbono allestire i cibi che essi offrono agli dei.
2394. Kolna. — Nella mitologia scandinava, Kolna è un genio scacciato da Odino dal regno d’Asgart, e che sopraintende alle nozze dei fiori. Nelle tradizioni storiche di quella contrada, Kolna è figlio di uno dei capi Scandinavi, il quale fondò per il primo la classificazione botanica sui caratteri sessuali delle piante.
2395. Kopto. — Conosciuto anche sotto il nome di Cheospi, fu quel famoso re d’ Egitto, il quale si rese immortale tanto nei fasti religiosi, quanto negli storici, per aver fatto costruire le famose piramidi d’ Egitto, le quali andarono considerate come una delle maraviglie del mondo.
La tradizione vuole, che nella costruzione delle piramidi, fossero adoperati non meno di 360 mila operai, i quali lavorassero 23 anni. Plinio asserisce, che una somma non minore di 1800 talenti, fosse spesa per il vitto di quegli operai. Le piramidi di Kopto sono tre, una più grande nel mezzo, e due meno elevate a destra e a sinistra. Esse sono con un intervallo di dugento passi l’una dall’altra, distanti due miglia dal gran Cairo.
{p. 275}Vi sono alcuni cronisti, i quali attribuiscono al re Kopto la costruzione della sola piramide grande del centro ; mentre si vuole che le altre due più piccole laterali siano state costruite da uno dei re Faraoni, il quale amantissimo della regina sua moglie, e d’una sua figliuola, giovanetta di rara bellezza, ebbe a soffrire il crudele dolore di perderle entrambe in poco tempo ; ond’egli fece innalzare le due piramidi, di cui favelliamo, per deporvi quei corpi adorati.
2396. Krisna. — Nel culto religioso degli orientali, viene con questo nome chiamato il dio Visnù, allorquando si considera sotto la sua ottava incarnazione, la quale è ritenuta come la più antica, la più bella, la più pura di tutte. Krisna-Visnù, secondo la tradizione, nacque a Matura e fu figlio di Vassudeva e della bellissima Devakì. Entrambi i suoi genitori discendevano dalla stirpe degl’ Indù.
Narrano le cronache che Kansa fratello della regina Devakì, nemico del dio Visnù, anelava di far propria la corona di Vassudeva ; e che quest’ambizioso disegno era in lui fomentato da un’antica predizione a lui fatta da alcuni Muni ispirati, specie d’indovini, i quali gli avevano profetizzato che un giorno, egli avrebbe jerduta la corona e la vita per mano di un suo nipote. Preoccupato da siffatte apprensioni, Kansa allorquando sua sorella fu sposata da Vassudeva, giurò a sè stesso che nessun figlio maschio della giovine regina avrebbe vissuto al di là di un giorno solo. Infatti per ben sette volte la dolente Devakì vide Kansa uccidere di sua mano i proprii figliuoli.
Finalmente l’ottava volta che ella partorì un maschio, resa accorta dalle dolorose prove del passato, fece allontanare il piccolo Krisna, che fu il suo ottavo maschio, onde sottrarlo allo spietato furore di Kansa. Invano questi circondò la camera reale di scherani e di guardie : l’assordante strepito di gran numero di strumenti, sui quali si batteva per ordine della regina, stordisce i ministri del suo dispietato furore, i quali si lasciano rapire dalle mani il perseguitato bambino. Kansa allora comandò una strage generale di tutti i fanciulli, che non avessero oltrepassato l’età di un anno, sperando così di avvolgere nel la generale catastrofe il piccolo Krisna. Ma questi, sebbene appena neonato, possente siccome un vero dio, uccide i Daitri scherani del perfido zio, che movevano contro di lui per compiere il sanguinoso mandato. Devakì intanto, il cui materno amore non si assopiva giammai, affidò il figliuolo Krisna ad un re pastore per nome Nunda, ed alla moglie di lui detta Jasciada ; e questi non sentendosi sicuri nella città di Matura, si trasferirono in Nundagroma, loro patria, onde sottrarre il piccolo Krisna alle crudeli persecuzioni di Kansa. Appena giunti in Nundagroma, si presentarono loro alcune donne dalle forme gigantesche, che erano segrete mandatarie di Kansa, e domandano a Nunda di poter nudrire del loro latte il bambino ch’egli porta seco. Krisna allora, sapendo per volere divino che il seno che gli si porge è avvelenato, taglia coi denti già possenti, la mammella che si offre alle sue labbra e fa che il veleno che quella rinchiude filtri nelle vene della gigantessa che spira ai suoi piedi. Kansa allora ; non punto scorato nella sua iniqua persecuzione, manda contro il piccolo Krisna il terribile serpente Kalinaga, ma Krisna lo uccide. Finalmente sottraendosi ancora per varii anni alle persecuzioni del traditore Kansa, giunge all’età della giovanezza, combatte mostri e giganti, e uccide lo stesso Kansa.
{p. 276}L §
2397. Labda. — Una delle figliuole di Anfione. Narra la cronaca che essendo nata zoppa, non trovò alcuno della stirpe dei Bacchidi, che avesse voluto torla in moglie. Labda allora ricorse all’oracolo, e questo rispose, che ella sarebbe divenuta madre di un figliuolo che poi avrebbe usurpata la suprema autorità in Corinto ; e sarebbe stato riconosciuto come re di quella contrada.
Infatti, poco tempo dopo, Labda si maritò ad Echeone, figliuolo di un cittadino di Corinto per nome Echecrate, ed ebbe da quello un figliuolo che fu chiamato Cipfelo, perchè secondo la tradizione, essendo stati i Corinti istrutti della risposta che l’oracolo avea data a Labda, vollero uccidere il fanciullo, onde sua madre per salvarlo, lo nascose in una misura di biada che i greci chiamavano Cipfelo. Da ciò il nome del bambino.
2398. Labdaco. — Figlio di Fenice re di Tebe. Nei fasti della cronaca storico-favolosa egli è ricordato come il padre di Laio e avo del famoso Edipo.
2399. Laberinti. — Fra le maraviglie del mondo, i pagani comprendevano i due famosi laberinti del lago di Meride in Egitto, e quello di Grecia nell’isola di Creta ; sebbene quest’ultimo, al dire di Plinio lo storico, non fosse che la centesima parte di quello d’Egitto.
Al dire di Erodoto, il laberinto di Egitto fu edificato per i dodici re, che secondo la tradizione storica, regnarono insieme su quella contrada. Sorgeva questo famoso monumento vicino alla città dei coccodrilli, e propriamente sulle sponde del lago Meride.
Al dire del citato scrittore, questo maraviglioso edifizio conteneva dodici immense sale coperte ; sei delle quali guardano il lato del mezzogiorno, e le altre sei quello del settentrione, mentre una stessa muraglia le circonda al di fuori. Oltre a queste immense sale, il laberinto egiziano comprendeva non meno di tremila camere, delle quali mille e cinquecento erano sotterranee, e le altre mille e cinquecento fabbricate su di esse. Le camere sotterranee contenevano i sepolcri dei dodici re, che avevano intrapresa, continuata e finita la costruzione del laberinto, e vi si conservavano anche i cadaveri imbalsamati di que i coccodrilli, che il culto religioso degl’egiziani riteneva come sacri, e la cui vista era severamente inibita a tutti.
Le camere superiori erano, sempre secondo Erodoto, quanto di maraviglioso e di sorprendente poteva in quei tempi produrre la mano dell’uomo.
Inarrivabile, e tale da superare ogni più ricca e fervida immaginativa, era il numero degli andirivieni, dei passaggi, dei corridoi e delle uscite praticate in queste sale che mettevano le une nelle altre, e tutte erano ricoperte di tetti in pietra viva ; mentre tutte le mura erano letteralmente coperte di maravigliose sculture, ed ogni sala era circondata da una specie di gran portico di colonne, in pietra bianca. Cosi Erodoto. Però il cronista Pomponio Mela, aggiunge che il famoso laberinto del lago Meride era opera dell’architetto Psanmetico, e che con teneva tremila appartamenti, e dodici palagi, fabbricati in un solo recinto di mura e tutti ricoperti di marmo. Una sola era l’entrata dall’ esterno ; ma internamente vi era un immenso, un enorme, uno sterminato numero di strade, per le quali si era forzati di passare e ripassare, girando e rigirando, e trovandosi sempre nel medesimo punto donde si era partiti, senza che si giungesse mai a ritrovare la via della uscita.
Il laberinto di Grecia che sorgeva nell’isola di Creta, fu costruito da Dedalo, sul modello di quello egiziano, ma in più piccole proporzioni, {p. 277}per ordine di Minosse re di quell’isola, il quale vi fece rinchiudere il mostro conosciuto nella favola sotto il nome di Minotauro. È questo il laberinto di cui fà menzione Virgilio e che sorgeva vicino alla città di Gnosso.
…… in quante si discorrePer le molte intricate e cieche stradeDel Laberinto che si dice in CretaEsser costrutto ; ……..Virgilio — Eneide — Lib. V. trad. di A. Caro.
Oltre a questi due laberinti, annoverati, come dicemmo, fra le maraviglie del mondo antico, ve ne sono altri due, i quali sebbene assai meno famosi, pure vengono ricordati nelle cronache dell’antichità. Uno di questi laberinti fu fatto edificare da Porsenna, re dell’Etruria, nell’intenzione di farne il proprio sepolcro, e l’altro che sorgeva nell’isola di Lenno.
2400. Labradeo. — Al dire di Plutarco, si dava questo soprannome a Giove nella contrada della Caria, perchè invece dello scettro e dei fulmini, coi quali abitualmente veniva raffigurato il padre degli dei, si venerava in quella città la statua di lui con una scure nella mano. Questo cangiamento negli attributi indicativi del sommo Giove, è attribuito, secondo la tradizione, al fatto seguente.
Allorquando Ercole ebbe vinta Ippolita, regina delle Amazzoni, le tolse le sue bellissime armi, fra cui una scure di maraviglioso lavoro, che l’eroe, donò ad Onfale sua ; amante. Questa principessa la legò ai re di Lidia, i quali la portarono invece di scettro, fino al tempo in cui Candaule, ultimo re di quella contrada non cadde in potere dei Carii, i quali in ringraziamento della vittoria, innalzarono a Giove una statua e gli posero la famosa scure fra le mani.
2401. Lacedemone. — Figlio di Giove e della ninfa Faigete. Divenuto adulto egli sposò una figlia di Eurota, re della Laconia ; ed avendo ereditato il regno del suocero, dette alla città capitale indistintamente, il suo nome e quello della moglie. Da cio la doppia denominazione di Lacedemonia o Lacedemone, e di Sparta, a questa famosa città della Grecia.
Questo Lacedemone fu, secondo la tradizione, il primo che avesse dedicato un tempio alle Muse. Dopo la sua morte gli venne innalzato un monumento eroico.
2402. Lacedemonia. — Soprannome particolare della dea Giunone, come dea tutelare della città di Sparta.
2403. Lachesi. — Una delle tre Parche, e propriamente quella che torceva il filo della vita. V. Parche.
2404. Lacinia. In un promontorio del golfo di Taranto, nella penisola Italiana, sorgeva, al dire di Tito Livio, un tempio consacrato alla dea Giunone, sotto questo soprannome, e che era famoso per i ricchi donativi che lo adornavano. Questo tempio, dedicato a Giunone Lacinia, è quello che il censore Quinto Fulvio Flacco, spogliò delle magnifiche tegole di marmo che ne formavano il tetto, onde servirsene per la edificazione di un tempio della Fortuna, che egli faceva fabbricare in Roma. Però essendo morto improvvisamente il censore Flacco, i suoi contemporanei ritennero che quella morte fosse avvenuta per vendetta di Giunone Lacinia, la quale avesse per tal modo punito il tracotante che si facea reo di quel sacrilegio. Questa popolare credenza prese tanto vigore, che il senato emanò un editto, col quale comandava che le tegole di marmo fossero rimesse al loro posto. Ma la superstizione non si arrestò a questo avvenimento, per sè stesso semplicissimo ; imperocchè si credeva che se taluno avesse inciso il proprio nome su quelle tegole di marmo, la incisione svaniva nell’ istesso momento che l’individuo veniva a morire. Cicerone attribuisce, nelle sue opere, un altro prodigio a Giunone Lacinia, e racconta che Annibale, volendo impadronirsi d’ una colonna d’oro, che sorgeva in quel tempio, e non sapendo se fosse d’ oro massiccio, ovvero ricoperta semplicemente di foglie d’ oro, la fece puntare con taluni istrumenti e trovò che era d’ oro massiccio, onde comandò che venisse trasportata altrove. Ma nella notte seguente, Giunone apparsagli in sogno, gl’ impose di smettere dall’ opera incominciata, minacciandolo di privarlo del solo occhio che avea (avendo Annibale perduto un occhio in una battaglia) se non avesse eseguito il suo comando. Annibale allora, prestand o piena fede al sogno, ordinò che dell’ oro che si era cavato dalla colonna nel puntarla, venisse fusa una piccola giovenca, che poi fu posta sul capitello della colonna istessa.
2405. Lacinio. — Cosi avea nome un famoso masnadiere, che per lung o tempo, desolò il paese di Crotone. Ercole lo combattè e l’uccise, ed in memoria di questo fatto fece edificare un templo a Giunone Lacinia. V. l’ articolo precedente.
2406. Lacio. — Uno degli eroi dell’ Attica, al quale, quando morì, fu consacrato, in memoria delle sue gesta un bosco in una contrada, che, dal suo nome, fu detta borgata dei Lacidi ; e che poi divenne famosa nei fasti del {p. 278}paganesimo per aver dato i natali a Milziade ed a Cimone figlio di lui, che entrambi andarono annoverati fra i più grandi e valorosi capitani della Grecia.
2407. Lacturno. — Detto anche semplicemente Latturno : dio che presso i romani, presiedeva alla conservazione delle biade, prima della mietitura. Vi sono alcuni scrittori dell’antichità che chiamano questo nume Lacteus Deus, ed altri ancora che ne fanno una dea chiamata Lacturcia.
2408. Ladone. — Fiume dell’ Arcadia, che secondo la tradizione favolosa, fu padre delle due celebri ninfe Dafne e Siringa. Delle canne che crescevano sulle rive del fiume Ladone, si servì il dio Pane per costruire il suo famoso flauto a sette canne, al quale dette il nome di Siringa, in memoria forse della figliuola.V. Siringa.
2409. Laerte. — Figlio di Arcesio e marito di una figliuola di Autolico, chiamata Anticha, che poi lo rese padre del famoso Ulisse. Al dire dello storico Apollodoro, Laerte fu contemporaneo e parente di Giasone, e fu uno degli Argonauti.
2410. Lafira. — Dalla parola greca λαϕυσα che significa bollino, si dava questo soprannome a Minerva, perchè presiedeva alla guerra ed alla divisione delle spoglie e del bottino.
2411. Lafistio. — Soprannome di Giove, che a lui fu dato dagli Orcomeni, dopo che Frisso gli ebbe sacrificato il montone di Colco. Dopo questo avvenimento, Giove Lafistio veniva invocato come il dio tutelare dei fuggitivi.
2412. Lafria. — Più comunemente detta Friclaria ; soprannome di Diana a lei dato dai Calidonii, allorquando essi credettero che l’ira che la dea avea fatta ricadere su di Oeneo, e suoi discendenti, si fosse placata.
Le cronache dell’antichità aggiungono in proposito di Diana Lafria, che allorquando l’imperatore Augusto saccheggiò la città di Calidone lasciò gran parte delle spoglie di quella, agli abitanti di Patra nell’ Acaja, e segnatamente una statua di Diana Lafria, che essi custodirono gelosamente nella loro cittadella. Quella statua era d’oro e d’avorio, e rappresentava Diana in abito da caccia. Al dire di Pausania, gli abitanti di Patra fabbricarono un tempio a Diana Lafria, e istituirono in onore di lei una festa annuale.
2413. Lacenoforie. — Dalle due parole latine, lagena, fiasco ; e fero, porto, venivano così chiamate alcune pubbliche feste, celebrate al tempo dei Tolomei, nella città di Alessandria. Erano così dette perchè coloro che prendevano parte al banchetto della cena, erano adagiati sopra letti posti intorno alla mensa, e invece di coppa bevevano ad un fiasco particolare, c..e ognuno di essi portava con sè dalla propria dimora. Le Lacenoforie erano feste istituite per la sola plebe.
2414. Laghi. — I Galli celtici avevano una grande venerazione per i laghi, che essi consideravano come altrettante divinità ; ritenendo che in essi avessero stanza i numi. Presso quei popoli, il più famoso lago era quello di Tolosa, nel quale essi gettavano, come omaggio alla divinità, la più ricca parte del bottino tolto ai nemici, in monete, in verghe d’oro e d’argento ecc.
Oltre a questo eravi nel Gevodan, ai piedi d’una montagna, un gran lago consacrato alla luna, sulle sponde del quale, ogni anno si radunavano, ad epoca fissa, gli abitanti delle circostanze, onde gettare in quelle acque tutte le offerte che si facevano alla luna.
Strabone, nelle sue opere sull’antichità, fa menzione d’un altro lago celeberrimo nelle Gallie, sotto il nome di lago dei due corvi, perchè sulle sue rive avevano, da lungo tempo, fissato la loro dimora due di questi volatili, sui quali gl’indigeni raccontavano le più strane cose. Il cennato scrittore aggiunge, che allorquando fra gli abitanti delle Gallie sorgeva un qualche dissidio, le parti contendenti, divise in due schiere, andavano sulle sponde del lago, e un rappresentante individuale per le due parti, gettava ai corvi una focaccia, egualmente simile a quella gettata dal rappresentante del partito avverso. Il partito la cui focaccia veniva mangiata dal corvo, aveva aggiudicata la vittoria.
I cronisti dell’antichità non fanno menzione della maniera con la quale si risolveva la questione, nel caso non difficile, che i corvi avessero mangiate tutte e due le focacce.
2415. Laide. — La stessa famosa cortigiana greca
che molti scrittori chiamano Taide, e l’ Alighieri, nel 18° Canto del suo
Inferno, denomina Taida. Ella richiese al famoso Demostene, diecimila dramme
per una notte di piacere, onde provocò la famosa risposta del saggio, che le
disse : Non compro un pentimento a così caro prezzo
.
Secondo la cronaca, Laide morì uccisa a colpi di spillone, in un tempio di
Venere, da alcune donne di Corinto, invidiose della suprema bellezza di lei.
In una contrada della città di Corinto, si vide per lungo tempo un sepolcro,
ritenuto comunemente per quello di Laide, sul quale si vedeva scolpita, come
un’allegoria sanguinosa, una lionessa con un agnello fra gli artigli.
2416. Lalo. — Figlio di Labdaco re di Tebe. V. Labdaco. — Stava ancora in culla, {p. 279}allorchè morto suo padre, l’usurpatore Lico s’impossessò del trono. Dopo qualche anno però, morto Lico e i suoi figliuoli, i Tebani rimisero Lajo sul trono dei suoi avi.
….. In questa terraLaio, o Signor tenea di re possanzaPria che tu l’assumessi.Sofocle — Edipo Re — Tragedia trad. di F. Bellotti.
È questo il famoso Lajo che morì ucciso per mano del proprio figliuolo Edipo. V. Edipo.
Se alcun tra voi sa di qual mano estintoCadde il figlio di Labdaco, veraceTutto esponga, io ’l comando.Sofocle — Edipo Re — Tragedia trad. di F. Bellotti.
2417. Laira. — La stessa figliuola di Leucippo, conosciuta nei fasti della cronaca pagana, sotto il nome di Ilaria, che fu rapita da Castore al momento che dovea sposare Linceo. V. Castore e Polluce.
2418. Lamia. — Una delle figliuole di Nettuno. Giove l’amò con passione e Giunone ne concepì tanta gelosia, che allorquando Lamia fu prossima a partorire, la fece sconciare, ond’ella dette alla luce due bambini morti. La povera giovanetta fu così addolorata di questa sventura che in pochi giorni perdette affatto la sua stupenda bellezza, e cadde in tale eccesso di furore, che divorava tutti i bambini che le cadevano fra le mani.
Questa tradizione della favola, alterata coll’andare del tempo, dette presso i pagani, vita alla simbolica esistenza delle Lamie, specie di mostri dal volto di donna, che attirano i passeggieri e poi li divorano.
Lamia aveva anche nome una famosa cortigiana d’ Atene, figlia di Cleonora e che si rese celebre per la perizia con la quale suonava vari strumenti. Tolomeo primo re d’Egitto ne fu per lungo tempo pazzamente innamorato. All’ epoca della battaglia navale che Demetrio Poliocerte vinse contro Tolomeo, Lamia cadde in potere del vincitore.
Condotta innanzi a Demetrio, seppe coi suoi irresistibili vezzi innamorarlo in modo, che ben presto egli la proferì a tutte le sue amanti, sebbene Lamia fosse già avanzata negli anni.
Dopo la sua morte gli Ateniesi e i Tebani eressero un tempio alla sua memoria, sotto il nome di Lamia-Venere.
Lamia ed Aussesia erano finalmente i nomi di due divinità venerate particolarmente in Trezene ed in Epidauro.
La cronaca a cui si attiene Pausania stesso, dice che Lamia ed Aussesia erano due giovanette cretesi, le quali nel tempo che Trezene era tumultuosa per dissidii politici e discordie di partiti, abbandonarono la loro isola nativa per recarsi in quella città di cui esse ignoravano l’interna agitazione. Però appena ebbero varcate le porte di Trezene, che il popolo in piena sommossa le uccise a colpi di pietra.
Calmatisi gli animi, i Trezentini, dolenti di quanto era avvenuto, istituirono in onore delle sventurate giovanette, una pubblica solennità, che poi fu celebrata ogni anno, sotto il nome di festa della lapidazione.
2419. Lampadi. — Gli antichi si servivano delle lampadi per tre usi principali. Le adoperavano nei tempii e per gli atti della religione ; se ne servivano nelle case, nei conviti e nelle nozze ; e finalmente le mettevano nei sepolcri. Quando una Vestale veniva sepolta viva, per aver lasciato spegnere il fuoco sacro della dea, si chiudeva con essa nel sotterraneo una lampada sepolcrale, la quale rischiarava la terribile agonia della sventurata.
Presso i pagani le lampadi erano comunemente di terra cotta e di bronzo, e talvolta anche d’argento e d’oro. Oltre a queste, i pagani distinguevano alcune lampadi miracolose dette lampadi inestinguibili, dal perchè essi ritenevano, secondo l’attestazione di molti chiari scrittori dell’antichità, che quelle lampadi ardessero per lungo tratto di anni senza bisogno di alimento. Fra gli esempii riferiti a comprovare cosìfatta credenza, è quello della lampada trovata accesa nel sepolcro di Tulliola, figlia di Cicerone scoperto in Roma nel 1540, la quale, inestinguibile fino a quel tempo, si spense appena l’aria penetrò nel sotterraneo.
Pausania racconta, d’una lampada d’oro consacrata da Callimaco, innanzi ad una statua di Diana in Atene, e ripete che quella lampada veniva riempiuta d’olio una sola volta l’anno, e ardeva poi sempre, senza che vi fosse stato bisogno di più ritoccarla.
Il cronista Solino asserisce un fatto simile per una lampada inestinguibile, trovata dopo lunghi anni accesa in un tempio nell’ Inghilterra.
Questa credenza delle lampade perpetue, attestata da tanti chiarissimi scrittori, è combattuta da altri meltissimi, degni anch’essi di fede e di considerazione tanto più che quanto asseriscono Pausania e Solino non ha altra base che {p. 280}l’attestazione dei sacerdoti pagani, i quali alimentavano segretamente quelle lampadi, onde mantener vive le superstiziose credenze del popolo, che giovavano altamente ai tenebrosi maneggi di quegli impostori.
Plutarco istesso racconta, che un abitante della Lacedemonia, per nome Cleombroto, avesse vista una lampada perpetua ardere in un tempio, senza che i sacerdoti avessero mai preso cura d’alimentarla d’olio.
Ma Plutarco medesimo, che riferisce questo fatto come un prodigio, non fa che ripetere quanto veniva attestato da quegli istessi sacerdoti, i quali avean troppo personale interesse ad alimentare la superstiziosa ignoranza dei pagani, per prestar loro cieca fede.
2420. Lampadaforie. — Così avevano nome alcune pubbliche feste nelle quali si adoperavano le lampadi per le cerimonie dei sacrifizii. Segnatamente in Atene, nelle feste di Minerva, era costume di quegli abitanti di accendere un gran numero di lampadi, innanzi alla statua di quella dea, ritenendola come inventrice delle arti. Anche nelle feste di Vulcano, riguardato dai pagani come dio del fuoco e inventore delle lampadi ; ed in quelle di Prometeo che, secondo la favola avea rapito il fuoco sacro nel cielo, veniva praticata la stessa usanza.
Le Lampadaforie venivano celebrate una volta ogni tre anni, e si distinguevano col nome di Atenee le prime ; Esestiee o Vulcanie le seconde ; e Prometee, le terze. In tutte queste tre feste si celebravano i giuochi al lume delle lampadi.
2421. Lampadoforo. — Nome particolare di quel sacerdote che portava le lampadi nei sacrifizii ; talvolta invece di lampadi si adoperavano le torcie e allora il ministro portatore si chiamava Daducheo. V. Daducheo.
2422. Lampezie. — Una delle figliuole di Neera e del Sole.
…. e le Dive sono i lor pastoriFaetusa e Lampezie il crin ricciuteChe partori d’ Iperione al figlio,Ninfe leggiadre, la immortal Neera.Omero — Odissea — Libro XII. Trad. di I. Pindemonte.
Fu sorella di Faetusa. Al dire di Omero, il Sole avea affidato a queste sue dilettissime la custodia delle mandre che possedeva in Sicilia. Narra la tradizione, alla quale si attiene il citato poeta, che avendo una tempesta gettato Ulisse e i suoi compagni, sulle spiagge di quell’isola, i seguaci del guerriero greco uccisero alcuni buoi, che facean parte della mandra affidata dal Sole alla custodia di Lampezie, e si cibarono di quella carne. La ninfa portò querela di ciò al suo immortale genitore, e questi a Giove, il quale promise il castigo dei colpevoli. Infatti allorchè Ulisse coi suoi seguaci abbandonò la Sicilia, la sua nave fu assalita da una così furiosa tempesta, che a stento riuscì egli solo a salvarsi, mentre tutti i suoi compagni annegaroao miseramente.
Lampezie avea similmente nome una delle Fetontidi, fu anch’essa figlia del Sole e della ninfa Climene.
Al paro delle sue sorelle fu cangiata in pioppo, per aver troppo pianto la morte del fratello Fetonte. V. Fetontidi.
In alla di lei muover tentandoLa candida Lampezie. da improvvisaRadice si senti confitta al suolo.Ovidio — Metamorf. — Libro II Fav. II e III. trad. del Cav. Ermolao Federico
2423. Lampo. — Figlio di Laomedonte. Egli è ricordato nei fasti mitologici per essere fratello di Priamo.
2424. Lampos. — Detto anche semplicemente Lampo, ossia Risplendente.
Era questo il nome di uno dei cavalli del sole, e propriamente di quello che presiedeva al mezzogiorno, ora in cui il Sole rifulge in tutto il suo spendore. Gli altri tre cavalli bianchi del carro solare aveano nome Atteone, Filogeo, ed Eriloo, che altri scrittori chiamano anche Eritreo. V. Cavalli del sole.
2425. Lampsaco. — Città dell’ Asia minore. Essa viene ricordata nei fasti del paganesimo, perchè Priapo, dio delle dissolutezze eravi adorato con un culto particolare, le cui oscenità vincono di gran lunga qualunque più sbrigliata immaginazione.
2426. Lampterie. — Feste particolari celebrate in Pallena in onore di Bacco. Venivano così dette, perchè le cerimonie si compivano di notte al chiarore delle lampadi.
2427. Lancia. — Secondo riferisce Varrone, i romani rappresentavano il loro dio della guerra sotto la figura di una lancia, prima di aver dato al simulacro delle loro divinità, la figura umana. Questa costumanza i romani l’avevano ereditata dagli antichi sabini, presso i quali la lancia era il simbolo della guerra.
2428. Laocoonte. — Fratello di Anchise e {p. 281}sacerdote di Nettuno. La tradizione mitologica narra di lui un lagrimevole fatto. Allorquando i trojani consentirono che il famoso cavallo di legno fosse introdotto nella loro predestinata città, Laocoonte, colpito dalla enorme grandezza di quella macchina e paventando un’insidia, cercò di persuadere i suoi concittadini ad opporsi a che il cavallo fosse introdotto al di là delle mura, e fu in questa occasione che egli pronunziò il famoso motto, che Virgilio pone sulle labbra di lui : timeo Danaos et dona ferentes. Pronunziando queste parole, e trasportato dal proprio convincimento, Laocoonte afferrò una lunga asta di guerra, e con forza prodigiosa la lanciò contro i fianchi del cavallo, ove lasciò una profonda concavità. Ma tutto questo non valse a persuadere i trojani, e il loro fato si compì, tale essendo il volere del destino inesorabile. L’azione intanto di Laocoonte fu ritenuta da tutti come un sacrilegio, e sul capo di lui la cieca superstizione de’suoi concittadini, lanciò tutte le maledizioni, e richiamò l’ira terribile dei celesti. Infatti, poco dopo un avvenimento straordinario venne a constatare maggiormente esser stato Laocoonte colpito dalla vendetta dei numi. Mentre egli offeriva un sacrifizio nel tempio, con la sola compagnia di due bambini suoi figli, dalla vicina isola di Tenedo si videro strisciare sulla superficie delle acque due orribili ed enormi serpenti, che slanciandosi sulla riva, sibilando orribilmente si avventarono sui fanciulli di Laocoonte, ravvolgendoli nelle loro spire mortali. Invano il misero padre armato di frecce si preparo a combattere i terribili nemici : l’arco non era ancora teso nelle sue mani, che i mostri si slanciarono su di lui, e lo strinsero nei loro innumeri attortigliamenti e innalzandosi su di esso di tutta la testa e della parte superiore del corpo, lo strinsero per modo che quasi lo soffocarono. Finalmente coperto di bava velenosa, e intrise di sangue, le sacre bende sacerdotali, mandò un ultimo grido terribile verso il cielo e spirò come i suoi figli nell’orrendo attorcigliamento.
La morte di Laocoonte e dei suoi figliuoli fu da tutti ritenuta come il castigo del suo sacrilegio per aver osato di ferire il cavallo offerto a Minerva.
Era Laocoonte a sorte elettoSacerdote a Nettuno …….……………Poscia a lui, che a’fanciulli era coll’armeGiunto in aiuto, s’avventaro, e strettoL’avvinser sì, che le scagliose tergaCon due spire nel petto, e due nel colloGli racchiusero il fiato, e le bocche alteEntro al suo capo fieramente infisseGli addentarono il teschio. Egli com’eraD’atro sangue, di bava, e di velenoLe bende, e ’l volto asperso, i tristi nodiDisgroppar colle man tentava indarno,E d’orribili strida il ciel feriva,Virgilio — Eneide — Libro II. trad. di A. Caro :
Il gruppo in marmo del Laocoonte, scolpito da Fidia è una delle più stupende opere dell’arte greca.
2429. Laodamia. — Figlia di Achemone e del famoso Bellorofonte. Giove l’amò con passione e la rese madre di quel Sarpedone che fu poi re di Licia. Omero riferisce che Diana sdegnata del superbo orgoglio di Laodamia, la uccise a colpi di frecce.
Partorì poi la moglie al virtuosqBellerofonte tre figliuoli, IsandroE Ippoloco, ed alfin LaodamiaChe al gran Giove soggiacque, e padre il feceDel bellicoso Sarpedon …….……………Laodamia peri sotto gli straliDell’irata Dïana ; ….Omero — Iliade — Libro VI trad. di V. Monti.
Laodamia era similmente il nome di una giovanetta moglie di quel Protesilao, che morì ucciso all’assedio di Troja.
Quando la dolorosa novella fu portata a Laodamia, essa che amava teneramente il marito, fece fare una statua che riproduceva fedelmente la cara immagine del suo sposo ; e per farsi una dolce illusione, sempre soave al suo cuore innamorato, fece mettere nel proprio letto la statua del marito.
Qualche tempo dopo uno schiavo andò a riferire ad Acasto, padre di Laodamia, che la figliuola s’era lasciata sorprendere in turpi abbracciamenti con un uomo.
Acasto, geloso custode del proprio onore, si recò immantinenti nella camera della figlia, onde punire la sciagurata che insozzava di tanta macchia il decoro della famiglia. Ma accortosi della verità del fatto, fece togliere la statua di Protesilao dalla camera della figlia e la fece mascondere, onde Laodamia non vedesse più quell’oggetto, che manteneva sempre vivo il dolore nell’anima sua. Ma Laodamia, {p. 282}maggiormente afflitta, chiese in grazia agli dei che le avessero conceduto per sole tre ore di poter favellare con lo sposo adorato ; e pianse tanto amaramente nel chiadere al cielo codesta grazia, che gli dei impietositi gliela concessero.
Mercurio infatti, per ordine di Giove discese all’inferno e ne trasse l’anima di Protesilao che presentò alla fedele Laodamia. Ma questa, trascorso il tempo assegnato da Giove non volle separarsi dallo sposo adorato e si contentò piuttosto di andar con lui nel regno dei morti, di quello che rimanere sulla terra divisa dal suo diletto.
Laodamia finalmente avea nome una principessa di Epiro, che insieme a sua sorella Nereide, riuseì per poco tempo a sottrarsi al furore degli Epiroti, i quali in una rivoluzione avevano uccisi tutti i componenti della reale famiglia. Nereide fu sposata da Gelone, re di Sicilia, e seguì il marito e fu salva ; ma l’infelice Laodamia raggiunta dai rivoltosi in un tempio di Diana, ove erasi ricoverata ai piedi d’una statua della dea, fu uccisa spietatamente da certo Milone, che cieco d’ira contro la disgraziata giovanetta. le spaccò il cranio con un colpo di scure. Ma ben presto il sangue innocente di lei ricadde goccia a goccia sull’iniqua terra che lo aveva versato, e la guerra, la pestilenza, la sterilità, i turbini, i tremuoti, e tutti infine i fiagelli, ministri dell’ira degli dei si scatenarono sull’Epiro con tale rapidità che ben presto quella grande contrada fu quasi deserta. E quell’istesso Milone, che avea dato alla misera Laodamia il colpo mortale, assalito da terribili accessi di frenesia, si lacerò da sè stesso le visceri, e morì fra i più atroci tormenti nel dodicesimo giorno dalla morte di Laodamia.
2430. Laodice. — Secondo alcuni scrittori, così avea nome la madre della famosa Niobe, che altri autori tanto antichi che moderni chiamano differentemente. V. Niobe.
Laodice è un nome assai generalizzato presso i pagani ; e che sovente si trova ripetuto nei fasti eroici e favolosi dell’antichità. Noi seguendo il carattere della nostra opera, parleremo partitamente di quelle donne che così ebbero nome e che sono ricordate dagl’autori come le più famose.
Laodice ebbe nome una figlia di Agamennone e di Clitennestra, la quale fu dal padre offerta in consorte ad Achille, insieme alle sue due sorelle Ifianassa e Crisotemi, quando Agamennone cercò di placare l’ira inesorata del Pelide. V. Ifianassa.
Laodice fu del paro una figliuola di Priamo, re di Troja e di Ecuba, ritenuta come la più avvenute delle reali fanciulle trojane.
L’inclita madre che a trovar sen giaLaodice, la più delle sue figlieAvvenente e gentil.Omero — Iliade — Libro VI trad. di V. Monti.
Tolta in moglie da uno dei tanti figli di Ercole per nome Telefo, Laodice fu ben presto abbandonata da lui, che dapprima combatteva nelle fila dei trojani, e che poi passò in quelle dei greci. Priamo onde consolare la derelitta figliuola, la rimaritò ad un figlio di Antenore, per nome Elicaone, ma questo secondo imeneo fu come il primo infelice, imperocchè poco tempo dopo Elicaone morì combaltendo sotto le mura di Troja.
Caduta la città in potere dei greci, Laodice, onde sottrarsi alla schiavitù, e paventando sopra ogni altra cosa d’esser condannata a servire l’odiata consorte di Telefo, suo primo marito, si precipitò da una rupe, anteponendo l’onore alla vita.
Al dire di Pausania, si vedeva ai tempi di Massimo, pretore dell’ Asia, un sepolcro nella Frigia, ove era rinchiuso il corpo di questa sventurata principessa.
Laodice fu similmente una regina di Cappadocia, di cui la tradizione serba memoria come di donna crudelmente ambiziosa. Ariarate, suo consorte, morì lasciandola madre di sei figliuoli maschi e imponendole di tenere le redini del governo, fino a che il primo dei suoi figliuoli avesse raggiunta l’età maggiorenne. Laodice rimasta vedova, per spietata libidine di regno, avvelenò l’un dopo l’altro i primi cinque dei suoi figliuoli, temendo d’essere un giorno spogliata della clamide reale e del supremo poteretanto caro al suo cuore ambizioso. Ma ben presto il popolo, cieco di furore contro la madre spietata, invase tumultuoso ed iracondo le più riposte camere della reggia, e impadronitosi di Laodice, la uccise miseramente, facendone a brani il corpo sanguinoso ; e ponendo sul trono della Cappadocia l’ultimo figliuolo dell’uccisa regina, il quale da alcuni parenti di Ariarate, era stato sottratto furtivamente dalla reggia.
Laodice, da ultimo, fu una figliuola di Agapenore che seguì il padre suo all’assedio di Troja, ov’egli si recò a capo delle milizie arcadi.
Laodice fu a parte di ogni buona e cattiva fortuna del padre, e lo seguì da per ogni dove, finchè caduta Troja, andò con lui nell’isola di Cipro, ove Agapenore si stabili con la sua famiglia.
{p. 283}2431. Laodoco. — Figliuolo di Antenore. Allorquando Paride e Menelao offrirono di combattere il singolare duello, che dovea por fine alla lunga guerra di Troia. Laodoco fu quello che esortò i troiani a rompere il trattato. Omero aggiunge, che Giove avesse ordinato a Minerva di prendera le sembianze di Laodoco, e di andare in cerca di Pandaro, onde fare che i troiani avessero violato i patti.
La Dea mischiossi tra la folla intantoDelle turbe troiane, e la sembianzaDi Laodoco assunta (un valorosoD’ Antenore figliuol), si pose in tracciaDel deiforme Pandaro.Omero — Iliade — Libro IV. trad. di V. Monti.
2432. Laomedea. — Una delle cinquanta ninfe Nereidi.
2433. Laomedonte. — Figlio di Ilo e padre del famoso Priamo. Regnò in Troia per lo spazio di ventinove anni.
Nei fasti dell’antichità, questo famoso re si rese celebre per aver fatto circondare di fortissime e salde mura, la capitale del suo regno ; e tanto che quest’opera fu dai pagani attribuita allo stesso Apollo, dio delle arti. Come pure i possenti argini che egli fece costruire, onde proteggere la cittadella di Troia dal furore delle onde del mare, furono riguardati come opera di Nettuno stesso. Anzi avendo con l’andare del tempo le onde fatto rovinare uno degli argini, fu ritenuto da tutti che Nettuno sdegnato contro Laomedonte, per non avergli data la promessa ricompensa dopo la costruzione degli argini, si era vendicato della mala fede del re, distruggendo uno di quei ripari che erano opera sua. Questa è almeno se non la sola, la più generalizzata tradizione che i cronisti dell’antichità ci abbiano trasmessa su questo famoso re troiano.
Ma la cronaca a cui accennammo non è la sola sul conto di Laomedonte, imperocchè altri scrittori, egualmente degni di fede, e ricchi di rinomanza, ripotono che Laomedonte, onde abbellire e fortificare la capitale del suo regno, si fosse servito dei tesori consacrati ad Apollo ed a Nettuno e depositati nel loro tempio, promettendo di restituirli dopo la costruzione delle opere intraprese. Compiuti i lavori, Laomedonte non restituì le ricchezze di cui s’era servito, per modo che Apollo afflisse il popolo troiano con una terribile pestilenza, e Nettuno mandò dal fondo del mare un’orrendo mostro marino, che divorava tutti coloro che passavano sulla spiaggia. Desolati i troiani, ricorsero all’oracolo, e questo rispose, che Nettuno non placherebbe la sua terribile ira, se non quando la stessa figliuola del re Laomedonte venisse esposta al mostro per esser divorata. Laomedonte allora, piegando all’inesorabile volere del destino, fece incatenare la propria figliuola, ostia innocente dell’inumano sacrifizio ; ma nell’istesso tempo emanò un editto col quale proclamava, che chiunque avesse combattuto il mostro e salvata la figlia, l’avrebbe avuto in legittima sposa.
A questo appello che richiedeva un eroico coraggio, Ercole si offerse volenteroso e infatti uccise il mostro e libero la giovanetta ; ma quando credeva di ottenerne in premio la mano, Laomedonte si ricuso recisamente a mantenere la data fede, onde Ercole sdegnato saccheggiò la città, devastò tutta la contrada, e uccise lo stesso Laomedonte, a cui Priamo, suo figlio che gli successe sul trono di Troia fece innalzare un magnifico sepolcro. Questo monumento è quello stesso che fu abbattuto dai Troiani medesimi per dar passaggio al famoso cavallo troiano. V. Fatalita’ Di Troia.
2434. Laonome. — Figlio di (Buneo e madre di Anfitrione. Essa prese cura dell’infanzia di suo nipote Ercole e lo ritenne presso di sè, per qualche tempo, nella città di Feneone, in Arcadia.
2435. Lapidazione. — Con questo nome veniva dagli Egineti denominata una festa che essi celebravano in memoria di due giovanette cretesi, chiamate Lamia ed Aussesia, le quali morirono lapidate. V.Lamia ed Aussesia.
2436. Lapis. — In memoria della pietra che Saturno aveva divorata, invece del proprio figliuolo Giove, si dava un tal soprannome a questo dio. Sotto questa denominazione ordinariamente egli viene confuso col dio Termine.
Al dire di Apuleio, i pagani ritenevano come sacrosanto il giuramento fatto sotto questa misteriosa parola. Cicerone stesso asserisce che un giuramento fatto con questa formola :
Jovem lapidem jurare, era ritenuto come infrangibile.
2437. Lapiti. — Da un figliuolo che Apollo ebbe dai suoi amori con una giovanetta chiamata Stobia, figlia di Pineo, e che fu detto Lapito, presero la loro denominazione quei popoli della Tessaglia che si resero celebri nei fasti dell’antichità per la sanguinosa guerra che sostennero contro i Centauri, e che ebbe principio per una dissensione surta fra di loro, durante il banchetto delle nozze di Piritoo. I Centauri furono quasi distrutti dai Lapiti, alla cui testa erano Teseo ed Ercole.
2438. Lara. — Figlia del fiume Almone.
{p. 284}Narra la cronaca mitologica che essa palesò a Giunone la tresca amorosa che egli aveva con la ninfa Giuturna ; per il che sdegnato Giove le fece tagliare la lingua e comandò a Mercurio che l’avesse condotta all’inferno.
Mossa a pietà della consorte, innanteA Giuno ancor sen venne, e disse ; È dellaNinfa Giuturna il tuo marito amante.Giove ne freme : ed a lei toglie quellaLingua, cui così male essa governa ;A Mercurio di poi cosi favella :Costei giù mena, ov’è la notte eterna :Bene in quel loco il muto stuoi si annidaNinfa sarà, ma di palude inferna.Ovidio — I Fasti — Libro II. trad. di Giambattista Bianchi.
Narra la cronaca, che la sua disgrazia non aveva punto alterata la sorprendente bellezza di Lara ; tanto che Mercurio stesso, durante il tragitto invaghitosene perdutamente, la rese madre di due gemelli che poi furono detti, dal nome della madre Lari, ed a cui varii scrittori danno anche il nome di Larunda.
Di doppia prole incinta essa diventa :E i Lari partori gemelli infanti.Ovidio — I Fasti — Libro II. trad. Giambattista Bianchi.
2439. Larentali. — Feste che i Romani celebravano in onore di Acca Laurenzia, dieci giorni prima delle calende di Gennaio. Le cerimonie Larentali si compivano fuori le porte di Roma, sulle sponde del Tevere.
2440. Larenzia. — Detta più communemente Acca Laurenzia. V. queste voci.
2441. Lari. — Altamente seria era, nel culto religioso dei pagani, la importanza che essi davano agli dei Lari, detti anche Penati ; e che essi ritenevano come gli dei domestici, i genii tutelari del domestico focolare, e come i custodi d’ogni famiglia.
Al dire di Servio il culto pagano degli dei Lari, trasse la primitiva sua origine dall’uso che avevano gli antichi di sotterrare cioè i loro morti nelle case ; cosa che dette motivo a quelle menti ottenebrate dalla superstizione di ritenere per fermo che le anime dei trapassati soggiornassero nelle stesse case, ove avean dimorato durante la vita ; e che prendessero la casa e la famiglia sotto la loro particolare protezione.
Coll’andare degli anni i morti vennero sepolti lungo le strade maestre ; ed allora fu che i Lari o Penati furono considerati come dei protettori delle strade.
Secondo riferisce il cronista Apuleio, gli dei Lari altro non erano che le anime di coloro che avevano onestamente vissuto e che perciò dimoravano anche dopo la morte nel seno della propria famiglia, proteggendola del loro soprannaturale potere.
I seguaci di Plutone facevano una distinzione negli dei Penati ; e chiamavano Lari le anime dei buoni, e Lemori quelle dei cattivi, le quali per altro venivano anch’esse onorate con certe sacre funzioni, dette le funzioni delle ombre.
Quando Espero tre volte indi la bellaSua faccia avrà mostrata, ed avrà cedutoTre volte il loco al Sol, vinta ogni stella ;Il rito antico a noi sarà venutoDei notturni Lemurii : in questi onoraSacra funzion dell’ Ombre il popol muto.Ovidio — I Fasti Libro V.— trad. di G. B. Bianchi.
Al dire di Plauto gli dei Lari venivano da principio rappresentati sotto la figura di un cane onde ricordare che essi erano i custodi della casa, e che vigilavano continuamente onde allontanare tutto ciò che potesse esser nocivo.
Ordinariamente i pagani mettevano i loro Penati intorno al focolare, e spesso anche dietro l’uscio da via. Quando gli schiavi ricevevano la libertà appendevano le loro catene accanto al focolare, consacrandole in segno di riconoscenza agli dei Lari.
Quando si facevano dei sacrifizii pubblici agli dei Lari, veniva svenato sui loro altari un maiale ; mentre quando si facevano loro offerte private, il che avveniva quotidianamente, si offriva loro del vino, dell’incenso, dei fiori e perfino una porzione delle vivande che erano imbandite sulla mensa. Giornalmente poi le statuette dei Lari erano sempre inghirlandate di viole mammole, di rosmarino e di mirto, e all’ora del pranzo si facevano in loro onore delle libazioni e talvolta anche dei sacrifizii.
Le piccole statue degli dei Penati venivano riposte in un particolare oratorio e tenute con scrupolosa nettezza.
Nelle case dei ricchi v’era un servo o uno schiavo, destinato particolarmente al servizio degli dei Penati.
Grandissima era la venerazione che i pagani avevano per queste loro divinità tutelari ; sebbene le cronache dell’antichità ci rapportano più d’un esempio, in cui si vede che particolarmente in occasione della morte di un qualche {p. 285}congiunto, i pagani insultavano con atti e con parole oltraggiose i loro Penati, accusandoli di non aver ben saputo proteggere la casa, e d’essersi lasciati sopraffare dai Lemuri, ossia genî malefici.
A questo proposito narra un’antica cronaca romana, che l’imperatore Caligola ; scontento dei proprî Lari, gli avesse in un momento di furore fatti gettare dalla finestra.
Oltre ai Lari custodi della famiglia e della casa, i pagani ne distinguevano diversi altri.
V’erano i Lari pubblici, che avevano la speciale presidenza dei lavori della città, come strade, monumenti, sepolcri, ecc. V’erano i Lari detti Urbani, che avevano in custodia la città ; Compitales, quelli che presiedevano alle crociere delle vie ; Viales, quelli delle strade ; Rurales, quelli della campagna ; e finalmente i Lari Hostiles, quelli che avevano la cura speciale di allontanare i nemici.
Fra le maggiori divinità del paganesimo, ve n’erano alcune che facevano parte degli dei Lari, come Apollo, Mercurio e Diana, perchè si mettevano ordinariamente le loro statue agli angoli delle vie. Giano, secondo riferisce il cronista Macrobio, era compreso fra gli dei Lari dei romani, perchè si credeva che avesse le strade sotto la sua speciale protezione. Infine, tutti quelle divinità che i pagani sceglievano come protettrici sia d’una città, sia d’un luogo particolare, venivano classificate nel numero dei Lari.
Fuori le porte di Roma, e propriamente nell’ampio ricinto del campo Marzio, sorgeva un pubblico tempio consacrato agli dei Lari, ove essi venivano onorati sotto il nome collettivo di Grundiles, alludendo al grugnito proprio dei maiali, in memoria della scrofa che avea partoriti trenta porcelli in una volta. V. Grundili.
Finalmente, si celebrava in onore degli dei Lari una festa detta, secondo asserisce Macrobio, celebritas sigillariorum, ossia festa delle statuette, e che si solennizzava negl’undici giorni prima delle calende di gennaio.
L’oratorio particolare ove venivano conservate le statuette dei Penati, si chiamava con nome proprio Larario.
2442. Larissa. — Questa città della Tessaglia, posta propriamente sul monte Peneo, è celebre nei fasti del paganesimo per essere la patria di Achille ; e perchè Giove vi era particolarmente onorato con culto speciale. Da ciò il soprannome di Larissio a questo dio.
Larissa similmente era detto un grosso borgo, nella contrada di Efeso, ove Apollo, sotto il nome di Larisseo e anche Larisseno, aveva un magnifico tempio a lui consacrato.
2443. Laristo. — Fiume del Peloponneso. Riferisce Pausania, che sulle sponde di quello, sorgeva un tempio dedicato a Minerva Larissea.
2444. Larve. — Con questo nome collettivo, i pagani indicavano le anime dei perversi, e credevano che ritornassero sulla terra per tormentare i vivi. Le chiamavano anche genii, spettri e lemuri — V. Lemuri.
2445. Lasio. — Così ebbe nome uno dei più famosi principi della Grecia.
Egli aspirò insieme a diversi altri sovrani, al possesso d’ Ippodamia, e morì ucciso da Enomao.
2446. Laterano. — I romani chiamavano lateres, una specie di cammino fabbricato in pietre cotte, che ricopriva il focolare di ogni casa. Da ciò, secondo asserisce il cronista Arnobio, fu dato il nome di Laterano al dio dei focolari
2447. Latino. — Figlio di Fauno e della ninfa Marica, fu il più famoso dei re del Lazio.
Kra Signore,Quando ciò fu, di Lazio il Be Latino,Un re, che veglio, e placido gran tempoAvea ’l suo regno amministrato in pace.Questi nacque di Fauno, e di MaricaNinfa di Laurento, e Fauno a PicoEra figliuolo, e Pico a te SaturnoDel suo regio legnaggio ultimo autore.Virgilio — Eneide — Libro VII. trad. di A. Caro :
Narra la cronaca mitologica, che Latino avesse avuto dalla regina Amata, un figliuolo che gli fu rapito da alcuni delfini ; per modo che non gli restò altra prole, che una leggiadra giovanetta per nome Lavinia, la quale per la sua bellezza, si vide ben presto scopo ai voti di molti chiari principi dell’Italia. Verso quel torno di tempo. Enea approdò sulle spiagge della penisola italiana, e propriamente nel Lazio, e chiese a Latino un piccolo angolo di terra, onde stabilirvisi coi suoi troiani. Il buon re accolse cortesemente l’illustre profugo ; e risovvenendosi di un antico oracolo, il quale gli aveva imposto di non maritare la figlia sua, che con un principe straniero, egli fece alleanza con Enea, e gli offrì la figliuola Lavinia in consorte. Ma i suoi popoli si opposero a questa lega ed obbligarono invece Latino ad armarsi contro d’ Enea. Ben presto però ebbero a pentirsi del loro sconsigliato divisamento ; poichè Enea, in una battaglia campale sconfisse interamente l’esercito di Latino, e impossessatosi {p. 286}del trono, sposò la principessa e regnò per quarantasei anni. — V. Lavinia.
2448. Latmo. — Montagna nella Caria, ove secondo la tradizione, ebbero vita gli amori di Diana e di Endimione. Da quanto riferisce Pausania, vi era sulla montagna di Latmo una caverna, conosciuta sotto il nome di grotta di Endimione.
2449. Latobio. — Presso gli antichi popoli norici, era questo il nome del loro Esculapio, ossia del dio della sanità.
Vogliono alcuni autori, che Latobio propriamente fosse il nome di un famoso medico, che i norici divinizzarono dopo la morte.
2450. Latona. — Al dire di Esiodo, fu figlia del Titano Ceo, e di Tebe sorella di lui. Omero la fa figliuola di Saturno. Giove l’amò con passione, a causa della sua stupenda bellezza e la rese madre di due gemelli che furono Apollo e Diana.
Narra la tradizione, che Giunone mossa da geloso furore, perseguitò instancabilmente la bella rivale. Al suo divino volere il serpente Pitone uscendo dalle più cupe voragini della terra, spaventò siffattamente Latona, inseguendola continuamente, che essa, prossima a partorire, non trovò un angolo di terra, ove potesse, in sicurezza, dare alla luce i proprî figliuoli.
Latona allora si rivolse alla protezione di Nettuno, e questo dio, mosso e compassione delle lagrime di lei, fece con un colpo del suo tridente sorgere, dal fondo dell’oceano, l’isola galleggiante di Delo, ed ivi Latona potè in pace sgravarsi.
Però appena la divina prole di Giove ebbe veduta la luce del giorno, Giunone spinta sempre dalla sua gelosia, istrutta dell’inatteso ricovero che la sua rivale avea avuto da Nettuno, la obbligò a fuggire dall’ospitale dimora, portando seco i divini fanciulli.
Ivi Latona di Palladia palmaGiacendo all’ombra’, di gemella proleSgravossi, della suocera a dispetto.Fama è però che per fuggir lo sdegnoDi Giuno, la puerpera da DeloPur si partisse, trasportando in colloI due figli divini.Ovidio — Metamorf. — Libro VI Fav. III trad. del Cav. Ermolao Federico
Finalmente dopo d’aver per lungo tratto di tempo errato alla ventura, esposto sempre all’ira implacabile di Giunone, la bellissima amante di Giove giunse nella Licia, ove la cronaca narra che oppressa un giorno, dagli ardori del sole e dalla stanchezza, sedutasi in riva ad uno stagno, ove alcuni contadini falciavano l’erba, Latona li pregò a volerla soccorrere d’un sorso d’acqua, ma quei disumani, lunge dal compiacerla, si diniegarono alla dolente preghiera di lei, e prima di allontanarsi intorbidarono le acque dello stagno, affinchè ella avesse sofferta l’atroce tortura della sete. Allora Latona sdegnata contro quegl’empi, richiamò con disperate grida la vendetta dei numi sul loro capo, e Giove non sordo alla preghiera della sua amante, cangiò quei crudeli in rane.
Erodoto però asserisce, nei suoi scritti sull’antichità, che Latona altro non fu se non la nutrice di Apollo, e che Iside, la dea suprema, fosse la vera madre di lui. Al dire del citato scrittore, Latona per sottrarre Apollo alle crudeli persecuzioni di Tifone, lo nascose nell’isola di Chemnide, che sorgeva in mezzo ad un lago, chiamato Bute.
Da questa ultima opinione del classico autore, sembra che i greci, altro non abbian fatto se non che mascherare con la larva simbolica dell’allegoria mitologica, una storia ritenuta come verissima dagli antichi Egizii. Infatti presso questi ultimi popoli, Apollo, ossia il sole ha per madre Latona (parola che significa nel linguaggio egiziano, nascosto), volendo significare, che prima della nascita del sole, tutte le cose create erano nascoste nell’oscurità delle tenebre, che ravvolgevano nella notte del caos primitivo la creazione intera.
In considerazione d’esser stata Latona madre di due fra le più grandi divinità dell’ Olimpo, fu ella stessa annoverata fra le dee, ad onta dell’odio instancabile di Giunone. A ssunta fra le immortali, ebbe ben presto altari e templi, e tra questi, il più famoso fu quello che sorgeva nell’isola di Delo, vicino a quello del figliuol suo. Al dire di Pausania, un altro tempio famoso consacrato a Latona, sorgeva nella città di Argo ; e la statua della dea era lavoro dell’immortale scalpello di Prassitele.
Fra i popoli dell’antichità, che onoravano Latona di un culto particolare, è mestieri primieramente nominare gli Egiziani, i quali delle sei grandi e solenni feste che celebravano nel corso dell’anno, avevano istituita la quinta in onore di Latona, e che veniva solenuizzata nella città di Butite con gran pompa e splendore. Anche i Tripolitani ed i Galli avevano una particolar divozione per questa dea, la quale veniva adorata anche sotto il nome di Laona, nella contea di Borgogna, dove con l’andare degl’anni, togliendo il t dalla parola latina Latona, si è data forse origine alla denominazione del santo {p. 287}cattolico, conosciuto con l’appellativo di S. Giovanni di Laona.
Presso i greci ed i romani, le donne adoravano Latona come protettrice delle partorienti e si credeva che presiedesse anche al parto degli animali.
A completare le notizie che le cronache dell’antichità ci hanno trasmesse su questa importante personalità mitologica, venerata dai pagani sotto il nome di Latona, riporteremo un avvenimento di cui fa menzione lo scrittore Ateneo, nelle sue cronache. Narra il citato scrittore, che un greco per nome Parmenisco Netapontino, il quale per le sue immense ricchezze godeva del primato su tutti i suoi concittadini, ebbe la temerità di volere a forza penetrare nell’antro di Trofonio, e che in pena della sua azione sagrilega, fosse condannato dagli dei a non poter più ridere per qualunque cosa gli fosse avvenuta. Addolorato di ciò, egli ricorse all’oracolo d’Apollo, onde sapere cosa avesse dovuto fare per essere liberato da tale castigo ; e l’oracolo rispose che sua madre gli avrebbe restituita nella propria casa la facoltà di ridere. Par menisco si convinse che la madre a cui accennava l’oracolo era la patria ; e che appena sarebbe rientrato nella sua dimora, avrebbe potuto ridere, Ma la sua aspettazione andò completamente delusa, poichè appena rientrato nelle sue domestiche pareti, si accorse che il ridere gli era sempre inibito da una forza superiore. Però dopo qualche tempo avendo fatto un viaggio a Delo, entrò nel tempio di Latona col proposto di vedere la magnifica statua che Prassitele avea scolpito di quella dea ; ma invece di ciò che si aspettava di vedere, altro non scorse che un informe simulacro di legno, con una faccia così contrafatta e sconcia, che appena i suoi occhi l’ebbero fissata, egli ruppe in un violento scoppio di riso. Fu allora che comprese il senso della risposta dell’oracolo, e vedendosi, risanato offrì alla dea Latona onori e sacrifizii solenni.
2451. Latria ed Anasandra. — Figliuole gemelle di Tersandro, re di Cleone. Esse furono tolte in mogli da due figliuoli del re Aristodemo, anch’essi gemelli. Dopo la morte, le figliuole di Tersandro, ebbero gli onori divini, e fu loro eretto un altare nella città di Lacedemone, nel tempio istesso di Licurgo.
2452. Lavazione. — Era questo il nome che i romani davano ed una festa, che essi celebravano annualmente in onore della madre degli dei. Era costume di portare in giro per la città in gran pompa la statua della dea, posta su di un carro, e poi andarsi a lavare nelle acque del fiume Almone, e propriamente nel sito ove questo metteva foce nel Tevere. Un’antica tradizione, avvalorata dalla testimonianza cronologica delle date, aggiunge che la festa della lavazione si celebrava il 25 marzo, e fu istituita in memoria del giorno in cui fu portato dalla Frizia in Roma, il culto religioso di Cibele, madre degli dei. S. Agostino, nelle sue opere, sferza inesorabilmente le oscenità che i pagani di Roma commettevano in questa occasione.
2453. Laverna. — Dea dei ladri, i quali, al dire di Orazio, la invocavano onde essa coprisse di tenebre lo loro mariuolerie.
…. poi l’aiuto imploraA mezze labbra della dea Laverna.Bella Laverna, ei dice, il mio candore.La mia finta virtude il mondo inganni :Cuopra le mie nequizie un tenebrore,E le mie frodi densa nube appanni.Orazio — Le Epistole — Libro I. — Epist. XVI. trad. di Cammillo De’Conti Toriglioni.
Dal nome di questa dea venivano complessivamente chiamati Laverniones i ladri d’ogni categoria.
Nelle campagne di Roma vi era un bosco consacrato alla dea Laverna, dove gli assassini ed i ladri si riunivano a dividere il bottino, dopo di aver onorato di preghiere e talvolta di offerte, la statua di lei. Queste diverse cerimonie, si compivano sempre nel più alto silenzio. Una della porte di Roma veniva detta Lavernale, per essere nelle circostanze del bosco, consacrato a Laverna.
2454. Lavinia. — Figlia di Latino, re del Lazio e della regina Amata. Fu erede del trono paterno. V. Latino.
Narra la cronaca che essa già innanzi con gl’anni si vide scopo alle ricerche matrimoniali di molti principi ed eroi del Lazio e dell’ Italia.
Sola d’un sangue tal, d’un tanto RegnoRestava una sua figlia unica erede,Che già d’anni matura, e di bellezzaPiù d’ogn’altra famosa, era da moltiEroi del Lazio, e dell’ Ausonia tuttaDesiata, e ricerca.Virgilio — Eneide — Lib. VII. trad. di A. Caro.
Ma gli dei con presagi e sogni si opposero sempre al compimento delle nozze desiderate. Finalmente uno straordinario avvenimento {p. 288}ne a cangiare l’ordine delle cose ; imperocchè, la tradizione ripete, che offerendo Lavinia un giorno un sacrifizio, insieme al re suo padre, improvvisamente, la flamma di cui ella si serviva per abbruciare i profumi sull’altare, si appiccò alla sua folta e magnifica capellatura, per modo che la ricca acconciatura di perle, di cui ella aveva fregiato il capo, fu preda delle fiamme ; e il fuoco attaccandosi alle vesti di lei, la ravvolse come in una nube di pallida luce e di fumo, che ben presto riempì tutta la reggia. Codesto avvenimento colmo di terrore gli astanti, ma finalmente, spentosi il fuoco, e trovatasi la principessa incolume, come per miracolo, gl’indovini predissero che ella avrebbe uno splendidissimo destino, il quale pero sarebbe riuscito funesto al suo popolo, che per cagione di lei avrebbe avuto a sostenere una lunga e disastrosa guerra. Il re Latino, spaventato da simili predizioni, mosse a consultare l’oracolo di Fauna e questo gli rispose, che non avrebbe dovuto concedere la mano di Lavinia, che ad un principe straniero. Poco tempo dopo infatti Enea, coi suoi trojani, approdò sulle spiagge del Lazio, ed ebbe a sostenere, contro Turno re dei Rutuli, una lunga guerra, perchè questo, che era nipote della regina, contrastò ad Enea colle armi il possesso di Lavinia e del regno di lei.
……. Chè tra noiCol nostro sangue a difinir la guerra,E di Lavinia le bramate nozzeIn su quel campo a procurarci avemo.Vircilio — Encide — Libro XII trad. di A. Caro.
Morto poi Enea, dopo molti anni di regno, la vedova Lavinia vedendo il suo trono occupato da Ascanio, figlio d’Enea, e di Creusa, prima moglie di lui, temè che il giovanetto principe non avesse attentato ai suoi giorni, onde assicurarsi il possesso della corona ; e non potendo sottrarsi a questo doloroso pensiere, ella si ritrasse a vivere solitaria e raminga nel fondo di un bosco, ove al dire delle cronache, ella partorì un figliuolo, a cui mise il nome di Silvio. Intanto gli abitanti del Lazio cominciarono a mormorare della lontananza di Lavinia, per modo che Ascanio fu costretto a ricercare della matrigna e a cedere ad essa ed al figliuolo Silvio il governo della città di Lavinio, che essa tenne fino alla morte di Ascanio, epoca in cui risalì sull’antico trono degl’avi suoi, che poi ella trasmise ai suoi successori, non lasciando ai discendenti di Ascanio, che la dignità ereditaria di sommo sacerdote.
2455. Lavinio. — Fu questo il nome di una città che Enea edificò, secondo il dettato dell’oracolo, in onore di Lavinia sua sposa. Vedi l’articolo precedente.
2456. Laurentali. — V. Larentali.
2457. Laurentini. — Nome col quale primiti vamente venivano additati alcuni antichi popoli italiani, che taluni scrittori vogliono che fossero gli stessi abitatori del Lazio, sudditi del re Latino.
Un’ antica tradizione alla quale si attiene Virgilio stesso, ripete che nel palazzo del re sorgeva un albero d’ alloro, il quale, per essere secolare, era tenuto con certo religioso rispetto ; e che avendolo il re trovato colà dove avea deciso di fabbricare la sua reggia, lo avesse consacrato ad Apollo Febo. Da ciò si vuole che i Laurentini avessero presa la loro denominazione.
…..Era un cortile in mezzoA le stanze reali, ove un gran lauroGià di gran tempo consecrato e coltoCon molta riverenza era serbato.Si dicea che Latino esso re stessoNel desiguare i suoi primi edifizi,Là’ ve trovollo, di sua mano a FeboL’avea dicato ; e ch’indì il nome diedeA’ suoi Laurenti.Virgilio — Eneide — Libro VII trad. di A. Caro.
2458. Laziale. — Dal costume che avevano alcune città del Lazio di sagrificare a Giove durante le feste latine, si dava codesto soprannome di Laziale ad una statua fatta scolpire da Tarquinio il superbo, e che sorgeva sopra un’alta montagna, nelle circostanze della città di Alba ; propriamente dove si tennero poi le adunanze per le feste latine.
Da quanto riferiscono le cronache dell’ antichità, si rileva che i romani sacrificavano a Giove Laziale annualmente una vittima umana ; sebbene avessero preteso dai cartaginesi che non avessero più sacrificato i propri figliuoli al loro dio Saturno.
2459. Laziar. — Nome proprio della festa istituita da Tarquinio il superbo, in onore di Giove Laziale. La origine di questa solenne cerimonia dei romani ebbe principio dal fatto seguente.
La cronaca tradizionale asserisce, che avendo il re Tarquinio conchiuso un trattato di alleanza coi latini, volle, per eternare la memoria del fatto, che si fosse fabbricato uno splendido tempio comune, ove gli alleati latini, romani, volsci, si fossero radunati una volta l’ anno ad epoca fissa, onde solennizzare una festa e {p. 289}compiere una cerimonia religiosa. Fu questa l’istituzione primitiva della festa Laziar, il cui periodo fu, da principio, di un giorno solo : poi al tempo dei primi consoli, la cerimonia Laziar ebbe due giorni di durata : quando il popolo romano ritrattosi sul monte sacro, fece ritorno in città, fu fissato a tre giorni il periodo della festa Laziar, e finalmente furono definitivamente assegnati quattro giorni alla celebrazione di essa, in memoria della sedizione calmatasi nel popolo, quando la plebe pretese d’ aver parte nelle elezioni del consolato. I quattro giorni del Laziar formavano le cosidette ferie latine.
2460. Lazio. — Ossia contrada dei latini. La tradizione ripete, a proposito del nome di questo paese, che deriva dalla parola latina latere, nascondersi, essendosi Saturno nascosto in quella parte d’Italia, dove regnava Giano, allorquando Giove lo scacciò dal cielo.
2461. Leandro. — Amante di Ero : egli mori annegato nell’ andare a trovare la donna dell’amor suo. V. Ero.
2462. Leargo. — Figlio di Atamante e di Ino e discendente della stirpe di Cadmo. Egli fu vittima del geloso odio di Giunone, la quale perseguitò tutti i discendenti di Cadmo. Leargo fu ucciso dal proprio padre, che Giunone aveva a tale scopo colpito di un accesso di furore.
2463. Leche. — Figlio di Nettuno, e della ninfa Pirene. Egli diede il proprio nome ad uno dei porti di Corinto, conosciuto sotto la denominazione di porto Lecheo.
2464. Lecori. — Secondo alcuni scrittori era una delle tre grazie, venendo alle altre due data l’appellazione di Comassia e Gelassia. Però questa opinione di qualche autore, non è la più generalizzata su queste tre famose dee dell’Olimpo pagano. V. Grazie.
2465. Leda. — Figlia di Testio e moglie di Tindaro re d’ Ebalia, e secondo altri autori, di Sparta.
La tradizione mitologica racconta di lei che Giove l’amò perdutamente a causa della sua stupenda bellezza ; e che avendola un giorno veduta mentre si bagnava nelle acque del fiume Eurota in Laconia, si fosse trasformato in cigno ed avesse ordinato a Venere di cangiarsi in aquila e fingere d’inseguirlo, ond’egli avesse potuto, senza sospetto, dar sfogo all’amoroso desiderio onde ardeva per la bellissima Leda. Infatti la sua divina volontà fu compiuta, e il cigno perseguitato dall’ aquila andò a ricoverarsi nel seno di Leda, la quale dopo nove mesi dette alla luce un uovo, da cui, secondo alcuni scrìttori, uscirono i due divini gemelli Castore e Polluce. Però codesta opinione dei cronisti si trova sovente combattuta da altri chiarissimi autori, i quali pretendono che le uova partorite da Leda fossero due, e che da uno uscissero Castore e Polluce, e dall’altro Elena e Clitennestra.
Tindaro Re d’ Ebalia fu consorteDi Leda, la qual Testio ebbe per padre ;Giove in forma di Cigno oprò di sorte,Che d’ un uovo e tre figli la fè madre,Fra gli altrì di quell’ uovo usci la morteDelle superbe già Trojane squadre :Ovidio — Metamorf. — Libro VI trad. di dell’ Anguillara.
Gran numero degl’ autori antichi han confuso Leda con Nemesi. Fidia, l’immortale scultore della Grecia antica, rappresentò su d’un bassone rilievo d’una statua di Nemesi, Leda in atto di condurre Elena a quella dea. Pausania pretese che Leda altro non fosse se non la nutrice di Elena. Altri autori finalmente vogliono che Nemesi stessa, avesse partorito un uovo, il quale trovato e covato da Leda, si fosse poi schiuso ed avesse dato alla luce Castore, Polluce ed Elena.
2466. Leena. — Più comunemente conosciuta sotto il nome di Leona. Fu una famosa cortigiana d’ Atene, la quale al tempo che la sua patria gemeva sotto il ferreo giogo d’ Ippia tiranno, posta in carcere con altri, sospetti di congiura, temendo di cedere al dolore dei tormenti, si troncò coi denti la lingua, e la sputò in volto al carnefice, intento a martoriare il suo bellissimo corpo.
Qualche ora dopo l’ eroica donna moriva, orribilmente straziata ; ma i suoi numerosi complici furono salvi perchè essa seppe mantenere il silenzio.
Caduta la dinastia dei Pisistrati, gli Ateniesi eressero una statua alla cortigiana Leona, facendola rappresentare sotto la figura di una Leonessa, che avea tronca la lingua.
2467. Lelapo. — Al dire d’ Ovidio e di molti altri scrittori dell’ antichità, così avea nome il cane che Procri regalò a Cefalo, quando questi mosse alla caccia della mostruosa volpe, che, secondo la cronaca, desolava le campagne di Tebe.
Il mioLelapo (che del cane a me donatoTal era il nome) ad una voce é chiesto.Ovidio — Metamorf : — Libro VII. Fav. XI trad. del Cav. Ermolao Federico.
{p. 290}Ripete la tradizione a cui si attiene il citato poeta, che offesa Temi per la morte della sfinge, e per vedere spiegati i suoi oracoli, mandò nelle campagne di Tebe un’ enorme volpe, la quale produsse tante morti, che tutta la nobiltà tebana e delle circonvicine città si riunì onde darle caccia. Sulle peste del mostruoso animale fu slanciato il famoso cane di Cefalo chiamato Lelapo, il quale aveva un così rapido corso, che appena fu sguinzagliato contro la volpe che la seguitò così da vicino, che sembrava ad ora ad ora avesse potuto addentarla, ma non riusciva a stringere che l’ aria. Finalmente dopo una lunghissima corsa, i due animali furono cangiati in due figure di marmo, una in sembianza di animale fuggente, e l’ altra in atto di latrare inseguendo. Questo prodigio fu detto avvenisse per volontà di qualche nume, che non avea voluto permettere che uno dei due maravigliosi animali rimanesse vinto.
Al luogo istesso, (o meraviglia !) in mezzoA’ campi io veggo due marmoree forme.L’ una fuggir, l’ altra latrar ti sembra.Così pìacque ad un nume (se del fattoQualche nume ebbe cura) che le belveRestassero ambedue nel corso invitte.Ovidio — Metamorf. — Libro VII Fav. XI. trad. del Cav. Ermolao Federico.
Nei fasti della mitologia è ripetuto che il cane Lelapo era stato formato da Vulcano, che ne fece un dono a Giove, il quale al tempo dei suoi amori con Europa lo regalò alla sua concubina. Con l’ andare del tempo il re Minosse l’offrì in dono a Procri, il quale poi finalmente lo donò a Cefalo, per la famosa caccia della volpe di Tebe.
2468. Lemno. — Conosciuta anche sotto l’appellazione di Lemnos, isola del mare Egeo ove, secondo la tradizione mitologica cadde Vulcano, allorchè Giove suo padre lo precipitò dal cielo con un calcio. La cronaca favolosa narra che i Lemni lo avessero ritenuto in aria, impedendogli così di fracassarsi nella caduta, e che Vulcano, in ricompensa di tale servigio, avesse preso quell’ isola sotto la sua protezione,
Mentre in Eolia era a quest’ opra intentoDi Lenno il padre,………Virgilio — Eneide — Libro VIII trad. di A. Caro.
e v’ avesse stabilito le sue fucine, ove insieme ai Ciclopi fabbricava i fulmini per la destra vendicatrice di Giove.
2469. Lemuri. — Detti anche con un’appellazione complessiva larve, specie di genî malefici, che i pagani adoravano, credendo che fossero le anime dei cattivi che tornassero a tormentare i viventi. In Roma si celebravano alcune cerimonie o feste dette Lemurie e anche Lemurali, il cui scopo era quello di placare codeste anime irrequiete. I romani credevano fermamente che il mezzo più efficace per allontanare i lemuri fosse quello di abbruciare delle fave, ritenendo che l’ acre odore di quegli arsi legumi, riuscisse loro insopportabile.
Durante il periodo delle feste Lemurie, che ricadevano nel mese di maggio, e si celebravano di notte, non era permesso in Roma contrar matrimonio e tutti i templi rimanevano chiusi.
La istituzione delle feste Lemurie, che Ovi dio chiama feste notturne o degli spettri, viene dalle cronache dell’ antichità attribuita a Romolo, che volle con quelle cerimonie, placare l’ ombra di Remo, suo fratello, da lui ucciso. È questa la ragione per la quale molti autori han creduto che la parola Lemuri derivasse da Remures, ossia feste in onore di Remo.
2470. Leneo. — Dalla parola greca ληὑς che significa torchio, si dava questo soprannome a Bacco, da alcune feste in suo onore celebrate nell’ Attica, verso la fine dell’ autunno, e propriamente all’ epoca della vendemmia, ond’ è che il mese consacrato a questa operazione agricola, veniva dai pagani chiamato Leucone. Durante le feste di Bacco Leneo i poeti dell’antichità, facevano a gara nel comporre versi e commedie.
2471. Leonidee. — Ad eternare l’invitto coraggio di Leonida e dei suoi trecento spartani, per la difesa del passo delle Termopili, si celebravano nella Lacedemonia delle feste, a cui si dava il nome di Leonidee.
2472. Leontiche. — Solenni cerimonie religiose della Persia — V. Mitriache.
2473. Leo. — Uno degli eroi della Grecia. Al dire di Pausania egli fu innalzato agli onori eroici per aver, dietro consiglio dell’oracolo, sagrificata la vita delle proprie figliuole, per salvare la patria.
2474. Lepreade. — Conosciuto anche sotto il nome di Lepreo, fu nipote di Nettuno e figlio di Glaucone e di Astidamia. Narra la cronaca che Lepreo d’accordo col re Augia, avesse stabilito di legare Ercole, allorchè questi dopo aver nettate le famose stalle di quel re — Vedi Ercole — si sarebbe a lui presentato, onde avere la ricompensa promessa. Da quel tempo {p. 291}Ercole cercò tutte le occasioni, onde vendicarsi di Lepreo, ma Astidamia, madre di questo, lo riconciliò con l’ eroe, col quale passato qualche tempo sostenne una triplice sfida, prima al giuoco del disco ; poi a chi fra i due avesse attinto maggior copia d’acqua in un dato periodo di tempo ; e finalmente a chi avrebbe bevuto più vino. Ercole vinse sempre in tutti gli esercizii, per modo che Lepreo, ebbro di collera e di vino, sfidò Ercole ad un particolare combattimento, e rimase ucciso da quell’ eroe.
2475. Lerna. — Antichissimo lago nel territorio di Argo, il cui circuito al dire di Pausania era di un terzo di stadio, misura che corrisponde alla ventiquattresima parte di un lega francese. Nei fasti della mitologia, il lago di Lerna è celebre per la famosa Idra che fu uccisa da Ercole e che formò una delle dodici fatiche dell’ eroe, sebbene la cronaca dice, che avendo Iolao accompagnato Ercole nel combattimento con l’Idra dalle sette teste, non volle Euristeo ammettere nel numero delle dodici fatiche, alle quali il destino avea sottoposto Ercole, anche l’ uccisione della terribile Idra. V. Ercole. Euripide dice, che l’arme della quale Ercole si servì per uccidere il mostro era una falce d’oro. Al dire di Platone ; l’Idra di Lerna altro non era, che la simbolica configurazione d’un sofista nemico di Ercole, il quale si scatenò contro l’eroe, e che le sette teste rinascenti a misura che venivan recise, altro non fossero che i cattivi ragionamenti e i falsi raziocinii di cui si serviva il detrattore dell’ eroe.
Fra gli autori antichi però, quello che ci ha trasmesse più dettagliate notizie sul lago di Lerna, è Pausania, il quale asserisce che gli argivi pretendevano che fu da questo lago che Bacco discendesse all’inferno, onde ricondurre sulla terra la madre Semele. Il certo si è che ai tempi in cui scriveva il cennato storico, non si era mai potuto toccare il fondo del lago di Lerna, qualunque fosse stata la macchina adoperata a tale uopo. L’imperatore Nerone stesso non riusel a misurare la profondità di quelle acque.
Finalmente lo stesso Pausania aggiunge che le onde del lago di Lerna, che giacevano sempre, all’apparenze, in una immobilità assoluta, quando si era a mezzo del lago, turbinavano così rapidamente ch’era impossibile nuotare in quelle senza rimanere immancabilmente annegati.
2476. Lernee. — Nella città di Lerna, nel territorio di Argo, si celebravano in onore di Bacco e di Cerere alcune feste o misteri dette Lernee, nei quali si compivano tali mostruose oscenità, che lo stesso storico Pausania dice, non poterle divulgare senza sentirsi ardere la fronte dal rossore della vergogna.
2477. Lesbo. — Isola del mare Egeo, celebre per aver dato i natali alla famosa poetessa Saffo. Gli abitanti di Lesbo avovano la barbara costumanza di sacrificare a Bacco delle vittime umane.
2478. Lestrigoni. — Antichi popoli della Sicilia, che le cronache ci presentano come antropofagi. Narra la cronaca, che allorquando Ulisse giunse sulle spiagge della Lestrigonia, mandò due dei suoi seguaci verso il re del paese, per nome Antifate. Ma i messaggieri all’ingresso della reggia trovarono la moglie del re, la cui speventevole vista gli inorridì per modo che essi vollero ritornare sui loro passi, essendo ella, secondo la tradizione favolosa, alta come una montagna.
Tocco ne avean il limitare appena,Che femmina trovar di si gran mole.Che rassembrava una montagna ;….,Omero — Odissea — Libro X. Trad. di I. Pindemonte.
Non appena la mostruosa donna vide i due stranieri, chiamò a sè il marito Antifate, il quale non appena li ebbe raggiunti se ne mangiò uno, e chiamando i suoi Lestrigoni fece raggiungere l’ altro fuggitivo, ordinando gli fosse preparata un’ orribile morte.
Costei di botte Antifate chiamavaDalla pubblica piazza, il rinomatoMarito suo, che disegnò lor tostoMorte barbara e orrenda. Uno afferronne,Che gli fu cena ;Omero — Odissea — Libro X. trad. di I. Pindemonte
L’immane voce del mostruoso signore rimbombò per tutta l’ isola, sì che i Lestrigoni dall’alto delle rupi schiacciarono a colpi di sassi i seguaci d’ Ulisse, e quelli che non morirono sotto le pietre furono infilzati come pesci e imbanditi ad un orrendo banchetto. Il solo Ulisse, che non era ancora sbarcato, potè allontanarsi precipitosamente dall’ orribile scena, lasciando su quel luogo di morte più della metà dei suoi compagni.
….. I Lestrigoni l’ udiro,E accorrean chi da un lato e chi dall’ altroForti di braccio, in numero infiniti,{p. 292}E giganti alla vista. Immense pietreCosi dai monti a fulminar si diero,Che d’uomini spiranti e infranti legniSorse nel porto un suon tetro e confuso,Ed alcuai infilzati eran con l’aste,Quali pesci guizzanti, e alle feraliMense future riserbati.Omero — Odissea — Libro X. Trad. di I. Pindemonte.
2479. Letea. — Moglie di Oleno. Narra la cronaca, che essa insuperbita della propria bellezza, osò vantarsi d’esser più bella delle immortali : onde gli dei sdegnati la condannarono ad esser trasformata in sasso. Oleno suo marito che amava passionatamente Letea volle addossarsi la colpa, ma non riuscì che a dividere il castigo di lei, imperocchè fu anch’egli cangiato in rupe.
O ad Oléno simil, che a sè medesmoAffibbiò l’altrui colpa, e che fu vagoDi reo mostrarsi : o a te, Letéa, simile,Misera, troppo in tua beltà superba :Con saldissimo nodo un giorno stretti,Ora pietre sul dorso all’Ida acquosa.Ovidio — Metamorf : — Libro X Fav. I. trad. del Cav. Ermolao Federico
2480. Lete. — Uno dei fiumi dell’inferno detto anche fiume dell’ oblio, le cui acque avevano, secondo i pagani, il potere di far dimenticare. V. Fiumi dell’ inferno.
Al dire di Virgilio, le onde Letee irrigavano i campi Elisi, e sulle rive di esso si aggirava del continuo una sterminata folle di ombre di tutti le nazioni dello universo, anelando di tuffarsi in quelle acque, e bere in esse il completo oblio del passato.
A piè di questa era di Lete il rioCh’ai dilettosi e fortunati campiCorre davanti, e piene avea le ripeDi genti innumerabili…….Virgilio — Eneide — Libro VI trad. di A. Caro.
Coloro che ammettevano la metempsicosi, credevano che le anime che avessero bevuto l’acqua di Lete, erano destinate a ritornar sulla terra ad animare altri corpi ; ma che doveano aggirarsi per lo spazio di mille anni nel vuoto prima di esser ohiamate a bere l’oblio nelle onde letee.
Elasso questo tempo, ritornavano sulla terra trasfuse in altri corpi.
Quest’ alme tutte, poichè di mill’ anniHan volto il giro, alfin son qui chiamateDi Lete al fiume, o’ n quella riva fannoQual tu vedi colà, turba e concorso.Dio le vi chiama, acciò ch’ivi depostoOgni ricordo, men de’ corpi schive,E più vaghè di vita un’ altra voltaTornin di sopra a riveder le stelle.Virgilio — Eneide — Libro VI trad. di A. Caro
Lete era similmente il nome di uno stagno paludoso vicino al lago Cherone in Egitto ; il cui nome si dice in greco ëåäçò e significa oblio, ha dato forse principio alla favola allegorica di questo fiume della dimenticanza.
Anche in Africa v’era un fiume conosciuto sotto l’appellazione di Lete, che metteva foce nel Mediterraneo, vicino al capo delle sirti, e del quale la tradizione mitologica ripete, che dopo aver corso per una sufficiente lunghezza, scompariva ad un tratto rientrando nella terra, per poi ricomparire, ricco di abbondanti acque, vicino alla città di Bereniee.
Fu questa forse la ragione che fece ritenere dalla superstione pagana, che il fiume Lete sca turiva dall’inferno.
Da ultimo la tradizione mitologica aggiunge, che nell’isola di Creta, correva un fiume a cui fu dato (il nome di Lete, dopo che Ermione, avendo bevuto di quell’acqua, dimenticò il marito Cadmo.
2481. Lettisternio. — Solenne ed imponente cerimonia religiosa, che i romani compivano, con grandissimo rispetto, in tempo di pubblica calamità, e il cui scopo era quello di placare lo sdegno terribile degli dei.
Consisteva il Lettisternio in un sontuoso e splendido banchetto, che per più giorni, in nome ed a spesa della repubbblica, si dava alle principali divinità, ed in uno dei loro templi, credendosi che gli dei, a cui veniva offerto il banchetto vi aversero preso parte ; e ciò perchè si offriva di ogni vivanda alle diverse statue di quei numi, in onore de’ quali si faceva il Lettisternio. Nel tempio ove la cerimonia si compiva veniva drizzata una splendida mensa, circondata di piccoli letti, coperti di ricchi tappeti, e seminati di flori e di erbe odo rose ; sovra ognuno di quei letti veniva posta la statua di quel nume che prendeva parie al convito, mentre il posto delle dee era contrasegnato da una semplice sedia.
{p. 293}Il primo Lettisternio fu solennizzato in Roma e propriamente nell’ anno 356 della sua fondazione. Un rigido e pessimo inverno, seguito da un’estate ancor più cattiva ; una qualche epidemica influenza, fece morire un’enorme quantità di bestiame, e siccome il flagello prendeva ogni giorno più consistenza, il senato decretò che si fossero interrogati i libri sibillini. Infatti i sacerdoti risposero, che per far cessare il castigo, bisognava celebraré una festa con uno splendido convito, offerendolo a sette divinità. Almeno così ci ammestra Tito Livio, nella åõå Storia Romana.
Segui dopo la spiacevol vernata una pestilente state, per ogni sorta di animali ; ovvero dalla stemperanza dell’ aria, per la subita mutazioue in contrario, ovvero per qualche altra cagione : per la quale insanabil malattia, posciacchè né cagione, nè fine alcuno si trovava, per deliberazione del senato si videro i libri sibillini. I due nomini preposti alla cura de’ sacrifizii attesero per lo spazio di otto giorni a placare col lettisternio, fatto allora la prima volta nella città di Roma. Apolline, Latona, Diana, Ercole, Mercurio e Nettuno, et. etc.
Tito livio — Storia Romana — Libro V.
Da principio il Lettisternio ebbe la durata di otto giorni, e l’ordinamento di tutta la cerimonia fu affidato ai sacerdoti Deuumviri, i quali furono in seguito sostituiti dagli Epuloni. I più illustri cittadini ritenevano come un onore essere invitati a quella cerimonia, e in tale occasione lasciavano la porta delle proprie case aperta, con la libertà a ciascuno di servirsi di quanto occorresse. L’ospitalità veniva esercitata riguardo ad ogni classe di persone tanto note che sconosciute ; e tale sentimento di ospitalità veniva spinto tant’ oltre, durante il tempo del Lettisternio, che ogni antico rancore spariva e si videro uomini fra loro mortalmente nemici, conversare e mangiare insieme : infine ogni litigio aveva termine ; si toglievano i legami ai prigionieri e tutta la città assumeva un’ aria di pace e di riposo.
Lo stesso storico Tito Livio, di cui riportammo più sopra una classica citazione, fa similmente menzione di un terzo Lettisternio egualmente celebrato in Roma, onde implorare dai numi la fine di una terribile pestilenza.
Ma, al dire del cennato autore, questa cerimonia riusci completamente inefficace, per modo che si dovè ricorrere ad altra divozione per raggiungere lo scopo desiderato ; e questa fu la istituzione dei giuochi scenici, V. Giuochi, nella speranza che non essendosi fino allora veduti in Roma tali rappresentazioni, sarebbero state atte a placare la collera degli dei.
Anche Valerio Massimo, ricorda di un Lettisternio, celebrato in onore di tre sole divinità, cioè, Giove, Giunone e Mercurio ; aggiungendo la particolarità che, intorno al banchetto del convito, era posto un solo letto, con la statua di Giunone, mentre quelle di Giove e di Mercurio, erano poste sopra due sedie.
Similmente il cronista Arnobio, fa menzione di un Lettisternio celebrato solamente in onore della dea Cerere.
Gran numero di autori ha ritenuto il Lettisternio come un’ istituzione individualmente romana ; ma vi è stato pure fra gli scrittori tanto antichi che moderni, e fra questi il critico Casauvono, che han dimostrato essere il Lettisternio in uso anche in Grecia. Lo stesso Pausania riferisce, in varii brani delle sue opere, di alcuni cuscini detti Pulvinaria che nei conviti eran posti sotto le statue degli dei e degli eroi.
Lo Spon, nel suo viaggio della Grecia, scrive che nella città di Atene si vedeva ancora il Lettisternio d’Iside e di Serapide, consistente in un letto di marmo alto un piede e lungo due, e sul quale stavano ancora sedute le statue di quelle due divinità.
2482. Levana. — Divinità tutelare dei bambini, il suo nome deriva da una costumanza generalizzata presso tutti i pagani, i quali, appena una donna aveva partorito, posavano sulla nuda terra il neonato, e bisognava che il padre, o in sua assenza taluno che lo rappresentasse, lo avesse immediatamente preso fra le sue braccia, levandolo dalla terra, senza di che il bambino passava per illegittimo.
Al dire del cronista Vossio, la dea Levana era la stessa che Ilizia o Lucina.
2483. Leucadio — Da un tempio che Apollo aveva sulla spiaggia di Epiro, nell’isola di Leucade, si dava codesto soprannome a quel dio.
2484. Leucade. — Promontorio dell’Acanania, vicino alla città di Azio, ove Apollo veniva particolarmente adorato. La tradizione ripete che fu a Leucade che Enea fece celebrare i famosi giuochi funebri, in onore di suo padre Anchise.
2485. Leuce. — Isola del Ponto Eusino, della quale la tradizione mitologica ripete, che gli antichi avevano formata una specie di Campi Elisi, ove ritenevano che dimorassero le anime degli eroi.
Al dire di Pausania, Achille aveva un tempio ed una statua in quell’isola, nella quale, secondo il citato scrittore, il primo a penetrare fu certo Leonimo di Crotona. Narra la cronaca, che quando ardeva la guerra fra i Locresi ed i Crotoniati, quelli, a motivo della loro affinità cogli Oponzii, ricorsero ad Aiace figliuolo {p. 294}d’Oileo. Appiccatasi la battaglia, Leonimo a capo dei Crotoniati, attaccò i nemici, venendo alle mani con un forte drappello di soldati, ch’ egli supponeva comandati da Aiace stesso, ma ferito mortalmente nel petto, dovè ritrarsi dalla batglia ; e siccome qualche tempo dopo, la ferita gli cagionava insopportabile dolore, egli si fece trasportare a Delfo, onde consultare quell’oracolo. La Pitia gli rispose che avrebbe dovuto recarsi nell’isola di Leuce, ove Aiace stesso lo avrebbe risanato del tutto. Infatti qualche tempo dopo, avendo seguito il dettato dell’ oracolo, eg’i risanò interamente. Da quell’ epoca si sparse fra i Crotoniati la voce che Leonimo aveva detto d’aver visto coi proprii occhi nell’isola di Leuce, i due Aiaci, Achille, Patroclo, ed Elena stessa, la quale sposata ad Achille, aveva parlato a Leonimo, dicendogli che appena giunto ad Imera avesse avvertito il poeta Stesicoro che egli aveva perduta la vista per effetto della collera di lei.
Così almeno ripete la tradizione mitologica a cui si attiene lo stesso Pausania.
2486. Leucippidi. — Nome collettivo deile due figliuole di Leucippo, dette Febea ed Ilaria che furono rapite da Castore e da Polluce. V. Ilaria e Febea.
È a notare che varii autori dell’ antichità, chiamano la prima di queste due famose sorelle semplicemente Febe.
2487. Leucippo. — Padre di Febea e d’Ilaria. V. Leucippidi.
Leucippo si chiamava similmente un figliuolo di Oenomao, re di Pisa, il quale, secondo riferisce Pausania, amò perdutamente la giovanetta Dafne ; ma sapendo la grande avversione che essa nudriva per tutti gli uomini in generale, pensò che piuttosio che richiederne inutilmente la mano, che ella certo gli avrebbe negata, valeva meglio ricorrere ad uno stratagemma, e avvalersi dell’ astuzia. Infatti Leucippo, sotto pretesto di fare dei propri capelli un sacrifizio al fiume Alfeo, se li lasciò crescere a modo di donna, e rivestito un abito femminile, andò a ritrovar Dafne, e presentatosi a lei come figlia di Oenomao, le chiese di volerle concedere che l’accompagnasse alla caccia. Dafne delusa dalle apparenze, concesse a Leucippo di far parte del suo seguito ; e siccome egli, se pure vestito da donna conservava tutta la sua forza e la sua destrezza, e non trascurava nulla per tornar bene accetto a Dafne, così avvenne che ben presto si acquistò tutta la grazia di lei. Apollo intanto che anch’egli avea concepito un ardente desiderio d’amore per la bellissima Dafne, sdegnato per vedersi respinto, e preferito Leucippo, per vendicarsi ispirò a Dafne e alle compagne di lei il desiderio di bagnarsi nelle acque del fiume Ladone. Leucippo allora dovè, come tutte le altre giovanette seguaci di Dafne, spogliarsi delle sue vesti e discendere nel fiume ; ma appalesatosi il mistero che egli ascondeva, fu ucciso a colpi di puguale e di frecce.
V’ à qualche autore che da questa tradizione toglie solamente l’intervento di Apollo, rimanendo tutto il fatto nella sua completa integrità. In quanto a noi, non essendo del carattere della nostra opera far disamina nelle differenti opinioni dei classici scrittori dell’antichità, abbiamo riportato l’avvenimento tal quale ce lo ripetono le cronache.
2488. Leucofrina. — Uno dei soprannomi di Diana che a lei veniva da un luogo, sulle rive del fiume Meandro, nella contrada della Magnesia, ov’essa aveva un tempio, in cui si adorava una sua statua che la rappresentava col seno coperto di più mammelle, e col capo coronato da due vittorie.
2489. Leucosia. — Una delle Sirene. Riferisce Strabone, che quando essa e le sue compagne si precipitarono in mare, fu da questa che l’isola del mar Tirreno, sulla spiaggia occidentale d’Italia ; fu detta similmente Leucosia.
2490. Leucotea. — Figlia di Orcamo, settimo re dell’ antica stirpe di Belo. Leucotea si rese famosa per la sua stupenda bellezza, che vinceva d’assai quella della madre di lei, ritenuta anch’essa come una delle più belle donne dei suoi tempi.
….. Leucotea proleD’Eurinome la prima per beltadeTra le genti odorifere ; ma quandoCrebbe la figlia, come vincea tutteLa madre, dalla figlia era si vinta.Le Achemenie cittadi ebbe in governoOrcamo il padre : settimo costuiDalla stirpe scendea prisca di Belo.Ovidio — Metamorfosi — Libro IV. Fav. III. trad. del Cav. Ermolao Federico
Narra la cronaca mitologica che Apollo innamorato della straordinaria bellezza di Leucotea, avesse preso le sembianze di Eurinome madre di lei, onde avere libero accesso presso la desiderata giovinetta. Orcamo intanto, avvisato da certa Clizia del tranello che per amore gli faceva Apollo, cieco di furore, e cedendo alle perfide insinuazioni, che per gelosia del divino amante, l’abbandonata Clizia gli suggeriva, ordinò che Leucotea fosse sotterrata viva, e fosse gettato sul corpo di lei un monte di sabbia. Apollo fece di tutto per salvare {p. 295}dell’ordibile morte la sua diletta, ma non avendo poluto strapparla dalle mani dei suoi carnefici, perchè il destino si oppose, asperse di nettare il bellissimo corpo della sua amata, e la terra che lo ricopriva ; dalla quale surse come per incanto, quell’ albero che produce l’incenso.
Il mito allegorico che racchiude in sè codesta favola fisica, viene così spiegato dalla generalità dei naturalisti. L’albero che produce l’incenso si chiama egli stesso Leucotea. Orcamo che fu padre di questa giovanetta, fu il primo che fece piantare alcuni alberi d’incenso nel suo regno. Apollo, ossia il Sole, ama ardentemente Leucotea perchè l’incenso si produce solo in gran copia da quelle piante, che ricevono largamente i raggi del Sole. E finalmente la gelosia di Clizia, che fu cangiata in girasole, viene raffigurata dalla qualità che i naturalisti assegnano al girasole, di far cioè, morire l’albero che produce l’incenso.
2491. Leucotoe. — La stessa balia di Bacco conosciuta sotto il nome di Ino, alla quale gli dei dettero il nome di Leucotoe, quando essa fu annoverata fra le divinità marittime. Nella città di Corinto ella aveva un magnifico altare in un tempio dedicato a Nettuno. Similmente in Roma veniva adorata la dea Leucotoe in un tempio ove la dame romane andavano a pregare pei proprii figliuoli. Era severamente proibito alle donne schiave di entrare in quel tempio, e se per disavventura veniva una di esse sorpresa in quel vietato recinto, la disgraziata moriva uccisa a colpi di bastone sull’altare della dea Leucotoe, conosciuta anche col nome di Matuta V. Matuta.
2492. Lia. — Appellazione particolare che gli abitanti della Sicilia davano alla Luna, credendo che essa li avesse liberati da una epidemia.
2493. Liagora. — Una delle cinquanta Nereidi.
2494. Liba. — Uno degli eroi greci, compagno e seguace di Ulisse, di cui la cronaca antica si è largamente occupata. Caduta la città di Troia, Ulisse ritornando in patria accompagnato dai suoi seguaci, fu assalito da una violenta tempesta e gettato sulla spiaggia italiana, nel paese dei Bruzî, ove dopo molti pericoli, giunse coi suoi a prender terra a Temessa. Calmatisi gli spiriti, Ulisse offrì ai suoi compagni uno splendido banchetto, ove Liba si inebbriò per siffatto modo, che nel tripudio osò violentare una giovanetta nativa di Temessa. Istrutti gli abitanti del turpe atto di Liba, lo afferrarono e legatolo ad un albero, lo lapidarono. Ma ben presto ebbero a pentirsi d’aver ceduto al furore, imperocchè l’ombra dell’ucciso, tormentò da quel giorno e perseguitò così implacabilmente gli abitanti di Temessa, fra cui portò la desolazione e sovente la morte, che il popolo in rivolta decise di abbandonare la propria città.
Prima però di mettere in atto il concepito divisamento, fu stabilito d’interrogare l’oracolo di Apollo, e la pitonessa che comunicava i responsi, ordinò agli abitanti di restare nella loro città e di placare con sacrifizii ed offerte la corrucciata ombra dell’ eroe, a cui bisognava dedicare un tempio circondato da un bosco sacro, e offerire ogni anno la più bella vergine del paese. I temessiani si sottomisero colla passiva obbidieuza della superstizione, a quanto imponeva l’oracolo temuto ; e l’irrequieta ombra di Liba lasciò in pace i suoi uccisori. Aggiunge la tradizione che trovandosi in Temessa un atleta per nome Eutimo, nel tempo stesso in cui dovea compiersi l’annuale sacrifizio della vergine, egli entrò nel tempio e vide una bellissima giovanetta che inginocchiata sull’ ara aspettava rassegnata la morte.
A tal vista Eutimo, altamente commosso, penetrò fino dappresso la giovanetta e le promise di liberarla se le avesse giurato amore, cosa alla quale essa condiscese, come s’intende ben facilmente.
Eutimo infatti, secondo la cronaca favolosa, combattè col genio di Liba, e avendolo vinto, liberò la città di Temessa dalle persecuzioni di lui, che disperato d’esser stato vinto, si precipitò nel mare ed Eutimo sposò la giovanetta che avea così miracolosam ente salvata.
2495. Libazioni. — Cerimonie proprie di tutti i sacrifizii dei pagani. Il sacerdote che presiedeva alla cerimonia, spargeva del vino, del latte e sovente altro liquore in onore di quel nume a cui si sacrificava. È a notare che presso gli antichi assai di sovente tutto il sacrifizio consisteva in una semplice libazione, mentre le libazioni accompagnavano sempre tutti i sacrifizii.
Quando l’uso del vino non era generalizzato a tutta la Grecia, le Libazioni si facevano con l’acqua pura. L’uso delle Libazioni fu ereditato dagli ebrei, mentre si vede dalla Bibbia e dagli altri libri sacri della religione ebraica, che il dio di Mosè aveva comandate le Libazioni al popolo d’Israello.
E formerai ancora d’oro purissimo le scodelle e le caraffe, i turiboli e le coppe onde offerire le libagioni.
Martini — La Sacra Bibbia — L’Esodo Cap. XXV.
Note alla Bibbia — Le libagioni, che erano quasi appen dici e condimenti del sacrifizio, sono fior di farina, olio, vino, sale, incenso.
Numeri Cap. XV.
{p. 296}2496. Libentina. — Dea delle dissolutezze. Il suo nome, viene secondo Varrone, dalla parola libendo da cui poi provennero gli altri due vocaboli libido e libidinosus. È opinione di alcuni scrittori, che la dea Libentina, detta anche Libertina, altro non fosse che una configurazione della dea di Venere, a cui le giovanette, giunte ad una certa età consacravano i giuochi della infanzia. Plauto chiama dea Lubentina quella divinità che permetteva di fare tutto ciò che piaceva.
2497. Libera. — Dea che assai di sovente viene confusa con Proserpina. Cicerone la fa figliuola di Cerere e di Giove, mentre Ovidio dice che la dea Libera altro non era che Arianna deificata dopo la morte, con tal nome, dal dio Bacco.
Tu a me consorte, non vogl’io che privaDi nome sii compagno al mio : ti appellaLibera in avvenir cangiata in diva.Ovidio — I. Fasti — Libro III. trad. di Giovan Battista Blanchi
2498. Liberali. — Feste celebrate dai romani nel giorno 17 marzo in onore del dio Bacco. Sebbene codeste cerimonie fossero, al paro dei baccanali, un pretesto a commettere le più turpi dissolutezze, pure non bisogna confonderle con quelli. Durante le Liberali si portava per la città e per le campagne un Fallo in trionfo sopra d’un carro ; mentre coloro che accompagnavano e seguivano la sconcia processione, cantavano le più licenziose canzoni e tenevano i più osceni propositi. Quando il carro era giunto sulla maggior piazza della città, una matrona incoronava innanzi a tutti il turpe emblema, che si portava in trionfo. Si credeva così di rendere il dio Libero favorevole alla seminagione, e e di allontanare dalla terra ogni sortilegio.
2499. Liberie. — Altre feste in cui i giovanetti lasciavano la veste dell’infanzia, e rivestivano la toga libera. Usavano i pagani di celebrare codeste cerimonie con grande solennità e vi erano invitati tutti gli amici, come alle nozze.
2500. Liberalità. — I romani avevano personificata codesta virtù, la cui effigie si vede ancora sulle medaglie antiche.
È rappresentata come una donna con un cornucopia in una mano, e nell’altra una tavoletta sulla quale erano segnati molti punti e numeri ; la qual cosa voleva significare, secondo le tradizioni, la quantità di grano, di danaro e di vino che l’imperatore regnante aveva donato ai suoi popoli.
2501. Liberatore. — I poeti dell’ antichità danno assai di sovente codesto soprannome a Giove ; ed i pagani lo invocavano con questa appellazione, quando correvano alcun pericolo, dal quale credevano di uscir immuni per la protezione di Giove Liberatore.
2502. Libero. — Soprannome di Bacco, detto propriamente Liber pater, perchè come dio del vino, era ritenuto come quello, che faceva parlare liberamente — V. Liberali.
Anche gl’Indiani chiamavano il Sole col soprannome di Libero.
2503. Libertà. — Dea a cui i greci davano più propriamente il nome di Eleuteria. I romani però, presso i quali il culto di questa divinità era molto più celebre che in Grecia, ritenevano che la dea Libertà fosse figlia di Giove e di Giunone. Nel magnifico tempio che ella aveva in Roma, e che primieramente fu innalzato dal padre dei Gracchi, sul monte Aventino e adorno di statue di gran valore, si vedeva il simulacro della dea Libertà, rappresentata sotto la figura di una matrona, vestita di bianco, con uno scettro in una mano, un berretto nell’ altra, e con un gatto disteso ai suoi piedi. Era accompagnata dalle due dee, dette Adeona e Abeona, cioè l’Andare e il Venire, per alludere che essa poteva andare ove più le piaceva.
Il berretto ricordava la costumanza dei romani di mettere, cioè un berretto sulla testa di quegli schiavi, che volevano emancipare ; e finalmente il gatto era il simbolo convenientissimo alla dea della Libertà, perchè fra gli animali domestici, il gatto è quello che non soffre alcuna violenza, ed ha un istinto d’indipendenza dichiaratissimo.
2504. Libetra. — Su quest’antica città che una volta sorgeva sul monte Olimpo, e vicino alla quale stava il sepolcro di Orfeo, la tradizione mitologica ci ha tramandato uno strano ricordo.
Narrano le cronache che avendo gli abitanti di Libetra, spedito una deputazione di loro concittadini ad interrogare l’oracolo di Bacco, nella Tracia, per sapere quale sarebbe il destino della loro città, la risposta del dio fu che quella sarebbe stata distrutta non appena il Sole avesse visto le ossa di Orfeo Libetra, e che il distruttore si chiamerebbe Sus. Ora è a notare che in greco la parola óõó significa cignale ; mentre vi era nelle circostanze di Libetra un torrente chiamato Sus. Ingannati da questa oscura ambiguità dell’ oracolo, gli abitanti credettero che il dio avesse voluto parlare di una belva, e persuasi che non vi fosse al mondo un {p. 297}animale che avesse avuto la forza di rovesciare una città, non badarono più oltre all’infausto presagio. Ma qualche tempo dopo, secondo riferisce Pausania, avvenne che un pastore coricatosi verso l’ora del pomeriggio con la testa appoggiata al sepolcro di Orfeo, si addormentò profondamente ; e così addormentato si pose a cantare i versi di quel poeta, con una voce estremamente soave. Sparsasi ben presto la strana novella, accorsero in folla i pastori delle circostanti campagne e gli abitanti della città ; e fecero tale ressa onde accostarsi al dormente, che la colonna che sorgeva sul sepolcro d’Orfeo, si rovesciò e s’infranse, per modo che il Sole vide le ossa di Orfeo.
Nella notte che seguì codesto avvenimento, una pioggia dirotta ingrossò siffattamente le acque del torrente Sus, che rotto gl’ argini, straripò con tanta violenza, che allagando la città di Libetra, ne atterrò le mura, ne rovesciò i templi, i ponti, le case, i monumenti, e si spinse con tale precipitoso impeto che la città fu interamente distrutta, e gli abitanti morirono tutti annegati.
2505. Libetridi. — Si dava talvolta codesto soprannome allé Muse e sopra tutto ad alcune Linfe abitatrici del monte Libetrio, nelle circostanze di Elicona. Su quella montagna scaturiva la fonte chiamata Libetride, la quale usciva da un sasso che imitava così perfettamente il seno di una donna che pareva l’acqua scaturisse da due mammelle, nè più nè meno che il latte. Sul monte Libe trio, le Muse e le ninfe Libetridi avevano le loro statue.
2506. Libia. — Figliuola di Epafo e di Cassiopea : fu amata da Nettuno, che la rese madre di Belo e di Agenore. Da lei prese il suo nome la contrada conosciuta sotto l’appellazione di Libia. Vi sono varii autori che dicono Libia fosse figliuola di Pamfiloga e dell’ Oceano. È questa però un’opinione non riconosciuta dalla generalità.
2507. Libri. — Presso i pagani i libri avevano diverse denominazioni. Erano detti Libri Sibillini, quelli che contenevano le predizioni delle Sibille, la custodia dei quali era affidata in Roma ad un collegio di sacerdoti chiamati Folgorali, perchè traevano gli augurii dell’avvenire dallo strisciare della folgore. È scritto nelle cronache, che nell’Etruria la ninfa Bigoide avesse scritto un libro, che trattava del tuono, dei lampi e della interpretazione che dovea darsi a codeste meteore.
Libri aruspicini, venivano chiamati quelli, che racchiudevano i misteri e la scienza di conoscere il futuro, per mezzo dell’esame delle visceri delle vittime.
Libri fatali, si chiamavano quelli che, secondo la credenza superstiziosa dei pagani, contenevano il fine della vita degli uomini, e la durata della loro età, secondo i principii dell’arte etrusca.
I romani avevano il costume di consultare i libri fatali in tempo di pubbliche calamità, cercando in quei fogli misteriosi, quale fosse l’espiazione ch’essi dovevano praticare, onde placare la collera dei celesti.
Libri rituali, finalmente eran detti quelli che contenevano la maniera, ovvero il rito che si doveva compiere per consacrare le città, i templi, le mura, gli altari, le porte principali, le are e tutti i monumenti.
2508. Libitina. — Dea che presiedeva ai fu nerali. Secondo varii scrittori, il nome di Libitina si dava sovente a Proserpina, come regina del regno dei morti ; ma Plutarco asserisce, che questo soprannome era imposto a Venere, la quale era anche la configurazione del principio della vita, come madre dell’ amore, onde gli uomini si ricordassero della loro caducità. È questa anche l’opinione del cronista Dionigi d’ Alicarnasso. In Roma la dea Libitina aveva un tempio, circondato da un bosco sacro, nel quale si vendevano tutti gli oggetti necessarii alle pompe funebri.
Chiamavansi poi col nome proprio di Libitinarii, i sacerdoti o ministri pubblici, che regolavano e sopraintendevauo alla cerimonia dei funerali.
Servio Tullio, re di Roma, introdusse il costume di portare nel tempio di Libitina una data somma di danaro per ogni persona che moriva. I ministri del tempio, che erano incaricati a riscuotere quella specie di tributo, segnavano su di un apposito registro, chiamato Libitinœ ratio, il nome del morto e la somma versata. Tutto il danaro era conservato in una specie di cofano chiamato l’erario di Libitina.
2509. Lica. — Giovanetto compagno ed amico di Ercole, che lo ebbe carissimo, e che non ostante lo fece morire, infrangendone il corpo delicato contro uno scoglio, allorchè ebbe rivestita la tunica intrisa del sangue del centauro Nesso, inviatagli da Deianira, e che rese l’eroe furibondo. Ovidio, dice che Ercole dopo averlo raggirato varie volte nel vuoto, scagliò il corpo dello sventurato giovanetto nel mare, con più forza di quella con cui una macchina guerriera lancerebbe un sasso. La tradizione a cui si attiene il cennato poeta, aggiunge che il corpo di Lica s’indurì per l’aria, ed egli fu cangiato in uno scoglio, che si vedeva nel mare Eubeo, e al quale i marinari non osavano accostarsi, credendo, nella loro superstizione, che lo {p. 298}sfortunato Lica avesse conservato, anche dopo la morte, la sua sensibilità.
Questi da terra il leva, e poichè il volseTre volte e quattro intorno, con più forteImpulso che di macchina guerriera,Al flutto Euboico lo arrandella in mezzo.Indurossi colui mentre solcavaL’ aere leggiero : e come si ragionaChe ploggia a freddo soffio si rassodi,E in neve si converta, e che la neveColl’ aggirarsi, in massa si costringa,Finchè in ispessa grandine s’aggruppa ;Cosi l’antica età narra che spintoColui nell’ aere dalla man robusta,Già per la tema esangue, e d’ ogni umoreEsausto, si mutasse in duro sasso.Ovidio — Metamorf : Libro IX. Fav. III. trad. del Cav. Ermolao Federico.
2510. Licaone. — Così avea nome uno dei tanti figliuoli del re Priamo, e propriamente quello di cui Omero dice, che prestò al fratello Paride, la propria corazza per il singolare duello che quegli combattè contro Menelao,
…… Quindi una loricaDel suo germano Licaon, che fattaI suo sesto parea, si pose al petto :Omero — Iliade — Libro III. trad. di V. Monti.
La cronaca mitologica, a cui si attiene Omero stesso, racconta di questo Licaone, che caduto in potere di Achille, fu da questo venduto ad Euneo, figlio di Giasone, nell’ isola di Lenno ; poscia fu riscattato con molti e preziosi doni da Eezione, che lo mandò nella città di Arisbo. A Licaone riuscì, dopo qualche tempo, di fuggire da quest’ ultima città, e di far ritorno a Troja, alla casa paterna ; ma il suo cattivo destino lo pose nuovamente in potere di Achille, appena undici giorni dopo essere uscito di servaggio. In quel torno di tempo, Achille furibondo per la morte del suo amico Patreclo,
Perchè si piangi ?Mori Patròclo che miglior ben era,E me bello qual vedi e valorosoE di gran padre nato e di una Diva,Me pur la morte ad ogni istante aspetta,E di lancia o di strale un qualchedunoAnche ad Achille rapirà la vita.Omero — Iliade — Libro XXI trad. di V. Monti.
ucciso da Ettore, duce supremo delle squadre trojane, lo raggiunse di nuovo, e fu inesorabile contro il misero Licaone, del quale non curando le preghiere ed il pianto, lo uccise di sua mano, immergendogli il brando fra la giuntura del collo ; e poi trascinandolo per un piede, lo scagliò nel mare.
Strinse Achille la spada, e alla giunturaLo percosse del collo. Addentro tuttoGli si nascose l’ affilato acciaro,E boccon egli cadde in sul terrenoSteso in lago di sangue. Allor d’un piedePresolo Achille, lo gittò nell’ onda.Omero — Iliade — Libro XXI. Trad. di V. Monti.
Licaone fu similmente il nome di un figlio di Pelasgo, che fu il primo re dell’ Arcadia. Narra la tradizione mitologica che Licaone sì rese celebre per la efferata sua barbarie, la quale lo spinse a far trucidare tutti gli stranieri che transitavano pei suoi stati. Si vuole che Giove stesso, viaggiando, fosse andato a chiedere ospitalità nella reggia di lui, e che Licaone si fosse apprestato a levargli la vita, durante il sonno, come faceva con gli altri.
Però, avendo avuto sospetto che quello straniero fosse un dio, fece sgozzare un soldato Molosso, che riteneva in ostaggio, presso di sè, ed approntò le membra di lui, onde servirle la sera al banchetto che dava al suo ospite. Ma ben presto, per comando di Giove, Licaone fu cangiato in lupo, e un fuoco vendicatore, cadendo dal cielo, ridusse in cenere la reggia di lui.
…… della MolossaGente ad un tale a lui mandato ostaggio,Tronca col ferro il collo ; e delle membraSemivive una parte entro bollentiOnde ammollisce, e l’altra parte aggiraIntorno al foco sottoposto. QuandoImbandite di quelle ei fè le mense,Io sui Penati, del signor ben degni,Travolsi il tetto con ultrice fiamma.Egli fugge atterrito, e le deserteCampagne ricercando, invano tentaParlar, ch’ ulula invece. Si raccoglieAlla bocca la rabbia, e col desioDelle solite stragi si converteContro gli armenti, e ancor del sangue esulta.Le vesti in peli cangiansi, ed in gambeLe braccia : lupo fassi, e delle anticheForme conserva le vestigia.Ovidio — Metamorf : Libro I. — Fav. V. trad. dal Cav. Ermolao Federico.
{p. 299}Al dire di Pausania, codesta tradizione era tenuta in gran concetto presso gli arcadi, i quali in tutto ciò non vedevano nulla di esagerato. Al dire del citato scrittore, gli abitanti dell’Arcadia ritenevano per fermo che oltre a questo Licaone, loro re, cangiato in lupo per vendetta di Giove, vi fosse stato un altro Licaone, il quale sacrificando a Giove Liceo, fosse similmente cangiato in quell’ animale, e che ogni dieci anni ripigliava per poco la forma umana, quante volte però si fosse astenuto, in quel periodo di tempo, dal nudrirsi di carne umana, che se ciò fosse avvenuto, rimaneva sempre lupo.
La gran maggioranza degli scrittori greci, creduli quanto Pausania stesso, ci ripetono che Licaone, primo re d’ Arcadia, regnò nell’ istesso tempo che Cecrope regnava in Atene ; e che sul principio del suo regno fu caro ai suoi popoli, che egli cercò d’incivilire. La città di Licosura, la più antica di tutta la Grecia, fu edificata per suo ordine sui monti d’ Arcadia, e vi fece innalzare anche un tempio in onore di Giove Liceo, al quale egli stesso sacrificava umane vittime : da ciò ha principio la tradizione favolosa, la quale ingrandendosi per le crudeltà di cui si rese col tempo colpevole Licaone, e dalla stessa etimologia del suo nome, che in greco significa Lupo, han dato fondamento alla mitologica allegoria a cui si attiene Ovidio stesso.
Ma queste non sono tutte le notizie trasmesseci dalle cronache dell’ antichità su Licaone, primo re d’ Arcadia. Infatti Suida, uno dei cronisti più accreditati del paganesimo, racconta che Licaone per indurre i suoi sudditi all’ osservanza delle sue leggi, avesse fatto sparger voce che Giove andava sovente a visitarlo nella sua reggia, sotto le sembianze di uno straniero. I figliuoli del re, per accertarsi della verità di quanto asseriva il loro padre, ebbero ricorso ad un truce ed iniquo mezzo, ed avendo fatto uccidere un fanciullo, mescolarono le carni di questo, alle vivande del reale banchetto, persuasi che solamente Giove avrebbe potuto accorgersi del loro infame operato. Però verso il cadere del sole, una violenta tempesta si scatenò, impetuosa ed irrestibile, e il fulmine cadendo con orrendo fracasso, incenerì gli autori di quell’ opera nefanda.
Fu in questa occasione che generalmente fu ritenuto aver Licaone istituiti i sacerdoti Luperci.
È questa per altro un’ opinione poco generalizzata.
2511. Licasto. — Fratello di Parrasio. La cronaca mitologica riferisce, che furono, a somiglianza di Romolo e Remo, nutriti da una lupa.
2512. Licea. — Montagna dell’Arcadia, dalla quale venne a Giove il soprannome di Liceo. V. Liceo.
2513. Licee. — Dalla parola greca ëõ?ïò che significa lupo, si dava questo nome ad alcune feste celebrate in Argo, in onore d’Apollo, ritenendosi che quel dio dava la caccia ai lupi che infestavano le campagne di quel territorio.
Licee similmente erano delle feste celebrate in Arcadia, delle quali si voleva fosse stato istitutore quello stesso re Licaone che fu poi cangiato in lupo. Durante la celebrazione delle feste Licee, semiglianti di molto ai Lupercali di Roma, si seguivano alcuni combattimenti, nei quali il vincitore, riceveva in premio un’ armatura di rame. Vi è anche qualche autore antico che ripete, che nelle feste Licee si sacrificavano sovente vittime umane.
2514. Liceo. — Soprannome dato a Giove dal monte Liceo in Arcadia, che da principio era conosciuto col nome di monte sacro. Al dire di Pausania, gli abitanti d’ Arcadia, chiamavano sacro quel monte, perchè credevano che in un dato luogo, chiamato Creteo, fosse stato allevato Giove dalle tre ninfe dette Agno, Tifoa e Neda.
Il citato scrittore aggiunge, che sul monte Liceo ci era un altare consacrato a Giove, innanzi al quale sorgevano due colonne, su cui erano due aquile dorate ; e innanzi alle quali si compivano i sacrifizi con gran mistero.
Liceo era anche un soprannome del dio Pane, col quale egli aveva un tempio sul monte Liceo, circondato da un bosco sacro, ove da tempi remotissimi si celebravano i giuochi e le feste in onore del dio Pane.
2515. Licio. — Soprannome che Danao dette ad Apollo, e che le cronache dell’ antichità attribuiscono al fatto seguente. Allorquando Danao contrastava il possesso della corona di Argo al re Gelanore, gli accadde un giorno d’incontrarsi in un toro ed un lupo che combattevano insieme, e dopo poco vide cadere il toro, e il lupo rimaner vincitore. Approfittando della superstizione di un popolo rozzo, qual’era l’argivo, Danao sparse la voce che Apollo, avea voluto far comprendere, con la vittoria del lupo, che uno straniero doveva avere la supremazia sopra un cittadino. Infatti gli argivi proclamarono loro re Danao, a detrimento di Gelanore. In memoria di questo fatto, il novello sovrano fece innalzare ad Apollo un ricco tempio, ove quel dio veniva adorato sotto il nome di Apollo Liceo, ovvero Lupo.
2516. Licnomanzia. — Specie di divinazione che si eseguiva colla fiamma di una lucerna.
2517. Lico. — Fratello di Nitteo e {p. 300}usurpatore del trono di Tebe spettante per diritto a Lajo. Questo Lico, che taluni autori chiamano anche Sico, perseguitò accanitamente la misera Antiope.
Lico era anche il nome di un compagno di Ercole che lo seguì quando l’eroe combattè contro le Amazzoni, per comando di Euristeo. V. Ercole : Quando l’ eroe ebbe distrutte le femmine guerriere, donò a Lico, in premio della sua fedeltà una contrada che quegli chiamò Eraclea, in memoria dell’amico benefattore.
2518. Licogene. — Un altro dei soprannomi di Apollo. Il cronista Eliano a questo proposito narra uno strano avvenimento. Riferisce il citato scrittore che essendo Latona, sul punto di partorire, si fosse trasformata in lupa, per sottrarsi più facilmente alle persecuzioni di Giunone. V. Latona.
Da ciò Omero stesso dà ad Apollo il soprannome di Licogene.
Per la stessa ragione, sempre al dire di Eliano, si vedeva in Delfo un lupo di bronzo, onde ricordare il parto di Latona. Però quest’ ultima credenza viene dallo stesso cronista e da molti altri autori attribuita al seguente fatto.
Si vuole che avendo alcuni ladri spogliato di tutte le ricchezze il famoso tempio di Apollo in Delfo, le sotterrarono in una foresta.
Qualche tempo dopo, mentre uno dei sacerdoti di quel dio, pregava innanzi all’ altare si sentì tirare la veste e rivolgendosi, scorse con estrema maraviglia, un lupo che accennava quasi a voler esser segnito. Infatti il sacerdote, calmato il primo timore si lasciò guidare dall’ animale, il quale lo trascinò nella foresta ove i ladri avean sepolto il ricco tesoro, e giunto al luego si dette a scavare la terra e palesò così il furto commesso.
2519. Licomede. — Re dell’ isola di Sciro. Le cronache dell’ antichità ricordano di lui un tratto di fredda perfidia.
È scritto che allorquando Teseo abbandonò Atene, avesse chiesto ospitalità a Licomede, confidando nella lealtà di lui.
Ma i nemici di Teseo guadagnarono a peso d’ oro l’ ospite traditore, e un giorno Licomede condusse Teseo sul più alto di una montagna, che sovrastava alla sua isola, e col pretesto di fargli ammirare il magnifico panorama che si stendeva ai suoi piedi, precipitò con un urto violento il mal capitato eroe dall’ alto di una rupe.
Questo Licomede è lo stesso in casa del quale Teti mandò il figliuolo Achille, onde impedire che si fosse recato all’ assedio di Troia. Fu durante il tempo che l’ eroe giovanetto dimorò presso Licomede che amò Deidamia, figlia di lui, e la rese madre di Pirro V. Achille e Deidamia.
2520. Licopoli. — Città dell’ Egitto, sulle sponde del Nilo, il cui nome significa Città dei Lupi. Al dire dello storico Diodoro gli egizii, che erano un popolo eminentemente superstizioso, avevano in quella città tanta venerazione per quegli animali, che non solo non li uccidevano, ma non li perseguitavano neppure.
2521. Licora. — Detta anche Licoria, fu, al dire di Virgilio, una delle ninfe compagne di Cirene. Il cennato poeta ne parla come di una ninfa a cui la dea Lucina avesse insegnato a proteggere le partorienti.
Cidippe verginella e LicoreaDelle fatiche di Lucina espertaLa priva volta…..Virgilio — Delle Georgiche — Libro IV trad. di Dionici Strocchi.
2522. Licori. — Così, secondo Virgilio, era anche nominata la cortigiana Citeride, famosa per la sua bellezza. Essa veniva anche detta Volunnia, perchè secondo la tradizione fu liberta del senatore Volunnio. Il poeta Cornelio Gallo l’ amò con passione, e Licori corrispose per qualche tempo all’ affetto di lui ; ma poi lo abbandonò per darsi nelle braccia di Marc’ Antonio triumviro, il quale alla sua volta la dimenticò del tutto, pazzo com’ era d’ amore, per la bellissima Cleopatra.
……. e ne dimandan tutti,Perchè si vile amor t’ingombra ’l petto.Ove è Gallo, il cervel ? dice, LicoriLa ninfa tua, e siegue un altro intantoPer nevi, e monti, e per armate schíere.Virgilio — Egloga X. trad. di Andrea Lori
2523. Licoro. — Figlio di Apollo e della ninfa Coricia. La cronaca antica lo ritiene come l’ edificatore della città di Licoria sul monte Parnaso, aggiungendo, che dopo il diluvio di Deucalione, i pochi uomini scampati alla morte si riunirono su quella montagna, e forse spinti dal bisogno di farsi un asilo, edificarono le prime capanne su quel luogo stesso, ove poi col tempo surse la città di Licoria.
2524. Licurgo. — Figlio di Driante, re della Tracia. Al dire dl Omero, egli ebbe corta vita perchè osò far guerra agli dei. Secondo il cennato poeta, un giorno Licurgo, in un accesso di furore, perseguitò sul monte Nisseio le ninfe nutrici di Bacco, percotendole in modo che quelle si dettero a precipitosa fuga, e Bacco {p. 301}stesso spaventato si nascose in fondo al mare, ove fu accolto da Teti. Però sdegnato Giove contro l’ empio sacrilego, lo colpì di cecità, e dopo qualche tempo lo fece morire.
……. che lunghi giorniNè pur non visse di Driante il forteFiglio Licurgo che agli dei fè guerra.Su pel sacro Nisselo egli di BaccoLe nudrici inseguia. Dal rio percosseCon pungolo crudel gittaro i tirsiTutte insieme, e fuggir : fuggì lo stessoBacco, e nel mar s’ ascose, ove del feroMinacciar di Licurgo paventosoTeti l’ accoise. Ma sdegnarsi i numiCon quel superbo. Della luce il caroRaggio gli tolse di Saturno il figlio,E detestato dagli eterni tuttiBreve vita egli visse.Omero — Iliade — Libro VI trad. di V. Monti.
Il senso configurato che si racchiude sotto codesto mito simbolico della favola, è fondato sull’ aver Licurgo fatto sbarbicare tutte le viti dalla sua patria ; da ciò Bacco che si precipita in mare, insieme alle sue nutrici ; ossia alle viti, ritenute come le nutrici di quel dio. Alla favola a cui si attiene Omero stesso, come si rileva dalla citazione posta di sopra, altri autori aggiungono che Licurgo stesso, volendo eccitare gli operai a seguire il suo esempio, si fosse tagliate ambedue le gambe, con un violento colpo d’accetta, la qual cosa venne considerata come l’ effetto terribile della vendetta di Bacco.
Licurgo è similmente il nome del più famoso legislatore della Lacedemonia, del quale la cronaca mitologica fa menzione per aver egli ricorso all’ oracolo di Delfo, onde fare che una certa tinta di religioso rispetto, tenesse a freno i popoli, e facesse loro osservare ciecamente le leggi che egli aveva dettate. I cronisti più accreditati del paganesimo, ripetono che, allorquando Licurgo si presentò alla Pitia, che dava i responsi, questa lo chiamasse il diletto degli dei, e gli facesse onoranza, siccome ad un dio. Infatti gli spartani accettarono, con reverente riconoscenza, le leggi che da allora in poi dovevano reggere il loro paese ; e tanto più essi si sottomisero a quelle, imperocchè un altro oracolo avea loro promesso che Sparta sarebbe il più florido stato del mondo conosciuto, quante volte essi avessero scrupolosamente osservate le leggi di Licurgo. Raggiunto per tal modo, lo scopo desiderato, Licurgo fece sparger voce che, fra poco, si sarebbe di nuovo recato in Delfo, onde consultare, anche una volta l’ oracolo, e prendere, da Apollo stesso, consiglio sopra alcuni immegliamenti ch’ ei credeva necessario di apportare nel suo codice. Prima però di partire, fece giurare dal Senato e dal popolo, che le sue leggi sarebbero mantenute in pieno vigore, finchè egli stesso-non avesse fatto ritorno in Sparta. La sua volontà fu ciecamente seguita, ed egli allora partì, ma invece di andare a Delfo, siccome aveva annunziato al suo popolo, s’ andò a nascondere in un luogo lontano e remotissimo, e da quel giorno gli spartani non intesero più a parlare di lui.
È opinione di vari accreditati cronisti e storici del paganesimo, che dopo qualche tempo Licurgo si ritraesse segretamente nell’ isola di Creta, ove morì ; ordinando che il suo corpo fosse abbruciato, e le sue ceneri disperse al vento ; temendo che se queste venissero trasportate nella Lacedemonia, gli abitanti di quella contrada, e sopratutto gli spartani, avessero potuto ritenersi sciolti dal sacro giuramento, e avessero ricusata nell’ avvenire quella docile obbedienza che fino a quel giorno, avean tributata alle ottime leggi da lui imposte.
Gli spartani, riconoscenti ai grandi benefizii che avea lor fatto l’immortale legislatore, gl’innalzarono un magnifico tempio ove, secondo asserisce Pausania, Licurgo venne adorato siccome un dio.
2525. Lieo. — Dalla parola greca λυειν che significa dissipare, si dava codesto soprannome a Bacco, dio del vino, come dissipatore della malinconia.
2526. Ligo. — Uno dei figliuoli di Fetonte, dal nome del quale la contrada di cui egli era signore, fu detta Liguria, e gli abitanti di quella Liguri.
2527. Ligodesma. — Dalle due parole greche λοδος vinchio, e δεσμος legame si dava codesto soprannome a Diana Ortia, perchè un’antica tradizione ripetea che la statua di quella dea fosse venuta dalla Tauride a Sparta, avvinta da sarmenti di vite.
2528. Ligea. — Ninfa, madre di Aristeo, e secondo Virgilio, una delle compagne di Cirene, famose per la bianchezza del loro collo, e per la ricchezza della bionda capellatura.
……… le ninfeFilodoce e Ligea e Drimo e XantoSparse in collo di latte oro di chiome,Virgilio — Delle Georgiche — Libro IV trad. di Dionigi Strocchi
Ligea è anche il nome di una delle Sirene, forse perchè le parole greche λιγυς λιγεια significano suono dolce e soave e voce argentina.
{p. 302}2529. Lilea. — Najade, figliuola del fiume Cefiso, la quale, secondo la tradizione, dette il suo nome ad una piccola città nelle circostanze di Delfo, ove Apollo e Diana avevano due magnifici templi.
2530. Limace. — Dalla parola lyma, che significa purificazione, si dava questo nome ad un fiume nell’ Arcadia, nelle acque del quale, secondo la tradizione mitologica, le ninfe che assistettero Rea, moglie di Saturno, quand’ ella partorì Giove, avessero fatto a quella dea le abluzioni.
2531. Limenetide. — Soprannome che si dava a Diana, quando veniva riguardata come protettrice dei porti di mare. In simili congiunture la dea veniva rappresentata con una specie di gambero marino sulla testa.
2532. Limentino. — Dal latino limen, si dava la denominazione anche femminile di Limentina a quella divinità che presiedeva alla custodia delle porte.
2533. Limira. — Fontana nella Licia, alla quale, secondo asserisce lo storico Plinio, si dava la strana prerogativa di rendere gli oracoli per mezzo dei pesci che vivevano nelle sue acque.
Al dire di Plinio, coloro che volevano interrogare l’ oracolo davano da mangiare ai pesci, e se quegli animali mangiavano ciò che veniva loro gettato, si riteneva come propizio augurio ; mentre se per contrario essi si allontanavano dal cibo, credevasi l’ oracolo infausto e di cattivo successo.
2534. Limnadi. — Dalla parola greca λημνʹ che significa stagno o palude, si dava codesto nome alle ninfe protettrici degli stagni o dei luoghi paludosi. Esse venivano sovente chiamate anche Linniadi.
2535. Limnatide. — Altro soprannome di Diana, come dea protettrice dei pescatori, i quali in suo onore celebravano una festa detta dal suo nome Limnatidia.
2536. Limnatidia. — Vedi l’ articolo precedente.
2537. Limneo. — Detto più comunemente Linneo : soprannome del dio Bacco quando lo si riguardava come protettore dei laghi. Per altro è questa una tradizione favolosa, che non ha molto logico fondamento, imperocchè non si addice in vero un soprannome speciale a Bacco come protettore dei laghi e dei stagni, quando era adorato come dio del vino.
2538. Limnoria. — Una delle cinquanta Nereidi.
2539. Limnoniadi. — Dette anche Linoniadi. Dalla parola greca λειμον che significa prato, venivano così chiamate le ninfe, protettrici dei prati.
2540. Lince. — Animale consacrato a Bacco, ed a cui i pagani accordavano la strana prerogativa di vedere anche traverso la terra.
2541. Linceo. — Figlio di Afaneo, re di Messenia : fu uno degli Argonauti. Secondo il poeta Pindaro, egli aveva una vista così acuta, che ad una grandissima distanza, scoprì Castore nel tronco di un albero.
E lui coll’ occhio vigile,Ch’ ogni sguardo avanzò, Linceo scoperse,Mentre l’ erma forestaDel Taigeto ad esplorar s’ appresta.Pindaro — Odi Nemee — Ode X. trad. di G. Borghi.
Secondo l’ opinione di altri autori, che vinse di gran lunga quella di Pindaro, Linceo vedeva fin nelle viscere della terra, la qual cosa per altro si può spiegare coll’ aver egli avuto grande cognizione dei metalli.
Morì ucciso da Polluce, allorquando questi, e Castore suo fratello, rapirono ad Ida e Linceo le loro fidanzate. V. Ilaria e Febea.
Linceo fu similmente il nome di quel figliuolo di Egitto, marito d’ Ipernestra, la quale, ben diversamente dalle sue quarantanove sorelle, lo salvò dalla uccisione che Danao avea ordinato alle sue figliuole. V. Danao, Danaidi ed Ipernestra.
Alla morte del suocero, Linceo salì sul trono di Argo, e mori dopo quarant’ anni di regno. La sua statua fu posta nel tempio di Delfo, in mezzo a quelle degli altri eroi della Grecia.
2542. Linco. — Re di Scitia, di cui la tradizione ricorda un odioso fatto. Geloso della preferenza che la dea Cerere avea data a Trittolemo, Linco ebbe sempre nell’ animo perverso il pensiero della vendetta. Infatti, giunto Trittolemo alla sua corte, Linco finse di accoglierlo con ogni cortesia, ma venuta la notte, profittando del sonno in cui quegli era immerso, tentò di ucciderlo a colpi di pugnale ; ed avrebbe compiuto l’ infame attentato se la dea non lo avesse cangiato in quell’ animale, noto sotto il nome di lince.
N’ ebbe il barbaro invidia ; e sè medesmoBramando largitor d’ un tanto dono.Ospite suo lo volle ; e lui col ferroAssalì, mentre grave era dal sonno.Ma colui che vibrar tentava il ferroFu da Cerere in lince trasformato.Ovidio — Metamorfosi — Libro V. Fav. XI. trad. del Cav. Ermolao Federico
{p. 303}2543. Linie. — Feste celebrate in onore di Lino.
2544. Lino. — Figlio di Anfiarao e di Urania. Al dire di Pausania, egli fu nipote di Nettuno, e fu ucciso da Apollo, perchè essendo Lino il più bravo musico dei suoi tempi, osò vantarsi di suonar meglio di quel dio, onde Apollo, sdegnato, lo tolse di vita. Le tradizioni mitologiche ripetono, che perfino le nazioni più barbare avessero deplorato la morte di Lino, e che gli abitanti di Elicona celebravano ogni anno il suo anniversario, con una festa, la quale cominciava sempre con un sacrifizio alle muse.
Lino similmente ebbe nome quel figliuolo di Apollo e della musa Tersicore, che la tradizione ci mostra come maestro di Orfeo e poi di Ercole, al quale oltre alle conoscenze scientifiche, egli insegnò uno strumento musicale, specie di violino che si suonava coll’arco. Narra la cronaca, che questo fu causa della morte di Lino, imperocchè avendo un giorno sgridato Ercole, perchè sbagliava di tuono, questi sdegnato lo percosse così violentemente coll’arco dello istrumento, che gli produsse una ferita sulla fronte, della quale dopo poco tempo Lino morì.
Il cronista Diogene Laerzio, fa di questo Lino un uomo eminentemente dotto, e lo mostra come autore di tre trattati ritenuti come preziosi, uno sull’origine del mondo ; un altro sulla natura degli animali e delle piante ; e il terzo finalmente sul corso del sole e della luna.
2545. Lione. — Secondo scrive Plutarco, questo animale era consacrato al Sole, perchè egli è solo fra tutti i quadrupedi che vede appenanato, e perchè, secondo la credenza pagana, dormiva con gli occhi aperti.
In Egitto il lione era consacrato a Vulcano, alludendo forse all’ardenza dei deserti, ove quell’animale abitualmente dimora, e alla sua indole di fuoco.
La tradizione mitologica dice, che il carro di Cibele era tirato da due lioni ; e vi sono infatti ancora molte medaglie antiche, che rappresentano la dea sopra un carro tirato da due di quegli animali. Anche nei sacrifizii della dea Cibele, prendevano posto i lioni, avendo i sacerdoti Galli trovato il modo di addomesticare quelle belve, fino al segno di poterle, secondo scrive Varrone, accarezzare e toccare senza pericolo. In quanto al famoso lione Nemeo, la cui uccisione fu una delle dodici imprese di Ercole. — V. Ercole. — è quello stesso di cui i poeti della antichità formarono il segno dello zodiaco.
2544. Lira. — L’invenzione di questo antichissimo istrumento di musica, che era uno degli attributi del dio Apollo, viene da taluni autori antichi attribuita ad Anfione, mentre altre opinioni pre tendono che l’inventore ne fosse Orfeo ; ed altre finalmente Apollo e Mercurio.
La lira avea una figura triangolare, e si suonava con le dita.
Da principio i pagani non si servivano della lira che per cantare le lodi degli dei ; poi fu adoperata nei banchetti, nei sacrifizii, e se ne servirono i poeti per improvvisare.
2545. Liriade. — Ninfa oceanide, amante del fiume Cefiso, il quale, secondo la favola, la rese madre di Narciso. La tradizione dice che Liriade dette il suo nome a quella fonte, ove il bellissimo suo figlio morì annegato. V. Narciso.
2546. Lissa. — Al dire di Euripide, così avea nome una delle tre Furie, e propriamente quella che ispirava il furore. Fu a questa Furia che Giunone ordinò di farsi accompagnare da Iride presso Ercole, onde ispirargli quel furore che poi cagionò la morte dell’eroe.
2547. Liti. — Dalla parola greca λιτη che significa supplica, preghiera, i poeti dell’antichità, danno questo nome alle Preghiere, figlie di Giove.
2548. Litobolia. — Dalle due parole greche λιδος pietra, e Βαλλω getto, si dava dai greci questo nome particolare alla festa detta della lapidazione. V. Lapidazione.
2549. Litomanzia. — Divinazione che si faceva per mezzo di molti anelli di metallo, i quali spinti uno contro dell’altro, rendevano certo suono argentino più o meno chiaro, da cui i pagani pretendevano conoscere la volontà degli dei. Il vocabolo Litomanzia prende origine dalla parola greca λιτο che significa : cosa che rende suono.
2550. Littorale. — Qualificazione data, in alcuni monumenti, al dio Silvano, coronato di edera e con le corna sul capo. Forse in tal modo veniva onorato quel dio sul lido del mare.
2551. Lituo. — Così si chiamava quella specie di bastone augurale, ricurvo ad una delle estremità, che i sacerdoti Auguri portavano quando si facevano ad interrogare il volo degli uccelli, onde predir l’avvenire.
Presso i pagani, Lituo si chiamava similmente una specie di tromba guerriera ricurva, avente qualche somiglianza coi moderni corni da caccia.
2552. Locuzio. — Lo stesso che Ceditio, conosciuto comunemente in Roma sotto il nome di Ajo Locutio. Aveva un tempio famoso in quella città, e propriamente nella via Nuova. V. Ajo Locutio.
2553. Loimio. — Dalla parola greca λοιμος che significa peste, gli abitanti della Lidia davano questo soprannome ad Apollo, perchè si credeva che egli allontanasse la peste e le altre epidemie.
{p. 304}2554. Lotide. — Ninfa, la quale fu cangiata in quel fiore conosciuto sotto l’appellazione di Loto, per le preghiere ch’ella rivolse agli dei, ond’essere liberata dalle persecuzioni del dio Priapo.
2555. Loto. — Secondo riferisce Plutarco, gli egiziani dipingevano allegoricamente, da questo fiore, il sole che nasce.
In tutti i misteri della religione egiziana, si trovava sempre il fiore di Loto, a motivo della grande relazione che gli egizii credevano avesse quel fiore coll’astro del giorno ; forse perchè il Loto apparisce, sulla superficie delle acque, al levarsi del sole, e poi si richiude in sè stesso all’ora del tramonto. Questo fenomeno naturalissimo in tutte quelle piante, che nella scienza botanica sono classificate nella estesissima famiglia delle Ninfee, dette forse, origine alla superstiziosa venerazione degli egiziani.
I pagani tanto di Roma, quanto di Grecia, avevano anch’essi consacrato il fior di Loto a Venere e ad Apollo ; e si sono anche recentemente trovate delle statue di quelle divinità, con quel fiore nelle mani.
Un altro fiore di Loto, e propriamente quello che i botanici chiamano Persea, era consacrato ad Iside anche in Egitto ; e forse la grande somiglianza che il nocciuolo di quella pianta ha con la forma del cuore umano, e le sue foglie con quella della lingua, è la sorgente di tutta l’arcana configurazione dei misteri della religione egiziana, in cui il fior di Loto è sempremai introdotto.
Il succo del fior di Loto, è quel liquore che parve talmente squisito ai compagni di Ulisse, che non vollero più, secondo riferisce la cronaca favolosa, abbandonare un paese, il cui suolo produceva una pianta tanto preziosa.
2556. Lotofagi. — Antichi popoli dell’Africa abitatori della costa di Barbaria, nel gran golfo di Sirte. Narra Omero, che Ulisse gettato da una furiosa tempesta sulla spiaggia dei Lotofagi, mandò dopo dieci giorni di burrasca ad investigare il luogo ; e che quegli abitanti lunge dal far male ai suoi messaggeri, fecero loro assaggiare il liquore di fior di Loto, di cui si nutrivano.
Al fineNel decimo sbarcammo in su le riveDe’Lotofagi, un popolo a cui ciboÈ d’una planta il florido germoglio.Omero — Odissea — Libro IX. trad. di I. Pindemonte
Aggiunge il citato poeta, che i due compagni di Ulisse, e l’araldo che egli aveva mandati a terra, e tutti gli altri suoi seguaci, che poi gustarono di quel frutto, non vollero più ritornare nella propria patria, nè dar notizia di sè ; altro non desiderando che di vivere di Loto, in un completo oblìo di tutto.
Io due scelgo de’nostri, a cui per terzoGiungo un araldo, e a investigar li mando.Quai mortali il paese alberghi e nutra.Partiro, e s’affrontaro a quella gente,Che, lunge dal voler la vita loro.Il dolce loto a savorar lor porse.Chiunque l’esca dilettosa e nuovaGustato avea, con le novelle indietroNon bramava tornar : colà bramavaStarsi, e mangiando del soave loto,La contrada natia sbandir dal petto.Omero — Odissea — Libro IX. Trad. di I. Pindemonte.
La parola Lotofagi deriva dai due vocaboli greci λοτος loto, e φαγομαι mangio.
2557. Lotta. — I pagani onoravano Mercurio come dio di questo combattimento, che veniva eseguito generalmente in tutte le feste e nei giuochi funebri. Nei giuochi Olimpici era assegnato un largo premio al vincitore della lotta.
2558. Lua. — Divinità, che, al dire di Tito Livio, i romani invocavano in tempo di guerra. Il cennato autore scrive che il console Plauzio, comandante supremo delle legioni romane, dopo aver vinta una battaglia contro i Volsci, consacrò e dedicò, alla dea Lua, le armi dei morti, rimaste sul campo.
Lua era riguardata generalmente come la dea della espiazione, e sopratutto di quelle che un esercito vittorioso celebrava dopo la battaglia, per espiare il sangue versato. Il nome di Lua viene dal latino luere che significa espiare.
Trovossi gran copia di armi, si tra i corpi morti, si ancora in campo, le quali il console disse, che le dava e consacrava alla dea Lua.
Tito Livio — Storia Romana — Libro VIII.
2559. Lucarie — Dette anche Lucerie, feste romane che prendevano la loro denominazione da un bosco sacro chiamato Lucus, nel quale si celebravano le Lucarie, e che stava fra la via detta Salaria e il Tevere. Un’antica tradizione dice, che le Lucarie furono istituite in commemorazione della rotta che le armi romane ebbero dai Galli {p. 305}e nella quale i fuggenti trovarono un sicuro asilo nel bosco Lucus.
Al dire di Plutarco, nel giorno in cui si celebravano le Lucarie, i commedianti, chiamati ad accrescere il brio di quelle feste, erano pagati col danaro che si ricavava dalla vendita del legname, tagliato in una porzione di quel bosco.
Altri autori traggono l’origine delle feste Lucarie, da alcuni donativi di moneta che si facevano ai boschi sacri, e che si chiamavano Luci. Le Lucarie venivano celebrate nel mese di luglio.
2560. Lucerio. — Soprannome dato a Giove come creatore della luce.
2561. Lucifera. — Soprannome di Diana, sotto il quale la invocavano i Greci, secondo riferisce Cicerone, come protettrice del parto, a somiglianza dei romani che invocavano Giunone Lucina. Diana, sotto l’appellazione di Lucifera, è anche considerata come la Luna, ed allora veniva raffigurata dai pagani con una luna crescente sul capo, con una torcia accesa nella destra e coperta d’un manto seminato di stelle.
2562. Lucifero. — I poeti della mitologia chiamano così la stella Venere, quando comparisce al mattino. Da ciò forse la tradizione favolosa ci presenta Lucifero come figlio dell’Aurora, e custode e conduttore degli astri. È detto ancora che Lucifero avesse cura del carro del Sole, e che insieme alle ninfe Ore, ne attaccasse e staccasse i destrieri.
2563. Lucina. — Soprannome col quale particolarmente i romani adoravano la dea Giunone come protettrice delle partorienti e dei neonati. V. Lucifera.
Altri autori han fatto di Lucina una dea particolare, figlia di Giove e di Giunone, e madre di Cupido.
Secondo Ovidio, la parola Lucina deriva da lux ossia luce, perchè essa dava la luce ai bambini, rinchiusi nelle tenebre dell’alvo materno, ovvero da lucus bosco sacro. V. Lucarie.
Grazie a Lucina sien : tu questo ottieniNome del sacro bosco ; o perchè, o diva,Della luce il principio in te contieni.Ogni gravida sposa con giulivaFaccia rimira ; odi, o Lucina, i prieghi,Nè, quando a maturezza il feto arriva,Al nascer facil via per te si neghi.Ovidio — I Fasti — Libro II trad. di G. B. Bianchi.
I romani rappresentavano la dea Lucina sotto le sembianze d’una matrona di aspetto dolce e maestoso, con una tazza nella destra, ed una lancia nella sinistra ; ma più comunemente seduta, tenente col braccio sinistro un bambino ravvolto nelle fascie, e nella mano destra una specie di giglio. Lucina era anche detta Ilitia ed Olimpica, e sotto quest’ultimo nome aveva un tempio ed una sacerdotessa presso gli Eliani.
2564. Luciniana. — Questo soprannome che sembra essere lo stesso che Lucina, veniva similmente dato dai pagani a Giunone. Un’antica tradizione ripete, che le ceneri delle vittime bruciate sugli altari di Luciniana, restavano immobili per qualunque si fosse l’impetuosità del vento che avesse sconvolto l’atmosfera.
2565. Luglio. — I pagani ritenevano questo mese posto sotto la protezione di Giove, e perciò lo avevano consacrato a quel dio. Il corso del mese di Luglio era presso gli antichi una festa quasi continua, imperocchè oltre ai giuochi Apollinari, ai Minervali, e a quelli del Circo, che si celebravano in Luglio, ai cinque di questo mese ricadeva la solennità richiamata Poplifugia ; nelle none si solennizzavano le feste Caprotine ; nel giorno seguente a queste, si compiva l’altra solennità della Vitulatio. Ai dodici di Luglio si festeggiava la nascita di Giulio Cesare ; durante il periodo delle Idi di Luglio, ricadeva la festa annuale di Castore e Polluce ; ai 23 quella della dea Lucina Olimpica — vedi Lucina — ai 25 si celebravano le Ambarvali — V. Ambarvali — e finalmente alla fine di Luglio si solennizzava un’altra piccola festa nella quale s’immolavano alla Canicola un dato numero di cani rossi.
2566. Luna. — Il Sole e la Luna sono stati gli dei planetarii adorati da quasi tutti i popoli dell’antichità, i quali, meravigliati alla vista di questi due splendori della creazione, e riconoscenti agli effetti ed ai vantaggi che essi ne ritraevano, si persuasero di leggieri che quegli astri doppiamente visibili tanto alla loro vista fisica, quanto alla loro mente, fossero le principali e supreme divinità, e che avessero diritio al rispetto ed alla religiosa venerazione degli uomini. Ma come la più profonda superstizione non poteva esser divisa da un culto religioso tributato da nazioni affatto spoglie d’incivilimento, così i primi adoratori della Luna, ritenendo che quell’astro colle proprie influenze, e perfino colla pioggia della sua pallida luce, fosse talvolta cagione di gravi mali, così credettero che fosse animata ; e vedendo le fasi sempre eguali, ed il suo corso costantemente lo stesso nell’ampia volta del firmamento, si convinsero che la luna fosse immortale, e allora genufiessi innanzi a quell’astro, della cui esistenza essi, nella loro ignoranza, non {p. 306}sapeano rendersi esatta ragione, l’adorarono come una divinità suprema e le offerirono voti, preghiere e sacrifizii, onde rendersela benignamente propizia.
Il cronista Macrobio, che è uno dei più accreditati autori del paganesimo ; asserisce anzi che tutte le divinità degli antichi venissero in certo modo compendiate e quasi raccolte nel culto che i primitivi popoli della terra, tributarono al Sole ed alla Luna. Secondo quello scrittore, tutte le divinità maschili erano come capitanate e presiedute dal Sole ; e quelle femminili dalla Luna.
Gli Egiziani sotto la denominazione d’Iside, parola che significa vecchia, antica, adorarono la Luna con un culto speciale ; forse perchè la qualificazione di antica si addice perfettamente a quell’astro, antico quanto la creazione medesima. Nè solo presso i popoli dell’Egitto noi ritroviamo le tracce, ancora sensibili, del culto religioso ch’essi tributarono alla Luna ; ma le testimonianze irrecusabili di chiari e profondi scrittori, così antichi che moderni, c’insegnano che i fenici, adorarono la Luna sotto il nome di dea Astarte ; gli arabi, sotto quello di Alizat ; i persi, con quello di Militra ; e finalmente i greci ed i romani, colla denominazione di Artemide e più comunemente di Diana, facendo di questa dea, la sorella gemella di Febo, ossia il Sole.
Esiodo, nelle sue opere sull’antichità pagana, ripete che Fea, la divinità suprema, fu madre della Luna e di tutti gli altri minori pianeti, che si aggirarono a popolare il regno dello spazio incommensurabile.
Il riferito scrittore ci ammaestra similmente, come il culto della Luna fosse sparso e conosciuto anche nelle Gallie, ove nella piccola isola di Sain, posta sulla costa meridionale della bassa Brettagna, sorgeva un tempio dedicato alla Luna, con un oracolo a cui erano addette, come sacerdotesse, le fanciulle delle più cospicue famiglie dei Druidi.
Innumerevoli sono poi le tradizioni favolose che la superstizione pagana innestava al culto religioso che si tributava alla Luna. Da ciò è che si dette vita agli amori che la Luna, ossia Diana, ebbe col bellissimo Endimione. V. Diana e Endimione. Tutti gl’indovini, le straghe, le maghe, e sopratutte quelle della Tessaglia, contrada del mondo antico ove la più cieca superstizione aveva un impero assoluto ed estesissimo su tutte le menti, si vantavano d’aver commercio con la Luna, e di potere coi loro incantesimi farla discendere dal cielo ; e lo stesso storico Luciano ripete nelle sue opere, che un uomo faceva a suo talento discender la Luna sopra la terra ; e Petronio medesimo asserisce, che le donne di Crotona attiravano la Luna coi loro sortilegi.
2567. Lunedi. — Questo giorno della settimana era, forse dal suo nome medesimo, consacrato a Diana Luna, ed è forse per questo che sui ruderi dei monumenti antichi si trova personificato il lunedì sotto le sembianze della dea Diana con la testa adorna di un novilunio.
2568. Luno. — I pagani, nella loro superstizione, attribuivano i due sessi alle loro divinità, personificandole sovente come uomo, e sovente come donna. Da ciò il dio Luno altro non era che la Luna medesima, alla quale, secondo riferisce il cronista Sparziano, gli abitanti della città di Carres, nella Mesopotamia, avevano innalzato uno splendido tempio, dedicato al dio Luno. Il citato cronista dice, che gli abitanti di Carres avevano personificato maschilmente la Luna, chiamandola il dio Luno, perchè ritenevano che coloro che adoravano la dea Luna, andavano facilmente soggetti al potere delle donne, ed erano dominati da esse ; mentre per contrario gli adoratori del dio Luno, conservavano per tutta la vita la loro maschia autorità sulle loro mogli, e non correvano il rischio di essere ingannati da esse.
Da ciò nasce, sempre al dire di Sparziano, che gli egizi ed i greci, se pure comunemente avessero chiamata la Luna colla sua appellazione femminile, pure nei misteri della loro religione, ne facean sempre menzione come il dio Luno. Secondo Strabone, l’appellativo di dio Luno deriva dal vocabolo greco σεληνη che in quella lingua rinchiude in sè stesso il significato tanto della Luna individualmente, quanto del mese a lei consacrato.
In lingua ebraica la parola luna è dai due generi, mentre in molte altre lingue orientali è esclusivamente o maschile o feminile ; quindi è che molti popoli dell’antichità, han fatto di quell’astro un dio, altri una dea, e molti altri finalmente una configurazione ermafrodita.
Il dio Luno veniva raffigurato sotto le sembianze di un giovane, rivestito delle insegne militari, con una picca nella destra e con ai piedi un gallo, animale che col suo canto avvisa il ritorno della luce.
Finalmente il cronista Sparziano, già da noi più sopra citato, ripete a proposito del culto tributato al dio Luno dai pagani, una strana e ridicola congiuntura ; quella cioè, durante i sacrifizi che si facevano al dio Luno, gli uomini vestivano da donna, e le donne da uomo. Forse per mostrare la promiscuità dei due sessi, attribuiti in generale a quella divinità.
2569. Lupa. — Secondo la tradizione {p. 307}popolare dei romani, alla quale si attiene Virgilio stesso, una lupa fu la nutrice di Romolo e Remo, i quali bambini suggevano il latte della belva, scherzavano con essa come con la loro madre, e l’animale rivolgendo il capo, accarezzava con la lingua i due infanti, come proprî figliuoli.
Agli esposti bambin (stupende cose !)Fresca del parto orribil lupa venne.Chi crederia che a lor nuocer non ose ?Poco è non nuocer lora cura ne tenne :Quei, che mossa a pietà lupa nodrisce,Di far perir d’un zio la man sostenne.Si arresta ; colla coda a quei blandisceAlunni tenerelli, e a un tempo istessoI corpicciuoli lor forma e lambisce.Ovidio — I Fasti — Libro II. trad. di G. B. Bianchi.
2570. Lupercale. — Secon do asseriscono i cronisti più accreditati dell’antichità, era questo il nome della grotta, ove furono nutriti dalla lupa Romolo e Remo. Lo storico Servio dice, che il nome di Lupercale le veniva per essere quella grotta scavata nel monte Palatino e consacrata a Pane, antichissimo dio dell’Arcadia. Il cennato storico aggiunge, che essendo venuto in Italia Evandro Arcade, dedicò al dio supremo della sua patria, un dato luogo, a cui impose similmente il nome di Lupercale, ritenendo che la protezione di quel dio, avesse salvato il suo bestiame da’lupi.
2571. Lupercali. — Così venivano chiamate le feste, che si celebravano, con grande solennità in Roma, in onore del dio Pane, e che, secondo asserisce Ovidio, cominciavano nel terzo giorno dopo gli Idi di febbraio. Per altro questa opinione del famoso poeta, è combattuta dal cronista Valerio Massimo, il quale asserisce che le feste Lupercali furono istituite dal pastore Faustolo. a principio del regno di Romolo.
In memoria di quella festa e dopo il convito che si dava in tale occasione, tutti i giovani che vi prendevano parte, correvano del tutto ignudi, tenendo in una mano il coltello di cui s’eran serviti per immolare le vittime, e tingendosi la fronte col sangue degli animali svenati ; poi asciugavano il sangue di cui erano bagnati colla lana delle capre immolate, la quale prima ponevano ad ammollire nel latte. Comunemente andavano anche armati di uno staffile col quale battevano tutti quelli che incontravano e segnatamente le donne, che per altro ricevevano quei colpi assai volentieri, ed andavano incontro a quei giovani nella credenza che quelle staffilate le avessero rese feconde, e avessero loro procurato un felice e sollecito parto.
Altri autori asseriscono che la ragione per la quale i giovani correvano nudi nelle Lupercali era la seguente. Si vuole che un giorno Romolo e Remo, celebrando codesta festa, fossero derubati delle loro mandre da alcuni ladri, i quali approfittarono di quella congiuntura per fare il colpo. Però i due fratelli, e tutti i giovani che erano con essi, accortisi del fatto, si spogliarono sollecitamente delle loro vesti, ed avendo raggiunti i ladri, tolsero loro la preda. Da quel tempo s’introdusse il costume di correre nudi nella celebrezione delle Lupercali.
Nudo ciascuno il corpo suo portavaIndurandolo all’aria ; e grave piova.O crudo vento a lor pena non dava.Ovidio — I Fasti — Libro II. trad. di Giambattista Bianchi.
Aggiungeremo ancora per quanto riguarda la parte storico-mitologica della nostra opera, che sul principio del regno di Augusto le Lupercali cominciavano a cadere in disuso ; ma che qualche tempo dopo furono restituite al loro primitivo splendore, e continuarono cosi in Roma fin dopo il quarto secolo, epoca in cui il culto pagano era quasi scomparso.
2572. Luperci. — Nome collettivo dei sacerdoti del dio Pane che celebravano le Lupercali. V. l’articolo precedente. Questi sacerdoti che erano i più antichi del culto religioso dei romani, furono, secondo alcuni autori, istituiti da Romolo, e secondo altri da Evandro Arcade. — V. Lupercale.
I Luperci furono da principio divisi in due collegî distinti, detti dei Fabiani e dei Quintiliani. A questi due, Giulio Cesare aggiunse un terzo collegio, detto dal suo nome dei Giuliani. Però, siccome al dire di Svetonio e di Cicerone, i Luperci non erano punto stimati, nè si faceva verun conto di essi, così questa amplificazione portata da Giulio Cesare in quell’ordino sacerdotale, fu una delle tante ragioni dell’odio che il popolo ebbe ben presto contro quell’imperatore.
2573. Lustrale. — Nome proprio dell’acqua di cui si servivano i pagani in tutte le cerimonie dei sacrifizî, e segnatamente in quelle di cui è parola nell’articolo seguente.
2574. Lustrazioni. — Cerimonie espiatorie colle quali i romani credevano di purificare una città o una persona, contaminata da qualche impurità o da qualche delitto. Le lustrazioni si {p. 308}facevano in tre maniere : con fuoco e zolfo, coll’ acqua e coll’ aria. Prima d’imporre il nome ad un fanciullo neonato, si facevano le lustrazioni nel nono giorno dopo la nascita di un maschio, e nell’ ottavo per le femmine : talvolta si prendeva anche il quinto giorno per questa cerimonia dei bambini. Comunemente le lustrazioni avean termine con un gran banchetto, al quale si credeva presiedesse la dea Nondina, protettrice particolare di tutte le lustrazioni. — V. Acqua lustrale.
2575. Lustro. — I romani avevano per antichissima costumanza di offrire un sacrifizio agli dei ogni cinque anni, dopo aver fatto la numemerazione della popolazione. Da ciò forse ne venne il nome proprio di lustro ad un periodo di cinque anni.
FINE DEL PRIMO VOLUME.
Indice del Primo volume §
- Introduzione pagina I
- Studio preliminare » VII
- Epigrafi » 3
- A
- 1 Aba o Abas pag. 9
- 2 Abadii o Betile » ivi
- 3 Abans » ivi
- 4 Abantiadi » ivi
- 5 Abante » ivi
- 6 Abarbarea » ivi
- 7 Abaride » ivi
- 8 Abas » ivi
- 9 Abaster » ivi
- 10 Abatos o Abato » ivi
- 11 Abbondanza » ivi
- 12 Abdera » 10
- 13 Abdereo » ivi
- 14 Abellion o Abellione » ivi
- 15 Abeone o Adeone » ivi
- 16 Aberide » ivi
- 17 Abia » ivi
- 18 Abido » ivi
- 19 Abieni » ivi
- 20 Aborigeni » ivi
- 21 Abracadabra » ivi
- 22 Abracax o Abraxas » ivi
- 23 Abrezia » ivi
- 24 Abseo » 11
- 25 Absirto » ivi
- 26 Abyla » ivi
- 27 Acacalide » ivi
- 28 Acacesio » ivi
- 29 Acadina » ivi
- 30 Acalo » ivi
- 31 Acamao » ivi
- 32 Acamarchide » ivi
- 33 Acanto o Acantho » ivi
- 34 Acarnania » ivi
- 35 Acarnao e Amphoterens » ivi
- 36 Acasis pag. ivi
- 37 Acasto » ivi
- 38 Acca » ivi
- 39 Acca Laurentia » ivi
- 40 Aceleo » ivi
- 41 Acersecome » ivi
- 42 Acesio o Alexesio » 12
- 43 Aceste » ivi
- 44 Acete » ivi
- 45 Achaja » ivi
- 46 Achamanto » ivi
- 47 Achaya » ivi
- 48 Achea » ivi
- 49 Acheloia » ivi
- 50 Acheloidi » ivi
- 51 Achemone o Achmon » ivi
- 52 Acheo » ivi
- 53 Acheolo » ivi
- 54 Acheroe » ivi
- 55 Acheronte » ivi
- 56 Acherusa » ivi
- 57 Acherusia o Acherontea » 13
- 58 Acherusiade » ivi
- 59 Achille » ivi
- 60 Achillea » 14
- 61 Achillenidi » ivi
- 62 Achiroe » ivi
- 63 Achlys » ivi
- 64 Achmenide » ivi
- 65 Achmeno » ivi
- 66 Achmon » ivi
- 67 Acidalia » ivi
- 68 Acilio, Acitio o Acisio » ivi
- 69 Acisio » ivi
- 70 Aciso » ivi
- 71 Acitio » ivi
- 72 Acli » ivi
- 73 Acmena » ivi
- 74 Acmone » ivi
- 75 Acmonide » ivi
- 76 Acœto » ivi {p. 310}
- 77 Aconte pag. ivi
- 78 Acor » ivi
- 79 Acoto o Acœto » ivi
- 80 Acqua » ivi
- 81 Acqua lustrale » 15
- 82 Acquario » ivi
- 83 Acrato » ivi
- 84 Acratoforo » ivi
- 85 Acrotopote » ivi
- 86 Acrea » ivi
- 87 Acrephius » ivi
- 88 Acrise » ivi
- 89 Acrisionade » ivi
- 90 Acrisione » ivi
- 91 Acroncio » ivi
- 92 Acteone » ivi
- 93 Actor » ivi
- 94 Adad, Adargatide o Atergatide » ivi
- 95 Adamantea » ivi
- 96 Adarcate o Atergate » 16
- 97 Adargatide » ivi
- 98 Adephagia o Adephacia » ivi
- 99 Adefago » ivi
- 100 Adea » ivi
- 101 Adeo » ivi
- 102 Adeone » ivi
- 103 Adephacia » ivi
- 104 Ades » ivi
- 105 Adia » ivi
- 106 Adiache » ivi
- 107 Adiaco, Adio e Adeo » ivi
- 108 Adio » ivi
- 109 Admeta » ivi
- 110 Admeto » ivi
- 111 Adod » 17
- 112 Adone » ivi
- 113 Adoneo » ivi
- 114 Adonie » ivi
- 115 Adorea » ivi
- 116 Adporina o Aporrina o Asporena » ivi
- 117 Adramech Anamelech » ivi
- 118 Adrameo o Adraneo » ivi
- 119 Adramo » ivi
- 120 Adraneo » ivi
- 121 Adrasta » ivi
- 122 Adrastea » ivi
- 123 Adrasto » 18
- 124 Adreo » ivi
- 125 Adulto » ivi
- 126 Aegocero » ivi
- 127 Aelo » ivi
- 128 Aeree » ivi
- 129 Aeta » ivi
- 130 Aetherea » ivi
- 131 Aetlio » ivi
- 132 Aetone » ivi
- 133 Aex » ivi
- 134 Afacitae pag. ivi
- 135 Afaco o Afanio » 19
- 136 Afanio » ivi
- 137 Afareo » ivi
- 138 Afea » ivi
- 139 Afesi » ivi
- 140 Afeteriani » ivi
- 141 Afetore » ivi
- 142 Afneo » ivi
- 143 Afonide » ivi
- 144 Afonio » ivi
- 145 Afonis, Afonio o Afonide » ivi
- 146 Afra » ivi
- 147 Africo » ivi
- 148 Afodrisie » ivi
- 149 Afrodite » ivi
- 150 Agamede » ivi
- 151 Agamennone » ivi
- 152 Agamennonidi » ivi
- 153 Aganice o Aglaonice » ivi
- 154 Aganapidi » ivi
- 155 Aganippa » 20
- 156 Agapenore » ivi
- 157 Agastene » ivi
- 158 Agastrofo » ivi
- 159 Agathirno o Agatirno » ivi
- 160 Agathirso » ivi
- 161 Agathodomeni » ivi
- 162 Agathone » ivi
- 163 Agatirno » ivi
- 164 Agave » ivi
- 165 Agavo » ivi
- 166 Agdelfo, Agdiflo o Agdisto » ivi
- 167 Agdiflo » ivi
- 168 Agdisto » ivi
- 169 Agdo » ivi
- 170 Agelao » ivi
- 171 Agelaso, Agelasto o Agelao » ivi
- 172 Agelasto » ivi
- 173 Agelia » ivi
- 174 Agenore » ivi
- 175 Agenoria o Agerone » ivi
- 176 Agenoridi » ivi
- 177 Ageroco » ivi
- 178 Agerone » ivi
- 179 Ageronia » ivi
- 180 Agesilao » ivi
- 181 Agete » ivi
- 182 Agirti » 21
- 183 Aglaja » ivi
- 184 Aglao » ivi
- 185 Aglaonice » ivi
- 186 Aglaope » ivi
- 187 Aglaopheme » ivi
- 188 Aglauro o Agraulo » ivi
- 189 Aglibolo » ivi
- 190 Agniteo » ivi {p. 311}
- 191 Agnito o Agniteo pag. ivi
- 192 Agno o Hagno » ivi
- 193 Agonali » ivi
- 194 Agoni » ivi
- 195 Agoniani » ivi
- 196 Agonio » ivi
- 197 Agoreo » ivi
- 198 Agrane, Agranie e Agrionie » ivi
- 199 Agrao o Agray » ivi
- 200 Agraulie » ivi
- 201 Agraulo » ivi
- 202 Agray » ivi
- 203 Agresto » ivi
- 204 Agriani » ivi
- 205 Agrianie » ivi
- 206 Agrio » ivi
- 207 Agriodo » ivi
- 208 Agrionie » ivi
- 209 Agriope » ivi
- 210 Agro » 22
- 211 Agroletera o Agrotera » ivi
- 212 Agrota » ivi
- 213 Agrotera » ivi
- 214 Agyeo » ivi
- 215 Agytei » ivi
- 216 Aidone » ivi
- 217 Aimena o Em ena » ivi
- 218 Aine o Aloe » ivi
- 219 Aixa » ivi
- 220 Ajace » ivi
- 221 Ajacee » 23
- 222 Ajdoneo » ivi
- 223 Ajo Locutio » ivi
- 224 Alabanda » 24
- 225 Alahgaba » ivi
- 226 Alala » ivi
- 227 Alalcomede » ivi
- 228 Alalcomena » ivi
- 229 Alalcomane » ivi
- 230 Alastore » ivi
- 231 Alba » ivi
- 232 Albania » ivi
- 233 Albione e Borgione » ivi
- 234 Albunea » ivi
- 235 Alburneo » ivi
- 236 Alcatee » ivi
- 237 Alcatoo » ivi
- 238 Alceo » ivi
- 239 Alceste » ivi
- 240 Alchmeone » ivi
- 241 Alci » 25
- 242 Alcide » ivi
- 243 Alcimede » ivi
- 244 Alcimedone » ivi
- 245 Alcinoe » ivi
- 246 Alcinoo » ivi
- 247 Alcio » ivi
- 248 Alcione pag. ivi
- 249 Alcioneo » ivi
- 250 Alciope » 26
- 251 Alcippe » ivi
- 252 Alcithoe » ivi
- 253 Alcmena » ivi
- 254 Alcomeno » ivi
- 255 Alcone » ivi
- 256 Alea » ivi
- 257 Alectone o Aletto » ivi
- 258 Alectore » ivi
- 259 Ale-Deo » ivi
- 260 Alee » ivi
- 261 Aleissiare » ivi
- 262 Alemanno » ivi
- 263 Alemona » ivi
- 264 Alemonide » ivi
- 265 Aleo » ivi
- 266 Aleppo » ivi
- 267 Aleso » ivi
- 268 Alessandra » ivi
- 269 Alessandro » ivi
- 270 Alete » ivi
- 271 Aletide » ivi
- 272 Aletryomanzia » ivi
- 273 Aletrione » ivi
- 274 Aletto » ivi
- 275 Alexesio » ivi
- 276 Alexia » ivi
- 277 Alexiroe » ivi
- 278 Alfeo » 27
- 279 Alfesibea o Arfinoe » ivi
- 280 Alfiassa » ivi
- 281 Alfitomansia » ivi
- 282 Alia » ivi
- 283 Aliatto » ivi
- 284 Aliee » ivi
- 285 Alilat » ivi
- 286 Alimede » ivi
- 287 Aliteo o Aliterio » ivi
- 288 Aliterio » ivi
- 289 Alixotoe » ivi
- 290 Allegrezza » ivi
- 291 Allodola » ivi
- 292 Alloprophallos » ivi
- 293 Allirozio o Allyrotio » ivi
- 294 Almone » ivi
- 295 Almopo » ivi
- 296 Aloe » ivi
- 297 Aloeo o Aloo » ivi
- 298 Aloidi » ivi
- 299 Aloo » 28
- 300 Alopo o Aleppo » ivi
- 301 Alpheja » ivi
- 302 Alrune » ivi
- 303 Altea » ivi
- 304 Altepo » ivi {p. 312}
- 305 Altio pag. ivi
- 306 Alumra » ivi
- 307 Alyato o Aliatto » ivi
- 308 Alysio » ivi
- 309 Amadriade » ivi
- 310 Amadriadi » ivi
- 311 Amaltea » 29
- 312 Amanio » ivi
- 313 Amano o Amanio » ivi
- 314 Amaraco » ivi
- 315 Amarusia o Amarynthia » ivi
- 316 Amarynthia » ivi
- 317 Amata » ivi
- 318 Amathontia o Amathusa » ivi
- 319 Amathusa » ivi
- 320 Amatunta » ivi
- 321 Amatus » ivi
- 322 Amazonio » ivi
- 323 Amazzoni » ivi
- 324 Ambarvale » ivi
- 325 Ambizione » ivi
- 326 Ambrosia » ivi
- 327 Ambuibio » 30
- 328 Ambulio » ivi
- 329 Amburbale » ivi
- 330 Amente » ivi
- 331 Amentheo » ivi
- 332 Amica » ivi
- 333 Amicizia » ivi
- 334 Amiclea » ivi
- 335 Amicleo » ivi
- 336 Amico » ivi
- 337 Amida » ivi
- 338 Amisodar » ivi
- 339 Amithaone » 31
- 340 Amimome » ivi
- 341 Ammone o Hammon » ivi
- 342 Ammonia » ivi
- 343 Amniasiadi o Amnisidi » ivi
- 344 Amnisidi » ivi
- 345 Amoea » ivi
- 346 Amontea » ivi
- 347 Amore » ivi
- 348 Ampelo » ivi
- 349 Ampelusia » ivi
- 350 Amphiaro » ivi
- 351 Ampicide » ivi
- 352 Ampico » ivi
- 353 Amulio » 32
- 354 Amycla » ivi
- 355 Amyclao » ivi
- 356 Amyco » ivi
- 357 Amynta » ivi
- 358 Amyntoridi » ivi
- 359 Amyone » ivi
- 360 Anacee » ivi
- 361 Anachiso » ivi
- 362 Anaclesa pag. ivi
- 363 Anadyomene » ivi
- 364 Anagogie » ivi
- 365 Anaidia » ivi
- 366 Anaitide o Anetide » ivi
- 367 Anamelech » ivi
- 368 Anapo o Anapi » ivi
- 369 Anassagora » ivi
- 370 Anatole » ivi
- 371 Anaue » ivi
- 372 Anauro » ivi
- 373 Anax » ivi
- 374 Anaxabia » ivi
- 375 Anaxandra » ivi
- 376 Anaxarete » ivi
- 377 Anasci » ivi
- 378 Anaxiso » ivi
- 379 Anaxithea » ivi
- 380 Anaxo » ivi
- 381 Ancaria » 33
- 382 Ancario » ivi
- 383 Anceo » ivi
- 384 Anchialo o Ancario » ivi
- 385 Anchisiadi » ivi
- 386 Anchise » ivi
- 387 Anchuro » ivi
- 388 Ancile » ivi
- 389 Anculo o Ancula » ivi
- 390 Andate o Andrastea » ivi
- 391 Andiomena » ivi
- 392 Andirina » ivi
- 393 Andrastea » ivi
- 394 Andremone » ivi
- 395 Androclea » ivi
- 396 Androfona » ivi
- 397 Androgenie » 34
- 398 Androgeo » ivi
- 399 Androgini » ivi
- 400 Andromaca » ivi
- 401 Andromeda » ivi
- 402 Androso o Andruso » ivi
- 403 Anello di Minos » ivi
- 404 Anetide » ivi
- 405 Anfanto » ivi
- 406 Anfiaree » ivi
- 407 Anfiareidi » ivi
- 408 Anfiareo o Anfiaro » ivi
- 409 Anfidamo » ivi
- 410 Anfidione » ivi
- 411 Anfiloco » ivi
- 412 Anfimaco » ivi
- 413 Anfimedone » ivi
- 414 Anfinoma » 35
- 415 Anfinomea » ivi
- 416 Anfinomo » ivi
- 417 Anfione » ivi
- 418 Anfioro » ivi {p. 313}
- 419 Anfipyro pag. ivi
- 420 Anfitoe » ivi
- 421 Anfitride » ivi
- 422 Anfitrione » ivi
- 423 Anfitrionidi » ivi
- 424 Anfriso » ivi
- 425 Angelia » ivi
- 426 Angello » ivi
- 427 Angelo » ivi
- 428 Angeronale » ivi
- 429 Angeronia o Ageronia » ivi
- 430 Anguipede » ivi
- 431 Anguitia o Angitia » ivi
- 432 Angitia » 36
- 433 Anieno » ivi
- 434 Anigero » ivi
- 435 Anigridi » ivi
- 436 Anima » ivi
- 437 Animali » ivi
- 438 Anio » ivi
- 439 Anitide » ivi
- 440 Anna » ivi
- 441 Anna Perenna » ivi
- 442 Anneddoti » ivi
- 443 Annemotisa » ivi
- 444 Annona » ivi
- 445 Anoaretha » ivi
- 446 Anogone » ivi
- 447 Anosia » ivi
- 448 Anphoterens » ivi
- 449 Anguigeni » ivi
- 450 Ansur o Assur » ivi
- 451 Antandro » ivi
- 452 Antea » ivi
- 453 Antelio o Anthelio » ivi
- 454 Antemoisia » ivi
- 455 Antenore » 37
- 456 Antenoridi » ivi
- 457 Anteo » ivi
- 458 Antero » ivi
- 459 Antevorta » ivi
- 460 Anhelio » ivi
- 461 Anteo » ivi
- 462 Antesforie » ivi
- 463 Anthia » ivi
- 464 Anthio » ivi
- 465 Anthione » ivi
- 466 Anthiope » ivi
- 467 Anthoro o Antoreo » ivi
- 468 Antia » ivi
- 469 Anticlea » ivi
- 470 Anticyra » ivi
- 471 Anti-Dei » ivi
- 472 Antifo » ivi
- 473 Antigone » ivi
- 474 Antigonie » 38
- 475 Antilogo » ivi
- 476 Antinoo pag. ivi
- 477 Antipate » ivi
- 478 Antistene » ivi
- 479 Antoreo » ivi
- 480 Antron Corace » ivi
- 481 Anubi » ivi
- 482 Anxuro » ivi
- 483 Anxuyro » ivi
- 484 Anzio » ivi
- 485 Aone » ivi
- 486 Aonidi » ivi
- 487 Aonio Dio » ivi
- 488 Aorasia » ivi
- 489 Apatuarie » 39
- 490 Apefanzio » ivi
- 491 Api » ivi
- 492 Apis » ivi
- 493 Apiso o Apis » ivi
- 494 Apobomie » 40
- 495 Apollo » ivi
- 496 Apollonie » ivi
- 497 Apomjo » ivi
- 498 Apona » ivi
- 499 Aporrina » ivi
- 500 Apostrophia » ivi
- 501 Apoteosi » ivi
- 502 Apostropheni » ivi
- 503 Apparizione degli dei » 41
- 504 Appiadi » ivi
- 505 Aquila » iv
- 506 Aquilone » ivi
- 507 Arabo » ivi
- 508 Aracinta » ivi
- 509 Aracne » ivi
- 510 Aratee » ivi
- 511 Arbitratore o Arbitro » ivi
- 512 Arbitro » ivi
- 513 Arbori » ivi
- 514 Arcade » ivi
- 515 Arcadia » ivi
- 516 Arcesilao » ivi
- 517 Arcesio » ivi
- 518 Archegete » ivi
- 519 Archemore » ivi
- 520 Archigallo » 42
- 521 Archiloco » ivi
- 522 Archita » ivi
- 523 Arciteneno » ivi
- 524 Arctura » ivi
- 525 Arculo » ivi
- 526 Ardalidi » ivi
- 527 Ardea » ivi
- 528 Ardenna » ivi
- 529 Areo » ivi
- 530 Areopago » ivi
- 531 Areotopoto » ivi {p. 314}
- 532 Areso pag. ivi
- 533 Arestoridi » ivi
- 534 Areta » ivi
- 535 Aretusa » ivi
- 536 Areuso » 43
- 537 Arfinoe » ivi
- 538 Arga » ivi
- 539 Argantona » ivi
- 540 Arge » ivi
- 541 Argea o Arga » ivi
- 542 Argei » ivi
- 543 Argentino » ivi
- 544 Argeo » ivi
- 545 Argesio » ivi
- 546 Argia » ivi
- 547 Argianna o Argolica » ivi
- 548 Argifonte » ivi
- 549 Argilete » ivi
- 550 Arginide » ivi
- 551 Arginno » ivi
- 552 Argiope » ivi
- 553 Argira » ivi
- 554 Argiva » ivi
- 555 Argo » ivi
- 556 Argolea » 44
- 557 Argolica » ivi
- 558 Argonauti » ivi
- 559 Argone » ivi
- 560 Argoreo » ivi
- 561 Aria » ivi
- 562 Ariadne » ivi
- 563 Ariadnee » ivi
- 564 Arianna o Ariadne » ivi
- 565 Ariannee o Ariadnee » ivi
- 566 Aricia » ivi
- 567 Aricina » 45
- 568 Ariete » ivi
- 569 Arimane » ivi
- 570 Arimomanzia » ivi
- 571 Ario » ivi
- 572 Arione » ivi
- 573 Aristene » ivi
- 574 Aristeo » ivi
- 575 Aristobula » ivi
- 576 Aristone » ivi
- 577 Aristore » ivi
- 578 Armata Venere » ivi
- 579 Armifera Dea » ivi
- 580 Armilustre o Armilustria » ivi
- 581 Armilustria » ivi
- 582 Armi-potente » ivi
- 583 Arna » ivi
- 584 Arnea o Arna » ivi
- 585 Arno » ivi
- 586 Arpa » ivi
- 587 Arpalice » ivi
- 588 Arpedoforo » 46
- 589 Arpie pag. ivi
- 590 Arpocrate » ivi
- 591 Arrichione » 47
- 592 Arripe » ivi
- 593 Arsace » ivi
- 594 Arsinoe » ivi
- 595 Arte » ivi
- 596 Artemisia » ivi
- 597 Arteride » ivi
- 598 Artimpasa » ivi
- 599 Artipoo » ivi
- 600 Arunticeo » ivi
- 601 Aruspici » ivi
- 602 Arvali » ivi
- 603 Ascalafo » 48
- 604 Ascalapo » ivi
- 605 Ascanio » ivi
- 606 Asclepiade » ivi
- 607 Asclepiadi » ivi
- 608 Asclepie » ivi
- 609 Asclepio » ivi
- 610 Ascolie » ivi
- 611 Ascra » ivi
- 612 Asera » ivi
- 613 Asfalaia » ivi
- 614 Asfalione » ivi
- 615 Asia » ivi
- 616 Asima » ivi
- 617 Asino » ivi
- 618 Asio » 49
- 619 Asopo » ivi
- 620 Asporina » ivi
- 621 Assabino » ivi
- 622 Assaraco » ivi
- 623 Assinomanzia » ivi
- 624 Assur » ivi
- 625 Astaroth » ivi
- 626 Asteria » ivi
- 627 Asterio » ivi
- 628 Asterione » ivi
- 629 Asterodia » ivi
- 630 Asterope » ivi
- 631 Asteropeo » ivi
- 632 Astiale » ivi
- 633 Astianasse » ivi
- 634 Astianatte » ivi
- 635 Astidamia » ivi
- 636 Astilo » ivi
- 637 Astimeda » ivi
- 638 Astioche » ivi
- 639 Astioco » ivi
- 640 Astione » 50
- 641 Astiosea » ivi
- 642 Astipaleo » ivi
- 643 Astirea » ivi
- 644 Astirena o Astrena » ivi
- 645 Astomi » ivi {p. 315}
- 646 Astrea pag. ivi
- 647 Astrei » ivi
- 648 Astrena » ivi
- 649 Astreo » ivi
- 650 Astri » ivi
- 651 Astrabaco » ivi
- 652 Astrofa » ivi
- 653 Ata » ivi
- 654 Atabirio » ivi
- 655 Atalanta » ivi
- 656 Atamanti » ivi
- 657 Atamanti » ivi
- 658 Atamaso » ivi
- 659 Atea o Ata » ivi
- 660 Atella » ivi
- 661 Atena » ivi
- 662 Atenea » ivi
- 663 Atenee » 51
- 664 Atergate » ivi
- 665 Atergatide » ivi
- 666 Atherea o Aetherea » ivi
- 667 Ati » ivi
- 668 Atie » ivi
- 669 Atisio » ivi
- 670 Atlante » ivi
- 671 Atlantidi » ivi
- 672 Atoso » ivi
- 673 Atreo » ivi
- 674 Atridi » ivi
- 675 Atropo » ivi
- 676 Attea » ivi
- 677 Atteone » ivi
- 678 Auge » 52
- 679 Augea o Auge » ivi
- 680 Augia » ivi
- 681 Augurio » ivi
- 682 Aulide » ivi
- 683 Aulisea » ivi
- 684 Aulone » ivi
- 685 Aurigeno » ivi
- 686 Aurora » ivi
- 687 Ausone » ivi
- 688 Auspicii » ivi
- 689 Austero » ivi
- 690 Autenome » ivi
- 691 Auteleone » ivi
- 692 Autolico » ivi
- 693 Automatia » 53
- 694 Automedone » ivi
- 695 Autona » ivi
- 696 Autonea o Autona » ivi
- 697 Autopsia » ivi
- 698 Autunno » ivi
- 699 Auxo » ivi
- 700 Aventino » ivi
- 701 Averno » ivi
- 702 Averunci, Avverunci o Averungani » ivi
- 703 Averungani pag. ivi
- 704 Avoltoio » ivi
- 705 Avverunci » ivi
- 706 Axinomanzia, Assinomanzia o Animomanzia » ivi
- 707 Axione »
- 708 Axuro » ivi
- 709 Azano » ivi
- 710 Azesia » ivi
- 711 Aziache » ivi
- 712 Azio » ivi
- 713 Azizio » ivi
- 714 Azoni » ivi
- B
- 715 Baal » 54
- 716 Baal-Berit » ivi
- 717 Baal-Fegor, Bellegor, o Belfegob » ivi
- 718 Baal-Gad » ivi
- 719 Baal-Gall o Baal-Gad » ivi
- 720 Baal-Peor » ivi
- 721 Baal-Semèn » ivi
- 722 Baal-Tsefon » ivi
- 723 Baaltide » ivi
- 724 Babelle » ivi
- 725 Babia » ivi
- 726 Babilonia » ivi
- 727 Babiso » 55
- 728 Baccanali » ivi
- 729 Baccanti » ivi
- 730 Bacchemone » ivi
- 731 Baccheo-Toro o Bagi-Toro » ivi
- 732 Bacchiade » ivi
- 733 Bacchiadi » ivi
- 734 Bacco » ivi
- 735 Baciso » 56
- 736 Bagi-Toro » ivi
- 737 Bagoe » ivi
- 738 Balana » ivi
- 739 Bali » ivi
- 740 Balio » 57
- 741 Bapto » ivi
- 742 Baraico » ivi
- 743 Barbata » ivi
- 744 Bardi » ivi
- 745 Basilea » ivi
- 746 Basillisa » ivi
- 747 Bassareo » ivi
- 748 Bassaridi » ivi
- 749 Batea » ivi
- 750 Batone » ivi
- 751 Batto » ivi
- 752 Baubo » ivi
- 753 Bauci » ivi
- 754 Bebreci » 58
- 755 Becchi » ivi {p. 316}
- 756 Beelfegob pag. ivi
- 757 Bel » ivi
- 758 Belatucadua o Belertucadi » ivi
- 759 Belbuc e Zeomeeuc » ivi
- 760 Beleno » ivi
- 761 Belertucadi » ivi
- 762 Belidi » ivi
- 763 Belifama o Belizama » ivi
- 764 Belizama » ivi
- 765 Bellegor » ivi
- 766 Bellero » ivi
- 767 Bellino » ivi
- 768 Bellona » ivi
- 769 Bellonarii » 59
- 770 Bellorofonte » ivi
- 771 Belo » ivi
- 772 Belzebù » ivi
- 773 Bendide » ivi
- 774 Bendidie » ivi
- 775 Benilucio » ivi
- 776 Bergino » ivi
- 777 Bergioso » ivi
- 778 Berecinta o Berecintia » ivi
- 779 Berecintia » ivi
- 780 Berecinto Eroe » ivi
- 781 Berenice » ivi
- 782 Beroe » ivi
- 783 Besa » 60
- 784 Betannoni » ivi
- 785 Bettille » ivi
- 786 Beza » ivi
- 787 Bianor » ivi
- 788 Bibesia ed Edesia » ivi
- 789 Bibli » ivi
- 790 Biblosa o Biblo » ivi
- 791 Bibratte » ivi
- 792 Bicornide, Bicornigero e Bucorno » ivi
- 793 Bicornigero » ivi
- 794 Bidentali » ivi
- 795 Bidentalo » ivi
- 796 Bieunio » ivi
- 797 Biforme » ivi
- 798 Bilancia » ivi
- 799 Bimatere » 61
- 800 Bipennifero » ivi
- 801 Bisalpisa » ivi
- 802 Biscia » ivi
- 803 Bistone » ivi
- 804 Bistonidi » ivi
- 805 Bistonio » ivi
- 806 Bisoltore » ivi
- 807 Bitia » ivi
- 808 Bittone » ivi
- 809 Bizeno » ivi
- 810 Boedromie » ivi
- 811 Boedromio » ivi
- 812 Bolatheno » ivi
- 813 Bolina pag. ivi
- 814 Bolomancia » ivi
- 815 Boopide » ivi
- 816 Boote » ivi
- 817 Borea » ivi
- 818 Boreadi » 62
- 819 Boschi sacri » ivi
- 820 Branchide » ivi
- 821 Braurona » ivi
- 822 Brauronia » ivi
- 823 Briareo » ivi
- 824 Brimo » ivi
- 825 Brise » ivi
- 826 Briseide » ivi
- 827 Briseo » 63
- 828 Brisida o Brasida » ivi
- 829 Britomarte o Britormati » ivi
- 830 Britormati » ivi
- 831 Brizo » ivi
- 832 Bromio » ivi
- 833 Bromuso » ivi
- 834 Bronte » ivi
- 835 Bronteo » ivi
- 836 Broteo » ivi
- 837 Brumali » ivi
- 838 Bubaste » ivi
- 839 Bubona » ivi
- 840 Bucentauro » ivi
- 841 Bucolione » ivi
- 842 Bucorno » ivi
- 843 Budea » ivi
- 844 Buona-Dea » ivi
- 845 Buonie » ivi
- 846 Buoni-Eventi » ivi
- 847 Buono » ivi
- 848 Buono-Dio » ivi
- 849 Bupale » ivi
- 850 Bupalo » ivi
- 851 Buphago » 64
- 852 Buraico » ivi
- 853 Busiride » ivi
- 854 Bute » ivi
- 855 Buteo » ivi
- 856 Butrota » ivi
- C
- 857 Caante pag. 65
- 858 Caballina » ivi
- 859 Cabarnide » ivi
- 860 Cabarno » ivi
- 861 Cabira » ivi
- 862 Cabiri » ivi
- 863 Cabiria » ivi
- 864 Cabiridi » ivi
- 865 Cabirie » ivi
- 866 Cabro o Calabro » ivi {p. 317}
- 867 Caca pag. ivi
- 868 Cachomedusa » ivi
- 869 Caco » ivi
- 870 Cadarmidi o Catarmi » 66
- 871 Cadmea o Cadmia » ivi
- 872 Cadmeo » ivi
- 873 Cadmia » ivi
- 874 Cadmillo » ivi
- 875 Cadmo » ivi
- 876 Caduceo » ivi
- 877 Caducifero » ivi
- 878 Cafareo » ivi
- 879 Cajetta o Cajbta » ivi
- 880 Caistrio o Caystrio » ivi
- 881 Cajbta » ivi
- 882 Calabro » ivi
- 883 Calaide e Zete » ivi
- 884 Calasidie » ivi
- 885 Calcante » ivi
- 886 Calchee o Calcie » 67
- 887 Calchiade o Calcieca » ivi
- 888 Calchiadi o Calciecie » ivi
- 889 Calcie » ivi
- 890 Calciecie » ivi
- 891 Calcieca » ivi
- 892 Calciope » ivi
- 893 Calendaria » ivi
- 894 Calibea » ivi
- 895 Calicea » ivi
- 896 Calicope » ivi
- 897 Calidone » ivi
- 898 Calidonio » ivi
- 899 Calidonisa » ivi
- 900 Calipso » ivi
- 901 Calisto » ivi
- 902 Callianasse o Callianira » 68
- 903 Callianira » ivi
- 904 Callicore » ivi
- 905 Calligenie » ivi
- 906 Calliope » ivi
- 907 Callipatira » ivi
- 908 Callipica » ivi
- 909 Callirot » ivi
- 910 Callistee » ivi
- 911 Calpe » ivi
- 912 Calunnia » ivi
- 913 Camarina o Camerin » ivi
- 914 Cambe » ivi
- 915 Camela-Dea » ivi
- 916 Camena » ivi
- 917 Camene » ivi
- 918 Camerina » ivi
- 919 Cameso » ivi
- 920 Camilla » ivi
- 921 Camilli » ivi
- 922 Camillo, Cadmillo o Casimillo » 69
- 923 Camira » ivi
- 924 Camos pag. ivi
- 925 Campagna delle lagrime » ivi
- 926 Campea » ivi
- 927 Campi Elisi » ivi
- 928 Camulo » ivi
- 929 Canaca » ivi
- 930 Canace » ivi
- 931 Canacea » ivi
- 932 Canate » ivi
- 933 Canatosa » ivi
- 934 Cancro » ivi
- 935 Candarena » ivi
- 936 Candaulo » ivi
- 937 Cane » ivi
- 938 Canente » 70
- 939 Canicola » ivi
- 940 Canope » ivi
- 941 Canopio Ercole » ivi
- 942 Cantho » ivi
- 943 Canuleia » ivi
- 944 Caone » ivi
- 945 Caos » ivi
- 946 Capaneo » ivi
- 947 Capiso » ivi
- 948 Capitolino » ivi
- 949 Capnomanzia » ivi
- 950 Capra » ivi
- 951 Capretto » 71
- 952 Caprotina » ivi
- 953 Caprotinee » ivi
- 954 Capricorno » ivi
- 955 Capyso » ivi
- 956 Carda » ivi
- 957 Cardea o Cardinea » ivi
- 958 Cardinea » ivi
- 959 Caria » ivi
- 960 Cariatide » ivi
- 961 Cariclo » ivi
- 962 Cariddi » ivi
- 963 Caride o Charisa » ivi
- 964 Carienne » ivi
- 965 Carille » ivi
- 966 Cario » 72
- 967 Carisie » ivi
- 968 Caristie o Caritie » ivi
- 969 Cariti » ivi
- 970 Caritie » ivi
- 971 Carmelo » ivi
- 972 Carmenta » ivi
- 973 Carmentali » ivi
- 974 Carmentis-Flamen » ivi
- 975 Carna » ivi
- 976 Carnea » ivi
- 977 Carneade » ivi
- 978 Carneo » ivi
- 979 Carone » ivi
- 980 Caronte o Carone » ivi {p. 318}
- 981 Caropx pag. ivi
- 982 Carro di Giunone » ivi
- 983 Cartagine » ivi
- 984 Cartaginesi » ivi
- 985 Casimillo » 73
- 986 Casio » ivi
- 987 Cassandra » ivi
- 988 Cassiope » ivi
- 989 Cassotide » ivi
- 990 Castalia » ivi
- 991 Castalidi » ivi
- 992 Castalio » ivi
- 993 Castianira » ivi
- 994 Castore e Polluce » 74
- 995 Catabato o Cataibate » ivi
- 996 Catactoniano » ivi
- 997 Catadriani » ivi
- 998 Cataibate » ivi
- 999 Catarmi » ivi
- 1000 Catilo » ivi
- 1001 Catinenzia » ivi
- 1002 Catio » ivi
- 1003 Caucaso » ivi
- 1004 Caumaso » 75
- 1005 Cauno » ivi
- 1006 Cauro » ivi
- 1007 Cauto » ivi
- 1008 Cavalli di Achille » ivi
- 1009 Cavalli del Sole » ivi
- 1010 Cavalli di Enea » ivi
- 1011 Cavalli di Laomedone » ivi
- 1012 Cavalli di Marte » ivi
- 1013 Cavalli di Reso » ivi
- 1014 Cavallo » ivi
- 1015 Cavallo di Troia » ivi
- 1016 Caystrio » 76
- 1017 Cea » ivi
- 1018 Ceade » ivi
- 1019 Cebo, Cepo o Cefo » ivi
- 1020 Cebrione » ivi
- 1021 Cecio » ivi
- 1022 Cecolo » ivi
- 1023 Cecopro » ivi
- 1024 Cecrope » ivi
- 1025 Cecropea » ivi
- 1026 Cecropidi » ivi
- 1027 Cecropisa » ivi
- 1028 Cedemporo » ivi
- 1029 Cedippe » 77
- 1030 Cefalo » ivi
- 1031 Cefeo » ivi
- 1032 Cefiso » ivi
- 1033 Cefo » ivi
- 1034 Ceix » ivi
- 1035 Celadone » ivi
- 1036 Celana » ivi
- 1037 Celeno » ivi
- 1038 Celeo pag. ivi
- 1039 Celeri-Dee » ivi
- 1040 Celeste » ivi
- 1041 Celma » ivi
- 1042 Celmiso » ivi
- 1043 Celo » ivi
- 1044 Cenchiria o Cencrea » ivi
- 1045 Cencrea » ivi
- 1046 Cencrisa » ivi
- 1047 Cencriso » ivi
- 1048 Ceneo » ivi
- 1049 Centauri » 78
- 1050 Centauro » ivi
- 1051 Centimano » ivi
- 1052 Ceo » ivi
- 1053 Cepo » ivi
- 1054 Cerambe » ivi
- 1055 Cerasti » ivi
- 1056 Ceraunio » ivi
- 1057 Cerbero » ivi
- 1058 Cerceisa » 79
- 1059 Cercione » ivi
- 1060 Cercopi » ivi
- 1061 Cercopiteca » ivi
- 1062 Cereali » ivi
- 1063 Cerere » ivi
- 1064 Cerici » ivi
- 1065 Cerixo » ivi
- 1066 Cerphafo » 80
- 1067 Ceruleo » ivi
- 1068 Ceruso » ivi
- 1069 Cesare (Giulio) » ivi
- 1070 Cesto » ivi
- 1071 Cestrino » ivi
- 1072 Ceto » ivi
- 1073 Chaonia » ivi
- 1074 Chariclea e Teagene » ivi
- 1075 Charise » ivi
- 1076 Chelonea » ivi
- 1077 Chera » ivi
- 1078 Cherone » ivi
- 1079 Chiliombe » ivi
- 1080 Chilone » ivi
- 1081 Chimera » ivi
- 1082 Chione » ivi
- 1083 Chiromanzia » ivi
- 1084 Chirone » ivi
- 1085 Chitonea o Chitonia » 81
- 1086 Chitonia » ivi
- 1087 Ciane » ivi
- 1088 Cianea » ivi
- 1089 Cianei » ivi
- 1090 Cianippo » ivi
- 1091 Cibebe » ivi
- 1092 Cibelle » ivi
- 1093 Cibernesie » ivi
- 1094 Cicala » ivi {p. 319}
- 1095 Cicinnia pag. ivi
- 1096 Cicladi » ivi
- 1097 Ciclopi » ivi
- 1098 Cicno » 82
- 1099 Cicogna » ivi
- 1100 Ciconi » ivi
- 1101 Cicreo » ivi
- 1102 Cidiope » ivi
- 1103 Cielo o Celo » ivi
- 1104 Cigno o Cicno » ivi
- 1105 Cileno » ivi
- 1106 Cilixo » ivi
- 1107 Cillabaro » ivi
- 1108 Cillaruso » ivi
- 1109 Cillene » ivi
- 1110 Cilleo » ivi
- 1111 Cillo » ivi
- 1112 Cimmeria o Cimmeride » 83
- 1113 Cimmeriani » ivi
- 1114 Cimmeride » ivi
- 1115 Cimodoce » ivi
- 1116 Cimodocea » ivi
- 1117 Cimopoja » ivi
- 1118 Cimotoe » ivi
- 1119 Cinarada » ivi
- 1120 Cincia » ivi
- 1121 Cindiade » ivi
- 1122 Cinghiale di Erimanto » ivi
- 1123 Cinghiale di Calidone » ivi
- 1124 Cinira » ivi
- 1125 Ciniro il giovane » ivi
- 1126 Cinisca » ivi
- 1127 Cinocefalo » ivi
- 1128 Cinofontisa » ivi
- 1129 Cinosora » ivi
- 1130 Cinosarge » ivi
- 1131 Cinsia e Cinsio » 83
- 1132 Cinsio » ivi
- 1133 Cintura di Venere » ivi
- 1134 Ciparisso » ivi
- 1135 Cipfelide » ivi
- 1136 Cipresso » ivi
- 1137 Ciprigna » ivi
- 1138 Circe » ivi
- 1139 Circio » 84
- 1140 Cirene » ivi
- 1141 Cirno » ivi
- 1142 Cirra » ivi
- 1143 Cisio » ivi
- 1144 Cissea » ivi
- 1145 Cissone » ivi
- 1146 Cissotonie » ivi
- 1147 Cita » ivi
- 1148 Citera » ivi
- 1149 Citerea » ivi
- 1150 Citereo » ivi
- 1151 Citereo-Eroe » ivi
- 1152 Citeriadi pag. ivi
- 1153 Citerone » ivi
- 1154 Citeronia » ivi
- 1155 Citeronio » ivi
- 1156 Citora » ivi
- 1157 Civetta » ivi
- 1158 Cizzica o Cisia » ivi
- 1159 Cladea » ivi
- 1160 Cladeo » ivi
- 1161 Cladeuterie » ivi
- 1162 Clara-Dea » ivi
- 1163 Clario » ivi
- 1164 Claro » 85
- 1165 Claudia » ivi
- 1166 Clausio » ivi
- 1167 Clava » ivi
- 1168 Clavigero » ivi
- 1169 Cledonismanzia » ivi
- 1170 Clemenza » ivi
- 1171 Cleobe » ivi
- 1172 Cleodeo » ivi
- 1173 Cleodice » ivi
- 1174 Cleodora » ivi
- 1175 Cleodossa » ivi
- 1176 Cleomede » ivi
- 1177 Cleone » ivi
- 1178 Cleopatra » ivi
- 1179 Cleromanzia » ivi
- 1180 Cleta » ivi
- 1181 Clidomanzia » ivi
- 1182 Climene » ivi
- 1183 Climeneidi » ivi
- 1184 Climeneo » ivi
- 1185 Clio » ivi
- 1186 Clita » ivi
- 1187 Clitennestra » 86
- 1188 Clitidi » ivi
- 1189 Clitio » ivi
- 1190 Clito » ivi
- 1191 Clizia » ivi
- 1192 Cloacina » ivi
- 1193 Clodonie » ivi
- 1194 Cloe » ivi
- 1195 Cloesie » ivi
- 1196 Cloje » ivi
- 1197 Clone » ivi
- 1198 Clonio » ivi
- 1199 Cloreo » ivi
- 1200 Cloridi » ivi
- 1201 Closio » ivi
- 1202 Clostero » ivi
- 1203 Cloto » ivi
- 1204 Cnef o Cnufi » ivi
- 1205 Cnufi » ivi
- 1206 Coalemo » ivi
- 1207 Cobali » ivi
- 1208 Cocalo » ivi {p. 320}
- 1209 Coccodrillo pag. 87
- 1210 Cocinomanzia o Coscinomanzia » ivi
- 1211 Cocitia-Virgo » ivi
- 1212 Cocito » ivi
- 1213 Coe o Coo » ivi
- 1214 Colasco » ivi
- 1215 Colchide » ivi
- 1216 Collaro d’Erifile » ivi
- 1217 Collatina o Collina » ivi
- 1218 Collina » ivi
- 1219 Colofone » ivi
- 1220 Colomba » ivi
- 1221 Colonne d’Ercole » 88
- 1222 Colossi » ivi
- 1223 Colosso di Rodi » ivi
- 1224 Comani » ivi
- 1225 Comeo » ivi
- 1226 Cometeso » ivi
- 1227 Cometo » ivi
- 1228 Como » ivi
- 1229 Compitalie » ivi
- 1230 Comuso » ivi
- 1231 Concordia » ivi
- 1232 Conifalo » 89
- 1233 Connida » ivi
- 1234 Consedio » ivi
- 1235 Consenti » ivi
- 1236 Consenzie » ivi
- 1237 Conservatrice » ivi
- 1238 Consiva » ivi
- 1239 Conso » ivi
- 1240 Consuali » ivi
- 1241 Coo » ivi
- 1242 Coon » ivi
- 1243 Coppa » ivi
- 1244 Cora o Corea » ivi
- 1245 Corallo » ivi
- 1246 Corcira » ivi
- 1247 Corea » ivi
- 1248 Corebe » ivi
- 1249 Coresia » ivi
- 1250 Coreso » ivi
- 1251 Corevo o Corebe » ivi
- 1252 Coribanti o Cureti » ivi
- 1253 Coribante » ivi
- 1254 Coribantici » ivi
- 1255 Coribaso » ivi
- 1256 Coricia » ivi
- 1257 Corifea » ivi
- 1258 Corimbifero » ivi
- 1259 Corinto » 90
- 1260 Corinete » ivi
- 1261 Coritalia » ivi
- 1262 Coritallia o Coritalia » ivi
- 1263 Coritie » ivi
- 1264 Corito » ivi
- 1265 Corna di Bacco » ivi
- 1266 Corno dell’abbondanza pag. ivi
- 1267 Coroneo » ivi
- 1268 Coronide » ivi
- 1269 Cortina » ivi
- 1270 Corvo » ivi
- 1271 Coscinomanzia » ivi
- 1272 Cotitto » ivi
- 1273 Cotto » 91
- 1274 Covella » ivi
- 1275 Crabuso » ivi
- 1276 Crane » ivi
- 1277 Cranio » ivi
- 1278 Cratea » ivi
- 1279 Crateo o Creteo » ivi
- 1280 Crau » ivi
- 1281 Crefagenete » ivi
- 1282 Crenee » ivi
- 1283 Creonciade » ivi
- 1284 Creonte » ivi
- 1285 Creontide o Creonciade » ivi
- 1286 Cresponte » ivi
- 1287 Crepito » ivi
- 1288 Creta » ivi
- 1289 Creteo » ivi
- 1290 Cretesi » ivi
- 1291 Cretheo » ivi
- 1292 Cretheja-Virgo » ivi
- 1293 Cretone » ivi
- 1294 Creusa » ivi
- 1295 Criaforeo » 92
- 1296 Criaforo » ivi
- 1297 Criforo o Crisore » ivi
- 1298 Crinifo » ivi
- 1299 Criniso » ivi
- 1300 Criobole » ivi
- 1301 Criofago » ivi
- 1302 Crioforo » ivi
- 1303 Crisaore » ivi
- 1304 Crise » ivi
- 1305 Criseide » 93
- 1306 Crisia » ivi
- 1307 Crisippo » ivi
- 1308 Crisomattone » ivi
- 1309 Crisore » ivi
- 1310 Crisotemi » ivi
- 1311 Critomanzia » ivi
- 1312 Crocale » ivi
- 1313 Croco » ivi
- 1314 Crodo » ivi
- 1315 Cromio » ivi
- 1316 Cromione » ivi
- 1317 Cromisio » ivi
- 1318 Cromiso » ivi
- 1319 Cronie » ivi
- 1320 Cronio » ivi
- 1321 Crono » ivi
- 1322 Crotopiadi » ivi {p. 321}
- 1323 Crotopo pag. ivi
- 1324 Cteato » ivi
- 1325 Ctonio » ivi
- 1326 Cuba » ivi
- 1327 Cuculo » ivi
- 1328 Cuma » 94
- 1329 Cunia » ivi
- 1330 Cupavo » ivi
- 1331 Cupido » ivi
- 1332 Cura » ivi
- 1333 Cureoti » ivi
- 1334 Cureti » ivi
- 1335 Curisa » ivi
- 1336 Cuti » ivi
- D
- 1337 Dadea » 95
- 1338 Dadesia o Dadea » ivi
- 1339 Daducheo » ivi
- 1340 Dafida » ivi
- 1341 Dafne » ivi
- 1342 Dafnefagi » ivi
- 1343 Dafneforie » ivi
- 1344 Dafneo » ivi
- 1345 Dafni » ivi
- 1346 Dafnomanzia » ivi
- 1347 Dagone » ivi
- 1348 Damasictone » ivi
- 1349 Damoso » 96
- 1350 Damaste » ivi
- 1351 Damatera » ivi
- 1352 Damia » ivi
- 1353 Danaca » ivi
- 1354 Danacio » ivi
- 1355 Danae » ivi
- 1356 Danaidi » ivi
- 1357 Danao » ivi
- 1358 Danubio » ivi
- 1359 Dardalo » ivi
- 1360 Dardani o Dardanidi » ivi
- 1361 Dardania » ivi
- 1362 Darete » ivi
- 1363 Dattili » ivi
- 1364 Dattilomancia » ivi
- 1365 Dauduque » 97
- 1366 Daula » ivi
- 1367 Daulle » ivi
- 1368 Daunia-Dea » ivi
- 1369 Daunio » ivi
- 1370 Daunio-Eroe » ivi
- 1371 Dedalie » ivi
- 1372 Dedalione » ivi
- 1373 Dedalo » ivi
- 1374 Dee » ivi
- 1375 Dee Madri pag. 98
- 1376 Dei » ivi
- » naturali » 99
- » animati » ivi
- » grandi » ivi
- » subalterni » ivi
- » pubblici » ivi
- » particolari » ivi
- » conosciuti » ivi
- » incogniti » ivi
- » del cielo » ivi
- » della terra » ivi
- » del mare » ivi
- » dell’inferno » ivi
- 1377 Deidamia » ivi
- 1378 Deificazione » 100
- 1379 Deifila » ivi
- 1380 Deifilo » 101
- 1381 Deifobea » ivi
- 1382 Deifobo » ivi
- 1383 Deifone » ivi
- 1384 Deilone » ivi
- 1385 Deiloco » ivi
- 1386 Deione » ivi
- 1387 Deiopea » ivi
- 1388 Deiotaro » ivi
- 1389 Deipiro » ivi
- 1390 Deisa » ivi
- 1391 Dejanira » ivi
- 1392 Delfa » 102
- 1393 Delfico » ivi
- 1394 Delfinie » ivi
- 1395 Delfinio » ivi
- 1396 Delfino » ivi
- 1397 Delfo » ivi
- 1398 Delia » ivi
- 1399 Deliade » ivi
- 1400 Deliasti » ivi
- 1401 Delicoone » ivi
- 1402 Delie » ivi
- 1403 Delli » 103
- 1404 Delo » ivi
- 1405 Demenete » ivi
- 1406 Demetera » ivi
- 1407 Democoonte » ivi
- 1408 Demodice » ivi
- 1409 Demodoco » ivi
- 1410 Demofila » ivi
- 1411 Demofonte o Demofoonte » ivi
- 1412 Demofoonte » ivi
- 1413 Demogorgone » ivi
- 1414 Demonio » 104
- 1415 Demonio di Socrate » ivi
- 1416 Dendroforia » ivi
- 1417 Dendroforo » ivi
- 1418 Dendrolibano » ivi
- 1419 Derceto » ivi {p. 322}
- 1420 Dercile ed Albione pag. ivi
- 1421 Despena » ivi
- 1422 Destino » ivi
- 1423 Deucalione » ivi
- 1424 Deverona » 105
- 1425 Deverra » ivi
- 1426 Dediana » ivi
- 1427 Dia o Dea » ivi
- 1428 Diafie » ivi
- 1429 Dialeo-Flamine » ivi
- 1430 Diamasticosa » ivi
- 1431 Diana » ivi
- 1432 Diania-turba » 106
- 1433 Diasie » ivi
- 1434 Diattoro » ivi
- 1435 Dictea » ivi
- 1436 Dictea-corona » ivi
- 1437 Dictee-ninfe » ivi
- 1438 Dicteo » ivi
- 1439 Dictinnia » ivi
- 1440 Dictisio » ivi
- 1441 Didima » ivi
- 1442 Didimeone » ivi
- 1443 Didimo » ivi
- 1444 Didone » ivi
- 1445 Diespitero » 107
- 1446 Difie » ivi
- 1447 Difolie » ivi
- 1448 Diluvio di Ogige e di Deucalione » ivi
- 1449 Dimantisa » ivi
- 1450 Dimaso » ivi
- 1451 Dimenticanza » ivi
- 1452 Dimone » ivi
- 1453 Dindima » ivi
- 1454 Dio » ivi
- 1455 Diocleide » 108
- 1456 Dioclesio » ivi
- 1457 Diomeda » ivi
- 1458 Diomede » ivi
- 1459 Dione » ivi
- 1460 Dionea » ivi
- 1461 Dionisiache » ivi
- 1462 Dionisie o Dionisiache » ivi
- 1463 Dionisio » ivi
- 1464 Diopete » 109
- 1465 Dioscuri » ivi
- 1466 Diaspoli » ivi
- 1467 Diptero » ivi
- 1468 Diradiato » ivi
- 1469 Dirce » ivi
- 1470 Dircea » ivi
- 1471 Dirceo » ivi
- 1472 Dirceto » ivi
- 1473 Diree » ivi
- 1474 Dirfia » ivi
- 1475 Disarea o Disari » ivi
- 1476 Disari » ivi
- 1477 Discordia pag. ivi
- 1478 Dite » ivi
- 1479 Ditirambo » ivi
- 1480 Ditteo » 110
- 1481 Dittina » ivi
- 1482 Dius-Fidio » ivi
- 1483 Divali » ivi
- 1484 Divinazione » ivi
- 1485 Divinità » ivi
- 1486 Divipoti » ivi
- 1487 Dodona » ivi
- 1488 Dodonee » ivi
- 1489 Dodonidi o Dodonee » ivi
- 1490 Dolichenio » ivi
- 1491 Dolicheo o Dolichenio » ivi
- 1492 Dolone » ivi
- 1493 Dolope » ivi
- 1494 Dolore » ivi
- 1495 Domicio » ivi
- 1496 Domiduca » ivi
- 1497 Domizio o Domicio » 111
- 1498 Dorcre » ivi
- 1499 Dorca o Dori » ivi
- 1500 Dori » ivi
- 1501 Doriclio » ivi
- 1502 Doro » ivi
- 1503 Doto » ivi
- 1504 Draconigena Città » ivi
- 1505 Draghi » ivi
- » di Anchise » ivi
- » d’Aulide » ivi
- » di Cadmo » ivi
- » di Delfo » ivi
- » dell’Inferno » ivi
- » di Cerere » ivi
- » di Medea » ivi
- 1506 Dranceo » ivi
- 1507 Dria » ivi
- 1508 Driadi » 112
- 1509 Driantiade » ivi
- 1510 Driaso » ivi
- 1511 Drimaco » ivi
- 1512 Drimo » ivi
- 1513 Driope » ivi
- 1514 Druidesse » ivi
- 1515 Druidi » ivi
- 1516 Due » ivi
- 1517 Durichia » ivi
- 1518 Dusiani » ivi
- E
- 1519 Ea pag. 113
- 1520 Eaci » ivi
- 1521 Eaco » ivi
- 1522 Eagro » ivi
- 1523 Eano » ivi {p. 323}
- 1524 Ebalo pag. ivi
- 1525 Ebe » ivi
- 1526 Ebone » 114
- 1527 Ebota » ivi
- 1528 Ecaerga » ivi
- 1529 Ecale » ivi
- 1530 Ecastore e Mecastore » ivi
- 1531 Ecate » ivi
- 1532 Ecatesio » ivi
- 1533 Ecatombe » ivi
- 1534 Ecatombee » 115
- 1535 Ecatombeo » ivi
- 1536 Ecatonchiri » ivi
- 1537 Ecatonfonie » ivi
- 1538 Ecatompedone » ivi
- 1539 Ecdusie » ivi
- 1540 Echidna » ivi
- 1541 Echidnea » ivi
- 1542 Echinadi » ivi
- 1543 Echione » ivi
- 1544 Echionide o Chionio » ivi
- 1545 Echionio » ivi
- 1546 Echmagora » ivi
- 1547 Ecclissi » ivi
- 1548 Ecmone » 116
- 1549 Eco » ivi
- 1550 Ecuba » ivi
- 1551 Edipo » 117
- 1552 Edo » ivi
- 1553 Edone » ivi
- 1554 Edonidi » ivi
- 1555 Edonio » ivi
- 1556 Educa » ivi
- 1557 Edula, Edulia o Edusia » 118
- 1558 Edulia » ivi
- 1559 Edusia » ivi
- 1560 Eeta » ivi
- 1561 Efesio » ivi
- 1562 Efeso » ivi
- 1563 Efestee » ivi
- 1564 Efestie o Efestee » ivi
- 1565 Efestione » 119
- 1566 Efestrie » ivi
- 1567 Efialte ed Oto » ivi
- 1568 Efialti » ivi
- 1569 Efidriadi » ivi
- 1570 Efira » ivi
- 1571 Ega » ivi
- 1572 Egea » ivi
- 1573 Egemone » ivi
- 1574 Egenete » ivi
- 1575 Egeo » 120
- 1576 Egeone » ivi
- 1577 Eger » ivi
- 1578 Egeria » ivi
- 1579 Egghitree » 121
- 1580 Egialeo » ivi
- 1581 Egibolo o Egobolo pag. ivi
- 1582 Egida » ivi
- 1583 Egide » ivi
- 1584 Egilia » ivi
- 1585 Egina » ivi
- 1586 Egineti » 122
- 1587 Egioco » ivi
- 1588 Egipane » ivi
- 1589 Egipani » ivi
- 1590 Egipio » ivi
- 1591 Egira » ivi
- 1592 Egisto » ivi
- 1593 Egitto » 123
- 1594 Egla » ivi
- 1595 Egle » ivi
- 1596 Egnatia » ivi
- 1597 Egobolo » ivi
- 1598 Egocero » ivi
- 1599 Egofaga » 124
- 1600 Egofora » ivi
- 1601 Egolio » ivi
- 1602 Egone » ivi
- 1603 Eidotea » ivi
- 1604 Eirena » ivi
- 1605 Eiseterie » ivi
- 1606 Ejona » ivi
- 1607 Ejoneò » ivi
- 1608 Elafebolie » ivi
- 1609 Elafobalia » ivi
- 1610 Elagabalo » ivi
- 1611 Elaisa » ivi
- 1612 Elateio » ivi
- 1613 Elea » ivi
- 1614 Eleeno » ivi
- 1615 Elefante » ivi
- 1616 Elefenore » ivi
- 1617 Eleidi » 125
- 1618 Eleleeno » ivi
- 1619 Elena » ivi
- 1620 Eleno » 126
- 1621 Elenore » ivi
- 1622 Eleos » ivi
- 1623 Elettra » 127
- 1624 Elettridi » ivi
- 1625 Elettrione » ivi
- 1626 Eleusi » ivi
- 1627 Eleusina » 128
- 1628 Eleusine » ivi
- 1629 Eleusio » ivi
- 1630 Eleutera » ivi
- 1631 Eleuteria » ivi
- 1632 Eleuterie » ivi
- 1633 Eleuterio » ivi
- 1634 Eleuto » ivi
- 1635 Eliache » ivi
- 1636 Eliadi » ivi
- 1637 Elice » ivi {p. 324}
- 1638 Eliclo pag. ivi
- 1639 Eliconia » ivi
- 1640 Eliconiadi » 129
- 1641 Elide » ivi
- 1642 Elio » ivi
- 1643 Eliopoli » ivi
- 1644 Elisa » ivi
- 1645 Elisei-Patres » ivi
- 1646 Elisi-Campi » ivi
- 1647 Elle » 130
- 1648 Ellera » ivi
- 1649 Ello » ivi
- 1650 Ellotia » ivi
- 1651 Ellotide » ivi
- 1652 Elmo di Plutone » ivi
- 1653 Elonoforie » ivi
- 1654 Elpa » ivi
- 1655 Elpenore » 131
- 1656 Elpide » ivi
- 1657 Eleuro » ivi
- 1658 Emacuria » ivi
- 1659 Ematia » ivi
- 1660 Ematione » ivi
- 1661 Emilo » ivi
- 1662 Emitea » ivi
- 1663 Emo » ivi
- 1664 Emone » ivi
- 1665 Empanda » 132
- 1666 Emploci » ivi
- 1667 Empoleo » ivi
- 1668 Empusa » ivi
- 1669 Encaddiri » ivi
- 1670 Encelado » ivi
- 1671 Encenie » 133
- 1672 Endeide » ivi
- 1673 Endimione » ivi
- 1674 Endoco » ivi
- 1675 Endovellico » ivi
- 1676 Enea » ivi
- 1677 Eneo » 135
- 1678 Enialio » ivi
- 1679 Enia » ivi
- 1680 Eniochia » ivi
- 1681 Enioca » ivi
- 1682 Eniopea » 136
- 1683 Enipeo » ivi
- 1684 Enisterie » ivi
- 1685 Ennea » ivi
- 1686 Ennofigaso » ivi
- 1687 Ennomo » ivi
- 1688 Eno » ivi
- 1689 Enodio » ivi
- 1690 Enoe » ivi
- 1691 Enomao » ivi
- 1692 Enone » ivi
- 1693 Enopione » ivi
- 1694 Enoptromanzia » 137
- 1695 Enorigeo pag. ivi
- 1696 Enotoceti » ivi
- 1697 Enotro » ivi
- 1698 Entea » ivi
- 1699 Entello » ivi
- 1700 Entitride » ivi
- 1701 Eolo » ivi
- 1702 Eolie » 138
- 1703 Eona » ivi
- 1704 Eono » ivi
- 1705 Eoo » ivi
- 1706 Eorie » ivi
- 1707 Eoso » ivi
- 1708 Epafo » ivi
- 1709 Epatoscopia » ivi
- 1710 Epaulie » ivi
- 1711 Epemenide » 139
- 1712 Epeo » ivi
- 1713 Epeuso » ivi
- 1714 Epi » ivi
- 1715 Epibaterio » ivi
- 1716 Epibati » ivi
- 1717 Epibomo » ivi
- 1718 Epicasta » ivi
- 1719 Epicaste » ivi
- 1720 Epiclidie » ivi
- 1721 Epicrene » ivi
- 1722 Epicurio » ivi
- 1723 Epidauria » ivi
- 1724 Epidauro » ivi
- 1725 Epidelio » ivi
- 1726 Epidemie » ivi
- 1727 Epidoti » ivi
- 1728 Epifane » 140
- 1729 Epigeo » ivi
- 1730 Epigie » ivi
- 1731 Epigone » ivi
- 1732 Epimelidi » ivi
- 1733 Epimeletti » ivi
- 1734 Epimeni » ivi
- 1735 Epimenide Epimenede » ivi
- 1736 Epimeteo » ivi
- 1737 Epinicie » ivi
- 1738 Epinicio » ivi
- 1739 Epione » ivi
- 1740 Epipirgide » ivi
- 1741 Epipola » 141
- 1742 Epiponsia » ivi
- 1743 Episcafie » ivi
- 1744 Episcira » ivi
- 1745 Epitide » ivi
- 1746 Epitembia » ivi
- 1747 Epitragie » ivi
- 1748 Epizelo » ivi
- 1749 Epona » ivi
- 1750 Epopeo » ivi
- 1751 Epopte » ivi {p. 325}
- 1752 Epuloni pag. ivi
- 1753 Equestre » ivi
- 1754 Equirie » 142
- 1755 Equita » ivi
- 1756 Era » ivi
- 1757 Eracle » ivi
- 1758 Eraclea » ivi
- 1759 Eraclidi » ivi
- 1760 Eratelea » ivi
- 1761 Erato » 143
- 1762 Erceo » ivi
- 1763 Ercina » ivi
- 1764 Ercole » ivi
- 1765 Ere » 152
- 1766 Eresidi » ivi
- 1767 Ereso » ivi
- 1768 Eretrio » ivi
- 1769 Erea » 153
- 1770 Eretteo » ivi
- 1771 Ergameno » ivi
- 1772 Ergana » ivi
- 1773 Ergazie » ivi
- 1774 Ergino » ivi
- 1775 Eribea » ivi
- 1776 Erice » ivi
- 1777 Ericina o Ericinia » ivi
- 1778 Erifane » ivi
- 1779 Erifile » ivi
- 1780 Erigone » 154
- 1781 Erilo » ivi
- 1782 Erimanto » ivi
- 1783 Erinnie » ivi
- 1784 Erinni » ivi
- 1785 Erinno » ivi
- 1786 Erisittone » ivi
- 1787 Ericinia » 155
- 1788 Eritrea » ivi
- 1789 Eritoide » ivi
- 1790 Eritro » ivi
- 1791 Eritto » ivi
- 1792 Erittonio » ivi
- 1793 Erizia » ivi
- 1794 Eritreo » ivi
- 1795 Ermafrodito » ivi
- 1796 Ermanubi » ivi
- 1797 Ermapollo » ivi
- 1798 Ermarpocrate » ivi
- 1799 Ermatene » ivi
- 1800 Ermee » 156
- 1801 Ermenitra » ivi
- 1802 Ermeracle » ivi
- 1803 Ermero » ivi
- 1804 Ermete » ivi
- 1805 Ermia » ivi
- 1806 Ermione » ivi
- 1807 Ermopoli » 157
- 1808 Ermosiride pag. ivi
- 1809 Ermotimo » ivi
- 1810 Ero o Eros » ivi
- 1811 Eroe » 158
- 1812 Erofila » ivi
- 1813 Eromanzia » ivi
- 1814 Erope » ivi
- 1815 Eros » ivi
- 1816 Erostrato » ivi
- 1817 Erotidi » ivi
- 1818 Erse » ivi
- 1819 Erseo » 159
- 1820 Ersilia » ivi
- 1821 Erta » ivi
- 1822 Es, Esculano o Ere » ivi
- 1823 Esaco » ivi
- 1824 Esaforo » ivi
- 1825 Eschinadi » ivi
- 1826 Esculano » ivi
- 1827 Esculapio » ivi
- 1828 Eseceste o Eserceto » 161
- 1829 Esichia » ivi
- 1830 Esimnete » ivi
- 1831 Esione » ivi
- 1832 Eso » ivi
- 1833 Esonide » 162
- 1834 Esone » ivi
- 1835 Esperidi » ivi
- 1836 Espero » ivi
- 1837 Espiatore » ivi
- 1838 Espiazione » ivi
- 1839 Eserceto » 164
- 1840 Essiterio » ivi
- 1841 Esta » 165
- 1842 Estiei » ivi
- 1843 Estipici » ivi
- 1844 Estipicio » ivi
- 1845 Eta » ivi
- 1846 Età » ivi
- 1847 Etalide » ivi
- 1848 Eteocle » ivi
- 1849 Eteoclo » 166
- 1850 Etelina » ivi
- 1851 Etere » ivi
- 1852 Eternità » ivi
- 1853 Eteta » ivi
- 1854 Etilla » ivi
- 1855 Etione » ivi
- 1856 Etna » ivi
- 1857 Etolo » 167
- 1858 Etosea » ivi
- 1859 Etra » ivi
- 1860 Etreo » ivi
- 1861 Etrurj » ivi
- 1862 Ettore » ivi
- 1863 Eubagi » 168 {p. 326}
- 1864 Eubea pag. ivi
- 1865 Eubuleo » ivi
- 1866 Eubulia » ivi
- 1867 Eubulo » ivi
- 1868 Euchercrate » ivi
- 1869 Eucrate » ivi
- 1870 Eudemonia » ivi
- 1871 Eudora » ivi
- 1872 Eufemo » ivi
- 1873 Eufiro » ivi
- 1874 Eufrade » ivi
- 1875 Eufrobio » ivi
- 1876 Eufrona » 169
- 1877 Eufrosina » ivi
- 1878 Eugenia » ivi
- 1879 Eumelo » ivi
- 1880 Eumene » ivi
- 1881 Eumenedie » ivi
- 1882 Eumenidi » ivi
- 1883 Eumeo » ivi
- 1884 Eumolo » ivi
- 1885 Eumolpidi » ivi
- 1886 Eumolpo » ivi
- 1887 Euneo » 170
- 1888 Eunice » ivi
- 1889 Eunomia » ivi
- 1890 Eunomo » ivi
- 1891 Eunosto » ivi
- 1892 Eunuco » ivi
- 1893 Euploca » ivi
- 1894 Eupompa » ivi
- 1895 Euriale » ivi
- 1896 Eurialo » ivi
- 1897 Euribate » ivi
- 1898 Euribia » 171
- 1899 Euridea » ivi
- 1900 Euridice » ivi
- 1901 Eurimedonte » ivi
- 1902 Eurinome » ivi
- 1903 Eurinomo » 172
- 1904 Euripile » ivi
- 1905 Euristeo » ivi
- 1906 Euristemone » ivi
- 1907 Eurito » 173
- 1908 Eurizione » ivi
- 1909 Europa » ivi
- 1910 Eurota » ivi
- 1911 Eusebia » ivi
- 1912 Eutenia » 174
- 1913 Euterpe » ivi
- 1914 Eutico » ivi
- 1915 Evadne » ivi
- 1916 Evagora » ivi
- 1917 Evan » ivi
- 1918 Evandro » ivi
- 1919 Evarna » ivi
- 1920 Evemerione » ivi
- 1921 Evio pag. ivi
- 1922 Evocazione » ivi
- 1923 Evoè » 175
- F
- 1924 Fabaria » 176
- 1925 Fabiani » ivi
- 1926 Fabio » ivi
- 1927 Fabulino » ivi
- 1928 Fagesie » ivi
- 1929 Faggio » ivi
- 1930 Fagutale » ivi
- 1931 Faja » ivi
- 1932 Falce » ivi
- 1933 Falisio » ivi
- 1934 Falliche » 177
- 1935 Fallo » ivi
- 1936 Fallolori » ivi
- 1937 Fama » ivi
- 1938 Fame » ivi
- 1939 Fanatici » 178
- 1940 Faneo » ivi
- 1941 Fano » ivi
- 1942 Fantasmi » ivi
- 1943 Fantaso » ivi
- 1944 Faone » ivi
- 1945 Fare » ivi
- 1946 Fascino » 179
- 1947 Faside » ivi
- 1948 Fatalità » ivi
- 1949 Fatalità di Troja » ivi
- 1950 Fatidica » 180
- 1951 Fatua » ivi
- 1952 Fatuel » ivi
- 1953 Faviani » ivi
- 1954 Favola » ivi
- 1955 Favore » ivi
- 1956 Faula » ivi
- 1957 Fauna » ivi
- 1958 Faunali » ivi
- 1959 Fauni » ivi
- 1960 Fauno » ivi
- 1961 Faustolo » 181
- 1962 Feacidi » ivi
- 1963 Febade » 182
- 1964 Feba ed Ilaria » ivi
- 1965 Febea o Febe » ivi
- 1966 Febo » ivi
- 1967 Febbraio » ivi
- 1968 Februa o Februata » ivi
- 1969 Februali o Februe » ivi
- 1970 Februo » ivi
- 1971 Febbre » ivi
- 1972 Feciali » ivi
- 1973 Fecondità » ivi
- 1974 Fede » 183 {p. 327}
- 1975 Fedeltà pag. ivi
- 1976 Fedra » ivi
- 1977 Fegoneo » ivi
- 1978 Felicità » ivi
- 1979 Femonea » ivi
- 1980 Fenice » ivi
- 1981 Fenna » 185
- 1982 Fennide » ivi
- 1983 Ferali » ivi
- 1984 Ferefatia » ivi
- 1985 Ferepola » ivi
- 1986 Feretrio » ivi
- 1987 Ferie » ivi
- 1988 Ferie Latine » ivi
- 1989 Feronia » 186
- 1990 Ferro » ivi
- 1991 Ferula » ivi
- 1992 Ferusa » ivi
- 1993 Fessonia o Festoria » ivi
- 1994 Feste » ivi
- 1995 Fetonte » 187
- 1996 Fetonziadi » ivi
- 1997 Fetusa » 188
- 1998 Fia » ivi
- 1999 Fidio » ivi
- 2000 Fidolao » ivi
- 2001 Figliuoli degli dei » ivi
- 2002 Figliuoli » 189
- 2003 Fila » ivi
- 2004 Filace » ivi
- 2005 Filachide o Filandro » ivi
- 2006 Filaco » ivi
- 2007 Filammone » ivi
- 2008 File » ivi
- 2009 Filemone » ivi
- 2010 Fileni » ivi
- 2011 Filira » ivi
- 2012 Fillide » ivi
- 2013 Fillo » 190
- 2014 Fillodamea » ivi
- 2015 Filodoce » ivi
- 2016 Filgeo » ivi
- 2017 Filolao » ivi
- 2018 Filomena e Progne » ivi
- 2019 Filonome » 191
- 2020 Filottete » 192
- 2021 Fineo » 193
- 2022 Fiscoa » ivi
- 2023 Fitalo » ivi
- 2024 Fiumi » ivi
- 2025 Fiumi dello Inferno » 194
- 2026 Flamine » ivi
- 2027 Flamine Diale » 195
- 2028 Flamine Falacro » ivi
- 2029 Flauto » ivi
- 2030 Flegetonte » ivi
- 2031 Flegia » ivi
- 2032 Flegiani pag. ivi
- 2033 Flegonte » 196
- 2034 Flora » ivi
- 2035 Florali » ivi
- 2036 Fluonia » 197
- 2037 Fobetore » ivi
- 2038 Fobo » ivi
- 2039 Foco » ivi
- 2040 Folo » ivi
- 2041 Fontinali » ivi
- 2042 Forbante » ivi
- 2043 Forco » ivi
- 2044 Forculo » ivi
- 2045 Fordicali » ivi
- 2046 Formiche » ivi
- 2047 Formione » ivi
- 2048 Fornacali » ivi
- 2049 Fornace » ivi
- 2050 Foroneo » 198
- 2051 Fortuna » ivi
- 2052 Forza » 199
- 2053 Fraude » ivi
- 2054 Freccie di Apollo » ivi
- 2055 Freccie di Ercole » ivi
- 2056 Frisso » ivi
- 2057 Fruttessea » 200
- 2058 Fulgora » ivi
- 2059 Fulmine » ivi
- 2060 Fumo » 201
- 2061 Fuoco » ivi
- 2062 Fuochi di Castore e Polluce » ivi
- 2063 Furie » ivi
- 2064 Furina » 203
- 2065 Furinale » ivi
- 2066 Furinali » ivi
- 2067 Furore » ivi
- G
- 2068 Gabalo » 204
- 2069 Gabia » ivi
- 2070 Gaditano » ivi
- 2071 Galantide » ivi
- 2072 Galassauna » ivi
- 2073 Galassia » ivi
- 2074 Galassie » 205
- 2075 Galatea » ivi
- 2076 Galena » 206
- 2077 Galeote » ivi
- 2078 Galeoti » ivi
- 2079 Galintia » ivi
- 2080 Galli » ivi
- 2081 Gallo » ivi
- 2082 Gamelia » 207
- 2083 Gamelie » ivi
- 2084 Gamelio » ivi
- 2085 Gange » ivi {p. 328}
- 2086 Ganimede pag. ivi
- 2087 Garamantide » ivi
- 2088 Gargaro » ivi
- 2089 Gastromanzia » ivi
- 2090 Gatti » 208
- 2091 Ge » ivi
- 2092 Gegania » ivi
- 2093 Gelanore » ivi
- 2094 Gelasia » ivi
- 2095 Gelone » ivi
- 2096 Gemini o Gemelli » ivi
- 2097 Gemino » ivi
- 2098 Genetillidi » ivi
- 2099 Geniali » ivi
- 2100 Genio » ivi
- 2101 Genisse » 209
- 2102 Genita Mana » ivi
- 2103 Gennajo » ivi
- 2104 Geomanzia » ivi
- 2105 Gerania » ivi
- 2106 Gerere » ivi
- 2107 Gerione » ivi
- 2108 Geris o Geride » ivi
- 2109 Germani » 210
- 2110 Geroestie » ivi
- 2111 Gerontree » ivi
- 2112 Ghianda » ivi
- 2113 Giacco » ivi
- 2114 Giacintee o Giacintie » ivi
- 2115 Giacinto » ivi
- 2116 Giacra » 211
- 2117 Gialemo » ivi
- 2118 Gialmeno o Jalmeno » ivi
- 2119 Giamidi » ivi
- 2120 Giana » ivi
- 2121 Giane » ivi
- 2122 Gianessa » ivi
- 2123 Gianicolo » ivi
- 2124 Gianira » ivi
- 2125 Giano o Giane » ivi
- 2126 Giante » 212
- 2127 Gianuale » ivi
- 2128 Giapeto » 213
- 2129 Giapi » ivi
- 2130 Giara » ivi
- 2131 Giarba » ivi
- 2132 Giardano » 214
- 2133 Giardini » ivi
- 2134 Giaside » ivi
- 2135 Giasione » ivi
- 2136 Giaso » ivi
- 2137 Giasone » ivi
- 2138 Gehud o Jehud » 217
- 2139 Giera » ivi
- 2140 Gierace » ivi
- 2141 Gieracuboschi » ivi
- 2142 Gierococerici » ivi
- 2143 Gierocoraci » ivi
- 2144 Gieroglifici » ivi
- 2145 Gierofanti » ivi
- 2146 Gierofanzie » 218
- 2147 Gierogrammatei » ivi
- 2148 Gieroscopia » ivi
- 2149 Giganti » ivi
- 2150 Gigantofontide » 220
- 2151 Gige » ivi
- 2152 Ginecocratumeni » 221
- 2153 Ginnici » ivi
- 2154 Ginnopedia » ivi
- 2155 Ginnosofisti » ivi
- 2156 Giobate » ivi
- 2157 Giocasta » ivi
- 2158 Gioja » 222
- 2159 Giorno » ivi
- 2160 Giorni » ivi
- 2161 Giove » 223
- 2162 Gioventù » 226
- 2163 Giovio » ivi
- 2164 Giromanzia » ivi
- 2165 Giuba » ivi
- 2166 Giudici dell’ Inferno » ivi
- 2167 Giudizio di Paride » ivi
- 2168 Giuga » ivi
- 2169 Giugantino » ivi
- 2170 Giugno » 227
- 2171 Giuliani » ivi
- 2172 Giulio » ivi
- 2173 Giuna » ivi
- 2174 Giunone » ivi
- 2173 (bis) Giunoni » 229
- 2174 (bis) Giunonie » ivi
- 2175 Giunonio » ivi
- 2176 Giuochi » ivi
- 2177 Giuramenti » 230
- 2178 Giustizia » ivi
- 2179 Giuturna » 231
- 2180 Giuventa » ivi
- 2181 Gladiatore » ivi
- 2182 Glauca » ivi
- 2183 Glauce » 232
- 2184 Glauconoma » ivi
- 2185 Glauco » ivi
- 2186 Globo » 233
- 2187 Goezia » ivi
- 2188 Gordiano » ivi
- 2189 Gordio » 234
- 2190 Gorgizione » ivi
- 2191 Gorgofona » ivi
- 2192 Gorgofora » ivi
- 2193 Gorgoni » ivi
- 2194 Gorgonia o Gorgofora » 235
- 2195 Gortina » ivi
- 2196 Gracco » ivi
- 2197 Gradivo » 236
- 2198 Grajé » ivi {p. 329}
- 2199 Granea pag. ivi
- 2200 Gran madre » ivi
- 2201 Grazie » ivi
- 2202 Grazione » 237
- 2203 Grifone » ivi
- 2204 Grinea » ivi
- 2205 Gru » ivi
- 2206 Grua » ivi
- 2207 Guadaletta » 238
- 2208 Gufo » ivi
- 2209 Grundili » ivi
- H
- 2210 Hada » 239
- 2211 Hafedà » ivi
- 2212 Hakem » ivi
- 2213 Halden » ivi
- 2214 Har-Heri » ivi
- 2215 Haraopopa » ivi
- 2216 Havan » ivi
- 2217 Heja » ivi
- 2218 Heil » ivi
- 2219 Heriafadur » ivi
- 2220 Higolajo » ivi
- 2221 Hnossa o Hnoss » 240
- 2222 Hoang-Ti » ivi
- 2223 Hobal » ivi
- 2224 Hopamé » ivi
- I
- 2225 Ibi » 241
- 2226 Ibristiche » ivi
- 2227 Icadi » ivi
- 2228 Icario » ivi
- 2229 Icaro » ivi
- 2230 Icelo » 242
- 2231 Icnea » ivi
- 2232 Icneumone » ivi
- 2233 Icziomanzia » ivi
- 2234 Ida » 243
- 2235 Idalia » ivi
- 2236 Idea » ivi
- 2237 Idei » ivi
- 2238 Ideo » ivi
- 2239 Idi » ivi
- 2240 Idia » ivi
- 2241 Idmone » ivi
- 2242 Idomeneo » 244
- 2243 Idotea » ivi
- 2244 Idra di Lerna » ivi
- 2245 Idria » 245
- 2246 Idroforie » ivi
- 2247 Idromanzia » ivi
- 2248 Idulio » ivi
- 2249 Ifi » ivi
- 2250 Ifianassa pag. ivi
- 2251 Ificlo » 246
- 2252 Ifide » ivi
- 2253 Ifigenia » 247
- 2254 Ifimedia » 248
- 2255 Ifito » 249
- 2256 Ifitima » ivi
- 2257 Igea » ivi
- 2258 Ila » ivi
- 2259 Ilapinasto » ivi
- 2260 Ilaria e Febea » ivi
- 2261 Ilarie » ivi
- 2262 Ilarità » 250
- 2263 Iliade » ivi
- 2264 Ilio » ivi
- 2265 Iliona » ivi
- 2266 Ilissidi » ivi
- 2267 Ilizia » ivi
- 2268 Ilo » ivi
- 2269 Imbrasia » 251
- 2270 Imene » ivi
- 2271 Imero » ivi
- 2272 Imezio » 252
- 2273 Imperatore » ivi
- 2274 Imprecazioni » ivi
- 2275 Impudenza » ivi
- 2276 Inaco » ivi
- 2277 Inarima » ivi
- 2278 Incubi » ivi
- 2279 Indicante » ivi
- 2280 Indigeto » 253
- 2281 Indovinazione » ivi
- 2282 Indovini » ivi
- 2283 Indulgenza » ivi
- 2284 Inferno » ivi
- 2285 Iniziali » 254
- 2286 Ino » ivi
- 2287 Intercidona » 255
- 2288 Intestina delle vittime » ivi
- 2289 Inverno » ivi
- 2290 Invidia » 256
- 2291 Invincibile » ivi
- 2292 Io » ivi
- 2293 Ipar » 257
- 2294 Iperborio » ivi
- 2295 Iperione » 258
- 2296 Ipernestra » ivi
- 2297 Ipertura » ivi
- 2298 Ipetri » ivi
- 2299 Ipoprofeti » ivi
- 2300 Ippa » ivi
- 2301 Ippia » ivi
- 2302 Ippio » ivi
- 2303 Ippo » 259
- 2304 Ippocampi » ivi
- 2305 Ippocentauri » ivi
- 2306 Ippocrazie » ivi {p. 330}
- 2307 Ippocrene pag. ivi
- 2308 Ippodamia » ivi
- 2309 Ippodete » 260
- 2310 Ippolita » ivi
- 2311 Ippolito » ivi
- 2312 Ippolizione » 261
- 2313 Ippomene » ivi
- 2314 Ippona » ivi
- 2315 Ippopotamo » ivi
- 2316 Ippotette » ivi
- 2317 Ippoteo » ivi
- 2318 Ippotoe » ivi
- 2319 Ippotoo » ivi
- 2320 Ippotono » ivi
- 2321 Ipsipile » 262
- 2322 Ipsisto » ivi
- 2323 Ipsuranio » ivi
- 2324 Iria » ivi
- 2325 Iride » ivi
- 2326 Irieo » 263
- 2327 Iringa » ivi
- 2328 Irminsul » ivi
- 2329 Iro » ivi
- 2330 Irpie » 264
- 2331 Ischenio » ivi
- 2332 Isee » ivi
- 2333 Isiaca » ivi
- 2334 Isiache » ivi
- 2335 Iside » ivi
- 2336 Isie » 265
- 2337 Ismene » ivi
- 2338 Ismenidi » ivi
- 2339 Ismenia » ivi
- 2340 Ismenio » ivi
- 2341 Ismeno » ivi
- 2342 Isole » 266
- 2343 Issa » ivi
- 2344 Issedoni » ivi
- 2345 Issione » ivi
- 2346 Isione » 267
- 2347 Isterie » ivi
- 2348 Istmici » ivi
- 2349 Istmo di Corinto » 268
- 2350 Itaca » ivi
- 2351 Iti » ivi
- 2352 Itifallo » ivi
- 2353 Itifallori » ivi
- 2354 Itilo » ivi
- 2355 Itomalo » ivi
- 2356 Itonia » ivi
- 2357 Iuga » ivi
- J
- 2358 Ja » 269
- 2359 Jacco » ivi
- 2360 Jadi » ivi
- 2361 Jafet » ivi
- 2362 Jagni pag. ivi
- 2363 Jale » ivi
- 2364 Jante » ivi
- 2365 Japeto » ivi
- 2366 Jarba » ivi
- 2367 Jasio » ivi
- 2368 Jodama » ivi
- 2369 Jola » ivi
- 2370 Jolco » 270
- 2371 Jole » ivi
- 2372 Jolee » ivi
- 2373 Jone » 271
- 2374 Jonidi » 272
- 2375 Jonna » ivi
- 2376 Jopa » ivi
- 2377 Josso » ivi
- 2378 Jou » ivi
- K
- 2379 Kacimana » 273
- 2380 Kaleda » ivi
- 2381 Kama » ivi
- 2382 Kamis » ivi
- 2383 Kang-i o Can-v » ivi
- 2384 Kano o Kanon » ivi
- 2385 Kao-Mancon o Khahho-Manson » 274
- 2386 Kaor-Bus » ivi
- 2387 Kapa, Laighne e Luassat » ivi
- 2388 Kasia ed Anna » ivi
- 2389 Kekki » ivi
- 2390 Ker » ivi
- 2391 Keraone » ivi
- 2392 Kuan-in » ivi
- 2393 Kurù » ivi
- 2394 Kolna » ivi
- 2395 Kopto » ivi
- 2396 Krisna » 275
- L
- 2397 Labda » 276
- 2398 Labdaco » ivi
- 2399 Laberinti » ivi
- 2400 Labradeo » 277
- 2401 Lacedemone » ivi
- 2402 Lacedemonia » ivi
- 2403 Lachesi » ivi
- 2404 Lacinia » ivi
- 2405 Lacinio » ivi
- 2406 Lacio » ivi
- 2407 Lacturno » 278
- 2408 Ladone » ivi
- 2409 Laerte » ivi
- 2410 Lafira » ivi
- 2411 Lafistio » ivi
- 2412 Lafria » ivi {p. 331}
- 2413 Lacenoforie pag. ivi
- 2414 Laghi » ivi
- 2415 Laide » ivi
- 2416 Laio » ivi
- 2417 Laira » 279
- 2418 Lamia » ivi
- 2419 Lampadi » ivi
- 2420 Lampadaforie » 280
- 2421 Lampadoforo » ivi
- 2422 Lampezie » ivi
- 2423 Lampo » ivi
- 2424 Lampos » ivi
- 2425 Lampsaco » ivi
- 2426 Lampterie » ivi
- 2427 Lancia » ivi
- 2428 Laocoonte » ivi
- 2429 Laodamia » 281
- 2430 Laodice » 282
- 2431 Laodoco » 283
- 2432 Laomedea » ivi
- 2433 Laomedonte » ivi
- 2434 Laonome » ivi
- 2435 Lapidazione » ivi
- 2436 Lapis » ivi
- 2437 Lapiti » ivi
- 2438 Lara » ivi
- 2439 Larentali » 284
- 2440 Larenzia » ivi
- 2441 Lari » ivi
- 2442 Larissa » 285
- 2443 Laristo » ivi
- 2444 Larve » ivi
- 2445 Lasio » ivi
- 2446 Laterano » ivi
- 2447 Latino » ivi
- 2448 Latmo » 286
- 2449 Latobio » ivi
- 2450 Latona » ivi
- 2451 Latria ed Anasandra » 287
- 2452 Lavazione » ivi
- 2453 Laverna » ivi
- 2454 Lavinia » ivi
- 2455 Lavinio » 288
- 2456 Laurentali » ivi
- 2457 Laurentini » ivi
- 2458 Laziale » ivi
- 2459 Laziar » ivi
- 2460 Lazio » 289
- 2461 Leandro » ivi
- 2462 Leargo » ivi
- 2463 Leche » ivi
- 2464 Lecori » ivi
- 2465 Leda » ivi
- 2466 Leena » ivi
- 2467 Lelapo » ivi
- 2468 Lemno » 290
- 2469 Lemuri » ivi
- 2470 Leneo pag. ivi
- 2471 Leonidee » ivi
- 2472 Leontiche » ivi
- 2473 Leo » ivi
- 2474 Lepreade » ivi
- 2475 Lerna » 291
- 2476 Lernee » ivi
- 2477 Lesbo » ivi
- 2478 Les trigoni » ivi
- 2479 Letea » 292
- 2480 Lete » ivi
- 2481 Lettisternio » ivi
- 2482 Levana » 293
- 2483 Leucadio » ivi
- 2484 Leucade » ivi
- 2485 Leuce » ivi
- 2486 Leucippidi » 294
- 2487 Leucippo » ivi
- 2488 Leucofrina » ivi
- 2489 Leucosia » ivi
- 2490 Leucotea » ivi
- 2491 Leucotoe » 295
- 2492 Lia » ivi
- 2493 Liagora » ivi
- 2494 Liba » ivi
- 2495 Libazioni » ivi
- 2496 Libentina » 296
- 2497 Libera » ivi
- 2498 Liberali » ivi
- 2499 Liberie » ivi
- 2500 Liberalità » ivi
- 2501 Liberatore » ivi
- 2502 Libero » ivi
- 2503 Libertà » ivi
- 2504 Libetra » ivi
- 2505 Libetridi » 297
- 2506 Libia » ivi
- 2507 Libri » ivi
- 2508 Libitina » ivi
- 2509 Lica » ivi
- 2510 Licaone » 298
- 2511 Licasto » 299
- 2512 Licea » ivi
- 2513 Licee » ivi
- 2514 Liceo » ivi
- 2515 Licio » ivi
- 2516 Lienomanzia » ivi
- 2517 Lico » ivi
- 2518 Licogene » 300
- 2519 Licomede » ivi
- 2520 Licopoli » ivi
- 2521 Licora » ivi
- 2522 Licori » ivi
- 2523 Licoro » ivi
- 2524 Licurgo » ivi
- 2525 Lieo » 301
- 2526 Ligo » ivi {p. 332}
- 2527 Ligodesma pag. ivi
- 2528 Ligea » ivi
- 2529 Lilea » 302
- 2530 Limace » ivi
- 2531 Limenetide » ivi
- 2532 Limentino » ivi
- 2533 Limira » ivi
- 2534 Limnadi » ivi
- 2535 Limnatide » ivi
- 2536 Limnatidia » ivi
- 2537 Limneo » ivi
- 2538 Limnoria » ivi
- 2539 Limnoniadi » ivi
- 2540 Lince » ivi
- 2541 Linceo » ivi
- 2542 Linco » ivi
- 2543 Linie » 303
- 2544 Lino » ivi
- 2545 Lione » ivi
- 2544 (bis) Lira » ivi
- 2545 (bis) Liriade » ivi
- 2546 Lissa » ivi
- 2547 Liti » ivi
- 2548 Litobolia » ivi
- 2549 Litomanzia » ivi
- 2550 Littorale » ivi
- 2551 Lituo » ivi
- 2552 Locuzio » ivi
- 2553 Loimio » ivi
- 2554 Lotide » 304
- 2555 Loto » ivi
- 2556 Lotofagi » ivi
- 2557 Lotta » ivi
- 2558 Lua » ivi
- 2559 Lucarie » ivi
- 2560 Lucerio » 305
- 2561 Lucifera » ivi
- 2562 Lucifero » ivi
- 2563 Lucina » ivi
- 2564 Luciniana » ivi
- 2565 Luglio » ivi
- 2566 Luna » ivi
- 2567 Lunedi » 306
- 2568 Luno » ivi
- 2569 Lupa » ivi
- 2570 Lupercale » 307
- 2571 Lupercali » ivi
- 2572 Luperci » ivi
- 2573 Lustrale » ivi
- 2574 Lustrazioni » ivi
- 2575 Lustro » 308
FINE DELL’INDICE DEL PRIMO VOLUME