Antonio Maria Durante

1855

Compendio della mitologia pe’ giovanetti. Parte I

2019
Antonio Maria Durante, Compendio della mitologia pe’ giovanetti del sacerdote Antonio Maria Durante. Parte I, Napoli, Stabilimento tipografico di Andrea Festa, 1855, in-12, 396 p. PDF : Internet Archive.
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[n.p.]

A S. E. R.
Monsignor D. Ignazio De Bisogno
Della Metropolitana chiesa di Napoli canonico cardinale del titolo di S. Giorgio Maggiore e Vescovo di Ascalona. §

E. R.

Volendo porre in istampa un Compendio della mia Mitologia pe’ giovanetti, ho creduto fare il pregio dell’opera con intitolarlo a V. E. R. Vengo con ciò a soddisfare ad un antico mio obbligo, ch’è quello di far palese nel miglior modo che posso quanto debbo al benefico e generoso Suo Cuore. E veramente da che posi il piede in questa città di Napoli, fra le altre d’Italia bellissima, di molti valorosi Personaggi ebbi assai a lodarmi, i quali, come volle la bontà di Dio, di me presero cura più che paterna. Or fra essi senza fallo l’E. V. R. è de’ primi ; chè col consiglio non solo, ma coll’ opera eziandio, in ogni mio frangente, tenne tutte le vie per giovarmi. Di che con questa mia dedicatoria intendo renderle cordialissime grazie, poichè altro non posso, e confessarmi obbligato, e conservare lunga memoria de’ beneficii ricevuti.

Per un’altra ragione poi ho voluto fregiare del venerato Suo Nome questa mia scrittura, ed è appunto la poca cosa ch’essa è, essendo io pur certo che il portarlo in fronte aggiungerà quella vaghezza ed eccellenza [n.p.]che manca all’umile mio dettato. Ed a ciò pur mi conforta la bontà con cui l’E. V. R. ha compatita qualche altra cosuccia per me data alla stampa, in guisa che potrei dirle come Catullo al suo Cornelio :

… namque tu solebas
Meas esse aliquid putare nugas.

Or sebbene io conosca che commetto non leggier fallo, secondo lo stile de’ moderni, allungando più del dovere questa mia dedicatoria ; pure, se non Le do molta gravezza, piacemi brevemente discorrere con V. E. R. sull’intendimento di questa opericciuola, chè così verrà a scorgersi per avventura, non esser del tutto vana la mia fatica.

Gli antichi Greci e Romani lasciarono opere, sulle quali il tempo non istenderà mai il velo della obblivione. E più di ogni altro i Poeti colla soavità de loro versi conseguirono in guisa l’ammirazione di tutt’i secoli e di tutte le nazioni, che pare spenta ogni speranza di mai più trapassarli. Or se questi sovrani [n.p.]ingegni vivranno perpetui sino a che vi sarà nel mondo qualche grata disciplina, chi oserà dirsi colto uomo se non abbia bevuto a que’ nobilissimi fonti ? Gli educatori adunque della gioventù debbon porre fra le mani de’ loro allievi i greci ed i latini scrittori, se non vogliono che si spenga del tutto fra noi ogni benigno lume di gentili discipline. E si spegnerà senza fallo, se la rea peste del moderno romanticismo non lascerà di perdere miseramente ogni seme di buona letteratura. Or a fin di agevolare a’ giovani studiosi l’intelligenza de’ Poeti e greci e latini, non son molti anni che diedi alla luce un Corso di Mitologia, il quale ha meritato il benigno compatimento del pubblico. Il fine principale di quel mio lavoro fu quello di porre nelle mani della gioventù una Mitologia, la quale fosse ricca di erudizione per l’intelligenza degli antichi poeti, e scevra di ogni anche menoma espressione contraria all’ onestà de’ costumi ; essendo che non è mica agevole ritrovare una Mitologia che insozzata non fosse o più o meno delle turpi leggende degli antichi Pagani.

[n.p.]E forse mi fu dato, la Dio mercè, di conseguire l’intento, atteso che quel libro può porsi senza timore alcuno anche nelle mani delle più modeste giovanette. Quella Mitologia però era voluminosa, e forse un po soverchiamente carica di greca e di latina erudizione ; per cui molti mi han consigliato a pubblicarne un discreto compendio, il quale potesse studiarsi da’ fanciulli nelle scuole, e da quelli che non amano il corredo di molta erudizione.

E questo appunto è quello che ora presento al pubblico fregiato del chiarissimo Nome di V. E. R. la quale son certo che l’accoglierà con serena fronte qual sincero e pubblico attestato della mia stima e gratitudine, con cui ho l’onore di baciarle devotamente il s. Anello e di segnarmi

Di V. E. R.

div.° umil.° servitore obbmo

Antonio M.a Durante

[n.p.]

Introduzione §

La parola Mitologia (Μυτολογια) viene dal greco (λογος) discorso, e (μυθος) favola, o sia racconto non vero, ma diretto a contraffare la verità. E però Mitologia vuol dire la conoscenza delle favole, cioè del nascimento, delle favolose avventure, delle ineumbenze e del carattere degli Dei de’ Gentili o Pagani, i quali follemente credevano, non uno, ma innumerevoli essere i Numi che le create cose signoreggiano. Noi tanta moltitudine divideremo come in tre schiere ; de’ Gelesti, cioè, (επουρανιοι, ολιμπιοι, αθανατοι) ; de’ Terrestri (κθονιοι, επικθονιοι), a’ quali si riducono i Marini (θαλασσιοι), gli Eroi (ηρωες) ed i Semidei (ημιθεοι), e finalmente degl’Infernali (υποκθονιοι, στυγιοι) ; per cui questo Compendio sarà in tre parti diviso.

[n.p.] [n.p.]

Parte I.

Degli dei celesti. §

saturno, opi, e giano. §

I. Nomi dati a questi Numi e lor ragione. §

La parola Saturnus viene da satur, satollo, perchè il tempo, simboleggiato sotto il nome di Satùrno, si satolla di anni ; o da satus per satio, seminagione, perchè quel nume la insegnò agli uomini de’ tempi suoi ; o dalla voce ebraica sathar, nascondersi, perchè Satùrno, fuggendo l’ira di Giove, si occultò nel Lazio, come diremo. Da’ Greci dicevasi Crono (Κρονος quasi Χρονος, tempus), cioè tempo, perchè Satùrno era quel nume che in se contiene il corso ed il rivolgimento degli spazii e de’ tempi(1) ; o il Sole, il quale col suo corso regolare è il misuratore e quasi l’autore del tempo (2).

La moglie di Satùrno chiamossi Cibèle (Κυβηβη e Κυβελε, Cybèle, Cybébe), da Cibélo ; Berecinzia (Βερεκυντια, Berecyntia), da Berecinto ; Idèa (Ιδαια, Idea), da Ida ; e Dindimène (Δινδυμηνη, Dindymene), da Dindimo, tutti monti della Frigia, ov’era in ispecial modo venerata. Si chiamava pure la Gran Madre, per esser nati da lei molti e grandissimi numi ; Opi (Ops, Opis) {p. 10}e Terra (Tellus), perchè la terra era riputata la comune madre degli uomini ; Rea (Ρεα, Phea) da un verbo greco (ρεω) che significa scorrere, perchè dalla terra scorrono tutt’i fiumi ; e Vesta (Εστια) da una parola greca che vuol dir fuoco, come appresso diremo.

Giano fu detto janus quasi Eanus (ab eundo), perchè era il soprintendente delle vie : ma Ovidio (1) vuole che fu così detto a ianuis, perchè fu il ritrovatore delle porte. Si chiamava pur Caos (Χαος, Chaos), che si credeva il principio di tutte le cose.

II. Storia favolosa di Satùrno. §

Il Cielo, detto da’ Greci Urano, era riputato antichissimo fra gli Dei : ed ebbe molti figliuoli dalla Terra, sua moglie. De’quali Titàno (Τιταν Titan), benchè a lui si dovesse la signoria dell’universo, pure scorgendo nella madre una propensione pel fratello Satùrno, a questo la cedè, ma con espressa legge che nessun suo figlio maschio lasciasse vivere. E però Satùrno tosto che la moglie partoriva un figliuolo, il divorava. Il che significa che il tempo tutto consuma e di anni insaziabilmente si pasce(2). E da siffatta crudeltà di quel nume ebbe origine l’inumano costume d’immolargli vittime umane.

Or di ciò la moglie fu tanto dolente che di due gemelli occultò il maschio ch’era Giove, a Satùrno mostrando la sola Giunòne. Dicono che invece di Giove gli presentò una pietra avvolta in fasce, detta Abadir o Betile, la quale fu tosto da Satùrno inghiottita. Si avvide Titàno dell’inganno, e credendone a parte Satùrno, coll’aiuto de’ Titàni, suoi figliuoli, gli mosse guerra, e vintolo, il trasse prigione ; ma Giove il liberò, avendo debellato i Titàni. Nulladimeno Satùrno, sapendo, esser ne’libri del fato che Giove dovea un dì spogliarlo del regno, gli mosse guerra ; ma fu da lui vinto e discacciato dal cielo. Il che vuol significare che il novello corso del tempo discaccia e vince il passato (3).

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III. Discacciamento di Satùrno. Partizione dell’universo fra’ suoi figliuoli. Età dell’oro. §

Satùrno adunque, discacciato dal regno, si ricoverò in quella parte d’Italia, ove fu poscia edificata Roma, e che si chiamò Lazio (Latium) dal verbo latère, occultarsi, perchè quel Nume erasi quivi occultato. Or la moglie di Satùrno avea anche partorito Nettùno, e poscia Plutòne, i quali furono nello stesso modo alla crudeltà del padre sottratti. E questi tre figliuoli di Satùrno tutto fra loro si divisero il gran regno dell’universo, sicchè a Giove, il cielo, cioè l’isola di Creta ; a Nettùno, il mare, cioè le isole del mare Egeo, ed a Plutòne, l’inferno, cioè l’Epiro, ch’è la parte inferiore della Grecia, toccò in sorte. In questa partizione del mondo fatta da’ figliuoli di Satùrno scorgesi adombrata la storia de’ tre figliuoli di Noè, i quali dopo il diluvio si divisero la terra abitabile, come Giove, Nettùno e Plutòne si divisero l’universo.

Giano intanto che a que’dì era signore del Lazio, accolse Satùrno con lietissimo animo, ed il fece padrone di buona parte del suo reame ; percui questi il regalò di una sì segnalata prudenza, che le future cose non meno che le passate conosceva. Satùrno ammaestrò quella rozza gente a coltivar la terra, a seminare il grano ed a piantare le viti ; il che simboleggia Noè, il quale uscito dell’arca attese all’agricoltura e fu il primo a piantare le viti. Diede buone leggi a que’ popoli, che chiamavansi Aborigeni (1) e ne riformò i sel vatici costumi, percui fu tenuto per un nume e chiamato figliuolo del Cielo, perchè siam soliti di chiamare figliuoli del cielo, o dal cielo discesi coloro di cui ammiriamo le grandi virtù, o che vengono inaspettatamente a recarci qualche gran bene ; come figliuoli della terra diciamo coloro, de’ quali ignoriamo i genitori. Quindi la regione che poscia fu detta Italia, era consacrata a Satùrno e chiamavasi Saturnia.

{p. 12}Sotto il regno di questo nume fu l’età dell’oro. I poeti nel descrivere l’età che trascorsero dalla creazione dell’uomo in poi, diedero ad esse il nome di varii metalli, de’ quali la maggiore o minore preziosità facesse rilevare la bontà di ciascun secolo. Ciò voleva dire che il genere umano dal suo primitivo stato di felicità e d’innocenza a passo a passo era tralignato, cadendo nella miseria e ne’ vizii de’ secoli nostri. Regnando adunque Satùrno fu l’aurea età o il secolo d’oro, in cui la terra, senza che coltivata fosse, ogni maniera di frutti produceva ; nè vi erano limiti che dividessero i campi, non servi, non mio e tuo, ma tutto era a tutti comune. Le città non aveano mura, perchè non viera a temere di ostile assalto ; nè il suono si udiva di marziali trombe che turbasse i tranquilli sonni e la dolcezza della pace. Non vi era cupidigia di avere ; non si piativa ne’ tribunali ; nè gli uomini erano intesi al mercanteggiare, sicchè quel secolo era tutto felicità, tutt’ordine, tutto innocenza(1). E godevasi pure un’eterna primavera ; i ruscelli scorrevano latte e vino, e gli alberi stillavano dolcissimo mele.

IV. Pico e Canènte-Fauno. §

Degli antichi re Aborigeni che regnarono in Italia avanti alla guerra di Troia, il primo fu Stercenio o Dercenno, cui successe Giano ; a Giano, Pico, ed a Pico, Fauno, suo figliuolo, il quale da Marica, ninfa de’ Minturnesi, ebbe il re Latìno, padre di Lavinia. E però il popolo Latino ebbe sua origine da Satùrno, di cui figliuolo era Pico, peritissimo nella scienza degli augurii ed insigne nel maneggio de’ cavalli (2). Egli sposò una figliuola di Giano e di Venilia, chiamata Canènte per la maravigliosa maestria nel canto. Or un giorno andando Pico a diletto per un bosco, incontrò {p. 13}la maga Circe, la quale il toccò colla sua verga d’oro ed il cangiò nell’uccello detto pico (1). I compagni del principe che per la campagna il cercavano, furono dalla Maga anche cangiati in orribili forme di fiere. Ma Canènte forsennata pel dolore per sei giorni si diede a discorrere per valli e per monti senza prender cibo e senza sonno. Finalmente in un luogo alla riva del Tevere che portò poscia il suo nome, finì disciolta in leggiera auretta, di se non lasciando che la voce.

Fauno si vuole figlio di Pico e quindi nipote di Satùrno, ed avea per moglie Fauna, la quale dava gli oracoli alle donne, come il marito agli uomini. Virgilio(2) pone l’oracolo di Fauno nella sacra selva di Albùna (Albunea), ov’era un fonte lungo il Teverone, che dava larga vena di acque sulfuree ; ma Ovidio (3) il mette sul monte Aventino un dì abbondante di fonti e di sacri boschetti. Fauno fu il primo ad edificare de’ tempii agli Dei fra gli Aborigeni, e dal suo nome si crede derivata la parola fanum, tempio. De’ Fauni diremo nella seconda parte di quest’opera.

V. Feste Saturnali. Tempio di Giano. §

I Latini adunque eran superbi di aver avuto Satùrno per fondatore di lor nazione e che nelle vene de’lor primi e più antichi signori era un sangue proveniente dal vecchio padre di Giove. Di che i Romani vollero serbare solenne memoria nelle feste Saturnali (Κρονια, Saturnalia), le quali erano immagine dell’aurea età di Satùrno, e si celebravano con allegria grandissima nel mese di Dicembre per cinque giorni detti da Catullo (4) i migliori fra tutti quelli dell’anno. In essi gli amici si davan regali a vicenda ; non vi era gastigo pe’ malfattori, nè poteasi pensare a muover guerra ; ed i servi assisi a mensa eran serviti da’ padroni in memoria della sognata eguaglianza del secolo d’oro.

{p. 14}Per la tradizione ancora di quel secolo a tempo di Giano, Numa, secondo re di Roma, dedicò a quel nume un tempio, ch’esser dovea segno di pace, se teneasi chiuso ; e se aperto, di guerra. Ovidio (1) rappresenta Giano che nel suo tempio tiene rinchiusa e la pace e la guerra, e che a suo talento or questa ne fa uscire ed or quella. Virgilio (2) al contrario finge nobilmente, nel tempio di Giano chiuso da ben cento chiavistelli di bronzo stare incatenati e la Guerra e Marte, e che Giano siede sempre alla custodia delle due sue porte di ferro. Ed infine Orazio (3) rappresenta Giano stesso rinchiuso nel suo tempio qual custode ed autore della pace. Quindi il Tasso, parlando di Argante, disse :

Spiegò quel crudo il seno e’l manto scosse ;
Ed a guerra mortal, disse, vi sfido.
E’l disse in atto sì feroce ed empio,
Che parve aprir di Giano il chiuso tempio.

Questo tempio tre volte si chiuse a Roma, a tempo, cioè, del pacifico re Numa ; sotto il consolato di T. Manlio, terminata la prima guerra Punica ; e finalmente, dopo la battaglia di Azio, regnando per Cesare Augusto grandissima pace in tutto il mondo Romano.

VI. Filìra-Chiròne-Ociroe. §

Da Satùrno e da Filìra (Φιλυρα, Philira), figliuola dell’Oceano, nacque Chiròne (Χειρων, Chiron), ch’era mezzo uomo e mezzo cavallo, cioè uno di que’mostri che i poeti chiamaron Centauri. Di che fu così dolente la madre che da Giove fu cangiata in tiglio ; percui filira si chiama quella pelle sottilissima ch’è fra la scorza ed il legno di quell’albero, di cui si servivano gli antichi per iscrivere. Essi intonacavano leggiermente una tal pelle di uno strato di cera, sopra la quale {p. 15}incidevano le lettere con un punteruolo di ferro (Stylus), la cui testa serviva per cancellare ciò che si era scritto. Chiròne da’poeti fu celebrato per la sua giustizia e pietà : ritrovò non solo la chirurgia, ma nella medicina ancora, nell’astronomia, nella musica ed in più altre scienze valse moltissimo. Egli abitava un antro del monte Pelio, ove educò i più insigni Eroi che furono a tempo della spedizione degli Argonauti, Ercole, Giasòne, Esculapio, Achìlle ed altri. Si rammentano alcune scoperte in medicina attribuite a Chiròne e ad Achille.

Chiròne ebbe dalla ninfa Cariclo una figlia detta Ociroe (Οκυροη, Ocyroë) o Melanippe, che fu valentissima nella medicina, nell’astronomia e nella musica, oltre alla scienza di predire il futuro. Avendo un giorno presagito il destino che aspettava il giovinetto Esculapio, e la morte dello stesso Chiròne era di natura sua immortale, perchè figliuolo di Satùrno ; ma mentre maneggiava le armi di Ercole, ferito per caso in un piede da una saetta intinta nel sangue dell’idra di Lerna, impaziente del dolore, e vano riuscendo ogni rimedio, cedè la sua immortalità a Prometeo, cui Giove donata l’avea a patto che un immortale avesse voluto morire per lui. Fu egli trasformato in una costellazione detta del Centauro.

VII. Sacerdoti di Cibèle-Ati-Taurobolio. §

I Sacerdoti di Cibèle appellavansi Galli dal fiume Gallo, della Frigia, del quale bevendo le acque, venivano in gran furore, con coltelli si laceravan le membra, ruotavano il capo e cozzavano fronte a fronte come montoni, per cui ebbero il nome di Coribanti ; si tosavano nella parte anteriore del capo, e vestivano un abito donnesco. Si chiamavan Curèti, perchè avean allevato Giove nell’isola di Creta. E Virgilio (1) dice che il culto di Cibèle fu portato da Creta {p. 16}nella Troade. I sacrificii di quella Dea si celebravano con tumultuose grida ed ululati, e collo strepitoso suono di cornamuse, di cembali e di timpani, a’quali i Coribanti accoppiavano i loro balli. I quali timpani erano falti di un cerchio di legno, a cui si sottoponeva un cuoio ; e si suonavano o colle bacchette o colle mani. Mida, re di Frigia, ritrovò i modi Frigii, o sia il suono di quella cornamusa (tibia), sulla quale i Coribanti cantavano le loro sacre canzoni, e ch’era ricurva ed aveva aggiunto un corno che ne accresceva l’acuto e stridulo suono.

Gran parte ne’sacrificii di Cibèle avea Ati (Αττης, Atys, Attis), bellissimo giovinetto della Frigia, il quale un giorno preso da stranissimo furore in un bosco consacrato a Cibèle, mentre pareva che volesse far danno alla propria persona, fu per pietà della Dea cangiato in pino, che fu poscia a lei dedicato. I Coribànti ogni anno piangevano l’amaro fato di Ati ; e chi colle chiome rabbuffate discorreva per le montagne, e chi percuoteva timpani e cembali, in guisa che il monte Ida era tutto ripieno di tumulto e di furori. Siccome i Frigii sotto nome di Cibèle intendevano la Terra, così adoravano il Sole sotto il nome di Ati, il quale credesi sepolto sul monte Agdiste, a piè del quale era la celebre città di Pessinunte, a’ confini della Frigia, ove Cibèle avea un tempio di grandissima magnificenza. Da questa città fu portata a Roma la famosa pietra che dicevano essere la Madre Idèa, e che da P. Cornelio Scipione fu collocata nel tempio della Vittoria sul Palatino, a’quattro di Aprile, che fu festa grandissima, celebrandosi il lettisternio ed i giuochi Megalèsi, i quali malamente si confondono co’ giuochi detti grandi o Romani, che celebravansi in onore de’grandi Dei Giove, Giunòne e Minèrva il dì precedente alle calende di Settembre e furono istituiti dal re Tarquinio Prisco. I giuochi Megalesi si celebra vano avanti al tempio di Cibèle con istraordinario concorso, ed in que’giorni i patrizii erano soliti invitarsi a scambievoli banchetti.

A Cibèle offerivasi un sacrificio detto Taurobolio per {p. 17}la consacrazione del gran Sacerdote, per l’espiazione de’delitti, e per la salute del Principe o di que’che l’offerivano, e fu da’ pagani introdotto ne’ primi secoli dell’era volgare. In esso s’immolava un toro ; o un ariete, ed allora si diceva Criobolio ; e si offeriva in onore di Ati. Chi doveva consacrarsi o espiarsi col Taurobolio, si faceva scendere in una profonda fossa che coprivasi di un graticcio, sul quale s’immolava un toro colle corna dorate, di cui il sangue per quei forami colando, tutto aspergeva il Sacerdote o la persona ch’era nella fossa. E con questo sacrificio si credeva l’uomo quasi rinascere a novella vita, e però non poteva ripetersi che dopo venti anni. Terminato il sacrificio, si consacravano le corna del toro.

VIII. Vesta. Di lei tempio. Vergini Vestali. §

Rea, Cibèle, Opi, e la Terra spesso si confondono da’poeti ; ma secondo alcuni Vesta era figliuola primogenita di Satùrno e di Rea ; e da Virgilio (1) chiamasi Madre, perchè la Terra credevasi madre degli uomini e degli Dei ; o perchè Vesta era il principal nume tutelare di Roma e specialmente della Terra, e per essa intendono il fuoco.

Il culto di Vesta o del fuoco eterno fu per Enèa dalla Frigia recato in Italia ; ed i Frigii l’appresero dagli antichi Caldei e Persiani, presso i quali il fuoco era in grandissima venerazione. Enèa lo stabilì nella città di Lavinia, donde Ascanio il recò ad Alba Longa, da cui poscia passò a Roma. Il sacro fuoco di Vesta si teneva nel famoso tempio edificato da Numa, presso al quale era il palagio del suo fondatore. Era di forma rotonda per significare l’universo ch’è rotondo, e nel cui bel mezzo stassi, come in sua sede, il fuoco, secondo i Pittagorici. Altri vogliono che quella figura rappresentava la terra che credevan gli antichi della forma di una sfera. In esso non era alcun simulacro ; ma l’ {p. 18}immagine di Vesta non di rado si trova negli antichi monumenti. E oltre il fuoco perpetuo, vi era pure il Palladio, famoso pegno del Romano impero ; ed i Penati che da Troia recò Enèa in Italia, erano in quel tempio allogati.

Le Sacerdotesse che avean cura di questo fuoco, si chiamavano le Vergini Vestali. Ne furono scelte quattro da Numa, e Tarquinio Prisco ne aggiunse altre due ; ed in Roma vennero da Alba Longa. A principio si eleggevano da’ Re, e questi scacciati, dal Pontefice Massimo ; e doveano avere padre e madre viventi (patrimi et matrimi), e non meno di sei, nè più di dieci anni. Fu loro uffizio principale, vegliare alla custodia del sacro fuoco della Dea, che esser dovea continuamente acceso, perchè siccome eternamente risplendono gli astri nel cielo, così, per cura delle Vestali, sempre arder dovea il fuoco di Vesta a tutela della Republica. Era esso fuoco di legna che ardevano su di un focolare ; e se per colpa della Vestale o per caso veniva a spegnersi, si reputava prodigio per la cosa pubblica funestissimo, e la Vestale colle battiture punivasi dal Pontefice Massimo. Rinnovellavasi poi l’estinto fuoco co’raggi solari raccolti mercè di una lente.

IX. Iconologia di Satùrno, di Cibèle e di Giano. §

Satùrno ben di rado si ritrova negli antichi monumenti. Qualche volta si dipingeva in sembianza di un vecchio canuto, con lunga barba, col corpo curvo, e col volto pallido e mesto. Spesso ha il capo velato o mezzo coperto, per dinotare che i tempi sono oscuri e coperti di un velo densissimo. In un dipinto Pompeiano vi è una figura di Satùrno, di venerando aspetto, col capo velato ed il corpo avviluppato in un gran manto, e con ronca in mano. Nel Museo Capitolino, Satùrno velato e seduto è in atto di prendere e divorare una pietra che Rea gli presenta avvolta nelle fasce. Quasi sempre ha la falce in mano, o perchè la falce del tempo ogni cosa miete e distrugge. Si dipinge pure alato, per significare la {p. 19}velocità del tempo, o sotto figura di un serpente che si morde la coda, per mostrare l’eternità ch’è senza principio e senza fine, come il cerchio.

Vesta era il fuoco ; e perciò si dipinge collo scettro nella sinistra, e nella destra, una lampana ch’è simbolo del fuoco. Cibèle poi era la terra ; percui, a dinotarne l’immobilità, si rappresentava seduta su di un cubo. Avea il capo coronato di torri e di merli di mura, per significare le città che sono come la corona della terra. Per lo più si rappresentava con un disco in mano ; attorniata da molte belve ; con veste ornata di ogni maniera di metalli e di pietre preziose e sparsa di fiori ; ed alle volte coronavasi di quercia, per ricordare che gli uomini un tempo nudrivansi del frutto di quell’albero. Spesso si dipingeva sopra un cocchio tirato da quattro leoni ; e Virgilio (1) rassomiglia la setticolle Roma a Cibèle, la quale, coll’augusto capo coronato di torri ; lieta per vedersi madre di tanti numi, vien portata su pomposo cocchìo per le città della Frigia.

Giano si dipingeva con due facce, o perchè conosceva le passate e le future cose, o perchè persuase agli Aborigeni di mutar costumi e di attendere all’agricoltura ; o perchè Giano figurava Noè che veduta avea la terra prima e dopo del diluvio. Alle volte si dipinge con quattro facce, per indicare le quattro stagioni dell’anno cui egli presedeva. Nelle monete di Giano, da una parte vedeansi le due facce, e dall’altra, una nave, per ricordare che Satùrno su di una nave erasi salvato nell’Italia ; o l’arca in cui Noè campò dal generale diluvio.

X. Principali epiteti di Giano e di Cibèle. §

Janus bifrons, geminus, biceps, Giano a due facce o a due capi-Janus quadriceps et quadrifrons, Giano che ba quattro capi o facce-Janus claviger, Giano che porta la chiave, perchè si dipingeva colla chiave in mano, come custode delle porte-Janus Patulcius (da patet) et {p. 20}Janus Clusius (da claudo), perchè le porte del suo tempio in guerra erano aperte, ed in pace eran chiuse-Janus matutinus, quasi signore del giorno o del mattino. Janus Pater, quasi padre degli Dei-Janus Quirinus, detto da curis o quiris, che in lingua Sabina significa l’asta come se fosse Dio’ della guerra-Janus Consivius (da consero), Giano propagatore del genere umano.

Enthea, cioè divina, piena di Dio, si chiama Cibèle, e Mygdonia, da Middonia, provincia della Frigia ; Pessinuntia Dea, da Pessinunte, città che fu così detta da una parola greca (πεσειν) che significa cadere, perchè quivi cadde dal cielo un simulacro di quella Dea ; Dea turrita et turrigera, perchè la prima diede le torri alle città, o perchè sotto la protezione di lei esse credevansi poste.

XI. Alcune altre cose di Satùrno e di Giano. §

Satùrno si annoverava piuttosto fra gli Dei infernali che fra i celesti ; la quale credenza nacque dal giudicarsi il pianeta di Satùrno di malefico influsso, ch’è l’indole degli Dei infernali. Il giorno sacro a Satùrno era infausto e malaguroso, specialmente per viaggiare. Da quest’indole di Satùrno venne il greco proverbio : Κρονιον ομμα, Saturnius oculus, occhio di mal augurio.

Si chiamavano Saturnii alcuni versi giambici e satirici, o perchè ritrovati in Italia che dicevasi Saturnia ; o per quella specie di malignità che si attribuiva a Satùrno. Sotto la tutela di questo nume erano i Gladiatori, perchè si reputava egli una divinità avida di sangue e crudele.

Satùrno era anche Dio dell’agricoltura ; chiamavasi il custode delle ville ed a lui si attribuiva l’invenzione degl’innesti, la coltivazione della terra e l’arte di letamare ; percui ebbe l’onorevole nome di Stercuzio.

Nel tempio di Satùrno al pendìo del Campidoglio era l’erario o tesoro pubblico, perchè nel secolo d’oro il furto era sconosciuto.

Giano s’invocava nel principio di tutt’i sacrificii, perchè come portinaio del cielo faceva che le preghiere {p. 21}avessero libera entrata agli Dei ; o perchè il primo mostrò l’uso del vino e del farro ne’ sacrificii. Egli ritrovò pure le corone ed i navigli, e fu il primo che coniasse monete.

Era in Roma un vico assai frequentato, ove stavano in gran numero gli usurai ed i mercadanti, ed un tribunale che condannava i debitori a pagare ; il quale vico chiamavasi Janus, da un tempio di lui quivi allogato. Esso dividevasi come in tre parti, in guisa che il capo del vico si chiamava Janus summus ; il mezzo Janus medius ; ed il termine, Janus imus.

Giove. §

I. Nomi dati a questo Nume e lor ragione. §

Giove, padre degli uomini e degli Dei, chiamavasi Jupiter da’ Latini, quasi iuvans pater, per la somma beneficenza, con cui sopra tutte le create cose diffonde quanto ha ragione di bene, e però dagli antichi salutavasi ottimo massimo. Spesso Jupiter significava l’aria, o il cielo o l’universo. Quindi nella celebre formola augurale, Jove fulgente, tonante si dice per coelo fulgente ; ed in Orazio manet sub Jove frigido, cioè all’aria scoperta ; ed in Virgilio plurimus Jupiter significa l’aere disciolto in pioggia.

Da’ Greci dicevasi Ζευς, che pur significa l’aria forse da ζαν, vivere, perchè Giove dona a tutti la vita.

II. Storia favolosa di Giove. §

L’antica Mitologia contava molti Giovi ; e più popoli si davano il vanto di aver veduto nascere questo nume fra loro ; ma i Poeti per lo più danno a’ Cretesi un tant’onore. Quindi il Sannazzaro :

Cagion sì giusta mai Creta non ebbe
Per Giove o per Giunon di gloriarsi.

Or il natale di Giove è variamente raccontato da’Poeti. Secondo Esiodo, da Cibèle, o Rea ebbe Satùrno {p. 22}seifigliuoli, Vesta, Cerere, Giunòne, Plutòne, Nettùno e Giove. Veggendo la madre che il marito avea tanti figliuoli divorato, vicino a partorir Giove, si consigliò col Cielo e colla Terra sul modo di nasconderlo alla crudeltà del genitore. I quali aprirono alla figliuola quel che per decreto del Fato avvenir dovea di Satùrno e di Giove, e le imposero di recare il fanciullino nell’isola di Creta, ove in un antro grandissimo fu allevato. Secondo Callimaco però, Rea partorì Giove nell’Arcadia, ed il lavò nelle acque del fiume Ladone ; ed in fasce avvoltolo, diello alla ninfa Neda, che lo portasse a Creta e quivi il nutricasse di nascosto. Allora le ninfe Melie, compagne de’ Coribanti, il presero in braccio, ed Adrastèa l’addormentava in culla d’oro, dandogli a poppare il latte della Capra Amaltèa, con un dolce favo di mele, che tosto fabbricò l’ape Panàcre sul monte Ida. Altri dicono che Melissèo, re di Creta, ebbe due figliuole, Amaltèa e Melissa, le quali nudrirono Giove con latte di capra e con mele. Or questa capra avea due curvi bellissimi corni, de’ quali uno si ruppe ad un albero. Amaltèa, dopo averlo ornato di fiori e di odorose erbette, il colmò di ogni maniera di frutti ed offerillo al pargoletto Giove, il quale, ottenuta la signoria del cielo, la sua nutrice trasformò in costellazione, ed al corno donò virtù di provvedere abbondevolmente quella ninfa di ogni cosa, che a lei fosse piaciuta. E questo chiamasi Cornucopia, Corno dell’abbondanza, e Corno di Amaltèa. Affinchè poi il vagire del fanciullino udito non avesse il vorace Satùrno, intorno alla culla facevano grandissimo frastuono i Coribanti, detti pure Cureti, Dattili Idei, Dattili Dittei e Cabiri, danzando armati e percuotendo certe loro armi e piccoli scudi ; ch’è la celebre loro danza e saltazione Pirrica, familiare a’Cretesi, e solita a farsi, quando si celebrava il natale di Giove. Virgilio (1) dice che le api, allettate dal suono de’ cembali de’ Cureti, nell’antro del monte Ditteo, in Creta, furono col loro mele le nutrici di Giove, dal quale ebbero in premio {p. 23}quell’stinto nel fabbricare il mele, che le rende fra gli animali tanto ammirabili.

Così allevato crebbe Giove in bellissima adolescenza ; la sua fanciullezza fu in grande onore presso gli antichi, e vi era una divinità chiamata Veiovis che vuol dire Giove infante. Ovidio (1) vuole che Veiovis significhi Giove fanciullo e senza que’ fulmini, de’ quali ebbe ad armarsi per debellare i Giganti ; sebbene altri l’intendano per Giove nocivo, dal vedersi la statua di lui armata di saette per ferire. Come poi Giove ottenuto avesse nella divisione dell’universo l’impero del cielo, si è per noi detto nell’articolo di Satùrno.

III. Potenza e maestà di Giove. Di lui fulmine. Salmonèo. §

Dopo che ebbe Giove co’ fulmini represso l’empio orgoglio de’ Giganti, la sua potenza si stabilì maggiormente, ed a fianco a lui si assise la Maestà, qual compagna del suo trono (συνθρονος. Aeschil.). Al suo lato sedevano, secondo i Poeti, la potenza e la giustizia che governano l’universo ; ed egli ottenne il primato per ragione del potere e della forza che sedevan sempre con lui nel medesimo cocchio. Ma di tutti gli Dei Pallade o la Sapienza era più d’appresso al trono di Giove che sempre valevasi de’ consigli di lei. Niente di meno gli antichi fecero Giove soggetto alle determinazioni del Fato o sia Destino, ne’ cui libri ei ne leggeva gl’immutabili decreti, a’ quali non poteasi in modo alcuno opporre, e però dal Comico Filemone fu chiamato Dio schiavo del Destino.

Quando Giove inchinava i neri sopraccigli, e sull’immortale capo gli ondeggiavano le divine chiome, tremava tutto quanto l’Olimpo. Ma nulla meglio mostrava la sua potenza che il tuono e la folgore, ond’era sempremai armato ; ed Orazio (2) afferma che il tuonare che fa Giove nel cielo, ci addita ch’egli colassù regna. Per ciò salutavasi da’ Poeti coll’epiteto di {p. 24}vibratore del fulmine (αστεροπητης) ; ed al fulmine davasi l’aggiunto di domator di ogni cosa (πανδαματωρ). La folgore stessa onoravasi qual Divinità con sacre danze e con inni. E da ciò quel Iupiter Fulgur apresso Festo.

Or del suo fulmine era Giove oltremodo gelose, come ebbe a sperimentare il superbo Salmonèo, figliuolo di Eolo, re di Elide, in Morea, diverso da Eolo, re de’ venti. Il quale non contento della maestà reale, volendo imitare il Dio del fulmine, fabbricò un altissimo ponte di bronzo, che passava sopra di Elide ; sul quale passeggiando con magnifico cocchio, faceva un rumore simile al tuono ; e lanciando accese fiaccole, imitava i fulmini di Giove. Il qual folle divisamento questi mal sofferendo, quasi che volesse Salmonèo disputargli la sovranità dell’Olimpo, con un vero fulmine il cacciò nell’inferno.

Ma niuno dispregiò con più orgoglio la potenza di Giove, che Capanèo, di Argo, figliuolo d’Ipponoo e di Astinome. Questo greco capitano andò con Polinice alla guerra di Tebe, e nel dare la scalata alle mura, con empio orgoglio disse, volere impadronirsi della città a dispetto del medesimo Giove ; di che questi adirato tosto il fulminò. Dice Vegezio, che coloro i quali nell’assedio delle città adoperano le scale, sono esposti a frequenti pericoli, come Capanèo, che vuolsi essere stato primo inventore della scalata, il quale fu da’Tebani con sì gran mole di pietre oppresso, che si disse morto da un fulmine di Giove.

IV. Continuazione. Aquila-Ganimède-Perifànte. §

L’aquila era l’uccello di Giove e la ministra del suo fulmine. Finsero ciò i poeti, perchè niun’ aquila è stata mai tocca dal fulmine ; o pel volare altissimo che fa verso le nubi. Orazio (1) crede che Giove diede all’aquila la signoria sopra gli altri uccelli pel fedele servigio prestatogli nel rapir Ganimède. Dicesi che Perifànte, antichissimo re di Atene, governò con tanta sapienza il suo popolo, che fu adorato qual altro Giove ; il quale di ciò adirato volea fulminarlo, ma per {p. 25}intercessione di Apòllo, eui Perifante avea consacrato un tempio, il cambiò in aquila, di cui valevasi nell’attraversare gli spazii dell’aria. E la consorte di lui che non volle esser disgiunta dal marito, fu trasformata in falcone, uccello solito a convivere coll’aquila.

V. Creazione. Caos. Prometeo ed Epimeteo. Pandora. §

A principio l’universo non era che un’informe e confusa mole di materia, che gli antichi dissero caos, cioè confusione universale della materia, che contenea in se misti gli elementi di tutte le cose, in guisa che ove era terra, ivi pure ed aria ed acqua e fuoco ritrovavansi stranamente confusi. Or una mente divina gli elementi così mescolati bellamente divise, a ciascuno assegnò il luogo conveniente, e si videro e cielo e terra e mare far magnifica mostra di lor bellezza ; e l’ordine che uscì del caos fu sì maraviglioso che il mondo da’ Greci fu chiamato κοσμος, l’ordine per eccellenza. Or fra tutte le create cose la più bell’opera fu l’uomo, da’ Poeti creduto di origine celeste e divina. Ma qui è mestieri riferire la favola di Prometeo (Προμηθηυς, Prometheus), fig. di Giapeto e di Climene, il quale di alto ingegno dotato, del fango della terra formò il corpo del primo uomo a somiglianza degli Dei, dandogli un sembiante nobile e fatto per mirare il cielo. Nel che traluce la vera origine del primo padre degli uomini, che Dio formò del fango della terra e cui diede l’anima e ta vita col suo soffio divino. Di fatto vedendo Prometeo altro non essere l’uomo che una bella statua di vita priva e di senso, col favor di Minerva salito al cielo, accese una flaccola al fuoco del sole, e con questo fuoco celeste animò quella sua mirabile statua. Oltre a ciò agli uomini donò un tal fuoco, e loro mostrò la maniera di farne uso. Il che mal sofferendo Giove, comandò a Mercurio che lo legasse al monte Caucaso, e che un’aquila, o un avvoltoio gli divorasse il cuore che sempre rinasceva. Ma Ercole colle sue saette uccise l’uccello e liberò Prometeo da quel supplizio.

{p. 26}Or Giove, per vendicare il temerario attentato del fig. di Giapeto, ordinò a Vulcano che di fango eziandio formasse il corpo della donna, alla quale Minèrva donò l’anima o la sapienza ; Venere, la bellezza ; Apòllo, la perizia della musica ; e Mercurio, l’eloquenza ; percui chiamossi Pandora (Πανδωρα, Pandora), quasi ornata di tutt’i doni. Altri dicono che gli Dei, mal sofferendo che Giove volea per se solo il poter formare degli uomini, fabbricarono questa donna e tutti l’arricchirono de’ loro doni ; e che Giove, per vendicarsi di ciò, comandò a Mercurio di recarla in dono ad Epimeteo, fratello di Prometeo e padre di Pirra, con un vaso o cassetta magnifica e ben chiusa, nella quale era ogni generazione di mali. Epimeteo, dimentico del consiglio del fratello, apri per curiosità la fatale cassetta, da cui uscirono in furia tutt’i mali e le colpe, ond’è la terra infestata ; giacchè prima gli uomini viveano in lietissima felicità. Tentò egli tosto di chiuderla, ma solo sull’orlo rimase la speranza ch’era nel fondo. E così Epimeteo, come tutti gli stotti, conobbe suo danno dopo essergli intervenuto ; da che la proverbiale maniera presso Luciano (μεταβουλευεσται Επιμηθεως ερηων ου Προμηθεως), che dopo il fatto dir quello che si poteva o dovea far prima, è imitar Epimeteo, non l’antivedimento di Prometeo. Si racconta che avendo Epimeteo fatto di creta una figura umana, Giove sdegnato il cambiò in bertuccia.

Prometeo vuol dire in greco previdenza o provvidenza di Dio. L’uomo adunque fu la grand’opera di Prometeo, cioè della divina Provvidenza ; e di Minerva, o sia di una sapienza tutta divina ; e l’anima, un fuoco tratto dal cielo, per indicare la sua origine da Dio. Potrebbe pur dirsi che Prometeo, avendo colla sua sapienza ridotto gli uomini salvatici e rozzi alla vita socievole e civile ; ovvero avendo ritrovato il primo l’arte di fare le statue, si finse che avesse formato l’uomo di creta e lo avesse animato con fuoco tolto dal cielo. Quanta somiglianza poi abbia questa favola col racconto di Mosè sulla creazione dell’uomo e della donna, il vede anche un fanciullo mezzanamente istruito nolla {p. 27}storia sacra. Dissero, ch’egli avesse rapito il fuoco dal cielo e mostratone l’uso agli uomini, perchè ritrovò il modo di conservare il fuoco tratto dalla selce nella midolla della ferula o canna d’India. O infine fu Prometeo un uomo di gran senno che collo specchio di metallo primo raccolse i solari raggi, ed insegnò agli uemini di far uso di quel fuoco che parea calato dal cielo.

VI. Continuazione. Astrea Gigantomachia. §

Gli uomini viveano felicissimi ; ma i vizii tosto guastarono tanta felicità, ed il genere umano mosse a sdeguo sì fattamente gli Dei che tutti lasciarono la terra pe’ delitti degli uomini resa indegna di que’ celesti abitatori ; chè privilegio era dell’età dell’oro, godere gli uomini il consorzio degli Dei. La Vergine Astrèa però, fig. di Giove e di Temi, e Dea della giustizia, fu l’ultima che lasciò la socièta degli uomini. Ebbe luogo fra i segni del zodiaco ed è quello della Vergine. Si chiamò pure Temi, la quale secondo Omero avea l’affizio di regolare i banchetti degli Dei, quando sedevano a concilio sull’Olimpo. Ebbe un oracolo antichissimo nella Beozia, e però chiamossi fatidica.

Or gli Dei, i quali, lasciata la terra, erano ritornati in cielo, neppure quivi si videro sicuri dagl’insulti de’ mortali. Imperocchè è antica fama che i Giganti, uomini o piuttosto mostri di smisurata grandezza, che avean mille braccia e gambe di serpenti, aspirando follemente a discacciare Giove dal celeste suo regno, all’altissimo Olimpo soprapposero il monte Ossa, ed all’Ossa, il Pelio. Allora Giove con un fulmine abbattè quella superba congerie di monti, che ben tre volte avean tentato d’innalzare que’ baldanzosi(1), e così riuscì vana ogni loro impresa. Sovente i Giganti si confondono co’ Titàni, forse perchè procreati entrambi dalla Terra (γηγενεις, terrigenae). L’origine di questa favola da’ Poeti sì variamento raccontata, è nell’Odissea  ». Io vidi giù nel Tartaro, dice {p. 28}Ulisse(1), Ifimedìa, moglie di Aloeo e madre di Oto e di Efialte, giganti di altissima statura, i quali, nudriti dalla Terra, di nove anni erano già alti nove cubiti. Essi osarono muover guerra agl’immortali, all’Olimpo mettendo sopra il monte Ossa, ed a questo il boscoso Pelio. Ma prima di eseguire l’empio attentato, il figliuol di Latòna li uccise ». L’Olimpo per forza di un gran tremuoto fu distaccato dal monte Ossa(2), e ciò forse diede luogo alla favola.

La Terra intanto (3), che avea veduto da Giove debellati i Titani ed i Giganti, vieppiù inacerbita, volle fare l’estrema pruova di sua possanza, producendo dal seno del Tartaro il mostruoso Tifeo o Tifone (Τυφεως, Τυφων, Typhoeus), il quale avea cento capi di dragone e di ogni maniera di animali feroci, e vomitando orrende fiamme, dava urli sì spaventevoli, che ne rintronava stranamente e cielo, e terra e mare. Sfidava esso Giove ad inudita tenzone, e lanciando infocati sassi contra il cielo, pose a’Numi tutti grandissima paura. E fu tale che fuggendo andarono a nascondersi in Egitto, ove non lasciò l’implacabile mostro d’inseguirli. Essi, vinti dal terrore, per consiglio del Dio Pan, pigliarono sembianza di animali ; Giove, di ariete ; Apollo di corvo ; Bacco, di capro ; Diana, di gatto ; Giunòne, di vacca ; Venere, di pesce ; e Mercurio, d’ibi. Da questa trasformazione ebbe origine il ridicoloso culto che gli Egiziani prestavano a certi animali. Ma finalmente Giove co’ suoi fulmini inseguì il mostro, il quale pel Mediterraneo fuggendo l’ira di lui, fu da quel Nume al vasto suo corpo sovrapposta tutta quanta è la Sicilia. Spesso invano fa tutt’i suoi sforzi per liberarsi da quell’eterno peso che sdegna, gettando fiamme, e scuotendo il suolo della Trinacria ; ma indarno, chè sopra la sua destra sta il capo Peloro ; sopra la sinistra, il Pachino ; ed il Lilibeo, sopra le gambe, mentre l’ignivomo Etna gli sta sopra il capo.

{p. 29}Alla favola di Tifeo han dato luogo que’venti procellosi e quelle orribili fiamme che dal seno della terra di tratto in tratto si veggono uscire. Da’ marinari si dà il nome di tifone alla tromba, fenomeno assai frequente nel Mediterraneo e nell’Oceano. Forse i primi uomini al vedere l’esplosioni de’ vulcani che sollevano in aria le intere rupi, si formarono l’idea di una guerra fra la terra ed il cielo. Virgilio (1) dice che Tifeo fu sepolto sotto l’isola ch’egli chiama Inarime, oggidì Ischia, dalla quale vogliono che un tempo fu distaccata Procida per forza di orribile tremuoto. Il che ha dovuto avere origine da’ versi di Omero (2), ne’ quali dice che Tifeo giace sepolto in Arimis (εν Αριμοις) luoghi dell’Asia Minore famosi per frequenti tremuoli e per sotterranei fuochi. Alcuni dicono che i Giganti mossero guerra a’ Numi nella Macedonia, scagliando sassi ed alberi accesi contra il cielo, e che gli Dei, chiamato Ercole in aiuto, li debellarono. Altri la dicono avvenuta ne’campi Flegrei vicino Pozzuoli, forse i campi Leborini, o Laborini, ora Campo Quarto, così detti da un verbo greco (φλεγω) che significa ardere, perchè conservano le tracce di un antico incendio vulcanico. In generale, i Giganti erano uomini di grandissima robustezza e ferocia, che insolentivano contra gli Dei e gli uomini, a’ quali, per dinotarne la forza, gli antichi diedero corpi smisurati, molte braccia e quel soprapporre monti a monti. Che altro mai, dice Macrobio (3), furono i giganti che una qualche empia generazione di uomini, i quali negando l’esistenza degli Dei, fecero dire che volevano discacciarli dal cielo ?

VII. Licaone-Diluvio-Deucalione e Pirra-Filemone e Bauci. §

Dal sangue de’ Giganti (4) fulminati da Giove nacque una razza di uomini crudeli e spregiatori de’ Numi. {p. 30}Giove, per domare siffalla genia, tenne il gran concilio degli Dei e vi parlò della necessità di perdere il genere umano sì stranamente malvagio. In conferma di che raccontò l’empio fatto di Licaone, fig. di Titano e della Terra e re di Arcadia. Il quale, avendo udito che Giove, mosso dall’empietà degli uomini, sotto uman sembiante andava pel suo regno, volle vedere se ciò fosse vero. E però gl’imbandì una tavola delle carni del fanciullo Nittimo, suo figliuolo. Giove allora trasformò l’empio Re in orribile lupo e fulminò i figliuoli che vollero fare la stessa pruova. La quale favola può spiegarsi dicendo che il nome di Licaòne (da λυκος, lupus) ha dato occasione di fingere che quel Re, forse crudele ed empio, fu trasformato in lupo ; ovvero ebbe la malattia, per la quale gli uomini credonsi trasmutati in lupi, e che i Medici chiamano licantropia (λυκανθρωπια).

Or la temeraria impresa de’ giganti, l’empietà di Licaòne ed i grandi vizii degli uomini avean mossa talmente l’ira di Giove che in quel gran consesso stabilì di perdere gli uomini con un diluvio. Era nella Focide un monte insigne pe’ due suoi vertici, e sì alto che trapassava le nubi, chiamato Parnaso. Sulla cima di esso fortunatamente salvaronsi su piccola barca Deucalione e Pirra. Era il primo figliuolo di Prometeo e di Pandora, o di Climene ; e Pirra, di Epimeteo ; tutti e due per pietà fra gli altri uomini insigni. I quali vedendo l’uman genere distrutto tutto quanto dalle acque, ed essi soli sopravviventi, consultarono Temi che a que’ di dava oracoli a Delfo, o Giove stesso, come dicono alcuni. Per comando dell’oracolo, Deucalione e Pirra, col capo velato e colle vesti discinte, si gettarono dietro le spalle le ossa della madre, che interpetrarono essero le pietre, giacchè madre comune è la Terra. Si vide allora, le pietre gettate da Deucaliòne trasformarsi mirabilmente in uomini, e quelle da Pirra, in donne ; e così rinnovellossi l’umana generazione.

Al tempo di questo diluvio si rapporta il fatto di Filemone e Bauci, due vecchi sposi, i quali, coltivando un campicello, menavan la vita in lieta e contenta poverlà ; ma eran sì virtuosi che il nome di Bauci {p. 31}perproverbio denotava una povera, ma pietosa vecchierella. Or viaggiando Giove per la Frigia con Mercurio che solea portar seco per compagno, da niuno furono accolti che da que’ vecchi, i quali, ponendo in moto tutta la poca lor masserizia ed apprestando parchissima mensa, fecero a quegli ospiti ogni buona accoglienza. Giove che molto gradì que’ sinceri e pietosi ufficii, manifestandosi comandò loro di seguirlo sopra un colle vicino, da cui additò il paese pel diluvio divenuto un gran lago, e sola rimaner salva la loro casuccia, che fu mutata in un magnifico tempio. Essi dimandarono a Giove non altro che esser ministri di quel tempio e di morire insieme. Furono esauditi i loro voti ; e giunti ad una gran vecchiezza, un giorno, stando presso alla porta del tempio, Filemone si avvide che Bauci si mutava in tiglio, e Bauci, che lo sposo diveniva una quercia ; e così si diedero l’ultimo addio(1).

VIII. Olimpo-Consiglio degli Dei-Via lattea-Atlante. §

Il luogo in cui Giove adunava il gran Concilio degli Dei, era l’Olimpo ( Ολυμπος, Olympus). Da Omero e da Virgilio si scorge, esser quello fatto a guisa delle grandi abitazioni degli antichi. Dall’una parte e dall’altra eran dodici stanze o piccioli palagi per gli Dei maggiori, e nel bel mezzo una sala magnifica sì per deliberare e sì per banchettarvi. Omero però nel principio del XX. libro dell’Iliade pone la sede di Giove nella parte più alta dell’Olimpo ; e nelle altre eminenze inferiori, le abitazioni degli altri Numi, dalle quali andavano a consiglio nella stellata magione di Giove.

Ma l’Olimpo propriamente è un monte di Tessaglia vicino all’Ossa ed al Pelio, così alto che dicesi trascendere la region delle nubi ; e però ha un sole sempre chiaro sulla vetta, godendovisi una serenità perpetua. Quindi significa il cielo stesso, o la parte più alta e risplendente del cielo, dov’è la sede di Giove e degli altri Dei. Or ogni volta che Giove risolver dovea {p. 32}qualche gravissimo affare, chiamava a consiglio i dodici Dei maggiori, detti pure Olimpii e Consenti, ch’erano, oltre a Giove, Nettùno, Marte, Apollo, Mercurio, Vulcano, Giunone, Vesta, Minerva, Diana, Cerere, e Venere. Per andare(1) alla gran sala del celeste consiglio passar doveano i Numi per la via lattea ( γαλαξια, orbis lacteus, via lactea), ch’è quel magnifico e sublime sentiero che vedesi in cielo in alcune notti serene, tutto luccicante di minute stelle, e di un notabile candore, per cui ha preso il nome dal latte. A destra ed a sinistra di questa strada sorgevano le magnifiche abitazioni degli Dei ; e pel mezzo, sul suo cocchio, Giove era solito di passeggiare. E’ fama che Mercurio fu per qualche tempo allattato da Giunòne, e che dal poco latte per caso caduto dalla bocca di lui si fosse formata la via lattea.

La celeste magione di Giove poggiava tutta su gli omeri di un sol uomo, ch’era il celebre Atlante, re della Mauritania, fig. di Giapeto e di Climene, fratello di Prometeo, e condottiere de’ Titàni alla folle impresa di discacciare Giove dal cielo. Dal quale essendo stati que gli audaci precipitati nell’inferno, Atlànte ebbe la pena di sostenere sulle spalle il non leggier peso del cielo(2). Si racconta che avvertito dall’oracolo a guardarsi da un figliuolo di Giove, non volea che abitasse in casa sua uomo del mondo. Pel qual rifiuto sdegnato Perseo, fig. di Giove e di Danae, gli mostrò il capo di Medùsa ed il trasformò in monte. L’Atlante è un monte altissimo che nasconde la cima fra le nubi, e da’ vicini si chiama colonna del cielo ; e da ciò la favola che quel Re sosteneva il cielo colle spalle, essendo naturale il supporre che il cielo poggi sulle cime delle alte montagne. Altri vogliono che quel Re fosse stato un Astronomo di gran valore, che andava sulla vetta del monte Atlante a contemplare gli astri, e che sostenne la scienza del cielo co’ suoi studii indefessi e coll’invenzione della sfera artificiale ; perciò favoleggiarono ch’ei sosteneva il cielo colle spalle(3).

{p. 33}

IX. Mensa di Giove. Ambrosia-Nettare-Ebe-Ganimède. §

Il Cielo o l’Olimpo era il luogo ove Giove banchettava cogli altri Numi ; e sedere alla mensa di Giove vuol dire, esser posto nel numero degli Dei(1). Nell’Iliade (2) si legge che teneva gran tavola co’ Numi nell’Etiopia per dodici giorni ; e gli Etiopi vi son chiamati irreprensibili per l’innoncenza de’ costumi ; il che forse ha dato luogo alla favola, perchè la Divinità conversa solo colla gente innocente. In Diospoli, o città di Giove, era un magnifico tempio, da cui gli Etiopi solevan prendere le statue di Giove e degli altri Dei e portarle processionalmente intorno alla Libia, facendo feste grandissime per dodici giorni ; il che pure ha potuto dar luogo alla favola.

L’ambrosia (da α, non, e βροτος, mortalis), ch’era il cibo degli Dei, significa cibo degl’Immortali, o che dona l’immortalità, e credevasi di una dolcezza nove volte maggiore di quella del mele. Il Nettare poi (da νη priv. e κτεινω, occido), era la bevanda degl’Immortali. Nell’Odissea (3) Calìpso imbandisce a Mercurio la mensa con abbondante ambrosia, e gli mesce rosseggiante nettare. Nè gli Dei solamente, ma pure i loro cavalli, e quelli particolarmente del Sole, si pascevan d’ambrosia (4).

Oltre a ciò era l’ambrosia quasi un unguento di virtù divina. Venere (5) sulla ferita del figliuolo Enèa sparse, quasi balsamo salutare, l’ambrosia ; e Giove stesso (6) comandò ad Apollo di ungere di ambrosia il corpo del figliuolo Sarpedone ucciso da Patroclo. La fragranza che diffondeva, era soavissima e tutta cosa divina ; e da essa si riconoscevan le Dee. Virgilio (7) {p. 34}racconta che Venere si manifestò ad Enèa dal divino odore che spiravano le sue chiome tutte sparse di ambrosia.

Questo cibo delizioso dilettava tutt’i sensi nel tempo stesso, faceva ringiovanire, donando novello vigore, e rendeva la vita perfettamente felice. Venere (1) facendo gustare ad Enèa ambrosia mescolata con dolce nettare, il rende immortale, percui è annoverato fra gli Dei. Quanto ha ragione di dolcezza e di amabilità, tutto ciò che ristora e reca giocondità, si qualifica da’ poeti co’ nomi dell’ambrosia e del nettare(2). Così Petrarca :

Pasco la monte di sì nobil cibo,
Ch’ambrosia e nettar non invidio a Giove.

Le pecore presso Ovidio (3) hanno le mammelle ricolme di nettare, cioè di latte ; e le acque che beveano i primi uomini a mani giunte, erano il loro nettare. Così Dante :

Lo secol primo quant’oro fu bello :
Fè saporose con fame le ghiande,
E nettare per sete ogni ruscello.

L’ambrosia era propriamente il cibo di Giove e degli altri Dei, ed il nettare, la loro bevanda ; sebbene non mancano scrittori che l’una coll’altro confondono.

Tre in varii tempi furono i coppieri che mescevano il nettare alla mensa di Giove, Vulcano, Ebe e Ganimède (4) ; ma la più celebre fu la bellissima Ebo (Ηβη, Hebe), Dea della gioventù e fig. di Giove e di Giunòne ; la qual cosa voleva dire che gli Dei non invecchiano, godendo una perpetua giovinezza. Andato Giove un giorno cogli altri Dei ad un gran {p. 35}convito nell’Etiopia, Ebe, nel ministrare la divina bevanda, cadde sconciamente al suolo e fu occasione di molto ridere alla celeste brigata ; per cui Giove la rimosse da quell’uffizio ; e per compenso fu data in moglie ad Ercole, col quale avea un tempio in Atene. Presso i Romani l’Ebe de’ Greci era la Dea Gioventù (Iuventas), la quale prendeva sotto il suo patrocinio i giovani dopo che aveano indossata la pretesta. Quando s’imprese a fabbricare il Campidoglio, il Dio Termine e la Dea Gioventù non vollero cedere il loro posto ; che fu felice presagio della perpetua floridezza e stabilità del Romano impero.

Fu surrogato in luogo di Ebe Ganimède (Γανυμηδης, Ganymedes), ch’era flor di bellezza e di gioventù, detto pur Catamìto, e fig. di Troe, re della Troade, ch’ebbe tre figli, Ilo, Assaraco,

E il deiforme Ganimede al tutto
De’ mortali il più bello e degli Dei,
Rapito in cielo, perchè fosse a Giove
Di coppa mescitor per sua beltade,
Ed abitasse cogli Eterni.
Monti.

Strabone (1) riferisce che il ratto di Ganimède avvenne in un luogo vicino a Cizico, chiamato Arpagio, o sul promontorio Dardanio ; ma Virgilio (2) dice che fu rapito sul monte Ida, mentre dava opera alla caccia. I Poeti il vogliono trasformato da Giove in costellazione, ch’è l’undecimo segno del zodiaco, detto Aquario, di cui le stelle son disposte in guisa che rappresentano un giovinetto.

X. Egida-Gorgoni-Perseo. §

Nell’Iliade (3) Minerva, intorno agli omeri divini

{p. 36}
Pon la ricca di fiocchi Egida orrenda,
Che il Terror d’ogn’intorno incoronava.
Ivi era la contesa, ivi la forza,
Ivi l’atroce inseguimento, e il diro
Gorgonio capo, orribile prodigio
Dell’Egioco Signore.
Monti.

In questo luogo di Omero, dice Mad. Dacier, l’egida certamente è uno scudo, di cui i combattenti ricoprivano le spalle nell’andare alla pugna. Virgilio però pare che per egida intenda una corazza, un’armatura da petto, su cui era il capo della Gorgone. Diremo quindi che per egida i poeti intendevano ora lo scudo, ora la corazza sì di Giove, che di Pallade e di altri numi. Per dare ad intendere lo sdegno di Giove i poeti dicono ch’esso orribilmente scuote la tremenda sua egida (την αιγιδα ειπισειειν). Allorchè i Greci si ponevano in bella ordinanza per andare al combattimento, Errava

Minerva in mezzo, e le splendea sul petto
Incorrotta immortal la preziosa
Egida, da cui cento eran sospese
Frange conteste di finissim’oro,
E valea cento tauri ogni gherone.
In quest’arme la Diva folgorando
Concitava gli Achivi, ed accendeva
L’ardir ne’ petti, e li facea gagliardi
A pugnar fieramente e senza posa.
Monti.

Or l’egida (αιγις, aegis da αιξ, αιγος, capra) era propriamente una pelle di capra, che ricopriva lo scudo o la corazza di Giove e di Minerva ; e questa fu la pelle della capra Amaltea che allattò Giove ; o quella del mostro Egis, ucciso da Minerva. Anche gli altri Dei adoperavano l’Egida nelle battaglie in terra ed in cielo ; e la frase ricoprire coll’egida significa proteggere, {p. 37}spfendere. Nel bel mezzo di essa era il capo della Gorgone, del quale tanto si valse uno de’ più celebrati figliuoli di Giove. Ma convien raccontare la cosa dal principio.

Non lungi dal monte Atlante (1) era una spaziosa ed aprica pianura, tutt’all’intorno munita, di cui al primo ingresso a bitavano due sorelle di stranissima natura, Pefredo ed Enio, alle quali aggiungono la terza Dino, chiamate Gree (γραιαι da γραυς, vetula), perchè furon vecchie e canute fin dal loro nascimento. Eran figlie di Forco, dio marino, e di Ceto, fig. del Ponto e della Terra ; ed aveano un sol occhio, di cui si servivano a vicenda, sicchè or l’una vegliava, ed ora l’altra alla custodia delle Gorgoni, di cui eran sorelle e guardiane. Or le Gorgoni (Γοργονες, Gorgones, da γοργος, terror) erano tre, Medusa, Steno ed Euriale, che Esiodo chiama inaccessibili, perchè abitavano in luoghi circondati da orride selve e da straripevoli burroni. Di queste la più famosa, perchè bellissima, era Medusa, e la sua maggior bellezza era nella chioma, somigliante a perfetto e biondissimo oro ; ma fra le sorelle essa sola era mortale. Or sì bel pregio de’ capelli perdè per volere di Minerva, la quale per vendicare l’onor del suo tempio da lei oltraggiato, que’ vaghissimi crini trasformò in serpenti, i quali avean virtù d’impietrire chiunque la riguardasse. E qui comincia la celebre favola di Perseo, uno de’ più grandi figliuoli di Giove.

XI. Continuazione. §

Abante, nipote di Danao e duodecimo re degli Argivi, ebbe due figliuoli, Acrisio e Preto. Il primo dalla moglie Euridice o Aganippe ebbe una fig. chiamata Danae, dalla quale Giove procreò il celebre eroe Perseo (Περσευς, Perseus). Acrisio cui l’oracolo avea predetto che sarebbe morto da un figliuolo di Danae, e la madre ed il figliuolino ben rinchiusi in una {p. 38}cesta coperta di cuoio espose alla discrezione delle onde ; ma per volere di Giove fu essa dal mare trasportata presso a Serifo, picciola isola del mare Egeo, ove rinvenuta dal pescatore Ditte, fu da lui recata al re Polidètte, il quale la giovane Danae sposò, e Perseo fece educare in un tempio di Minèrva. Il seppe Acrisio e pretese la figliuola ed il nipote da Polidètte ; ma questi ottenne che si acchetasse ad una solenne promessa di Persèo, che non avrebbe mai poste le mani addosso all’avo. Essendo Acrisio nella corte di Polidètte, venne questi a morte ; ed allora fu che celebrandosi funebri giuochi in di lui onore, Persèo lanciò il suo disco, che il vento portò a percuotere il capo dell’avo ; e così, senza che il volesse, come piacque a’ Numi, l’uccise. Altri però raccontano in questa guisa una tal favola (1).

Polidètte desideroso di sposar Danae, per disfarsi di Persèo, già adulto, finse di dover celebrare solenni nozze con Ippodamìa, principessa greca di famosa bellezza ; e per farle più splendide, ordinò che ciascuno degl’invitati facesse qualche pruova di valore, e che Persèo vi recasse il capo della Gorgone. L’eroe accettò l’impresa, che si annoverava fra le impossibili ; ed avuli, da Mercurio il cappello ed i calzari alati ; da Vulcàno, una scimitarra o specie di falce di diamante ; da Minèrva, uno scudo lucido al pari di tersissimo specchio, giacchè egli a Minèrva ed a Mercurio era carissimo ; e postosi l’elmo di Plutòne (Orci galea) che rendeva invisibile chi lo portava, a volo recossi al luogo ove dimoravano le fatali sorelle. Quivi, ingannate le figliuole di Forco, Minèrva gli diede a vedere l’immagine di Medùsa nel suo scudo come in uno specchio ; e l’eroe guardandola e prendendo colla sinistra quella chioma serpentina, le recise il capo, e fuggi a volo, portando in mano quel teschio che grondava sangue, qual trofeo di sua vittoria. Dal sangue di lei, appena reciso il capo, nacque il caval Pegaso, e Crisaòrre, padre di Geriòne.

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XII. Continuazione-Serpenti della Libia- Andromeda- Coralli. §

Or nell’aereo suo viaggio, passando Persèo sopra le regioni della Libia, vennero qua e là a cadere su quell’adusto suolo le gocciole del sangue di quel reciso teschio, dalle quali, come da velenosa semenza, pullullarono que’ ferali e mostruosi serpenti, di cui l’Affrica abbonda. Giunto poi all’ estremità dell’ Etiopia, vide su di uno scoglio una donzella di leggiadra e regale sembianza colle mani legate, la quale, al dolente aspetto ed alle molte lagrime, pareva aspettarsi grave sventura. Fermò Persèo il suo volo vicino a quella vergine infelice, ch’era Andromeda, fig. di Cefèo, re degli Etiopi, e di Cassiopèa. Or questa superba di sua bellezza, avea detto di superar le Nereidi in leggiadria ; le quali, in pena di tanta baldanza, legarono la figliuola a quello scoglio per essere divorata da una balena. Altri dicono che le Nereidi pregarono Nettùno, che avesse il regno di Cefèo ricoperto di acque, e che dall’oracolo di Giove Ammòne avea questo re inteso, non potersi il regno liberaro da tanto gastigo se non avesse esposto alla balena la figliuola Andromeda ; al quale oracolo, per timore de’suoi popoli, fu costretto ubbidire. Or Persèo, vedendo l’orrendo mostro avvicinarsi per divorare la donzella, si pone coraggiosamente all’impresa ed uccide la bestia con applauso grande de’ riguardanti. Dopo di che, per lavarsi le mani, nascose fra certe piante marine il capo di Medùsa ; le quali tosto si convertirono in pietra, ed il sangue che ne grondava, le tinse di un bel rosso. Questi sono i coralli, i quali, stando nel mare, se escono all’aria aperta, s’indurano (1). Cefèo e Cassiopea intanto il riguardarono come salvatore della figliuola, che il vittorioso Eroe con grandissima festa impalmò nella loro reggia medesima. Da’ quali nacque {p. 40}Perse che diede il nome alla Persia. Cassiopèa pe’ prieghi di Perseo fu posta colla famiglia fra gli astri.

Dopo di ciò (1), ritornato Perseo a Serifo, vi ritrovò la madre Danae, la quale, per fuggire le insidie di Polidette, erasi col fratello Ditte ritirata in un luogo sacro. Egli di ciò adirato e vedendo che quegli abitanti avean favorito Polidette contro la madre, col mostrar loro il capo di Medusa, e Polidètte ed i suoi sudditi cangiò in sassi. L’isola di Serifo (2) è pietrosa a segno, che ha dovuto dare occasione a’Poeti di fingere la trasformazione de’ suoi abitanti in sassi.

Persèo, nipote di Acrisio, re di Argo, fu fondatore della città di Micene, ed uno degli eroi dell’antichità per lunghe e malagevoli imprese celebratissimo. Medusa fu regina di un popolo bellicoso vicino alla palude Tritonia, la quale essendo stata morta da Persèo insidiosamente e fra le tenebre della notte, ne guardò egli con istupore l’insigne bellezza, e recisole il capo, portollo in Grecia qual trofeo da servire di spettacolo a quella gente. Si dice che in Africa vi sia un animale, forse il Catoblepa di Plinio (3), detto Medusa, di cui gli occhi hanno la virtù di far morire e quasi impietrire chi il rimirasse. Tutto ciò ha potuto dare occasione alla favola.

XIII. Euròpa-Cadmo-Minos-Sarpedone-Radamànto. §

Vengono in iscena tre altri figliuoli di Giove, anche di grandissima celebrità, di cui ecco la favolosa istoria. Euròpa (Ευροπη, Europa) fu figliuola di Agenore, re della Fenicia, e di Argiope. La quale nel fiore degli anni suoi ed oltremodo bellissima, con un drappello di nobili donzelle andava un giorno a diletto lungo la riva del mare. E come volle la sua ventura, approdò colà una nave, che avea dipìnta l’immagine di un toro ; della quale uscendo uomini armati, violentemente rapirono la regale donzella, la quale fra le {p. 41}disperate lagrime delle compagne, per mare, tutta fuori di se per lo spavento, fu trasportata nell’isola di Creta. Palefato dice che un Signore di Creta, chiamato Tauro, invase colle sue armi la Fenicia, e fra le altre nobili donzelle portò seco prigioniera la figliuola di Agenore ; da che uscì tosto in campo Giove trasformato in toro.

Agenore intanto (1), nulla sapendo della sorte della rapita Europa chiamati a se i figliuoli Fenìce, Cilice e Cadmo, loro impose che fossero tosto partiti a ritrovar la sorella ; senza la quale non avessero osato mai di ritornare alla patria. Per tal comando partiti i fratelli e non ritrovando la loro Euròpa, Fenìce si stabilì nell’Africa, e da luì gli Africani furon detti Poeni ; e Cilice, in una regione dell’Asia Minore che dal suo nome si chiamò Cilicia. Ma Cadmo, dopo vano e lungo pellegrinare, avendo dimorato alcun tempo nella Tracia con Telafassa, sua madre, questa morta, andò a Delfo per consultare l’oracolo della futura sua sorte. Il quale rispose, che fosse andato nella Focide da Pelagòne, fig. di Anfidamante, e dall’armento di lui avesse scelto a scorta del suo viaggio un bue con un segno bianco a foggia di luna piena in ambedue i lati. Così fece, ed andando ad attingere acqua ad un fonte, gli furono i compagni morti da un dragone, figliuolo di Marte, che il fonte guardava. Cadmo uccise quel mostro con un colpo di pietra, o colla sua spada ; e per consiglio di Minerva ne seminò i denti, da’ quali nacquero uomini armati, che si chiamarono sparti (σπαρτος, satus, a σπειρω, sero), de’ quali venuti a pugna fra loro rimasero non più che cinque, i quali aiutarono Cadmo nella fabbrica di Tebe. Così Apollodoro, Igino ed altri ; ma Ovidio favoleggia alquanto diversamente, come anderemo divisando per far cosa grata a’ studiosi giovanetti.

Stanco ormai Cadmo (2) di più cercare la sorella Europa, ed esule dalla patria per comando dell’ingiusto genitore andò a consultare l’oracolo di Apòllo {p. 42}sul luogo, ove avesse a stabilir finalmente la sua dimora. Indomita giovenca, rispose Febo, tu ritroverai in solitaria campagna, di cui seguendo le orme, ov’essa fermerà il suo cammino, edificherai una città, che chiamerassi Beozia. Scende l’eroe Fenicio dal Parnaso, e vede incustodita giovenca pascere a piè del monte, riverente ne siegue il cammino e sulle orme di essa giunge in non conosciuta terra, ove per volere del fato sorger dovea la novella città. Egli intanto pensa di offerire forse la giovenca stessa in sacrificio a Giove, o a Minèrva, e però manda i suoi compagni ad attignere l’acqua da un fonte nella vicina selva. Quivi era appiattato il mostruoso dragone, che gl’infelici compagni di Cadmo divorò crudelmente. Il quale del loro indugio forte maravigliando, tutto armato va alla selva, affronta il mostro micidiale, e dopo pericoloso e lungo combattimento l’uccide. Allora udì una voce, la quale gli presagiva, ch’egli ancora sarebbe stato un giorno trasformato in serpente. Poscia Minèrva gl’impone di seminare i denti dell’ucciso serpente, da’ quali sorge tosto mirabile schiera di armati guerrie ri (1), che fra loro battendosi crudelmente, salvo che cinque, tutti si uccisero. E questi cinque aiutarono Cadmo ad edificare la città di Tebe, o più veramente la cittadella che chiamò Cadmèa (Καδμεια), perchè Tebe fu posteriormente edificata da Anfione.

Gli antichi abitatori del paese, ov’era Tebe, si chiamavano Sparti ; e forse la venuta di Cadmo mosse grandi discordie civili fra loro, per le quali perirono non pochi uomini ; e di que’ che nel paese primeggiavano sopravvissero soli cinque, che si unirono a Cadmo.

Fiorente e lungo fu il regno di Cadmo in Tebe, ma la sua felicità pur ebbe un termine. Avea sposata Armonìa, o Ermiòne, fig. di Marte e di Venere, ed alle sue nozze intervennero tutti gli Dei e vi cantarono le Muse e le Grazie. Da lei ebbe Ino, Semele, Agave ed Autonoe ; le sventure delle quali sì conte nelle favole vinsero per modo l’animo dell’infelice {p. 43}genitore, che colla moglie uscì di Tebe, e dopo molto errare approdò nell’Illirio, ove annoiati di tante calamità furon cangiati in serpenti in pena dell’ucciso dragone di Marte.

Si sa che Cadmo il primo portò dalla Fenicia in Grecia l’uso delle sedici lettere, che sono bastevoli ad esprimere tutt’i suoni del greco linguaggio. Plutarco(1) dice, essere antica opinione che Cadmo allogò in primo luogo fra le lettere l’alfa, perchè con questo nome chiamasi il bue nella lingua de’ Fenicii, i quali a questo animale il primo luogo davano fra le cose necessarie.

XIV. Minos-Niso e Seilla-Minotauro e Laberinto. §

Da Giove ed Europa nacquero Minos, Sarpedone e Radamanto. Non vi ha forse nome nella Mitologia più grande del nome di Minos, che regnò nell’isola di Creta o Candia, alla quale dettò leggi di tanta sapienza, che credevasi averle date lo stesso Giove, col quale egli spacciava un’intima familiarità, detto perciò da Omero dimestico e famigliare di Giove (Διος μεγαλον οαριστης). Egli faceva credere che ogni nove anni scendeva in una spelonca profondissima del monte Ida per ricevere nuove leggi, la giustizia delle quali fece si che i poeti lo ponessero per giudice dell’inferno. Era forse un re di moltissima sapienza, che i Cretesi adorarono col nome di Giove, e che in quell’isola avea anche la sua tomba.

Celebre nelle favole è la guerra che Minos portò agli Ateniesi. Dalla moglie Pasifae, fra gli altri figliuoli, avea egli avuto Androgeo, il quale andato in Atene per le feste Panatenee, vi riportò tutt’i premii dovuti a’vincitori ; percui Egeo, re di Atene, o secondo altri, gli Atleti Ateniesi per invidia l’uccisero. Minos mosse tosto a farne vendetta, e prima pose stretto assedio a Megara, città vicina ad Atene, di cui era signore Niso, fig. di Marte, o di Pandione, re di Atene, del quale si parlava molto a que’ dì per la sua {p. 44}chioma tutta di bellissímo oro, dalla quale la conservazione dipendea del suo regno. Avea egli una figliuola chiamata Scilla, la quale, credendo far cosa grata a Minos e così meritar la sua mano, perfidamente recise l’aureo crine del genitore, mentre dormiva, ed il recò al nemico per metterlo al possesso della città. Ma Minos, per tanta di lei empietà inorridito, ricusò di seco condurla a Creta, com’essa desiderava ; percui gittossi disperatamente nel mare, o vi fu per ordine di Minos precipitata. Il corpo di lei fu dal mare trasportato presso ad un promontorio dell’Argolide, che fu detto Scilleo (1). Della quale mossi a pietà i Numi, la mutarono nell’uccello, o pesce detto ciris. Niso poi, mentre inseguiva la figliuola per punirla, fu trasformato in una specie di sparviere, ch’è nemico del ciri. Vuolsi che sia opera di Virgilio un bel poemetto intitolato Ciris, nel quale diffusamente si racconta la favola di Niso e di Scilla. Giorgio Sabino per questo crine fatale di Niso intende un qualche arcano e segreto consiglio di quel re, che Scilla palesò a Minos, percui gli fu facile impadronirsi della città.

Minos intanto, espugnata Megara, e vinti gli Ateniesi, loro impose, in pena della morte di Androgeo, il ben duro tributo di dare ogni anno sette nobili giovanetti, i quali tratti a sorte spedir si doveano a Creta per essere miseramente divorati dal Minotauro. Si racconta che gli Ateniesi furono oppressi da crudele carestia e pestilenza, dalla quale disse l’oracolo non potersi liberare, che dopo di aver dato a Minos quella terribile soddisfazione (2).

Il Minotauro era un mostro col capo di bue ed il corpo di forma umana, sebbene nelle monete degli abitanti di Gela, e di Taormina, in Sicilia, e de’ Napoletani, vedesi un mostro con corpo di toro, e di uomo insieme. A questo mostro che dimorava nel laberinto di Creta gli Ateniesi mandar doveano quell’infelice tributo. Di gran fama è questo laberinto {p. 45}ingegnosamente descritto da Ovidio nelle Metamorfosi (1). Plinio vuole che fosse stato costruito ad imitazione di quello sì famoso di Egitto, ma che n’era solo la centesima parte, e che avea in se inestrigabili ravvolgimenti. Altri però dicono che il laberinto di Creta fu una spelonca con moltissimi ravvolgimenti, ne’ quali l’arte ebbe pure la sua parte.

XV. Continuazione-Dedalo ed Icaro-Perdice. §

Del Cretese laberinto fu autore Dedalo, Ateniese, artefice di alto ingegno, che fece opere ammirabili e statue che parevano aver anima e vita, percui i Greci dedalce chiamavano le macchine, le quali per se stesse si muovono senza che ne apparisca la cagione. Inventò pure non pochi strumenti di grande utilità per le arti, come la scure, la livella, il succhiello ; e fu il primo che fornì le navi di antenne e di vele. Ma tanta sua lode d’ingegno fu annebbiata da un vil tratto di gelosia. Dalla sorella Perdice avea un nipote chiamato Talo, o Perdice, secondo altri, il quale dalla madre fu a lui affidato, affinchè lo ammaestrasse. Il giovinetto sì bene diede opera alle arti che ritrovò l’uso della sega e del compasso. Vuole Ovidio che la spina del dorse di un pesce gli avesse data la prima idea della sega ; ma secondo Diodoro, avendo ritrovato l’intera mascella di un serpente, se ne servì per tagliare un picciol pezzo di legno e così inventò la sega. Dedalo ne fu tocco da non lodevole invidia, percui lo precipitò dalla cittadella di Atene, spacciando poscia una casuale caduta. Minèrva n’ebbe pietà e cangiollo in pernice, uccello che memore della sua caduta pone il nido nelle siepi e vola poco alto da terra. Il canto della pernice è simile al suono che fa la sega nel tagliare il legno, e però finsero che l’inventore della sega fosse stato cangiato in pernice.

Fu questo delitto la cagione delle sventure di Dedalo, il quale citato avanti all’Areopago, dalla patria {p. 46}fuggendo, si ricoverò in Creta e chiese la protezione di Minos. E qui fu che per colpa del suo ingegno avendo offeso quel principe, fu da lui nel laberinto che aveva egli stesso mirabilmente costrutto, incarcerato. Ma quel gran senno, mostrando che a’ mortali niente è disdetto, trovò il modo di uscire di quella noiosa prigione.

Con mirabile artificio(1), di cera e di piume fece due paia di ali che imitavano quelle degli uccelli, e ponendosele agli omeri, seguito dal figliuolo Icaro ch’era seco nel laberinto e che pure fornì di ali, si librò nell’aria, e con volo non mai veduto passò felicemente il mare. Ma non così avventuroso fu quello d’Icaro, il quale, com’è costume dell’audace ed indocile gioventù, mal seguendo gli accorti consigli del padre, alzò troppo alto il suo volo, per cui il calore del solle, liquefacendo a poco a poco la cera, disciolse le piume accozzate, e l’infelice Icaro cadde nel mare che da ciò ebbe il nome di mare Icario (2). I poeti spesso chiamano ali, le vele delle navi, e la navigazione rassomigliano al volo (3) ; e perciò Dedalo fuggì dal laberinto a volo, cioè, su di una nave velocemente portata dalle vele, ch’erano un suo novello ritrovato. Dedalo, secondo Luciano, fu non dispregevole Astronomo, che nella scienza del cielo ammaestrò il figliuolo Icaro, il quale di essa superbo e pieno di giovanile ardore, le facili conoscenze sprezzando, levò troppo alto il volo dell’ingegno, e cadde dall’altezza della verità nel profondo mare degli errori, chè veramente questa è gran massima : non investigare le cose che vincono il tuo intendimento.

Dedalo intanto, dopo l’acerbo caso d’Icaro, dolentissimo continuò il suo viaggio e giunse in Sicilia, ove accolto dal re Cocalo fu cagione che Minos gli movesse guerra. Ma Servio dice che Dedalo andò prima nella Sardegna e poscia nella nostra Cuma, ove edificò un gran tempio ad Apòllo, nel quale gli consacrò le ali e vi dipinse la morte di Androgeo e più altre sue {p. 47}famose avventure, come sa chiunque ha letto l’ammirabile Eneide di Virgilio.

Degli altri due figliuoli di Giove, Sarpedone o Sarpedonte, e Radamanto, vi è poco a dire. Il primo figliuolo di Giove e di Europa, o di Laodamìa, abbandonò Creta, sua patria, si ritirò nella Cilicia, e s’impadronì della Licia ; e ciò per una contesa avuta col fratello Minos. Si vuole che visse l’elà di tre uomini. Per somigliante cagione il fratello Radamanto lasciò Creta e pose sua sede nelle isole del Mediterraneo, le quali volentieri a lui si soggettavano per averle liberate da’ corsali, e per aver dato a quegli abitanti giustissime leggi.

XVI. Castore e Polluce. §

Castore e Polluce furono gemelli e fig. di Giove e di Leda ; o di Tindaro, fig. di Ebalo e re della Laconia, detti per ciò Tindaridi (Tyndaridae), ed Ebalidi (Oebalidae). Dicono alcuni che nacquero da due uova, uno immortale, da cui uscì Polluce ed Elena ; l’altro mortale, dal quale nacque Castore e Clitennèstra. Omero dice che Leda ebbe da Tindaro i due gemelli Castore e Polluce ; ed Elena li chiama suoi germani fratelli, e nati dalla stessa sua madre (1). nulladimeno essi son chiamati per lo più Dioscuri (Διοσκουροι, i. e. Διος κουροι, Iovis filii), o figliuoli di Giove per eccellenza. Or Polluce era insigne per la maestria nel giuoco del cesto, o pugilato ; e Castore, nell’arte di maneggiare i cavalli. E se Virgilio (2) attribuisce a Polluce il cavallo chiamato Cillaro, attribuito comunemente a Castore, domator de’ cavalli ; ciò viene da che entrambi questi fratelli appellavansi i Castori, dicendosi i giuochi, il tempio, la stella de’ Castori. E della sua gagliardia nel giuoco del cesto diede Polluce insigne pruova nella famosa spedizione degli {p. 48}Argonauti, della quale era egli col fratello Castore la più bella parte. Approdali erano quegli eroi nella Bebricia o Bitinia, ove a que’ dì regnava Amico (Amyrus), fig. di Nettuno e della ninfa Melìte, al quale si dà il vanto di avere il primo ritrovato il giuoco del cesto. Percui Virgilio (1) per lodare Bute ed Erice di segnalata destrezza nel combattimento del cesto, dice che discendevano da Amico e dalla gente de’ Bebrici. Or questo re tutti coloro che per sorte giungevano nel suo regno, obbligava a seco combattere al cesto ; nel che essendo valentissimo, li vinceva e vinti li facevá morire. Osò egli provocare anche gli Argonauti ; percui fattosi avanti Polluce, lo vinse e gli diede la morte.

Combatterono eziandio e riportarono insigne vittoria i Tindaridi ne’ giuochi Olimpici ; ed Igino parla de’solenni giuochi fatti celebrare in Argo da Acasto, fig. di Pelia, re di Tessaglia, ne’ quali fra gli altri eroi riportarono la palma Castore nella corsa, e Polluce, al cesto. Pindaro dice che i Dioscuri, accolti amorevolmente in casa di Panfae, uno degli ascendenti materni di Tieo, di cui il poeta canta la vittoria nell’ode X Nemea, vi celebrarono i giuochi Teossenii e vi ottennero il primo vanto fra gli altri alleti ; e però i Tindaridi con Mercurio e con Ercole soprintendevano a’ certami ed erano i protettori degli atleti.

Erano pure in guardia e tutela de’ Dioscuri i naviganti. Appena, dice Orazio (2), a’ naviganti si mostra il benigno astro de’ figliuoli di Leda, si abbonaccia il mare, i venti si acchetano, diradansi le nubi e cade il minaccioso furore de’ fiotti. Il che nacque dall’avere quei due fratelli, dopo la spedizione del vello d’oro liberato l’Arcipelago da’ corsali che l’infestavano ; ed ancora perchè una gran fortuna di mare che poneva a rischio di rompersi la nave degli Argonauti, acchetossi tosto che si videro due fuochi girare intorno al capo de’ Tindaridi. Questi fuochi che spesso apparir si {p. 49}veggono nelle tempeste, si chiamano i fuochi di Castore e Polluce, ed oggidì da’ marinari, fuochi di S. Elmo o di S. Nicola. I quali, se appariscono tutti e due, indicano buon tempo ; e son segno di vicina tempesta, se ne apparisce un solo. Ma vediamo che dicono i poeti dell’estremo fato di questi eroi.

Pretendevano essi di sposare Febe ed Elaira, fig. di Licippo, fratello di Afareo, re di Messenia, già promesse spose a’ due principi Ida e Linceo, fig. di Afareo. Questo Linceo era celebratissimo per l’acutezza della vista ; percui fu scelto a pilota degli Argonauti, ed intervenne alla caccia del cinghiale Caledonio. Or fra que’ giovani ed i Dioscuri nacque fierissimo combattimento presso Afidna, città della Laconia e patria di Febe e di Elaira ; e secondo Teocrito, vicino alla tomba di Afareo ; ed in esso, Castore fu morto per man di Linceo. Polluce vendicò la morte del fratello, uccidendo Linceo ; e Giove di un fulmine colpì Ida, il quale percosso avea Polluce con un gran sasso sì che n’era caduto al suolo. Se crediamo a Pindaro, Polluce pregò Giove che lo avesse fatto morire, perchè non volea vivere senza di Castore ; e che Giove gli lasciò la scelta o di abitar solo nel cielo, o di dividere l’immortalità col fratello in guisa che un giorno fossero con Giove sull’Olimpo, ed un altro sulla terra co’ mortali ; sebbene Omero (1) dica che que’ due fratelli un giorno vivano entrambi, ed un giorno sien morti. Eustazio in questa favola vede la costellazione de’ Gemini, i quali essendo sotterra, sembran morti ; e paion vivi, quando ricompariscono in cielo. Ma secondo Macrobio (2), Castore e Polluce che rinascono a vicenda, significano il Sole che ora scende, diciam così, sotterra, ed ora sale sull’orizzonte. Nelle medaglie anti che i Dioscuri son rappresentati in forma di due giovani con un berretto o cappello, sul quale era una {p. 50}stella ; più spesso però nelle statue o veggonsi a cavallo o con cavalli a lato.

XVIII. Anfione e Zeto-Callisto ed Arcade. §

Anfione (Αμφιων, Amphion) e Zeto (Ζηθος, Zethus) furono gemelli, e fig. di Giove e di Antiope, fig. del fiume Asopo, o di Nitteo, e regina di Tebe. Non manca chi dice Anfione fig. di Mercurio, dal quale ebbe quella famosa lira che altri vogliono ricevuta da Apollo, o dalle Muse, o da Giove stesso, da lui sì dolcemente suonata, che mosse i sassi ad unirsi da se per fabbricare le mura di Tebe (1), alla quale fecero sette porte (Θηβη εν επταπυλω. Hesiod. Asp. 40) e molte torri, e congiunsero la cittadella detta Cadmea colla città bassa. Nati questi gemelli, la madre, per sottrarli alle violenze della rivale Dirce, li diede ad allevare ad un pastore del monte Citerone, ove vissero ignari di loro condizione ; ed Anfione divenne celebre per la musica, e Zeto, per la caccia. Il primo era di mansueto ingegno e di cuore pieghevole alla pietà ; il secondo, di natura più salvatica, è chiamato duro e feroce da’ poeti (2). Or Antiope, posta in prigione da Dirce e fuggitane, andava vagando pel Citerone, ed imbattutasi nel figliuolo Zeto, che quivi pascolava gli armenti, fu da lui villanamente discacciata. Ma poscia, fatti accorti da un pastore ch’era lor madre, i due fratelli vendicarono i torti di lei, come nell’articolo di Apollo dirassi.

A Zeto ed Anfione aggiungiamo Arcade, fig. di Giove e di Callisto (Καλλιστω, Callisto), ch’era una giovane ninfa di Arcadia, fig. del re Licaone, la quale per insigne bellezza e per perizia nella caccia fra le compagne di Diana primeggiava. Da lei ebbe Giove un fig. {p. 51}chiamato Arcade, che fu nella caccia valentissimo, edificò la città di Trapezunte, og. Trebisonda, e diede il nome all’Arcadia stessa, detta prima Pelasgia, ch’era quella parte del Peloponneso da’ poeti tanto decantata per l’inclinazione degli abitanti alla poesia, specialmente pastorale, ed alla musica. Or Callisto, per odio di Giunone, fu cangiata in orsa, la quale più anni errando pe’ boschi di Arcadia, avvenne che il figliuolo, già di alcuni lustri, era vicino a ferirla di saetta, quando Giove e la madre, ed il figliuolo trasportò in cielo, e ne fece due costellazioni, l’una all’altra vicina. Il che vedendo l’implacabile Giunone, andò tosto da Teti, moglie dell’Oceano e di loro nutrice, dalla quale ottenne che vietato l’avesse di tuffarsi nelle onde. Da ciò è che questa costellazione, aldir de’ poeti, non mai tramonta.

Callisto fu trasformata nella costellazione che dicesi Orsa maggiore, Arto, ed Elice ; ed Arcade, nella costellazione detta Artofilace, cioè guardiano dell’Orsa, perchè la siegue d’appresso. E perchè l’Orsa si appella pure Carro (αμαξα, plaustrum), perchè le sette stelle di questa costellazione verso il polo artico rappresentano un carro, ad Artofilace fu dato il nome di Boote, o guidatore di buoi, essendo che siegue l’Orsa, come un bifolco il suo carro. Chiamasi pure Settentrione ; percui il polo artico è il settentrionale ; e Trioni(1), cioè buoi d’aratro, sono le stelle che formano le due Orse, dette per ciò i gemini Trioni(2) ; le quali dicono i poeti che non mai tramontano e non cangian sito, perchè il polo artico, per la posizione obliqua della sfera, è il solo a noi visibile e non si vede mai scendere sotto al nostro orizzonte. E come Artofilace o Boote, perchè più vicino al polo, sembra procedere con più lentezza, è chiamato ora tardo, ed ora pigro da’poeti(3). Arturo finalmente è una stella nella coda {p. 52}della costellazione di Boote ; ma da’ poeti si prende per l’Orsa stessa.

XIX. Eaco-Mirmidoni. §

Eaco (Αιακος, Aeacus), altro figliuolo di Giove, fu il più giusto principe de’ tempi suoi, e perciò si annoverava fra’ giudici dell’inferno. Sua madre fu Europa, o Egina, fig. del fiume Asopo, detta per ciò Asopiade da Ovidio. Regnò nell’isola Enopia o Enone, che dal nome della madre chiamò Egina(1), ond’ebbe origine il popolo de’ Mirmidoni, i quali avendo seguito Peleo, fig. di Eaco, che fuggiva dalla patria, si stabilirono nella Tessaglia. Fingono i Poeti che, rimasta Egina spopolata per una pestilenza mandata da Giunone, Eaco, veduto a piè di una quercia grandissimo stuolo di formiche, pregò Giove che gli desse un popolo nel numero uguale a quegli animaletti. Fu esaudita la sua preghiera, e quelle formiche furon cangiate in uomini. Eran questi i Mirmidoni che seguirono Achille alla guerra di Troia(2). Fu pure cagione di lode per la pietà di Eaco una strana siccità, con cui i Numi afflissero l’Attica per punire la perfidia del re Egeo, che avea fatto morire Androgeo. Della qual cosa consultato l’oracolo rispose che la siccità sarebbe cessata, se il re di Egina avesse interceduto a pro della Grecia. Eaco offerì sacrificii a Giove Panellenio, e tosto il cielo mandò larghissima pioggia.

Mirmidone in greco significa formica (μυρμηες) ; e ciò ha potuto dar luogo alla favola, che i Mirmidoni eran formiche cangiate in uomini. Può dirsi ancora che i Mirmidoni, per la piccola loro statura rassomigliati alle formiche, amavano abitare nelle cavità {p. 53}degli alberi e negli antri. Eaco li raccolse e diede loro domicilio più sicuro ed agiato ; e da ciò la trasformazione delle formiche in uomini.

Eaco da Endeis, fig. del centauro Chirone, ebbe Peleo e Telamone ; e da Psammate, fig. di Nereo e di Dori, ebbe Foco, il quale, per le sue virtù, dal buon genitore fu più amato degli altri fratelli, i quali n’ebbero invidia, e mentre un giorno giuoca vano, Telamone uccise il fratello Foco col disco ; e per evitare la giusta ira del padre si rifuggì a Salamina, e Peleo, a Ftia presso Eurizione. Eaco avea un tempio ad Egina ed in Atene, e vi era adorato qual semidco.

XX. Io-Argo-Epafo. §

Celebre nell’antichità è la favola della bellissima donzella Io (Ιω, Io, gen. Ius), la quale(1) fu fig. d’Inaco, fiume dell’Argolide, che nasce da Artemisio o dal Linceo, monti di Arcadia, e per ciò detta Inachide (Inachis) ; ma Apollodoro la fa figliuola d’Iaso, ed altri, di Pireno. La favola d’Io era nello scudo di Turno, il quale discendeva da Inaco(2).

Giove che da Io avea avuto un figliuolo, la trasformò in vacca, che poscia donò a Giunone, la quale, lodandone la bellezza, gliel’avea domandata. La pose ella in guardia del pastore Argo, che Eschilo dice d’ignota origine (γηγενες) ; ed altri vogliono fig. di Arestore, pronipote di un altro Argo, fig. di Giove e di Niobe, diversa dalla figliuola di Tantalo. Egli avea il capo ornato di cento occhi, de’ quali due alla volta per dormire si chiudevano, mentre gli altri erano aperti alla custodia di quella stranissima vacca. Da Euripide però si chiama Panopte (πανοπτης), perchè avea tutto il corpo coperto di occhi. Or Giove comandò a Mercurio che, ucciso Argo, liberasse la giovenca ; il che quegli eseguì, col dolcissimo suono del flauto addormentando que’suoi vigili occhi. Della {p. 54}qual cosa avvedutasi Giunone, quell’odiata vacca rese sì furibonda che andò vagando quasi per tutta la terra, agitata o da uno spettro, ch’era l’ombra stessa di Argo ; o da una furia ; o dall’animaletto che appellasi estro (οιστρον, oestrum), specie di mosca assai molesta agli armenti, la quale colle sue punture li mette in grandissimo furore. E la sua smania fu sì strana che precipitossi in quel mare, il quale da lei prese il nome d’Ionio. Passò quindi nella Scizia per lo stretto di Costantinopoli, che da siffatto avvenimento ebbe il nome di Bosforo. Giunse finalmente nell’Egitto per opera di Mercurio, e quivi partorì Epafo. Allora Giove restituì ad Io la primiera sua forma, e volle che fosse da que’ popoli adorata qual Dea sotto il nome d’Iside ; sicchè Epafo era l’Osiride o Serapide degli Egiziani.

Io, nel dialetto degli Argivi, significava la luna, della quale era simbolo una donna col capo coronato ; e da ciò ha potuto avere origine la trasformazione d’Io in vacca. E come i Greci amavano colle proprie favole unire quelle degli Egiziani, avvenne che Io ed Epafo si rassomigliassero ad Iside e ad Api. Questa Dea si vestiva dagli Egiziani di bianchissimo lino ; e di lino eziandio vestivano i Sacerdoti di lei(1) ; forse perchè Iside era stata una regina di Egitto che mostrò a quel popolo l’uso del lino.

In quanto ad Epafo, appena nato fu rapito da’ Cureti per ordine di Giunone. Ma, uccisi questi da Giove, Io andò lungo tempo in cerca del figliuolo, e ritrovatolo presso la Regina de’ Biblii, il riportò a regnare in Egitto, ove, per ordine di Giove medesimo, edificò una città famosa, che chiamò Menfi dal nome della moglie, da cui ebbe una figliuola chiamata Libia, la quale, essendo stata regina di gran parte dell’Africa, a questo paese diede il nome di Libia. Questo fu quell’Epafo che cagionò la famosa sventura di Fetonte, come si dirà nell’articolo di Apollo.

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XXI. Dardano-Eolo. §

I Troiani, come tutt’i popoli antichi, vantavano un’origine divina ; ed Ilioneo (1) Ioda Enea ed i Troiani, perchè al sommo Giove riferivano il principio del lor legnaggio e della lor nazione. Ed invero Dardano, lor primo re, fu fig. di Giove e di Elettra, una delle Pleiadi, ch’eran figliuole di Atlante e di Pleione. Essa non vedesi comparire fra le sorelle, perchè oltre modo dolente delle disavventure de’ discendenti di Dardano, e del miserando fato di Troia, abbandonò il suo posto e ritirossi presso al polo artico. Oltre a Dardano, Giove ebbe da Elettra Iasio, o Eezione. Dardano, il quale si vuole oriundo di Cortona ch’era l’antica Corito (Corythus), città dell’Etruria, percui i Troiani da’ nostri Tirreni riconoscevan l’origine, uccise il fratello Iasio, essendo nata fra loro per ragion di successione gravissima discordia ; e temendo l’ira de’ cittadini, lasciò la patria, e dopo lungo viaggio per mare prima si fermò nella Samotracia, e poscia passò nella Frigia(2), ove introdusse un segreto e misterioso culto de’ suoi Dei, che si conservò lungo tempo in quelle contrade. Ideo, fig. di Dardano, co’ suoi compagni si stabilì nelle montagne dette da lui Idee ; e Dardano, per avviso dell’oracolo, andò nella Teucride, ove accolto dal re Teucro sposò una sua figliuola, da cui ebbe Erittonio. Quivi edificò una città detta Dardania, che fu pure il nome da lui dato a tutta quella regione.

Dopo Dardano regnò Erittonio, che Omero chiama il più dovizioso de’ mortali, e cui pascevano nelle praterie tremila bellissime giumente(3). A lui successe nel regno Troio o Troe (Τρως, Tros), suo figliuolo, che alla città diede il nome di Troia, e che fu padre d’Ilo, di Assaraco e di Ganimede. Da Ilo nacque Laomedonte, padre di Priamo, il quale morì sepolto fra le ceneri dell’infelice sua patria. Dardano ebbe gli onori {p. 56}onori divini, e fu studiosissimo della magia, che perciò chiamossi arte dardania dagli antichi(1). Erittonio(2) trovò i cocchi a quattro cavalli (quadrigae), i quali per altro prima di lui erano in uso presso gli Egiziani.

A tempo della guerra Troiana fiorì Eolo, re de’venti. Appresso Ovidio(3) Giove stesso esercita un impero assoluto su i venti ; ma poscia, per opera di Giunone, il diede ad Eolo, e gli concesse di sedere alla mensa de’ Numi. Plinio(4) dice che fu fig. di Elleno e che ritrovò la ragione de’venti ; ma da’più si vuole nato da Giove e da Sergesta, fig. d’Ippola, Troiano. Omero gli dà dodici figliuoli ed altrettante figliuole ; e lo chiama caro agli Dei. Egli sedeva sulla vetta di un monte, e collo scettro frenava gli sdegni de’venti, ed ora lasciavali andare, ora li ratteneva incarcerati. Quindi spesso arbitro e signore, ed altre volte re e padre de’venti si appella (ταμιας ανεμων. Hom.). Virgilio(5) finge che i venti eran rinchiusi in un antro vastissimo, ove rumoreggiano a lor talento, e da cui non uscivano che quando Eolo il permetteva. Ve li avea rinchiusi Giove per impedire che ponessero sossopra e cielo e terra col loro mal regolato furore. Il che finsero, perchè nelle sotterranee caverne s’ingenerano fortissimi venti, che poscia turbano l’aria circonstante.

Eolo regnò in sette isole vicine alla Sicilia che alcuni chiamano Eolie, ed alcuni, Vulcanie, da Vulcano, loro re ; fra le quali le principali sono Lipari, e Strongoli (στρογγυλος, rotundus), così detta dalla rotondità della sua forma, e che getta fuoco con grande splendore ; e quivi, dice Strabone, era la sede di Eolo. A queste isole approdò Ulisse, il quale da Eolo ebbe tutt’i venti in un grand’otre {p. 57}legato nella sua nave ad una catena di argento, salvo Zeffiro che spirar dovea a prospero fine di sua navigazione. Ma i compagni, per sospetto che nell’otre non vi fossero riposte molte preziose cose, l’aprirono, mentre Ulisse dormiva, ed i venti scatenati turbarono all’Eroe i dolci disegni di tosto rivedere la cara patria e gli amici(1).

Eolo, dice Diodoro Siculo, fig. d’Ippota, approdò con alcuni compagni all’isola di Lipari, ove, sposata la figliuola del vecchio re Liparo, ne divenne signore. Egli era uomo giusto e pio ; e vogliono che avesse mostrato a’ marinari l’uso delle vele. E perchè assai perito era nel pronosticare i venti, finsero i poeti che egli fosse il loro Dio. Alcuni dicono che gli abitatori delle isole Vulcanie, le quali gettano fuoco, dal fumo di essi prevedevano quali venti per tre giorni dovessero spirare(2). Da ciò avvenne che avendo Eolo il primo osservato i movimenti e le direzioni di quelle fiamme, e predetto qual vento dovesse spirare, non altrimenti che se loro comandasse, fu stimato Dio de’venti.

XXII. Oracolo di Giove Ammone e di Dodona. §

Celebri nell’antichità sono l’oracolo di Giove Ammone, nella Cirenaica, paese della Libia, e quello di Dodona, nell’Epiro ; tanto che negli antichi tempi niuna cosa rilevante s’imprendeva senza consultar l’oracolo di Giove Ammone o quello di Dodona(3). E Strabone conghietturò, il tempio di Ammone un dì essere stato in mezzo al mare, perchè altrimenti non avrebbe potuto il suo oracolo giungere a tanta gloria ; la quale poscia svanì in guisa che divenne deserto del tutto ed abbandonato.

Ammone chiamavasi Giove dagli antichi Egiziani(4) ; {p. 58}percui anche i Greci gli dicdero un tal soprannome. Altri il fan derivare da una parola greca (αμμος), che significa sabbia, perchè il tempio di Giove Ammone fu da Bacco fondato negli arenosi deserti della Libia ; pe’quali viaggiando e sofferendo grandissima sete, pregò Giove che gli desse un ristoro. Quel nume gli apparve in sembianza di un montone, il quale col piede fece zampillare una sorgente di fresche acque. Allora Bacco quivi edificò un magnifico tempio a Giove sotto il nome di Ammone, o arenario. Altri scrivono che un ariete mostrò un bel fonte a Bacco, il quale pe’deserti della Libia guidava l’assetato suo esercito ; in premio di che fu quell’animale posto fra’segni celesti ; e Bacco in quel luogo edificò un gran tempio, l’unico che gli Dei avessero nella Libia. Il quale sorgeva in mezzo alle infocate arene di que’deserti, sebbene il sacro recinto intorniato fosse da sempre verdeggiante selva ; il che aveasi qual miracolo del nume. Una fontana ricchissima di acque che presso al tempio si divideva in mille rigagnoli, era la cagione di quella verdura, cui Properzio aggiunge un freschissimo antro. Il suo simulacro era un capo bovino innestato a corpo umano, che sotto due gran corna ritorte nascondeva la frente. Altri dicono che avea sembianza di ariete. Lucano afferma che il santuario era di semplice struttura, e povero di oro e di argento ; ma altri descrivono il simulacro del nume formato di smeraldi e di altre preziose gemme. In quest’oracolo le risposte si davano non già colle parole, come a Delfo ; ma in gran parte co’cenni e con varii segni.

Celebre nella storia è la spedizione del grande Alessandro al tempio di Giove Ammone(1). Non contento egli del colmo dell’umana grandezza cui era giunto, si credeva o voleva esser creduto figliuolo di Giove ; e per dar colore a siffatta mensogna, imprese, per le cocenti arene della Libia, un malagevole viaggio, per cui giunse, nou senza favore de’ Numi, ad un bosco amenissimo, in mezzo al quale era quella favolosa fontana, di cui le acque {p. 59}allo spuntar del sole erano tiepide ; fredde, ne’calori del mezzodì ; verso sera, si riscaldavano ; e bollivano a mezza notte. Quivi l’eroe Macedone ritrovò il tempio di Giove Ammone, rappresentato sotto la figura di un ariete, che i Sacerdoti portavano su di una nave dorata, da’cui fianchi pendevano molte lazze di argento, con il processional seguito di matrone e di verginelle, che cantavano inconditi carmi per rendere propizio il nume. Alessandro ebbe da’ Sacerdoti la risposta che dovea aspettarsi ; essere figliuolo di Giove e meritare divini onori. Plutarco racconta ch’egli, a proposito di ciò, rispose, non doverne fare le maraviglie, perchè Giove, il quale per natura è padre di tutti, ama che gli ottimi sien chiamati suoi figliuoli. Vicino al tempio di Giove Ammone ritrovasi il così detto sale ammoniaco, che ha preso il nome o dalle arene, cui è frammischiato, o dal tempio di Ammone, presso al quale si raccoglieva(1).

Dodona fu città dell’Epiro, un dì abitata da’ Caoni, così detta o dalla ninfa Dodona, fig. dell’ Oceano, o da Dodona, fig. di Giove e di Europa. Quivi era il famoso oracolo di Giove Dodoneo, il più antico di quanti ne avesse la Grecia, e che per molto tempo era anche il solo(2). Fu fondato da’ Pelasgi, il più antico popolo della Grecia ; o secondo Erodoto, da una donna Egiziana che ne fu la prima sacerdotessa. Omero chiama Selli o Elli i Sacerdoti di quest’oracolo, che menavano vita austerissima. Or in quella città era una selva tutta di querce consacrate a Giove, le quali con umana voce rendevano gli oracoli, che i Selli raccoglievano e comunicavano alla credula gente(3). Alcuni(4) dicono, che in quella selva dava gli oracoli una colomba dal ramo di una sacra quercia ; la quale finzione nacque da che nel linguaggio di quel paese sì le colombe, e sì le indovine aveano il nome di Peliadi. Altri finalmente dicono {p. 60}che a Dodona davano gli oracoli due colombe, delle quali una volò al tempio di Apollo in Delfo ; e l’altra, a quello di Giove Ammone. Un uomo importunamente loquace per modo proverbiale chiamavasi aes Dodonaeum, perchè l’oracolo di Giove Dodoneo era tutto circondato di certi vasi di bronzo che si toccavano l’un l’altro, sì che, percossone un solo, tutti gli altri davano un suono, che durava per ben lungo tempo. Ulisse andò a Dodona per conoscere la volontà di Giove, che dava oracoli dalla sua altissima quercia ; ed Enea(1), lasciata la flotta presso Butrintò, co’più scelti compagni andò egli pure a consultare l’oracolo di Giove a Dodona.

XXIII. Giuochi Olimpici. §

In onore di Giove Olimpico si celebravano i giuochi detti Olimpici da Olimpia o Pisa, città dell’ Africa. Si chiamano da Luciano i grandi giuochi Olimpici (Ολυμπια μεγαλα) a differenza di altri meno considerevoli, che si celebravano in alcune città della Grecia, come in Dio, luogo della Macedonia, in Atene, a Smirne ec. ma quelli di Olimpia erano i grandi giuochi, a’quali si concorreva non solo da tutta la Grecia, ma eziandio dall’Italia, dall’Asia, dall’Egitto, dalla Siria, dalla Cirenaica e da più altri paesi. Ed era tanto lo splendore di que’giuochi, che Pindaro(2) ebbe a dire che siccome l’acqua supera tutti gli elementi, e l’oro è da più di qualsivoglia preziosa cosa, così l’Olimpico certame fra tutti gli altri nobilmente primeggia. Questi giuochi si vogliono istituiti da Ercole, fig. di Giove, e di Alcmena, il quale vi combattè il primo con Acareo al pancrazio ; e ciò forse perchè gli antichi ad Ercole attribuivano ogni grande e nobile impresa ; ma Strabone ne vuole autori i popoli di Etolia, i quali edificarono Olimpia e celebrarono la prima Olimpiade. Altri dicono che l’istituì Atreo per onorare i funerali di Pelope, suo padre. A tempo della guerra di Troia i {p. 61}giuochi olimpici o non vi erano, o aveano pochissìma celebrità, e perciò Omero non ne fa motto ne’suoi poemi. A tempo poi d’Ifito, contemporaneo di Licurgo, cioè 23 anni circa avanti la fondazione di Roma, e 776 prima di G. C. erano quasi dimenticati, o almeno assai rari ; ed egli fu che li richiamò a nuova vita più di quattro secoli dopo la guerra di Troia. Da quest epoca si contano le Olimpiadi, che sono lo spazio di cinque anni, o meglio, di quattro anni compiuti, trascorsi i quali doveansi celebrare i giuochi olimpici, ed il nome del vincitore denotava per lo più ciascuna Olimpiade. Da questo tempo nella storia greca si legge qualche cosa di certo, giacchè i fatti che precedono il periodo d’ Ifito o delle olimpiadi, sono in molte favole avviluppati. Perciò Varrone(1) distingueva nella storia de’ Greci, il tempo incerto, dal principio del mondo al diluvio ; il mitico o ’favoloso, dal diluvio alla prima olimpiade ; e lo storico, dalla prima olimpiade sino a noi.

La città di Olimpia era illustre per l’oracolo di Giove Olimpico, e per un magnifico tempio di questo Nume, ricco de’ doni della Grecia, ove grandeggiava la statua di Giove Olimpico, di avorio e di oro, capolavoro di Fidia e che Plinio chiama superiore ad ogni imitazione. Era di tanta grandezza, che parve essersi peccato contro le leggi della proporzione, perchè seduto com’era, toccava il tetto del tempio ; che se si fosse dritto levato, l’avrebbe dovuto tutto seco portare. Dimandato l’insigne statuario quale innanzi avesse avnto nel fare sì nobile statua, rispose che quei versì dell’ Iliade, ne’ quali il poeta descrive Giove che col muovere delle sopraceiglia fa tremare l’olimpo. Nelle vicinanze adunque di questo tempio ed alla riva dell’Alfeo si celebravano questi famosi giuochi, ne’quali il fiore della greca gioventù si esercitava in cinque maniere di pubblici cimenti, ch’erano la lotta, il disco, il salto, la corsa ed il pugilato ; i quali presi insieme costituivano il pancrazio o pentallo, detto {p. 62}quinquertium da’ Latini. Chi desiderava combattere, dava il suo nome dieci mesi prima, e nel pubblico ginnasio di Elide occupavasi in esercizii preparatori i. L’ordine de’combattenti era regolato dalla sorte, mettendosi delle palle in un’urna di argento. Qualche volta anche gli esercizii d’ingegno ebbero luogo ne’giuochi olimpici, come di eloquenza, di poesia e simili. Isocrate vi recitò il suo panegirico, opera di dieci anni ; e Pindaro ebbe il dispiacere di vedervi i versi di Corinna preferiti a’suoi. Si sa che Tucidide, fanciullo, vi udì Erodoto recitare la sua storia. Il vincitore dei giuochi olimpici avea per premio una corona di appio o di ulivo, ed alle volte di alloro, la quale bastava ad infondere ne’combattenti un nobile amore di gloria. Ma, oltre a ciò, la lode de’vincitori era grandissima ed immortale ; si ergevano loro delle statue nel bosco di Giove, in Olimpia, e ritornando alla patria, vi erano introdotti sopra cocchi a qualtro cavalli, ed ogni nazione a gara li ricolmava di privilegii.

XXIV. Giore Capitolino, suo tempio, e giuochi in onore di Giove e di Giunone. §

Al tempio di Giove Olimpico, nella Grecia, soggiungiamo quello di Giove Capitolino che a Roma n’emulò la magnificenza. Giove Capitolino, assai venerato da’ Romani, riputavasi il custode ed il conservatore dell’impero. E però teneva lo scettro di oro o di avorio, ed avea il tempio nel luogo più elevato del Campidoglio, per significare la maggioranza di lui sopra gli altri Dei(1). Teneva la destra armata di un fulmine di oro, e di oro eziandio la barba ; donde la ridevole follia di Caligola, che per imitare Giove portava il fulmine e la barba d’oro. Del suo tempio gettò le fondamenta Tarquinio Prisco, dopo una guerra co’ Sabini ; ed ampliato poscia da Tarquinio Superbo, a tempo della Repubblica arrivò ad una magnificenza degna del nome romano(2). {p. 63}L’aia n’era di otto iugeri, e ciase un lato era lungo circa dugento piedi. Vi si saliva dal foro romano per ben cento scaglioni, che ne rendevano più maestoso il prospetto. Le porte eran di bronzo, ed i vasi, di argento ; ed in alto, il simulacro di Giove su di un cocchio dorato. Ma, distrulta Cartagine, se ne indorò riccamente la soffitta, e le tegole ; e le porte furon ricoperte di lamine di oro, oltre e candelieri e statue e corone tutte di oro, ed altri splendidi doni senza numero. Fra le più rare opere di scoltura vi era il cane che lambisce la propria ferita, l’Ercole Capitolino, l’Apollo colossale, e l’aurea statua di Giove, la cui destra vibra il fulmine a tre punte, e simili altre maravigliose cose. Fu più volte consumato dal fuoco, e più volte rifatto ; e l’ultima, da Domiziano, il quale fece venir dalla Grecia quelle colonne di pietra pentelica, che tuttavia si ammirano nella chiesa di Aracoeli. Ed in questo tempio l’antica Roma vide tanti suoi guerrieri trionfanti render grazie a Giove delle riportate vittorie. M. Furio Camillo, dittatore, allorchè liberò Roma dalle soperchierie de’Galli, arricchì il Campidoglio dell’oro promesso a que’barbari, ed istituì i giuochi Capitolini(1). Ad imitazione de’giuochi olimpici piacque a Domiziano istituire il certame Capitolino, in cui gareggiavano e suonatori di cetra, e poeti ed istrioni, i quali aveano il premio di una corona e di un ramo ornato di nastri(2). E giunsero questi giuochi a tanta rinomanza che i Romani, non più per lustri, ma per giuochi Capitolini computavano gli anni. Rimase poi a Roma il costume di coronarsi solennemente i poeti ed i retori dagli stessi Imperatori ; il che forse ha dato luogo alla coronazione de’poeti laureati, i quali erano in tanto onore nell’Italia e nella Germania.

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XXV. Iconologia di Giove. §

Giove si rappresentava sotto sembianza di un vecchio venerando, con lunga barba ed il capo corona to di alloro o di ulivo, talvolta velato o cinto di piccola benda ; è seduto su trono di avorio, collo scettro nella sinistra, nella destra il fulmine, ed a’piedi, un’aquila. Alle volte per iscettro gli si dava il fulmine ; e non di rado vedesi in atto di fulminare i giganti che tiene sotto i piedi. Il Giove Pluvio si figurava a guisa di vecchio con capelli e barba lunga, e con le braccia aperte e spenzolate, in atto di versare copiosa pioggia. In un intonaco Pompeiano vi è Giove barbato, con corona di quercia ed adagiato sulle nuvole che addensa col suo cenno ; ha vicino l’arco baleno e l’aquila, e tiene nella destra il fulmine trisulco, e nella sinistra, lo scettro.

Giove si ravvisa principalmente agli occhi aperti e rotondi ; all’ ampiezza della fronte rilevata e quasi gonfia ; ed alla chioma che, come quella del leone, gli scende giù dal capo. Il Winckelmann è di parere che il capo di Giove abbia sempre gli stessi caratteri che dagli altri Dei il distinguano, cioè uno sguardo costantemente sereno, co’capelli che dalla fronte gli si sollevano, e poscia ìn varie divisioni ricadongli da’ lati, curvandosi in piccole increspature, col taglio dell’occhio grande, rotondamente ricurvato e men lungo che comunemente esser non suole, per tenerne l’arco più rilevato. Agl’intendenti però sembra malagevole determinare i caratteri distintivi del Re de’ Numi. Il Giove Ellenio si dipinge senza barba ; e Giove Tonante ed Ultore non potea sempre figurarsi con quel sembiante tranquillo e con quella fronte serena che addita la serenità del cielo.

Si vede pure Giove detto Serapide col modio sul capo, che Millin crede essere un avanzo del fusto della colonna, sotto la cui figura era questo Nume anticamente adorato. Si vede pure Giove Serapide con la testa fregiata di raggi. In una medaglia di Alessandria vi è Giove Serapide col modio circondato {p. 65}da’sette pianeti e dallo zodiaco. In una corniola del gabinetto del Re di Francia, l’Olimpo è indicato da un Giove, che siede sul trono colla folgore nella sinistra ed un lungo scettro nella destra. Sotto i piedi ha un grande arco simile al lembo dell’aurora boreale ; e nel contorno della pietra è una zona co’dodici segni dello zodiaco.

Il Bacci così descrive un Giove Fulminatore esistente in un cammeo : « È in esso espresso Giove con maestoso carattere, ma acceso d’ira, stando in un carro tirato da quattro cavalli, nella destra tenendo uno scettro, la cui cima è ornata di un fiore, e con la sinistra scagliando i fulmini contro due anguipedi giganti. É certamente difficilissimo l’immaginar cavalli in attitudine di maggiore vivacità e fierezza, di caratterizzare Giove con espressione più degna di lui e di formare i giganti con più terribile aspetto, mentre essi si scontorcono, e con le loro maestose facce minacciano il supremo Nume, che vibra contro di loro ì fulmini ».

In una statua di Giove in terra cotta rinvenuta in un tempio di Pompei, quel Nume si vede con corona di quercia, che gli circonda le chiome cadenti. Giove Dodoneo avea il capo inghirlandato di quercia, albero a lui sacro. Giove Ammone dipingesi colle corna, che forse dinotano la forza de’raggi del sole, i quali sono cocentissimi nella Libia.

Ebe si dipinge col capo coronato di fiori, e con una coppa d’oro in una mano, come quella che versava il nettare agli Dei ; e pasceva di ambrosia l’aquila di Giove. Castore e Polluce poi si disegnavano dagli Spartani con due pezzi di legno paralleli insieme uniti a due traversi pur di legno ; e questa primitiva configurazione si ravvisa tuttora nel segno II, con cui nello zodiaco son figurati i Gemini o Gemelli(1).

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XXVI. Principali epiteti di Giove. §

Iupiter Aegiochus, Αιγιοχος, Giove Egioco ; epiteto di Giove assai frequente in Omero, Esiodo ec. così detto o da αιξ, αιγος, capra, ed οχη, alimento, perchè Giove fu nudrito in Creta col latte di una capra ; o perchè porta l’egida.

Iupiter Anxurus si chiama in forma di giovinetto imberbe. Così veneravasi particolarmente nell’antica città di Terracina, detta Anxur. Da Giovenale si appella Iupiter nondum barbatus(1).

Diespiter, Giove, padre del giorno, detto Lucetius ne’carmi Saliari, cioè autore della luce. Da’ Cretesi il giorno stesso chiamavasi Giove(2).

Iupiter Dictaeus, da Ditte, monte di Creta, ch’ebbe un tal nome dalla ninfa Ditte, che vi si adorava. In un antro di quel monte fu nudrito Giove(3).

Iupiter Elicius, detto ab eliciendo, perchè credevano poterlo trarre dal cielo con certe cerimonie per allontanare un male minacciato da’prodigii, e specialmente da’fulmini. Numa il primo innalzò un altare a Giove Elicio sull’Aventino(4).

Iupiter Feretrius ; così detto a ferendo, perchè a lui si portarano o dedicavano le spoglie opime, cioè quel bottino che il generale di un esercito riportava sul re o capitano dell’esercito vinto ; o perchè portava la pace, quod pacem ferre putaretur. Romolo riportò le spoglie opime di Acrone, re de’ Ceninesi ; e dedicatele a Giove Feretrio, edificò in di lui onore il primo tempio a Roma(5).

Iupiter Fulgurator, Fulminans, Fulminator ; αστεροπητης. Così quegli altri epiteli tanto usati da Omero, νεφεληγερετα, nubium coactor, l’adunator de’nembi ; τερπικεραυνος, fulmine gaudens ; εριβρεμετης, magnitonans ; υβρεμετης, altitonans, ec. che tornano ad un medesimo significato.

{p. 67}Iupiter Hospitalis, Ζευς ξενιος, Giove ospitale ; era onorato qual vindice dell’ospitalità quasi da tutt’i popoli, perchè credevasi che i forestieri ed i mendici vengon da Giove(1), e che sono da lui particolarmente protetti.

Iupiter Idaeus, così detto o da Ida, monte della Frigia ; o da Ida, monte di Creta, ov’era la culla e la tomba di quel nume.

Iupiter Lapis, detto dalla pietra che inghiottì Saturno invece del figliuolo. Presso i Romani santissimo ed antichissimo costume era il giurare per Iovem Lapidem.

Iupiter Latialis. In onore di lui si celebravano sul monte Albano le ferie latine, istituite da Tarquinio Superbo, le quali duravano quattro giorni, e vi assistevano i consoli co’magistrati di 47 popoli del Lazio, de’quali i principali, dopo i Romani, erano i Latini, gli Ernici ed i Volsci.

Iupiter Olympius, così detto o dalla città di Olimpia, ov’era il famoso suo tempio ; o dal monte Olimpo, in Tessaglia ; o dal cielo che diceasi Olimpo. Nei conviti il primo bicchiere si bevea in onore di Giove Olimpico(2).

Ζευς ορκιος, da ορκος, giuramento ; perchè Giove teneasi per vindice del giuramento, e perchè nel nome suo sogliono gli uomini giurare. Nel luogo ove gli Elei tenean senato, era un simulacro di Giove che nelle mani avea i fulmini, pronto a punire gli spergiuri. (Pausan.).

Iupiter Panomphaeus, πανομφαιος, omnis ominis auctor, dicesi da Omero Giove, cui sacrificavano i Greci per averlo propizio contro i Troiani, da πας. omnis, ed ομφη, vox divina, o perchè era a dorato in ogni ling uaggio, o perchè ascolta le voci di tutti.

Iupiter Pater ; epiteto principale di Giove spesso chiamato da’poeti padre degli uomini e degli Dei.

{p. 68}Iupiter Pluvius, Giove datore della pioggia, detto da’ Greci ομβριος ed Υετιος, che avea un altare sul monte Imetto nell’ Attica(1).

Iupiter Stator, Giove Statore, così detto, perchè fermò i Romani che fuggivano vergognosamente davanti a’ Sabini, a sistendo(2).

XXVII. Alcune altre cose di Giove. §

L’albero consacrato a Giove era la quercia o l’ischio (aesculus), piante ghiandifere, e perciò riputate sacre(3). Si sa che Giove richiamò gli antichissimi uomini dal ferino cibo di carne umana a quello più mite delle ghiande, di cui si cibavano prima che s’introducesse l’uso del frumento. La voce iuglans, noce, è quasi Iovis glans, perchè quest’albero dà frutti di miglior sapore che la ghianda.

A Giove si sacrificava il giovenco, ed era cattivo augurio sacrificargli un toro ; sebbene altri dicono che se gli poteva sacrificare(4).

Tra i pianeti vi è quello di Giove, di cui la luce dagli Astrologi si reputa benigna e prospera al genere umano, a differenza del pianeta di Marte che l’ha terribile e sanguigna(5).

Omero(6) fa menzione di Ate (Ατη, noxa), la quale fa cadere gli uomini negli errori, ed è per loro cagione di sventure ; e la chiama veneranda figliuola di Giove, ìl quale adirato per aver dato mano ad un inganno fattogli da Giunone, la cacciò dal cielo e mandolla a conversare cogli uomini.

Giove in più luoghi dell’ Iliade si chiama l’arbitro della guerra fra gli uomini ; e lo Scoliaste riferisce che la terra aggravata dalla soverchia moltitudine {p. 69}de’malvagi pregò Giove a sollevarla di sì molesto peso ; e che per ciò quel Nume mandò prima la guerra di Tebe, e poi quella di Troia. Percui le guerre più che i fulmini e le inondazioni, vengono da Giove per liberare la terra dal peso de’malvagi(1).

Nella pagana Teologia(2) Giove è l’anima del mondo ; e però i poeti dicevano che tutto era pieno di Giove, e che tutto dee cominciare da Giove. Omero(3) di passaggio dice che le timide colombe recano l’ambrosia a Giove.

Giunone §

I. Nomi di questa Dea e lor ragione. §

Cicerone(4) crede che il nome Iuno venga a iuvando, come quello di Giove ; e riferisce che, secondo gli Stoici, Giunone era l’aere posto in mezzo alla terra ed al cielo. E diceasi moglie di Giove, perchè l’aere, o sia Giunone, ha molta somiglianza coll’etere, ch’era Giove. E siccome Giove presso gli antichi non era che il sole(5) : così per Giunone intendevasi la luna. Dai Greci chiamavasi Ηρα, che Platone nel Cratilo fa derivare dal verbo εραω, amare, quasi ερατη, amabile, o perchè a Giove diletta ; o perchè l’aria significata per Giunone ci è amabile, vivendo noi col respirarla. Laonde alcuni affermano che Ηρα sia detta quasi αηρ, per metatesi, o trasposizion di lettere.

II. Storia favolosa di Giunone. §

Giunone fu fig. di Saturno e di Cibele. Samo era il suo soggiorno gradito, perchè si vuole che quivi abbia avuto il suo natale, vicino al fiume Imbraso e {p. 70}sotto una pianta di vetrice(1). Nella sua fanciullezza fu educata da Eubea, Prosinna ed Ascrea, fig. del fiume Asterione ; o da Temeno, fig. di Pelasgo, che abitava nella città di Stinfalo. Omero(2) però fa dire a Giunone che quando Saturno fu cacciato da Giove nel tartaro, essa fanciulla fu dalla madre Rea consegnata all’ Oceano ed a Teti, i quali con grande amorevolezza la nutrirono ; forse perchè l’aria, cioè Giunone, è alimentata e restaurata dall’acqua. Alcuni però affermano che l’educazione di Giunone fu affidata alle Ore. La Dea adunque ebbe in Samo un culto singolare ; e si vuole che il pavone, uccello caro a Giunone, nato a Samo, di là si fosse propagato in altri luoghi ; e che perciò fosse consacrato alla Dea di Samo(3) ; ed i pavoni di quell’isola sono in gran pregio. Omero racconta la favola di Argo, ma non fa motto della trasformazione di lui in pavone. Mosco, e dopo lui Ovidio, favoleggiò che Giunone, ucciso Argo da Mercurio, ne pose sulla coda del pavone i soli occhi ; ma Nonno dice che quel pastore fu cangiato in pavone(4). Oltre a Samo, le città a lei care furono Sparta e Micene ; ed anche Argo era gratissima alla nostra Dea, la quale vi avea un gran simulacro ; e niuna cosa era più rispettata nella Grecia che i Sacerdoti di Giunone in Argo. Secondo Virgilio(5) Giunone alla stessa Samo antepose la superba Cartagine, ov’erano le sue armi ed il cocchio, tanto che meditava farla donna e signora di tutte le altre città. I Cartaginesi la veneravano con un nome che in greco significava Urania o Celeste.

A Samo Giunone sposò Giove ; e Varrone attesta che vi era un suo antico tempio ed una statua che la rappresentava in abito di novella sposa. Queste nozze celebraronsi con solennità degna di siffatti numi : e Mercurio ebbe da Giove l’incarico d’invitarvi tutti e Dei, ed {p. 71}uomini ed animali. La ninfa Chelone con inudita temerità beffossi di tal matrimonio, e fu sola a non intervenirvi. Allora Mercurio precipitò la ninfa insieme colla casa nel fiume, presso al quale abitava, e la trasformò in testuggine, animale che ancora porta la casa sul dosso, ed in pena de’ suoi scherni condannolla ad un perpetuo silenzio. Si sa che chelone (Χελωνη) in greco vuol dire testuggine.

III. Carattere di Giunone. Emo e Rodope. Gerane. Antigone. §

Giunone era la regina degli Dei, e la Dea de’ regni e delle ricchezze, percui spesso salutasi col titolo di Regina(1). I poeti la dipingono oltremodo superba e pertinace nel suo sdegno ; di che nelle favole sono non pochi esempi.

L’Emo ed il Rodope furon due monti della Tessaglia, de’ quali si favoleggia ch’erano in quella regione un fratello ed una sorella di tal nome, i quali sì forte si amavano, che, per un tal vezzo di stolta superbia, chiamavansi, Emo col nome di Giove, e Rodope, con quello di Giunone. Per la qual follia questa Dea li cangiò in due monti altissimi, che serbano ancora que’nomi(2).

Fu pure bersaglio all’ira di Giunone l’infelice Oenoe, o Gerane(3), regina de’Pigmei, la quale in bellezza vantandosi di vincere le stesse Dee, fu da Giunone trasformata in grù ; e da ciò l’odio fra le grù ed i pigmei, i quali ogni anno vengono con quegli uccelli a fierissimo combattimento. Il Troiano esercito, dice Omero(4), marciava

Come stormo di augei, forte gridando
E schiamazzando, col romor che mena
Lo squadron delle grù, quando del verno
Fuggendo i nembi l’ocean sorvola :
Con acuti clangori, e guerra e morte
Porta al popol Pigmeo. Monti.
{p. 72}Gameron crede che Pigmeo (a πυγμη, pugnus), significhi uomo di braccio forte, e che poscia male a proposito l’abbiano trasportato a denotare un uomo di bassa statura. Iaquelot vuole che la favola de’Pigmei sia nata dal costume degli Etiopi, i quali metter soleano piccoli uomini di paglia, o Pigmei, ne’loro campi, per ispaventare le grù ed impedir loro che portassero via il grano seminato. Ma secondo Mad. Dacier, i Pigmei erano popoli di Etiopia di sì bassa statura, che i Greci li chiamarono Pigmei, cioè dell’altezza di un cubito. E come le grù di verno abbandonano le regioni settentrionali per andare verso l’oceano ; e que’ popoli Pigmei si uniscono per impedire ch’esse devastassero i loro campi ; così Omero finse la guerra de’ Pigmei colle grù.

Finalmente Antigone, fig. di Laomedonte, re di Troia, per la sua bellissima chioma osò agguagliarsi a Giunone, la quale trasformò la donzella in cicogna, uccello che col suo canto pare che applaudisca a se stessa e mostri la sua favolosa origine. Altri dicono che Giunone le cangiò i capelli in serpenti, e che per compassione degli Dei fu trasformata in cicogna ch’è nemica di questi rettili. E Cinira, re di Cipro, ebbe delle figliuole, le quali, perchè ardirono preferirsi a Giunone, furono cangiate ne’marmorei gradini, del suo tempio(1).

Ma più conto è l’odio di questa Dea contro i Troiani per l’oltraggio recatole da Paride(2), percui dichiarossi loro irreconciliabile nemica e tentò ogni mezzo per vederne l’estrema rovina, tanto che non finì mai di perseguitare il pio Enea, miserabile avanzo di Troia, sino a porre fra le due eterne rivali Roma e Cartagine un odio tanto implacabile che la loro ostinata lotta non finì che colla totale distruzione di quest’ultima. E poichè il pertinace sdegno della nostra Dea è propriamente il fondo, per dir così, dell’Iliade e dell’Eneide ; ci conviene dal principio raccontare l’oltraggio che toccò sì al vivo l’animo altero della Dea, e che fu la fatale cagione di tanti famosi avvenimenti.

{p. 73}

IV. Cagioni del fatale odio di Giunone contra i Troiani. Laomedonte e Priamo. §

Laomedonte, fig. d’Ilo, avea promesso con giuramento a Nettuno e ad Apollo d’immolar in loro onore tutto il bestiame, che in quell’anno sarebbe nato nel suo regno, se gli avessero circondata di mura la città di Troia, o la sola cittadella detta Pergamo. Finita l’opera, l’avaro re mancò alla giurata promessa ; percui Nettuno inondò la campagna di Troia, ed Apollo mandò micidiale pestilenza. Omero(1) racconta che Giove sdegnato con Nettuno ed Apollo che avea seguito le parti di Giunone contra di lui, li avea condannati a servir Laomedonte nel fabbricar le mura di Troia ; e Pindaro(2) aggiunge che sapendo que’ Numi esser nei libri del Fato che Troia dovea un giorno esser distrutta dalle fiamme ; e che le mura fabbricate da mano divina sarebbero state inespugnabili, chiamarono Eaco a parte della fatica. Ora spaventato Laomedonte, consulta l’oracolo, e gli vien risposto che se volea veder finita la peste, ogni anno dovea esporsi una Troiana donzella ad essere divorata da una balena. Dopo alcuni anni cadde la sorte su di Esione, fig. di Laomedonte, la quale legata ad uno scoglio aspettava il fatale arrivo del mostro. Per sua buona ventura la regale donzella fu liberata da Ercole, e Telamone, fig. di Eaco, che ritornavano dalla spedizione contro le Amazzoni. Il padre avea promesso di dar loro, oltre la figliuola, alcuni cavalli ch’eran figli a’ cavalli del Sole, sì veloci che correvano sul mare, e sulle ariste, e che Giove donati avea a Laomedonte pel rapito Ganimede(3). Ercole consegnò la figliuola al padre per andare a compiere una sua impresa ; dalla quale ritornato, Laomedonte gli negò la figliuola ed i cavalli. Gli antichi ebbero tanto in orrore siffatta doppia perfidia del re Troiano, che l’imputarono a tutto il suo {p. 74}popolo e da quelle ripetevano le sciagure de’ Troiani e de’ loro posteri, tanto che Virgilio(1) afferma che lo spergiuro di Laomedonte era la cagione delle civili discordie di Roma. Ercole offeso assedia Troia, uccide Laomedonte e dà Esione per isposa a Telamone, che primo era entrato nella città. Ad Esione fu data la facoltà di liberare un prigioniere, ed ella scelse Podarcete, suo piccolo fratello, e per prezzo del riscatto diede un serto d’oro, di cui avea il capo inghirlandato ; percui fu il giovanetto chiamato Priamo (a πριαμαι, redimere). Ercole al giovane Priamo diede il regno di Troia, e Telamone portò a Salamina Esione, dalla quale ebbe un figliuolo detto Teucro(2).

Priamo dopo Arisba, sua prima moglie, sposò Ecuba, fig. di Dimante, re di Tracia, da cui ebbe molti figliuoli, de’ quali i più conosciuti furono Ettore, Deifobo, Polidoro, Eleno, Alessandro o Paride, Cassandra, Creusa, Polissena, Troio ec. Omero ne conta sino a 90, Igino 54, ed altri 17.

V. Continuazione. Sogno di Ecuba. Paride ed Elena. §

Or Ecuba, essendo gravida di Paride, sognò di partorire una fiaccola, che tutta quanta incendiava Troia. Siffatto sogno gettò Priamo e tutta la sua Corte nella più grande costernazione ; si corre all’oracolo di Apollo, e vien risposto che sarebbe nato un fanciullo in quel parto, che dovea essere un giorno l’infelice cagione della rovina di Troia. Priamo pieno di affanno comanda che appena nato il fatale fanciullo fosse fatto morire. Ma Ecuba, vedendolo bellissimo, il diede secretamente ad allevare ad alcuni pastori del Re, che abitavano sul monte Ida. Igino vuole che i ministri del Re, mossi a pietà del fanciullo, l’esposero in un bosco e che avendolo ritrovato alcuni pastori, l’educarono come loro figliuolo, e gli posero il nome di Paride o Alessandro. Il quale cresciuto in età ed essendo {p. 75}naturalmente giustissimo nel dirimere le controversie, venne in gran fama di equità in tutto il paese ; ma una famosa lite fece conoscere quanto le passioni turbano la naturale rettitudine del giudicare.

Assai celebrate presso gli antichi furono le nozze di Peleo, a cui, benchè mortale, dice Omero, gli Dei diedero per isposa una Dea. Catullo ha scritto su tali nozze un epitalamio, che sarà in onore fino a che i dotti avranno cara la lingua del Lazio. Peleo adunque, e Telamone, fig. di Eaco, fuggendo dalla patria Egina per avere ucciso il fratello Foco, fermarono la loro stanza il primo a Salamina, il secondo a Ftia, città della Tessaglia. Temi intanto, o le Parche avean presagito a Giove che dal matrimonio che fermato avea con Teti, sarebbe nato un figliuolo maggiore del padre. Perciò si tenne di sposarla, temendo che un tal figliuolo l’avesse a spogliare del regno, com’egli fatto avea a Saturno. Fece adunque che Peleo, suo nipote, sposasse quella Dea ; alle quali nozze furon invitati gli Dei e le Dee tutte, salvo che la Discordia o Eride, Dea che non istava mica bene a sì lieto banchetto. Di che oltre modo sdegnata gettò sulla tavola un bel pomo d’oro, nel quale era scritto : Pulchriori detur : diasi alla più bella. Fu questo il segno di fiera contesa fra le tre Dee Giunone, Pallade e Venere. Si turbò la gioia del convito ; e Giove, non volendo seder giudice fra la moglie e due figliuole, impose loro di rimettersi al giudizio del pastorello Paride. Le Dee se ne andarono da lui sul monte Ida ; e Giunone gli promise ricco e potente reame, se a lei aggiudicato avesse il pomo ; Minerva, di dargli doviziosi tesori di sapienza ; e Venere, di farlo sposo di bellissima fanciulla. Paride sentenziò a favore di questa Dea ; e d’allora in poi Minerva e più la nostra Giunone giurarono odio eterno a Priamo ed alla sua stirpe. Nell’Antologia, Venere schernendo Minerva, la punge con queste parole : L’asta e lo scudo è tuo, ma il pomo è mio.

Or dopo qualche tempo fu Paride conosciuto per figliuolo di Priamo e però accolto nella reggia. Poco dopo, allestita una flotta, sotto specie di legazione, fu {p. 76}da Priamo mandato nella Grecia in cerca della sorella Esione. Ivi giunto, fra le altre città, visitò Sparta, ove con grandissima cortesia fu accolto nella sua reggia da Menelao, fig. di Atreo e di Europa, fratello di Agamennone, e re di Sparta, il quale avea per moglie Elena, fig. di Giove e di Leda, e sorella di Castore e Polluce, la quale era di straordinaria bellezza. Or Menelao andò per suoi affari a Creta ; ed allora fu che Paride, mancando alle sante leggi dell’ospitalità, col favore di Venere rapì Elena, e seco la condusse a Troia, o secondo altri, in Egitto, con molte preziose cose tolte alla reggia del tradito Menelao. Vi fu chi disse, quest’Elena essere stata una vera donna non già, ma un essere immaginario inventato per significare, che la bellezza appresso è cagione d’innumerevoli mali. Il vecchio Eumeo appresso Omero(1), vinto dal desiderio di rivedere Ulisse, si rivolge sdegnoso ad Elena che a tutta la Grecia fu sì funesta e per la quale si versò tanto sangue, e ne desidera la totale perdizione. Ed in Ovidio(2) Penelope lagnandosi della lunga assenza di Ulisse, desidera che dalle insane onde del mare fosse stata coperta quella nave che portò a Sparta il fatale figliuolo di Priamo, cagione di tanti mali ; ed Enone : oh ! Dei, esclama, sommergete, vi prego, la malaugurosa nave di Paride. Ahi ! di quanto sangue Troiano viene essa ricolma ! Partì adunque Paride da Sparta, seco portando con Elena lunga guerra ed infinito pianto alla patria, chè il seguirono cento navi di Greci Eroi, a vendicare l’oltraggiato onore di Menelao, i quali fermato aveano in lor cuore di non ritornare, se non se distrutta Troia(3). Allora fu che Nereo, vedendo la nave del perfido Pastore Ideo, sciolse la lingua ad orribili presagi ; ed ahi ! gli disse, con infausto augurio una tal donna tu meni a casa, donna che tutta in armi ripeterà la Grecia congiurata a distruggere la spergiura reggia di Priamo. Ahi ! di quanto sudore {p. 77}grondano e cavalli e cavalieri ! e quante tombe tu muovi a schiudere a’ Troiani ! Vedi come Pallade già l’elmo appresta e l’egida, il cocchio e gli sdegni guerrieri(1). Ed il vaticinio fu vero sì che l’ostinata vendetta di Giunone rimase pienamente appagata. Dopo un assedio di ben dieci anni, dopo tanti avvenimenti famosi, cadde ridotta in cenere la sacra città di Troia, tomba fatale di Asia e di Europa, e che distrusse il fior degli Eroi e tanta virtù guerriera(2).

Se vogliam credere a’ poeti, Giunone depose alla fine il suo sdegno contra l’invisa stirpe di Priamo. Al dir di Orazio(3), morto Romolo, nel celestial consiglio, in grazia di Marte, Giunone consentì che questo suo nipote fosse annoverato fra gli Dei, contenta di aver veduta Troia distrutta, e che Roma distendesse il suo impero per tutta la terra, purchè però fra Troia e Roma fosse frapposto gran tratto di procelloso mare, ed al sepolcro di Priamo e di Paride insultassero gli armenti. Virgilio(4) al contrario finge che Giunone, sapendo essere ne’ fatali libri fermato che il Troia no Enea avesse luogo fra i Numi, cede al destino e consente che i Troiani sieno potenti in Italia e che Roma sia grande, purchè neppure il nome abbia ad udirsi dell’odiata Troia. Tantaene animis coelestibus irae ?

VI. Continuazione. §

Giunone pel suo carattere capriccioso ed importuno orgoglio muoveva spesso la collera di Giove, col quale non era mai d’accordo, e garriva in modo indecoroso. Avvedutosi una volta Giove, dice Omero(5), degli artifizii di Giunone, pe’ quali i Greci mettevano in rotta i Troiani, garrisce la consorte e le dice : {p. 78}Scaltra, malvagia, la sottil tua frode

Dalla pugna cessar fè il divo Ettorre,
E i Troiani fuggir. Non so perch’io
Or non t’afferri, e col flagel non faccia
A te prima saggiar del dolo il frutto.
E non rammenti il dì ch’ambe le mani
D’aureo nodo infrangibile t’avvinsi,
E alla celeste volta con due gravi
Incudi al piede penzolon t’appesi ?
Fra l’atre nubi nell’immenso vôto
Tu pendola ondeggiavi, e per l’eccelso
Olimpo ne fremean di rabbia i Numi,
Ma sciorti non potean.
Monti.

Dicono che Vulcano, volendosi vendicar di Giunone, le regalò un trono di oro, sul quale appena assisa, vi restò legata. Bacco tutto si adoperò per indurre Vulcano a sciorre la povera Giunone. A Sparta un’opera di scoltura rappresentava Vulcano in atto di sciogliere Giunone. Il ch. Heyne dice che per Giunone s’intende l’atmosfera, o sia l’aere inferiore, come per Giove, l’etere che all’aria soprasta. Or per significare che la terra ed il mare, i quali occupano un luogo inferiore, sono all’aria uniti, si finse Giunone sospesa fra l’etere e la terra, e si figurò il mare e la terra sotto il simbolo di due pesi attaccati a’ piedi di Giunone.

L’orgoglio della nostra Dea la rendea inquieta ed infelice, e spesso le conveniva giungere ad atti di sommissione poco degni della sua grandezza, di modo che il titolo di regina del cielo, ed il trono di oro che le dà Callimaco, lo scettro ed il diadema non bastavano a liberarla dalle affannose inquietudini, onde avea l’animo continuamente agitato. Nel primo dell’Eneide(1) la povera Dea considera sì che biondeggiano le biade nel suolo, ove un dì era Troia ; ma piena di cruccio vede la flotta di Enea navigare alla volta {p. 79}dell’Italia per farvi risorgere una Troia novella e più potente ; prevede la grandezza della posterità di lui, che un dì signoreggiar dovea tutt’i popoli e distruggere la diletta Cartagine ; richiama alla memoria i ricevuti torti, ed al paragone di Pallade, la quale per più lieve cagione avea fulminato Aiace, si crede vilipesa. Quindi obbliando la sua dignità e solo aspirando al piacere della vendetta, va da Eolo, e sebbene tanto a lui superiore, non isdegna in atto supplichevole pregarlo che scatenasse i venti per disperdere la nemica flotta di Enea. Ma i suoi disegni sempremai le fallivano ; giacchè le convenne vedere da una fredda nube il trionfo di Enea, e permettere suo malgrado che fosse posto nel numero degli Dei e che i suoi posteri regnassero su tutta la terra.

VII. Grandezza e maestà di Giunone. Iride. §

Da quanto dicono i poeti di Giunone e del suo carattere, siam costretti a credere ch’essi vollero dipingercela come l’essere più infelice dell’universo. Nulladimeno della sua grandezza e potenza vi è assai a dire, ed i poeti stessi non lasciano di raccontarci grandi e belle cose della Regina degli Dei.

Appresso Omero(1) Giunone stessa si vanta della nobiltà divina de’ suoi natali ; e ben conveniva che Giove avesse una consorte degna della sua grandezza ; e s’egli era il sovrano degli uomini e degli Dei, Giunone esser dovea la lor regina. Quindi era tutta sua propria un’aria di maestà nel portamento, di cui si vanta presso Virgilio(2). Spesso a Giove ed a Giunone davansi le medesime prerogative e gli stessi attributi ; e Stazio non dubitò di attribuire a Giunone Argiva la potenza di scagliare il fulmine. E se a Giove davasi l’aggiunto di ottimo massimo, anche {p. 80}Giunone da Virgilio(1) si chiama grande e potente regina, ed anche massima. In Roma ella divideva con Giove e con Minerva gli onori del Campidoglio, ove fin da’ tempi del prisco Tarquinio quelle tre sovrane deità come tutelari della Repubblica erano in grandissima venerazione. E ben Giove predisse che, mutato consiglio, Giunone dovea un dì prender Roma a proteggere ; e che quivi a lei più che ad ogni altro nume si sarebbero resi grandissimi onori(2).

Eolo(3) riceve gli ordini della Regina de’ cieli colla sommessione di un suddito rispettoso innanzi alla sua sovrana ; e le dice ch’è tutta sua mercè se gode del favore di Giove, se ha l’impero de’ venti e siede alla mensa de’ Numi. Il che può spiegarsi dicendo che per beneficio di Giunone, cioè dell’aria, Eolo signoreggiava i venti, perchè l’aria agitata è quella che li produce. Di quest’Eolo fu fig. Etlio, il quale da’ più dicesi fig. di Giove e di Protogenia, fig. di Deucalione e di Pirra. Etlio da Giove fu ammesso in cielo ; ma perchè osò trattar Giunone con poco rispetto, ne fu da Giove medesimo cacciato e confinato giù nell’Inferno.

Abbiamo pure un argomento della grandezza di Giunone in quel che dicono i poeti d’Iride. È vero che in Omero(4) Ebe pone le ruote al cocchio di Giunone, e vi attacca il bel giogo e le leggiadre pettiere ; ma propriamente Iride era l’intima di lei cameriera e la sua messaggiera fedele(5). Giunone la pose in cielo in ricompensa de’ servigi prestatile, ed essa stava sempre assisa presso al trono della Dea, pronta ad eseguire gli ordini suoi ; e quando moveva a fare le imposte cose, tutta facevasi bella di mille colori, ed invisible ad occhio mortale, col suo piede di rose segnava velocemente quel sentiere arcuato di più colori che in tempo di pioggia si vede nell’aria di riucontro al sole, detto arco baleno o {p. 81}celeste, ed Iride(1). Essa avea la cura dell’appartamento della nostra Dea, le preparava il letto e la vestiva ; e quando ritornava dall’inferno in cielo, con profumi e con certe sue acque la purificava(2). Nell’Eneide(3) Giove spedisce Iride per significare a Turno la sua volontà ; e Giunone la manda all’infelice Didone per reciderle il crine fatale e così accelerarle la morte(4). Vogliono che Iride fosse fig. del Ponto e della Terra, perchè l’Iride o arco baleno colle sue estremità o corna attigne le acque dal mare. Esiodo dice che nacque da Taumante, che in greco significa ammirabile, perchè non vi è cosa più ammirabile di quell’arco formato dalle gocce di acqua di una nube posta di rincontro al sole ; e da Elettra, che significa splendore del sole. Come Giunone è la Dea dell’aria, così Iride n’è la messaggiera, perchè l’arco-baleno mostra le mutazioni dell’aria. Omero le dà il soprannome di piè-leggiera.

VIII. Varie incumbenze di Giunone. Fortuna. Pluto. §

Come Giunone era la Dea de’ regni e delle ricchezze, così sembra a lei potersi congiungere la Fortuna, la quale dispensava a’ mortali le ricchezze ed ogni altro bene temporale, e che dal Guidi chiamasi superba al par di Giuno. Era essa là Dea della buona e della trista sorte, la quale presedeva a tutti gli avvenimenti, e distribuiva, a seconda del proprio capriccio, il bene ed il male, e specialmente le ricchezze. Virgilio(5) la chiama onnipotente, aggiunto che dà pure a Giunone. Da’ Latini dicevasi Fors, e τυχη da’ Greci, la quale voce non trovasi in Omero ed in Esiodo, per cui il nome Fortuna dovea essere sconosciuto agli antichi. Essa chiamavasi signora degli uomini, e si credeva volubile, cieca, incostante e protettrice {p. 82}degl’indegni ; percui malvagia appellasi da Giovenale ; e da Cebete, non solo cieca, ma sorda ancora ed insana. Quindi la dipingono calva, cieca, colle ali a’ piedi, uno de’ quali appoggiato al di sopra di una ruota, e l’altro, sospeso in aria. Da ciò la frase, essere al colmo, o nell’infimo della ruota di Fortuna. La rappresentavano pure con un sole ed una luna crescente sul capo, ed appoggiata ad un timone, per indicare ch’essa regola, quasi pilota, la nave degli avvenimenti umani, o perchè presedeva alla navigazione. In una statua la Fortuna tiene nelle mani un cornucopia, segno dell’abbondanza, ed a Tebe si rappresentava nell’atto di condurre per mano, in forma di fanciullo, Pluto, Dio delle ricchezze, ponendo il Dio delle ricchezze fra le mani della Fortuna. Questo Pluto reputavasi il genio e quasi il presidente delle ricchezze ; e spesso si adopera per le dovizie stesse ; nè deesi confondere con Plutone, Dio dell’Inferno. Nel Timone di Luciano, Pluto si finge zoppo, allorchè da Giove è mandato ad arricchire alcuni, pe’ quali giunge sì tardi che spesso li trova invecchiati ; alato al contrario e più veloce degli uccelli, quando vuole abbandonare la casa di altri ; e ciò perchè le ricchezze tardi ed a stento si acquistano, e se non ne usi con moderazione, prestamente sen vanno via. Pluto rappresentavasi anche cieco, perchè spesso veggonsi ricchissimi i ribaldi, e poveri gli uomini dabbene.

Ritornando alla Fortuna, negli scavi di Pompei si è ritrovata una statuetta di argento che rappresenta la Fortuna vestita di tunica talare, con un diadema ornato della mezza luna e del fior di loto, i capelli fluttuanti su gli omeri ; un timone nella destra ; il corno dell’abbondanza, nella sinistra ; ed una smaniglia figurata di un serpente le cinge il braccio diritto. Alla Fortuna da Orazio(1) si attribuisce un grosso chiodo o per significare la fermezza di lei, o per esprimere la forza e la potenza della necessità, che spesso accompagna la Fortuna.

A Roma la Fortuna avea non pochi tempii ; e {p. 83}gl’Imperatori nelle loro stanze aveano una statuetta d’oro della Fortuna detta aurea, ch’era il Genio de’ Principi. I comandanti nel partir per la guerra sacrificavano alla Fortuna, dalla quale principalmente credevano dipendere gl’incerti avvenimenti della guerra. Il motto di Cesare era : Virtute duce, comite Fortuna ; ed i Romani dicevano che la Fortuna avea stabilita l’eterna sua dimora in Roma, ove sul Palatino, deposte le ali, avea gettata la ruota, avendo prima abbandonato gli Assiri ed i Persiani, e poscia Alessandro il grande ed i suoi successori. Giova infine avvertire che il Fato dicevasi in riguardo agli Dei ; la Fortuna, per riguardo degli uomini. Tutto ciò che accade, dicevano gli antichi, è da’ Numi con immutabile legge del Fato stabilito ; ma gli uomini, lontani dal consorzio degli Dei ed ignoranti del futuro, nel vedere la serie degli avvenimenti che accadono contra ogni aspettativa, hanno inventata la Fortuna.

Giunone presedeva pure a’ matrimonii ed a tutte le cerimonie che li riguardavano ; ed anticamente i mariti chiamavan Giunoni le loro mogli, come queste, Giovi i loro mariti(1). Essa accompagnava la sposa alla casa del marito, e presedeva alla cerimonia, con cui la sposa ungeva la porta della casa di suo marito prima di entrarvi, in segno che dovea recarvi l’abbondanza. Avea particolar cura degli ornamenti delle donne ; e Giunoni furon detti i Genii delle donne ; percui una donna giurava per la sua Giunone, come un uomo, pel suo Genio(2). Ella soprantendeva a’ parti, e però a lei le donne incinte facevan voti per la felicità del parto, ed a lei si raccomandava la prole. I Greci davano un tal carico a Diana, detta perciò Lucina.

Le calende di ciascun mese, anzi tutt’i mesi, erano consacrati a Giunone, come gl’idi a Giove, perchè(3) gli antichi per Giunone intendevano la luna, il corso della quale regola i mesi.

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IX. Iconologia di Giunone. §

Da Pindaro(1) si chiama Giunone la Dea che siede sull’aureo trono. Il pavone è sì proprio di lei, che nel cerchio marmoreo de’ dodici Dei co’ segni zodiacali, già Borghese, ed ora nel Museo di Parigi, basta sol esso per indicarla. Appresso Fulvio Orsini si vede Giunone tutt’armata e collo scudo ; ed in Elide veneravasi armata (Ηρα οπλοσμια). I Latini le davano l’asta ; ed è nota la Giunone Curite de’ Sabini, di cui parla Servio.

Nel tempio di Platea era una statua di Giunone in piedi e maggiore del naturale, opera di Prassitele, il quale fu il primo a dare lo sfendone a questa Dea. Era esso un ornamento del capo a guisa di corona, detto volgarmente diadema, che usavasi dalle donne greche ; il quale come le fionde (σφενδονη, funda), era più alto nel mezzo o sopra la fronte, e si andava restringendo verso l’estremità laterali, dov’erano i nastri per legarsi.

Giunone il più dipingesi collo scettro di oro, qual Regina del cielo(2), come vedesi nella bellissima Giunone del Museo Pio-Clementino, una delle più perfette statue vestite che l’antichità ci abbia dato, in cui si ammira la grazia de’ contorni, la bellezza e la maestà de’ grandi occhi, per cui fu chiamata boope, e la sublime nobiltà de’ lineamenti del volto. In un intonaco di Pompei, oltre lo sfendone, lo scettro ed il pavone, vi è pure un piccolo simulacro della Vittoria su di una colonna ; e Cicerone rimproverava a Verre di aver tolto alcune Vittorie di oro ch’erano nel tempio di Giunone a Malta. Si noti che lo sfendone non era di metallo, ma tessuto o lavorato a rete. « Giunone, dice il ch. Winckelmann(3), oltre il diadema rialzato a modo di collina, è riconoscibile agli occhi grandi ed alla bocca imperiosa, i cui tratti sono sì particolarmente proprii a questa Dea, che ad {p. 85}un semplice profilo rimasto di una testa muliebre in un guasto cammeo del Museo Strozzi, pe’ tratti della bocca giudicar si può sicuramente esser quella una Giunone. »

Massimo Tirio(1) dice che Policleto fece in Argo una statua di Giunone, colle braccia bianche o di avorio ; dal bell’occhio ; dalla veste di vario ricamo ; di regal sembiante ed assisa su trono di oro. Nella Galleria Giustiniani, a Giunone si dà quell’ornamento muliebre detto credemno, o teristrio (θεριστριον, ο ιματιον). La Giunone di Samo avea sul capo la corona, per cui chiamavasi Giunone la Regina, ed era coperta di un gran velo nel rimanente del corpo. In una moneta de’ tempi di Gordiano vedesi Giunone Samia in piedi col velo e col modio. Velata era pure la sua statua che nel Campidoglio si venerava, come da’ medaglioni di Adriano apparisce, ne’ quali si rappresentano le tre divinità Capitoline. Giunone Lucina in un’antica moneta dipingesi in forma di matrona che sta ritta in piedi, avendo una tazza nella destra, ed un’asta nella sinistra colla iscrizione : Iunoni Lucinae. E perchè questa Dea era il Genio delle donne, per ciò ne’ vasi etruschi si vede spesso dipinta in forma di leggiadra ed alata giovinetta.

X. Principali epiteti di Giunone. §

Iuno Argiva, detta dalla città di Argo a lei cara, ove in suo onore celebravansi alcune feste (ηραια) col sacrificio di un’ecatombe. Nella statua di Giunone Argiva(2) la Dea si rappresenta assisa sul trono, di straordinaria grandezza e tutta di oro e di avorio colla corona sul capo, tenendo nella sinistra una melagrana, e nella destra lo scettro. Vi erano le Grazie e le Ore bellamente scolpite ; ed era opera di Policleto.

Iuno aspera, atrox, iniqua, saeva, torva ; epiteti che spesso si danno a Giunone, specialmente nell’Eneide, pel {p. 86}suo carattere orgoglioso e vendicativo, e quindi crudele ed ingiusto.

Βοωπις, occhigrande, che ha gli occhi di bue. Appresso i Greci gli occhi grandi reputavansi i più belli ; quindi(1) avere gli occhi di Giunone vuol dire averli grandi e belli. Viene da βους, βοος, bos ed ωψ, ωπος, oculus.

Iuno Gabina ; detta così perchè era in grande onore presso il popolo di Gabio, antica città nella campagna di Roma(2).

Iuno Gamelia, Γαμηλια (a γαμος, nuptiae) ; Ζυγια (a ζυγος, iugum) ; Iuno Pronuba, Iuga, Nuptialis, così detta, perchè soprantendeva alle nozze. Dicevasi pure Ηρα τελεια, Iuno praeses nuptiarum (a τελος, matrimonium) ; Domiduca, come quella che accompagnava la novella sposa alla casa del marito ; Matrona, da Orazio ; e Materfamilias, da Plauto(3).

Iuno Kalendaris ; perchè a lei era consacrato il primo giorno di ciascun mese.

Iuno Lacinia. da un promontorio del Bruzlo, oggi Capo delle colonne, antic. Lacinium, detto da Lacinio, masnadiere ivi ucciso da Ercole, che poscia vi fabbricò un superbissimo tempio a Giunone, ch’era in venerazione presso tutt’i popoli circonvicini(4).

Iuno Lucina, detta o a lucis, da’ sacri boschi a lei dedicati ; o meglio a luce, perchè coll’aiuto di lei i bambini uscivano alla luce del giorno ; e però dicevasi pure Iuno natalis, perchè assisteva alla nascita degli uomini. Le donne nel giorno della loro nascita sacrificavano in di lei onore, come gli uomini, al loro genio(5). Ma sul nome Lucina vi è non poca confusione negli antichi scrittori. Solo può dirsi che le donne greche nel parto invocavano Diana Ilitia ; e le romane, Giunone Lucina. Cicerone(6) dice che come {p. 87}appresso i Greci nel parto s’invocava Diana Lucina o Lucifera, così in Roma si rivolgevano a Giunone Lucina. Pindaro(1) invoca Lucina o Ilitia, e la chiama figliuola della potente Giunone ; ed Esiodo dice che questa Dea partorì Ebe, Marte ed Ilitia o Lucina.

Iuno Moneta, detta a monendo, perchè ammonì i Romani di sacrificare una troia gravida per divertire i mali minacciati da un tremuoto in tempo della guerra cogli Aurunci. Allora le fu dedicato un tempio.

Iuno Samia, dall’isola di Samo, celebre per la nascita, per le nozze e pel tempio di Giunone.

Iuno Saturnia, o solo Saturnia, perchè figliuola di Saturno.

Iuno Unxia, dall’antico costume de’ Romani, presso a’ quali la sposa novella ungeva l’imposta della porta, quando entrava nella casa dello sposo.

XI. Alcune altre cose di Giunone. §

Il pittore Zeusi, ad istanza de’ Crotoniati, abbelli con insigni pitture il tempio di Giunone Lacinia da loro tenuto in somma venerazione. E per uso di esso dipinse un’Elena, che rappresentar dovea il più perfetto tipo della bellezza ; percui copiò da più sembianti quel che ciascuno avea di più leggiadro e perfetto. Terminata l’opera, e conoscendone l’eccellenza, non aspettò che gli uomini ne giudicassero, ma tosto vi appose quel verso di Omero :

Volto ha simile alle immortali Dee.

Nicomaco pittore veggendola ne stupì : accostossegli un certo goffo ed interrogollo perchè ne facesse tanti miracoli : Non me ne domanderesti, diss’egli, se tu avessi i miei occhi : pigliali e parratti una Dea(2). Malamente Plinio(3) dice che ciò avvenne a Girgenti.

{p. 88}Giunone avea al suo servigio quattordici bellissime Ninfe(1) ; ma più che di ogni altra, ella servivasi dell’opera d’Iride, sua fedele messaggiera, come abbiam detto. Il suo cocchio era portato leggermente per l’aria da’ pavoni ch’erano sacri alla nostra Dea, per essere uccello superbo di se stesso ed ambizioso. Secondo Buffon il pavone non è il solo uccello consacrato a Giunone. « I poeti, egli dice, hanno dedicata l’aquila a Giove, e l’allocco, a Giunone. Questo difatti è l’aquila della notte, e il re di quella tribù di uccelli che temono la luce del giorno e volano soltanto quando è spenta ». Lo sparviere ed il passere l’erano pur consacrati, e qualche volta veggonsi presso le sue statue. I Greci le offerivano il dittamo ed il papavero, allorchè la consideravano come Giunone Lucina, ed anche la melagrana, e con siffatte piante ornavano le sue immagini. La vittima a lei più spesso sacrificata era l’agnella ; le vacche non mai, perchè, nella guerra de’ giganti contro gli Dei, Giunone erasi nascosta in Egitto sotto la figura di una vacca.

Giunonie si chiamavano alcune feste Romane in onore di questa Dea. Si vuole che Giano avesse introdotto in Italia il culto di lei, il quale era molto diffuso presso gli antichi popoli, ma a principio in Argo era figurata con una semplice colonna, perchè tutte le prime statue degli Dei consistevano in pietre informi. Le sacerdotesse di lei le tessevano delle corone, e coprivano i suoi altari di un’erba che nasceva nel fiume Asterione, sulle cui rive era il tempio e la fontana Eleuteria, da cui si attingeva l’acqua solo pe’ sacrificii e pei segreti misteri.

Un culto assai celebre se le prestava in Olimpia, ove ogni anno si facevano de’ giuochi in di lei onore, a’ quali soprintendevano sedici donne, e schiere di donzelle si disputavano il premio della corsa nello stadio degli olimpici giuochi, ch’era una corona di ulivo. Quelle donne ricamavano un velo o stoffa detta peplo, che consacravano a Giunone. Nel tempio della Dea ad {p. 89}Olimpia era descritto il fatto de’ due fratelli Cleobi e Bitone, i quali, vedendo che la madre Cidippe andava al tempio su di un carro tirato da buoi, percui non vi potea giungere all’ora disegnata, si posero essi a tirare il carro, e ricondotta la madre a casa nella stessa guisa dopo il sacrificio, ella pregò la Dea che in premio di ciò concedesse a’ figliuoli il maggior bene che può toccare all’uomo. Si addormentarono essi placidamente di un sonno, da cui mai più non si svegliarono ; con che significò la Dea, niuna cosa esser maggior bene all’uomo che il morire(1).

Minerva o Pallade §

I. Diversi nomi dati a questa Dea e lor ragione. §

Questa Dea ebbe due nomi principali, Minerva, e Pallade. Il primo davasi propriamente alla Dea che presiede alle scienze, detta da’ Greci Αθηνα, sulla origine della quale voce non convengono gli eruditi. Minerva poi è parola latina, così detta o perchè, come dea della guerra, diminuisce il numero degli uomini(2) ; o perchè colle sue armi inspira timore e sembra di minacciare (quia minatur. Cic.). Cornificio pure afferma che dicesi Minerva, perchè dipingesi minaccevole nelle sue armi (minitans armis). Altri finalmente dalla memoria derivano il nome di Minerva, quasi Meminerva ; ed ognun sa che gli antichi aveano Minerva per la memoria, o per figliuola di quella.

Questa Dea poi chiamavasi Pallade (Pallas), da un verbo greco (παλλειν) che significa vibrare l’asta, perchè quantunque Minerva, Pallade ed Atene sieno presso gli antichi una medesima divinità ; nulladimeno Minerva o Atene era la Dea delle scienze e delle arti, e Pallade, la Dea della guerra. Da Omero però è quasi sempre chiamata Pallade Minerva (Παλλας Αθηνη).

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II. Storia favolosa di Minerva. §

Cicerone(1) conta sino a cinque Minerve, le quali ordinariamente si confondono dagli antichi poeti. Riguardo al nascimento di lei, alcuni la vogliono nata da Giove e da Metide ; e presso Eusebio si dice figliuola di Giove e di Temi. Stesicoro fu il primo che finse, Minerva esser nata dal cervello di Giove ; e Luciano in un suo dialogo lepidamente introduce Vulcano che con una scure ben affilata sta innanzi a Giove e da lui riceve il comando che con quella gli aprisse il capo ; e che Vulcano, dopo lungo ricusare, s’induce finalmente a dare il gran colpo, pel quale dal divin capo uscì una Vergine armata da capo a piedi, che scuoteva lo scudo ed agitava l’asta ; di età matura e bellissima, benchè di occhi azzurri. Anche Esiodo racconta che Giove, quando niun’altra cosa avea prodotto, partorì dal suo cervello Minerva, uguale al padre sì nella potenza che nel consiglio, ed indomabile signora degli eserciti, che chiamavasi Tritone o Tritogenia. Quindi negl’inni di Orfeo appellasi figliuola unigenita (μονογενης) del Dio sovrano, uscita del capo di lui. Pindaro(2) volendo lodare l’isola di Rodi, cara a Minerva per le belle arti che vi fiorivano e per la doviziosa felicità di cui godeva, finge nobilmente che quando dal cervello di Giove, per un colpo di mannaia datogli da Vulcano, uscir dovea Minerva, essa, secondo ch’era scritto ne’ libri del Fato, sarebbe rimasta presso quel popolo, il quale subito nata le avesse offerto de’ sacrificii. Di ciò il Sole fece intesi i suoi figliuoli, cioè que’ di Rodi, affinchè fossero stati i primi a far sacrificii alla nata Dea. Ma quelli saliti sulla rocca dimenticarono di portar seco il sacro fuoco, e però furono dagli Ateniesi prevenuti ; percui Minerva pose la sua sede in Atene. Ma Giove conoscendo la buona disposizione dell’animo loro, fece piovere su quell’isola bella pioggia d’oro per irrigarne il beato suolo ; e Minerva fu anche con loro liberale de’ suoi doni, percui si {p. 91}resero famosi nella scoltura, vedendosi nelle loro strade statue di uomini e di animali, che sembravano aver moto e vita.

Pallade(1) uscita appena del cervello di Giove, si mostrò nella Libia, che credevasi la più antica terra del mondo e più vicina al cielo, come argomentavano dal gran calore di quella regione ; e quivi nelle acque della palude Tritonia si specchiò, e paga di se volle chiamarsi Tritonia : e però nelle vicinanze di quella palude, nel giorno natale della Dea, molte vergini donzelle il celebravano con diverse specie di giuochi. Ma Omero dice che in Alalcomenio, città di Beozia, nacque Minerva ; e che un Beozio chiamato Alalcomeno allevò quella Dea e le consacrò un tempio ed una statua di avorio, la quale fu da Silla recata a Roma.

Eusebio vuole che vi era una donzella nelle vicinanze del lago Tritone, nell’Africa, o del fiume Tritone, in Beozia, famosa per le opere di lana ; e perchè le arti son frutto della mente, si finse ch’ella era nata dal cervello di Giove. L’opinione più comune è che Minerva sia stata fig. di Cecrope, primo re di Atene, e che si crede il Giove degli Ateniesi ; e perchè ella valeva assai nelle lettere e nelle arti, e forse ancor nelle armi, dopo la sua morte fu tenuta come una Divinità che alle belle lettere ed alle armi soprantende, e ch’era uscita del capo di suo padre. Ma più veramente volevano dirci i poeti, che le scienze e le arti, alle quali Minerva presiede, non sono già un ritrovato dell’ingegno umano, ma piuttosto un parto del capo di Giove, cioè dell’inesausta fonte della mente e sapienza divina.

Minerva è pur qualche volta celebrata per l’avvenenza della forma ; ma di rado i poeti ne lodano la chioma di bellezza. In Tibulto vi è chi giura pe’crini di Minerva, come in Properzio si giura per gli occhi di questa Dea(2). La sua chioma poi era bionda al dir di Stazio(3).

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III. Potenza e maestà di Minerva. Aiace di Oileo. §

Fra tutt’ i Numi, Minerva più si avvicinava a Giove, il quale de’ consigli di lei sempremai si avvaleva. Quindi nel tempio di Giove Olimpico era una statua che lo rappresentava sopra il suo trono con Minerva a lato(1) ; ed il poeta Aristide(2) chiama la nostra Dea vicinissima a Giove. Per ciò Minerva(3) adoravasi a Roma nel tempio Capitolino alla destra di Giove, che avea Giunone alla sua sinistra. Essa, dice il citato Aristide, sopra gli altri figliuoli di Giove, sola ha conseguito tutte le prerogative e tutti gli onori ; e dal coro de’ Tebani presso Sofocle prima s’invoca Minerva, l’immortale figliuola di Giove, e poscia Diana ed Apollo(4).

Minerva, secondo il pensare di Omero, era l’intelletto stesso e la provvidenza di Giove(5) ; ed Esiodo dice che quella Dea ha una potenza ed una intelligenza simile a quella del Padre de’ Numi(6). Quindi si disse(7) che Minerva era la forza stessa di Giove ; che tutto era comune a lei con quel Nume di modo che quanto essa disponeva, tutto era dal suo cenno divino comprovato. E però Omero ne’ suoi poemi rappresenta Achille, Ulisse e tutti gli eroi che per valore e per senno sopra gli altri si alzarono, sotto la speciale protezione della nostra Dea. Fra i quali vuolsi ricordare il giovane Telemaco, al quale la Dea della sapienza, sotto le sembianze ed il nome di Mentore, si fece, nella varia sua fortuna, fedelissima scorta. E con ciò i poeti volevano significarci che la divina sapienza i grandi nomini, ne’ fortunosi accidenti scorge a gloriosa meta.

{p. 93}In segno della sua potenza davasi a Minerva anche il fulmine, ma di minor forza che quello di Giove ; e però quando volle vendicarsi di Aiace, il dimandò a quel Nume e lo scagliò, chè il suo non valeva a distruggere la flotta de’ Greci, de’ quali tutte le calamità sofferte nel ritorno alle lor patrie dopo l’eccidio di Troia, da Omero(1) a Minerva principalmente si attribuiscono, come Virgilio(2), quello di Aiace, fig. di Oileo, re de’ Locresi, il quale con venti navi andò cogli altri principi Greci alla guerra di Troia. Per aver egli profanato il tempio di Minerva, dopo la rovina di quella città, sdegnata la Dea gli eccitò contro gran fortuna di mare, e le sue navi ruppero presso il promontorio Cafarea, sul quale essendosi egli rifuggito, Minerva scagliò il fulmine di Giove e fece morire il sacrilego Aiace divorato dalle fiamme. Secondo Omero(3), Aiace, dopo molti pericoli si salvò sullo scoglio Cafarea, ove avendo detto che anche a dispetto de’ Numi ne sarebbe uscito libero, fu da Nettuno adirato ad un grande scoglio sbattuto, e morì inghiottito dalle onde ; percui chiamossi lo scoglio di Aiace.

Altro argomento della potenza di questa Dea è il sapere che quando Prometeo di fango formò il corpo dell’uomo, Minerva, cioè la divina sapienza, v’infuse quel soffio celeste ch’è l’anima(4). Quindi nell’uomo tutte le cose, nelle quali più chiaro si scorge vigore d’intelletto ed un non so che di divino, eran soliti gli antichi di attribuirle a Minerva. E pare che per ciò abbian detto i poeti che non debbasi imprendere opera alcuna se non siamo inspirati, per così dire, e condotti da Minerva(5). Da ciò pure venne la frase, fare un’opera crassa Minerva, cioè grossolanamente(6) ; e quell’altra di Petronio, omnis Minervae homo, per dire un uomo ingegnosissimo.

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IV. Minerva, Dea delle scienze e delle arti. Atene. §

Essendo che Minerva nacque dal cervello di Giove ; e l’ingegno o la sapienza dell’uomo, con cui regge le cose e fa le grandi scoperte nelle scienze e nelle arti, risiede nel capo ; avvedutamente dissero i poeti che Minerva era la Dea delle scienze e delle arti ; che a lei si doveano le utili scoperte ; e che le lettere ed i letterati erano sotto la guardia e tutela di lei. Da ciò pure avvenne che questa Dea fu qual signora e protettrice venerata singolarmente dagli Ateniesi. Celebre ne’ poeti è la gara fra Nettuno e Minerva pel nome che dar si dovea alla novella città di Atene, percui cantò l’Alighieri :

……. se tu se’ sire della villa,
Del cui nome ne’ Dei fu tanta lite,
E onde ogni scienzia disfavilla.

Secondo Apollodoro, a tempo di Cecrope, usavan gli Dei scegliere le città, nelle quali volevan essere in più special modo venerati. Nettuno fu il primo a venire nell’Attica ; e piantato a terra il suo tridente, fece ov’era Atene, uscire un braccio di mare. Venne poscia Minerva, ed alla presenza di Cecrope piantò un verdeggiante e bellissimo ulivo. Di ciò fu gran piato fra loro a chi dovesse dare il nome alla novella città ; e per decidere sì gran lite, sedendo Giove in mezzo a’ primarii Numi, sulla testimonianza di Cecrope, sentenziò per Minerva, la quale chiamò la città Atene (ab Αθηνη, Minerva) dal suo nome, e se l’ebbe cara, e le piacque averla nella sua special tutela. Varrone(1) però racconta che, regnando Cecrope, nacque da se un ulivo nella cittadella di Atene, e presso a quello, una copiosa vena di acqua. Si consultò l’oracolo, ed Apollo rispose, l’ulivo significare Minerva, e l’acqua, Nettuno ; che quegli Dei contendevano a chi dovesse dare il nome alla città e che spettava al popolo il giudicare qual de’ due Numi avesse a vincerla. Ragunati i cittadini allo squittino, gli uomini {p. 95}tennero per Nettuno, e per Minerva, le donne. La quale vinse per un suffragio di più ; e però Nettuno adirato coprì di acqua il paese dell’Attica. Virgilio dice(1) che nella contesa fra Minerva e Nettuno, questi con un colpo del suo tridente fece uscir della terra un fremente destriero. Plinio dice : In Atene dura ancora un ulivo, il quale vuolsi che sia quello che fu fatto nascere da Minerva, quando ella venne a contesa con Nettuno.

Il capo di Minerva era il tipo delle medaglie di Atene, la quale tenevasi dagli antichi per la sede delle scienze e delle arti, e per maestra delle altre città. Forse Cecrope approdato nell’Attica, ed avendo ritrovato gli uomini del paese dediti al culto di Nettuno, cioè inchinati alla navigazione ed al corseggiare, si studiò a suo potere d’introdurre fra quella gente il culto di Minerva, o sia l’amore delle arti e dell’agricoltura. Da ciò venne grande ribellamento di quel popolo fiero, che Cecrope s’ingegnò di acchetare col trarre dalla sua parte principalmente le donne. E ciò vuol dire la vittoria dell’ulivo di Minerva.

V. Continuazione. Aracne. Tiresia. Invenzione del flauto. §

Minerva adunque tenevasi per la Dea delle arti, del lanificio, del tessere e del ricamo(2), come l’Iside degli Egiziani, e l’Aracne de’Lidii. Or questa fu una giovinetta d’ignobili natali, fig. d’Idmone, di Colofone, il quale tingeva la lana di porpora. Il soggiorno di quella valorosa era Ipepa, oscura terra della Lidia ; ma la fama delle sue opere maravigliose andava sì grande per quelle contrade che spesso le ninfe del Tmolo, e quelle dell’aureo Pattolo andavano a vedere l’industriosa Aracne o aggomitolare la lana, o avvolgerla al fuso, o far bellissimi ricami. Ma una gran maestria di rado è disgiunta da cieco orgoglio. Aracne non dubitò di provocare Minerva, con soggettarsi, se vinta fosse, ad ogni {p. 96}gastigo. Si viene al cimento, ed imprendono a tessere ciascuna un nobilissimo drappo istoriato di varii favolosi racconti. L’infelice Aracne tutta si studiò di vincere la sua divina rivale, e fece un broccato da reggere al paragone con quello di Minerva. Ma la Dea gelosa motteggiò l’opera di Aracne, e dispettosamente colla spola le percosse la fronte ; percui quella, non sofferendo sì villano oltraggio, volle finir con un laccio. Di ciò ebbe pietà Minerva e trasformolla in ragno. Il quale animaletto tesse una tela finissima di sì bello e maraviglioso artifizio che ha dato occasione a’poeti di foggiare quell’Aracne industriosa, che da Minerva fu trasformata in ragno e che pur non lascia di esercitare l’arte sua prediletta, tessendo tuttavia quella tela di sì mirabil lavoro. Ed in greco aracne vuol dire il ragno e la sua tela. (Suida).

E incerto a qual Nume debba attribuirsi l’acerbo fato di Tiresia, Tebano e figliuol di Evero o di Peneto, e della ninfa Caricle. Al quale ancor giovinetto, mentre coi veltri andava per que’ sacri boschi discorrendo, avvenne di veder Pallade al fonte d’Ippocrene(1). E come niun mortale potea impunemente rimirare gl’immortali Dei, così Minerva subito il fece cieco. Ma mossa a pietà delle lagrime della dolente madre del giovanetto, il quale per caso avea commesso quel fallo, per mitigarne il dolore, fece che il figliuolo, privo degli occhi del corpo, fosse assai veggente delle future cose ; per cui divenne insigne indovino per quelle contrade. Ebbe ancora lunga vita di sette o di otto secoli ; e al dir d’Omero(2) gli fu pur concesso che nell’inferno egli solo avesse senno ed accorgimento, e che tutti gli altri vagassero a modo di ombre.

Alla Dea delle arti attribuivasi ancora l’invenzione del flauto (tibia), alla quale(3) diedero occasione i lamenti di Steno e di Euriale, ed i sibili de’ serpenti con quelli mischiati, quando Perseo, coll’aiuto della nostra {p. 97}Dea, troncò il capo della foro sorella Medusa. Allora fu che Minerva, dice il Poeta, ai labbri recossi

La dolce tibia, e sopra i fori mosse
Le dotte dita, ed imitò col canto
Delle Gorgoni audaci il tristo pianto.

Igino però racconta che Minerva la prima fece il flauto di un osso di cervo ritrovato a caso. Lo suonò alla tavola degli Dei, e ne fu con riso schernita da Giunone e da Venere, perchè, con que’ suoi occhi azzurri e colle gote gonfie, appariva deforme a quelle Dee. Ne fu dolente Minerva, la quale andata a specchiarsi in una limpida fontana del monte Ida, vide che non era senza ragione derisa ; percui sdegnosa gettò via il flauto, e pregò male a chiunque osato avesse suonarlo. Il che avendo fatto il satiro Marsia, nella gara con Apollo pagò il fio del suo ardimento, come nell’articolo di quel Nume diremo. I suonatori di flauto (tibicines) veneravano la Dea nel dì festivo detto Quinquatria. (Festo).

VI. Continuazione. Minerva difenditrice delle città e conservatrice della salute. §

Minerva presedeva alle opere fabbrili. Argo, la prima nave che portò Giasone alla conquista del vello d’oro, fu opera di lei, o di Giasone medesimo, ma sotto la direzione della Dea della sapienza ; perchè la divina sapienza è quella che le umane menti dirige nelle memorande ed utili scoperte, qual’è quella delle navi. Prima della spedizione degli Argonauti vi erano già navi al mondo, sapendosi che molte colonie del continente eran passate ad abitare rimote isole(1) ; e che Minos II, re di Creta, che visse 120 anni prima degli Argonauti, con una flotta liberò il mare Egeo da’ corsari, e s’impadronì delle Cicladi. Ciò non ostante i poeti dicono che la prima nave che solcato avesse il mare, fu la nave Argo, chiamata da Fedro opera Palladia(2). Giasone, al ritorno della sua {p. 98}spedizione, consacrò questa nave a Minerva, che la collocò fra le stelle.

Il cavallo che riuscì sì fatale a Troia, fu eziandio per opera e per consiglio di Minerva fabbricato(1). Epeo, fig. di Panopeo, fu il fabbro della gran machina, sulla quale i Greci scrissero queste parole : A Minerva, protettrice delle armi, i Greci già vicini a partire questo dono consacrano. Ma lo Scoliaste di Omero afferma che il cavallo Troiano fu un trovato di Ulisse, il quale in ogni sua azione era dalla Prudenza, cioè da Minerva, diretto ; e che però ebbe dal poeta l’epiteto di sterminatore di città. Si osservi che un artefice, il quale lavora di legno, da Esiodo si chiama servo di Minerva.

Molte altre erano le arti e le invenzioni attribuite a questa Dea(2) ; e però gli artefici a lei porgevano le loro preghiere. A lei si attribuisce l’invenzione del tessere, per cui la frase operari Minervae significa dare opera al telaio(3). Presedeva pure al lanificio, percui in Atene a lei si sacrificava la pecora. Ed in Omero per opera di Minerva s’intende il lanificio ed il tessere. Avean anche Minerva per protettrice i lavatori o purgatori de’ panni (fullones), i calzolai, i pittori, gli scultori, ed i maestri di scuola. I discepoli nel mese di Marzo pagavano lo stipendio a’ maestri, il quale da Minerva chiamavasi minerval, e davasi prima delle feste di Minerva dette Quinquatria, nelle quali gli scolari non andavano alle scuole, ed i maestri novelli offerivano le primizie de’ loro studii ad una immagine di Minerva che ponevano ne’ ginnasii.

Anche la medicina era sotto la tutela della nostra Dea(4), percui spesso chiamasi Conservatrice della sanità e della vita degli uomini. Pericle fece innalzare in Atene una statua a Minerva Salutare. L’arte della guerra più che ogni altra apparteneva a questa Dea. Esiodo fa uscir Pallade dal cervello di Giove, e la chiama Tritonia dagli occhi azzurri, e la dipinge vispa, violenta, indomabile, {p. 99}amante del tumulto, della guerra e de’ combattimenti ; il quale carattere non conviene alla Dea delle scienze e delle arti.

Ella infine era la protettrice e la custode delle città. L’acropoli, o cittadella di Atene fu opera delle sue mani ; ed in Eretria era un tempio consacrato a Minerva Poliade o custode di città. Al dir di Pausania, i Trezenii le diedero il nome di Poliade, perchè erasi dichiarata protettrice della loro città di accordo con Nettuno.

VII. Minerva la stessa che l’Iside degli Egiziani. Areopago di Atene. §

Il Sig. di Santa Croce nel suo libro su i Misteri del Paganesimo, si studia di dimostrare che i Greci foggiarono la loro Minerva sul tipo dell’Iside di Egitto. Di fatto Platone ed Erodoto(1) affermano che Minerva era l’Iside venerata a Sais, città di Egitto, sotto il nome di Neith. La civilizzazione, come dicono, del genere umano, e quindi le prime leggi e l’agricoltura si attribuiscono ad Iside ; e così Minerva trasse dalla barbarie i popoli dell’Attica, loro dando delle leggi, da cui venne l’agricoltura. A Sais Iside era rappresentata come una donna che ordisce ; e Diodoro afferma ch’ella proteggeva le arti ; nel che si vede Minerva, inventrice e protettrice di esse. In Ermopoli Iside si credeva la prima delle Muse, e Platone dice che i più antichi canti si attribuivano a quella Dea ; e si sa che il sistro era sua invenzione. Così Minerva inventò il flauto ; e Pindaro chiama la Musica l’arte che inventò Pallade. E Plinio a Minerva attribuisce l’invenzione della lira e della cetra. L’arte nautica dovea molto ad Iside, e nelle sue feste si portava una nave ; ed i Greci dissero che Minerva avea insegnata la maniera di costruire le navi. Minerva presedeva alla guerra ; ed Iside eziandio, tanto che lo scarafaggio che nella scrittura geroglifica significa un soldato, era il simbolo di quella Dea. La città di Sais dicevasi fondata da Iside ; ed Atene fece lo stesso {p. 100}di Minerva, sicchè chiamavasi città di Pallade, e l’Attica, terra di Minerva(1).

Celebre nella greca istoria è il tribunale dell’Areopago (ab Αρης, Mars, et παγος, collis), così detto, perchè assembravasi sul colle di Marte, ch’era non lungi da Atene. Non è qui luogo di favellare della incorruttibile severità di quel tribunale che presso gli antichi ebbe tanta rinomanza di saviezza e di giustizia. Socrate(2) affermava di non conoscere uomini che giudicassero con maggior costanza, onestà e giustizia che gli Areopagiti. Quindi un giudice severo e grave in proverbial modo dicesi un Areopagita. I tragici greci, per secondare la vanità degli Ateniesi e render quel tribunale a tutt’i popoli venerando, presentarono sul loro teatro il magnifico spettacolo dell’Areopago istituito dalla Dea stessa della sapienza per una causa famosa, e nel quale gli Dei stessi erano giudicati. Oreste, dicevano essi, avendo uccisa Clitennestra, sua madre, fu dalle infernali furie assalito. Per liberarsi da’ mostri che notte e giorno il tormentavano, va al tempio di Apollo a Delfo ed implora il soccorso di quel Nume. Apollo lo purifica, e dopo le solite abluzioni e gli offerti sacrificii, gl’impone di andare in Atene e mettersi sotto la protezione di Minerva, pregandola ch’ella stessa lo assolvesse. Oreste ubbidisce e giunge al tempio della Dea, portando in mano un ramo di ulivo. Prostrato all’altare di lei, la prega a liberarlo dalle Furie, che ad onta delle espiazioni, non avean lasciato di tormentarlo. Minerva se gli mostra propizia ; ma non potendo respingere que’ mostri senza un formale giudizio, assicura l’animo dell’infelice Principe dicendo che per suo riguardo istituito avrebbe un tribunale per giudicare gli omicidii, il quale esser dovea perpetuo. « Voi, Eumenidi, dice la Dea presso Eschilo, e tu, Oreste, somministrate le pruove ed i testimoni. Io sceglierò i più sapienti e probi fra gli Ateniesi, e loro affiderò la decisione di questa causa. Essi legati dalla religione {p. 101}del giuramento non tradiranno certamente la giustizia. » Minerva adunque stabilì l’Areopago come il tribunale de’ figliuoli di Egeo, e come il baluardo della Grecia e la salvezza di Atene. Apollo stesso difende la causa di Oreste ; si raccolgono i voti, i quali ritrovati uguali, Minerva diede il suo suffragio in favore del reo, ed egli fu assoluto. Chiamossi questo il suffragio di Minerva (Ψηφος της Αθηνας. Lucian.), e passò in legge a favore di tutti i colpevoli. Gli Areopagiti davano il loro suffragio con alcune pietruzze bianche e nere, le quali mettevansi in due urne, una di rame, chiamata di assoluzione ; l’altra di legno, chiamata di morte. Alcuni storici dicono questo tribunale istituito da Cecrope ; altri, da Cranao, ed altri, da Solone.

VIII. Peplo. Panatenee. Erittonio. §

L’asta, lo scudo e l’elmo erano tanto proprii di Pallade, che per questi soli, nel tempio di Giunone in Elea, il suo simulacro distinguevasi da quelli delle altre divinità. Ma oltre a ciò portava il peplo, ch’era una veste donnesca che mettevasi sopra tutte le altre ed era aperta solo dalla parte davanti, ove affibbiavasi con molti fermagli. Ne’ greci poeti leggiamo l’epiteto dal bel peplo dato a molte donne per loro gran lode ; ed Omero(1) dal peplo e dall’aurea fibbia loda le donne Attiche ; ed anche l’Aurora va lieta del suo croceo peplo (κροκόπεπλος). Questa veste era in gran pregio in guisa che quando una donna a qualche Dea far voleva un’offerta, niuna cosa più accetta e pregevole credeva poterle dare che un bel peplo. Callimaco(2) descrive Pallade e la sua ninfa vestite di peplo ; e Teocrito loda Cerere dal peplo. Omero in più luoghi descrive or Minerva, or Teti, ed ora Venere ornate del loro peplo ; e chiama quello di Venere, più fulgido del fuoco. Allorchè facevasi a Minerva l’offerta del peplo, questo o si gettava addosso al simulacro {p. 102}di lei a guisa di veste, o si deponeva umilmente appiè della Dea(1). Nelle grandi feste Panatenee celebratissima cosa era il peplo di Minerva. Per via di occulte machine portavasi per le strade al tempio della Dea una nave fornita di remi e che per vela avea un peplo. Se questo fosse una veste della Dea, o un arazzo ricamato, non è agevole a definirsi ; ma l’ultima cosa è più verisimile. In quell’arazzo erano istoriate le più belle imprese di Pallade, e principalmente la pugna di lei co’ Titani e co’ Giganti(2).

Queste feste Panatenee erano presso gli Ateniesi quelle stesse che da’ Romani appellavansi Quinquatria. Le maggiori si celebravano ogni cinque anni, e le minori, ogni anno. Si vogliono istituite da Teseo, o da Erittonio, fig. di Vulcano, il quale per avere i piedi di serpente, era stato da Minerva segretamente in un suo tempio allevato. Giunto ad età adulta e fattosi padrone di Atene, fabbricò sulla rocca di quella città un tempio a Minerva ed istituì le feste Panatenee. Questo re inventò l’uso di andare in cocchio per nascondere la deformità de’ suoi piedi. Dopo morte fu convertito in una costellazione detta Enioco. Nelle Panatenee maggiori si cantavano da’Rapsodi i versi di Omero per una legge d’Ipparco, fig. di Pisistrato(3) ; ed alcuni vecchi e vecchie portavan de’ rami di ulivo. In dette feste, fra gli altri giuochi, celebravansi quelli istituiti da Pericle per la musica e per la poesia ; e nel teatro fanciulli e fanciulle intrecciavano la danza detta pirrica, che facevasi colle armi addosso e colla spada. Alcuni vogliono che le Panatenee furono ristabilite da Teseo per riunire le sparse borgate dell’Attica in una città ; e perciò vi erano ammessi tutt’i popoli di quella regione.

I Romani in onore di Minerva celebravano in marzo ed in giugno le feste dette Quinquatria o perchè cominciavano il quinto giorno dopo gl’idi, o perchè {p. 103}duravano cinque giorni(1) ; e vi eran le maggiori e le minori. In questo tempo molti pregavano Minerva pel buon successo delle loro opere ; e non pochi chiedevano l’eloquenza e la fama di Demostene e di Cicerone(2). Chiamavansi pure Quinquatria le feste o giuochi annuali istituiti da Domiziano in onore di Minerva, che si celebravano sul monte Albano, e ne’quali gareggiavano poeti ed oratori.

IX. Iconologia di Minerva. §

Massimo Tirio(3) dice che Fidia rappresentò Minerva in nulla inferiore a quella di Omero, cioè in sembianza di una vergine avvenente, cogli occhi azzurri, di alta statura, coll’egida al petto, e con elmo, asta e scudo. In una gemma si rappresenta con armi ed elmo di oro ed ornato di crini di cavallo, e colle chiome bionde e sparse a guisa delle donzelle Spartane. Negli antichi monumenti vedesi Minerva accompagnata da un serpente ; o con un serpe sull’elmo, perchè questo rettile è simbolo della prudenza. In una sardonica della collezione di Stosch, Minerva Salutare o Medica è preceduta da un serpente, ed ba un parazonio, o scimitarra pendente al fianco. Nel tempio di Minerva Elidia, il casco di questa Dea era sormontato da un gallo, animale, cui piacciono le battaglie. Quello della Minerva di Atene era montato di una sfinge ; ed in un cammeo si vede una Minerva di bel lavoro, sull’elmo della quale son quattro simboli della Dea, la civetta, uccello a lei sacro ; una sfinge ; il caval Pegaso, simbolo della fama e della sapienza ; ed un cocchio a quattro cavalli, di cui Minerva dicesi inventrice. Pausania parla di una statua della Dea che avea un gallo sul cimiero ; ed il Montfaucon, di un’altra ch’è nel Museo del Monastero Sangermanese, la quale ha una lunga veste, l’egida, un gallo sul cimiero, ed una borsa {p. 104}nella sinistra. Callimaco le dà l’elmo di oro ; ed Euripide, lo scudo e l’asta anche di oro. In un antico dipinto di Pompei, Minerva ha l’elmo crestato.

Nella pugna di Giove contro i Giganti, questa Dea fece grandi prodezze, percui Luciano la chiama Dea ucciditrice de’ giganti. In un monumento riferito da Gorleo vedesi la Dea vincitrice di un gigante, che ha steso a terra colla sua asta ; per cui cantò Dante :

……. vedea Pallade e Marte,
Armati ancora intorno al Padre loro,
Mirar le membra de’ giganti sparte.

Plinio(1) fra gli argomenti della gran maestria di Fidia annovera la statua di Minerva, in Atene, alta 26 cubili, tutta di avorio e di oro. Nello scudo vi avea scolpito la battaglia delle Amazzoni(2) da una parte, e dall’altra, la pugna degli Dei e de’ Giganti ; e su le scarpe, quella de’ Lapiti e de’ Centauri ; alla base, la nascita di Pandora, con venti immagini di Numi, e segnatamente della Vittoria, di quattro cubiti, e di avorio, e con un serpente ch’era forse Erittonio, ed una sfinge di bronzo.

Spesso si dà a questa Dea il trono a guisa di regina ; ed appresso gli Eritrei vi era un tempio ed una statua di Minerva Poliade assisa su di un trono colla conocchia in una mano ed un globo sul capo. Se si rappresentava vicino a Giove, stava ritta in piedi. La Minerva di Troia, o il Palladio(3), teneva nella destra la lancìa, e la conocchia nella sinistra, ovvero uno scudo, secondo Virgilio(4). Una patera rappresenta Minerva armata di scudo e di lancia, mentre esce del capo di Giove. Alcuni dicono che quando uscì dal cervello del Nume, avea l’elmo, la corazza, in una mano la lancia, e nell’altra, uno scudo risplendente ; e {p. 105}ch’era vestita di una veste, sulla quale brillavano i colori dell’iride(1).

L’egida(2) alle volte era come le pelli di cui van coperti alcuni pastori, veggendosi che Pallade ne ha coperto non solo il petto, ma la schiena ancora ; ed alle volte, a guisa di mantello. Dice il Winckelmann « che quasi tutte le figure di Minerva hanno la chioma di dietro raccolta e legata con una stringa, la quale sotto la legatura scende più o meno sopra la schiena o pettinata solamente o in ricci lunghi inanellati, in modo però che questa chioma si spande e si slarga verso il fine…. Da questa foggia di le gare i capelli di dietro, propria delle figure di Pallade, sembra questa Dea essere stata cognominata Αθηνα παραπεπλεγμενη(3). Polluce spiega questo termine colla parola αναπεπλεγμενη, che vuol dire che ha i capelli messi in trecce e legati. » In un antico monumento vedesi Pallade coll’elmo, e con due tibie nelle mani, ed era forse la Pallade musica(4) ; ed in un bassorilievo vi è Pallade in piedi con una tibia in ciascuna mano.

Sopra una medaglia di Atene vedesi Minerva che disputa con Nettuno sul nome da darsi alla città ; essa ha fatto nascere allora l’ulivo. In una moneta de’ Magnesii vi è Minerva Pacifera, con l’elmo e lo scudo ; tiene la lancia ed un ramo di ulivo.

I Greci attribuivano a Minerva un aspetto virile e formidabile, perchè Dea della guerra. Il ch. Visconti(5) dice « che gli antichi, accuratissimi osservatori delle proprietà, riflettevano che questo appunto, cioè il colore glauco, è il colore degli occhi de’ più feroci e guerrieri animali, e perciò l’attribuivano a Pallade che uscita della testa del padre degli Dei tutta armata, non respirava che battaglie e stragi ».

{p. 106}In un niccolo antico pubblicato da Pietro Vivenzio, vedesi Pallade colla Vittoria in una mano, e che con un piede posa su di un globo, per indicare che la sapienza regola il mondo. Gli Ateniesi veneravano Minerva sotto il nome di Pallade vincitrice. Alcuni dicono che Minerva portava la spada ; ma comunemente le si attribuisce l’asta.

X. Principali epiteti di Minerva. §

Minerva Alalcomenia (Αθηνα αλαλκομενηις) chiamasi da Omero o da Alalcomenia, città della Beozia, ov’era un simulacro di lei ; o da Alalcomena, nutrice di questa Dea ; o dal verbo greco αλαλκω, iuvo, percui può spiegarsi ausiliatrice.

Αματωρ ο αμητρος, senza madre, così detta, perchè nata dal cervello di Giove.

Armipotente ed Armisona, armipotens ; gr. δαιφρων, che significa sapiente e bellicosa. Da Ovidio appellasi Diva bellatrix ; e Pausania racconta che Oreste, essendo stato assoluto nell’Areopago del suo parricidio, dedicò un altare a Minerva Marziale, il quale chiamavasi Αρειας Αθηνας βωμος, l’ara di Minerva Marziale.

Capta. Con questo nome avea in Roma un picciol tempio detto Minervium, sul monte Celio. Fu così detta o quasi Capita, perchè nata dal capo di Giove ; o da captus, voce degli Auguri, che significava, il suo tempio essere stato disegnato con tutte le cerimonie necessarie.

Calcieca o Calcidica (a χαλκος, aes, et οικος, domus) dicevasi o dal tempio di bronzo a Minerva edificato dagli esuli di Calcide, nell’Eubea ; o perchè in uno de’suoi tempii era un altare o una statua di rame ; o perchè ella insegnò l’uso del rame.

Corifagena o Corifasia (a κορυφη, caput, e γενος, genus) detta o perchè uscita del capo di Giove ; o perchè figlia di Giove e di Corifa, secondo Cicerone.

Δεσποινα, regina o signora. In generale a tutti gli Dei davasi l’aggiunto di signore ; ma gli Ateniesi con {p. 107}questo nome salutavano propriamente Pallade, come si scorge da Aristofane e da altri(1).

Εργανη, laboriosa ; Ευρεσιτεχνος, inventrice di arti, dicevasi per le tante arti ed opere, cui presedeva.

Flava Minerva, ξανθη, ηυκομος, da’ biondi capelli, dalla bella chioma.

Glaucopide, γλαυκωπις Αθηνα, l’occhiazzurra Minerva, o la Diva, cui tinge gli occhi un’azzurrina luce, come traduce il Pindemonti ; soprannome assai frequente presso Omero. Il color glauco è il verde di mare, o il color celeste, ch’è misto tra il bianco ed il verde azzurro. Ma come nell’Iliade γλαυκιοων significa che guarda bieco, o con volto minaccioso e terribile ; così pare più verisimile che Minerva Glaucopide voglia dire Minerva che guarda bieco, che fa il viso delle armi, come dicono gl’Italiani. Così potrebbe spiegarsi l’aggiunto di caesius dato da Catullo(2) ad un feroce leone della Libia.

Innupta ; epiteto di Minerva adoperato da Virgilio, che vuol dire vergine.

Itonia, Ιτωνια, soprannome di Minerva, la quale veneravasi in ispecial modo ad Itonia, antica città dell’Epiro, ove avea un celebre tempio.

Patrima Virgo secondo alcuni chiamasi Minerva da Catullo(3), perchè nacque di padre senza madre. Ma altri dicono che patrimus significa un giovinetto che, dopo la morte della madre, ha il padre ancora vivente ; il che non conviene alla nostra Dea. E però si vuol leggere Patrona Virgo, che sta bene a Minerva, ch’è protettrice de’ poeti e della poesia. Ed alcuni critici, contra lo Spondano, vogliono che la Dea invocata nel primo verso dell’Iliade sia Minerva, la quale come a tutte le scienze ed arti, così pure alla poesia presedeva. Anche Dante cantò ;

L’acqua che io prendo, giammai non si scorse :
Minerva spira, e conducemi Apollo,
E nove Muse mi dimostran l’orse.

{p. 108}Poliade, ερισυπτολις, guardiana delle città ; πολιουχος, custode di città, da πολις, urbs, ed εχειν, habere.

Tritonia, e τριτογενεια detta o perchè apparve la prima volta presso la palude Tritonia ; o da τριτω, che appo i Cretesi significava capo, perchè nacque dal capo di Giove.

XI. Alcune altre cose di Minerva. §

Minervium chiamavasi un tempio consacrato a Minerva ; ed il luogo, ove si congregavano gli uomini studiosi per trattare di cose letterarie, da’ Greci chiamavasi Ateneo. Sulla cittadella di Atene era un tempio di Pallade detto il Partenone ; dietro al quale stava il tesoro pubblico, affidato alla custodia di Giove Sotere e di Pluto. Fu così detto dal simulacro di Minerva detta la Vergine (παρθενος), opera di Fidia. Partenione poi è l’erba detta camamilla, o secondo altri, la parietaria, che Minerva additò in sogno a Pericle per guarire un operaio a lui caro caduto da un ponte o dalla sommità di un tempio.

Alla civetta attribuivano i Greci la cognizione del futuro, e però l’aveano consacrata a Minerva, simbolo della prudenza e della vigilanza. Anche il gallo era sacro alla nostra Dea, che nelle monete di molti antichi popoli si vede effigiata con un gallo allato ; e ciò o perchè la sapienza non dorme mai, essendo il gallo simbolo della vigilanza ; o perchè esso è di sua natura pugnacissimo ; percui conveniva alla Dea della guerra. In quanto poi alla civetta, è noto il proverbio « noctuas Athenas » che vuol dire portar cosa in luogo, ove se ne ha dovizia, attesochè in Atene era gran numero di siffatti uccelli.

Cicerone(1) domandò all’amico Attico un’Ermatena, da servire per ornamento alla sua accademia. Vi è chi crede ch’essa sia la stessa cosa che il Dio Termine, confondendo gli Ermi ed i Termini. Altri credono che un’Ermatena sia un pilastro, o colonna su di cui {p. 109}veggasi allogata una testa o un busto di Minerva senza braccia. Fulvio Orsini pensò che un’Ermatena fosse una Minerva armata di cimiero, di asta e di scudo, la quale alle sole gambe vada a terminare in un ceppo quadrato. Ma per Ermatena deesi intendere propriamente una statua di mezzo busto, la quale sulla medesima base presenta le due divinità presidi dell’eloquenza, Mercurio e Minerva, perchè gli antichi con un sol nome composto dinotavano due numi, come Ermeracle, statua di Mercurio e di Ercole ; Zenoposidon, di Giove e di Nettuno ; Ermapollo, di Mercurio e di Apollo ec. Or Mercurio e Minerva presso gli antichi spesso in una stessa moneta si rappresentavano ; si nominavano tutti e due in una medesima iscrizione ; si allogavano in uno stesso tempio e comuni aveano i sacrificii. E nelle scuole mettevansi pure le statue di Mercurio e di Minerva, essendo Mercurio Dio dell’eloquenza, dalla quale se va scompagnata la sapienza cui presiede Minerva, essa non è che un vano strepito di parole(1).

Il Palladio era una statua di Minerva, o secondo altri, un piccolo scudo simile agli ancili de’ Romani. Del quale raccontano che caduto dal cielo, mentre Ilo fabbricava la fortezza d’Ilio, l’oracolo comandò di costruirsi un tempio su quella rocca per custodirvi gelosamente quella prodigiosa statua, perchè la città sarebbe stata inespugnabile sino a che ve l’avessero custodita. Il Palladio secondo altri era una statuetta caduta dal cielo a Pessinunte, città della Frigia, coll’asta nella destra, e nella sinistra, la conocchia ; e che recata al luogo, ov’era Dardano, questi consultò l’oracolo, da cui seppe che la città sarebbe stata in piedi sino a che avesse conservato quel fatale deposito. Altri raccontano che una figliuola di Pallante, avendo sposato Dardano nell’Arcadia, gli portò in dote il Palladio e gli Dei Penati, cui egli innalzò de’tempii nella Samotracia. I suoi nepoti andarono a Troia e nella più riposta {p. 110}parte del tempio di Pallade ch’era nella cittadella, allogarono quella statua ch’esser dovea la fatale custodia della città. Anche i Romani vantavano il lor Palladio, fatale pegno dell’impero ; dicevano che i Greci aveano rapito un falso Palladio ; e che Enea avendo seco portato il vero in Italia, essi lo posero nel tempio di Vesta, affidandone la custodia alle Vestali. E si racconta che a tempo dell’assedio di Troia, sapendo i Greci che il Palladio rendeva quella città inespugnabile, Ulisse, e Diomede per le cloache osarono penetrare sino al luogo ove custodivasi la fatale effigie ; ed uccisi i custodi, col favore di Antenore, che avea per moglie una sacerdotessa di Pallade, con sacrilega mano la rapirono. Del quale sacro pegno spogliata fu Troia facile preda del nemico. Silio Italico dice che il vero Palladio fu da Diomede restituito ad Enea, il quale cogli altri Dei il portò in Italia, ed allogato a Lavinio, e poscia in Alba Longa dal figliuolo Ascanio, a tempo di Tullo Ostilio recato a Roma fu posto nel tempio di Vesta, ove a niuno era lecito vederlo, se non se alla più anziana delle Vestali.

Apollo o il Sole §

I. Nomi diversi dati a questo Nume e lor ragione. §

Il Banier dimostra che presso gli antichi Apollo era tutt’altro che il Sole ; ma noi per brevità seguiremo Cicerone, il quale dice che i Greci credevano, Apollo essere lo stesso Sole(1) ; e di essi parleremo in un solo articolo.

La voce Apollo (Απολλων) viene da un verbo greco che significa perdere (απολλυμι), e par che voglia dire apportator di rovina, perchè il soperchio calore del Sole è dannoso agli animali ed apporta agli uomini frequenti morbi. Così nell’Iliade Apollo irato con Agamennone che avea oltraggiato Crise, suo sacerdote, col tirare sul Greco esercito le sue micidiali saette, vi suscita {p. 111}grave pestilenza. Il che Omero prese dagli Egiziani che dal sole credeano nascere le pestifere infezioni ne’popoli. Chiamavasi pur Febo (Φοιβος), che vuol dire splendido, lucido, puro ; qualità che al sole assai bene convengono. Questo nume in cielo si chiama Febo, ed Apollo, in terra, e perciò più spesso Febo vuol dire il sole ; e Virgilio chiama il sole lampana Febea(1). Il Sole poi (Sol) fu così detto da’Latini perchè risplende solo nel cielo, qual signore del giorno(2). Infine talora il Sole chiamasi Iperione, quasi supergradiens, perchè fa le sue passeggiate per le soprane regioni del cielo, Porfirio dice che un medesimo Dio era il Sole in cielo, il padre Libero, sulla terra, ed Apollo, nell’inferno. E fu detto Libero, perchè libere vagatur per gli spazii del cielo(3).

II. Storia favolosa di Apollo. §

Gli antichi contavano cinque Dei di questo nome ; de’quali il primo si finge fig. di Vulcano e signore di Eliopoli, in Egitto ; il secondo nacque in Creta da Coribante ; il terzo, da Giove terzo e da Latona ; ed il quarto nato in Arcadia chiamavasi Nomio, perchè da lui avean gli Arcadia ricevuto le leggi(4). Ma il nostro Apollo è fig. di Giove e di Latona, il quale nacque ad un parto con Diana nell’isola di Delo. Della quale raccontano i Poeti che Giove trasformò Asteria, fig. di Titano, in quaglia, per essere stato da lei dispregiato, e che avendola gettata in mare, ne fosse nata un’isola, detta Ortigia o isola delle quaglie (ορτυξ, coturnix), di cui quell’isola abbondava, ed era una delle Cicladi, nell’ Egeo. Era mobile a segno che ad un leggier soffio di vento vedeasi galleggiare sulle acque ; il {p. 112}che finsero per essere quell’isola scossa da frequenti tremuoti(1).

Or Latona ch’era fig. di Polo e di Tebe, essendo gravida di Apollo, avvenne che Pitone, serpente nato dalla putredine della terra dopo il diluvio di Deucalione, sapendo da’fatali libri che un figliuolo di Latona dovea ucciderlo, si diede a perseguitaria implacabilmente, e non le lasciava luogo a partorire. Callimaco(2) afferma che quella bestia con nove giri circondava il Parnaso ; e Stazio(3) dice che uccisa occupava lo spazio di ben cento iugeri. Esso dava le risposte da un oracolo ch’era sul Parnaso, o il custodiva ; perchè i dragoni nelle favole spesso trovansi a custodir qualche luogo ; e nelle medaglie veggonsi tripodi attortigliati di un serpente che credeasi animale dotato della virtù d’indovinare.

Latona intanto, per comando di Giove, fu dal vento borea portata a Nettuno, il quale prese a proteggerla ; e non potendo un Nume disfare il fatto di un altro Nume(4), non volle far fronte apertamente a Giunone, e però menolla nell’isola Ortigia che ricoprì di acque ; il che la salvò dal dente di quel mostro. La favola di questo serpente(5) venne da un tiranno chiamato Pitone o Dracone, uomo crudele, forse ucciso da Apollo. O per Pitone(6) intesero i poeti le micidiali esalazioni della terra dopo il diluvio, le quali Apollo, cioè il Sole, uccise, o sia dissipò e distrusse colla forza de’suoi raggi, che son le saette di Apollo.

Or Nettuno fece uscir fuori delle acque l’isola Ortigia, che chiamossi Delo (da δηλος, manifestus), come la più appariscente fra le Cicladi, nel cui mezzo è allogata. Quivi Latona presso ad un ulivo(7) partorì {p. 113}Apollo e Diana, de’quali il primo, quattro dì dopo il suo nascimento, sul Parnaso uccise il Pitone, ne gittò le ossa sul tripode o cortina che pose nel suo tempio, ed in memoria di ciò istituì solenni giuochi funebri detti Pizii che celebravansi ogni quattro anni, non lungi dalla città di Crissa, detta Pito, e poscia Delfo. Omero(1) dice che Apollo non fu dalla madre allattato, ma che Temi gli diede a bere il nettare degli Dei. Bellissime cose ci dicono i poeti della eterna giovinezza di Apollo, che dipingevano co’ più dolci colori della bellezza, e che non mai per volger di anni scadeva. Quindi leggiadrissimo e con biondi e ben lunghi capelli il rappresentavano, di modo che, scriveva Tibullo(2). Febo e Bacco avean soli eterna la giovinezza ; e per lodare una bella chioma, la dice degna di ornare il capo di Apollo e di Bacco.

Or Latona(3) sgravatasi de’suoi divini gemelli e perseguitata tuttavia da Giunone, dopo lungo errare, giunse ad un bel lago della Licia, ove volle spegnere la sua gran sete. Ma molti contadini intesi a raccogliere la sala ed il giunco, gliel vietano, e per dispetto quelle chiare acque intorbidarono. Sdegnata Latona pregò gli Dei che trasformassero que’ villani in ranocchie, come avvenne. Giunone intanto, per disfogare il suo mal talento contro Latona, comandò a Tizio che facesse le sue vendette. Era questi un enorme gigante, creduto figliuolo della Terra, perchè i poeti dicevan nati dalla terra que’ch’eran di mostruosa corporatura(4) ; ovvero di Giove e di Elara, la quale avendolo partorito ed allevato in una caverna, il fanciullo nascendo parve nato dalla terra. Or Apollo la madre Latona da ogni oltraggio del gigante difese, uccidendolo colle sue saette, e confinandolo all’inferno, ove disteso occupava lo spazio di nove iugeri ; ed il fegato di lui, sempre rinascendo, pasce un grande avvoltoio(5).

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III. Continuazione. Fetonte. Esculapio. §

A strani accidenti andò soggetto questo Nume per la catastrofe di Fetonte, o secondo altri, per quella di Esculapio. Da Climene, fig. dell’Oceano e di Teti, ebbe Apollo un figlio chiamato Fetonte, e tre figliuole, Fetusa, Lampesia e Lampetusa. Il quale giovinetto, dandosi assai vanto de’ suoi natali, da Epafo, fig. di Giove e d’Io, fu motteggiato, quasi non fosse egli vero figlio del Sole. Attristossene Fetonte, e tutto lagrimoso fu tosto dalla madre a far doglianze di quell’oltraggio. Climene, per acchetare il dolore del figliuolo, disse non trovare spediente migliore che andar dal padre a chiarirsi del vero ; e Fetonte vi andò di buona voglia.

Sopra altissime colonne era edificata la magione del Sole, la quale di oro e di fiammeggianti piropi per tutto risplendeva. Il tetto era di candido avorio, e le porte di argento. Il lavoro vinceva la materia, perchè Vulcano vi avea scolpito le più vaghe e mirabili cose della natura. Sopra un trono d’inestimabile bellezza sedeva Apollo, vestito di luce ; il quale al veder Fetonte non si tenne dal fargli molte care accoglienze, certificandolo ch’era veramente suo figlio. Giurò poscia per la stigia palude di volergli concedere quanto avesse dimandato. Allora Fetonte, mosso da giovanile vaghezza, chiese di guidare per un giorno i cavalli del cocchio paterno. Si argomentò Apollo di distornarlo da sì pericolosa voglia, ma indarno ; e Fetonte prese le redini di que’ destrieri, i quali mal sapendo governare, ora troppo avvicinandosi alla terra, l’abbruciava ; ora discostandosene, faceva morir di freddo gli uomini e gli animali. Il che vedendo Giove, percosse di un fulmine l’audace giovane, che precipitò nel Po, ovvero Eridano, come quel fuoco scintillante che a ciel sereno vedesi di notte trascorrere per l’aria(1). Egli fu poscia da Febo allogato nel cielo e trasformato in costellazione.

Or le tre di lui sorelle, dolenti del tristo fato di {p. 115}Fetonte, alla riva dell’Eridano lo piangevano continuamente, tanto che furono convertite in alni o sia ontani, o in pioppi ; dalla corteccia de’ quali alberi grondano delle gocciole che paion lagrime, e che addensate danno l’elettro o sia l’ambra. Fu pianto eziandio Fetonte da Cigno (Cycnus), di lui parente ed amico, e fig. di Stenelo, re de’Liguri, il quale pel dolore fu cangiato in cigno, uccello che per la dolcezza del canto e perchè credevasi dar qualche presagio del futuro, fu consacrato ad Apollo(1). Da ciò è che i poeti si chiamano cigni, e che finsero questo uccello cantar dolcemente, quando è vicino a morire(2). Quindi cantò bellamente l’ Ariosto :

Terrà costui con più felice scettro
La bella Terra che siede sul fiume,
Dove chiamò con lagrimoso plettro
Febo il figliuol ch’avea mal retto il lume,
Quando fu pianto il fabuloso elettro,
E Cigno si vestì di bianche piume.

Alcuni per Fetonte intendono qualche antico Astronomo, il quale, dedito ad osservare il corso del Sole, fosse morto prima di compiere l’audace opera delle sue astronomiche contemplazioni. Un Fetonte, re de’Molossi, assai amante dell’astronomia, si annegò nel Po. I poeti poi con questa favola ci avvertono a non cercar quelle cose che son sopra le nostre forze, ed a lasciarci reggere da’ consigli degli uomini sapienti.

Ovidio dice che Febo si sdegnò sì fortemente pel lagrimevole caso di Fetonte che volea lasciar la cura del suo cocchio. Ma le maggiori sue sventure ebbero quest’altra cagione. Figliuolo di Apollo e della ninfa Coronide fu Esculapio nella medicina ammaestrato da Chirone in guisa che fu posto nel numero degli Dei. Del quale i due fig. Podalirio e Macaone, avendo seguito Agamennone alla guerra di Troia, coll’arte loro a que’ guerrieri furono di grandissimo aiuto. Or {p. 116}avendo egli colla virtù della medicina restituita la vita ad Ippolito, fig. di Teseo, ne andò Giove in grandissima collera ; ed indottovi eziandio dalle gravi querele di Plutone, il quale si doleva per vedersi rapito un abitatore del suo regno, percosse di un fulmine Esculapio, e così tolse la vita a chi altrui la dava(1). Esculapio vuolsi inventore della Clinica, e sotto forma di serpente adoravasi ad Epidauro, città del Peloponneso, ov’era un suo magnifico tempio ; e da’ medici è reputato lor Dio e protettore. Polluce parla di alcune feste in di lui onore, dette Asclepie. Dionigi il vecchio, tiranno di Siracusa, veduta in Epidauro la statua di Esculapio con barba d’oro, comandò che gli fosse tolta, dicendo essere sconvenevole che il figliuolo avesse barba, quando il padre Apollo era imberbe.

IV. Continuazione. Admeto. Dafne. Giacinto. §

Or Apollo, per la morte di Esculapio adirato, volle farne vendetta, e non potendo l’ira sua sfogare con Giove, uccise di saetta i Ciclopi, fabbricatori del fulmine ; per cui Giove lo spogliò della divinità e cacciollo dal cielo. Fu pure obbligato a pascolare gli armenti di Admeto, re di Fere, in Tessaglia, lungo il fiume Anfriso(2). Omero dice che Apollo pascolò le giumente di Fere, agguagliate in velocità agli uccelli ; ma altri vogliono ch’eran mandre di tori(3). Admeto fu uno del principi greci che convennero alla celebre caccia del cinghiale Caledonio, ed uno degli Argonauti. Apollo il rimunerò della buona accoglienza ; e specialmente volendo egli sposare Alceste, fig. di Perilao, e consentendolo questi a condizione che gli donasse un cocchio tirato da un leone e da un cinghiale, Apollo gl’insegnò il modo di aggiogare sì feroci animali. Gli ottenne pure dalle Parche che giunto all’ora estrema, potesse evitarla, se trovato si fosse chi per lui avesse voluto {p. 117}morire. Infermatosi a morte Admeto, Alceste l’amò tanto che per lui si offrì generosamente a perder la vita. Proserpina mossa a pietà del dolore di quel Re, volea rendergli Alceste ; ma non consentendolo Plutone, Ercole che albergava allora in casa di Admeto, pugnò colla morte, ed andato all’inferno, ne liberò la generosa Alceste(1).

A questi tempi accadde il fatto di Dafne, leggiadrissima ninfa, fig. del Peneo, nobile fiume di Tessaglia, il quale, a piè del monte Pindo scorrendo, innaffia la deliziosa valle di Tempe(2). La quale avvezza alle arti della caccia ed alla solitudine, fuggendo un giorno la vistu di Apollo, quand’era per nascondersi nelle paterne acque del Peneo, fu da quel Nume trasformata in alloro, di cui staccò un verde ramoscello ed ornossene le tempia. Questa pianta fu a lui dedicata, e di essa s’inghirlandava ogni cosa che gli apparteneva, il tripode, i tempii, i poeti, i vincitori ne’ giuochi Pizii ec. e le sue statue ne’ monumenti veggonsi o coronate di alloro o con in mano un ramoscello di esso. Gl’indovini ne mangiavano le frondi(3), che credevano comunicare un presentimento del futuro. Esiodo(4) dice che le Muse nel farlo poeta gli diedero come per iscettro un ramoscello di verde alloro.

Giacinto poi fu un giovinetto Spartano, amico di Apollo, col quale presso l’Eurota trovossi un giorno a giuocare al disco. Il lanciò quel Nume ben alto e con mirabil destrezza ; ma il vento Zeffiro, per fare qualche sua vendetta, spirò più gagliardo e spinse il disco a colpire il capo di quel bellissimo fanciullo, il quale, morendo, fra le braccia di Apollo il piegò, come un bel papavero dall’aratro reciso piega sullo stelo il languente suo capo. Apollo n’ebbe gran dolore, e dal suo sangue fece nascere un fiore del colore dell’ostro di Tiro, che chiamasi giacinto, nelle cui frondi, in {p. 118}memoria di tanto dolore volle scritte le greche lettere αι, αι, ahi ! ahi ! che sono la naturale espressione del pianto.

Amico ancora del nostro Apollo fu il bellissimo Ciparisso, fig. di Telefo. Amava egli moltissimo un cervo di grande bellezza, consacrato alle Ninfe dell’isola di Zea, una delle Cicladi, il quale sì per le campagne, e sì per le case andava a diletto ; e le ramose corna fregiate di oro, un bel monile di gemme al collo ed altri ornamenti ne facevano il più piacevole diporto di quel paese, e sopra tutti, di Ciparisso, il quale ora al prato, ora all’acqua chiara di un fiumicello il menava. Ma un giorno, stando quel cervo all’ombra, Ciparisso, senza avvedersene, il ferì con un dardo ; e ne fu sì dolente che pregò i Numi di poterlo piangere sempre. Allora Apollo il cangiò in cipresso, albero luttuoso e segno funesto di morte.

V. Orfeo. Lino. Mida. Marsia. Niobe. Aristeo. §

Di Apollo, signore del canto, e della musa Calliope fu fig. il gran cantore Orfeo, il quale nacque in Pimpla vicino al monte Olimpo. Mirabile e quasi divina fu la sua perizia nel suonar la lira donatagli da Mercurio o da Apollo ; e perchè fu pure insigne poeta, con tal magistero toccava la lira e sì dolcemente cantava che non solo gli uomini di fiera indole, ma le tigri ancora ed i feroci leoni ammansiva, e muovendo gli alberi ed i sassi, se li menava dietro, ed il corso arrestava de’fiumi e l’impeto de’ venti(1). Ebbe per moglie Euridice, una delle Driadi, la quale fuggendo un giorno i villani insulti del giovane Aristeo, un velenoso serpe che stava nascosto fra l’erbe, le ferì il piede e l’uccise. Di che fu sì grave il dolore di Orfeo che ne piangeva senza speranza di conforto, e l’estinta consorte dì e notte chiamava, facendo eco al suo pianto le rupi del monte Rodope. E tanta fidanza ebbe nella sua lira, che discese all’inferno per la profonda caverna {p. 119}del Tenaro. Quivi sì dolcemente suonò, pregando che gli fosse restituita Euridice, che mosse a pietà gl’infernali ministri e fece alle ombre dimenticare le proprie pene ; ed allora fu che le Eumenidi stupirono di quell’insolito canto, il Cerbero si tenne di latrare e fermossi la volubile ruota d’ Issione. Proserpina stessa al Tracio cantore donò la sposa, ma con patto che non si voltasse a guardarla prima di uscire del doloroso regno. Questa finzione ha potuto avere origine dalla sacra istoria della moglie di Loth, che fu trasformata in una statua di sale. Or l’infelice Orfeo, mentre pel fosco aere della valle infernale lieto con Euridice ritornava, non si tenne dal rimirarla, e si volse, ma solo per vederla svanire per sempre dagli occhi suoi e ritornare al soggiorno delle ombre. Allora squallido, per sette giorni(1), senz’altro cibo che il suo dolore, pianse con mesto canto la perduta consorte, come l’usignuolo piange, soavemente cantando, i rapiti figliuolini. Si vuole che nell’inferno celebrò tutt’i numi, salvo che Bacco, il quale per ciò spinse contro di lui le Baccanti, le quali crudelmente il fecero in pezzi e ne gettarono il capo e la lira nel fiume Ebro. Ma le Muse riunirono quelle membra lacerate e le seppellirono in Dio, città della Macedonia. Il capo poi per mare giunse a Lesbo ; e la lira fu cangiata in una costellazione bella di nove chiarissime stelle, ch iamasi la lira. Orfeo fu uno degli Argonauti ; ed instituì le orgie, le quali da lui si dicono Orfiche.

In Orfeo scorgiamo espressa da’poeti la forza della sapienza e della poesia, con cui i primi sapienti indussero gli uomini selvaggi ad unirsi in società. Orazio(2) dice che Orfeo dirozzò le selvatiche genti co’dolci modi del canto e della poesia ; e dal loro vivere e vitto ferino, e dalle micidiali discordie le ridusse ad una vita compagnevole e civile. Finsero perciò un cantore, il quale col suono della lira addimesticava le tigri ed i feroci leoni. Pausania poi racconta, esser tradizione che Orfeo, morta Euridice, andò ad Aorno, luogo nell’Epiro, assai famoso per l’esercizio {p. 120}della negromanzia, in cui erano antri tenebrosi, che parevan la via dell’inferno, ed ove si evocavano le ombre de’morti. Quivi egli evocò l’ombra di Euridice ; e credendosi da lei seguito, quando si avvide dell’errore, si diede la morte pel dolore. Orfeo insegnò pure l’astronomia a’ Greci ; ed il suono della sua lira composta di sette corde rappresentava l’armonia de’pianeti. Dicevano i Tracî che gli usignuoli i quali nidificavano presso la tomba di lui, facevano un canto più soave che altreve.

Aristeo che fu cagione della morte di Euridice, nacque da Apollo e da Cirene, fig. d’ Ipseo, la quale educata presso il monte Pelio, fu poscia da Apollo portata in quel luogo della Libia, ove dopo fu edificata la città di Cirene, così detta dal suo nome. Nato appena Aristeo, Apollo il diede ad allevare alle Ninfe di que’ luoghi ; dalle quali avendo egli appreso a coagulare il latte ed a fare il mele e l’olio, il primo ne insegnò l’uso al genere umano. Plinio(1) dice che Aristeo ritrovò pure il fattoio. È fama(2) che un dì, morte di morbo e di fame le industriose pecchie del buon Aristeo, dalla valle di Tempe andò egli doloroso al fonte, da cui nasce il Peneo, ed ove la reggia era della madre Cirene. Quivi lagrimando la prega che il modo gli additasse di riprodurre le sue api. La quale, accoltolo amorevolmente, gli propone di andare da Proteo, Dio marino, il quale si mutava in molte sembianze e presagiva il futuro. Ei gli disse ch’eran morti i suoi sciami per gli oltraggi fatti ad Euridice, e per placare l’ombra di Orfeo. Allora Cirene al figlio prescrive il sacrificio di quattro tori e di altrettante giovenche ; dalle putrefatte viscere de’ quali animali, dopo nove giorni, vide con grata maraviglia volare infinito numero di api che ronzando aggrupparonsi a’ rami degli alberi, pendendo a guisa di grossi grappoli di uva. Plinio(3) dice che {p. 121}quando le pecehie son tutte perdute, si rifanno, sotterrando i ventri freschi de’ buoi. E Virgilio(1) afferma ch’esse nascono da’ morti giovenchi, trasformando la natura una cosa in un’altra ; ma oggidì si reputa ciò una favola.

Ad Orfeo convien soggiungere Lino, fig. ancora di Apollo e della musa Tersicore. Nel suonar la lira ogni altro vinceva ; e credesi inventore de’ versi lirici. Insegnò la musica ad Orfeo, ad Ercole ed a Tamira, poeta insigne di Tracia e cantore sì nobile che osò gareggiare nel canto colle Muse, le quali, vintolo, della lira il privarono e degli occhi. Questo Lino vuolsi essero stato ucciso dal suo discepolo Ercole colla propria lira, perchè, vedendolo di poca attitudine al canto, ne lo avea un di poca attitudine al canto, ne lo avea un dì aspramente rampognato.

VI. Continuazione. §

Celebre ancora è nelle favole l’avvenimento di Mida, fig. di Cibele, o meglio, di Gordio, re della Frigia. Si ritrovò egli una volta presente ad una contesa, in cui il Dio Pan, il quale era superbo della sua maestria nel suonare il flauto, veniva al paragone col medesimo Apollo(2). Imolo, re della Lidia, che n’era l’arbitro, giudieò a favore di questo Nume. Piacque a tutti la sentenza ; ma Mida solo osò dar la preferenza a Pane. Allora Apollo in pena gli fece crescere due lunghissime orecchie di asino ; il che volendo egli celare, portava una tiara o mitra all’uso de’ Frigii, colla quale coprendo il capo e le orecchie, a tutti, fuorehè al suo barbiere, tenne occulta quella ignominia. Il quale mal potendo tenere un tal segreto, seavato un fosso, con fievole e paurosa voce ripeteva : Mida ha le orecchie di asino ; ed alcune canne mosse dal vento ripetevano : Mida ha le orecchie di asino. Il che fece a tutti aperto il difetto del re. Ciò significa che non è agevol cosa occultare {p. 122}i difetti de’ principi, attesa la naturale inclinazione che hanno gli uomini a manifestarli.

Anche Marsia osò venire a gara col Dio del canto. Fu questi un famoso satiro della Frigia, fig. d’Iagne, celebre musico. I poeti dicono che Marsia, avendo trovata la cornamusa, strumento da fiato inventato da Minerva, la suonò sì maestrevolmente che ne venne in gran superbia ed ardì provocare al canto le Muse e poscia il medesimo Apollo. A principio Marsia vinse ; ma quel nume, avendo temperata la cetra su di altro tuono, il satiro non potè colla piva seguirlo. E però vinto pagò il fio della sua temerità, perchè Apollo, geloso di sua gloria, legatolo ad un albero, il fece vivo vivo scorticare da uno Scita, e la pelle qual trofeo della vittoria, sospese in un tempio della città di Celene. I Satiri e le Ninfe piansero con tante lagrime l’acerbo fato di lui, che di quelle si fece un fiume, detto Marsia, ch’è nella Frigia, non lungi dal Meandro. Presso ai rostri in Roma era una statua di Marsia, ove univansi i causidici per le loro faccende e per comporre le liti(1). La sorgente del fiume Marsia è una palude spessa di cannucce buone per le linguette de’ pifferi. Un qualche uomo d’ingegno, chiamató Marsia, forse in quel luogo e di quelle cannucce fece la prima volta i pifferi ; di che fu tanto superbo che parlò in modo da paragonarsi ad un Nume. E come il flauto è strumento inferiore alla lira, così s’intende la contesa con Apollo, inventore della lira, ed il gastigo del Satiro. Senofonte dice chiaramente(2) che Marsia fu un filosofo che ritrovò il flauto e disputò con Apollo di cose filosofiche.

Fu pure segno alla vendetta di questo Nume l’infelice Niobe, fig. di Tantalo e di Dione o di Taigeta, sorella di Pelope, e moglie di Anfione, re di Tebe ed insigne suonatore di lira. Di costui ella partorì sette figliuoli, ed altrettante figliuole di grandissima bellezza ; di che venne in molta superbia. La fatidica {p. 123}Manto, fig. di Tiresia, imposto avea alle donne Tebane di offrir sacrificii a Latona. Niobe ne fu gelosa, e fra la raccolta moltitudine parlò di Latona con assai villanie : aver ella per avo materno Atlante, e Giove, per suocero ed avo ; esser signora di ampio reame ed aver sembianze degne di una Dea, oltre sette figliuoli ed altrettante figliuole di una bellezza che non avea pari sotto le stelle ; che a Latona la terra avea negato un luogo a partorire, ed aver solo due figliuoli ; ed altre cose di grande dispregio. Allora Latona sul monte Cinto forte si lamentò con Apollo e Diana, i quali non furon tardi alla vendetta. Era vicino a Tebe uno spazioso campo, ove i figliuoli di Niobe si esercitavano alla palestra. Quivi Apollo e Diana, co’ micidiali loro dardi, l’uno tutt’i maschi, l’altra, tutte le femmine uccise. Anfione si diede colle proprie mani la morte ; e Niobe, priva del marito e de’ figliuoli, presso la loro tomba sfogando il disperato suo dolore, fu cangiata in sasso, il quale da gagliardo vento trasportato sul monte Sipilo, è tuttavia monumento della sua empietà verso i Numi e dell’ acerbità del suo dolore. Niobe, fig. di Tantalo e sorella di Pelope, con cui venuta era nel Peloponneso, sposò il re di Tebe ; il quale matrimonio fu felice per numerosa e bellissima prole. Dovea questa regina avere un animo orgoglioso di sua felicità a segno di sconfortare i Tebani dal culto de’ Numi. Timagora dice che i Tebani a tradimento uccisero i figliuoli di Anfione, forse per dispetto dell’alterigia e dell’irreligioso animo della Regina. Eustazio racconta che morirono in una pestilenza ; il che i poeti dissero effetto delle saette di Apollo. E l’empia Regina n’ebbe sì gran dolore che restò immobile qual sasso e serbò eterno silenzio. Palefato vuole che sia nata la favola dall’aver Niobe posta una sua statua di pietra sul sepolcro de’ suoi figliuoli. Finalmente Pausania racconta che fu egli di persona sulla vetta del Sipilo per vedervi la favolosa Niobe, e che quivi vide una rupe, la quale di lontano avea sembianza di una donna mesta e piangente.

In Firenze vi è un’antichissima Niobe co’ figliuoli, {p. 124}forse quella trasportata dalla villa Medicea di Roma, opera d’inestimabile bellezza, non si sa se di Scopa o di Prassitele(1).

VII. Crise – Crine – Cassandra. §

Nel primo libro dell’ Iliade si legge la favolosa storia di Crise, sacerdote di Apollo Sminteo e padre di Astinome, detta da lui Criseide. Agamennone, sovrano duce de’ Greci, avea avuta a schiava la giovane Criseide nella divisione del bottino fatto nella Misia. Il desolato genitore, fidando sulla protezione di Apollo, degli abiti sacerdotali vestito andò agli alloggiamenti de’ Greci, ed offerendo assai danaro pel riscatto, domandò la restituzione della figliuola in nome del suo Dio. Agamennone però con villani modi rigetta le preghiere del sacerdote, il quale, l’ira di lui temendo, senza la figliuola se ne ritorna, e chiede vendetta al Nume del ricevuto oltraggio. Allora scende dal cielo Apollo stranamente adirato, coll’arco su gli omeri ed il turcasso ; si ode da lungi lo strepito degli scossi strali, de’ quali come uno ne vibra dal tremendo arco, tosto agli animali si attacca micidiale contagio, e poscia agli uomini, de’ quali continuamente ardenti roghi bruciano i miserandi cadaveri. Achille insorge contro Agamennone, perchè il vate Calcante svela la cagione del funesto malore. Il supremo duce de’ Greci si adira e freme, ma pur rimanda a Crise la figliuola Astinome con preziosi doni ad Apollo.

Ma nella favola di Crine sì ha una più nobile vendetta, ed una gloriosa spedizione, per cui Apollo meritò il soprannome di Sminteo, o sia distruggitore dei topi. In Crisa, castello della Frigia, fu un sacerdote di Apollo, chiamato Crine, il quale, avendo lasciato di fare alcuni sacrificii di quel Nume, in pena vide miseramente darsi il guasto al suo campo da grandissima schiera di topi. Per allontanare tanto male placò con molti sacrificii l’ira di Apollo ; il quale, volendo {p. 125}liberare da quella peste il campo del suo sacerdote, in sembianza di uomo accolto in casa da Orde, di lui pastore, colle saette uccise tutti que’ topi ; e comandò al pastore che dicesse a Crine, avergli Apollo di persona sgomberato i campi di que’ nocevoli animali, il che udendo Crine, fece un tempio in onor dt Apollo, per ciò detto Sininteo.

Un più strano gastigo dal nostro Apollo ebbe Cassandra, fig. di Priamo e di Ecuba. Avea egli a questa sua sacerdotessa donata la virtù di presagire il futuro ; ma poscia, di lei mal contento, volle che non le si prestasse mai fede, comechè dicesse sempre il vero. E forse Troia sarebbe aucora, se avessero i Troiani creduto a’ veraci di lei pronostici, chè quando essi inconsideratamente sulla sacra rocca riposero il fatale cavallo, Cassandra annunziò soprastante rovina all’incauta città ; ma non si volle dar fede a’ suoi presagi(1). Sposò Corebo che perì nell’ultima notte di Troia ; e questa incendiata, toccò in sorte ad Agamennone, cui più volte disse che guardato si fosse dalle insidie della moglie Clitennestra, ma non fu creduta, percui ucciso fu esso e l’infelice profetessa, invitali a lauto banchetto da Egisto e dalla disleale consorte.

VIII. Incumbenze di Apollo-Nove Muse. §

Luoghi del loro soggiorno.

Non poche e tutte nobilissime erano le incumbenze di Apollo. E primieramente egli era il Dio de’ carmi e della poesia, non che della musica e di tutte le belle arti. I poeti erano suoi sacerdoti e figliuoli ; essi credevansi da lui inspirati, come tutt’i cultori delle arti belle. Qual signore del canto, andava superbo di una bella lira di oro che avea ricevuta da Mercurio ; ed era il duce e quasi il sovrano delle Muse.

Eran esse fig. di Giove e di Moneta, ch’era la Mnemosine de’ Greci ; o di Giove e di Minerva che secondo alcuni era la Memoria. Fedro(2) dice, le nove Muse {p. 126}che sono il coro delle arti, esser nate da Giove e dalla veneranda Mnemosine. Il che finsero i poeti, per avere Giove il primo ritrovato le scienze e le arti, le quali senz’assidua meditazione e diligente coltura della memoria non si possono acquistare. Esse comunemente si chiamano Clio, Euterpe, Talia, Melpomene, Tersicore, Erato, Polinnia, Calliope ed Urania. Alcuni(1) fan derivare la parola Musa da un verbo greco (μαω) che significa ricercare, investigare, essendo l’investigazione origine di tutte le umane conoscenze. Furon dette pure Camene (Camoenae), quasi canienae a canendo dal canto ; ma Varrone vuole che prima chiama vansi Casmenae, poscia Carmenae, e finalmente Camenae da carmen, canzone ; sicchè Camena vuol dire cantatrice. Presso Plutarco la parola Musa significa canto ; e da Aristofane un uomo sapiente e dotto si appella Musico. Anzi i Pittagorici chiamarono musica la stessa filosofia(2). Le Muse posero sì bei versi in bocca ad Esiodo, mentre sull’Elicona pasceva il suo gregge ; e donandogli, quasi scettro, un ramoscello di alloro, il consacraron poeta(3). Le Muse ed Apollo inspiravano i Vati ed i Cantori, per cui son chiamati ministri e quasi servi delle Muse. Esse amavano i begli ozii tanto amici alle lettere ed alla poesia soprattutto. L’Elicona, monte della Beozia, sacro ad Apollo ed alle Muse, da Ovidio chiamato virgineo monte, perchè le Muse si tenean per vergini, era il loro felice soggiorno. Un suolo tutto coperto di alberi e di erbette salubri di gratissimo odore ; un boschetto sacro a quelle Dee ; un antro freschissimo ; un’ombra detta molle da Properzio ; infine il bel fonte Aganippe(4) il facevano quanto delizioso, altrettanto alla poesia ed al canto favorevole.

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IX. Continuazione. Filammone. Pireneo. Pieridi. Sirene. §

Ma con tutto ciò neppure a quelle vergini Dee fu dato viver tranquille ; e molti vi furono ardimentosi a segno di sfidarle nel canto. Filammone, fig. di Apollo e della ninfa Chione, uno de’ più antichi Musici(1), ed il primo che istituì i cori di donzelle, fu amico dei versi e del canto. Venuto a contesa colle Muse sulla cetra, in cui era lodatissimo, fu vinto ed in pena privato degli occhi.

Pireneo, barbaro re della Tracia(2), avea occupato Daulia, città della Focide, e quivi tirannicamente regnava. Vide egli un giorno le Muse che andavano sul Parnaso, colte da improvvisa tempesta ; e fingendo amorevolezza, pregolle a volersi ricoverare per poco in sua casa. Vi andarono esse, ma come furono entrate, conobbero le coperte insidie che loro tramava quel tristo ; per cui, prese le ali, fuggirono velocissime per l’aria ; ed egli che salito su di un’alta torre del suo palagio, volea follemente seguirle, precipitò da quell’altezza e riportò la pena della sua insolenza. I Traci eran gente barbara ; e Pireneo o perchè ignorante e sprezzatore delle scienze e delle arti, o perchè disturbò la tranquillità di quel paese con continue guerre, si disse da’ Poeti che tramò insidie alle Muse, le quali per ciò si dipingono anche colle ali.

Ma sopra tutte celebratissima è la gara delle Pieridi colle Muse. Alcuni per un luogo di Strabone avvisano che la regione detta Pieria ed il monte apparteneva un giorno alla Tracia ; ma poscia quel monte fu abitato da’ popoli della Macedonia(3). Pierio adunque era probabilmente di Pella, in Macedonia ; e da Evippe, di Peonia, ebbe nove figliuole, le quali, della cognizione di molte scienze ed arti dotate, osarono le Muse stesse provocare in fatto di canto. Accettata la disfida e scelte le Ninfe a giudici della contesa, cantarono {p. 128}prima le audaci figliuole di Piero ; e poscia le Muse sciolsero la lingua ad una dolcissima melodia, la quale tanto rallegrò la natura tutta, quanto il canto delle prime aveala contristata. Allora le Ninfe affermarono, alle Muse doversi la vittoria ; ed in pena di lor presunzione furono le figliuole di Evippe trasformate in piche, la cui voce è tanto somigliante all’umana. Quindi cantò l’Alighieri :

E qui Calliopea alquanto surga,
Seguitando il mio canto con quel suono,
Di cui le Piche misere sentiro
Lo colpo tal che disperar perdono.

Alcuni vogliono che Piero ebbe nove figliuolo, alle quali diede il nome delle Muse. Forse sotto il simbolo delle gazze si volle significare l’audacia di tanti poeti infelici, la loquacità de’ quali, simile a quella delle piche, è il vero tormento delle dotte orecchie ed il flagello del sacro bosco delle Muse. Le Sirene eziandio(1) osarono sfidare al canto le Muse ; ma furon vinte da quelle Dee, che strapparon loro le piume e e ne ornarono il capo.

X. Continuazione. Aganippe. Ippocrene. Pegaso. Parnaso. §

Persio(2) per dire che non era poeta, afferma di non aver bagnato le labbra nel fonte del cavallo. Era questo il bel fonte d’Ippocrene, che alcuni mal confondono coll’ Aganippe, che forse ebbe il nome da Aganippe, fig. del fiume Termesso, essendo naturale che una fontana si chiami figliuola di un fiume. L’Ariosto, parlando delle donne che acquistaron fama nel poetare, disse :

Poichè molte lasciando l’ago o il panno,
Son con le Muse a spegnersi la sete
Al fonte d’Aganippe andate e vanno.

{p. 129}L’Ippocrene poi (ab ιππος, equus, et κρηνη, fons), o fonte del cavallo, ebbe origine dal Pegaso. Esiodo dice che fu esso così detto da πηγη, fonte, sorgente, per esser nato presso alle fonti o sorgenti dell’ oceano. Igino il crede nato da Nettuno e da Medusa ; ma comunemente si vuole che quando Perseo recise il capo di Medusa, dal sangue che gocciolonne sul suolo, nacque un destriero fornito di ali velocissime, che fu appunto il Pegaso, il quale un giorno sull’Elicona col piede percosse una pietra, da cui spicciò un bel fonte di chiarissima acqua, la quale bevuta dava virtù di poetare ; e questo fu l’Ippocrene. A questa favola, dice Solino, diede occasione Cadmo, il quale cercando nella Beozia un luogo per edificare una città, mentre su di un bel destriero girava per varie contrade, fu il primo a ritrovare questa fontana. Il dissero consacrato alle Muse, perchè Cadmo era uomo sapiente ed inventore delle lettere. Il Pegaso alato, secondo Fulgenzio, significa la fama che diffondesi velocissima.

Ma il monte delle Muse era propriamente il Parnasso, monte tutto sacro e venerando, dice Strabone, per quegli antri ombrosi, soggiorno delle Ninfe ; fra i quali l’antro Coricio più d’ogni altro vasto e bellissimo, sì leggiadramente descritto da Pausania, e che gli abitatori del Parnasso aveano in grandissima venerazione. Era tutto ombreggiato di pregevole alloro, ed avea due sommità, Cirra e Nisa, l’una consacrata ad Apollo ed alle Muse, e l’altra, a Bacco ; e però chiamasi spesso bivertice (δικορυμβος. Lucian.) da’ poeti. Alle sue falde era il fonte Castalio, le cui acque a bere gratissime aveano virtù fatidica ; e non lungi il monte Citerone pur sacro a Bacco ed alle Muse. Alla custodia di quel fonte stava un dragone di strana grandezza ; de’ quali ritroviamo moltissimi nelle vecchie favole, destinati a guardar qualche giardino, edificio o antro, anzi a rappresentare il Genio di qualche luogo. Cadmo uccise o colla sua spada, o con un gran colpo di pietra quel mostro, il quale, uscendo di un antro del Parnasso, ove stavasi rìntanato, avea tutti morti i suoi compagni che a quel fonte erano andati ad attignere {p. 130}dell’acqua per un sacrificio. Il qual fonte chiamavasi pure Aretias, o di Marte ; e da Seneca fu detto Dirceo. Secondo alcuni fu chiamato Castalio o dalla ninfa Castalia che Apollo trasformò in fontana, o da Castalio, re dei dintorni del Parnasso.

Dirce era fonte e fiume che bagnava Tebe, e da cui Pindaro, il più sublime allievo delle Muse, appellasi cigno Dirceo(1). Antiope fu fig. di Nitteo o del fiume Asopo, e moglie di Lico, re di Tebe, il quale, dopo averla da se discacciata, sposò Dirce, fig. del Sole. Antiope, già incita, partorì Anfione e Zeto sul monte Citerone ; i quali, da un pastore educati, riconobbero poscia la loro origine ; e per vendicare l’onta della madre legarono Dirce alla coda di un indomito toro. La quale così per più tempo miseramente strascinata, fu per compassione degli Dei convertita in una fontana del suo nome. Il supplizio di Dirce è rappresentato in un bel gruppo del palazzo Farnese, detto il toro Farnese, che ritrovasi nel R. Museo Borbonico di Napoli. Alcuni dicono che Anfione e Zeto furon fig. di Giove e di Antiope ; che per comando di Apollo circondaron di mura la città di Tebe, e che discacciato dal trono Laio, fig. di Labdaco, quivi essi regnarono. Le Muse donarono ad Anfione la lira, che toccava sì dolcemente, che al suon di quelle corde i sassi, movendosi da se, andarono in bell’ ordine ad unirsi per costruir quelle mura. Il che vuol dire, che Anfione colla dolcezza del suono e del canto persuase i Tebani a portar le pietre per le mura della città. Orazio(2) coll’esempio di lui e di Orfeo dimostra la virtù prodigiosa della poesia e della musica. Anfione ebbe la lira da Mercurio, ovvero dal nostro Apollo.

XI. Continuazione. Pindo. Ascra. Libetra. Pimpla. Pirene. §

La poesia richiede mente tranquilla e circondata da piacevoli obbietti ; e però i luoghi del soggiorno delle {p. 131}Muse si fingevano deliziosi e ridenti. Ne’ loro giardini e sacri boschetti vi eran fontane e ruscelli di mele, da cui i Poeti, i quali si assomigliavano alle api, succhiavan la soavità de’ loro versi(1). Orazio è qual’ape industriosa del monte Matino, che negli ombrosi boschetti di Tivolì, dal timo fabbrica il mele de’ suoi dolci carmi(2). Nè sulla terra solamente, ma nel cielo eziandio fra gl’Iddii soggiornavan le Muse, dette perciò Olimpiadi da Omero(3). Le Muse cantavano in cielo le lodi dei Numi, e principalmente di Giove, lor padre. Il quale rimasto vincitore de’ giganti, Apollo e le Muse un sublime inno cantarono in di lui onore(4). Quindi l’Ariosto rivolto a Febo dice :

E volendone a pien dicer gli onori
Bisogna non la mia, ma quella cetra
Cou che tu dopo i gigantei furori
Rendesti grazie al regnator dell’etra.

Le Muse infine le passate, le presenti e le future cose annunziando, al loro canto divino rallegravasi tutto l’Olimpo(5).

Le Clerc crede che la favola delle Muse ebbe origine da una qualche accademia di musica da Giove stabilita in Creta, in cui primeggiavano nove sue figliuole, e queste furon poscia le Muse, ed egli fu chiamato lor padre tra perchè la poesia pare inspirata virtù di un Nume, e perchè egli il primo fra’ Greci ritrovò un regolar concerto musicale, simile forse a Jubal della Sacra Scrittura, che fu, per così dire, il primo maestro di cappella, (Pater canentium cithara. Genes).

Il Pindo è un gran monte della Macedonia, il quale da’ monti Acrocerauni si stende sino alle Termopili, e dal suo bel mezzo si spicca un ramo che forma il Parnaso, e colla sua estremità l’Elicona ; e però {p. 132}spesso da’ Poeti il Pindo, il Parnasso e l’Elicona, si confondono. Esso è celebrato da tutt’i poeti.

Ascra era un villaggio in Beozia, vicino all’Elicona. Dovea esservi un boschetto sacro alle Muse, perchè Properzio(1) invece di poetare adopera la frase abitare il bosco Ascreo. Ed in altro luogo chiama Ascrei i fonti d’Ippocrene, di Aganippe, ec. a’ quali beono i poeti maggiori, tutto al contrario di lui che bevea al Permesso, fiumicello che scorre dall’Elicona. Poeta Ascreo chiamossi Esiodo, benchè nato a Cuma, perchè educato in Ascra.

Libetra fu pure un fonte di Magnesia, nella Macedonia, sacro alle Muse, da esso dette Libetridi presso Virgilio(2). Alcuni vogliono che sia un autro a piè del monte Libetro, così detto dal poeta Libetro, che il primo insegnò la musica.

Pimpla, monte in Macedonia, forse lo stesso che il Pierio, ne’ confini della Tessaglia, vicino all’Olimpo, con un fonte sacro alle Muse, che avea il medesimo nome. Perciò Pimpleide in Orazio significa Musa ; e salire sul monte Pimpleo in Catullo vuol dire attendere alla poesia.

Pirene chiamavasi un fonte di limpidissime acque sull’Acrocorinto, monte, alle cui radici stava la città di Corinto. Pirene, fig. di Acheloo, o di Oebalo, piangendo oltremodo il figlio Cencria, per caso uccisole da Diana, fu cangiata in quel fonte. Il caval Pegaso fu preso da Bellorofonte, mentre bevea al fonte di Pirene. Anzi Stazio(3) afferma che questa fontana eziandio scaturì per un colpo che col suo piè diede il Pegaso ad un sasso. Vicino ad essa era una statua di Apollo, e le sue acque davano pure la virtù di poetare.

Notisi infine che in generale gli antri e gli ameni recessi si credevano attissimi per la inspirazione della poesia, per cui alle Muse eran dedicati, non meno che i boschi ; e che le Muse consacravano i Poeti, detti sì {p. 133}spesso lor sacerdoti ed amici, con far bere ad essi l’acqua di alcuno de’ mentovati fonti(1), la quale aver credeano non so quale virtù d’infondere la facoltà di verseggiare.

XII. Incumbenzè e breve iconologia delle Muse. §

Le Muse si dipingono belle e vestite con molta semplicità e modestia, di modo che possonsi riconoscere pel solo carattere di un decente abbigliamento. Alla loro testa si vede Apollo coronato di alloro e colla lira in mano. Non di rado negli antichi monumenti si veggono vestite di lunghe tonache, ed una o due piume sul capo, per la vittoria riportata sulle Sirene, come in un bassorilievo del palazzo Barberini e nella villa Albani. Anzi spesso le Muse e le Grazie non aveano che un sol tempio, per indicare che uno de’ principali fini della poesia è dilettare.

Clio, così detta da un verbo greco (κλειω) che significa celebrare, presedeva alla storia, la quale celebra le azioni degli uomini grandi. Rappresentavasi in sembianza di una giovane coronata di alloro. Ila in mano un fascio di carte ed uno stile per segnarvi le memorabili gesta ed i fatti storici. La Clio di Ercolano ha vicino a se uno scrigno pieno di manoscritti.

Euterpe, (ab ευ, bene, et τερπω, delecto), così chiamata dal diletto che dà la poesia lirica, alla quale ella presiede. Se le attribuisce l’invenzione del flauto ; percui sul basso rilievo dell’apoteosi di Omero questa Musa tiene un doppio flauto. Si dipinge come una giovane inghirlandata di fiori, con carte musicali ed un flauto in mano, e con altri strumenti appresso di se.

Talia, (a θαλεω, floreo), quasi fiorente, presedeva alla commedia di cui vuolsi inventrice, ed all’agricoltura. Tiene nella diritta una maschera, ed ha il socco comico a’ piedi. La Talia del Museo Pio-Clementino era coronata di ellera, pianta consacrata a Bacco, ch’era {p. 134}Dio degli spettacoli. Nelle pitture di Ercolano, Talia è in piedi, vestita di una tonaca, e di una palla fimbriata, coronata di alloro, e col pedo o bastone pastorale, perchè presedeva agli studii campestri. Nel bassorilievo dell’apoteosi di Omero, Talia è quella che tiene la lira ed è in atteggiamento di recitare.

Melpomene, (a μελπομαι, cano), era la Musa della tragedia, e si dipingeva qual giovane donna, superbamente vestita e co’ coturni a’ piedi. In una mano tiene scettri e corone, e nell’altra, un pugnale. In una pittura di Ercolano si rappresenta vestita di una tonaca colle maniche sino a’ gomiti, di un peplo e di un pallio attaccato alla cintura ; ha la testa cinta di alloro o di una benda ; colla destra si appoggia ad una clava, e tiene nella sinistra una maschera. Orazio(1) ben due volte ha preso Melpomene per la Musa de’ lirici poeti.

Tersicore, (a τερπω, fut. ψω, delecto, et χορος, chorus), era la Dea della musica e della danza, ed a lei si attribuisce l’invenzione della cetra. Si rappresenta in forma di una giovane inghirlandata, e che ha in mano un’arpa, ed alcuni strumenti musicali intorno a se. Nel bassorilievo della villa Mattei, Tersicore batte la cadenza danzando, e tiene il plettro.

Erato, (ab εραω, amo), quasi amabile, era la Musa delle poesie erotiche, ed invocavasi da’ giovani romani nel mese di Aprile. È molto simile a Tersicore ; e si rappresenta in sembianza di una giovane coronata di mirto e di rose, avendo in una mano la lira, e nell’altra, un arco o plettro. Nelle pitture di Ercolano, Erato è in piedi ed ha in mano la cetra.

Polinnia, (a πολυς, multus, et υμνος, hymnus), era la Musa dell’eloquenza ; o la Memoria stessa deificata, che, raccolti i fatti illustri degli Dei e degli Eroi celebrati da’poeti, li tramanda alla posterità. Il più dipingesi coronata di fiori, e qualche volta di perle e di pietre preziose, vestita di bianco, colla destra in atto di arringare, uno scettro nella sinistra, ed un rotolo, {p. 135}sul quale è scritto : Suadere ; simbolo della rettorica. Era pure la Musa della pantomima.

Urania, (ab ουρανος, coelum), quasi celeste, perchè presiede all’astronomia. In una statua del Museo Pio Clementino, tiene in una mano il globo, e nell’altra, una bacchetta, con cui facevansi le dimostrazioni astronomiche. Sulle medaglie della famiglia Pomponia tocca colla sua bacchetta un globo che poggia su tre piedi, ed ha dietro al suo capo una stella. Catullo la fa madre d’Imeneo ; ed Igino, di Lino.

Calliope infine, (a καλος, pulcher, et οψ, οπος, cantus), Musa che presiede all’ eloquenza ed alla poesia epica. Da Ovidio(1) si chiama la prima del suo coro e la più grande delle Muse ; come Orazio(2) la nomina regina, ed Esiodo(3), la più nobile delle altre tutte. Si rappresenta in forma di una giovane coronata di alloro, di sembianza maestosa, tenendo nella destra una tromba, e nella sinistra, un libro, e tre altri vicino a se, cioè l’Iliade, l’Odissea e l’Eneide.

Infine diciamo che, secondo Plutarco(4), l’invenzione degli strumenti musicali si attribuiva a’ Numi, perchè appresso gli antichi la musica aveasi in grandissimo pregio. Quindi dissero che Apollo inventò la cetra(5), e ch’ebbe la lira da Mercurio(6).

XIII. Oracoli di Apollo. Tempio di Delfo. §

Callimaco loda il nostro Apollo dalla moltiplice cognizione delle cose ; e secondo lo Scoliaste di Omero, le principali arti di cui egli era duce e maestro, furono la musica, della quale abbiam parlato, la divinazione, la medicina e l’arte sagittaria, cioè di maneggiar l’arco. Quindi sotto la tutela di lui erano gli arcieri, i musici, i cantori e suonatori, i vati e gli auguri.

{p. 136}Lo Scoliaste di Pindaro afferma che Apollo appreso avea da Pan la scienza dell’avvenire ; ma altri vogliono che avesse ricevuto sì maraviglioso dono da Giove con patto che non l’avesse mai agli altri Dei comunicato. Apollo era la medesima cosa che il Sole, detto occhio del mondo, che vede tutte le cose ; e perciò finsero ch’ei era il dio della divinazione. Rappresentavasi quindi coronato di alloro ch’era simbolo della conoscenza del futuro ; e di alloro si coronavano le imposte de’suoi tempii ; e quando Apollo mostrava di esser presente, tutto si scuoteva il sacro lauro(1). Da ciò il costume di gettare nel fuoco le frondi di quella pianta ; le quali se facevano un certo strepito, era felice augurio ; ed era funesto, se nol facevano(2).

Or qui dobbiam favellare degli oracoli di Apollo, e prima di quello famoso di Delfo, città della Focide, sulla vetta del monte Parnasso, la quale credevasi dagli antichi allogata giusto nel mezzo non solo della Grecia, ma pur di tutta la terra, e però la chiamavano l’ombelico di essa(3). Notano i dotti che lo stesso credevano i Giudei, di Gerusalemme, gli Ateniesi, di Atene, e così di altre città. E si racconta che Giove, volendo sapere qual fosse il mezzo della terra, mandò due aquile, una dall’oriente, l’altra dall’occidente, le quali, andando con volo eguale, fermaronsi a Delfo(4). Ora in questo centro del mondo era il celebre oracolo ed il nobilissimo tempio di Apollo, ricco delle dovizie di tutt’ i popoli e di molti monarchi, non che de’ più pregevoli monumenti delle arti(5). Livio racconta(6) che, dovendo i Romani mandare a Delfo un dono promesso con voto da Camillo, e non trovandosi tant’ oro che bastasse ; le donne romane diedero i più cari ornamenti per giungere al determinato valore. Il tempio {p. 137}poi, ov’era allogato un simulacro di Apollo tutt’oro, stava su di una rupe altissima intorno intorno tagliata, ed il concorso della gente vi faceva una città ; e del tempio e della città le balze ed i dirupi facevan le veci di mura, sicchè non era certo, se più mirabile fosse la natura del luogo, o la maestà del Nume. Il mezzo della città avea sembianza di vasto teatro, e quando vi era assai gridare di uomini e forte suono di trombe, rintronando le rupi, si udiva più grande e quasi moltiplicato il rumoreggiare ; il che rendeva attoniti quei che l’ascoltavano(1). L’oracolo era una spelonca profondissima con piccola apertura, onde usciva un freddo vento, che alla Pitonessa ispirava un furore divino, pel quale dava profetiche risposte dal sacro tripode ch’era posto sull’apertura di quella grotta. In questo tempio scrissero gli antichi a lettere d’oro tre precetti di Chilone Lacedemonio : Conosci te stesso ; non desiderar troppo alcuna cosa ; la miseria è compagna de’debiti e delle liti.. Ed appresso i Greci correva voce che Socrate dall’oracolo stesso di Delfo era stato dichiarato il più sapiente di tutti gli uomini.

Omero(2) riferisce, avere Apollo stesso edificato quel tempio, e che vi diedero opera ancora Agamede e Trofonio, fig. dello stesso Apollo. I quali, finita la grand’opera, dimandarono al Nume un guiderdone pari alla fatica, cioè quella cosa che gli fosse sembrata di loro maggior vantaggio. Apollo significò che di là a tre giorni avrebbero veduto l’effetto della preghiera ; il quale fu, essersi ritrovati morti nell’ultimo di essi. Volle con ciò Apollo dare ad intendere, niuna cosa essere per l’uomo migliore che la morte(3).

Nel tempio di Delfo era il celebre tripode o cortina. Servio dice che i tripodi erano mense nel tempio di Apollo Delficio, sopra le quali le sacerdotesse di quel nume profetavano. E Plinio per cortina intende un treppiè, una picciola mensa fatta per tenervi bicchieri, appellata delfica, perchè era simile a quella mensa o tripode, {p. 138}sopra del quale la Pitonessa dava gli oracoli(1), ispirata dal Nume per mezzo di un vento o vapore che usciva da un freddo sotterraneo, quando essa sedea sul tripode. Dicono che Flegia fig. di Marte e re de’ Lapiti, ’in Tessaglia, per vendetta di un grave oltraggio recatogli da Apollo, incendiò il suo tempio di Delfo. E perciò quel Nume il fulminò e cacciollo all’inferno, ove sedendo sotto un gran sasso che minaccia di cadere, è condannato a sempre temerne la rovina(2). I Greci dicevano che nel tempio di Delfo la radice del rafano era stata posta innanzi agli altri cibi, essendo essa figurata di oro, la bietola, di argento, e la rapa di piombo(3).

Nè a Delfo solo, ma in più altri luoghi erano celebri oracoli di Apollo. In Claro, città della Ionia, era un tempio che in magnificenza appena cedeva a quello di Diana in Efeso, ed ove Apollo dava i suoi oracoli in versi. Si vuole edificato da Manto, fig. di Tiresia, la quale, presa Tebe, sua patria, dagli Epigoni, erasi nella città di Claro ritirata. Un altro oracolo era in Cirra, la quale città essendo non molto lontana da Delfo, spesso si prende l’uno per l’altro. Le sue risposte non eran che liete ; e s’eran triste, esso taceva. Da una caverna vicino a quella città uscivan venti che ispiravano un furore divino, pel quale i sacerdoti davan gli oracoli. Anche a Delo, luogo natale del nostro Apollo, dava egli i suoi oracoli. E passava sei mesi dell’auno, e proprio il verno, in Patara, città dell’Asia Minore(4), e sei mesi di està, in Delo. Teseo, dovendo partire per combattere il Minotauro, promise con voto ad Apollo Delio di far sì che gli Ateniesi ogni anno facessero un viaggio al suo tempio, se ritornato fosse vincitore. Così istituironsi le feste dette Teorie, in cui gli Ateniesi mandavano una deputazione a Delo per offerirvi sacrificii ad Apollo.

Per questa scienza del futuro fu consacrato ad Apollo il corvo detto uccello Febeo, il quale si annoverava fra gli {p. 139}uccelli maggiori augurali. Racconta Ovidio(1) che il corvo avea le piume candidissime, e che Apollo gliele trasformò in nere per punirlo della sua loquacità. Un giorno(2) avendolo mandato quel Nume ad attingere dell’acqua ad una fontana per alcuni sacrificii, il corvo, adocchiati de’ buoni fichi, ma immaturi, dimentico del comando, si adagiò sull’albero per aspettare che venuti fossero a maturità. Ritornò poscia da Febo con un’idra fra gli artigli che avea ghermito, scusandosi quasi quel serpente gli avesse vietato il prender l’acqua. Ma in pena di aver voluto gabbare il Dio degl’indovini, fu condannato a non poter bere in tutto il tempo che il fico ha immaturi i suoi frutti. Apollo pose fra gli astri il corvo, il serpe e la tazza. Alcuni scrittori sull’autorità di Aristotele(3) hanno asserito che i corvi veramente non beono nel tempo di està ; il che ha potuto dar luogo alla favola. Gli auguri dicevano che i corvi veduti a man destra davano fausti augurii ; ed infausti, a sinistra. Quindi cantò il Petrarca(4) :

Qual destro corvo, o qual manca cornice
Canti il mio fato.

Come a Dio della divinazione, dice Cicerone(5), era ad Apollo consacrato anche il cigno, perchè stimasi avere quasi un presentimento della vicima sua morte, la quale esso annunzia con un canto dolcissimo.

Figliuolo di Apollo e d’Ipermestra o Ipermnestra, fu Anfiarao, indovino ed augure insigne, ed uno de’sette a Tebe. Prevedendo che se andato fosse a quella guerra, vi sarebbe morto, si tenne celato a tutti, salvo che alla moglie Erifile, fig. di Talao e sorella di Adrasto, il quale, per iscoprire il cognato, le diede un bel monile di oro e gemmato, fatto da Vulcano ; ed ella di quel dono {p. 140}invaghita tradì il consorte. Anfiarao impose al figliuolo Alcmeone di vendicar dopo la sua morte il tradimento della madre ; ed andato a Tebe, insieme co’ cavalli fu inghiottito dalla terra aperta per un gran tremuoto. Alcmeone, memore del paterno comando, uccise la madre Erifile, per la qual cosa fu dalle furie agitato.

Apollo infine chiamavasi veritiero ed amante della verità e non della mensogna ; percui da Eschilo si appella vate non mendace ; e Callimaco afferma ch’ egli giura sempremai il vero. I suoi oracoli eran reputati veraci e fermi ; e si finse che quando nacque Apollo, al parto suo assistesse la Verità.

XIV. Continuazione. §

Nelle Metamorfosi(1) Apollo stesso afferma ch’egli avea trovata la medicina, e che conosceva la virtù di ciascun’erba ; nel che gliantichi facevan consistere propriamente la medicina(2). Quindi a lui era consacrata la panacea, erba odorosa cui attribuivansi virtù miracolose ed universali, detta perciò rimedio universale. Da questo Nume, dice Callimaco(3), hanno appreso i medici, co’ loro salutari rimedii a quasi tener lontana dall’uomo la morte. Anche Ippocrate giurava per Apollo medico ; ed Igino gli attribuisce l’invenzione della medicina oculare. Da non pochi luoghi di Omero si scorge che ad Apollo attribuivan gli antichi le morti repentine e tranquille degli uomini, come a Diana, quelle delle femmine. Così Ecuba assomiglia il corpo di Ettore ad un fiore, che Apollo uccide co’ dolci suoi raggi :

……..Tu fresco e rugiadoso
Or mi giacì d’avanti, e fior somigli
Da’ dolci strali della luce ucciso. Monti.

Eurito, nell’Odissea, muore repentinamente, perchè avendo osato di venire a contesa con Apollo sulla {p. 141}perizia nel maneggiar l’arco, questo Nume sdegnato colle sue frecce l’uccise. Le quali cose dissero i poeti, perchè alle volte il calore del sole è cagione di subitanee morti. Ad Apollo poi, come a Dio della medicina, consacrarono l’alloro, il quale, secondo Galeno, ha in se non poche virtù medicinali.

Fu pure Apollo inventore dell’arte sagittaria, nella quale era peritissimo ; e si vuole che sia stato detto Peane (παιαν, Paean) dal greco (παιειν) che significa ferire. I suoi dardi uccisero il mostruoso Pitone ed i Ciclopi, come pure i figliuoli di Niobe. Da Orazio(1) chiamasi Febo tremendo per l’infallibile suo arco ; e dice ancora(2) che il gigante Tizio, avendo usato poco rispetto a Latona, fu dalle saette di Apollo ucciso e condannato nel tartaro ad occupare lo spazio di ben nove iugeri collo smisurato suo corpo. Altri dicono che fu da Giove ucciso di un fulmine. Morto Ettore, l’indomito Achille, appressandosi alle mura di Troia, con gran voce diceva ch’egli solo bastava ad espugnare quella città infelice. Sdegnato di ciò Apollo prende la figura di Paride e coll’inevitabile suo strale mortalmente il ferisce nel calcagno, ove solo era vulnerabile, come Ettore stesso, vicino a morire, predetto avea al suo inesorabile vincitore(3). Alcuni vogliono che Paride stesso uccise Achille ; ed altri, che Apollo diresse il suo dardo. Infine è certo che principale attributo di Apollo è l’arco ed il turcasso ; da che ebbe i soprannomi di Arciero, di Ecaergo, o che colpisce da lungi, e più altri ; i quali dinotano che il sole co’ suoi raggi che sono gli slrali di Apollo, da lontano fa sentire la sua influenza. Si vuole che avesse ricevuto da Vulcano e l’arco e le sue frecce inevitabili.

Sotto la protezione di Apollo erano inoltre i fondatori delle città ; e quelli che conducevan le colonie o fondar doveano qualche città, eran soliti presso i Greci di {p. 142}consultare l’oracolo di Delfo sì riguardo al luogo ed al modo d’impadronirsene, e sì per conoscere a chi meglio si dovesse affidare l’impresa(1). Callimaco(2) afferma che Apollo non solo era maestro di fondare città, ma che n’era pure fondatore egli stesso. Quindi molte città si davano il vanto di avere avuto questo Nume a fondatore, e Cirene, e Tere o Terea, e Carne, e Nasso in Sicilia, e Delo specialmente, di cui parlando il poeta fa menzione dell’ara cornea, fatta da Apollo, ed una delle maraviglie del mondo. Era essa tutta costrutta di corna di capra che Diana ucciso avea sul monte Cinto, le quali erano assai ingegnosamente dispote ed intrecciate insieme senza alcuna maniera di cemento. Una tradizione attribuiva ad Apollo la costruzione delle mura di Megara ; e si vuole che avesse aiutato Alcatoo, fig. di Pelope e nipote di Tantalo, a fabbricare una delle fortezze di quella città, ove a tempo di Pausania mostravasi ancora la pietra, sulla quale il celeste muratore avea appoggiata la sua lira, e che da quell’istante rendeva toccata un suono simile a quello di questo strumento. Il dice Ovidio(3).

Quando fè fare Alcatoo quella torre,
Chiamò fra gli altri Apollo a dargli aiuto ;
Il qual volendo un sasso in alto porre,
Appoggiò alla parete il suo liuto.
Subito il muro il suon gli venne a torre,
E sol fra gli altri sassi non fu muto ;
Ma da marmo o d’acciar percosso alquanto
Puro rendea di quella cetra il canto. Anguillara.

Era pure Dio tutelare de’ pastori, a’quali insegnato avea il canto ed i carmi pastorali, ed a suonar la sampogna ed a custodire e ben governare il gregge. Quindi chiamossi Nomio o pastorale fin da che guardò gli armenti di Admeto. Se gl’immolava il lupo, ch’è animale pernicioso alle mandre.

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XV.Continuazione. Febo o il Sole. Circe. Scilla. Armenti del Sole. §

Apollo finalmente era il dio del giorno e della luce ; ed in questo senso propriamente dicevasi Febo o il Sole. Così il Chiabrera(1) :

Febo s’infiamma, e rimenando il giorno,
Vie più la terra incende.

Ed il Boccaccio(2) : Siccome fare

Suol Febo in acqua percosso od in vetro.

L’Ariosto poi(3) chiama il sole, Apollo :

Nel tenebroso fondo d’una torre,
Ove mai non entrò raggio di Apollo.

Secondo Macrobio, il Sole era adorato dagli antichi sotto varii nomi, come di Bacco, di Apollo, di Mercurio ecc. E forse il Sole era il Baal o Belo de’ Caldei, il Moloch de’ Cananei, il Beelfegor de’ Moabiti, l’Adone de’ Fenicii, l’Osiride degli Egiziani, il Mitra dei Persiani, e l’Apollo de’Greci e de’ Romani. Pare dunque che l’idolatria abbia avuto principio dal culto del sole, e che quest’astro fosse stato la divinità di quasi tutte le antiche nazioni. Avea i suoi tempii ed i suoi sacrificii, e si diceva fig. d’Iperione, mentre Apollo riputavasi fig. di Giove e di Latona. Omero il fa figliuolo d’Iperione e di Eurifessa ; ed Esiodo, d’Iperione e di Tia o Tea. Cicerone(4) numera cinque Soli ; il primo figliuolo di Giove e nipote dell’ Etere ; il secondo, d’Iperione ; il terzo, di Vulcano, fig. del Nilo, al quale gli Egiziani avean consacrata la città di Eliopoli ; il quarto che in Rodi ebbe per figliuoli Gialiso, Camero {p. 144}e Lindo ; ed il quinto che a Colco procreò Eeta e Circe. Fu chiamato Sole, perchè solo risplende nel cielo ; e da’Greci Ηλιος o Ηελιος da una voce greca che significa splendore.

Dal Sole e da Perseide, una delle Oceanidi, nacque Circe ed Eeta, re della Colchide, il quale da Idìa procreò Medea. Circe poi era una maga assai celebre, che soggiornava nell’isola Eèa in un superbo palagio che sorgeva in mezzo ad una selva di annose querce. Da Omero chiamasiDiva terribile, dal crespo erine e dal dolce canto ; ed egli racconta che, approdato Ulisse a quell’isola, ebbe il dolore di vedersi molti suoi compagni trasformati in porci per virtù di alcuni di lei farmaci, ed al tocco della sua magica verga. E lo stesso sarebbe accaduto ad Ulisse, se Mercurio non gli avesse dato un’erba di stupenda virtù, chiamata moli (μωλυ, moly)(1).

« Bruna, dice Omero,
N’è la radice, il fior bianco di latte ;
Moli i Numi la chiamano : resiste
Alla mano mortal che vuol dal suolo
Staccarla ; ai Dei che tutto ponno, cede. Pindem.

Colla virtù di quest’erba sciolse Ulisse l’incanto, ed ottenne da quella ninfa che i compagni ritornassero alla primiera forma umana. Eraclito(2) dice che Circe era una donna d’indole malvagia, che co’suoi artificii rendeva gli uomini dissennati e li riduceva quasi alla condizione degli animali immondi, come sono tutt’i voluttuosi. Per modo proverbiale la tazza di Circe si adopera da Cicerone(3) per dinotare un uomo che subitaneamente veggasi cambiato in altro. Dicono dippiù(4) che desiderosa Circe di vendicare alcuni torti ricevuti da Scilla, bellissima ninfa, fig. di Forco e di Cretide, con alcuni suoi magici farmaci avvelenò la fonte, ove Scilla era solita bagnarsi ; percui, entrandovi questa, secondo la sua usanza, subito sentì cangiarsi la metà inferiore {p. 145}del suo corpo in forma di rabbiosi cani. Della quale sua deformità forte vergognandosi, gettossi nel mare presso la Sicilia, e per opera di Glauco fu convertita in dea marina. Scilla era uno scoglio all’estremità dell’Italia meridionale dirimpetto a Cariddi, che nel profondo e vorticoso suo gorgo assorbiva i vascelli con rumoreggiare spaventoso ; da ciò la finzione di Omero, che Scilla, mostro marino, presso alla Sicilia, avea divorato alcuni compagni di Ulisse ; e da ciò pure quella rabbia Scillea di Virgilio(1).

Circe ancora(2) avverti Ulisse che si fosse ben guardato dal recar danno agli armenti del Sole. Erravano questi in gran numero tra buoi e pecore pe’fertili campi della Sicilia ed eran di loro natura immortali. Venivan guidati al pascolo da due ninfe, Fetusa e Lampezie, fig. del Sole, e della ninfa Neera. Ma i compagni di quell’eroe, mentre esso dormiva, vinti dalla fame, ne uccisero alcuni. La quale cosa dispiacque tanto al Sole che pregò Giove a punir quell’oltraggio ; e ciò fu cagione di gravi disastri all’infelice Ulisse.

XVI. Continuazione. Cavalli del Sole. Aurora. Titone. Mennone. §

Febo o il Sole guidava un cocchio a quattro, non già a due cavalli, come l’ Aurora e la Notte. I solari destrieri erano bianchi e tutti sfolgoranti di luce. Son essi Eoo, cioè l’orientale, Eto, o l’ardente, Piroo, o l’infocato, e Flegone, o il fiammeggiante. Da alcuni chiamansi Eritreo, Atteone, Lampo e Filogeo. Da Ovidio son detti alipedi, cioé veloci. Ogni sera il Sole li distacca dal cocchio, e va con esso a tuffarsi nel mare che colora delle sue vampe. I Greci asserivano di sentire un certo rumore verso occidente, allorchè il Sole si tuffava nel mare e si estingueva la sua luce nelle onde, come se il mare stridesse nel discendere in esso il Sole. Da questa opinione ebbe origine la favola di considerare il {p. 146}Sole come un Nume portato sul cocchio, e che vada a riposare ogni notte nell’Oceano in seno a Teti ; e che le Ore ligano ogni mattina i quattro cavalli al suo cocchio, dopo essere stato trasportato pel settentrione all’oriente su di un vascello d’oro, lavoro misterioso di Vulcano. Quindi cantò l’Ariosto :

Il Sole appena avea il dorato crine
Tolto di grembo alla nutrice antica.

Ed altrove :

Era nell’ora che traea i cavalli
Febo del mar con rugiadoso pelo ;
E l’Aurora di fior vermigli e gialli
Venia spargendo d’ogn’intorno il cielo :
E lasciato le stelle aveano i balli,
E per partirsi postosi già il velo.

E l’Aurora appunto credevasi la messaggiera del sole, che apriva le porte rosseggianti dell’oriente e le sale piene di rose(1). Percui cantò il nostro Torquato :

Già l’alba messaggiera erasi desta
Ad annunziar che se ne vien l’Aurora.
Ella intanto si adorna e l’aurea testa
Di rose colte in Paradiso infiora.

E come il bel colore dell’Aurora è simile a quello della rosa, e l’alba ha un dolce candore purissimo ; così appresso i poeti frequentemente s’incontrano siffatte comparazioni. Omero spesso l’addita cogli epiteti di figliuola del mattino (ηως ηριγενεια), di Dea dalle rosee dita (ροδοδακτυλος), e dall’ aureo trono (χρυσοθρονος). Nell’Odissea(2) si rappresenta nell’atto che sorge dall’oceano su di un cocchio a due cavalli, Lampo e Fetonte, i quali apportano agli uomini la luce. Tibullo(3) chiama l’Aurora candida, e le dà rosei {p. 147}cavalli. Ed il color candido può qui denotare quel puro e’ dolce splendore, ond’è bella l’ Aurora. Ed i rosei cavalli le si appropriano convenevolmente, quantunque candida si appella, come Virgilio(1) la rappresenta su di un cocchio con due rosei cavalli, benchè la dica lutea, perchè l’uno e l’altro colore sta bene alla bella luce del giorno nascente.

Or l’Aurora fu fig. d’Iperione e di Tea, la quale era fig. del Cielo e della Terra(2) ; o d’Iperione e di Eurïfessa(3) ; o di Titano e della Terra ; o di Pallante, detta perciò Pallantiade(4). Chiamossi Aurora da’ Latini, quasi aurea o color d’oro(5). Da Astreo partorì i Venti, Lucifero, e gli Astri. Omero la dipinge con un gran velo sulla testa rivoltato indietro, e dice che colle sue dita di rose apre le porte dell’oriente ; e ch’ ella versa la rugiada e fa nascere i fiori. Anzi essa attacca i cavalli al cocchio del Sole, e poscia siede sul suo tirato da due cavalli bianchi, secondo Teocrito, o color di rosa, secondo Virgilio.

Marito dell’ Aurora fu Titono, fratello, o meglio, fig. di Laomedonte e fratello di Priamo. Fu uomo di grande bellezza, ed ottenne da Giove(6) il dono della immortalità per le preghiere della consorte ; la quale non avendo pensato a pregare quel Nume che lo avesse reso libero anche dalla vecchiezza, il povero Titono dovea tollerare i disagi di un’ età decrepita senza che potesse morire ; tanto che si dice la vecchiezza di Titone per una età molto inoltrata. Or egli avea avuto dall’ Aurora un figliuolo di grande bellezza, chiamato Mennone, che recò soccorso a Troia ed avea le armi fabbricate da Vulcano. Egli fu re degli Etiopi, percui da Catullo si chiama l’Etiope Mennone, e da Properzio la reggia di Mennone si pone per l’Etiopia. Presso Troia uccise Antiloco, fig. di Nestore, ed egli stesso fu ucciso da {p. 148}Achille. Titono ne fu sì dolente che dagli Dei ottenne di esser cangiato in cicala. La madre poi pianse amaramente l’estinto figliuolo, ed il piange tuttavia, giacchè le gocciole di matutina rugiada che cadono sull’ erba e sui fiori, sono appunto le lagrime che l’Aurora continuamente sparge pel figliuolo Mennone(1). Dalle ceneri dell’estinto Mennone uscì gran numero di uccelli, detti Mennonidi (Memnonides), i quali ogni anno dall’ Etiopia si recavano al sepolcro di lui, e dopo molti disperati lai, combattendo fra loro, onoravano la memoria dell’estinto guerriero(2). Mennone forse era l’Amenofi degli Egiziani, o sia il sole nascente divinizzato, di cui è celebre la statua colossale in Tebe di Egitto, la quale(3), quando era illuminata da’primi raggi del sol nascente, formava un suono articolato.

XVII. Iconologia di Apollo. §

Nel Museo Borbonico vi è una statua di Apollo detta da Winckelmann la più bella fra le statue di questo nume ; e la sua testa, il colmo dell’umana bellezza. Esso in piedi e con le gambe incrocicchiate è in atto di unire il canto al dolce suono della sua lira. Un cigno sta a’ suoi piedi.

Gli abitanti di Delo consacrarono una statua ad Apollo, opera di un loro concittadino che visse a tempo di Dedalo. Il Nume teneva l’arco nella destra, e nell’altra mano portava le tre Grazie, la prima con una lira, la seconda col flauto, e quella di mezzo con la sampogna in bocca. La magnifica statua dell’ Apollo di Belvedere ritrovata fra le rovine di Anzio, antica città d’Italia, verso la fine del secolo XV, fu collocata nel padiglione del Belvedere in Vaticano, donde trae il suo nome. Alla pace di Tolentino nel 1797 fu trasportata in Francia ; ma nel 1815, per gli avvenimenti della guerra, ritornò nel Vaticano. È verisimile che fra le {p. 149}statue della Casa aurea di Nerone tolte alla Grecia vi fosse anche questa, la quale è la più sublime fra le opere antiche che sino a noi si son conservate. Pare che l’artista abbia formata nna statua puramente ideale, prendendo dalla materia solo quello ch’era necessario per esprimere il suo intento e renderlo visibile. Questa mirabile statua tanto supera tutti gli altri simulacri di quel nume, quanto l’Apollo di Omero è più grande di quelli descritti dagli altri poeti. Il complesso delle sue forme sollevasi sopra l’umana natura, ed il suo atteggiamento mostra la grandezza divina che lo investe. « Una primavera eterna, qual regnà ne’ beati Elisî, spande sulle virili forme di un’età perfetta i tratti della piacevole gioventù, e sembra che una tenera morbidezza scherzi sull’altera struttura delle sue membra…… Gli occhi suoi son pieni di quella dolcezza che mostrar suole allorchè le circondano le Muse. La sua morbida chioma pare unta coll’olio degli Dei ; e simile a’ teneri viticci, scherza quasi agitata da una dolce auretta intorno al divino suo capo, in cima a cui sembra con bella pompa dalle Grazie annodata ». Queste e più altre parole ; nell’estasi della sua ammirazione per l’Apollo di Belvedere, diceva il ch. Winckelmann. E l’immortale Visconti : « Lo sdegno, dìce, che appena si affaccia nelle narici insensibilmente enfiate, e nel labbro di sotto alquanto sporto in fuori, non giunge ad oscurare le luci, o a contrarre il sopracciglio del Dio del giorno. Il lungisaettantesi ravvisa ne’ suoi sguardi, e la faretra appesa agli omeri sembra che, secondo la frase di Omero, suoni sulle spalle del Dio sdegnato. Un’eterna gioventù si diffonde mollemente sul suo mollissimo corpo, così giudiziosamente misto di agilità, di vigore, di eleganza, che vi si vede il più bello, il più attivo degli Dei, senza la morbidezza di Bacco, e senza le affaticate musculature di Ercole, ancorchè deificato. L’aurea sua clamide si allaccia gentilmente sull’omero destro, ed i piedi sono ornati di bellissimi calzari, forse di quel genere che dai Greci si appellavanosandalia leptoschide, sandali di sottili strisce ec. » In questa statua {p. 150}chi ravvisa Apollo cacciatore, chi quel Nume, dopo avere scagliato i suoi dardi contro i Greci ; altri, dopo la strage che fece degli orgogliosi giganti, o de’figliuoli di Niobe ; e chi dopo l’uccisione del serpente Pitone.

Molte statue di Apollo avevano il capo coronato di alloro ; e sono ovvii in esse i capelli raccolti in nodo sopra la fronte e circondati da uno strofio o cordone, ornamento proprio degli Dei e de’ Re. In un’agata presso il Sig. De la Chausse si rappresenta il Sole sul suo cochio, che nella destra tiene un flagello, e colla sinistra le redini de’ suoi velocissimi cavalli. Ha intorno a se i dodici segni celesti che formano il Zodiaco. E si noti che a Febo solamente e non ad Apollo si appropriano certi attributi che convengono al Sole, come il cocchio luminoso, il Zodiaco, e simili. Così in una pietra antica è inciso il colosso di Rodi, opera di Carete Lindio e di Lachete, ed una delle maraviglie del mondo, alto 105 piedi, ch’era allogato all’ingresso del porto di Rodi. Da una parte si vede la testa del simulacro circondata di raggi, come rappresentavasi il Sole o Febo Apollo. Il colosso ha in una mano l’asta, e nell’altra un flagello per indicare ch’egli agita il cocchio, che corre sì veloce le strade del cielo(1). I due piedi di questa famosa statua di bronzo poggiavano sopra i due moli che formavano il porto di Rodi ; e le navi a vele gonfie passavano liberamente fra le sue gambe. Un forte tremuoto il ridusse in pezzi, ed un mercadante, ne caricò novecento cammelli.

Nel dipingere Apollo i poeti ed i pittori adoperano ogni fiore di bellezza. Egli va superbo per la bella sua chioma lunghissima(2), che portava tutta profumata di odorosi unguenti e di assirio nardo. Secondo Callimaco, avea la clamide fermata sulle spalle con una fibbia di oro ; ed alle volte la veste lunga citaredica, o sia la palla che scendeva sino a’piedi. Gli si attribuiva un colore candido simile a quello della luna, misto ad un bel purpureo, come se, dice Tibullo, agli amaranti si {p. 151}unissero bianchi gigli. Alla sinistra di lui pendeva la sonora lira di oro ed ornata di gemme, opera di mirabil lavoro. La sua eterna gioventù era più cara per cagione di una fiorente avvenenza che ornava le fresche sue guance, sulle quali non mai spuntò anche picciola lanugine. Or si sa che presso gli orientali il sole per gli uomini, e la luna per le donne esprimono la più alta bellezza. I suoi lunghi crini erano i raggi del sole, e gli si attribuiva una perpetua giovinezza, perchè il sole sorge sempre mai collo stesso splendore. La sua lira infine che avea sette corde, significava i sette pianeti, de’quali il sole era come il sovrano. Secondo Pittagora l’universo è un grande ettacordo ; ciascun pianeta manda uno de’ suoni della solfa, e dalle loro vibrazioni risulta un’ armonia, per la quale noi mortali siam sordi(1).

XVIII. Principali epiteti di Apollo. §

Apollo arcitenens, cioè arciero, perchè Dio dell’arte sagittaria. Valerio Flacco disse arcipotens Apollo, cioè valente in tirar d’arco. I Greci dicevano τοξοφορος, che porta l’arco ; τοξοτης, arciero ; αργυροτοξος, dall’arco di argento ; εκαεργος, il lungi saettante, e più altri simili.

Apollo Augur, certus, cioè, infallibile, dicesi da Orazio, perchè presedeva alla divinazione. Gr. προοψιος.

Apollo Actius, così detto dal celebre promontorio di Azio, ove Augusto vinse Antonio e Cleopatra. Vi avea Apollo un tempio edificato dagli Argonauti ed abbellito da Augusto. Vi si celebravano alcuni giuochi detti Actia, che quell’imperatore trasportò a Roma dopo la vittoria di Azio.

Apollo αλεξικακος, che allontana il male. Essendo che per Apollo e Diana intendevasi il sole e la luna, da cui gli antichi dicevano provenire la salubrità dell’aria, la fertilità de’campi e la salute degli uomini, furon essi stimati autori della pubblica salute e felicità ; e quindi detti σωτηρες, αλεξικακοι, αποπομπαιοι, cioè gli Dei {p. 152}Averrunci de’ Latini, i quali averruncabant, cioè tenevan lontana la peste, la carestia ed ogni pubblica calamità. E però nel Carme secolare di Orazio si fanno preghiere a que’numi per la felicità della Repubblica.

Apollo auricomus, χρυσοκομης, Apollo dall’aurea chioma, detto così dal fulgore de’raggi che sono l’aurea chioma del sole.

Apollo Branchideo avea un celebre oracolo ed un tempio presso i Milesii, ove prima era l’oracolo de’ Branchidi, e che fu bruciato da Serse. Fu così detto da un giovane di Tessaglia assai amato da Apollo. Quest’oracolo era il più veridico dopo quello di Delfo.

Apollo Cinzio, Κυνθιος, Cynthius, da Cinto, monte nell’isola di Delo, ove nacquero Apollo e Diana, la quale per ciò fu pur detta Cinzia. Stefano vuole che tutta l’isola di Delo un tempo si chiamava Cinto.

Apollo Cirreo, Cirrhaeus, da Cirra, città della Focide, presso alla quale era una caverna, da cui sortivan venti che infondevano un furore divino e facevan dare oracoli.

Apollo Clario, Clarius, da un oracolo e tempio nobilissimo che avea in Claro, città della Ionia, vicino a Colofone(1).

Apollo Dafneo, dalla ninfa Dafne ch’egli cangiò in alloro. Con questo soprannome avea un tempio ed un boschetto di alloro presso Antiochia. Chiamavasi pure Dafneforo,δαφνηφορος, cioè che porta alloro. Dafneforo pure appellavasi un giovane ministro, il quale nelle feste Dafneforie portava un ramoscello di alloro, con sopra un globo di rame, da cui molti altri piccoli pendevano. Queste feste si celebravano ogni nove anni nella Beozia in onore di Apollo.

Apollo Delfico, Δελφικος, Delphicus, da Delfo, ove avea il tempio e l’oracolo. Dall’ Alighieri chiamasi Apollo, Delfica deità ; e l’alloro, fronda Peneia :

Che partorir letizia in su la lieta
Delfica Deità dovria la fronda
Peneia, quando alcun di se asseta.

{p. 153}Apollo Delio, Delius, da Delo, isola dell’ Egeo, ove Apollo era nato.

Apollo intonso, intonsus, per la sua lunga chioma ; da’ Greci, ακειρεκομης.

Apollo Iperionide, Υπεριονιδης, cioè fig. d’Iperione, il quale, secondo alcuni mitologi, era fig. di Urano, marito di Tia e padre del Sole, della Luna e di tutti gli astri. In Omero trovasi Ηελιος υπεριων, sol sublimis ; ed alle volte Υπεριων ponesi pel Sole.

Latonio, Latonius, Latous, λητοιδης, appellavasi Apollo, perchè figliuolo di Latona.

Apollo Licigenete, λυκηγενης, dicesi da Omero, o perchè il Sole è quasi il generatore dell’Aurora (a λυκη, aurora), o perchè nato nella Licia. Trovasi pure Apollo Lycius.

Apollo Medico, Salutare o Sotere, σωτηρ, ιατρος ; come Dio della medicina. Da Ovidio chiamasi Opifer.

Apollo Musagete, (dux Musarum), cioè duce e presidente delle Muse.

Apollo Musico, Musicus ; Apollo Citaredo, Citharaedus perchè Dio della musica.

Apollo Nomio, Nomius, νομιος, cioè pastorale, forse perchè guidò gli armenti di Admeto.

Apollo Palatino, Platinus, dicevasi da’ Romani pel tempio edificatogli da Augusto sul monte Palatino dopo la vittoria di Azio.

Apollo Paean, παιαν, così detto o dal verbo greco παιω, che significa sedare, perchè Apollo seda i morbi e li guarisce ; o perchè, quando Latona, partita dall’isola di Eubea, co’ suoi figli Apollo e Diana, passando vicino all’antro del serpente Pitone, ed uscito questo contro di loro, gridò ιω παιαν, ferisci ; il quale grido divenne l’intercalare di tutti gl’inni di Apollo (1).

Παυδερκης, (a πας, omnis, et δερκω, video) e πανοπτης, (πας et οπτομαι, video) dicesi il Sole, perchè tutto vede.

Apollo Patareo, Patareus, pel tempio che avea a Patara, antica città dell’ Asia Minore, ove ne’ sei mesi di inverno dava i suoi oracoli.

{p. 154}Apollo Sosiano, Sosianus, cioè Salvatore (a σωζειν, salvare). Altri vogliono che fu così detto, perchè allogavasi nelle botteghe de’ librai, fra’ quali dice Orazio(1) che i Sosii erano i principali.

XIX. Alcune altre cose di Apollo. §

M. Fulvio Nobiliore dalla città di Ambracia nell’ Epiro, trasportò a Roma le statue delle nove Muse, che allogò nel tempio di Ercole. Eumenio(2) dice che Fulvio nella Grecia apprese che anche Ercole era Musagete o guida Muse, come dice il Salvini.

Spada Delfica (δελφικον ξιφος) significava una cosa che facilmente può accomodarsi ad usi diversi, perchè a Delfo eranvi spade colle quali e s’immolavano le vittime e si dava la morte a’ malfattori(3).

Il Liceo, celebre ginnasio di Atene destinato all’educazione della gioventù, era dedicato ad Apollo, Dio delle scienze e delle arti. Sotto i suoi portici e ne’ suoi giardini Aristotele passeggiando insegnava filosofia a’suoi discepoli. Fu fondato da Pisistrato e molto accresciuto da Pericle.

Peana o Peane (παιαν, paean) chiamavasi un inno cantato in onor di Apollo, feritore del serpente Pitone, o dopo qualche vittoria, o per allontanare alcuna sciagura. Peani pure chiamavansi gl’inni cantali in onore di qualsivoglia altro nume od eroe, quando era imminente la battaglia ; e quelli che la gioventù cantava nelle panatenee, o per celebrare i fatti degli uomini illustri.

La palma, l’ulivo, l’alloro erano piante consacrate ad Apollo, come pure il mirto, che come l’alloro credevasi un albero inspiratore, il loto, il ginepro e l’eliotropio o girasole. Clizia, ninfa Babilonese, fig. dell’ Oceano e di Teti, avendo commesso non so qual fallo contro di Febo, ne fu sì dolente che ricusò di prender {p. 155}cibo, stando sempre cogli occhi rivolti al Sole. E però da Febo fu per compassione convertita in eliotropio o girasole, fiore che si volta sensibilmente secondo il corso del sole.

Il gallo era consacrato ad Apollo, perchè col suo canto annunzia il vicino apparire di Febo, cioè del Sole. Talora se gl’immolavano degli agnelli, come dice Virgilio : e secondo Pausania, anche un toro. I cigni poi chiamansi da Callimaco cantori di Febo ; e Plutarco dice che Apollo dilettavasi della musica e della voce de’cigni. Platone afferma che l’anima di Orfeo avea scelto di abitare nel corpo di un cigno.

Carme secolare (carmen saeculare) era una poesia che cantavasi ne’giuochi secolari che si celebravan da’ Romani con gran pompa per tre giorni al terminare di ogni secolo dalla fondazione di Roma. In essi uno scelto coro di giovanetti e di donzelle di cui eran viventi e padre e madre (patrimi et matrimi.) al numero di ventisette e gli uni e le altre cantavan quel carme in onore di Apollo e di Diana, numi tutelari della Repubblica. Ignorasi il tempo della loro istituzione, e si sa solo che i libri Sibillini ne prescrivevano il rito. Augusto, l’anno della città 737, dovendosi celebrare i giuochi secolari, volle che Orazio componesse il bellissimo Carmen saeculare pro incolumitate imperii, che sarà in pregio presso i letterati sino a che si gusterà al mondo fiore di poesia. In esso si cantano le lodi de’due figliuoli di Latona e si fanno voti per la felicità dell’impero. Vi erano pure i giuochi Apollinari, la prima volta celebrati in Roma per un decreto del Senato l’anno 542. Della loro istituzione vedi Livio e Macrobio, chè noi abbiamo assai parlato di Apollo.

Diana o la Luna. §

I.Nomi diversi dati a questa Dea e lor ragione. §

Le vetuste teogonie per lo più distinguono la Luna, Ecate e Diana, facendone tre divinità diverse ; ma {p. 156}qualche volta le confondono, come fanno i poeti posteriori ad Esiodo e ad Omero. Da Virgilio(1) si scorge che la Luna non era diversa da Diana. Niso, egli dice, volto inver la Luna,

Che allora alto splendea, così la prega :
Tu, Dea, tu della notte eterno lume,
Tu regina de’boschi, in tanto rischio
Ne porgi aita. Caro

Ove vedesi dato alla Luna l’aggiunto di regina de’ boschi, ch’era proprio di Diana. Onde cantò l’Ariosto(2) :

O santa Dea che dagli antichi nostri
Debitamente sei detta triforme ;
Che in cielo, in terra e nell’inferno mostri
L’alta bellezza tua sotto più forme ;
E nelle selve di fere e di mostri
Vai cacciatrice seguitando l’orme.

Quindi comunemente si dice che una sola è la figliuola di Latona, la quale appellasi Luna nel cielo, Diana sulla terra, ed Ecate o Proserpina nell’Inferno. Quindi quei noti versi :

Terret, lustrat, agit, Proserpina, Luna, Diana,
Ima, suprema, feras, sceptro, fulgore, sagitta.

Noi, per maggior distinzione, ragioneremo in questo articolo di Diana – Luna ; nella seconda parte, di Diana propriamente detta ; e nella terza, di Diana-Ecate o Proserpina.

Ed in quanto a’ nomi della prima, la voce Luna secondo alcuni deriva dal verbo luceo, quasi Lucina, toltane la sillaba di mezzo ; ovvero perchè di notte sola risplende (sola lucet). Altri vogliono che fu così detta perchè riluce con luce aliena, cioè presa in prestito dal sole. Dai Greci dicevasi Σεληνη da σελας, che vuol dire splendore.

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II. Storia favolosa di questa Dea. §

La Luna era la più grande divinità del paganesimo dopo il Sole, percui adoravasi dalla maggior parte degli Orientali col nome di Urania o Dea Celeste. Gli Egiziani la chiamavano Iside ; Astarte, i Fenicii : Dione, gli Assirii ; Militta, i Persiani ; Selene, i Greci ; ed i Romani, Venere, Giunone e piú spesso Diana. Cesare attesta che le divinità degli antichi Germani non erano altre che il Fuoco, il Sole e la Luna. E veramente i primi uomini colpiti dalla grandezza e dallo splendore di questi due corpi luminosi, agevolmente s’indussero a credere ch’erano i padroni del mondo e gli Dei che tutte le cose governano.

La Luna da Omero ora si dice fig. di Pallante, ed ora d’Iperione, e di Eurifessa. Ma Esiodo dice che da Iperione e da Tea nacque il Sole, la Luna e l’Aurora.

Era essa la regina della notte e del silenzio, come la chiama Orazio, o secondo Eschilo, l’occhio della notte. Le sue influenze si temeano assai dagli antichi, come quelle di una Dea che si mostra solo di notte. Da ciò gl’incantesimi delle maghe Tessale, di quelle di Crotone ec. le quali colla virtù de’ loro magici carmi potevano far calare la Luna dal cielo(1), e dicevano poterla liberare dal drago che volea divorarla ; il che accadeva nell’ecclissi di questo corpo celeste, le quali eran riputate come deliquii, cui esso era soggetto per la paura di quel mostro ; ed a ciò credevasi poter porgere aiuto col suono di alcuni bronzi percossi(2). Gli antichi confondevano alle volte la Notte con Diana in quanto che rappresenta la Luna, percui dipingesi l’una e l’altra nella stessa guisa ; e però non sarà inopportuno dir qualche cosa della Notte e del Sonno che han tanta attenenza colla Luna.

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III. Continuazione. Notte. Sonno e Sogni. §

Dal Caos e dalla Caligine nacque la Notte ; ma, secondo Esiodo, dal Caos nacque l’Erebo e la Notte, e dalla Notte, l’Etere ed il Giorno. Da’ Greci Mitologi chiamavasi madre degli uomini e degli Dei ; e reputavasi la più antica Divinità ; percui era adorata dalla più parte de’popoli antichi. Oltre non pochi altri figli, da lei nacquero la Morte ed il Sonno, detto perciò dai poeti fratello della morte. Esiodo(1) finge che il giorno e la notte con perpetua vicenda entrano nel Tartaro e n’escono il primo per recare a’ mortali la luce, e l’altra, il sonno, fratello della morte. La Notte si dipingeva qual donna sopra un carro, alata, coperta di un gran velo, o di un peplo nero (μελαμπεπλος νυξ, Nox nigro-peplo. Eurip.). Tibullo(2) dipinge la Notte che attacca al suo cocchio i destrieri, ed un coro di stelle che il sieguono ; ella si porta dietro il Sonno dalle nere ali, e la schiera de’ neri sogni. Per ragione poi del regolare ed armonico movimento degli astri, loro attribuivano i poeti una specie di ballo ; anzi Luciano(3) afferma che gli astri diedero la prima idea della danza. Virgilio(4) ci rappresenta la Notte che precipita dal cielo e colle nere sue ali abbraccia la terra. Le si sacrificava un gallo(5). Il Sonno poi fu creduto fig. dell’ Erebo e della Notte, e fratello della Morte, perchè esso sembra una morte di breve tempo. E come il sonno è uno de’più maravigliosi fenomeni che nell’uomo si scorgano, così gli antichi ne fecero un Nume potentissimo che sopra gli uomini signoreggia e sopra gli Dei, secondo Omero. Un greco autore dice elegantemente che il Sonno era nè immortale, nè mortale ; che nè fra’ celesti viveva, nè sulla terra ; ma che nasceva sempre e sempre spariva ; e ch’era invisibile, mentre tutti il conoscono. Per addormentare gli {p. 159}uomini versa su gli occhi loro un fluido detto anche υπνος, il quale faceva sì che le palpebre si chiudessero. Quindi presso Omero : gli sparse il fluido soporifero sulle palpebre ; gli Dei mi versarono un dolce fluido soporifero sulle palpebre. Presso Virgilio(1), il Sonno con un ramo intinto nel liquore di Lete stilla il placido riposo negli occhi di Palinuro. Quindi l’Ariosto :

Il Sonno venne e sparse il corpo stanco
Col ramo intinto del liquor di Lete.

Callimaco gli dà l’ala Letea ; ed in Ovidio(2) la reggia del Sonno è bagnata da un ruscello di acqua Letea. Il suo soggiorno secondo Omero era nell’isola di Lenno ; o nel paese de’ Cimmerii che gli antichi credevano sepolto nelle più dense tenebre, e che lo stesso Omero ripone oltre i confini dell’ Oceano ; sebbene altri(3) dicano che i Cimmerii erano un antico popolo de’ dintorni della Campania presso Baia e Pozzuoli, che abitava negli antri di quella contrada. In un antro dei Cimmerii Ovidio alloga la reggia del Sonno ch’egli ingegnosamente descrive nelle Metamorfosi. Ecco come la descrive il nostro Ariosto :

Giace in Arabia una valletta amena
Lontana da cittadi e da villaggi,
Che all’ ombra di due monti è tutta piena
D’antichi abeti e di robusti faggi.
Il sole indarno il chiaro dì vi mena,
Che non vi può mai penetrar coi raggi,
Sì gli è la via da’ folti rami tronca ;
E quivi entra sottera una spelonca.
Sotto la nera selva una capace
E spaziosa grotta entra nel sasso,
Di cui la fronte l’edera seguace
Tutta aggirando va con storto passo.
In questo albergo il grave Sonno giace,
L’ozio da un canto corpulento e grasso ;
Dall’altro la Pigrizia in terra siede,
Che non può andare, e mal si regge in piede.
{p. 160}Lo smemorato Oblio sta sulla porta :
Non lascia entrar, nè riconosce alcuno,
Non ascolta imbasciata, nè riporta,
E parimente tien cacciato ognuno.
Il silenzio va intorno e fa la scorta,
Ha le scarpe di feltro e ’l mantel bruno,
Ed a quanti n’incontra di lontano,
Che non debban venir, cenna con mano.

Luciano ancora descrive l’isola ove il Sonno avea la sua reggia, intorno alla quale verdeggiava una selva di alti papaveri e di mandragore, piante soporifere, su cui stavan de’ pipistrelli. E presso il Winckelmann(1) la Notte dipingesi colle ali di pipistrello. Riferisce Pausania (2), che i Lacedemonii rappresentavan ne’ loro tempii il Sonno e la Morte insieme ; e negli antichi monumenti l’immagine di un fanciullo alato col papavero ed una lucerna rappresenta il Sonno. Credevasi che colle sue ali ricoprisse quelli che voleva addormentare. Il vediamo pure in sembianza di un fanciullo alato immerso nel sonno e col capo appoggiato sopra i papaveri, mentre abbraccia la testa di un leone sdraiato.

Figliuoli del Sonno erano i sogni, sebbene Euripide chiama la Terra madre de’sogni dalle nere ali ; ed Igino li faccia fig. dell’ Erebo e della Notte. Gli antichi finsero che i sogni erano o veri o falsi ; che abitavano al vestibolo dell’inferno, onde uscivano per due porte, una di corno, dalla quale i veraci, l’altra d’avorio, da cui i falsi sogni sortivano. Così dice Omero imitato letteralmente da Virgilio(3). Morfeo poi era il principal ministro del Sonno e quasi il corifeo de’ sogni, che ad ogni cenno del suo signore imita qualunque sembianza, e le parole ed il gestire stesso degli uomini. Fobetore (a φοβος, timor) poi, lo stesso che Icelo, mandava i sogni paurosi e si cangiava in istrane forme di animali.

Gli antichi hanno variamente rappresentata la Notte, {p. 161}dipingendola ora sopra un carro preceduto dagli astri ; ora con grandi ali ; ora coperta di un largo e nero velo stellato che tiene con una mano, e con una fiaccola nell’altra, che tiene rovesciata in giù verso la terra per estinguerla.

IV. Continuazione – Endimione. §

Leggesi nel Banier che la prima delle figliuole di Urano, chiamata per eccellenza Basilea o la Regina, e che vuolsi la stessa che Rea o Pandora, da Iperione ebbe un figliuolo chiamato Elio o il Sole, ed una figliuola detta Selene o la Luna, insigni tutti e due per bellezza e per senno. I Titani, fratelli di Basilea, temendo che l’impero dell’universo potesse venire in mano di Elio, uccisero Iperione ed annegarono il figliuolo nell’ Eridano. La madre il cercò lungamente, ma indarno ; percui lassa si addormentò alla riva di un fiume, ove sognò di vedere il figlio risplendente di una aureola di luce e trasformato nella sostanza del Sole. Selene che molto amava il fratello, alla nuova del suo infortunio erasi precipitata da una loggia del suo palagio ; e dopo quel sogno insieme col fratello Elio trasformati in due astri, il Sole e la Luna, ebbero onori divini. Nel fatto di Elio si ravvisa il Sole che nel suo tramontare si tuffa nell’oceano, perchè l’Eridano significa il gran fiume che Omero chiama Oceano.

E qui è mestieri parlare di Endimione, fig. di Etlio, o piuttosto di Giove e della ninfa Calice, fig. di Eolo. E’ fu pastore o cacciatore, ovvero re di Elide, il quale dimandò ed ottenne da Giove l’immortalità, un’eterna giovinezza ed un perpetuo sonno. Altri raccontano che Giove, per la sua giustizia e probità, accolto lo avesse in cielo ; ma che, avendo egli osato di oltraggiare Giunone, ne fosse stato discacciato e condannato a dormire eterno sonno in una caverna del monte Latmo, nella Caria, alle bocche del fiume Meandro, ove la Luna stessa dal cielo ne vagheggiava la singolare bellezza. Questo Endimione fu forse il primo ad osservare e descrivere il corso della Luna ; e perciò finsero i poeti {p. 162}che la Luna godeva a rimirarlo dal cielo. E Plutarco pensa che il conversare di alcuni Dei cogli uomini, come i Romani finsero di Egeria con Numa ; i Frigii, di Cibele con Ati ; e gli Arcadi, della Luna con Endimione, voleva significare in linguaggio poetico quella specie di commercio che la Divinità tiene cogli uomini intesi alla contemplazione della sapienza ed al conseguimento della vera beatitudine.

V. Breve iconologia di Diana Luna. §

Diana, o la Luna, o Selene sovente si dipingeva assisa su di un carro con una face in mano e colla mezza luna sul capo, percui fu detta bicorne regina degli astri da Orazio. E Diana lucifera ch’esser dovea la Luna, in una gemma si rappresenta con una fiaccola in mano ; percui le donne ne’ sacrificii di questa Dea detti Artemia, agl’idi di Agosto, nel sacro bosco di Aricia, portavano in mano fiaccole ardenti. Questa stessa Diana Lucifera in alcuni simulacri vedesi con face accesa in ambedue le mani. Il che donotava che Selene o Diana Luna illumina di notte il mondo, come il Sole, di giorno. Ed in un bassorilievo(1) si vede la Luna preceduta da Espero che spegne la sua face nelle onde, e seguita da uno de’ Dioscuri, mentre colla sua nera biga precipita nell’oceano. Gli antichi attribuivano alla Luna la biga, ora con cavalli, ora con buoi, ed ora con muli.

La Luna, come il Sole, nel tramontare s’immergeva nel mare, ed uscivane quando compariva sull’orizzonte. Il suo cocchio era portato da due cavalli, e nell’arco di Costantino a Roma vedesi su di un cocchio con Espero che fa le veci di cocchiere. L’immortale Raffaello dipinse la Luna coll’arco, la faretra e le frecce, attributi della Diana de’ Romani. Sopra un gruppo di nubi vedesi sul suo cocchio notturno tirato da due ninfe nell’atto d’indicar loro colla destra la strada che debbono battere nell’ aereo sentiero. In un antico {p. 163}monumento Diana Lucifera o la Luna si dipinge coperta di un gran velo seminato di stelle, con una mezza luna sul capo, ed in mano una face. Nell’articolo di Diana diremo altre cose che riguardano l’iconologia della Luna.

VI. Principali epiteti di Diana Luna. §

Luna bicornis appellasi da Orazio nel Carme secolare.

Diana nocturna si chiama da Ovidio(1) ; e dall’ Ariosto, Diva taciturna, perchè risplende nel silenzio della notte :

Mostrando lor la taciturna Diva
La dritta via col luminoso corno.

Da Orazio chiamasi Noctiluca, e regina siderum, che risplende di notte, e regina degli astri. Da’ Greci dicevasi νυκτιφαης, e νυκτιλαμπης.

Lucifera da’ Romani, e φωσφορος, da’ Greci si chiamava Diana ; epiteti convenienti a Diana Luna che illumina colla sua luce la notte. E credo che si chiamò Fascelis non dal fascio di legna, in cui Oreste ed Ifigenia portarono avvolto il simulacro di Diana Taurica, come dice il Calepino, ma dal greco φασκω, risplendere.

Febe, Φοιβη, Phoebe, dicevasi la Luna, come Apollo o il Sole si appellava Febo(2).

Latmia Luna, dal monte Latmo, nella Caria.

VII. Alcune altre cose di Diana Luna. §

Giovenale(3) festivamente descrive l’intollerabile loquacità di una donna letterata e saccente, la quale, col solo suo perpetuo cinguettare, poteva soccorrere al deliquio della Luna senza che si adoperassero bronzi e trombe, come i superstiziosi Romani praticavano nelle ecclissi lunari. Di fatto si percuotevano bronzi e caldaie, si suonavano campanelli, trombe e corni, affinchè la {p. 164}Luna non ascoltasse le voci delle streghe che co’ loro incantesimi tentavano farla calare dal cielo (succurrebant Lunae laboranti).

Come al Sole, così alla Luna attribuivano gli antichi alcuni morbi. Gli uomini sorpresi da certe infermità violenti dicevansi percossi da Apollo o dal Sole, come percosse dalla Luna appellavansi le donne colpite da morbi veementi(1). Così percossi da Giove si dicevano quelli ch’eran colpiti dal fulmine.

Sul monte Aventino la Luna aveva un tempio che Rufo pone nel duodecimo rione della città (2). Tacito(3) parla di un tempio edificato da Servio Tullio.

Gli Arcadi(4) si vantavano di essere al mondo prima della Luna. Heyne(5) crede assai oscuro il senso di questa favola ; e Krebsio vuole che forse vi fu una Selene che visse fra gli Arcadi e che dopo la morte fu posta nel numero delle Dee ; ed ecco gli Arcadi nati prima della Luna, cioè di Selene.

Bacco §

I. Nomi dati a questo Nume e lor ragione. §

Bacco chiamavasi Bacchus da’ Latini, e Βακχος da’ Greci ; nome derivato da βακχος, che significa uomo trasportato dal furore e che parla vaneggiando ; sebbene Servio(6) dice che viene da Bacca, ninfa che colla sorella Brome lo aveano educato. Dicevasi pure Iaccus dal greco ιαχω, gridare, per le grida tumultuose di coloro che sacrificavano a questo nume. Gli si dava pure il nome di Dionisio, o perchè da Giove fu affidato all’educazione di Niso, o dall’isola di Nisa ove fu educato.

Macrobio(7) dimostra che Libero, cioè Bacco, era {p. 165}presso gli antichi il Sole ; e pare che Virgilio ed Ovidio(1) rafforzino questa opinione. Il qual nome, egli dice, fu dato al Sole, perchè liberamentepercorre le vie del cielo. Ma Fulgenzio(2) il vuole così detto, perchè il vino rende libera l’anima dalle cure e dalla tristezza. Cicerone(3) finalmente il vuole chiamato Libero dalla voce liberi, figliuoli, perchè figliuolo di Cerere.

II. Storia favolosa di Bacco. §

Igino fra’ figliuoli di Giove e di Proserpina annovera anche Bacco o Libero. Diodoro conta tre Bacchi ; uno Indiano che fu il primo a piantar le viti ; l’altro, fig. di Giove e di Proserpina, inventore dell’agricoltura ; ed il terzo, di Giove e di Semele, cui i Greci attribuiscono le vittorie e le invenzioni che de’ primi due si raccontano. Ampelio dice che vi sono cinque Liberi ; il primo fig. di Giove e di Proserpina, il quale fu agricoltore e trovò il vino, e fu fratello di Cerere ; il secondo, di Merone o Melone, ch’era un antico nome del Nilo(4), e di Flora ; il terzo, di Cabito o Cabiro che regnò nell’Asia ; il quarto, di Saturno e di Semele ; ed il quinto di Niso e di Esione. Cicerone(5)finalmente dice che abbiamo più Dionisii ; il primo nato di Giove e di Proserpina ; il secondo, dal Nilo il quale si dice aver edificato Nisa ; il terzo, da Caprio, o Apio, o Cabiro, per cui s’istituirono le feste Sabazie ; il quarto, da Giove e dalla Luna, in onore del quale si facevano i sacrificii Orfici ; ed il quinto, da Niso e da Tione, che istituì le feste Trieteridi. Non veggo però perchè non faccia menzione di Bacco, fig. di Giove e di Semele, ch’è più noto degli altri. Or di tanti Bacchi i poeti hanno fatto un solo, fig. appunto di Giove e di Semele. La quale, fig. di Cadmo e di Ermione o Armonia, era incinta di questo fanciullo. Giunone che la {p. 166}odiava, prese le sembianze di una vecchia appellata Beroe, secondo il costume degl’Iddii, i quali, per ingannare i mortali, predevan la sembianza di qualche persona loro familiare(1). La vecchia adunque, per insidiosa maniera, induce Semele a chiedere che Giove le si mostrasse armato di fulmini e nello splendore della sua maestà. Diviene vaga oltremodo l’incauta giovane di tanta visione, e sì ardentemente ne prega Giove che sel fa promettere con irrevocabile giuramento ; ma non sostenne l’infelice quella grandezza e morì o pel timore di una folgore che le scoppiò innanzi, o pel fuoco, onde divampò la casa. Bacco fatto adulto scese all’inferno per liberarne la madre, colla quale ritornato alla luce del sole, dopo molte e rispettose carezze fattegli dal can Cerbero, andò a sedere in cielo cogli altri numi. Intanto dal materno seno tolto ancora immaturo il pargoletto Bacco, e compiuti i nove mesi, fu dato nascostamente ad educare ad Ino, di lui zia, perchè fig. di Cadmo e di Armonia, come Semele, e poscia raccomandato alle ninfe di Nisa, le quali in un loro antro lo allattarono. Al dir di Plinio(2) molti ponevano la città di Nisa nell’ India, come pure il monte Mero consacrato a Bacco. E Pomponio Mela(3) dice che, fra le città dell’ India, Nisa era chiarissima ed assai grande ; e fra’monti, il Mero consacrato a Giove ; e ch’era fama, in quella esser nato Bacco, ed in un antro di detto monte essere stato nudrito ; il che diede luogo e materia di favoleggiare a’ greci poeti. Strabone(4) afferma che la città di Nisa era stata edificata da Bacco ; ed il monte Mero soprastare alla città, e nascervi ellera e viti.

Quanto poi alle nutrici di Bacco si dee sapere che le stelle le quali sono nella costellazione del toro, si appellano le Iadi (Υαδες). Ferecide fu il primo a dire ch’esse sono le ninfe nutrici di Baceo, e che chiamavansi pure Dodonidi da Dodona, città dell’Epiro. Si vuole che Bacco, vedendo che Medea colla virtù de’ suoi {p. 167}incantesimi restituito avea Esone alla primiera gioventù, pregò quella famosa maga a far lo stesso colle ninfe che nudrito lo aveano ; e di fatto per di lei opera tornarono a bellissima giovinezza. Ma altri dicono che ciò ottenne da Teti. Vi è pure chi dice che queste ninfe dette Dodonidi furon da Giove convertite in altrettante stelle per sottrarle all’ira di Giunone. Ovidio(1) finalmente racconta ch’eran fig. di Atlante e di Etra, fig. dell’ Oceano e di Teti, e che molto amavano un lor fratello detto Iante, il quale ne’suoi anni giovanili essendo inteso alla caccia, prima i timidi cervi, e poscia seguì pure cinghiali e feroci leoni. Un giorno, cercando nel covile di una lionessa i suoi leoncelli, fu posto a morte crudele da quella fiera. Del grandissimo pianto de’ genitori e delle ninfe sorelle mosso Giove a pietà, queste mutò in sette stelle che pose sul capo del toro. Chiamavansi Ambrosia, Budora, Pasitoe, Coronide, Plesauri, Pito e Tiche. Ovidio dice che furon dette Iadi da Iante ; ma prima avea detto dal verbo greco υειν, piovere. Plinio e Gellio(2) dicono lo stesso e condannano d’imperizia del greco linguaggio i Latini, da’ quali le Iadi si nominarono Suculae, porcellette, quasi che υαδες venisse da υες, porci. Ed invero portano seco e quando nascono e nel tramontare piogge e procelle gravissime a’ naviganti, sicchè furon dette tristi da Orazio e da Virgilio piovose.

III. Continuazione. Bacco fanciullo rapito da’corsari. Acete. Penteo. §

In molte pietre incise, dice Millin, si rappresenta Mercurio che porta Bacco a Nisa e l’accoglimento fattogli dalle ninfe. In un vaso dello Spon si vede Mercurio nell’atto di affidare Bacco alla ninfa Leucotoe ; ed in un marmo della villa Albani vi è Leucotoe che tiene il fanciulletto Bacco fra le braccia. Della molle bellezza del suo sembiante più cose diremo nell’articolo iconologico.

Una nave(3) in cui alcuni Tirreni discorrevano pel {p. 168}mare corseggiando, a vele gonfie andava a Delo, Ia maggiore delle Cicladi. Ne avea il timone un tale Acete, nativo della Lidia. Veggendo questi un giorno che un suo compagno trovato avea sul lido un fanciullo a dormire quasi aggravato dal vino, vi scorse una bellezza, in cui traluceva un non so che di divino, tanto che se gli raccomandò fortemente. Di ciò risero quei corsari, ed il fanciullo trattarono con modi sì villani che vollero pur legarlo ; ma le catene gli caddero da se, Destatosi il nume disse di voler andare a Nasso, ma que’ ribaldi volgono altrove la prora. Era Nasso un’isola dell’ Egeo, fra le Cicladi nobilissima, detta pure Dionisia da Dionisio o Bacco, o perchè prestò a questo nume un’ amichevole ospitalità o perchè era di viti fra le Cicladi feracissima(1). Allora fu che il fanciullo mostrò chi era ; e resa immobile la nave, ed i remi e le vele vestite ad un tratto di ellera e di corimbi, si vide egli stesso agitare il tirso inghirlandato di pampini, ed attorniato stranamente di tigri, di pantere e di altri siffatti animali. O per paura di questa subita mutazione, o per un cieco furore mandato loro da Bacco, i compagni di Acete saltano nelle acque e son di presente convertiti in delfini ; ed Acete, ricevendo il premio della sua pietà, su quella nave portò a Nasso il nume, suo benefattore. Luciano in uno de’ dialoghi marini dice che Bacco in un combattimento navale vinse i Tirreni e convertilli in delfini ; percui questi pesci pongono all’uomo grandissimo amore. Di che più esempii riferisce Luciano stesso e Plinio(2), fra’ quali quello di Arione è notissimo. Vuolsi pure(3) che sieno molto amanti della musica ; e però si disse che col suono di musicali strumenti Bacco fece che i Tirreni corsari si gettassero nel mare e divenissero delfini. Bacco allogò il delfino fra gli astri.

Or Acete giunto a Nasso fu tutto inteso al culto di Bacco ; ma pur ebbe a temere del furibondo Penteo, il quale leo fece imprigionare, e pensava farlo morire. Bacco però {p. 169}non gli mancava del suo aiuto, giacchè gli caddero da se le catene, e si aprirono le porte della carcere, onde uscì libero. Ovidio dice, che Bacco stesso, presa la figura di Acete, fu presentato a Penteo, di cui racconteremo l’acerbo fato.

Bacco era il dio del vino, e perciò descrivesi di un carattere, quale al nume dell’ubbriachezza si conveniva. Eran lungi da lui le cure ed il pianto ; dilettavasi di fiori, e cingeva la fronte di corimbi o grappoli di ellera, i quali, secondo Plutarco, hanno virtù d’inebbriare ; e spesso ancora di pampini. Vestiva un abito di color d’oro che giungeva sino a’delicati suoi piedi ed era fatto alla foggia de’ Tirii. Fu sua delizia il canto a suon del flauto, per cui era fatto più per le danze e per le sollazzevoli occupazioni che per le guerriere imprese(1). Questo carattere di effeminatezza ed i vergognosi disordini delle orgie mossero Penteo a tal dispregio di Bacco ed a tanto sdegno per le sue feste, che a tutto potere cercò distoglierne i suoi Tebani. Era egli fig. di Echione e di Agave, fig. di Cadmo. Ovidio il chiama dispregiatore de’ Numi e specialmente di Bacco, ed il dipinge più stranamente furioso, anzi feroce, che non fa Euripide nelle sue Baccanti. Il cieco vate Tiresia, di cui Penteo derideva i pronostici, gli avea presagita una morte funesta pel dispregiar che faceva le orgie di Bacco ; ma quegli, schernendo i suoi detti, cercava distornare i Tebani dal celebrar que’ misteri, a’ fatti aggiungendo l’onta : esser cosa di grande vergogna che uomini avvezzi a non temere i nemici brandi, sien vinti da insani ululati donneschi e da sozzo gregge di avvinazzati ; che conveniva alla Tebana gioventù impugnar la spada, non il tirso ; coprirsi di celata, non di una ghirlanda di ellera ; che pensassero all’onor della patria, e l’imbelle straniero, cioè Bacco, senza indugio gli recassero carico di catene.

Bacco dalla Lidia era venuto a Tebe, ed egli stesso presso Euripide(2) dice che prima di ogni altra greca {p. 170}città aveva ripiena Tebe de’ clamori delle sue feste, obbligando le donne Tebane a far pazze allegrezze sul Citerone, monte della Beozia, vicino al Parnaso, a Bacco ed alle Muse consacrato. All’arrivo del Nume le campagne di Tebe, risuonano di festose grida, e la gente a gara e senza ordine si affolla a celebrare la nuova festa ; nè Cadmo vi manca colle figliuole, nè il vecchio Tiresia. Solo Penteo rampogna i suoi, dileggia i misteri del Nume, ed alle rimostranze di Cadmo, di Atamante e di altri più accesi nell’ira, vola nel Citerone a far mal governo de’ seguaci di Bacco. Nel mezzo di quel monte era un luogo nudo di alberi ; quivi, prima di ogni altra la madre Agave il crede un mostruoso cinghiale e coll’aiuto di Autonoe e d’Ino, di lei sorelle, e di altre Baccanti, colle proprie mani fa in pezzi il figliuolo, il quale domandava perdono e confessava il suo fallo. Poscia ululò, scosse il capo e la sparsa chioma, e con le mani ìnsanguinate mostrando il teschio del figliuolo, cantò vittoria con le compagne. Il qual fatto atroce fece grande in que’ luoghi il nome e la gloria di Bacco. È verisimile che Penteo fosse stato un re sapiente, il quale volendo mettere un modo a’ gravi disordini ed al pericoloso furore che nelle intere città destavano le orgie di Bacco, o sia l’uso soperchio e sregolato del vino, fu ucciso dalle Baccanti, cioè da persone furiose per immoderato bere il che ha dato luogo alla favola.

IV. Continuazione. Le Mineidi. Licurgo. Acrisio. Icaro §

E pure sì spaventoso esempio non ritenne altri dal dispregiar le orgie di Bacco. Tiresia(1), dopo il fatto di Penteo, avea invitato le donne Tebane a fare una gran festa in onore di quel nume, minacciando lo sdegno di lui a chiunque avesse ricusato di farla. Quelle donne corrono volenterose a celebrare Bacco, lasciando ogni altra lor cura domestica. Erano a que’ dì a Tebe tre figliuole di Mineo, fiume di Tessaglia, dette {p. 171}Leuconoe, Alcatoe, e Leucippe, le quali amando starsene fra le mura paterne ed attendere a’donneschi lavori più che impazzare colle altre ed aver parte a’disordini di quelle feste, col racconto di piacevoli novellette alleggerivano la noia della fatica. Ma ben tosto pagarono esse il fio di tal dispregio, ché il lor lavoro fu turbato da forte suonar di timpani e di altri strumenti che lor pareva udire. Le misere donzelle per campare dalla vendetta del Nume, che mostrasi presente per l’improvviso apparire di varie fiere ed il risplendere di cento faci, si appiattano fuggendo il lume, e finalmente si veggon mutate in brutte figure di pipistrelli. Alcuni dicono che quelle donzelle prese dal furore di Bacco lacerarono Ippaso, fig. di Leucippe, e che andarono ad unirsi alle Baccanti, dalle quali rigettate, furon in varii uccelli ed anche in pipistrelli cangiate. Eliano dice che le Mineidi erano trè sorelle di saviezza, e di onestà, quale a donna ben nata si conviene, le quali, amando la fatica, aveano a gran vergogna mettersi fra la turba insana delle Baccanti. A terrore delle altre si finse che Bacco le punì severamente con quella trasformazione.

Conviene dire che i sapienti reggitori de’popoli mal volentieri vedevano, il culto di Bacco allignare ne’loro paesi. Omero(1) racconta che Licurgo, fig. di Driante e re di Tracia, armato di un pungolo da buoi inseguiva le nutrici di Bacco e ne faceva mal governo, tanto che furon costrette a gittare, fuggendo, i loro tirsi ; e Bacco dovè nascondersi nel mare, accolto da Teti ; per la qual cosa venne in odio agli Dei e Giove il privò degli occhi percui visse vita assai breve. Con ciò dimostra Diomede’ folle impresa essere il pugnar contro i numi. Igino però racconta che Licurgo, essendo nemico di Bacco e non volendolo riconoscere per dio, il cacciò fuori del suo regno, e ne fece tagliare tutte le viti, dicendo essere il vino perniciosa medicina che le umane menti trasforma. Onde reso furioso per ope ra di Bacco, la {p. 172}moglie ed il figliuolo uccise, ed esso sul monte Rodope fu da quel nume alle pantere esposto.

Avverso eziandio a Bacco fu Acrisio, re d’ Argo, fig. di Abante e padre di Danae. Egli(1) ebbe di Bacco sì poca stima, che non volle riconoscerlo per figliuolo di Giove ; che anzi, armata mano, gl’impedì ch’entrasse in Argo ; nè mai permise che nella sua città prendessero piede le orgie di quel nume.

Parliamo ora d’Icaro e della figliuola Erigone, che non riportarono gran pro dall’amicizia di Bacco, il quale, quando andava per le città mostrando agli uomini il prezioso frutto della vite, fu molto amichevolmente in casa sua accolto da Icaro e dalla figliuola Erigone. Era questi nato da Ebalo, re della Laconia, ed avea a fratello Tindaro e tre fig. Erigone, lttima e Penelope. Ora a sì buon ospite donò Bacco un otre pieno di generoso vino per mostrarne l’uso a’ sudditi suoi ; ed egli su di un cocchio con Erigone e col fedel cane Mera andò nell’Attica per propagare l’uso del novello liquore. Alcuni agricoltori, avendone bevuto fuor di misura, caddero in grave letargo ; e credendo che Icaro avesse lor data qualche avvelenata bevanda, a colpi di bastone l’uccisero.

Allora il cane Mera col suo mesto latrare mostrò alla figliuola ov’era il cadavere del padre ; ed ella ivi per dolore finì la vita con un laccio, e per compassione degli Dei fu trasportata in cielo e detta la Vergine. Per le preghiere di lei Icaro fu cangiato nella costellazione detta Boote, e con lui il cane, che si chiama la canicola, la quale, e specialemente la stella Sirio, nel suo nascere per quaranta giorni tormenta le regioni meridionali con caldo intollerabile. Ed alcuni popoli(2) offerivano a Sirio de’sacrificii per calmarne il furore, essendo stato detto cane o canicola pei rabbiosi calori che spesso son cagione di pericolose infermità.

Or per vendicare la morte di Erigone, Bacco mandò {p. 173}tal morbo agli Ateniesi, che le loro figliuole, cadute in gran furore, si davano da loro stesse la morte. Per rimedio di tanto male volle l’oracolo che gli Ateniesi punissero gli uccisori d’Icaro e che in ciascun anno al padre ed alla figliuola offerissero le primizie delle biade e della vendemmia. Oltre a ciò istituirono certi giuochi, ne’ quali, in memoria della morte di Erigone, ad alcuni alberi mettevan de’lacci, a cui sospesi erano qua e là dimenati, come si pratica nell’altalena o bindolo, mentre i pastori con festose carole e con canti facevan quel giorno più lieto.

Anche da Eneo, fig. di Partaone e marito di Altea(1), fu lietamente accolto il nostro Bacco, il quale, per sì liberale ospitalità, il regalò della vite e gli additò il modo di coltivarla ; che anzi il vino chiamò οινος dall’ospite ; ma è più verisimile che la favola sia nata dal nome di Eneo, ovvero Oeneo che in greco significa vino.

V. Propagazione del culto di Bacco. Spedizione delle Indie. §

Ma, ad onta di tante contraddizioni, Bacco trionfò dei nemici, ed il suo culto alla giornata prese piede e si propagò mirabilmente. Forse Orfeo portò il culto di lui dall’Egitto ; il quale per far onore a Cadmo, adattò ad un Principe della famiglia Cadmea, qual’era Bacco, le favole e le cerimonie di una divinità Egiziana, cioè di Osiride, in guisa che il Bacco de’ Greci era l’Osiride degli Egiziani. Tibullo(2) chiaramente confonde Bacco con Osiride, al quale attribuisce non solo la piantagione delle viti e degli alberi, ma l’invenzione ancora dell’aratro. Così, secondo la tradizione poetica, nella guerra de’ giganti Bacco, coperto della pelle di una tigre, liberò Giove da’loro assalti, e ne fu tagliato a pezzi ; il che han dovuto i Greci copiare dalla storia della morte di Osiride ucciso dal gigante Tifone, suo {p. 174}fratello. Orazio(1) afferma che quando i gigan ti vollero scacciare Giove dal suo trono, Bacco, presa la figura di animoso leone, fece prodigii di valore ed atterrò il gigante Reto, mentre Giove gli dava coraggio, grìdando evohè ! o sia « coraggio, mio figlio ! » Ma ciò non si può attribuire al figliuolo di Semele, perchè la guerra de’ giganti avvenne molti secoli prima di Cadmo.

Oltre a ciò ad Osiride era consacrata l’ellera, come a Bacco ; e Diodoro Sicolo dice che Osiride fu il primo a trovare la vite nel territorio di Nisa, e che avendo scoperto il modo di coltivarla, fu il primo a bere il vino, ed agli altri uomini insegnò la maniera di farlo ; cose tutte che convengono a Bacco. Marziano Capella afferma che gli Egiziani indicavano il sole sotto il nome di Osiride ; e da Virgilio e da Macrobio sappiamo che Bacco era lo stesso che il sole. Ed il vedere Bacco con due corna sul capo ci ricorda che Osiride dagli Egiziani era rappresentato sotto la forma di un toro. Ma niuna cosa meglio dimostra che il Bacco de’ Greci era l’Osiride degli Egiziani, quanto la famosa spedizione delle Indie impresa dall’uno e dall’altro per lo stesso fine e col medesimo corteggio. E veramente Osiride, come racconta Diodoro, intraprese una celebre spedizione nelle Indie, accompagnato da Pan, da Trittolemo, da donne assai esperte nel canto, delle quali era capo Apollo, e da una turba di uomini velluti che chiamavansi Satiri ; la quale spedizione fu un viaggio guerriero fatto per ammaestrare que’ popoli. Imperocchè, volendo egli che la sua beneficenza non si restringesse nel solo suo regno, deliberò girare per varie nazioni e dirozzarle non colla forza delle armi, ma con quella dolce e potente dell’eloquenza e della musica(2). Così il nostro Bacco divenuto adulto partì per l’oriente, fermato avendo in suo cuore di portare in que’ lontani paesi la civiltà e l’arte di fare il vino. Di questo viaggio fu pur cagione l’odio di Giunone, di cui fu Bacco il bersaglio, come gli altri figliuoli di Giove. Così un’altra volta fuggendo lo sdegno di lei, {p. 175}si addormentò in una campagna, ove fu assalito da un serpente a due teste, detto anfesibena ; ed egli destatosi l’uccise con un colpo di sermento. Fu pure per l’odio della Dea che il povero Bacco impazzò stranamente ed errò per l’ Egitto e per la Frigia, ed accompagnò Cerere, quando cercava la perduta figliuola. A fine eziandio di sottrarsi alle persecuzioni di Giunone, trascorse quasi tutta l’Asia seguito da un esercito, di cui non erasi mai veduto altro più strano. Era esso composto di uomini e di donne, tutti agitati dal divino furore del loro duce. Molto han detto i poeti delle Ninfe, compagne di Bacco, il quale da Orazio(1) chiamasi signore delle Naiadi ; e Tibullo(2) dice che Bacco ama le Naiadi. Oltre le Ninfe, le Ore e Sileno, ebbe compagni in tale impresa i Satiri, i Pani, i Cabiri di Samotracia, i Coribanti ed i Cureti, ministri di Cibele. Bacco, vestito di porpora ed inghirlandato di pampini e di grappoli di uva, col tirso in mano, ed i calzari ricamati d’oro, sedeva su di un cocchio tirato da tigri, o da linci, avendo a lato il dio Pan ed il vecchio Sileno. Questo strano esercito era preceduto da una banda di Satiri, ed i soldati invece di armi portavane tirsi, cembali, flauti e tamburi, mentre le donne aveano le chiome sciolte ed eran vestite di pelli di tigri e di pantere ; e gli uomini eran coronati di ellera e di pampini. In una gemma vedesi Bacco su di un cocchio tirato da due centauri, de’quali uno suona il doppio flauto, e l’altro, una specie di cembalo, solito a suonarsi ne’ sacrificii di Bacco. Il che finsero per significare che i centauri erano grandi bevitori ed inchinati alla ubbriachezza ; o perchè il vino addolcisce le menti più brutali e feroci. Quanto poi al tirso, leggiamo in Esichio ch’esso nella sua greca origine significa qualunque cosa di figura acuminata e quasi conica, e dinotava pure il gambo di qualunque frutice. Ma in un senso più ristretto vuol dire un’asta di legno o bastone attorcigliato di pampini e di ellera, usato {p. 176}dal nostro nume nelle sue guerre dell’ India, e che i suoi seguaci portavano nelle feste di lui ; e perciò lo ritroviamo sì spesso in quasi tutte le rappresentanze di Bacco. Ne’ soli vasi del Museo Borbon. Ritrovasi piú di quaranta volte. Si vuole che questo tirso si fosse usato per ingannare i rozzi Indiani, che non avean cognizione delle armi, giacchè la punta di essa asta, o lancia o giavellotto, era celata tra le foglie de’ pampini.

Arrivò in tal guisa fin nelle Indie, dove combattè con prospero evento ed impose la sua legge a tutt’i popoli di quella penisola, da’ quali fu accolto come una divinità che porta seco non il terrore delle armi, ma l’insegnamento della coltura della terra. In questa spedizione egli toccò col tirso l’Oronte e l’Idaspe, che arrestarono il loro corso, dando all’esercito di Bacco di poterli passare a piedi asciutti. In ciò si scorge copiato il prodigioso passaggio di Mosè e del popolo ebreo pel mar rosso.

VI. Continuazione. Sileno. Mida. Figliuole di Anio. §

Capo e conduttore della festosa schiera de’ Satiri e delle Baccanti in questa famosa spedizione fu il vecchio Sileno, satiro che Bacco oltremodo amava, come a suo balio e pedagogo. Anche i Satiri, quando eran vecchi, dicevansi Sileni, dal nome del loro capo, e figuravansi quasi sempre ubbriachi. Sileno poi si credeva fig. di Mercurio o di Pan, e di una ninfa ; ed avea la testa calva e cornuta, naso grosso e voltato in su, statura piccola e corpulenta con aria di viso gioconda, o piuttosto beffarda ; e se gli dà d’ordinario la coda. In un cammeo del Museo Borbon. Vedesi un Sileno caudato, assiso su di una nebride all’ombra di un albero, cui è sospesa la siringa e due pive. Non so perchè in esso il greco artefice abbia omesso le corna, delle quali costantemente son munite le altre di lui immagini. Diodoro Sicolo dice che il primo Sileno avea una coda, della quale fu fornita tutta la sua posterit {p. 177}Nel Museo Borb. Vi è un Sileno vecchio, basso, calvo, di caricata e truce fisonomia, di barba folta, ispido e panciuto, come Apuleio descrive il satiro Marsia. Or il nostro Sileno era sempre ubbriaco(1) ; percui su di un asino, ove a stento si reggeva, accompagnò Bacco nei suoi viaggi e specialmente nelle Indie, coronato di edera e con una tazza in mano.

Or avvenne un giorno(2) che Sileno addormentatosi non potè seguire l’armata di Bacco. Ansi si racconta che il re Mida avea fatto un fonte di vino per ubbriacare e quindi impadronirsi del buon Sileno ; dal quale apprese assai buone cose ; il che finse per conciliare autorità alle sue leggi ; e trattò quel piacevole ospite con modi molto cortesi. Il restituì poscia a Bacco, il quale in premio gli promise accordargli qualunque grazia chiesto gli avesse ; ed egli domandò di cangiare in oro tutto ciò che toccato avesse. Ma tal dono fu funesto all’avaro monarca, nelle cui mani cangiavasi in oro anche il cibo e la bevanda. Vedendosi così vicino a morire, pregò che se gli togliesse sì pernicioso privilegio. Bacco gli comanda di lavarsi nel Pattolo, fiume della Lidia, che da quel tempo ebbe l’arena d’oro ; percui di cosa preziosa, e di grandi ricchezze dicesi l’oro di Lidia, o le ricchezze del Pattolo. Il ch. Goguet(3) dice che questo re assai caro vendeva i proventi de’suoi terreni e che accumulò moltissimo oro colla mercatura, la quale si può dire che tutto converta in oro. Ritrovò pure l’ancora ; e Demodoce, di lui moglie, l’arte di coniare le monete. Le ricchezze di Mida andavano in proverbio. Egli fu successore di Gordio, suo padre, che fondò il regno di Frigia.

Anio(4), vecchio sacerdote di Apollo, racconta all’amico Anchise la trasformazione in colombe di quattro sue figlie, alle quali avea Bacco data la virtù di {p. 178}cangiare in frumento, in vino, o in olio tutto ciò che toccato avessero ; percui furon dette Enotrope (ab οινος, vinum, et τροπη, conversio). Di che fatto certo Agamennone, duce de’ Greci contro Troia, volea seco condurle, affinchè così non mancassero vettovaglie all’esercito ; ma esse, invocato l’aiuto di Bacco, furon cangiate in colombe.

VII. Continuazione. Arianna. Feste di Bacco. Baccanti. §

Bacco è spesso chiamato vincitore dell’India, del Gange, del mare barbaro ; e dal Redi, dell’Indico oriente domator glorioso. Molti monumenti rappresentano il trionfo di Bacco, dopo quella famosa spedizione, di cui han cantato tanti poeti, e specialmente Nonno ne’suoi Dionisiaci. Ed appunto nel ritorno dalle Indie accadde il fatto di Arianna, fig. di Minos, re di Creta, e di Pasifae. Allorchè Teseo giunse a Creta per pugnare col Minotauro, quella giovane principessa gl’insegnò la maniera di vincerlo, dandogli un gomitolo di filo(1) che ella teneva per un capo, stando alla porta del laberinto, mentre l’altro ne avea in mano l’eroe Ateniese, il quale, ucciso il mostro, coll’aiuto di quel gomitolo, forse dato ad Arianna dallo stesso Dedalo, potè ritrovare l’uscita di quell’inestrigabile luogo. Poscia, temendo l’ira del padre, fuggì di Creta insieme con Teseo, il quale, dimentico del beneficio, crudelmente abbandonò l’infelice donzella, mentre dormiva, sulla deserta spiaggia di Nasso, isola dell’ Arcipelago. Quivi approdò poco tempo dopo il nostro Bacco, il quale, veduta l’abbandonata giovane che disperatamente raccontava alle rupi il ricevuto torto, e racconsolatala, volle sposarla e condurla seco. Secondo Omero, Diana stessa trattenne Arianna in quell’isola per volontà di Bacco che intendeva menarla in moglie. Le fece poscia il dono d’una corona di oro, che avea ricevuta da Venere. Era essa lavoro egregio di Vulcano ; e Bacco, dopo la morte di Arianna, la pose fra gli astri, ed è una costellazione di {p. 179}nove stelle detta dagli astronomi la corona di Arianna, o corona settentrionale, o Gnossia. Secondo alcuni(1) Arianna stessa fu trasportata in cielo, ove partecipò dell’immortalità dello sposo.

Nelle feste baccanali si rappresentava in certa guisa il trionfo di Bacco o la spedizione delle Indie. Si vedeva Bacco accompagnato dalle Baccanti, da’ suonatori di flauto, da donzelle con crotali e timpani in mano ; vi comparivano Fauni e Satiri che tenevano vasi e tazze ; i sacerdoti portavano le vittime pel sacrificio ; e finalmente il vecchio Sileno ubbriaco sul suo asino che il conduce a stento. In memoria de’tre anni che il nostro nume impiegò in quella spedizione, istituì le feste trieteriche, che si celebravano da’ Tebani ogni terzo anno con notturni, discorrimenti di donne, e con arcane cerimonie sul monte Citerone ; e perchè si facevan di notte, dicevansi nitterne (a νυξ, nox.). I Tracii le introdussero nella Grecia, e si contano fra le più antiche orgie di Bacco. A questa specie di orgie appartiene la bellissima comparazione, con cui Virgilio(2) rassomiglia l’infelice Didone ad una Baccante, la quale è presa da sacro furore, quando alle orgie trieteriche la chiama l’udito nome di Bacco e le notturne grida del Citerone. Questo monte della Beozia era consacrato a Bacco ed alle Muse, ed era famoso per le orgie che vi si celebravano di notte, tanto che Ovidio(3) il chiama monte fatto per le cose sacre. Le feste di Bacco si chiamavano Baccanali, Dionisiache, e più propriamente Orgie, dalla parola greca οργη, furore, pe’ famosi furori con cui celebravansi dalle Baccanti, le qualì si cingevano di serpenti sì la chioma che il resto del corpo(4) ; andavano coronate di edera e di pampini ; sulle spalle aveano una pelle di cervo o di cavriuiolo detta nebide ; e portavano in mano il tirso. Il loro grido più frequente era l’acclamazione evoè (gr. ευοι, lat. evohe {p. 180}vel evae), cioè viva Bacco. Alcune fanciulle dette Cistofore portavan le mistiche ceste o panieri di Bacco, nei quali, fra le altre cose misteriose, era una piramide, che alludeva o a’ due aggiunti misteriosi che Orfeo dà a Bacco, chiamandolo di tre generazioni (τριγονος), o di tre nature (τριφυης) ; o alle feste trieteriche. Questa cesta per lo più si vede mezzo aperta e pare che n’esca un serpente ; ed è tutta coronata di edera. Vi erano pure le Canefore, cioè alcune donzelle nobili che portavano piccoli canestri d’oro colmi di ogni maniera di frutta ; forse perchè a Bacco eran esse consacrate(1), e se ne credeva il datore ed il conservatore, ed a lui se ne offerivano tutte le primizie(2). Alle volte in questi canestri si tenevan de’ serpenti, che facevansi ad un tratto uscir fuora per ispaventare glì spettatori. Vi erano infine i licnofori, che portavano il misterioso vaglio (μυστικον λικνον)(3) di Bacco, di cui non potevasi fare a meno in tutte le feste di lui. Nel tempo poi di queste solennità, una turba innumerabile di uomini e di donne vestite in modo assai strano correva per le strade, facendo balli e cento altre cose da forsennati, tanto che Orazio(4) grandi cose ci dice della forza delle Baccanti ; ed i disordini delle feste baccanali erano sì vituperevoli e pericolosi che l’anno 568 di Roma il Senato fu obbligato a proibirne la celebrazione, sebbene non si tennero molto di ritornare alla primiera sfrenata licenza di quelle feste obbrobriose. In Atene però, donde passarono all’ Etruria e poscia a Roma, se ne faceva sì gran conto che da’ Baccanali o feste Dionisiache si contavano gli anni. In onore di Bacco si celebravano pure le feste antesterie, in cui i padroni doveano servire gli schiavi, e tutt’i cittadini si consideravano uguali, come ne’ Saturnali di Roma.

Le Baccanti si chiamavan pure Bistonidi, cioè donne Tracie, perchè Bistonii erano gli abitanti di una parte della Tracia, in cui le orgie principalmente si {p. 181}celebravano ; Edonidi, dal monte Edone, nella Tracia, ove celebravansi le sue feste ; Evias, o Evia da Orazio(1) chiamasi una Baccante, forse dalla voce evoè ! propria delle orgie ; Menadi dal greco μαινομαι, furo, insanio ; Mimallonidi, da μιμαομαι imitor, perchè imitavano il padre Bacco, portando, come lui, le corna ; Bassaridi, da βαζω clamo, perchè a Bacco sacrificavano con molto gridare ; Tiadi, o da θυω, celebrare le orgie ; o da una figliuola di Cefisso, fiume della Beozia, chiamata Tiade, che fu la prima iniziata nelle misteriose orgie di Bacco.

VIII. Varie incumbenze di Bacco. §

Bacco fu il primo che insegnò agli uomini l’uso del vino, ed il modo di colfivare le viti, per cui spesso da’poeti chiamasi il dio del vino, il piantatore delle viti, il datore dell’allegrezza ; anzì Bacco prendesi pel vino stesso, come Cerere pel pane, e Vulcano pel fuoco ; ed in un antico poeta si rappresenta Bacco stesso in atto di pigiare le uve (2). Quindi a Nasso, ove egli era singolarmente venerato, ed ove gli abitanti con piacere mostravano a’forestieri il luogo, nel quale le ninfe lo aveano allevato, quegli abitanti, dice Millin, tributavano i loro omaggi al nume che avea loro viti del nettare involato agli Dei. Oltre a ciò gli antichi credevano, essere nel vino un principio igneo ; per cui Bacco chiamossi Pirigeno, Lamptero ec. epiteti che dinotavano Bacco, ovvero il vino, generato da igneo seme. Ed in Pellene, città di Acaia (3), in onore di Bacco Lamptero si celebravano alcune feste notturne dette Lampterie, nelle quali al suo tempio portavansi torce accese, e qua e là per le contrade collocavansi crateri pieni di vino ; il che, al dire di Diodoro Siculo(4), significava il Sole che in vino cangia il suo raggio giunto al licor che dalla vite cola. Quindi il Redi, parlando del vino, dice :

{p. 182}Sì bel sangue è un raggio acceso
Di quel Sol che in ciel vedete,
E rimase avvinto e preso
Di più grappoli alla rete.

Ed in Ovidio(1) abbiamo che Bacco si donò ad Erigone, fig. d’ Icaro, trasformato in uva. E come la vite in greco chiamasi ampelos, così quel poeta(2) favoleggiò che vi fu un tale Ampelo, fig. di un Satiro e di una Ninfa, ed uno de’ più grandi amici di Bacco e forse suo sacerdote, il quale abitava sull’ Ismaro, monte della Tracia fin da’tempi di Omero(3) insigne per le viti. Egli un giorno cadde da un pergolato, e fu da Bacco convertito in costellazione che dicesi il Vendemmiatore (προτρυγητης).

I poeti accagionano Bacco de’perniciosi effetti del vino. A lui(4) attribuir si dee la fiera zuffa de’ Centauri e de’ Lapiti. Piritoo, fig. del centauro Issione, sposò Ippodame, o Ippodamia, ed a quelle nozze intervenero i Centauri ed i Lapiti, popoli bellicosi della Tessaglia. Il centauro Euritione, avvinazzato fuor di misura, come lo erano gli altri commensali, commise a zioni molto indegne, specialmente di quella lieta circostanza, per cui fu maltrattato in modo assai strano, e fra’ Centauri ed i Lapiti si accese la più sanguinosa pugna del mondo, che Ovidio(5) descrive con tutt’i colori della sua vivace fantasia. Orazio coll’esempio della feral pugna de’ Centauri e de’ Lapiti avverte a non oltrepassare i confini di un moderato bere. In Bacco vediamo espresso il Patriarca Noè, il quale, essendo agricoltore, cominciò dopo il diluvio a coltivar la terra e piantò una vigna ; ed avendo fatto il vino, di cui non conosceva la forza, ne bevve sino a restarne ubbriaco, come la Scrittura racconta.

Ritrovò pure il nostro Bacco il modo di estrarre e {p. 183}di apparecchiare il mele ; ed in Euripide(1) leggiamo che scorreva latte, vino e mele quel paese, pel quale egli guidava il suo esercito ; forse alludendo alla sparsa voce che la terra promessa, ove Mosè condur dovea gl’ Israeliti, avea ruscelli di latte e di mele. Ovidio (2) seriamente ci racconta che viaggiando Bacco vicino al monte Rodope, i suoi seguaci per caso batterono i loro bronzi, e che un novello sciame seguì quel grato suono, percui Bacco, riunite quelle industriose pecchie, ebbe la gloria di aver ritrovata l’arte di fare il mele. A Bacco eziandio si attribuisce l’invenzione dell’aratro, percui da Pindaro(3) si chiama assistente di Cerere, e da Strabone(4), il genio di Cerere. E gli Spartani(5) dicevano che avea pur ritrovato la coltura de’ fichi ; e però il chiamavano Sichite (συκον, ficus.)

Da alcuni l’origine della tragedia è attribuita a Bacco, da cui gli attori furon dettiartisti dionisiaci. A lui eran consacrate le maschere da teatro, credendosi egli l’autore degli scenici divertimenti, della musica teatrale e della drammatica poesia. Per questa ragione ancora credo che Pausania(6), descrivendo una statua di Bacco fatta da Policleto, dice che i coturni che appartenevano alla tragedia, erano i calzari proprii di quel nume, mentre in una mano teneva un vaso da bere, e nell’altra il tirso. Come dio del vino, egli a ragione presedeva a’banchetti ed alle gozzoviglie. Da Luciano(7) gli si attribuisce l’invenzione di una specie di danza ; e celebre è il tiaso, ch’era una danza delle Baccanti in onore del loro dio ; percui Tiasarca era il preside ai tripudii ed a’conviti in onore di Bacco. E propriamente per tiaso s’intende una moltitudine di tripudianti o di convitati. Il giovinetto Cisso, amico di Bacco, danzando avanti a lui, o sia facendo parte del tiaso, cadde {p. 184}e morì, per cui fu trasformato in edera che chiamasi pure cisso (κισσος).

IX. Iconologia di Bacco. §

Fanno conoscere Bacco, volto bello ed effeminato ; molle delicatezza delle mani e di tutte le altre parti del corpo ; corona di pampini e di ellera ; bionda e lunga chioma inanellata che gli cade su gli omeri ; vaso di oro per uso di bere nella destra : e nella sinistra, il tirso ornato di ellera e nella sommità guernito di acuto ferro. Così Penteo descrive Bacco nella tragedia delle Baccanti di Euripide(1). Egli non meno che Apollo celebravasi per un’eterna bellezza, e pel fiore di una gioventù che non veniva mai meno. Quindi da Orazio(2) fu detto candido, epiteto proprio di un bel volto ; e le arti del disegno fecero a gara per raccogliere dalla natura le forme più leggiadre e più care, le quali con bell’accordo di grazia potessero esprimere questa divina giovinezza di Bacco. Di una lunga chioma ancora e bellissima vedesi sempre mai fregiato negli antichi monumenti ; ed oltre a ciò i pittori ed i poeti gli danno due picciole corna che potea levarsi a suo talento : il che era simbolo di maestà e di potenza(3)). Tibullo rappresenta Bacco con dolci grappoli di uva pendenti dalle sue corna. Nella così detta casa del Questore a Pompei si vede un Bacco, le cui bionde chiome son cinte della solita ghirlanda di corimbi, i quali intessuti a foggia di serto erano indizio di un simulacro di quel nume (4). Ornato di corona fatta di corimbi che sono i frutti dell’edera, ed armato di tirso il vide Filostrato il vecchio ; e Callistrato(5) ammirò una statua di Bacco, ch’era avvenente, pieno di delicata mollezza, conmolti vezzi negli occhi, e coronato di edera, come {p. 185}Euripide il dipinge nelle Baccanti. In una statua del Museo Borbon. vedesi Bacco nel fiore della sua immutabile giovinezza, e col braccio sinistro appoggiato ad un tronco, cui si marita torluosa una vite con grappoli. Con la dritta elevata tiene un grappolo, e con la sinistra appoggiata regge una tazza. Appresso De La Chausse(1) si rappresenta Bacco con volto giovanile, muliebre e delicato, e co’crini raccolti e pendenti a guisa delle donzelle ; ha una corona di pampini con grappoli di uva, come il descrive Ovidio(2), e la mitra sul capo(3). Alla mitra son posti alcuni fiori simili alle rose, le quali, secondo Ateneo, erano un rimedio efficace contro l’ubbriachezza, percui gli antichi ne inghirlandavano la fronte de’commensali ed i bicchieri(4).

Bacco si rappresentava stante in piedi ; ed Ateneo(5) riprende gli artisti che lo facevan giacente. Ma Pausania lo descrive con veste lunga, colla barba, e giacente, come rappresentavasi il primo e più antico Bacco, secondo Diodoro Siculo. Sidonio Apollinare(6) descrive Bacco con un vaso nella destra che fors’era il cantaro potatorio di Arnobio, ed il tirso nella sinistra. Nell’arca di Cipselo descritta da Pausania vedevasi Bacco con un vaso di oro nella destra ; ed altri artefici gli ponevano in mano diverse specie di vasi, come il carchesio ed il corno(7). Di Bacco presso i Greci era propria la veste detta crocota (ποδηρης), o veste gialla ricamata a fiori, la quale scendeva sino a’ teneri piedi(8).

I poeti rappresentano il cocchio di Bacco tirato o da tigri, o da pantere, o da linci, per indicare forse che la forza del vino doma ed ammansisce ogni più indomita natura. « Bacco, dice Millin, è rappresentato ordinariamente come un grassotto e ben colorito {p. 186}giovane, senza barba, co’capelli di un biondo oro, e sovente ancora come un fanciullo coronato di edera e di pampini. Ha in una mano un tirso ; nell’altra, de’grappoli d’uva, e qualche volta un rython, cioè un vaso da bere in forma di corno, o un chantharus, cioè una coppa a due manichi. Effigiasi talvolta nudo ; talvolta con una pelle di pantera alle spalle ; or sul dosso di Pane, or fra le braccia di Sileno che fu il suo balio ; or sopra un carro circondato di edera e di pampini, tirato da due pantere o da due tigri ; or colle corna in testa, ma di oro, come cel rappresenta Orazio ; e sovente come un fanciullo che scherza colle ninfe e co’satiri. Uno de’più bei monumenti relativi a Bacco è il vaso d’oro del museo d’antichità di Parigi trovato nella città di Rennes. Questo rappresenta nel mezzo Bacco ed Ercole che si fanno versare da bere. Bacco si serve del rython, ed è osservabile pel tirso e per la pantera che ha a’ piedi. Ercole è assiso sulla spoglia del leone ; gli sta dappresso la clava, e beve in un cantaro ; intorno ad essi vedonsi Fauni e Satiri che suonano doppii flauti, e siringhe. Presso a Bacco è il suo babbo Sileno. Il contorno del vaso rappresenta la vittoria riportata da Bacco sopra Ercole ed il suo trionfo. La truppa è preceduta da Baccanti d’ambi i sessi, che danzano co’ crotali, co’cembali e co’ timpani ; alcuni fanciulli portano de’ grappoli d’uva, mentre i giovani Fauni premono la vendemmia ; un satiro che cozza corno a corno con un caprone ; Sileno coricato sopra un cammello, e per ultimo un coro di musici che assistono alla festa. Ercole comparisce in tale stato che la sua forza vinta si vede dalla ubbriachezza, poichè non solamente è stato obbligato ad abbandonare a’ Fauni che gli sono accanto, la cura di portare l’enorme sua clava, ma non potrebbe reggersi in piedi, se non fosse sostenuto da altri seguaci di Bacco. Quanto a questo dio, egli è assiso tranquillamente sopra il suo carro tirato da pantere ; ha una mano nella testa in segno di riposo, e rimira con indifferenza il vinto suo antagonista ». Nel {p. 187}Museo Borbon. si vede una Baccante infuriata che suona il cembalo. Vi è un Fauno, dal cui omero sinistro pende una pelle di tigre, ed ha in bocca due tibie diritte. Vi è un altro Fauno colle orecchie caprine e colle forme del volto assai esagerate, come soglionsi i Fauni dipingere. Presso De La Chausse(1) si dipingono le Baccanti coronate di pampini, di edera e di serpenti. In un antico dipinto Pompeiano vi è un Bacco, « il quale florido nella sua conta e bella giovinezza siede maestosamente sopra un trono di oro borchiato di gemme, e strato di porpora. Il peplo che dagli omeri gli discende sino a’piedi è violaceo foderato di verde. Il suo solito serto di corimbi gli cinge i biondi ed intonsi capelli, ed ha una nebride ad armacollo. Colla destra tiene in mano un cratere a due manichi pure di oro, e colla sinistra si appoggia al tirso. La pantera ed i cembali si veggono da un lato e dall’altro del trono di questo dio che sta dipinto sopra un fondo rosso(2) ». Anche Erodoto(3) afferma che Bacco dipingevasi col tirso nella sinistra, la tazza nella destra, ed una pantera a’ piedi, il quale animale significa che il vino doma ogni più feroce natura(4). Nel Museo Romano(5) vedesi un bevitore con un corno in mano, perchè gli antichi prima dell’invenzione del bicchiere facevano uso delle corna de’ buoi per bere. Rodigino riferisce che Bacco, dopo aver ritrovato il vino, bevea in un corno di bue.

X. Epiteti principali di Bacco. §

Acratoforo, ακρατοφορος, che porta vin puro ; ed Acratapote, ακρατοποτης, bevitore di vino puro, sono soprannomi di Bacco.

Bassareo, Bassareus, fu detto Bacco dalla voce Tracia βασσαρος, che significa volpe, perchè le Baccanti dette {p. 188}Bassaridi, facevano uso non solo di pelli di cervo, ma anche di pelli volpine ; o da βαζω, gridare ; o da Bassa, cit. della Lidia, ove in particolar modo si venerava.

Bimadre, Bimater, διθυραμβος, binato, bisgenitus, quasi nato due volte.

Briseo, βρυσαιος o da βρυω, sgorgare, perchè Bacco il primo insegnò a cavare il sugo dell’uva ; o da Brisa, una delle sue nutrici. Persio chiama Briseo il poeta Accio a cagion della tragedia di Bacco da lui composta ; o perchè i poeti tragici sono sotto la protezione di quel nume.

Bromio, βρομιος, Bromius, così detto da βρομεω, fremo, cioè da’ fremiti, o rumorosi riti delle Baccanti ; o dallo strepito e mormorio de’ conviti.

Bucornide, Bucero, Ιακλος βουκερος, tauriformis, perchè rappresentavasi o con un corno di toro in mano, ch’era l’antica forma de’ vasi per bere ; o perchè i poeti gli attribuivano due picciole corna. Dicevasi pure bicornis, corniger, κερασφορος, e κρυσοκερος, dall’aureo corno.

Ebone, nume adorato nella nostra Campania, creduto lo stesso che Bacco, o meglio il sole, che rappresentavasi con testa di toro, e faccia di uomo.

Edonio, Edonus, dal monte Edon, nella Tracia, ove era singolarmente onorato.

Evante o Evan, cognome di Bacco, dal grido delle Baccanti evan, che corrisponde all’evoè, ed al nostro evviva. Perciò le Baccanti furon dette Evanti.

Ευκομος, che ha bella chioma ; αβροκομης, che ha una chioma delicata ; κρυσοκομης, dall’aurea chioma ; epiteti di Bacco per la sua bella e delicata capellatura.

Κρισσοκομης, e κισσοστεφανος, coronato di edera. Plinio(1) dice che Bacco fu il primo a porsi in testa una corona, e che questa fu di edera.

Leneo, Lenaeus pater, da λυαιος, torchio da vino, di cui credevasi inventore. In onore di Bacco inventore del torchio si celebravano le feste Lenee.

Lieo, ληνος, Lyaeus ; Lisio, λυσιος, Lysius, da λυω, {p. 189}solvo, quasi liberator ; e λυσιμεριμνος, fu detto Bacco, perchè il vino esilara la mente e dissipa le noiose cure.

Ορειος, cioè montano, perchè Bacco, cioè le vili, amano le colline.

Niseo, da Nisa, cit. dell’ Arabia, ove Bacco fu educato.

Racemifer, cioè Bacco che ha il capo coronato di grappoli.

Semeleius, Semeleia proles, Bacco, fig. di Semele.

Tioneo, Θυωνευς, Thyoneus, fu detto Bacco o da θυειν, furere ; o da Tione, sua madre, perchè egli scese all’inferno per trarne la madre Semele, che Giove, ad istanza del figliuolo, allogò fra le immortali col nome di Tione.

Tirsigero, θυρσοφορος, Thyrsiger, Bacco che porta il tirso.

XI. Alcune altre cose di Bacco. §

Niuno ignora l’uso de’ serpenti nelle orgie di Bacco. Euripide(1) ci fa sapere che Bacco appena nato portò il capo cinto di una corona di serpenti ; e Nonno(2) afferma che Bacco, in segno della sua perpetua gioventù, avea la mitra serpentina, perchè il serpente mutando la spoglia, ringiovanisce. Quindi ne’sacrifizi di quel nume un coro di Baccanti in alcune ceste portava de’ serpenti, forse di quella specie, che anche mordendo, non nuoce. Altri dicono che non eran mica veri serpenti, ma fatti di oro o di altro metallo ; ed il Vossio(3) avvisa che le scuriate che quelle strane sacerdotesse tenevano in mano e di cui si cingevano, non eran serpenti vivi e veri, ma fatti di cuoio e di crini a guisa di serpenti.

Da Cicerone e da Ovidio(4) sappiamo che i giovanetti Romani nelle feste di Bacco dette Liberalia, prendevano la viril toga, e ciò o per indicare la perpetua {p. 190}giovinezza di quel nume, o perchè i padri di famiglia volevan porre sotto la protezione del padre Libero i loro figliuoli.

Secondo alcuni Bacco fu chiamato Ditirambo, per, essere stato allevato in un antro che avea due porte o uscite (διθυρω). Or da questo suo cognome fu chiamato ditirambo un inno in di lui onore. Le poesie ditirambiche a principio cantavansi nelle feste di Bacco da uomini invasati dal suo furore, e senza legge alcuna ; ma Laso, maestro di Pindaro, le ridusse ad una forma più regolare. In esse, volendosi in certo modo imitare la sregolatezza di una mente alterata dal vino, dee regnare una licenza ed un’audacia assai grande in guisa che il poeta, servendo al soperchio suo estro, passa senza legge da una ad un’altra maniera di versi. Ciò attesta Orazio(1) di Pindaro ; ed egli stesso in due odi a Bacco(2) pare che abbia voluto seguire la foggia ditirambica, ma non ne imita affatto la forma esteriore. Degli antichi non vi sono restati esempi perfetti di ditirambica poesia, che potessero farci concepire una giusta idea di siffatto componimento ; ma gl’Italiani vantano il Bacco in Toscana del Redi, ditirambo che può dirsi perfetto ed a cui nè le antiche nè le moderne nazioni hanno che opporre. Da’ poeti ditirambici nacque il proverbio, aver più poco senno di un poeta ditirambico, per dinotare un uomo stupido e furioso.

L’ordinario sacrificio di Bacco fu quello di un capro ch’era animale assai dannoso alle viti(3) ; pure ritroviamo essergli state immolate pecore e tori ; ed Erodoto afferma che gli Egiziani gli sacrificavano anche il porco. Se gli offerivano poi in voto il potatoio, i cofani, il torchio da vino ed altri strumenti della vendemmia.

{p. 191}

Venere, Cupido e le Grazie. §

I. Diversi nomi dati a questi Numi e lor ragione. §

Cicerone(1) fa derivare il nome Venus dal verbo venire, perchè essa, essendo Dea dell’amore, viene, cioè si ritrova in tutte le cose. Da Venere, Dea della bellezza, nasce la parola latina venustus, grazioso, avvenente ; ed il composto invenustus, che significa non solo disgrazioso, ma eziandio sventurato, in Terenzio ; come presso i Greci επαφροδιτος vuol dire fortunato. Da’ Greci chiamavasi Αφροδιτη da αφρος, schiuma, perchè Venere si finge nata dalla schiuma del mare. Didimo(2) la fa derivare da due voci greche che significano un vivere molle e delicato. I Sirii poi la chiamavano Astartea ; gli Egiziani, Nesti ; i Persiani, Mitra ; gli Assirii, Militta ; i Medi, Anaite ; e così degli altri.

Cupido poi fu così detto dal verbo cupio, desiderare, perchè l’amore è desiderio, e Cupido vuol dire il dio Amore, o l’amore personificato. Da’ greci appellavasi Ερως, da εραω, amare.

Gli antichi finalmente annoveravano fra le loro divinità tre Dee dette le tre Grazie che finsero compagne di Venere. I Greci le chiamarono Cariti (χαριτες) da χαρις gratia ; ed i latini Charites o Gratiae, perchè esse eran la sorgente di tutte le grazie, o di quanto vi ha di amabile, di giocondo e di piacevole in tutte le cose.

II. Storia favolosa di Venere. §

Venere, una delle più celebri divinità de’ gentili, era la dea della bellezza, la regina della gioia, e la compagna delle grazie. Gli antichi ne distinguevano parecchie. Cicerone(3) dice che una era fig. del Cielo o di Urano, e della Luce o del Giorno ; l’altra uscita dalla spuna del mare, dalla quale e da Mercurio {p. 192}nacque Cupido secondo ; la terza nata da Giove e da Dione, che sposò Vulcano, e dalla quale nacque Antero ; e la quarta Siria e nata in Tiro, chiamata Astarte, che sposò Adone. Or la ninfa Dione, fig. dell’Oceano e di Teti, era la madre di Venere, percui Cesare che si vantava discendere da Venere e da Anchise per parte di Enea, chiamasi Dioneo da Virgilio(1). I poeti però confondono queste Veneri e ad una sola attribuiscono ciò ch’è proprio delle altre tre. Omero chiama Venere fig. di Giove ; ed Esiodo la dice nata dalla schiuma del mare presso l’isola di Cipro ; percui Museo(2) la chiama donna e signora del mare ; e da Orazio(3) appella vasi sovrana padrona di Cipro, ove nacque ed esercitava in modo particolare il suo impero. Anzi si venerava pure come dea della marina. Plinio(4) riferisce che Augusto pose nel tempio di Giulio Cesare un quadro che rappresentava Venere nell’atto di uscire dalle onde del mare, detta perciò Anadiomene. Igino poi(5) racconta che una volta dal cielo cadde nell’ Eufrate un uovo, che sulla riva fu covato da alcune colombe e che da esso nacque Venere, la quale fu poscia chiamata Dea Siria. I pesci che portaron quell’uovo alla riva, e le colombe, ad istanza di Venere, furon da Giove allogate tra gli astri ; ed i Sirii non le uccidono, avendole per cosa sacra(6). Macrobio finalmente(7), seguendo il suo sistema che il sole e la luna erano le sole divinità degli antichi, adorate da diverse nazioni sotto diversi nomi, afferma che Venere era la luna e che perciò chiamavasi noctiluca.

Dalla schiuma del mare adunque, dice Esiodo, nacque Venere, la più bella delle Dee, presso all’isola di Cipro, e portata da una conchiglia approdò a Citera, cit. di quell’isola, ove i fiori e le tenere erbette le germogliavano {p. 193}sotto i piedi, ed era accompagnata da Cupido, suo figliuolo, dal giuoco, e dal riso, che la rendevano la delizia degli uomini e degli Dei. Fu poscia portala da Zeffiro, mentre le Stagioni, fig. di Giove e di Temi, l’attendevano sulla spiaggia. Esse l’ornarono alla foggia delle immortali, e così la condussero all’Olimpo, ove la sua bellezza destò la maraviglia di tutt’i numi. Giove volendo dare un compenso a Vulcano, il più deforme degli Dei, dell’ingiuria fattagli, quando il precipitò dal cielo, gli diede Venere per moglie. I poeti, dice Banier, seguendo queste ridenti idee, han procurato di vincersi scambievolmente nel descrivere i pregi di lei ; ed i pittori e gli scultori, a loro imitazione, ne hanno formato una Dea che in se riunisce quanto vi è di più bello e di più amabile.

Secondo Lattanzio, Venere non era altro che i poeti ne foggiarono una dea. Ma il Banier ricerca l’origine della favola di Venere nella Fenicia. Questa dea, egli dice, era la Venere adorata dagli Orientali. I Fenicii, conducendo le loro colonie nelle isole del mediterraneo e nella Grecia, vi recarono eziandio il culto di quella dea. Essi dovettero in prima fermarsi a Cipro ch’è la più vicina alle coste della Siria, ed il culto di lei vi fu generalmente abbracciato. Di là andarono a Citera ch’era non lungi dal continente della Grecia ; ed allora i Greci cominciarono ad acquistar conoscenza della loro religione. Quindi in poetico linguaggio dissero che presso a quell’isola Venere uscita delle onde era comparsa la prima volta, perchè qui vi la prima volta ne aveano inteso parlare. E come i Fenicii che i primi avean recato colà il culto di Venere, eran venuti per mare ; così i Greci che portavan tutto al maraviglioso, finsero ch’era nata dalle onde del mare.

III. Continuazione-Adone-Atalanta ed Ippomene. Orti delle Esperidi. §

Astarte adunque ch’era la Venere Urania de’ Fenicii, e vuolsi nata in Tiro, si era maritata con Adone, giovanetto di grandissima bellezza, e fig. di Cinira, re di {p. 194}Cipro. Amava(1) egli oltremodo la caccia, e Venere l’esortava spesso a non occuparvisi troppo pel pericolo delle fiere ch’egli inseguiva. E di fatto un giorno sul monte Idalo, di Cipro(2), fu mortalmente ferito da un grosso cinghiale che vuolsi essere stato mandato da Marte ; sebbene altri dicano che Apollo, cangiato in cinghiale, avesse ucciso Adone per vendicarsi di Venere, la quale avea privato di vista Erimanto, di lui figliuolo, che l’avea veduta nel bagno. Alle grida dell’infelice giovane Venere accorse, sparse del nettare sulla ferita e dal sangue di lui fece nascere un fiore che Bione crede essere la rosa, per ciò consacrata a quella Dea ; ma che Ovidio dice essere l’anemone, fiore che si apre solo allo spirare del vento (ανεμος, ventus). Altri vogliono che l’anemone nacque dalle lagrime di Venere, la quale, entrando nella foresta in traccia del ferito Adone, la spina di un rosaio le punse il piede, ed una goccia del suo sangue che zampillò dalla ferita, cangiò in rosso il colore delle rose ch’eran tutte bianche. Adonie erano feste che si celebravano in onore di Adone. In esse tutta la città vestivasi a lutto, e non si udivano per tutto che pianti e grida. Le donne correvano per le strade co’ capelli sparsi e si battevano fortemente il petto. Adone avea un tempio insieme con Venere in Amatunta ; e nel tempio di Giove Conservatore a Roma avea una cappelletta, ove andavano alcune volte a piangerlo le donne. I porci ed i cinghiali sono odiosi a Venere per la morte data ad’ Adone ; quindi il greco proverbio, sacrificare il porco a Venere (Αφροδιτη υν εθυκεν), per significare un uomo che fa cosa ingrata ad alcuno. Bione, poeta buccolico, ha fatto un idillio bellissimo sulla morte di Adone ; e Teocrito la cantò in versi anacreontici nell’idillio trentesimo. L’Italia ha il celebre poema del cav. Marini intitolato l’ Adone.

La favola di Atalanta e d’Ippomene si racconta nelle Metamorfosi(3), insieme con quella di Adone. Fu essa figliuola di Scheneo, re di Argo. Un oracolo avea {p. 195}predetto che maritandosi sarebbe stata cangiata in altra forma ; per cui fuggiva di dare la mano a chicchessia ed attendeva solo alla caccia. Ora, per evitare le importune richieste, fece sentire che avrebbe sposato colui che l’avesse superata nel corso. Ella ch’era velocissima, vinse molti concorrenti, i quali ebbero la pena di morte giusta la convenzione. Or Venere ad Ippomene o Ippomedonte, fig. di Megaro o di Marte, dato avea tre pomi d’oro colti nel giardino delle Esperidi, o in un luogo dell’ isola di Cipro. Il quale con arte gettò nel meglio della corsa successivamente i tre pomi, i quali volendo la donzella raccogliere, con tal ritardo diede luogo ad Ippomene di giungere prima di lei alla designata meta. In premio della vittoria sposò egli Atalanta ; ma Venere, cui dimenticato avea di rendere le dovute grazie, sdegnata fece che profanassero un tempio di Cibele, la quale di ciò oltremodo offesa vendicò l’oltraggio, trasformando entrambi in leoni che attaccò al suo cocchio. La corsa di Atalanta e d’Ippomene è il soggetto di due belle figure del giardino delle Tuilèries.

Que’ pomi d’oro che Venere donò ad Ippomene, erano consacrati a quella Dea e si custodivano negli ameni orti delle Esperidi. Plinio(1) attesta che i giardini in generale erano sotto la protezione di Venere ; e negli orti Sallustiani era un tempio di Venere colla iscrizione : « Gli Editui di Venere degli orti Sallustiani. » Si racconta che quando Giove sposò Giunone, gli Dei fecero de’ regali alla sposa, e che la Terra donato le avesse de’ pomi d’oro co’ ramoscelli. Giunone pregò la Terra di poterne piantare ne’ suoi giardini ch’eran vicini al monte Atlante. Ora l’Esperidi ch’eran tre sorelle poste alla guardia di detti pomi e fig. di Atlante e di Esperide, fig. di Espero, ne coglievano spesso ; per cui Giunone li diede in guardia ad un dragone di enorme grandezza detto Ladone e nato da Tifone e da Echidna, o da Forco e da Ceto, che avea cento teste e non dormiva mai. Fu esso ucciso da {p. 196}Ercole, e da Giunone collocato fra gli astri. Altri però favoleggiano che le Esperidi possedevano in Africa non lungi dal monte Atlante orti amenissimi, ne’ quali era l’albero de’ pomi d’oro consacrato a Venere ; e si chiamavano Egle, Aretusa ed Esperetusa ; ma sul loro numero e nome variano i Mitologi.

IV. Vittoria di Venere sopra Giunone e Minerva, e sue conseguenze nella condotta dell’Iliade e dell’ Eneide. §

Si è nell’articolo di Giunone favellato del fatal pomo della discordia, del giudizio di Paride e della vittoria che riportò la nostra Dea sulle due rivali. Or questa vittoria non fu la sola cagione che spinse Venere a proteggere l’infelice città di Troia, e gli odiati avanzi di essa. Ella da Anchise, principe Troiano e nipote di Priamo, che alcuni dicono fig. di Assaraco, e ch’era bellissimo, avea avuto un figliuolo che fu il celebre Enea. Giunone, pel pomo della Discordia, concepì un odio implacabile contro la sua rivale, e portò gli effetti del pernicioso suo sdegno su tutti gli eroi del sangue di lei. Ed ecco ne’ due grandi teatri dell’ Iliade e della Eneide, Giunone e Pallade tutte intese alla finale distruzione di Troia ed a spegnere in Enea ogni scitilla di quella città sventurata ; mentre Venere pone in opera tutte le forze sue per salvare e l’una e l’altro, se stato fosse possibile, dal turbine che loro soprastava per volere del fato.

Nel terzo libro dell’Iliade, Paride rampognato da Ettore si dichiara pronto a combattere in duello con Menelao a patto che il vincitore abbiasi Elena e i suoi tesori. Si viene al combattimento, e Paride è nel punto di essere ucciso da Menelao ; ma Venere fatta accorta del pericolo

« lo ravvolse
Di molta nebbia, e fra il soave olezzo
Dei profumati talami il depose. Monti.

L’indomabile Diomede colpì Enea nel ginocchio, e già questi era presso a morire, se Venere, sua madre, {p. 197}oprendolo del suo peplo, non avesse impedito che »

ferro Acheo gli passi il petto, e l’anima gl’involi. Ma l’eroe imperterrito insegue Venere, e

Poichè raggiunta per la folta ei l’ebbe,
Abbassò l’asta il fiero, e coll’acuto
Ferro l’assalse, e della man gentile
Gli estremi le sfiorò verso il confine
Della palma. Forò l’asta la cute,
Rotto il peplo odoroso a lei tessuto
Dalle Grazie, e fluì dalla ferita
L’icòre della Dea, sangue immortale
Qual corre de’ beati entro le vene,
Ch’essi nè frutto cereal gustando,
Nè rubicondo vino, esangui sono,
E quindi han nome d’Immortali. Al colpo
Died’ella un forte grido, e dalle braccia
Depose il figlio. Monti.

Allora Iride, presala per mano, tirò la Dea fuori del tumulto, ed ella, salita all’olimpo sul cocchio prestatole da Marte, fu risanata da Peone. Icore (ικορ), è un bianco umore, o un sangue finissimo che Omero assegna agli Dei, cioè, come spiega Mad. Dacier, non un sangue terreno e grossolano, come il nostro, ma un vapore tenue e divino, degno degl’immortali. Omero, ella dice, non si è contentato di attribuire agli Dei le passioni ed i vizii degli uomini ; egli loro attribuisce anche le debolezze dell’umana natura ; essi combattono cogli uomini e ne sono feriti. La qual cosa sembrò così ingiuriosa alla divinità, che per questa ragione Platone cacciò Omero dalla sua repubblica ; e Pittagora disse ch’egli era crudelmente tormentato nell’inferno per avere sparso nel suo poema finzioni sì strane ed indegne. Si potrebbe solo scusare, dicendo avere egli seguita l’opinione de’ tempi suoi, che questi Dei inferiori, cioè, avessero i loro corpi, sebbene di altra natura che i nostri, e che per ciò potevano molto bene partecipare delle umane debolezze ed infermità.

Ma suo malgrado ed ingannata dalla scaltra Giunone dovè un giorno la nostra Venere concorrere ad una {p. 198}orrenda strage che i Greci aiutati da Nettuno fecero de’ Troiani. Giove interdetto avea agl’Iddii di prender parte alla guerra di Troia ; per cui Giunone scaltramente ottiene il misterioso cinto di Venere, fingendo che volea avvalersene per comporre una difficile lite fra l’Oceano e Teti ; ma veramente servì per rendersi benevolo il consorte Giove, che fece addormentare dal Sonno, e così diede agio a Nettuno d’inanimire i Greci e fare grande strage de’ Troiani. Rinomato è il misterioso cinto di Venere detto zona da’ Greci (ζονη, et κεστος, acu pictus, a κεντεω, pungo) e da’ Latini cesto (cestus), ornamento nel quale erano chiuse e raccolte tutte le lusinghe e che avea la virtù di rendere amabile chi lo portava, tanto che Luciano dice che Mercurio involò a Venere la sua cintura per significare che questo nume possedeva tutte le grazie del discorso. Il Tasso ha imitato la descrizione che fa Omero del cinto di Venere, quando descrive la cintura di Armida.

V. Continuazione. §

Ma i fati traevano Troia a dover sostenere l’ultima sua rovina ; e gli sforzi, benchè potenti, di Marte di Venere, di Apollo e degli altri numi che ne favorivano la causa, non valsero a salvarla dal destinato eccidio. Troia cadde e ne fu miserando avanzo il figliuolo di Venere e di Anchise, il pio Enea. Il volere del fato il portava in Italia ; l’ira di Giunone a tutto potere volea tenerlo lontano da quella regione ; e Venere dovè proteggerlo dall’odio ostinato della moglie di Giove. Ecco in breve qual figura fa Venere nell’ Eneide.

Questa Dea predetto avea ad Anchise(1) che l’ Italia sarebbe stata il termine delle sventure di Enea ; ed è noto che Apollo avea presagita la serie fatale degli avvenimenti di quell’eroe, de’ suoi posteri e della nuova città che sorger dovea in Italia(2). Or navigando {p. 199}a piene vele la Troiana flotta dalla Sicilia alla volta del Lazio, una tempesta ad istanza di Giunone suscitata da Eolo, fa sì che l’eroe troiano sia sbalzato con poche navi alle sconosciute coste della Libia. Di ciò afflitta la madre Venere, cogli occhi molli di dolci lagrime, si fa innanzi a Giove sull’Olimpo, e delle calamità, onde opprimeva Enea ed i suoi Troiani, gravemente si duole. A tali pietose rimostranze della Dea Giove sorrise, promettendo alla figliuola che un dì sarebbe risorta una novella Troia e che avrebbe riposto in cielo il magnanimo Enea ; le rivela la nascita di Romolo, il quale fondar dovea la gran città di Marte e dirla Roma dal suo nome, città ch’esser dovea l’eterna imperatrice del mondo ; e le predice infine la gloria di Cesare, il quale ripeteva l’origine da Giulio o Ascanio, fig. di Enea e nipote di Venere(1), tanto che nello stemma della famiglia Giulia vedeasi segnato il nome di Venere. Per ciò Cesare consacrò a questa Dea il mese di Aprile, che Ovidio(2) afferma, essere stato così detto da Afrodite o Venere, sebbene altri dicono ab aperiendo, dall’aprire, perchè in quel mese la terra par che si apre e manda fuori i nuovi germogli de’fiori e delle altre piante.

Da siffatte solenni promesse del Padre de’ numi Venere rincorata il di vegnente si fece incontro al figliuolo, il quale ignaro de’ luoghi discorreva alla ventura per conoscere in qual paese il vento gli avesse spinti. Era ella(3).

Donzella a l’armi, a l’abito, al sembiante
Parea di Sparta, o qual in Tracia Arpalice
Leggera e sciolta, il dorso affaticando
Del fugace destrier, l’Ebro varcava
Al collo avea da cacciatrice un arco
Abile e lesto : i crini a l’aura sparsi,
Nudo il ginocchio, e con bel nodo stretto
Tenea raccolto de la gonna il seno. Caro.
{p. 200}

Ella intanto, sotto quelle mentite sembianze, gli dà la nuova ch’eran salve le navi e gli smarriti compagni, e lo rassicura con additargli non lontane le mura della novella Cartagine, in cui gli promette dalla regina Didone assai benigno ospizio.

Ciò detto(1), nel partir la neve e l’oro
E le rose del collo e de le chiome,
Come l’aura movea, divina luce,
E divino spirar d’ambrosia odore.
E la veste che dianzi era succinta,
Con tanta maestà le si distese
Infino a’piè, ch’a l’andar anco, e Dea
Veracemente, e Venere mostrossi. Caro.

Or l’amorosa madre sospettando che tra via il figlluolo Enea ed il compagno Acate distornati fossero o trattenuti, tutti intorno coprilli di folta nebbia, la quale allora si disciolse, quando riveduti i compagni, si mostrò a Didone sfolgorante di singolare dignità e bellezza. Temendo intanto(2), che in una città consacrata a Giunone, qual’era Cartagine, e per la naturale incostanza di una donna, il suo Enea non avesse quivi a ritrovare stanza sicura, ritenuto Ascanio ne’sacri boschetti del monte Idalo, fa sì che Cupido, preso il sembiante di lui, ispirasse a Didone grandissimo amore verso l’eroe Troiano. Anzi si pose di accordo con Giunone, e per diversi fini le nemiche Dee procurano che Didone ed Enea in marital nodo si stringano ; Giunone, per impedire ad Enea di porre il piede in Italia e fondarvi il destinato impero ; Venere, per rendere più sicura la dimora del figliuolo in Cartagine, chè ben sapeva, le promesse di Giove e la venuta di Enea nel Lazio non potersi da forza alcuna distornare.

Nettuno intanto, per le preghiere di Venere, rende il mare tranquillo, ed Enea, dopo la dipartita da {p. 201}Cartagine e più altre avventure, scioglie le vele alla volta dell’antica Cuma. Quivi colla scorta della Sibilla, pel vicino lago di Averno, pone il piede nel buio regno di Plutone, e Venere manda una coppia di amorose colombe, che col fausto lor volo gli mostrano l’albero dell’aureo ramo. Giunto finalmente Enea nel Lazio, e timorosa la madre pel turbine di guerra che addensar si vedeva sul capo del diletto figliuolo, con mille carezze induce Vulcano a fabbricargli un’armatura che il dovea rendere invitto, ed in cui erano bellamente effigiati i posteri suoi e la futura gloria de’ Romani. Enea lieto l’ammira e l’indossa a danno de’ suoi nemici.

Or avendo Giove nel consesso de’ numi imposto a Venere ed a Giunone di venire ad amichevole concordia e non più brigarsi de’ fatti degli uomini, Venere rinnova le sue lagnanze pel pernicioso odio di Giunone contro i Troiani, per la salute de’ quali ella supplica, e specialmente di Ascanio ; e Giunone dall’altra parte con avventato discorso di tanti mali accagiona i Troiani, e quindi Venere stessa ; percui Giove vedendo che indarno tentava di richiamare quelle Dee alla concordia, per non offendere la consorte o la figliuola, si dichiara neutrale, e la sorte de’ Troiani e de’ Rutuli alle determinazioni del fato interamente commette. Arde intanto gran fuoco di guerra fra Turno ed Enea per la promessa mano della principessa Lavinia ; ed è vicino il momento, in cui coll’ uccisione del re de’ Rutuli dovea Enea stabilirsi in Italia. Turno si mostra pronto a decidere con un duello la gran lite ; ma per opera dell’inquieta Giunone, l’esercito latino, rompendo i patti, assale l’oste troiana, e si viene a gran giornata, in cui i Rutuli son messi in rotta. Nel tumulto Enea vuol richiamare ambe le parti all’accordo stabilito ; ma una saetta venuta non si sa da qual mano, ferisce gravemente quell’eroe. Si adopera ogni mezzo per togliere l’acuto strale e far che tosto ritorni alla battaglia ; ma vana riesce ogni arte. Allora Venere da Creta portò un cespuglio di dittamo, col quale risanò di repente la piaga, percui Enea, ristorate le forze, ritorna alla pugna, e dopo orrenda strage di Rutuli, vittorioso dà {p. 202}morte all’infelice Turno, sposa Lavinia, e così finalmente, dopo varii casi e molti acerbi e duri perigli,

Fondò la sua cittade, e gli suoi Dei
Ripose in Lazio : onde cotanto crebbe
Il nome de’ Latini, il regno d’Alba,
E le mura e l’imperio alto di Roma. Caro.

Le avventure di Enea sono descritte nell’Eneide di Virgilio, bel poema che pe’ Romani potea dirsi poema nazionale, come era l’Iliade di Omero pe’ Greci. Enea mo rì in una battaglia presso il Numicio, fiumicello nella Campagna di Roma ; e si disse che Venere, a malgrado di Giunone, l’avesse portato in cielo. Ebbe un tempio alla riva di quel fiume, e si numerava fra gli Dei indigeti o tutelari del paese (1).

VI. Corte di Venere – Cupido ed Antero – Le Grazie. §

Imeneo e Talasso – Armonia.

Orazio (2) descrive Venere accompagnata dalla galante corte di Cupido, delle Grazie, della Gioventù e di Mercurio. Nicearco (3) dipinse Venere in mezzo alle Grazie ed agli Amori. Anche in un inno di Omero, nel seguito di Venere si pone la Gioventù o Ebe, che Igino dice fig. di Giove e di Giunone, che sposò Ercole in cielo. Apuleio poi afferma (4) che Mercurio sempremai assisteva Venere colla sua eloquenza. Esiodo rappresenta questa Dea accompagnata da Cupido e seguita dal Desiderio ch’egli chiama Imero (Ιμερος). E Venere presso Luciano nel giudizio delle Dee dice di avere due belli figliuoli, Imero ed Ero, cioè il Desiderio ed Amore ; e secondo Orazio (5), intorno alla ridento Ericina svolazzano il Giuoco e Cupido ; il quale {p. 203}poeta in altro luogo (1) con pochi versi soavemente ci rappresenta Venere che, al ritorno della primavera, regola le allegre danze, che al chiaror della Luna intrecciano le Ninfe e le amabili Grazie. Ed invero da Lucrezio (2) si scorge, essere stata antica credenza che questa Dea principalmente all’apparire della primavera mostravasi sulla terra preceduta dall’alato Zeffiro, come da suo foriere. E nell’inno di Apollo dice Omero che le Grazie intrecciano nell’Olimpo lietissime danze insieme colle Ore, con Armonia, con Ebe e con Venere stessa, mentre le Muse celebrano i numi col dolce lor canto.

Era questa la gaia e splendida corte di Venere ; ma dei suoi figliuoli il principale era Cupido. Ella presso Virgilio (3) il chiama sua forza e sua maggior potenza, come i figli soglionsi chiamare forza de’ genitori. Da’Greci si appellava Eros (Ερως), come Antero che pur si voleva fig. di Venere e di Marte, era il suo contrario, cioè l’Amore o l’Amicizia reciproca, o il Contr’Amore. Secondo Cicerone (4), il primo Cupido fu fig. di Mercurio e di Diana prima ; il secondo, di Mercurio e di Venere seconda ; ed il terzo, detto Antero, di Venere terza e di Marte. Alcuni lo dicono fig. del Caos e della Terra ; altri, di Venere e del Cielo ; ma comunemente si dice nato da Venere e da Marte. Per lo più si rappresenta qual fanciullo cieco, o cogli occhi bendati, colle ali, per ciò detto alato, ed aligero ; armato di strali, e col turcasso, per cui si chiama il faretrato Arciero. Qualche volta vedesi Venere che tiene alta la faretra piena di strali, e Cupido che saltando si sforza di afferrarla. Ne’ vasi di Millin si rappresenta Venere che abbraccia Cupido. Essa che forse era la Venere Urania o celeste, è assisa sopra un monticello sparso di fiori, veste un gran manto seminato di stelle ed è adorna di pendenti, di collane e di braceialetti, ed il fanciullo vi è nudo. Spesso questo fanciullo si {p. 204}vede saltare, danzare, montare sugli alberi e dardeggiare ; dipingesi in aria, in terra, in mare, ed alle volte suona qualche strumento. Egli infine era non solo di grande bellezza, ma da Ovidio (1), che ne descrive elegantemente il trionfo, chiamasi aureo, e si descrive colle ali e le chiome screziate di gemme, e su di un cocchio che ha le ruote dorate, mentre la madre Venere gli fa grandi applausi dall’ Olimpo e gli sparge rose sul capo.

Veniamo ora alle Grazie. Esse erano le compagne indivisibili e le ministre di Venere. Si lavavano nel fonte Acidalio ch’ è presso Orcomeno, cit. della Beozia, ed era consacrato a Venere, detta perciò Acidalia ; il che forse significava che i beneficii debbono essere puri e senza sordida speranza di retribuzione. In detta città eran quelle Dee con ispecial culto venerate, per cui furon dette da Pindaro regine della ricca Orcomeno. Quivi Eteocle, fig. di Cefisso, fiume che bagna Orcomeno, sacrificò la prima volta in di loro onore ; e però Teocrito chiama le Grazie, le dive di Eteocle.

Le Grazie (Χαριτες, Charites) erano tre, Pasitea, Egiale ed Eufrosine, secondo il Boccaccio, e fig. di Giove e di Autonoe. Alcuni però le vogliono nate da Giove e da Giunone ; altri, dal Sole e da Egle ; e Servio, da Bacco e da Venere. Omero (2), delle tre Grazie nomina la sola Pasitea, che Giunone promette in moglie al dio Sonno ; forse per significare che il sonno sta in grazia ed è caro a tutti. Ed in altro luogo (3), una delle Grazie, ornata il capo di eleganti bende, dicesi vezzosa moglie di Vulcano, ed essa introduce Teti nella magione affumicata di quel nume. Omero, dice Mad. Dacier, dà per moglie a Vulcano la bella Carite, cioè una delle Grazie, per indicare la grazia e la bellezza delle opere che col fuoco faceva quel fabbro divino. Da Esiodo si appellano Aglaia, Eufrosine e Talia e figlie di Giove e della bella {p. 205}Eurinome, una delle Oceanine. Pausania afferma che qualche scrittore nel numero delle Grazie poneva anche Pito, o la Dea della persuasione, forse per significare che il gran segreto del persuadere è il saper piacere. Esse ordinariamente non aveano che un tempio colle Muse ; ed in Delfo le statue delle Grazie erano collocate alla destra di Apollo. Gli abitanti dell’ isola di Delo consacrarono una statua ad Apollo, opera di un loro concittadino. Il nume teneva l’arco nella destra, e nella sinistra portava le tre Grazie, delle quali una teneva la lira, la seconda un flauto, e la terza una sampogna. Da Pindaro infine invocasi la veneranda Aglaia, Eufrosine, amante degl’ inni, e Talia, amica de’ carmi, figliuole del più potente de’ numi. Il fin qui detto dimostra che nella poesia debbono essere d’accordo le Grazie colle Muse. E Plutarco afferma che a Mercurio erano congiunte le Grazie per significare che la piacevolezza, per così dire, dell’eloquenza cui quel nume presiede è speciale lor dono. Da Orfeo si chiamano madri dell’allegrezza (Χαρμωσυνης γενετειρα) ; e di rado facevansi deliziosi banchetti senza invocarle e salutarle col bicchiere alla mano. Anzi Pindaro aggiunge che in cielo senza le Grazie non facevasi dagli Dei alcuna danza o convito ; per cui dai poeti erano esse destinate ad essere il decoro e l’ornamento dell’olimpo. Omero (1) dice che le due cameriere di Nausicaa, fig. di Alcinoo, ricevevano dalle Grazie la loro bellezza. In somma, dice Banier, nel gran numero delle Divinità degli antichi alcuna non vi è che sia vestita di più amabili circostanze che le Grazie, dalle quali tutte le altre prendono in prestito, per così dire, quanto hanno di amabile e di vezzoso. Esse erano la sorgente di tutto ciò che vi è di dilettevole e di gaio in natura ; esse danno a’ luoghi, alle persone, alle opere ed a qualunque altra cosa nel genere suo quell’ultimo finimento, diciam così, che fa belle tutte le altre perfezioni e che n’è come il fiore. Infine da loro solamente poteasi avere quel dono, senza il quale ogni altro {p. 206}è inutile, cioè, il dono di piacere. Perciò esse avevano più che tutte le altre Dee un gran numero di adoratori : tutti gli stati, tutte le professioni e tutte l’età loro porgevano voti ed incensi ; e mentre ciascuna scienza e ciascun’arte avea il suo particolar nume tutelare, tutte le arti e tutte le scienze riconoscevano l’impero delle Grazie. Quindi la frase « cantare a mal grado delle Grazie » che disse Properzio (1), equivale alle altre « in disgrazia delle Muse, a dispetto di Minerva » (Musis iniquis, invita Minerva). E Plutarco (2) riferisce che, essendo il Filosofo Senocrate di volto austero e tetrico, soleva dirgli Platone « Vedi, caro Senocrate, di sacrificare alle Grazie ».

Queste Dee per lo più si dipingevano nude e discinte, per significare che l’amicizia esser dee schietta e senza orpello ; e colle mani fra loro congiunte, per indicare la concordia degli amici (3). Anacreonte dice di loro che spargon rose a piene mani (ροδα βρυουσι). Il più si rappresentano quali giovani donne belle e ridenti, vestite più con garbo che con magnificenza, coronate di fiori, con in mano alcune rose senza spine, che vanno spargendo. Un poeta (4) finalmente invita le Grazie a venirne a lui dalla città di Orcomeno, ed in prima Aglaia che si distingue al lieto e decoroso sembiante ; Talia che ha il sacro capo cinto di verdeggiante ghirlanda ; ed Eufrosine, dalle belle guance e dalle rosee labbra.

Qualche volta le Grazie si confondono colle Ore, o si fingon loro compagne. Esiodo le chiama Eunomia, Dice ed Irene, e fig. di Giove e di Temi ; ed afferma che le Grazie e Suada ornarono Pandora di aureo monile, e le Ore, de’ più bei fiori di primavera. Presso Omero le Ore sono le portinaie del cielo, e le ancelle di Giunone. Presso i Greci esse {p. 207}corrispondevano alle stagioni ; ma poscia, avendo diviso il giorno in dodici parti uguali, finsero che le Ore fossero dodici sorelle ministre di Giove e compagne delle Grazie, che avean cura de’ fanciulli e regolavano tutta la vita degli uomini. Esse comunemente si rappresentano danzanti e della medesima età, succinte, come le danzatrici, fino alle ginocchia ; la testa coronata di foglie di palma che si raddrizzano. I moderni di ordinario le rappresentano con ali di farfalla, accompagnate da Temi, e portanti oriuoli e quadranti.

VII. Continuazione. §

Fra le altre deità gamelie o che presedevano alle nozze, i Greci annoveravano anche Venere. A Sparta era una statua colla iscrizione « Venere Giunone » alla quale facevano sacrificii le madri delle Spartane donzelle promesse in matrimonio. E le novelle spose consacravano a Venere, prima di sposare, i loro fantocci, per indicare che davano un addio a’puerilì trastulli. E figliuolo di Venere e di Bacco si vuole Imene o Imeneo, dio delle nozze, che altri dicono fig. di Apollo e di Calliope. Catullo (1) l’appella abitatore dell’Elicona e fig. della musa Urania. Egli fu un nobile giovane di Atene, di cui fecero il dio delle nozze, nelle quali assai frequentemente s’invocava. Catullo stesso, con dolcissimi versi il rappresenta inghirlandato di odorosa maggiorana ; col flammeo ch’era un velo giallo o del colore della fiamma, proprio delle novelle spose ; con calzari anche di colore giallo, che portavansi dagli uomini studiosi del vestire elegante ; e con una face di pino in mano, di cui solevan far uso nelle nozze, mentre con sonora voce canta le nuziali canzoni, e leggiadramente danza com’era costume nel celebrar le nozze.

Or come i Greci invocavano Imeneo nelle nozze, così i Romani chiamavan Talasio o Talasso, giovane {p. 208}romano, il quale sposò la più bella Sabina ed ebbe felicissimo matrimonio. Quindi agli sposi novelli si augurava la sua felicità ; e di lui si fece un nume dell’innocenza e del buon costume, e s’invocava il suo nome nelle nozze. « Alcune delle più belle Sabine rapite dalla romana gioventù, come destinate ad alcuni de’ principali Padri, eran menate loro a casa da certi della plebe, che di ciò avevano avuto commissione. Tra le quali si dice che, essendo stata presa una di eccelente bellezza dalla compagnia di un certo Talassio ; e domandando molti che la rincontravano, a cui ella fosse menata ; coloro i quali la menavano, perchè non le fosse fatta violenza, che di Talassio era e che a Talassio era menata, rispondevano ad alta voce ; onde per l’avvenire lu poi questa voce nelle nozze gridata e celebrata. » Varrone al contrario afferma che nel celebrarsi le nozze si ripeteva la parola Talassio, per ricordare alla sposa il dovere ehe ha la donna, quando va a marito, di attendere alla fatica ed alle faccende domestiche, e specialmente al lanificio, giacchè Talassio significava un panierino o canestrello per usodi filar lana (θαλασιον, lana. Plutarch.). Si noti in fine che imeneo dicevasi pure un inno solito a cantarsi nella celebrazione delle nozze, quando portavasi a casa del marito la novella sposa (1) ; e che questa voce si adopera spesso a significare le stesse nozze (2).

In un inno di Omero insieme con Venere e colle Grazie s’introduce a danzare anche Armonia o Ermione, la quale nacque da Marte e da Venere, forse per dinotare che l’armonia e l’ordine spesso deriva dalla guerra e dalla collisione (3) ; per cui Eraclito poneva la guerra per principio di tutte le cose, che potrebbe essere l’amicizia e la discordia, cioè l’attrazione e la ripulsione, principii delle cose, secondo Empedocle. Essa sposò Cadmo, e nelle sue nozze intervennero tutti {p. 209}gli Dei e le fecero de’ doni. Vulcano e Minerva (1) le donarono una veste tinta di ogni maniera di vizii e di scelleratezze ; il che fu cagione di tutt’i delitti de’ posteri di Cadmo. Venere le fece il dono della fatale collana di oro, per la quale Erifile scoprì a Polinice il luogo, ove Anfiarao, di lei marito, erasi nascosto per non andare alla guerra di Tebe, come in altro luogo si è detto.

VIII. Luoghi ove si prestava a Venere un culto speciale. §

Assai esteso era il culto che prestavano a Venere i ciechi gentili, e però non pochi erano i luoghi, ov’essa veniva in particolar modo venerata. E qui è da por mente che il maggior numero delle città, in cui un nume era venerato, e che avea sotto la sua tutela, era per esso argomento di maggior dignità ; per cui non di rado gli Dei stessi con un certo sentimento di iattanza noveravano i luoghi dedicati al lor culto. Cosi la nostra Dea presso Virgilio (2) si vanta di esser signora di Amatunta, di Pafo, di Citera e della città d’Idalia. Catullo (3) chiama Venere figlia del mare e signora del sacro Idalio bosco, delle Assirie pianure, di Ancona, di Gnido, di Amatunta, di Golgo e di Durazzo. Orazio (4) infine invoca Venere col titolo di regina di Gnido e di Pafo, e la prega ad abbandonare per poco la sua diletta Cipro. Vediamo brevemente de’ principali.

Amatunta era città marittima dell’isola di Cipro, specialmente consacrata a Venere che vi avea un magnifico tempio assai frequentato. Il tempio poi eretto a Citera era tenuto pel più antico di quanti ne avea questa Dea nella Grecia ; il che dimostra che il culto di lei da quella città dovè passare nella Grecia stessa. Era ivi adorata sotto il nome di Venere Urania, e gli {p. 210}abitanti erano a lei in particolar modo consacrati. Presso a quest’isola su di una conchiglia approdò Venere già nata dalla spuma del mare.

Ma Cipro, isola natale di Venere, nel Mediterraneo, è più di ogni altro luogo celebrata pel culto di quella dea. Di quest’isola era capitale Pafo, in cui vedeasi un tempio di Venere, nel quale, al dir di Virgilio (1), su cento altari bruciavano Sabei incensi e spargevan grato odore molte ghirlande di freschi fiori. Qui Virgilio fa menzione solo d’incenso e di fiori offerti a Venere, e non di uccise vittime, perchè su gli altari di essa non si spargeva mai sangue e specialmente in Pafo. Tacito racconta che Tito, navigando presso l’isola di Cipro, volle visitare il tempio di Venere celebre pel concorso di cittadini e di forestieri. Le antiche memorie, egli dice (2), lo dicono fondato dal re Aeria ; ma altri vogliono che fu dedicato da Cinira, e che la Dea stessa, nata dal mare, fosse quivi approdata. Era proibito spargere sangue sull’altare di lei, ma solo se le porgevano preghiere e vi ardeva un puro fuoco. Il simulacro della Dea non avea forma umana, ma rassomigliava ad una piramide. Clemente Alessandrino (3) a proposito riflette che queste figure di Venere e di altri Dei e Dee, che non aveano figura umana, erano argomento di assai rimota antichità, in cui non ancora si conosceva l’arte di dare al legno ed al marmo forme di uomini o di animali.

Gnido, città della Caria, era puro tutta propria di Venere. In essa un bellissimo bosco di gradevoli piante e specialmente di mirti, rendeva delizioso quel soggiorno e degno della Dea che vi si adorava. Vi andavano a folla per ammirarne la statua, opera di Prassitele e di perfetta bellezza, descritta elegantemente da Luciano. Plinio (4) afferma che quella statua non solo di tutte le altre opere di quell’insigne statuario era {p. 211}la più bella, ma che in tutto il mondo non se ne vedea la simile, e che molti solo per vederla andavano a Gnido. Nicomede, re di Bitinia, volea comprarla a patto di pagare tutto il debito della città ch’era grandissimo ; ma que’ generosi cittadini non vollero privarsi di un tesoro che avea tanto nobilitato la loro patria. Nell’Antologia greca(1)« Chi mai, dice Antipatro, ha dato vita al marmo ? e chi ha veduto sulla terra la bella Ciprigna ? o chi mai ha posto sì a mabile avvenenza in un sasso ? Fu di Prassitele la mano ; e credo che Venere stessa, abbandonato l’olimpo, venuta sia ad abitare a Gnido. « Ed in un epigramma di Eveno : » Giunone e Pallade, come videro la Venere di Gnido, ah ! dissero, ingiustamente noi ci lagniamo di Paride ».

E finalmente sull’Erice, monte della Sicilia, fu uno de’ più ricchi tempii di Venere, che vuolsi edificato insieme colla città di tal nome da Erice, fig. di Venere e di Bute, e re di una parte della Sicilia, che fu ucciso da Ercole ch’ era stato provocato a singolar tenzone, quando portò in Sicilia i buoi di Gerione. Virgilio, però racconta(2), che avendo Enea fondato in Sicilia la città di Acesta, edificò sul monte Erice un magnifico tempio a Venere Idalia, ben descritto da Polibio e da Diodoro Siculo.

IX. Iconologia di Venere. §

Eratostene riferisce che Canace Sicionio avea fatta di oro e di avorio una statua bellissima di Venere, la quale portava in mano un pomo in segno della vittoria riportata sulle Dee rivali, come in una moneta di Plautilla era Venere col pomo e coll’epigrafe « a Venere vincitrice ».

L’opinione che Venere sia nata dalla spuma del mare, è consacrata da molti antichi monumenti, e specialmente dal sublime quadro di Apelle, ove la Dea {p. 212}era rappresentata in atto di asciugarsi la chioma nell’istante ch’esce delle onde. Era questa la Venere Anadiomena och’esce del mare, nella quale opera, se crediamo a Properzio, fu riposta la principal gloria di quell’insigne pittore. È noto poi che si rappresentava su di una conchiglia, come si vede in molti antichi monumenti(1).

La Venere celeste che nacque da Giove e da Armonia, e diversa dall’altra fig. di Dione, era caratterizzata da un diadema sul capo simile a quello che porta Giunone. La Venere Vittoriosa (victrix) è adorna di un simile serto. La più bella statua di questa Dea, ma senza braccia e che pone il sinistro piede sopra di uncasco, è stata scoperta negli scavi del teatro di Capua, ed ora orna il real palazzo di Caserta. Winckelmann pretende che il diadema sia proprio della sola Venere Urania ; ma Lessing sostiene che presso i poeti tutte le Dee hanno il diadema.

Alle volte, dice Winckelmann(2), rappresentavasi la nostra Dea con una colomba in mano, e qualche volta con un fiore, il quale forse indicava il potere di lei su’giardini, di cui i Greci ed i Romani la riputavano signora. Omero fa menzione del nitido peplo di Venere, col quale ella ricoprì il figliuolo Enea per difenderlo da’ dardi de’ Greci.

La Venere de’ Medici ch’è nella galleria di Firenze fondata da’ principi della famiglia de’ Medici, è simile alla rosa ch’esce fuor della boccia al primo apparir del sole dopo una bella aurora, Heyne con molti versi dell’ Antologia greca dimostra che la Venere de’ Medici ha dovuto essere rappresentata come stante in piedi avanti a Paride. Lessing dice che questa Venere non può essere che la Gnidia, vale a dire, il capolavoro di Prassitele in marmo, che fu portata a Gnido ed alla quale fu debitrice quella città della sua rinomanza e del concorso de’ forestieri. Questa statua ch’era di marmo pentelico, è la più maravigliosa di quante ne vanta {p. 213}l’antichità. Luciano la chiama opera bellissima, e ne propone il capo, come esemplare di una perfetta bellezza. Alcuni dicono ch’essa sia opera di Fidia o di Scopa, la cui Venere, collocata di rincontro al circo Flaminio, superava(1)la stessa Venere Gnidia di Prassitele. Al piede sinistro della Dea si vede un delfino, su cui stanno due pargoletti Amori(2). La Venere del Museo Capitolino si è conservata meglio di tutte le altre statue di questa Dea. Essa fu trasportata nel Museo di Parigi, e si annovera fra le più belle statue di questa maniera. Invece del deifino della Venere Medicea ha da una parte un gran vaso da profumi, su cui è gettato un panno orlato di frange. La Venere Lennia fu opera di Fidia ; e Luciano la preferisce a tutte le altre opere di quell’insigne scultore, il quale vi appose anche il suo nome. Ma opera stupenda di Apelle fu la Venere di Coo, nella quale, dice Properzio (3), di quell’inimitabile pittore fu riposta la gloria maggiore. « L’opera più celebre, dice Carlo Dati, di questo artefice insigne fu la Venere di Coo,Anadiomene, cioè emergente o sorgente dal mare ; della quale i poeti dissero sì bei concetti, che in un certo modo superarono Apelle, ma lo resero illustre. Vedevasi per opera degl’industri pennelli alzarsi dalle onde la bella figlia del mare, e più lucente del sole con folgoranti pupille accender fiamme nell’acque. Ridean le labbra di rose, e facea sì bel riso giocondare ogni cuore. Colori celesti esprimean la bellezza delle membra divine, per farsi dolci al cui soave contatto detto avresti di veder correre a gara le onde, eccitando nella calma del mare amorosa tempesta. Sollevavan dalle acque le mani candidissime il prezioso tesoro di bionda chioma ; e mentre quella spremeano, parea che da nugola d’oro diluviasse pioggia di perle. Sì stupenda pittura dedicò Augusto nel tempio di G. Cesare, consacrando al padre l’origine e l’autrice di casa Giulia ; e per averla da’ cittadini di Coo, rimesse {p. 214}loro cento talenti dell’imposto tributo. Essendosi guasta nella parte di sotto, non si trovò chi osasse restaurarla ; onde tale offesa ridondò in gloria di Apelle. I tarli finalmente affatto la consumarono, parendo che il cielo invidiasse così bella cosa alla terra ; e Nerone nel suo principato invece di quella ve ne pose una fatta da Doroteo…. Cominciò un’altra Venere a’ medesimi di Coo, della quale fece la testa e la sommità del petto, e non più, e credesi che avrebbe vantaggiato la prima, ma la morte invidiosa non la gli lasciò terminare. Tuttavia non fu meno ammirata, perchè fosse imperfetta, e succedette in luogo di encomio il dolor della perdita, sospirandosi quelle mani mancate in mezzo a sì nobil lavoro. Non fu alcuno(1)che si attentasse d’entrare a finir la parte abbozzata, perchè la bellezza della faccia toglieva la speranza d’agguagliare il rimanente del corpo. »

E poco appresso : « Del nostro Apelle non si legge nè dove, nè quando morisse : ma pare assai verisimile, ch’egli mancasse in Coo, sua patria, mentre dipingeva la seconda Venere, la quale rimase imperfetta ; ma che forse non potea meglio perfezionarsi che chiaramente mostrando non potersi passar più oltre da ingegno umano. » Fu in grande stima, dice lo stesso Dati, un Cupido coronato di rose fatto da Zeusi e che si vedeva in Atene nel tempio di Venere, del quale forse fece menzione Aristofane(2). Anche Fidia(3) fece di marmo di Paro una statua di Venere di esimia bellezza, che vedevasi a Roma nel portico di Ottavia ; ed Alcamente, Ateniese, di lui discepolo, ne fece anche una bellissima, cui Fidia stesso diede l’ultima mano. Essa era allogata fuori le mura di Atene nella contrada detta degli orti(εν κεποις), percui chiamavasi Venere Ortense, ov’era pure un tempio di Venere Urania, non lungi da quello di Apollo.

{p. 215}Questa Dea(1) il più si dipingeva a guisa di bellissima donzella che sta sulle acque del mare e con una conchiglia in mano ; ed avea sul capo un bel serto di rosse e di bianche rose, mentre candide colombe le svolazzano d’intorno. Comunemente però si rappresenta portata per le onde su di una conchiglia ; si vede anche spesso su di un cocchio tirato da cigni, o da bianche colombe o da passeri(2), uccelli a lei consacrati ; ed Ovidio(3) anche il cocchio trionfale di Cupido fa tirare dalle colombe. Le sue chiome furono inghirlandate dalle Ore di un’assai bella corona di oro, ed esse l’ornarono di bei pendenti di oro e di un prezioso monile.

Finalmente Venere si rappresentava ora con un gloho celeste in mano, per indicare Venere Urania ; ora assisa su di un delfino, con una colomba in grembo ; ora con Adone accompagnato da’ suoi cani ; ora con Cupido e colle Grazie ; ma più spesso come uscente del mare sopra di una conchiglia portata da due Tritoni, o su di un cocchio tirato da due cavalli marini ; o da una capra marina. Qualche volta sembra appoggiata ad un Tritone, tenendo in mano uno scudo, sul quale è dipinta una testa. Cavalcando un cavallo marino, pare che la Dea voli sulle onde, con un velo sul capo, che i venti gonfiano leggermente, mentre Cupido le nuota a fianco.

X. Principali epiteti di Venere. §

Acidalia, Ακιδαλια ; fu così detta Venere dal fonte Acidalio, nella Beozia, ove solevansi lavare le Grazie.

Afrodite, Αφροδιτη ; ed Afrogenia, Αφρογενης θεα da Esidio, απυ του αφρου, a spuma, perchè nata dalla schiuma del mare. Ma il P. Arduino vuole che la voce Aphrodite derivi da απο, e ροδιτης, cangiata in απο la tenue π nell’aspirata φ ; di modo che αφροδιτη sia quasi {p. 216}απροδιτη, cioè simile al color della rosa,perchè ροδον significa rosa.

Amatusia, Αμαθουσια, Amathusia, così detta daAmatunta, città dell’isola di Cipro, alla quale diede il nome Amatusia, madre di Cinira.

Anadiomene, Αναδιομενη, da αναδυμι, esco fuori ; soprannome dato a Venere come uscente dal mare. Per questa ragione fu pur chiamata Venere marina ; Ευπλοια (ab ευ, bene, e πλεω, navigo), e Ποντοπορος (a ποντος, mare, e πορεια, iter), e Pelagia ; e persiò invocavasi pure da’naviganti(1).

Aurea, χρυση, Hom. ; πολυχρυσος, Hesiod. Forse per la bellezza, perchè diceasi aureo tutto ciò che ha ragione di bellezza. Orazio chiamòaurea la mediocrità dello stato, cioè bella e preziosa.Basilea, βασιλεια, ανασσα, regina, perchè credevasi regina del cielo e della terra. Crazio la chiama regina di Pafo e di Guido.

Celeste o Urania, Ουρανια, quasi madre dell’ amor puro.

Cipria o Ciprigna, Κυπρις, Κυπρογενης, Cypria, dall’isola di Cipro, ove nacque ed era venerata. Dante disse :

Che la bella Ciprigna il folle amore
Raggiasse, volta nel terzo epiciclo.

E stella ciprigna chiamossi dall’ Ariosto il pianeta di Venere :

Fra le più adorne non parea men bella,
Che sia tra l’altre la ciprigna stella.

Citerea, Κυτερεια, Cytherea, da Citera. Cupido anche chiamavasi Citereo ; ed Aprile fu detto pure mese citereo, perchè consacrato a Venere.

Dionea, Dionaea, Venere, fig. di Diane ; percui G. Cesare fu detto Dioneo, come discendente da quella Dea.

{p. 217}Ericina, Erycina, dal monte Erice, in Sicilia, non lontano dal capo Lilibeo, sul quale fu edificato un memorabile tempio di Venere.

Filomede, φιλομμειδης Αφροδιτη, Venere che ride dolcemente, o che ama il riso.

Genitrice, Genitrix. Romolo(1) dedicò i due primi mesi dell’anno antico, Marzo ed Aprile, il primo a Marte, suo padre, ed il secondo, a Venere, madre di Enca, affinchè lanno cominciasse sotto il patrocinio di que’ numi, da’ quali avea avuto origine la città di Roma ; per cui ne’sacrificii invocavasi Marte col nome di padre (Marspiter), e Venere con quello di genitrice (Venus genitrix). In mezzo al foro Giulio era il tempio di Venere Genitrice, che quel gran generale, la notte precedente alla battaglia di Farsaglia, promesso aveva alla dea, se riportato avesse la vittoria.(2)

Gnidia, Κνιδια, da Guido, città, ove Venere era particolarmente onorata.

Idalia, soprannome di Venere dal culto resole in Idalia, città dell’isola di Cipro.

Libitina, Lubentina o Libentina, lat.Libintina, da libet, piacere. Era la dea de’ funerali, che alcuni confondono con Venere ; ed altri dicono essere stata Proserpina. Nel tempio di questa dea si conservavano le cose necessarie pe’ funerali ; e Libitinariiappellavansi coloro che le custodivano ; per cui Libitina presso Orazio(3) si adopera per la morte stessa.

Ortense, Hortensis, perchè presedeva a’ giardini.

Stratonica chiamasi Venere da Tacito(4), forse in onore di Stratonica, ava di Seleuco II, detto Callinico, il quale nel decreto degli Smirnesi avea dichiarato che il tempio di Venere Stratonica godesse del dritto di asilo.

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XI. Alcune altre cose di Venere. §

Fra gli animali erano specialmente consacrati a Venere i cigni, le colombe ed i passeri ; ed il cocchio della bella Ciprigna era portato per l’aria or da una bianca coppia di amorose colombe, or da’ cigni ed ora da due neri passeri, come cantò Saffo(1) :

« del padre la magione aurata
Lasciavi, ed i bei passeri veloci
Le fosche ale agitando in varie ruote,
Te, bella Dea, portavano del cielo
Per l’ampie strade. B. Quaranta.

Virgilio(2) dice che Enea riconobbe i materni uccelli, cioè le colombe mandate dalla madre Venere. Si divertiva un giorno questa Dea col figliuolo Cupido a coglier fiori. Cupido volea superare la madre ; per cui s’incollerì fuor di misura, quando vide che la ninfa Peristera era venuta ad aintarla, e però trasformolla in colomba. Or Peristera (περιστερα) in greco significa appunto la colomba.

Fra le frutta, la mela ; e fra le piante, la rosa ed il mirto erano consacrati a Venere ; ed anticamente i simulacri di quella dea si coronavano di rose(3). Ovidio(4) afferma che Venere l’avvertì toccandolo leggermente con un ramoscello di mirto, come a suo poeta.

Nel giuoco de’ dadi il punto fortunato dicevasi di Venere, come il contrario si chiamava del cane.

I Genii aveano una certa affinità colle Grazie, compagne di Venere. Gli antichi credevano, che tutte le arti ed i mestieri erano sotto la protezione de’ Genii, de’ quali la pittura si serviva per rappresentare le arti medesime in acconcia ed elegante maniera. In una pittura del Museo Borbonico si veggono i Genii de’ fiori ; {p. 219}ed in un dipinto Pompeiano vi sono i Genietti mugnai tutt’intenti ad esprimere le varie faccende del macinare, Sono sette e fanciulli di aspetto assai giulivo ed alati, quali appunto son descritti da Filostrato, il quale li chiama figli delle ninfe, e fanciulli belli ed alati. Nel dipinto di una parete Pompeiana si rappresenta un genio in sembianza di vaghissima giovane colle ali spiegate, il corno dell’ abbondanza nella sinistra, ed un ramo di ulivo nella destra. Fu poi antica credenza che i Genii fossero i custodi degli uomini, ed i ministri degli uomini e degli Dei. Per ciò a ciascun uomo assegnavano il proprio Genio(1) ; e si credeva ch’esso l’accompagnava dalla culla sino alla tomba(2) ; per cui fu detto da Menandro guida segreta della nostra vita (δαιμων μυσταγωγος του βιου). Il Genio era il dio tutelare degli uomini, come Giunone, delle donne, e si onorava specialmente nel giorno natale di ciascuno, per cui fu detto Dio Natalizio (Deus Natalis)(3). Nè gli uomini solamente, ma i regni ed i luoghi aveano i loro Genii tutelari ; per cui vi era il costume di salutare una città o un luogo, quando vi entravano la prima volta, e ciò in onore del Genio tutelare(4) ; i quali Genii spesso si rappresentavano sotto la forma di serpenti.

All’articolo di Venere e di Cupido appartiene la favola di Narciso, fig. di Cefisso, fiume della Beozia, e della ninfa Liriope, fig. dell’Oceano. Tiresia(5) ch’era per le città della Beozia assai conto pe’ suoi vaticinii, consultato dalla madre, rispose che il fanciullo viverebbe sino a che non avesse veduto se stesso. Si risero i più del pronostico, che il fatto dimostrò vero ; perocchè nel meglio della gioventu e di una fiorentissima bellezza attese solo alla caccia, ogni altra passione spregiando. Stanco un giorno sì per la caccia e {p. 220}sì pel caldo, si ritirò in una fresca ed amena valletta, ov’era un fonte di limpidissime acque, di cui nè pastore, nè armento avea mai intorbidato la chiarezza. In esso inchinatosi per bere e veggendo nello specchio delle acque la sua immagine, fu attonito di quella singolare e freschissima bellezza che non indegna pareva dello stesso Apollo. Invaghito delle proprie fattezze e vaneggiando per sì folle amore, dopo lungo languire, morì, alla riva di quel fonte, di puro disagio ; sebbene alcuni dicono che fosse in quelle acque caduto. Fu poscia per compassione delle ninfe cangiato in un bel fiore che tiene il suo nome. In un dipinto di Pompei rappresentasi Narciso in forma di bel garzone che al margine di un fonte si specchia nelle acque, tenendo due dardi nella sinistra ed a fianco due veltri. L’acqua chiamasi da Dante lo specchio di Narciso. Questa favola significa l’amor folle e disordinato di se stesso, che i Greci dissero filauzia (φιλαυτια) il quale l’uomo strascina alla rovina.

Marte e Bellona §

I. Nami dati a questi numi e lor ragione. §

Marte, dio della guerra, chiamavasi Αρης da’Greci, e Mars da’Latini. In Plauto troviamo Ares latinamente usato per Mars.

Or Αρης deriva dal greco αιρω, fut. αρω,distruggere, ben convenendo al dio della guerra il titolo di distruggitore sì degli uomini che delle città. Da questo nome di Marte forse nacque la voce greca αρετη, virtù, e propriamente la virtù bellica, il valore ; perchè la forza ed il coraggio, che forse sono utili all’uomo nello stato naturale, furono da lui trasformati in una divinità che presiede all’arte funesta della guerra.

Festo poi insegna che Mamers nel linguaggio degli Osci significava Marte ; per cui la voce Mars de’Latini {p. 221}Latini è lo stesso Mamers degli Osci, tolta la sillaba me, come dice lo Scaligero, il quale asserisce che le parole Mamers, Mavors e Mars in quel linguaggio significano forte. Ed egli col Vossio riprova l’etimologia di Cicerone, il quale(1) fa derivare la parola Mavors da due voci latine, le quali significano che travolge grandi cose (quia magna verteret, Mavors) ; e ne adducono per ragione che queste non sono voci latine. Marte infine si chiamava Gradivo (Gradivus), dice Servio, quando era in collera ; e si chiamava Quirino, allorchè stava tranquillo. Avea un tempio dentro la città col soprannome di Quirino, quasi tranquillo custode della medesima ; ed un altro fuori di essa, nella via Appia, come nume bellicoso. Vogliono alcuni che la voce Gradivo sia Tracia e che significhi, presso quel popolo guerriero, forte, bellicoso. Altri però vogliono che derivi o da κραδευειν, vibrare l’asta ; o da gradior, io cammino, perchè questo nome gli si dava solo in tempo di guerra, quando rappresentavasi armato di picca e nell’attitudine di chi cammina velocemente.

Bellona poi, detta anticamente Duellona, fu così chiamata da bellum, la guerra, e si sa che gli antichi dicevano duellum per bellum. Da’ Greci dicevasi Ενυω, Enyo, dal verbo ενυω, che significa uccidere.

II. Storia favolosa di Marte. §

Marte, dio della guerra, fu fig. di Giove e di Giunone(2) ; o secondo alcuni di Enio. Giunone il partori nella Tracia(3), ove, al dir di Callimaco(4), egli siede sull’alto vertice del monte Emo. E Virgilio(5), dice che il padre Gradivo presiede al paese de’ Geti, antichi popoli della Scizia Europea, spesso confusi coi {p. 222}Traci. Or come la gente Tracia era di un’indole feroce e bellicosa, accortamente i poeti fecero nascere Marte in quella regione. Ma il culto di questo nume derivò dall’Egitto, ove la teologia era fondata sopra l’astronomia e l’astrologia, cioè sull’osservazione degli astri e su i pretesi loro influssi. Il torbido e rossastro aspetto del pianeta di Marte fecegli attribuire la virtù di diseccare, e quindi nella zona torrida quella eziandio di far morire. Da ciò venne che al dio Marte fu assegnata la guerra e le battaglie. Le quali idee dall’Egitto passarono certamente ai Greci.

Ma qui è mestieri distinguere più Marti, de’ quali i Greci fecero un solo. Il primo fu il Belo degli Egiziani che i Greci dissero fig. di Nettuno e di Libia, e che fu padre di Danao e di Egitto ; egli fu il primo inventore della spada, e ritrovò l’arte di schierare un esercito(1) ; il secondo fu un re di Egitto ; il terzo fu un re di Tracia, chiamato Odino, assai bellicoso e che fece grandi conquiste, per cui fu da quel popolo guerriero onorato come il dio della guerra ; e questo è il Marte Iperboreo ; il quarto è il Marte greco, detto Ares ; ed il quinto finalmente è il Marte de’Romani, il quale da Rea Silvia ebbe Romolo e Remo.

I popoli della Bitinia(2) raccontavano per una loro antica tradizione, che Giunone fece educare il figliuolo Marte, fanciullo d’indole dura ed oltremodo virile, da Priapo che Luciano crede uno de’ Titani o de’ Dattili Idei e che chiama Dio guerriero. Dal quale apprese prima la danza e gli altri esercizii ginnastici che servir doveano quasi di preludio all’arte della guerra, per cui divenne un insigne capitano, dopo che il suo educatore ne avea fatto un perfetto danzatore. In premio di ciò Giunone diede a Priapo la decima del bottino che avrebbe fatto Marte nelle battaglie ; e nella Bitinia durava il costume di offerire a quel buono educatore il decimo delle spoglie consacrate a Marte. E lo stesso autore osserva che anche a Roma nobilissimi cittadini, quali {p. 223}erano i sacerdoti detti Salii, con molta gravità e religione danzavano in onore di Marte. Ed Omero dà al nume della guerra il soprannome di danzatore.

Diodoro Siculo(1) racconta che Marte fu il primo che, fabbricate le armi, ponesse in campo eserciti per combattere i nemici degli Dei ; e che così, avendo introdotta l’arte della guerra, ne fu dichiarato il nume. Nella guerra contro i giganti(2), Oto ed Efialte, fig. di Aloeo, giganti di strana grandezza, giunsero ad incatenar Marte e tenerlo in dura prigione per ben tredici mesi, dalla quale fu con accorto artifizio liberato da Mercurio. Nè fu più felice in un combattimento ch’ebbe a sostenere con Ercole. Avea quest’eroe ucciso Cicno, fig. di Marte e di Pelopea(3), da cui era stato sfidato a singolar tenzone. Allora Marte, volando a far vendetta dell’ ucciso figliuolo, venne a battaglia con Ercole ; ma Giove li separò con un fulmine. Altri però dicono che fu Marte ferito e vinto, e che a stento salvossi coll’aiuto de’suoi veloci destrieri, de’ quali uno chiamavasi il timore (Pavor), e l’altro la paura (Metus).

III. Continuazione. §

Nel famoso assedio di Troia il nostro Marte ebbe a sostenere e gravi avvilimenti e forti dispiaceri. Egli parteggiava apertamente pe’ Troiani. Or terminata la famosa lotta dello Scamandro con Achille e calmato lo sdegno de’ due rivali per volontà di Giunone(4), più risorse la contesa fra’ numi che tenevano pe’ Greci o pe’ Troiani. E Marte fu il primo ad assalir Minerva colla lancia, rampognandola che avea concitato ella stessa Diomede a ferirlo. E dopo tali rampogne l’ insanguinato Marte avventò il gran telo e ferì l’orrenda egida di quella Dea, la quale con un macigno colpì nel collo l’impetuoso Iddio, che cadde e steso {p. 224}ingombrò sette iugeri. Venere accorsa al pericolo aiutò il povero nume ; ma Minerva non la trattò meno aspramente, per cui giacquero entrambi per mano della Dea distesi vergognosamente al suolo.

Ma certo fu più ontoso per Marte il fatto di Diomede. Incoraggiava Marte i Troiani(1), e, già prevalendo Ettore coll’aiuto di quel nume, Diomede, dopo le più mirabili pruove, era costretto a retrocedere, quando, discendendo Giunone e Minerva a soccorrere i Greci, Diomede istigato da Minerva ferì Marte nel ventre, ed allora mugolò il ferito nume, e ruppe in un tuon pari di nove o dieci mila combattenti al grido. I Troi l’udiro, udir gli Achivi e ne tremaro. Allora doloroso salì alle sfere, e col padre de’ numi lamentossi della tracotanza di Minerva che stimolato avea il figliuol di Tideo a guerreggiar pazzamente co’numi ; ma

Bieco il guató l’adunator de’ nembi
Giove e rispose ; querimonie e lai
Non mi far qui seduto al fianco moi,
Fazioso incostante, e a me fra tutti
I celesti odioso. E risse e zuffe
E discordie e battaglie, ecco le care
Tue delizie. Monti.

Vedesi qui come la divinità, dice Mad. Dacier, la quale è tutta dolcezza, tranquillità e pace, odia più di ogni altra cosa le sregolate e brutali passioni ; ed aggiungerei, come odia l’impeto sfrenato e le devastatrici discordie delle ingiuste guerre. Nel fatto poi di Minerva che vince ed abbatte l’impetuoso Marte, Omero c’insegna che la prudenza ed il senno escono sempremai vittoriosi della forza cieca ed insensata. Peone intanto, per comando di Giove, guarì a Marte la ferita fattagli da Diomede. E con brusche ed acerbe parole ritenne pure Minerva lo impetuoso furore di Marte(2), allorchè, udito avendo questo nume che {p. 225}Deifobo avea ucciso nella pugna un suo figliuolo e di Astioche, chiamato Ascalafo, il quale, capitano degli Orcomenii, avea condotto trenta navi alla guerra di Troia, erasi mosso per andar di presente a farne spaventosa vendetta.

IV. Continuazione. Seguito di Marte e di lui carattere. §

Ma il seguito del nostro Marte era veramente formidabile e degno del dio della guerra. Mentre egli(1), eccita alla pugna i Troiani, il Terrore e la Fuga, non che la Discordia d’insaziabil furore (αμοτον μεμανια), sorella e compagna di Marte, l’accompagnano. Da Marte, rompitore di scudi (ρινοτορος), dice Esiodo, e da Venere, nacque il Terrore e la Paura, compagni esiziali del nume devastatore delle città, i quali nelle orride guerre le dense falangi de’ prodi campioni pongono in iscompiglio. E nello scudo di Ercole si rappresentano del terribile Marte gli alipedi destrieri, e lo stesso Marte pernicioso e spogliatore, il quale colla spada sguainata in mano, tutto insanguinato esorta i soldati al combattimento e siede sul cocchio, allato al quale sta il Terrore e la Paura, che lo Scoliaste di Eschilo chiama ministri o servi di Marte. Bellona, sorella del nume, gli metteva in ordine il cocchio ed i cavalli, quando andava al combattimento. Essa avea in mano un flagello ed una verga tinta di sangue, le chiome sparse e gli occhi di fuoco. Virgilio(1) con Marte accompagna le Furie, la Discordia e Bellona ;

E Marte in mezzo, che nel campo d’oro
Di ferro era scolpito, or questi, or quelli
A la zuffa infiammava ; e l’empie Furie
Co’lor serpenti, la Discordia pazza
Col suo squarciato ammanto, con la sferza
Di sangue tinta la crudel Bellona,
Sgominavan le genti. Caro.

{p. 226}Orazio(1) chiama Bellona amante di sangue, perchè le stragi ed il sangue sono l’infelice frutto de Ila guerra. De’ seguaci del nostro Marte fa pur menzi one Virgilio(2) in una comparazione fra il dio della guerra ed il giovane Turno che si spinge alla pugna :

Qual è dell’Ebro in su la fredda riva
Il sanguinoso Marte, allor ch’entrando
Ne la battaglia, o con lo scudo intuona,
O fulmina con l’asta, e i suoi cavalli
Da la furia e da lui cacciati e spinti
Ne van co’venti a gara, urtando i vivi,
E calpestando i morti, e fan col suono
Dei piè sino agli estremi suoi confini
Tremar la Tracia tutta, e van con essi
Lo Spavento, il Timor, l’Insidie e l’Ire,
Del bellicoso Iddio seguaci eterni ;
In così fiera e spaventosa vista
Se ne gia Turno la campagna aprendo,
Uccidendo, insultando. Caro.

Oltre a ciò gli epiteti che a lui si danno da’ poeti, sono i più atti a farcene conoscere il carattere. Omero ed Esiodo il chiamano nume insaziabilmente avido di guerra e di battaglie ; bruttato di stragi e di sangue ; omicida e devastatore delle città. Nelle Metamorfosi(3), appoggiato all’asta, impavido sale sull’ insaguinato cocchio e colla sferza ne sollecita i veloci destrieri. Orazio(4), parlando di quelli che muoiono in guerra, con bella immagine dice che le Furie con queste vittime infelici del guerriero furore danno un grato spettacolo all’insaziabile crudeltà di Marte. Egli è un nume audace e terribile, spogliatore pernicioso e spezzatore di scudi. Omero spesso lo chiama impetuoso (θουρος Αρης), perchè l’impeto ed un cieco furore suol essere compagno indivisibile della guerra. Ed il Furore e la Collera ne adornavano l’elmo, mentre la Fama da per tutto gli andava innanzi.

{p. 227}

V. Culto di Marte appresso i Romani. Sacerdoti Salii. Ancili. §

Roma ed il popolo romano aveano dal dio della guerra preso il nome di città e popolo di Marte ; ed il culto di lui presso quella gente era fin dalla sua origine assai celebre. Ed in vero un popolo di natura sua bellicoso e che al valore guerriero doveva la sua origine e la sua grandezza, stava assai bene sotto la protezione del Dio delle armi. Finsero adunque che Romolo fosse nato da Marte e da Ilia o Rea Silvia, fig. di Numitore ; ed un eroe d’indole feroce e guerriera, come Romolo, poteva assai bene chiamarsi figliuolo di Marte. Fu egli quindi meritamente inteso a promuovere il culto del suo divin genitore, e perciò chiamò Martius, da Marte, il primo mese dell’ anno, che allora non era che di dieci mesi(1). Una lupa, animale dedicato al dio della guerra, perchè rapace e feroce, porse il suo latte a’ due figliuoli di Marte, Romolo e Remo ; e Properzio(2), rivolto a Romolo, gli dice che avea col latte succhiato l’indole sua feroce. Or si finse Romolo nato da Marte anche perchè l’origine di cotanta città ed il principio di quell’impero che dopo il potere degl’Iddii avea ad esser grandissimo e potentissimo, doveva esser fatale(3). Ed in quanto alla morte ed apoteosi di Romolo, si racconta(4), ch’egli, nel frastuono di una gran tempesta, fosse stato rapito e portato in cielo dal padre Marte sullo stesso suo cocchio. E T. Livio(5) racconta che avendo fatto Romolo tante immortali opere, e rassegnando un dì l’esercito nel piano vicino al padule di Capre, mentre ch’ei parlamentava, incontanente si levò una tempesta con grandissimo strepito e romore di tuoni, e con sì folta nebbia e caligine lo circondò, che privò i {p. 228}circostanti interamente della vista della persona di lui ; nè fu poscia veduto più in terra. La gioventù romana prestò fede a’Padri, i quali, essendogli stati più vicini, affermavano, quello essere stato rapito e portato in alto dalla violenza della tempesta. Di poi, dato principio da pochi, cominciarono tutti a salutare Romolo come dio nato d’Iddio, re e padre della città romana. Ma allora vi furono di quelli che tacitamente seco stessi giudicassero, Romolo essere stato lacerato per le mani de’ senatori nel tempio di Vulcano, donde si credeva che ciascun senatore avesse sotto la toga portata fuori una parte del corpo di lui, acciocchè il fatto non si manifestasse. Al pari del marito anche Ersilia, una delle Sabine rapite, fu do po morte annoverata fra’ numi col soprannome di Orta o di Ora(1). Ma non fu Romolo che avesse il primo introdotto il culto di Marte in quelle contrade. Gli antichi Latini(2), prima che fosse Roma, più di ogni altro nume il veneravano ; e ciò per l’indole bellicosa di essi popoli. Anche Varrone asserisce che i Romani aveano preso il nome de’ mesi da’ popoli latini, e che il mese di Marzo fu così chiamato da Marte, non perchè era il padre di Romolo, ma perchè così dicevasi da’ popoli del Lazio.

Quello poi ch’è più celebre nel culto di Marte è il sacerdozio de’ Salii, così detti da salio, saltare, danzare, perchè saltavano e danzavano nelle loro cerimonie. Da Catullo(3) si chiamavano salisubsuli, voce forse foggiata dal poeta per esprimere più vivamente la sua idea. Livio(4) dice che Numa statuì dodici sacerdoti a Marte Gradivo, chiamati Salii, e diede loro il distintivo di una tunica ricamata, e sopra la tunica nel petto un certo pettorale di bronzo ; ed ordinò che portassero quegli scudi che caddero dal cielo, chiamati Ancili ; ed andassero per la città cantando {p. 229}alcuni inni, detti versi saliari, ballando e saltando solennemente. Plutarco poi in Numa racconta che nell’ottavo anno del regno di Numa, mentre un’ orribile pestilenza devastava Roma e l’Italia, si vide cadere dal cielo uno scudo di bronzo. Allora Numa, sulla parola di Egeria, fece intendere al popolo che quello scudo era stato mandato dal cielo per salvezza della città e che doveasi gelosamente conservare con altri undici che avessero la medesima forma del celeste. Così si fece e la peste cessò. Allora Numa istituì i Salii, sacerdoti che aver doveano in custodia que’ dodici scudi. Ovidio però racconta(1) che Giove con frequenti e spaventosi fulmini pieno avea di gran terrore e Numa ed il popolo romano. Egeria, ninfa colla quale quel religioso monarca avea segrete conferenze sul governo di Roma, gli suggerisce di consultar l’oracolo di Pico e di Fauno, da’ quali appreso avrebbe il modo di allontanare quel male sì grave. Numa consulta l’oracolo e coll’intervento di que’ numi ottiene da Giove la promessa che sarebbe cessato il gastigo e che gliene avrebbe dato un pubblico segno. Ed il dimani fattosi il popolo innanzi alla reggia di Numa, a ciel sereno tuonò tre volte e tre volte balenò, e con grande stupore si vide scendere dal cielo uno scudo ch’era il pegno della salvezza di Roma. Per impedire che involato fosse, Numa ne fece formare altri undici al primo somigliantissimi da un tal Veturio Mamurio, artefice assai ingegnoso, il quale dal re altra mercede non volle che quella di porre il suo nome, a perpetua memoria, ne’ carmi Saliari.

Or gli ancili erano scudi non rotondi, ma così tagliati intorno intorno che non presentano alcun angolo, e per ciò detti ancili, quasi ancisa ; per cui ne’ carmi saliari trovasi scritto ancisia. Numa affidò la custodia di siffatto scudo a’ Salii, ma insieme agli altri undici simili fabbricati da Mamurio, acciocchè, confondendosi con essi, potesse con difficoltà esser rubato. Questi sacerdoti alle calende di Marzo facevano una {p. 230}danza per la città in onore di Marte, la quale rassomigliava molto alla pirrica de’ Greci, ch’ era ballo di gente armata. Essi accordavano il loro canto ed il passo al tintinnio degli scudi che percuotevano con una bacchetta o specie di pugnali. La festa durava tredici giorni, ed in tutto quel tempo era vietato far cosa che fosse importante, come maritarsi, imprendere un viaggio o una spedizione militare ec.(1). Il capo dei Salii si chiamava Presule (Praesul, qui ante alios salit), ed il loro principal musico, Vate (υμνωδος). Le loro danze e processioni erano coronate da sontuosi banchetti ; per cui banchetti saliari volevan dire banchetti lauti e sontuosi(2). I carmi che questi sacerdoti cantavano e che si attribuivano a Numa, eran tanto oscuri e composti di voci sì strane, che Quintiliano afferma, appena intendersi dagli stessi sacerdoti(3). In mezzo al foro era in Roma un tempio di grande magnificenza, ove si venerava Marte Ultore. Ivi i generali dell’esercito, dovendo imprendere qualche militare spedizione, entravano, e scuotendo gli ancili e l’asta che il nume teneva in mano, dicevano : « Marte, sii vigilante » (Mars, vigila). Oltre i Salii, vi era eziandio il Flamine Marziale, che in dignità si avvicinava al Diale, cioè al Flamine di Giove, e si sceglieva sempre mai fra i patrizii.

VI. Di alcuni figliuoli di Marte. §

Oltre a Romolo e Remo, figliuola di Marte fu Alcippe, la quale essendo stata oltraggiata da Alirrozio, fig. di Nettuno e della ninfa Eurite, Marte ne fece vendetta e l’uccise. Allora Nettuno dolentissimo della morte del figliuolo, chiamò Marte in giudizio ; ma i migliori cittadini di Atene, che formavano il tribunale destinato a sì famoso giudizio, il dichiararono innocente. Il luogo nel quale si assembravano que’ {p. 231}gravissimi giudici, fu detto l’Areopago (αρεοπαγος ab Αρης, Mars, et παγος, vicus), cioè la rupe o la rocca di Marte, perchè quel tribunale era posto su di un rialto. I giudici in questa famosa causa furon dodici, ed appartenevano alle prime famiglie di Atene ; e però si disse che Marte fu giudicato da dodici numi, ed assoluto con sei suffragii, favorevoli. Ma dell’Areopago si è detta alcuna cosa nell’articolo di Minerva.

Igino chiama Otrera moglie di Marte ; ma altri la dicono di lui figliuola. Era essa una celebre Amazzone, o lor regina, che fabbricò il celebre tempio di Diana in Efeso ; e da lei ebbe Marte una figliuola chiamata Ippolita, la quale portava il cingolo o sia la fascia di Marte (balteus Martis) per segno della sua diguità di regina delle Amazzoni. Ercole, per compiacere Euristeo, volle farne acquisto ; percui mosse contro di lei e l’uccise. Ma Plutarco dice che Ippolita fu schiava e poi moglie di Teseo, dalla quale ebbe l’infelice Ippolito.

Anche la valorosa Pentesilea fu fig. di Marte e di Otrera(1) ; anzi vogliono(2) che le Amazzoni nacquero da Marte e dalla naiade Armonia ; o da Marte e da Venere. E veramente una nazione di donne bellicosissime, com’eran le Amazzoni, con molta ragione si finsero figliuole del dio della guerra. E perchè nell’ Asia Minore, e particolarmente nella Frigia, la memoria delle vere e favolose imprese delle Amazzoni era assai viva, così i poeti posteriori ad Omero introdussero anche queste donne bellicose nella guerra di Troia, e finsero che un drappello di esse portò ainto a Priamo. Ed a proposito di Pentesilea, son bellissimi due luoghi di Virgilio che la descrivono. Mentre Enea(3) in una parete del tempio di Giunone a Cartagine contempla maravigliando i fatti di Troia,

Scorge d’altronde di lunati scudi
Guidar Pentesilea le armate schiere
{p. 232}De le Amazzoni sue, guerriera ardita
Che succinta, e ristretta in fregio d’oro
L’adusta mamma, ardente e furiosa
Tra mille e mille, ancor che donna e vergine,
Di qual sia cavalier non teme intoppo. Caro.

Ed altrove(1) rassomiglia Camilla alle Amazzoni dicendo :

« In tal sembianza
Termodoonte il bellicoso stuolo
De l’Amazzoni sue vide in battaglia
Attorneggiar Ippolita, e col carro
Gir di Pantasilea le schiere aprendo
Con femminei ululati. Caro.

Le Amazzoni poi, come si finse, eran donne bellicose nell’Asia, che formavano un popolo presso il Caucaso sulle rive del Termodonte, ed il loro nome significa un’eroina, una donna guerriera e capace di ardite e pericolose imprese. In quanto poi a Pentesilea, essa, combattendo nell’assedio di Troia, fu uccisa da Achille.

Altro degno figliuolo di Marte e di Cirene fu Diomede, re de’ Bistonii, popolo guerriero della Tracia. Esso avea quattro cavalli di natura sì feroce che doveano star legati con catene di ferro, e non mangiavano che carne umana, chiamati Podargo, Lampo, Xanto e Dino. Diomede faceva uccidere i forestieri che giungevan nel suo regno per alimentare que’ destrieri ; ma Ercole gli mosse guerra e tolse a lui quei cavalli che poscia donò ad Euristeo.

Anche Enomao fu fig. di Marte e di Asterope, o di Arpina, fig. di Danao. Egli da Evarete, fig. di Acrisio, procreò Ippodamia, vergine di esimia bellezza, che a niuno dar volea in matrimonio per aver inteso dall’oracolo che un suo genero l’avrebbe ucciso. Ora, essendo la figliuola pretesa da molti, non volle darla che a colui che lo vincesse nella corsa {p. 233}del carro. Avea egli cavalli più veloci del vento ; e perciò tredici o diciassette ne rimasero vinti, e secondo la convenzi one anche uccisi. Ma Pelope, fig. di Tantalo, ricevuti da Nettuno cavalli alati, e tratto al suo partito Mirtilo, cocchiere di Enomao, e fig. di Mercurio e di Fatusa, una delle Danaidi, al quale avea promesso la metà del regno, vinse Enomao nel corso per essersi rovesciato il cocchio pel tradimento di Mirtilo ; la quale caduta costò a quel principe infelice la vita. Pelope allora sposò Ippodamia che portò a casa ; e nel viaggio, non volendo mantener la parola al perfido Mirtilo, il precipitò nel mare che da lui prese il nome di Mirtoo. Da Ippodamia Pelope ebbe Ippalco, Atreo e Tieste. Enomao era re di Pisa in Elide. Mirtilo fu dal padre Mercurio collocato fra gli astri, e chiamasi Enioco o il cocchiere. Pelope e la sua famiglia per questo fatto di Mirtilo, furon costantemente da Mercurio perseguitati, quantunque egli avesse a questo nume innalzato un tempio ed a Mirtilo un funebre monumento.

Lico infine, fig, di Marte, che regnava in una parte dell’Africa, in onore di suo padre sacrificava tutti gli stranieri che giungevano nel suo paese. A Diomede sarebbe toccata la stessa sorte, se la figliuola di quel barbaro re, mossane a compassione, non gli avesse salvata la vita.

VII. Iconologia di Marte e di Bellona. §

Marte si rappresentava armato da capo a piedi, con lo scudo al braccio ed un gallo accanto, simbolo della vigilanza, col volto infocato, qualche volta colla barba, ma per lo più senza di essa ; sopra un cocchio tratto da cavalli, ovvero da lupi, armato di asta e di flagello. Spesso si rappresentava con una corazza sulla quale erano dipinti più mostri di varie forme ; ed Orazio(1) dice che Marte andava coperto di una corazza di diamante. I due quadri di Rubens a Firenze, {p. 234}i quali rappresentano Marte nell’atto di andare e di ritornare dalla battaglia, danno la più grande idea di questo nume. Gli Spartani rappresentavano Marte incatenato, volendolo in tal guisa quasi obbligare a non abbandonarli nelle battaglie. Alle volte vicino a Marte si dipingeva un lupo che portava seco una pecora, perchè il lupo per la sua rapacità e ferocia, era a quel nume consacrato. Ed a piè delle statue di lui si vede spesso un gallo, uccello che gli era sacro per la sua indole guerresca, e come simbolo della vigilanza.

Non è difficile rinvenire Marte con l’egida in petto e con la testa di Medusa. Marte vincitore si rappresentava con un trofeo in mano ; e Marte Gradivo vedevasi dipinto nell’atteggiamento di un uomo che marcia a gran passi. In una parola, gli antichi monumenti, dice Millin, rappresentano Marte in una maniera molto uniforme, sotto la figura di un uomo armato di un elmo, della picca e di uno scudo ; or nudo, or coll’ abito militare, ed anche con un mantello sulle spalle ; qualche volta barbuto, ma il più delle volte senza barba.

VIII. Epiteti principali di Marte e di Bellona. §

Αλαλαξιος, soprannome di Marte, che deriva dalla voce αλαλα, la quale era un grido militare solito a farsi prima del combattimento. Plutarco chiama Alala la figlia della guerra, ovvero Enio o Bellona.

Arete, da Αρης, virtù, forza, soprannome di Marte, che forse è l’αρετη de’ Greci.

Armiger, οπλοφορος ; epiteto di questo nume da οπλα, arma, e φερω, occido. Da Ovidio(1) si chiama arbiter armorum, che presiede alle armi ; e da Virgilio(2) armipotens, potente in armi.

Belliger, Bellicosus, Marte guerriero, o amante della guerra. Da Ovidio si chiama bellicus, e da Virgilio, bellipotens ; ed a lui Enea per trofeo consacrò {p. 235}le armi dell’ucciso Mez enzio(1). Da Omero e da Esiodo è chiamato omicida, ανδροφονος, distruttore degli uomini, βροτολοιγος ; sanguinario, μιαιφονος ; devastatore delle mura, τειχεσιπλης ; e delle città, πτολιπορθος ; e più altri epiteti degni del nume della guerra. Anche Bellona da Omero si chiama devastatrice di città, πτολιπορθος Ενυω.

Bisultor, che si vendica due volte. Fu così detto da Augusto, per aver vendicato la morte di Cesare colla sconfitta di Bruto e di Cassio ; e l’uccisione di Crasso, colla vittoria riportata su i Parti(2).

Mars communis, Αρης κοινος, significa l’incerto evento della guerra, e che questo nume piega ora all’una, ora all’altra parte. Fu così detto non solo da’ latini scrittori, ma eziandio da Omero(3). E con bel tropo i Greci ed i Latini per Marte intendevano la guerra. Quindi incerto Marte pugnare, combattere con dubbioso evento ; aperto Marte, in aperta campagna ; aequo Marte, con forze uguali, con ugual sorte ; e presso Cicerone, Marte nostro aliquid facere, fare alcuna cosa col proprio ingegno, senza l’aiuto altrui, come se si dicesse coll’esercito proprio, colle proprie forze, presa la metafora da’ Generali di armata ; percui disse Plauto meis copiis invece di meo Marte.

Enialio ; Ενυαλιος ; così chiamasi Marte da’ greci e da’ latini poeti ; ma alcuni vogliono che Enialio sia diverso da Marte, e propriamente un nume de’ Sabini detto Quirinus da’ Romani. Sofocle distingueva Marte da Enialio, giacchè nell’ Aiace dice « o il nume armato di corazza di bronzo, cioè Marte, ovvero Enialio ». Presso Omero ed Esiodo la voce Enialio alle volte dinota Marte, ed alle volte è un aggiunto di questo nume. Quindi Merione da Omero chiamasi uguale all’ omicida Enialio, cioè a Marte ; ed Achille eziandio si rassomiglia al prode Enialio, cioè a Marte che crolla il suo {p. 236}elmo. Questa voce poi deriva o dal verbo ενυω, uccidere, per cui potrebbe significare uccisore ; o da Enio, cioè Bellona, dea della guerra.

Mars Pater, o Marspiter presso i Romani salutavasi ne’ sacrificii(1), o perchè padre di Romolo, o perchè nelle preghiere tutti gli Dei invocavansi col nome di padre(2). Nel sacrificio ambarvale si dice Marspiter, come Dispiter o Diespiter, cioè Dis Pater : Iupiter, cioè Jovis pater(3).

Mars ultor, Marte vendicatore. Pitisco crede che debbonsi riconoscere due tempii, uno di Marte ultore, nel foro Augusto, da questo monarca edificato con rara magnificenza dopo la battaglia di Filippi(4) ; e l’altro di Marte bisultor, nel Campidoglio. Altri però pensano che uno sia il tempio da Augusto dedicato a Marte Ultore.

Χαλκεος Αρης, Mars aereus, Marte di bronzo, per indicare la fortezza del dio della guerra. Quindi Χαλκοχιτων, vestito di bronzo ; Χαλκεωθωρηξ, che ha il petto armato di una corazza di bronzo, sono epiteti frequenti presso Omero.

IX. Alcune altre cose di Marte e di Bellona §

Oltre il lupo, il pico ancora era consacrato a Marte, uccello assai in uso negli oracoli. E però si finse che Romolo e Remo non solo da una lupa, ma da un pico eziandio furono nutriti. Da Ovidio il pico chiamasi uccello di Marte (Martia avis).

Come dio della guerra, presedeva Marte a’ giuochì gladiatorii ed alla caccia, che ne sono un’immagine(5). Quindi i Traci, popolo bellicoso e devoto a Marte, aveano nelle selve i loro tempii di Marte, che chiamavasi pure Silvano(6)

{p. 237}Ovidio(1) fa menzione di una festa in onore di Marte solita a celebrarsi in Roma alle calende di Giugno fuori della porta Capena ; ed in Livio(2) ritroviamo un tempio di Marte avanti a questa porta, che si vuole ristaurata da Silla. Nel mese di Ottobre poi gli s’immolava ogni anno il mìglior cavallo de’ cocchi vincitori nel campo Marzio, ed appellavasi il cavallo di ottobre (equus october. Fest.). Bellona poi avea un celebre tempio fuori le porte di Roma, nel quale si assembrava il Senato per ricevere gli ambasciatori stranieri ed altri che non si volevano ammettere fra le mura. Da questo tempio cominciavano il loro ingresso nella città i generali romani che aveano l’onore del trionfo.

Una turba di fanatici, credendosi agitati dal divino furore di Bellona, spacciavano di predire il futuro. Potrebbe dirsi che questa superstizione sia venuta dalla Cappadocia, come quella de’ sacerdoti di Cibele, ai quali molto si rassomigliavano que’ di Bellona. Tibullo(3) dice che la sacerdotessa di quella Dea, invasata dal suo furore, prima di predire il futuro al poeta, si flagella, non teme la fiamma, si lacera il corpo e col proprio sangue si rende propizia la Dea(4).

In Roma, fuori del pomerio, era un gran campo consacrato a Marte, detto campo Marzio, e campo per eccellenza, ove si radunavano i comizii del popolo romano per la creazione de’ magistrati, per la promulgazione delle leggi ec. Quivi la gioventù romana si addestrava alla guerra con frequenti esercizii militari sotto la direzione de’ Maestri del campo (campidoctor, οπλοδιδακτης. Vet. Glossar.).

Essendo Marte dio della guerra e de’ guerrieri, spesso si usa a significare la guerra stessa e la spada(5) ; {p. 238}ed i guerrieri presso Omero si appellano ora ministri di Marte (θερακοντες Αρηος), ed ora di lui figliuoli (οζοι Αρηος), ed uguali a Marte (Αρηι αταλαντοι, ισος Αρηι), per indicare la loro gran prodezza nelle armi.

Mercurio. §

I. Nomi diversi dati a Mercurio e lor ragione. §

Mercurio chiamavasi Ermete (Ερμης) da’ Greci, e Mercurius da’ Latini. Furnuto(1), e Fulgenzio(2) danno alcune stranissime etimologie del nome Ermete ; e non pochi fanno derivare questa voce dal verbo ερμηνευω, interpetrarè, perchè Mercurio è l’interpetre ed il messaggiere fra gli uomini e gli Dei ; ma pare che quel verbo piuttosto venga dal nome Ermete. Ne’ lessicì si fa derivare dal verbo ειρω, annunziare, per l’ufficio che Mercurio avea di messaggiere de’ numi. Meglio è però attenerci a Diodoro Siculo, il quale afferma che il nome greco di Mercurio è parola egiziana, giacchè Hermes presso gli Egizii significava un interpetre o un oratore ; il che conviene assai bene a Mercurio. E poi si vedrà che l’Ermete de’ Greci ed il Mercurio de’ Latini sono senza dubbio l’ Ermete tanto celebrato dagli Egiziani.

In quanto poi all’origine della voce Mercurius, pare doversi trarre co’ più dalle merci (a mercibus), perchè era il nume che presedeva al commercio ed alla mercatura(3). Altri però dicono che Mercurius sia quasi medius currens o Medicurrius, perchè il discorso corre, per così dire, in mezzo agli uomini, secondo S. Agostino(4) ; o perchè, al dir di Servio(5), questo dio sempre corre dal cielo all’ inferno, e viceversa.

{p. 239}

II. Storia favolosa di Mercurio. §

Il nostro Mercurio era il Thoth degli Egizianì, il Thautus de’Fenicii, il Camíllo degli Etruschi, l’Ermete de’ Greci ed il Theutate de’ Galli. Lo Scoliaste di Stazio(1) conta quattro Mercurii ; il primo, figlio di Giove e di Maia ; il secondo, del Cielo o del Giorno ; il terzo, di Libero e di Proserpina ; ed il quarto, di Giove e di Cillene, dal quale fu ucciso Argo. Cicerone(2) ne annovera cinque : il primo, fig. del Cielo o del Giorno ; il secondo, di Valente e di Coronide, ch’è lo stesso che Trofonio ; il terzo, di Giove terzo e di Maia, dal quale e da Penelope nacque Pan ; il quarto, nato dal Nilo, che gli Egiziani non credevan lecito di nominare ; il quinto adorato nella città di Feneo, in Arcadia, il quale dicesi avere ucciso Argo, e che perciò fuggì in Egitto, ove dettò leggi ed insegnò l’uso delle lettere ; e vi fu chiamato Thoth, nome dato pure al primo mese dell’anno, forse perchè quegli fu l’inventore dell’ astrologia e del calendario. Ed in questo mese gli Egiziani celebravano una gran festa in onore di Mercurio(3). Servio(4), pur dice che Mercurio, ucciso Argo, fuggì in Egitto, e che quivi insegnò l’uso delle lettere ed i numeri agli Egiziani, da’ quali fu chiamato Thoth.

Forse i Greci, avendo a disonore l’esser chiamati discepoli degli Egizii, finsero questo lor Mercurio Argicida, il quale portò nell’Egitto l’uso delle lettere e de’ numeri. Ma i poeti tutto ciò che narrasi di Mercurio, l’attribuiscono al Mercurio greco, fig. di Giove e di Maia.

Atlante, fig. di Giapeto, sposò Pleione, una delle Oceanitidi, la quale sul Cilleno, monte dell’Arcadia, gli partorì le Pleiadi(5). Delle quali Maia(6) {p. 240}vinceva le altre sorelle in bellezza, ed ella fu che da Giove ebbe il nostro Mercurio, che diede alla luce sullo stesso monte Cilleno, sul pendio del quale era la città di Cillene. Fu quindi questo nume assai venerato dagli Arcadi ; ed Evandro, partito dall’Arcadia colla madre, prima che fosse Roma, portò nel Lazio il culto di Mercurio. E questo Evandro era fig. di quel nume e di una ninfa di Arcadia, che i Greci chiamavan Temi, ed i Latini Carmenta, così detta, perchè vaticinava in versi (a carmen)(1). Quindi è che Mercurio chiamavasi facondo ed illustre nipote di Atlante(2). E si vuole che Mercurio avesse dato il nome al quinto mese dell’anno, chiamandolo Maius dal nome della madre Maia ; e di fatto i mercatanti in questo mese facevano in Roma i loro sacrificii a Maia ed a Mercurio(3). Questo nume, dice Pausania, nacque sul monte Coricio di Arcadia, ed appena nato, le Ninfe lo lavarono in Tricrena, monte, ov ’erano tre fontane (τρεις, tres, et κρηνη, fons), poscia a Mercurio stesso consacrate ; e le Stagioni, e le Ore ebbero cura di allevarlo.

Ma dell’infanzia di Mercurio mirabili cose ci narrano gli antichi. Luciano descrive con molta grazia alcune furtive imprese di lui ancor bambino ed avvolto nelle fasce (εν τοις σπαργανοις), e fa dire ad Apollo che quel buon bambino, ancora in culla, avea rubato il tridente a Nettuno, la spada dal fodero a Marte, a Venere, il cesto, a lui stesso, l’arco ed il turcasso ; e che a Giove pure avrebbe rubato il fulmine, se non avesse temuto di restarne bruciato. E Vulcano, mentre queste cose con istupore udiva, si accorse, da quel ladroncello essergli state involate le tanaglie ed altri fabbrili strumenti. Omero nell’inno di Mercurio dice che questo nume nacque la mattina, a mezzodì già suonava la cetra, e la sera rubava i buoi ad Apollo. Ma dei suoi furti parleremo appresso ; solo quì notiamo che {p. 241}Guinone gli volle dar latte e che da poche gocciole di esso a caso cadute ebbe origine la via lattea. La quale avventura si racconta pure di Ercole.

III. Continuazione. Il Mercurio de’ Greci è l’Ermete degli Egiziani. Varie incumbenze di questo nume. Autolico. §

Da Diodoro Siculo e da altri scrittori chiaro si scorge che i Greci, come la maggior parte de’ loro numi, così foggiarono il loro Mercurio sul tipo dell’Ermete egiziano. Di fatto presso quel popolo in grandissima riputazione era Ermete, il quale fu detto eziandio e Mercurio, e Thoth, e Thoyth e Trismegisto, che vuol dire tre volte grandissimo (a τρεις, tres, e μεγιστος, maximus), forse per le sue tre grandi qualità di altissimo Filosofo, di sommo Sacerdote e di grandissimo Monarca.

Incredibili cose si dicono di lui e degl’innumerevoli libri da lui composti. Egli ritrovò le voci articolate, le lettere, la religione, l’astronomia, la musica, la lotta, l’aritmetica, la scoltura, la lira a tre corde e l’uso degli ulivi, falsamente da’ Greci attribuito a Minerva ; tutte le quali cose essi han detto del loro Mercurio. L’Ermete egiziano finalmente fu riputato il padre dell’eloquenza, percui meritò il nome di Ermete, cioè di oratore ; il che ben conviene al Mercurio de’ Greci (1). Ed affinchè meglio si scorga la somiglianza che fra il greco e l’egiziano Mercurio intercede, vedremo quali furono le incumbenze di questo nume il più affaccendato di quanti mai vi ebbero Iddii nel cielo. Della qual cosa forte si duole colla madre Maia in un dialogo di Luciano, dicendo che non v’era fra’ celesti aleuno più infelice di lui, (εν ουρανω θεος αθλιωτερος) per le tante faccende che lo rendevano stanco e distratto. Appena svegliato, egli prosiegue, debbo presentarmi a Giove, il quale mi manda or su, or giù con tante sue ambasciate e mi abbliga a ben lunghi viaggi. Da’ quali appena ritornato, tutto ancora polveroso, debbo {p. 242}propinare il nettare e preparare l’ambrosia. Ed il peggio è che neppure la notte mi è dato dormire, dovendo di notte guidare le anime a Plutone ed assistere al loro giudizio, come se fossero picciole occupazioni quelle giornaliere di attendere alla palestra, di farla da araldo, d’istruire i retori e cento altre. Ma lasciamo il celiare di Luciano e passiamo a divisare partitamente le incumbenze di Mercurio.

E primieramente egli presedeva al commercio ed era il nume protettore de’mercatanti. Quindi (1) chiunque era addetto alla vendita di qualsivoglia merce, offeriva incenso a Mercurio per fare maggior guadagno ; ed i mercatanti (2) pregavano il loro nume tutelare a dar loro buoni lucri e tale destrezza da poter raggirare e cogliere nella trappola i compratori. In Plauto (3) vi è chi dice, essere suo costume, quando ritornava a casa con molto lucro, di ringraziare Mercurio, il quale lo avea aiutato ne’ suoi negozii ed avea accresciuto il suo avere. E perciò una bottega, dove si espongono in vendita le merci, chiamasi officina mercuriale. Alcuni son di parere che i Greci abbiano preso il loro Mercurio da Chanaan, fig. di Cham, perchè chanaan in ebraico significa mercatante, come Mercurio dalle merci ; ed i Fenicii che discendevano da Chanaan, furono i primi ad esercitare con molta gloria la mercatura ed il commercio. Agl’idi di Maggio era in Roma solenne festa pe’ mercatanti in onore di Mercurio che si voleva nato in quel giorno ; e gli sacrificavano, immolando una troia gravida, e se stessi e le loro merci, per modo di espiazione, lavandosi nel fonte detto di Mercurio, ch’era vicino alla porta Capena (4). Con ragione poi si disse che Mercurio presedeva alla mercatura, perchè in questa professione vi abbisogna molta industria e destrezza d’ingegno che credevano darsi da quel nume. E perciò negli antichi monumenti spesso vediamo Mercurio {p. 243}accompagnato colla Fortuna tenere un’ancora e sedere sul rostro di una nave.

Ma non solo de’ mercatanti ; egli fu pure il dio dei ladri, forse perchè fra quelli non è difficile ritrovare chi rubi. Anzi egli stesso fu un solennissimo ladro. Orazio (1) chiama Mercurio tutto astuzia, allorchè volea co’ suoi giocosi furti involar qualche cosa. Racconta poscia in qual guisa, ancora fanciallo, avendo rubato i buoi di Admeto, che Apollo avea in guardia, nell’atto stesso che n’era da lui fortemente rampognato, gli rubò il turcasso ; di che avvedutosi Apollo, non potè tenersi dal riderne grandemente. Ed Omero (2) con molta gravità descrive come in questa circostanza Apollo trasse quel landroncello avanti a Giove per la restituzione dei suoi buoi, ed in che modo Mercurio si schermì destramente dall’accusa tanto che Giove stesso ne rise, ed Apollo con lui strinse amicizia, ricevendo in dono da Mercurio la lira, ed a lui donando il caduceo. E quando Mercurio rubò i buoi ad Apollo, fu solo veduto da un vecchio pastore di que’ dintorni chiamato Batto, al quale, affinchè tacesse, donò quel nume una bellissima giovenca. Ma per assicurarsi della fedeltà del pastore, ritornò tosto da lui sotto altra forma, promettendogli in premio una vacca ed un toro, se gli avesse manifestato ove le vacche erano e chi rubate le avesse. Batto accettò il dono e gli svelò tutto ; della quale infedeltà Mercurio oltremodo adirato il trasformò nella pietra detta di paragone, della quale ci serviamo per saggiare l’oro. Ovidio (3) dice che fu trasformato in duro sasso, il quale anche ora si chiama indice (Index, i.e. lapis Lydius) e porta nel nome l’infamia della sua origine. In un monte della Messenia vedevasi un sasso che avea sembianza di uomo e nel quale gli antichi dicevano ch’era stato tramutato il pastore Batto ; e questo sasso prese l’odioso nome d’Indice. Battologia poi (βαττολογια) vuol dire inutile ripetizione di parole, {p. 244} ed è un vizio di elocuzione consistente in una moltiplicità di parole che non contengono alcun sentimento. Secondo Suida, questo nome deriva da un certo Batto, cattivo poeta greco, che ripeteva sempre le stesse canzoni. Altri però fanno derivare quella parola dal nostro Batto, il quale rispose a Mercurio « sub illis – Montibus, inquit, erant, et erant sub montibus illis ». Questa risposta (1) la quale ripete due volte la stessa cosa, fa credere che Ovidio avesse seguita siffatta etimologia. Erodoto (2) finalmente parla di un tale Batto, principe della città di Cirene, il quale avea una voce esile e balbutiva ; percui battologizzare (βαττολογειν) significa aver la voce come Batto, esser balbuziente ; e batto (βαττος) in greco vuol dire uomo balbuziente.

E per argomento della destrezza di questo nume nell’ingannare, Omero (3) racconta ch’egli, per volontà di Giove, guidò l’infelice Priamo sino alla tenda di Achille, per riscattare con molti doni il corpo dell’estinto Ettore 

« Il nume… prima a’ piedi
I bei talari adatta. Ali son questi
D’incorruttibil auro, ond’ei volando
L’immensa terra e il mar ratto trascorre
Collo spiro dei venti. Indi la verga,
Che dona e toglie a suo talento il sonno,
Nella destra si reca e scioglie il volo.
In un batter di ciglio all’Ellesponto
Giunge e al campo Troian. Qui prende il volto
Di regal giovinetto a cui fioria
Del primo pelo la venusta guancia. Monti. »

Poscia con bell’arte si avviene in Priamo, gli si offre per guida, ed addormentate le scolte del greco esercito, apre le porte ed il vecchio re co’ doni introduce inosservato nel padiglione del figlinol di Peleo. Così, secondo che dice Orazio (4), il ricco Priamo, colla {p. 245}scorta di Mercurio, deluse i superbi Atridi, ed i Tessali fuochi e gli alloggiamenti a Troia infesti. Forse un qualche greco comandante, per volere di Achille, di notte andò incontro a Priamo, per guidarlo con sicurezza alla tenda dell’eroe, il quale avea pure ordinato alle guardie di aprire le porte e non molestare il re troiano ; e ciò vuol dire in linguaggio poetico che Mercurio avesse addormentato i custodi. In somma a Mercurio si attribuiva tutto ciò in che si ravvisa destrezza e sagacità d’ingegno, e perciò riputavasi maestro di ogni dolo e frode, cioè di quella scaltra accortezza che impone agli altri ed illude sì nella civile e bellica scienza, e sì in que’ giuochi di mano ed altre maniere d’inganni fatti per diporto o per mostra d’ingegno. Or tutto ciò dicevasi κλοπη (p.m. verbi κλεπτο. occulo) da’ Greci e furtum da’ Latini ; per le quali voci prese in cattivo senso dissero che Mercurio era ladro, e dio de’ ladri.

Da Chione, fig. di Dedalione, e da Mercurio nacque Autolico (1). La madre di lui fu a tal segno superba che osò vantarsi di essere più bella di Diana ; percui questa dea in una caccia le forò la lingua con una freccia. Di che fu sì dolente il padre Dedalione che si precipitò dal monte Parnaso ; ma Apollo per compassione il cangiò in aquila, o in isparviere. Autolico poi dal padre Mercurio ebbe il dono di una singolar destrezza nel rubare, e di cangiar ciò che involava in qualunque forma, in guisa che trasformava il bianco in nero ed il nero in bianco, e cornuto ciò che non evea corna, e ciò che le avea, faceva comparir senza corna ; anzi esso stesso varie forme prendeva. Or era egli solito di rubare le pecore di Sisifo, il quale disperando di poter conoscere l’autore del furto, pensò di marcare le sue pecore sotto a’ piedi ; ed avendo sorpreso gli armenti di Autolico, con siffatto mezzo giunse a scoprire il rubatore delle sue pecore. Piacque tanto ad Autolico l’astuzia di Sisifo che volle dargli in moglie la figliuola Anticlia.

{p. 246}

IV. Continuazione §

Era pure il nostro Mercurio il nume dell’eloquenza, anzi delle arti tutte e delle scienze ; e però spesso vedesi insieme con Minerva, dea della sapienza, come apparisce nell’ermatene, e negli antichi monumenti (1) ; qualche volta si vede Mercurio che nella destra tiene il caduceo e colla sinistra abbraccia Minerva ; con che significavan quell’amichevole accordo ch’esser dee fra l’eloquenza e la filosofia ; le quali se vanno disgiunte, la prima non sarà che un vano strepito di parole. E per ciò pure gli antichi offerivano sacrificii a Mercurio insieme ed a Minerva. Gli scrittori egiziani dedicavano i loro libri a Mercurio che credevano inventore e nume delle scienze e dell’eloquenza (2). Quindi dissero i Greci ch’egli, colla virtù della parola, ingentilì i selvatici costumi de’ primi uomini (3) ; che inventò la palestra e la lira, e che presedeva a quanto hanno di bello le scienze e le arti. Ed Igino (4) afferma che, avendo Mercurio inventato l’uso della parola, divise il genere umano in varie nazioni ; e che inventô alcune lettere greche dal volo delle gru, le quali imitano la forma di quelle lettere. Non fa quindi maraviglia se gli antichi (5) aveano il costume di sacrificare a Mercurio la lingua ; e se i cittadini di Listri (6), vedendo quel che operava il Signore per mezzo di S. Barnaba e di S. Paolo, chiamarono Giove il primo, ed il secondo, Mercurio, appunto perchè destava la maraviglia di tutti colla sua sovrumana eloquenza (quoniam ipse erat dux verbi). E se gli antichi diedero a Mercurio la gloria di avere il primo istituito un culto e de’ sacrificii agli Dei, come ancora di aver ridotto gli uomini che vivevano a guisa di bestie, alla vita {p. 247}socievole ed umana, dobbiam ricordarci che, giusta le parole di Cicerone (1), niun’altra forza salvochè quella dell’eloquenza potea o rassembrare in un sol luogo gli uomini dispersi, o dalla lor vita animalesca e selvatica ridurli alla società civile. E perchè la musica serviva molto a dirozzare i fieri costumi degli uomini ; non senza ragione fu riputato Mercurio anche dio della musica e della poesia, ed inventore della lira, tanto che Orazio (2) chiama Fauno custode degli uomini Mercuriali, per dir de’ poeti ; e Mercurio, padre della curva lira (curvaeque lyrae parentem. Lib. I, od. 10). Or questa era propriamente quello strumento musicale da’ Latini detto testudo, tartaruga, al quale Orazio (3) dà sette corde, perchè facevasi del guscio della tartaruga ch’è materia assai sonora. Si vuole (4) che Mercurio, avendo per caso ritrovato il guscio di una testuggine alla riva del Nilo, ed i soli nervi secchi rimasti, ne avesse avuto un suono ; il che diede la prima idea della lira, che facevasi di tartaruga. Essa per lo più avea sette corde ; ed Ovidio (5) finge che Mercurio avesse scelto questo numero per onorare le sette Pleiadi, da una delle quali egli era nato. Perciò fu detta Χελυς (testudo) da’ Greci. Anfione, Tebano, da Mercurio apprese a suonar la lira, sì maestrevolmente che si tirava appresso le fiere ed i sassi (6). E dicono ch’egli innalzò il primo altare a Mercurio, dal quale ebbe in premio la lira, la quale dalla Samotracia trasportata a Lirnesso, città della Frigia, pervenne finalmente nelle mani di Achille (7).

Un’altra principale incumbenza di Mercurio fu quella di essere il messaggiere degli Dei, e specialmente di Giove. Era quindi considerato qual ministro ed araldo {p. 248}de’ celesti, protettore de’ viandanti e de’ pastori, e condottiere delle anime all’inferno. E di fatto presso Plauto (1) egli stesso afferma, esser noto a tutti che gli Dei aveano a lui concesso di farla da lor messaggiere e di presedere a’ lucri. Giove gli avea posto le ali alla testa ed a’ piedi, onde velocemente portasse per ogni luogo gli ordini suoi. Omero (2) e Virgilio (3) in bella guisa descrivono Mercurio che si accinge ad eseguire gli ordini di Giove. Il quale gl’ impone di recarsi a Calipso per indurla a liberare da quella specie di prigionia il divino Ulisse ; ed allora

Obbedì il prode messaggiero. Al piede
S’avvinse i talar belli, aurei, immortali,
Che sul mare il portavano, e su i campi
Della terra infiniti a par col vento.
Poi l’aurea verga nelle man recossi,
Onde i mortali dolcemente assonna,
Quanti gli piace, e li dissonna ancora,
E con quella tra man l’aure fendea. Pindem.

Ad imitazione di Omero, Virgilio descrive Mercurio che si accinge ad eseguire gli ordini di Giove.

« Udito ch’ebbe
Mercurio, ad eseguir tosto si accinse
I precetti del padre ; e prima a’ piedi
I talari adattossi. Ali son queste
Con penne d’oro, ond’ei l’aria trattando,
Sostenuto da’venti, ovunque il corso
Volga, o sopra la terra, o sopra il mare,
Va per lo ciel rapidamente a volo.
Indi prende la verga, ond’ha possanza
Fin nell’ inferno, onde richiama in vita
L’anime spente, onde le vive adduce
Nell’imo abisso, e dà sonno e vigilia
E vita e morte ; aduna e sparge i venti,
E trapassa le nubi. Caro.

{p. 249}Or ne’ suoi frequenti viaggi portava in mano Mercurio questa verga detta caduceo (ραβδος), che Omero ed Orazio chiamano aurea. Essa ha in cima attaccate due ali, e vi sono attorcigliati due serpenti in guisa che i loro corpi formano due semicerchi, e le teste si sollevano l’una contro l’altra, spesso un poco al di sopra dell’estremità della verga, mentre le code non arrivano che a due terzi della medesima. Il caduceo era simbolo della pace, e Mercurio stesso da Ovidio (1) vien salutato arbitro della pace e della guerra. E Servio osserva che Mercurio da’ poeti è quasi sempre adoperato come messaggiero di pace, laddove Iride per lo più annunzia guerra e discordie. Con quella verga adunque egli divideva le contese ed acchetava le liti, toccando con essa i contendenti, o in mezzo a loro frapponendola. Si racconta che quando Apollo pasceva le greggi di Admento, Mercurio gli regalò una lira, e n’ebbe in compenso questa verga prodigiosa, colla quale quel nume guidava al pascolo gli armenti ; e che Mercurio, volendo far pruova della sua virtù, ed imbattutosi a caso, sul monte Citerone, con due serpenti, i quali fieramente fra loro battagliavano, ponendo in mezzo ad essi quel bastone, acchetò subito la loro animosità, e que’ due serpenti fatti amici si attorcigliarono al bastone in guisa da formar quasi un arco colla parte superiore del corpo ; perciò Mercurio volle portar sempre in mano quel bastone, qual simbolo della pace. Al caduceo gli antichi poeti davano la virtù di conciliare e di togliere il sonno, detto perciò sonnifero da Ovidio. In un antico candelabro del Museo Borbonico vedesi Mercurio che ha due picciole ali alla testa, nella destra tiene una borsa, e nella sinistra un caduceo di antichissima forma, cioè senza serpi.

Era antica credenza che niuno potesse morire, se Mercurio non avesse sciolta dal vincolo del corpo l’anima che ad esso era unita per virtù divina. Da Virgilio (2) si rileva ch’egli chiudeva gli occhi de’ {p. 250}defonti ; ma alcuni vogliono ch’esso li apriva piuttosto, alludendosi al costume de’ Romani di aprire sul rogo gli occhi de’ cadaveri, che avean chiusi in casa (1). Non s’intende però, perchè lo stesso poeta (2), parlando della morte di Didone, finge che l’infelice Regina non potea morire, perchè

« non le avea
Proserpina divelto anco il fatale
Suo dorato capello ; nè dannata
Era ancor la sua testa all’Orco inferno. Caro.

Allora Giunone, avendo pietà di quella morte affannosa, mandò Iride dal cielo, la quale

« sospesa
Sopra il capo le stette, e d’oro un filo
Ne svelse e disse : Io qui dal ciel mandata
Quest’a Pluto consacro, e te disciolgo
Da le tue membra. Ciò dicendo sparve ;
Ed ella, in aura il suo spirto converso,
Restò senza calore e senza vita. Caro.

Macrobio (3) crede che Virgilio abbia ciò ricavato da Euripide, il quale nella tragedia l’Alceste introduce l’Orco o Caronte che porta in mano una spada per tagliare la ciocca fatale di Alceste. Ma comunque ciò sia, certa cosa è che principale e nobile ufficio di Mercurio era quello di accompagnare le anime de’ trapassati o ai beati Elisi, o all’inferno. Pare però che Pindaro a Plutone piuttosto attribuisca siffatto incarico ; ma la verga di Mercurio, dice Virgilio (4), e quella che ha sua possanza fin nell’inferno, e con essa egli richiama in vita le anime spente, e le vive conduce fino alle meste sedi del tartaro. Laonde in molti bassirilievi questo nume si rappresenta come una divinità infernali ; e da Orazio (5) si chiama grato sì a’ celesti che agl’infernali {p. 251} Iddii. E ne’ dialoghi de’ morti di Luciano si ritrova spesso occupato a trattar colle ombre e con Caronte ; ed in essi si lagna che neppure di notte gli era dato di riposare alquanto, essendo obbligato di condurre le anime de’ defonti a Plutone, e farla da duce e scorta delle ombre. Omero(1) descrive Mercurio che conduce all’inferno le anime de’ Proci, de’ quali Ulisse avea fatto grandissima strage :

Mercurio intanto di Cillene il Dio,
L’alme de’ Proci estinti a se chiamava.
Tenea la bella in man verga dell’oro,
Onde i mortali dolcemente assouna,
Sempre che il vuole e li dissonua ancora.
Con questa conducea l’alme chiamate
Che stridendo il seguiano. E come appunto
Vipistrelli nottivaghi nel cupo
Fondo talor d’una solenne grotta,
Se avvien che alcun dal sasso, ove congiunti
L’uno appo l’altro s’atteneano, caschi,
Tutti stridendo allor volano in folla.
Così movean gli spirti, e per la fosca
Via precedeali il mansueto Ermete.
L’Ocean trapassavano, e la bianca
Pietra, e del Sole le lucenti porte.
Ed il popol de’ sogni : indi a’ vestiti
D’asfodelo immortale inferni prati
Giunser, dove soggiorno han degli estinti
Le aeree forme e i simulacri ignudi. Pindem.

Anche Orazio(2) rappresenta Mercurio che conduce le anime de’ giusti al lieto soggiorno degli Elisi, e che coll’aurea sua verga, a guisa di pastore, si mena innanzi le ombre leggiere de’ trapassati (levem turbam, ειδωλα καμοντων. Hom.).

Quanto finsero i Greci di Mercurio, fu loro insegnato da Orfeo, che l’avea, appreso dagli Egizii. L’Oceano, di cui parla Omero, era il Nilo : le porte del sole voglion dire la città di Eliopoli, cioè la città del sole {p. 252}(ηλιος, sol, et πολις, urbs.) ; il prato e la sede de’ defonti erano un luogo vicino ad una palude non lontana da Menfi, chiamata Acherusia, ch’era circondata di verdeggiante loto e di canne. E Mercurio presso gli Egiziani era un uomo che acompagnava il cadavere di Api, re e dio da loro adorato sotto la figura di un bue, sino ad un luogo, ove lo consegnava ad una persona mascherata da Cerbero.

Orazio(1) finalmente afferma che a Mercurio si dee l’invenzione della palestra, lodando l’accortezza di quel nume, il quale i primi uomini ancora fieri ed incolti ammansò coll’eloquenza, ed i loro corpi co’ ginnastici esercizii della palestra si studiò di rafforzare. La palestra era un luogo, ove gli antichi si esercitavano, per la ginnastica, alla lotta, al disco, al bersaglio e ad altri simili giuochi ; e questo nome spesso si usa per significare la lotta stessa ed i certami ginnastici. Palestra era fig. di Mercurio, o di Ercole, a cui debbesi l’invenzione della palestra. Altri dicono che Corico, re di Arcadia, ebbe due figliuoli, Plesippo ed Eneto, ed una figliuola chiamata Palestra ; e che avendo i due primi inventata l’arte della lotta, Palestra insegnolla a Mercurio, il quale in memoria di quella donzella, diede alla nuova arte della lotta il nome di palestra.

V. Iconologia di Mercurio. §

Ordinariamente si dipingeva questo nume con un piccolo cappello a lato, co’ talari a’ piedi, col caduceo nella sinistra, colla borsa nella destra, e con un mantelletto sulle spalle. Gli si vede alle volte a’ piedi un gallo ed un becco(2) E com’egli formò la lira del guscio di una testuggine, così spesso questo animale si vede ai suoi piedi. La lucertola poi che se gli vede vicino, forse simboleggia quelle occulte malizie e quelle coperte vie, per le quali questo nume conduce agl’illeciti guadagni. Teneva la borsa, come dio de’ {p. 253}mercatanti e de’ ladri ; e si rappresentava colle ali a’ piedi, forse perchè il pianeta di Mercurio credevasi il più veloce fra tutti gli altri pianeti. Queste ali si chiamavano talaria (πεδιλα), ed eran d’oro. Il cappello alato poi dicevasi petaso (πετασος), o galero ; ed era un cappello con larga falda proprio, presso i Greci ed i Romani, de’ viaggiatori e de’ cacciatori per ripararsi dalla pioggia e dal sole. Le ali poi attaccate al petaso indicano la velocità del celeste messaggiero, o le ali dell’ingegno, perchè gli si attribuiva la coltura del genere umano.

Vi era una statua di Mercurio(1) coll’elmo in testa, vestito di tonaca, e di una clamide, e che porta un ariete sotto il braccio. Ed in una strada di Corinto vedeasi un Mercurio di bronzo, che seduto avea un artete a lato(2), forse perchè quel nume tenea sotto la sua protezione gli armenti e li faceva crescere(3) Anche negli scavi di Pompei si è trovato un idoletto di bronzo graziosamente lavorato che rappresenta Mercurio seduto sopra uno seoglio colle ali a’ piedi, ed il petaso alato sul capo. Sutto scoglio si vede a sinistra una testuggine ed a destra una lucertola, ed un ariete sta pure in piedi al suo fianco. « Mercurio Crioforo, cioè che porta l’ariete, dice Millin, avea in Lesbo, ov’era onorato con quel titolo, una statua, opera di Calamide, che lo rappresentava nell’attodi portare un montone sulle spalle, per significare ch’era il dio de’ pastori. Altri dicono che avea liberato i cittadini di Tanagra dalla peste, girando tre volte in forma espiatoria intorno alla città con un montone sulle spalle. Chiamasi Mercurio Crioforo un bell’intaglio di Dioscoride, ov’è rappresentato Mercurio che porta una testa di montone in un piatto ».

In alcuni antichi monumenti(4) si vede rappresentato Mercurio con una catena che gli esce di bocca e {p. 254}si attacca alle orecchie di coloro che volea seco condurre ; bel simbolo della forza che ha l’eloquenza sul cuore umano. Qualche volta(1) gli hanno posto in mano un volume, per indicare ch’egli era il protettore dei letterati. Nel Museo Borbonico vedesi Mercurio che discorre con Ercole ; ha la clamide, il petaso colle ali, stringe un caduceo, in punta al quale è una mezza luna. Si dipinge come un giovinetto di bello aspetto, di svelta corporatura, e per lo più con un mantello alle spalle. Una delle più belle statue di Mercurio è quella del Museo Pio-Clementino, creduta un Antinoo, e da Winckelmann, un Meleagro. Sopra una pietra incisa si vede in atto di ricondurre un’anima fuori dell’inferno. Vicino a questo nume infine alle volte ritrovasi il cane, forse perchè fra tutti gli animali esso si reputa il più accorto e sagace.

VI. Principali epiteti di Mercurio. §

Αγγελος των θεων, messaggiere degli Dei ; διακτωρ e διακτορος, mezzano de’ trattati, internuncius, appresso Omero ; των θεων υπηρετης, ministro degli Dei, negli antichi epigrammi ; θεων κηρυξ, araldo degli Dei, in Esiodo ; e Mercurius ministrator nelle iscrizioni tutti soprannomi di Mercurio, che significano l’ufficio di messaggiere e di ministro de’numi.

Agoreo, Αγοραιος (αγορα, forum), cioè dio delle piazze e de’ mercati ; da Aristofane Εμπολαιος, (εμπολη, lucrum ex negotiatione), cioè soprintendente del traffico ; Κερδεμπορος, (a κερδος, lucrum, et πορος, transitus), datore di lucri, κερδωος, che presiede at lucro o apportatore di lucro ; πολυτροπος, versipelle ; ποικιλοβουλος, astuto ne’ consigli, ed altri simili.

Agonio, Αγωνιος, appresso Pindaro, Mercurio che presiede a’ giuochi. Eustazio vuole che αγωνιοι θεοι in Eschilo sono gli stessi che θεοι αγοραιοι, Dei che presiedono alle piazze o che si venerano nelle piazze.

{p. 255}Ales o Alipes Deus chiamato da’ poeti(1), perchè fornito di ali a’ piedi ed al petaso.

Argicida, Αργειφοντης (ab Αργος, Argus, et φοντης pro φονητης, occisor), cioè uccisore del pastore Argo che avea cento occhi, come nell’articolo di Giove si è detto.

Arcas, Arcas aliger, così detto, perchè allevato in Cillene, monte di Arcadia.

Atlantiade, Mercurio nipote di Atlante, padre di Maia.

Caducifero e Caduceatore(2), che porta il caduceo. Da Omero dicesi Χρυσορραπις, cioè che porta una verga di oro, e Vergadoro, secondo il Salvini. Gli antichi chiamavano Caduciferi gli araldi che annunziavano la pace, e gli ambasciadori che ne trattavano, perchè portavano il caduceo. I Romani li chiamavano Feciali.

Camillus fu chiamato Mercurio da’ Romani(3), come ministro degli Dei, perchè presso’ gli Etruschi Camillo significava appunto un ministro. E Camilli dicevansi a Roma que’ nobili fanciulli che assistevano alle cerimonie religiose portando l’acerra ed il prefericolo.

Cyllenius, da Cillene, in Arcadia, ove fu allevato e si adorava con culto singolare.

Crioforo (a κριος, aries, et φερω, fero) ; soprannome dato a Mercurio per avere impedito che la peste distruggesse Tebe, portando un ariete intorno alle mura.

Ctonio, Ερμης Χθονιος. presso Luciano, così detto per vedersi spesso nell’inferno a trattar colle ombre, di cui era il conduttore.

Enodio, Viale (ab εν, in, et οδος, via), quasi preside delle strade ; e la sua statua si poneva ne’ trivii per indicare la via.

Facundus da Orazio, λογιος (a λογος, sermo), perchè dio dell’eloquenza.

Nomio, Νομιος (νομη, pascuum vel lex). si chiama da Sofocle, Aristofane ec., perchè creduto dio de’ pastori ; o perchè egli diede le leggi a’ popoli.

{p. 256}Pacifer, nelle antiche monete, ed arbitro della pace da Ovidio chiamasi Mercurio, come messaggiere di pace.

Psicagoge, ψυχαγωγος (a ψυχη, anima, et αγω, duco) ; ψυχοπομπος (πομπος, comes) ; e πομπαιος, (a μομπη, deductio,) era il manium ductor de’Latini, perchè accompagnava le anime all’inferno. Chiamasi pure da Ateneo(1) ηγητωρ ονειρων (dux somniorum) ed υπνον προστατης (praeses somni), perchè portava’ il caduceo che avea virtù di conciliare il sonno.

Χαρμοφρων o Χαρμοφερων, Hom. (a Χαρμα, laetitia, et φρην, mens), apportatore di allegrezza, forse perchè dio del guadagno.

VII. Alcune altre cose di Mercurio. §

Nella gigantomachia, Mercurio coll’elmo di Plutone sul capo che rendeva invisibile chi lo portava, uccise, pugnando, il gigante Ippolito ; liberò Giove dal mostruoso Tifone che lenealo avvinto co’ suoi serpentini stragrandi ravvolgimenti(2) ; per comando di Giove stesso andò da Deucalione per trattare la riparazione del genere umano dopo il suo famoso diluvio(3) ; per comando anche di Giove attaccò l’audace Issione alla ruota che lo tormenta nell’inferno(4) ; inchiodò Prometeo con chiodi di ferro ad un sasso smisurato del monte Caucaso e gli assegnò l’aquila che dovea divorargli il enore che sempre rinasceva (5) ; trasportò Castore e Polluce in Pallene ; accompagnò il carro di Plutone che andava a rapire Proserpina ; aiutò Perseo nell’impresa delle Gorgoni ; in somma, dice Millin, questo nume incontrasi per tutto, in cielo, in terra ed anche nell’inferno.

Da Lara, fig. di Almone, ebbe Mercurio i Lari (Lares) ch’erano la stessa cosa che i Genii de’ Greci {p. 257}(δαιμονες(1). Così chiamavansi propriamente gli Dei domestici o che aveano cura della casa, a differenza dei Penati, i quali soprantendevano ad una città o ad un regno, e che a Roma si veneravano sul Campidoglio ; sebbene queste voci spesso si confondono. I Lari custodivano le case, e le strade ancora, ritrovandosi nelle iscrizioni Lares viarum ; ed in loro onore a’ 22 di Dicembre si celebrava una festa delta Compitalia. Servio li confonde co’ Dei Mani ; e si vuole che il loro nome derivi da Lar o Lars, parola etrusca che significa principe o signore. Si veneravano su’ focolari ed anche in una cappella detta lararium.

I Cretesi aveano le loro feste Mercuriali, simili ai Saturnali de’Romani, ed in esse i poveri erano serviti da’ ricchi, da’ quali prendevano a prestito gli abiti. L’erba mercuriale, detta mercorella, si vuole così chiamata da Mercurio che la ritrovò ; ed ha virtù sommamente purgativa(2).

Lattanzio(3) dice che Mercurio fu un uomo antichissimo e di gran dottrina fornito, non che della conoscenza di molte arti e scienze. Perciò fu innalzato agli onori divini, e gli fu attribuita l’invenzione delle lettere, della scrittura e delle arti.

FINE DELLA PRIMA PARTE.

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Parte II.

Degli dei terrestri e marini. §

La terra ovvero opi. §

I. Nomi dati alla Terra e lor ragione. §

La Terra chiamavasi da’GreciGe o Gea (Γαια) dal verbo γεινομαι, nascere, perchè gli antichi credevano, la terra esser la madre comune dei mortali ; o perchè da essa nascono le biade ed i frutti necessarii per la conservazione dell’umana vita. Da’ Latini si chiama Terra o Tellure, sebbene propriamente la voce Tellus si adopera per denotare la Dea, e la parola Terra significava il pianeta che noi abitiamo. Così Peneo era un antico fiume della Tessaglia, e nel tempo stesso il nume che presedeva a quel fiume.

Nell’articolo di Saturno abbiam detto che la moglie di lui chiamavasi Opi, cioè ricca, forse dall’antico ops (unde inops) che significava ricco, perchè la terra sì per le biade e pe’ frutti, e sì pe’ metalli è la perenne sorgente di ogni nostra ricchezza (1) ; o secondo Macrobio(2), da ops, che vuol dire aiuto, perchè coll’aiuto della terra l’umana vita riceve gli alimenti {p. 260}necessarii ; o da opus, opera, perchè coll’opera della terra nascono i frutti e le biade. Varrone(1) finalmente vuole che la Terra fu detta Opi, perchè di essa abbiamo bisogno per vivere, (nobis opus est ad vivendum), essendo madre universale, produttrice e dispensatrice di tutt’i beni.

II. Storia favolosa della Terra o sia di Opi. §

Igino dice che la Terra insieme col Cielo e col Mare, nacque dall’Etere e dal Giorno. Ma secondo Esiodo(2) la prima a nascere dopo il Caos, fu la spaziosa Terra, dalla quale nacque il Cielo che dovea tutta circondarla ed essere la sede sicura de’ beati Iddii. Questa Dea era adorata dagli Egizii, da’ Siri, da’ Frigil, dagli Sciti, da’ Greci, da’ Romani e da quasi tutti gli antichi popoli ; percui si annovera fra i più celebri e vetusti Dei del gentilesimo. E ciò nacque dal naturale amore che ha l’uomo per la propria conservazione, percui chiamaron Dea la Terra, ch’è la donatrice di quelle cose, per le quali vivono essi e godono molte comodità. Per ciò pure l’agricoltura fu tenuta in granpregio da tutt’i popoli e commendata da tutt’i sapienti. Secondo i Latini, non era essa, come Ge, Rea, Fitea, Cerere, Cibele ed altre Dee de’ Greci, una divinità speciale ; ma era piuttosto tutto ciò che si vuole ; era la Natura o la madre universale delle cose, quella che produce tutti gli esseri. E però spesso chiamavasi la Gran Madre, perchè, al dir di Aristotele(3), siccome naturalmente tocca alle madri nudrire i proprii figliuoli, così la Terra appellasi madre, perchè nudrisce gli uomini e gli animali che sono i figli suoi. E Plinio(4) dice che per ragione de’ grandi meriti della Terra verso di noi le abbiam dato il venerando nome di madre. Di fatto essa nel nostro nascimento ci accoglie ; già nati, {p. 261}ci alimenta sempre e sostiene ; e finalmente, quando il resto della natura ci abbandona , allora più che mai qual madre affettuosa ci accoglie e ricuopre. Da Omero chiamasi alma Tellure genitrice, e madre degli Dei ; ed il più degli antichi credevano che l’uomo fosse fatto di terra ed acqua riscaldata da’ raggi del sole. Quindi dicevano la Dea Tellure moglie del Sole o del Cielo, perchè il sole ed il cielo la rendono feconda. E dagli Etruschi la Dea Tellure con Vesta si annoverava fra gli Dei che presiedono alle nozze (1), perchè riputavasi la madre e quasi la nutrice di tutte le cose. È noto finalmente il fatto di Bruto che baciò la Terra come madre comune di tull’i mortali (2).

Pare che gli antichi avessero attributo alta Terra una virtù fatidica. Appresso Cicerone (3) leggiamo che alcuni credevano, la cessazione dell’oracolo di Delfo essere avvenuta, perchè, a cagione del lungo volgere degli anni, mancata era quella virtù divina che quivi aveano le esalazioni della Terra, dalle quali la Pizia investita dava gli oracoli. E qual virtù, prosegue a dire, è più divina di quella esalazioni, le quali la mente muovono, e la rendono previdente del futuro a segno di ; predirlo anche in versi ? Secondo Plutarco, La cagione naturale degli oracoli era la Terra, la quale ricevendo nel suo seno tutt’i celesti influssi, e producendo ogni dì sì varie e mirabili cose , non dee recarmaraviglia, se dal suo seno mandava fuori certe esalazioni ed alcune acque buone a travolgere La mente e ad inspirare un furore divino. A ciò si aggiunge che la Terra era la stessa che Temi ; ma Pausania dice che ne’ primi tempi a Delfo dava gli oracoli la Dea Tellure ; dopo Temi, e finalmente Apollo ; ed aggiunge, quivi essere stato comune oracolo della Terra e di Nettuno ; e che poscia la Terra avesse ceduto il suo oracolo a Temi, e questa ad Apollo. Euripide (4) chiama {p. 262}il tripode di Apollo, tripode di Temi ; e dice che a lei erano suggerite le risposte degli Dei in sogno ; anzi la Terra stessa dice vasi madre de’ sogni. Essa predisse a Giove la vittoria sopra i Titani ; e di lei figliuolo era il serpente Pitone, il quale avea il dono della divinazione e custodiva l’oracolo di Delfo. Pausania (1) finalmente fa menzione di un oracolo della Dea Tellure vicino ad Olimpia.

E qui è mestieri osservare che la più parte degli antichi oracoli erano collocati in luoghi sotterranei ; percui, dice Fontenelle, i paesi di scoscese montagne, e però piene di caverne, abbondavano più degli altri di oracoli. Tale era la Beozia, che, al dir di Plutarco, ne avea moltissimi. La quale cosa era certamente molto a proposito per inspirare negli animi de’creduli gentili un religioso orrore. Così sappiamo che a principio si consultava l’oracolo di Delfo coll’appressarsi ad un’oscura caverna ch’era nel monte Parnaso, e respirarne il vapore che di essa usciva. Ma non pochi fanatici essendovi caduti, si allogò alla bocca della caverna un tripode coperto della pelle del serpente Pitone, sul quale assisa la Pitonessa, dopo aver bevuto dell’acqua del fonte Castalio, riceveva, co’ vapori della Terra, le inspirazioni del Nume, e così dava gli oracoli. Il mostruoso Pitone dal maculoso tergo e dal rosseggiante aspetto, dice Euripide, sotto un fronzuto allora, custodiva il sotterraneo oracolo. A Claro l’oracolo di Apollo era una caverna ed un fonte, di cui bevendo l’acqua, predicevano il futuro ; la vita però di chine bevea, era breve. Nella Tracia era un antro consacrato a Bacco, dal quale si davano gli oracoli dopo aver bevuto molto vino ; e l’oracolo della Sibilla Cumana descritto da Virgilio(2) era un antro immenso scavato nel fianco di una rupe, a cui si andava per cento vie e cento porte, dalle quali cento voci uscivano insieme, quando la Sibilla dava le sue risposte. Trofonio ed Agamede, fig. di Ergino, re di Tebe, o di {p. 263}Apollo, con mirabile maestria edificavano tempii e regali palagi ; fabbricarono il tempio di Delfo, e fecero il nuzial talamo di Alcmena, madre di Ercole. Trofonio fu inghiottito dalla terra in quel luogo della Livadia, ove si vedeva la fossa detta di Agamede, o la caverna di Trofonio. « L’oracolo, dice Fontenelle, era sopra una montagna, in un recinto fatto di pietre bianche, su cui si alzavano obelischi di rame. In questo recinto era una caverna a foggia di un forno, fatta a scalpello. Quivi aprivasi un pertugio assai stretto. In cui scendevasi non per gradini, ma per picciole scale. Quando vi erano dentro, trovavano un’altra caverna piccola, l’ingresso della quale era strettissimo. Bisognava distendersi in terra , prendere nell’una e nell’altra mano certe paste di mele, senza le quali non potevasi entrare ; si mettevano in piedi nella picciola grotta, ed in un baleno si sentivano tirar dentro con forza e prestezza grande ».

III.Storia favolosa di alcuni figliuoli della Terra. §

Abbiam notato nella prima parte che gli antichi chiamavan figliuoli della Terra coloro che si distinguevano per mostruosa statura e stratordinaria robustezza (1). Quindi ogni maniera di giganti si volle procreata dalla Terra, avvisando che ad uomini di strana corporatura ben conveniva una madre di smisurata grandezza. Perciò vediamo che oltre i Titani ed i Giganti, da Esiodo anche i Ciclopi si dicono fig. del Cielo e della Terra , sebbene alcuni li dicano fig. di Nettuno e di Anfitrite. Anche Apollodoro dice che la Terra, dopo i Centimani, procreò i Ciclopi, i quali aveano un sol occhio in mezzo alla fronte, che i Poeti rassomigliar soleano ad un rotondo scudo od alla luna che risplende in mezzo al cielo (2), sebbene per tampana Febea presso Virgilio i migliori interpetri intendono il {p. 264}sole. E dalla forma rotonda del loro occhio ebbero il nome di Ciclopi (a κυκλος, orbis, et ωψ, ωπος, oculus). Essi erano per la statura e per la bruttezza mostruosissimi. Callimaco li rassomiglia per l’altezza al monte Ossa ; ed Omero dice esser simili al vertice selvoso delle alte montagne ; e presso Virgilio il Ciclope col capo tocca le stelle (alla pulsat sidera. Aen. III, v. 619.) Ma sul fatto de’ Ciclopi vi è gran confusione fra gli antichi scrittori. Secondo Esiodo (1) essi erano divina progenie nata da Crono, non più di tre, e ministri di Vulcano nel fabbricare i fulmini di Giove. Ma secondo Omero(2), essi erano mostruosi giganti, sprezzatori de’ Numi e superbi, che in niuna cosa aveano fidanza fuorchè nella forza. Comunemente si vuole ch’essi erano giganti o popoli antichissimi della Sicilia vicino all’Etna, percui Polifemo da Ovidio si chiama Etneo ; e Virgilio (3) chiama le vicinanze dell’Etna , campagne de Ciclopi. I quali erano intesi a pascolare gli armenti, abitavano negli antri e menavano una vita senza leggi, senza agricoltura e senza religione. A’ medesimi per altro si attribuisce un particolar modo di fabbricare, detto ciclopeo(4). Servio dice che chiamasi ciclopea ogni fabbrica vasta e grandiosa ; ed Aristotele chiama i Ciclopi inventori delle torri. Le mura di Micene, e specialmente una porta sormontata da leoni, fu opera loro ; ed essi fabbricarono al re Preto le mura di Tirinto, città dell’Argolide. Quindi le rovine delle mura di Tirinto, di Micene e di Nauplia, dopo più di tremila anni, dimostrano la prima immagine ed i primi passi dell’architettura nascente(5). Ne’ primi tempi, quasi generalmente si edificava col legno, colla terra cotta e co’ mattoni, ma i Ciclopi furono i primi {p. 265}a connettere, senza alcun cemento, grandi e grossolani massi di forma irregolare, per cui adoperavano piccole pietre, per empiere i vani che lasciavan tra loro i massi rozzi ed informi. Fu loro invenzione ancora Parte di fabbricare il ferro (1) ; e come Vulcano, antico re di Egitto, aveva insegnato il primo a mettere in opera il ferro ; così i poeti , introdotto in Grecia il culto di quel nume, con lui congiunsero i Ciclopi ch’erano fabbricatori di ferro, e li posero a ministri nella fucina di lui.

Che i Ciclopi non avessero che un sol occhio in mezzo alla fronte, è la volgare opinione ; ma alcuni pensano che la voce Ciclope, cioè dall’occhio rotondo, dinota solo ch’essi aveano due grandi occhi rotondi. In alcuni antichi monumenti Polifemo si rappresenta con tutti e due gli occhi ; ed Omero non ha mai dato un sol occhio al suo Polifemo acciecato da Ulisse. Strabone(2) parla delle caverne o specie di laberinti cavati da’Ciclopi a Nauplia nel seno de’ monti per trarne delle pietre. E come gli Egiziani nelle miniere facevano uso di una lucerna legata alla fronte che li scorgesse in quelle tenebre ; così nacque la favola che i Ciclopi fossero giganti forniti di un sol occhio circolare in mezzo alla fronte.

Anche figliuolo della Terra e di Nettuno fu Anteo, giganti alto sessanta quattro cubiti, che regnava nella Libia. Il quate, avendo promesso in voto agli Dei un altare tutto di cranii umani, costringeva a lottar seco tutt’i viandanti che capitavano nel suo regno e coll’enorme suo peso li schiacciava. Ma per sua mala ventura provocò anche Ercole, il quale l’atterrò più volte, ma invano, perchè la Terra, sua madre, gli dava nuova forza ogni volta che, cadendo, la toccava. Di che avvedutosi Ercole, sollevatolo in aria e con amendue le braccia stringendolo, il soffogò. Nel real Museo Borbonic vedesi un Ercole che, afferrato Anteo, lo stringe con un braccio pe’ fianchi, sollevandolo dal suolo ; e {p. 266}per terra vedesi l’arco ed il turcasso ch’egli ha gettato via nella zuffa per essere più libero.

Qui non dobbiamo omettere i Centimani Briareo, Gige e Cotto, i quali(1) di cento braccia e cinquanta teste forniti, sì per enorme statura, e si per valentia erano insuperabili. Esiodo li fa fig. del Cielo e della Terra ; ed Igino, dell’Etere e della Terra. Essi, nella guerra de’Titani, sostennero le parti di Giove, comechè alcuni l’annoverano fra i giganti che congiurarono contro quel nume. Virgilio(2) pone Briareo cogli altri mostri alla porta del Tartaro ; ed altrove(3) dice che ad Egeone arde il petto, perchè provocò i fulmini di Giove, il quale confinollo nel tartaro.

IV. Continuazione – Superficie della Terra popolata di numi. Dio Pan, §

La Terra non solamente ebbe molti figliuoli ; ma può anche dirsi a ragione ch’essa in tutta quanta la sua superficie fosse stata da’ gentili popolata di varie e numerose classi di Dei. Di fatto e boschi, e monti, e fiumi, e fontane, e città, e campagne ed ogni altra maniera di luoghi, tutti si credevano da grandi schiere di numi abitati ; ed era bello vedere colla fantasia là truppe di Satiri e di Egipani ; altrove e Napee e Driadi, ed Oreadi e simili drappelli di Ninfe ; e quasi non poter dare un passo senza abbattersi in qualche nume. Quindi ban detto alcuni che forse i ciechi pagani furon costretti a ciò fingere per significare in certa guisa che la Divinità è in tutt’i luoghi. Or noi per ragionare con ordine di tante specie di numi, favelleremo prima del Dio Pan, ch’era la natura stessa deificata, il gran tutto, il capo delle divinità campestri, il primo de’ Fauni, de’ Silvani, de’ Satiri, ed il dio de’ pastori, de’ cacciatori, e di tutti gli abitanti della campagna. Quindi lo dipingevano in modo {p. 267}da sembrare che partecipasse di tutto l’universo. Avea le corna per significare i raggi del sole e la luna bicorne ; era rosso in viso, per esprimere il rosseggiare dell’etere ; avea il ventre sparso di stelle, per indicare gli astri ; la barba ed i capelli incolti, ritti ed irti significavano gli alberi, i virgulti ec. Trovasi chiamato anche Egipane (ab αιξ, αιγος, capra), perchè rappresenta vasi colle gambe ed i piedi di capra ; sebbene Egipani o Semicapri erano propriamente uomini favolosi, che aveano forma di capra dal mezzo all’ingiù. E da Pane, lor capo, furon detti Pani, i Satiri, o sia gli Dei delle foreste e de’campi ; e per la deformità di essi avvenne che tutt’i mostruosi e segnalali per qualche sconcezza di corpo si chiamassero Satiri, o Pani, o Egipani. E si noti che timor panico appellasi quella subita costernazione che non può vincersi per alcun imperio della ragione, la quale volevasi infusa dal dio Pan, com’è lo spavento mandato, senza sapersene la cagione, negli eserciti, che ne sono scompigliati e posti in fuga.

Or questo dio Pan fu fig. di Demogorgone, o di Giove e di Fimbride ; o di Mercurio. Pan suggerì agli Dei che si fossero cangiali in varie forme di animali, allorchè si rifuggirono in Egitto, per lo spavento del crudele Tifone ; e che in grazia di sì prudente consiglio, fu da essi trasformato nella costellazione del Capricorno, perchè egli in quel periglio erasi mutato in capra. Da questa trasformazione degli Dei in bestie nacque il culto vergognoso che gli Egiziani prestavano a certi animali.

Apollodoro (1) dice che Pan insegnò ad Apollo l’arte d’indovinare ; ma che poi vennero a contesa sulla perizia del suono ; e di ciò fu cagione l’esser venuto Pan in gran superbia per avere ritrovato la fistola o siringa (συριγξ, fistula) ch’è strumento musicale da fiato, formato di varie cannucce con certa proporzione disuguale, per lo più in numero di sette e congiunte con cera ; il quale era diverso dalla sampogna, con cui per altro {p. 268}spesso si confonde. Or vi furono tre maniere di quesio strumento, quello ad una canna (μονοκαλαμος), che ritrovò Mercurio ; l’altro di più cannucce formalo (πολυκαλαμος), di cui fu inventore Sileno ; ed il terzo in cui le cannuce si uniscono colla cera ; l’invenzione del quale da Virgilio e da Ovidio (1) si attribuisce a Pan, e da Ateneo(2), a Marsia. Altri (3), però a Pan attribuiscono l’invenzione del plagiaulo (πλαγιαυλος, tibia obliqua) o flauto traverso. Ed al dir di Ovidio (4), in fistola fu trasformata Siringa, una delle più belle Naiadi che abitavano un monte vicino a Nonaera , città di Arcadia, e figliuola del Ladone, bel fiume che si scarica nell’Alfeo. La quale fuggendo alla vista del selvaggio Dio Pan, e giunta alle sponde del Ladone , fu per pietà delle ninfe sorelle, cangiata in palustre canna, di cui Pan formò la fistola che dal nome di quella ninfa fu detta siringa. Lucrezio (5) vuole che il sibilare che fa naturalmente un leggiero venticello intromesso pe’ forami di una cannuccia , abbia data a’ rusticani uomini l’idea della fistola e della sampogna, la quale (6) essendo la più semplice forma di musicale strumento, fu eziandio la più semplice forma di musicale strumento, fu eziandio la più antica ; e per esser riputata la musica nobilissima cosa e quasi divina, se ne attribuì l’invenzione a’ numi, ed a Pan specialmente creduto dio tutelare de’ pastori. Pan, dice Virgilio (7), ha cura delle pecore e de’ pastori ; e però credevasi abitare nella pastorale Arcadia , ove a lui eran sacri il Menalo ed il Liceo , monti di Arcadia tanto celebrati da’ poeti. Orazio (8) per significare Pan dice il nume cui piacciono gli armenti ed i piniferi monti di Arcadia. E chiamavasi Menalio, dal Menalo ; e Tegeo, da Tegeo, città dell’Arcadia ov’era in particolar modo {p. 269}venerato. A lui era consacrato il pino di cui portava inghirlandato il capo, come anche facevano i Fauni ; ma il Vossio afferma che a Pan era consacrato l’elce o leccio (ilex).

V.Continuazione – Fauni – Silvani. §

Dopo aver parlato di Pan, dio della natura e capo de’ rusticani Iddii, volgeremo lo sguardo a’ varii luoghi della Terra che vedransi tutti popolati di numi. E primieramente i boschi eran abitati da numerose schiere di Satiri, di Fauni, di Silvani e di altri siffatti Dei ; anzi ogni albero avea una ninfa che il custodiva ; e son pur troppo conte le Driadi e le Amadriadi ec. I monti erano popolati di Oreadi ; le valli, di Napee ; i prati, di Limoniadi ; i fiumi, di Potamidi ; le fontane, di Naiadi ; e così di molte altre generazioni di ninfe. Se volgiamo gli occhi a’campi, vedremo e Vertunuo , e Pale, dea de’pastori, ed il dio Termine. I giardini erano sotto la protezione di Flora, di Pomona, di Priapo ec. Le città e le case aveano i loro Penali ed i Lari ; e ciascun uomo, e forse ciascun luogo, il suo Genio. Delle quali maniere di numi qui brevemente discorreremo.

I poeti latini spesso confondono Fauno con Pan, perchè le favole degli antichi Italiani non di rado si mescolavano con quelle de’ Greci ; ed allora a Fauno davano i piedi di capra. Alcuni vogliono ancora che Silvano fosse lo stesso che Pan ; ma Virgilio (1) manifestamente li distingue. I Satiri ancora si dicevano Pani (Panes et Panisci. Cic. ). Spesso si confondono co’ Fauni e co’ Silvani ; o almeno eran compagni e molto si rassomigliavano. Quindi l’Alamanni (2) :

Il cornuto pastor co’ suoi Selvani,
Co’ suoi Satiri e Fauni, a lui compagni,
Vengan con le zampogne a schiera a schiera.

{p. 270}Fauno, di cui si parlò nell’articolo di Saturno, detto pure Fatuo, era il padre de’ Fauni e de’ Satiri, dio dei pastori e degli agricoltori. I Fauni poi erano Iddii favolosi de’ campi, de’ monti e delle selve, che rappresentavansi a guisa di Satiri. Si consideravano come semidei, ma credevasi che dopo lunga vita soggiacessero alla morte. Era loro consacrato il pino e l’olivo selvatico. Si rappresentavano in figura di becco dalla cintura in giù, e con le corna di capra (semicaper Faunus. Ovid. ) ; ma con lineamenti meno schifosi ed una fisonomia più allegra di quella de’ Satiri. Nel Museo Borbonico vi è un Fauno di bronzo ben conservato e di ammirabile lavoro, ritrovato in una bellissima casa di Pompei, la quale da questo prezioso monumento ha preso il nome di casa del Fauno.Esso ha le corna, è coronato di pino e vedesi in atto di danzare tutto ebbrifestante. Furon poi detti Fauni o da Fauno, lor padre, o dal verbo fari, part. fatus, parlare ; o dal greco φατις, oraculum, perchè predicevano l’avvenire , dando degli oracoli. Di fatto fatuarii dicevansi quelli, che sembravano ispirati e predicevano il futuro ; ed il verbo fatuor presso Giustino significa io son preso da divino furore. Finalmente in onore di Fauno nelle selve e nelle campagne si celebravano alle none di Dicembre alcune feste dette Faunalia, per le quali Orazio (1) ha scritto una bellissima ode ch’è una specie d’inno. I Luperci poi eran sacerdoti del dio Pan o di Fauno ; e Lupercali si dicevano alcune feste in onore di quel nume(2), che celebravansi a’15 di Febbraio. Lupercale poi era un luogo o antro sotto il monte Palatino, consacrato da Evandro a Pan, nume antichissimo dell’Arcadia, ove per quei monti errava ora cantando al suon della fistola, ed ora veloce inseguendo le fiere. Or nell’Arcadia quel nume avea molti tempii, altari, statue, sacrificii, antri e monti a lui consacrati ; e sul monte Liceo presso ad un suo tempio era l’ippodromo e lo stadio, ove si celebravano in onore di Pan le feste dette {p. 271}Licee. Or Evandro dall’Arcadia portò in Italia queste feste, e le introdusse in quel luogo che da lupus si disse Lupercal, come il Liceo deriva da λυκυς, lupus. I Luperci celebravano dette feste, correndo per la ritta vestiti delle pelli delle vittime immolate e facendo molte stravaganze.

Silvano, antico nume del Lazio, presedeva alla piantagione ed alla semina. Da Orazio (1) chiamasi padre e custode de’ confini, e da Virgilio, nume de’ campi e degli armenti. I pastori gli offerivano latte, o gli sacrificavano un porco. Esso era il genio degli uomini, come Giunone, delle doune, percui gli uomini solamente gli sacrificavano. In un marmo (2) si vede un Silvano che ha in mano il tronco di un picciolo cipresso ; e si sa che Virgilio (3) anche lo rappresenta con un giovane cipresso in mano. E spesso si dipinge con una corona di frondi di alberi, o di grandi fiori, o di canne, e col cipresso in mano. Orazio (4) lo chiama orrido, per quella incolta e selvatica sembianza propria degli Dei campestri. Selvani poi o Silvani chiamavansi quegli Dei boscherecci che spesso si confondono coi Fauni e cogli altri numi abitalori de’ boschi. Ed a proposito di questa folla di boscherecci Iddii giova qui riferire un bel luogo di Lucrezio (5), il quale, parlando dell’eco, così espone le varie favolette che il volgo spacciava per ispiegare questo e simili fenomeni :

« E mi sovviene
Ch’una sola tua voce or sei, or sette
Volte s’udio : tal riflettendo i colli
Ai colli stessi la parola, a gara
Iteravano i detti. I convicini
Di questi luoghi solitarii han finto
Che Fauni e Ninfe e Satiri e Silvani
Ne sieno abitatori, e che la notte
{p. 272}Con giochi e scherzi e strepitosi balli
Rompan dell’aer fosco i taciturni
Silenzi, e dalla piva e dalla cetra
Tocca da dotta man spargano all’aure
Dolci querele e armoniosi pianti ;
E che il rozzo villan sente da lungi
Qualor scotendo del biforme capo
La corona di pino il dio de’ boschi,
Spesso con labbro adunco in varie guise
Anima la siringa, e fa che dolce
Versin le canne sue musa silvestre. Marchetti.

VI. Continuazione. – Satiri – Ninfe. §

Saliro era propriamente un dio boschereccio ; e Satiri erano una specie di semidei, abitatori delle selve, cornuti e co’ piedi caprini (αιγιποδες, τραγοποδες. Capripedes Satyri. Lucret.). Orazio(1) dà loro i piedi di capra e le orecchie acute. Sino alla cintura aveano forma umana e due corna nella fronte ; tutto il resto poi era di capra. Plinio dice de’ Satiri, essere animali velocissimi che vivono sopra alcune montagne dell’India, i quali corrono ed a quattro piedi ed alla maniera degli uomini, nè possonsi prendere che quando sono infermi o vecchi. In un ninfeo, luogo sacro presso la città di Apollonia, fu preso un Satiro che dormiva a terra, di quella sembianza appunto, in cui viene dai pittori rappresentato(2). Il recarono a Silla, innanzi a cui dimandato chi egli fosse, proruppe in una voce che niente avea dell’umano, ma che sembrava partecipare del nitrito, e del belato delle capre. Il gran solitario S. Antonio in una sassosa valle vide una forma di uomo di picciola statura, col naso adunco, col capo cornuto e che avea di capra l’altra metà del corpo. Ed a tempo di Costantino un simile animale fu portato vivo nella città di Alessandria, ove servì di maraviglioso spettacolo a quel gran popolo ; e che poscia {p. 273}morto si portò ben conservato in Antiochia, ove l’imperatore stesso volle vederlo. Plinio riferisce che sul monte Atlante di giorno era gran silenzio ; ma che la notte vi si vedeano fuochi accesi ed un danzare di Egipani e di Satiri con suono di trombe, di timpani e di cembali. Il ch. Shaw(1) dice, quel monte essere abitato dai Cabili, i quali, pel soverchio calore del sole, il giorno vivono nelle caverne, e di notte accendono de’ fuochi e fanno lieto strepito di canti e di suoni. Forse la specie di scimmia detta orang-outang (simia satyrus) che mollo si avvicina all’uomo, ha dato origine alla favola de’ Satiri.

Da’ poeti si dipingono con faccia umana, ma sozza e deforme, con picciole corna, come quelle de’capretti di fresco nati, con coda, cosce setolose e piedi come di becco. Erano inchinati ad un ballo comico, che consisteva in certe mosse assai ridevoli, detto cordace (κορδαξ, κορδακισμος, cordax ), inventato dal satiro Cordace. Ovidio(2) appella i Satiri gioventù fatta per le danze ; e Virgilio (3) dice che Alfesibeo imitava il danzare de’ Satiri. Da questi pure che s’introducevano sulla scena e ch’eran Dei sucidi e sfacciali, fu nominata una rappresentazione da’ Greci detta Satirica, di cui servivansi per rallegrare gli animi dopo la tragedia. Satira poi chiamasi eziandio una poesia mordace che si propone di riprendere i vizi degli uomini, come quelle di Orazio, di Giovenale ec. Dette sermones, e scritte piuttosto in basso stile. Ebbe un tal nome da una scodella (a lance satura), che piena di varii frutti si offeriva a Cerere ; e così la satira riprende ogni vizio e diverse cose abbraccia(4). E satura significava ancora una vivanda formata di varie specie di cibi. E Pescennio Festo scrisse le sue storie per saturam, che eran le varie istorie (ποικιλαι ιστοριαι, vel πανδεκτης ιστοριων {p. 274}, vel πινακες, i. e. lances vel tabulae) de’ Greci. Ma Scaligero dice che la Satira ebbe nome da’ Satiri, i quali portavan piatti e cestellini ricolmi di ogni generazione di frutti e ne facevan dono alle Ninfe.

Le Ninfe poi erano alcune deità subalterne, a cui non attribuivasi l’immortalità, ma solo una vita lunghissima, come a’ Fauni, a’ Satiri ec. e che riputavansi una specie di Genii locali che aveano un culto particolare ed alcune feste lor proprie. Eran considerate come gentili e leggiadre giovinette, che tutte vincevano in bellezza. I luoghi lor consacrati eran tempietti, o antri, da cui spicciava qualche polla di fresche e limpide acque. Orfeo le chiama abitatrici degli antri ed amiche delle spelonche. Celebre è l’antro delle ninfe che Omero descrive (1) ; e Virgilio (2) nella spiaggia della Libia, ove dopo la nota tempesta presero porto le navi di Enea, alloga un antro ombroso che chiama abitazione delle Ninfe, formato da due scogli ed in cui erano dolci acque e sedili scavati nel vivo sasso. E lo stesso Omero(3) loro attribuisce e le selve, e le sorgenti dei fiumi ed i prati erbosi.

Di fatto vi eran molte specie di Ninfe, che il nome prendevano da’luoghi. Le Oreadi (ab ορος, mons) eran ninfe abitatrici de’ monti che si voglion compagne di Diana. La Terra, dice Esiodo (4), partorì gli alti mouti, grate abitazioni delle divine Ninfe che su di essi dimorano. Le valli aveano le loro Napee (a ναπος, vallis) che presiedevano pure alle colline, a’ boschetti, ai prati ed agli orti. Quindi il Chiabrera :

I regii alberghi spaziosi, gli orti
Mirabili soggiorni di Napee.

Ed altrove :

A’sospiri di Zeffiro soavi
E per li campi se ne va succinta
In verdissima gonna ogni Napee.

{p. 275}Le Driadi (a δρυς, arbor) e le Amadriadi eran ninfe abitatrici degli alberi, che vivevano e morivano con queglistessi, sotto la cui corteccia eran rinchiuse. Il nome di Driadi però si dava a quelle Ninfe boscherecce che, a differenza delle Amadriadi, eran riputate immortali. Di tutti gli alberi erano queste Ninfe, ma specialmente delle querce ; e perciò si chiamaron Querquetulanae virae(1) ; e vi era un tempietto consacrato alle Amadriadi col nome di sacellum Querquetulanum(2). Le Limoniadi (a λειμων, pratum) presedevano a’prati ed eran soggette alla morte, come le altre deità campestri. Delle Ninfe, che presedevano alle acque, parleremo in altro luogo.

VII.Continuazione – Vertunno – Pomona. §

Vertunno (Vertumnus), deità proveniente dall’Etruria, era il dio de’ giardini e dell’autunno , ed era il simbolo delle vicende dell’anno e delle stagioni. Presedeva a’ pensieri degli uomini ed a’ loro cambiamenti, come quegli che poteva cangiar di forma, come Proteo. Era anche il simbolo di una naturale attitudine e destrezza di agire, per la quale ad alcuno ogni cosa felicemente succede (res bene vertit. Orazio (3) chiamò nato in disgrazia di Vertunno un uomo volubile e che non è padrone de’ suoi pensieri. Alcuni derivano il nome Vertunno dall’aver divertito le acque del Tevere dal Velabro, pianura fra il Capitolino, il Palatino e l’Aventino (a verso amne)(4) ; altri dal volgere di un anno (ab anno vertente), perchè gli si offrivano le primizie de’ frutti dell’anno ( anni vertentis ) (5) ; ed altri meglio dal cangiarsi in molte e varie forme (6). {p. 276}Tibullo(1) lo pone nell’Olimpo, sebbene fosse nume campestre.

In una statua vedesi Vertunno tutto vestito, colla barba e colla spoglia di un animale ; e sopra una piega della coda vi sono molti frutti. Si rappresenta pure come un giovane, con una corona di diverse piante, nella sinistra, alcuni frutti, nella destra, un cornucopia. Nel foro romano era una statua di Vertunno, presso alla quale stavano molte botteghe di mercatanti e librai(2).

A Vertunno soggiungiamo Pomona, dea de’giardini e de’fruti, e di lui moglie. Ovidio(3) la dice una delle Amadriadi del Lazio che per la sua destrezza nel coltivare i giardini, meritò la mano di Vertunno. Visse a’ tempi di Proca, re de’ Latini ; ed avea un sacerdote (flamen Pomonalis), che offerivale sacrificii per la conservazione de’frutti. Pomona poi dicesi un libro che parla de’frutti, come Flora, de’ fiori, e Fauna, degli animali. Fu così detta a pomum, frutto.

VIII. Continuazione – Flora – Dea Bona – Priapo–Pale – Dio Termine. §

Flora era la Dea de’ fiori e da’ Greci diceasi Clori, che sposò il vento Zeffiro, detto perciò l’alato cavallo di Clori(4), perchè i venti per la velocità si paragonano a’ destrieri, o si rappresentano a cavallo. Secondo Varrone essa fu un’antica Dea de’ Sabini, di cui T. Tazio introdusse il culto a Roma. Nel Museo Borb. vi è una statua colossale di Flora in marmo pentelico panneggiata di tunica, di peplo e di pallio, il quale, formando un picciol seno verso il braccio sinistro, raccoglie alcuni fiori che la caratterizzano per la Dea della primavera. Si rappresentava vestita di un abito {p. 277}cangiante, co’capelli fatti in trecce e sparsi di fiori ; i nudi e delicati suoi piedi sfiorar sembrano appena le tenere erbette, sulle quali passeggia. Zaffiro la solleva e la regge in aria sopra i leggieri suoi vanni. Ad ogni passo di lei spunta dal suolo un nuovo fiore ; la sua fronte ba il candore del giglio ; le guance sono colorite da vermiglie rose freschissime, ed il suo fiato spira fragranza. Le vere statue di Flora sono molto rare. A Pompei vedesi una bella Flora, colle chiome inghirlandate di frondi e di fiori, e nel collo un monile : la sua rossa tunica è affibbiata sulla sinistra spalla, e con un braccio sostiene un cesto di fiori, e colla destra, un serto anche di fiori. È adorna di quattro ali rosse ed occhiute, come quelle delle farfalle. Questa dea ebbe un tempio in Roma, un sacerdote detto Flamine Florale, e giuochi detti anche Florali.

Pare che Plutarco confonda la Dea Bona con Flora ; ma il vero è che gli antichi davano quel nome a Vesta, a Rea, ad Opi, a Cerere ed a Cibele, tutti nomi, co’ quali onoravano la Terra ; e negli occulti riti dei sacrificii la Terra salutavasi Dea Bona, perchè dalla Terra ci vengono tutt’i beni della vita. Fu essa moglie di Fauno, o di Giano, o di Numa, e per la sua modestia meritò gli onori divini. I suoi misteriosi riti si celebravano in casa del Pontefice Massimo, o del Console, o di qualche altro alto magistrato. Se le sacrificava una troia gravida ; e dalla vestale Claudia le fu edificato un tempio sull’Aventino, poscia ristorato da Livia, moglie di Augusto.

Priapo, fig. di Bacco, e di Venere, era il dio degli orti, da’ quali teneva lontani i ladri e gli uccelli (1), e perciò gli mettevano in mano una falce, ed appellavasi il terrore de’ ladri e degli uccelli(2). Era pure venerato da’ pastori e da’ padroni di mandre e di sciami ; e gli si offeriva latte e qualche focaccia (3). Si {p. 278}finse nato o almeno allevato a Lampsaco, città sulle coste dell’Ellesponto, e perciò chiamasi Lampsaceno(1). Forse egli era il nume dell’agricoltura, cui Tibullo (2) offeriva i primi frutti della villa. Spesso si rappresentava sotto forma di Erma, con corna di becco, orecchie di capro, ed una corona di foglie di vite o di alloro. Da’ poeti (3) chiamasi rubicondo, perchè dipingevasi di minio.

Pale, secondo alcuni, era un Dio, e al dir di Ovidio, una Dea de’ pastori, cui facevan voti pel felice parto del gregge ed affinchè ne tenesse lontani i lupi ; e prima di condurlo a’ pascoli di primavera, con dei sacrificii alla Dea, eran soliti di purificarlo. Se le offeriva del latte, e di latte si spargeva la statua di lei (4) ; ed i suoi sacrificii si chiamavan Palilia o Parilia. Nel suo giorno festivo Romolo gettò le fondamenta di Roma ; e perciò ogni anno i Romani con grande allegrezza il celebravano.

Finalmente Termine chiamavasi il nume protettore de’ confini de’ campi e vindice delle usurpazioni. Numa il fece adorare sotto la figura di una pietra quadrata, a cui si facevan sacrificii in ogni anno ; alle volte era uno stipite ; ma più appresso fu dìpinta con testa umana, ma senza braccia, nè piedi. Tibullo (5) afferma ch’egli prestava il religioso suo culto a qualunque tronco piantato ne’ campi, o antica pietra incontrasse in un trivio coronata di fiori ; il che intendono gl’interpetri dell’erme de’ Termini che spesso si trovavano ne’ campi e per le vie (6). Numa istituì le feste del dio Termine dette Terminalia, pel dì 20 di Febbraio, Livio (7) racconta che volendo Tarquinio Superbo edificare sul Tarpeio un tempio a Giove, acciocchè la piazza del monte {p. 279}libera fosse per la edificazione di esso, ordinò di esaugurare tutt’i tempii di quel luogo, ma che quello del dio Termine non fu ammesso dagli auguri. Per siffatto augurio parve che non essendo stata mossa la sedia di Termine e il non aver ceduto quel dio solo tra tutti gli altri significasse, ogni cosa avere ad essere quivi ferma e stabile ; e ciò fu ricevuto qual augurio di fermezza e perpetuità dell’imperio.

IX. Alcuni epiteti della Terra o sia Opi. §

Euristerna, Ευρυστερνος, dal largo petto. Nell’Acaia (1) era un tempio con un’antica statua della dea Tellure Euristerna, ed una sacerdotessa. In Esiodo (2) leggesi Γαιαευρυστερνος, per ragione dell’ampiezza del suo seno, cioè delle vaste sue pianure.

Curotrofa, κουροτροφα, nudrice di giovanetti. Con questo nome avea un tempio nell’Attica.

Μεγαλη Θεος, la gran Dea.

Ολβοδοτειρα, donatrice di ricchezze, perchè dalla terra tutte le ricchezze provengono.

Omni parens, madre di tutti, appellasi da Virgilio (3) ; gr. παμμητηρ, e παντοκος, omnia pariens.

Παντροφος, epiteto della Terra presso Orfeo, cioè nutricatrice di tutti.

X. Alcune altre cose della Terra. §

Gli antichi auguravano a’ defonti che fosse loro leggiera la terra con quelle conte parole : Sit. tibi. terra. levis. ; come a’ nemici, per modo d’imprecazione, la desideravano grave e pesante.

La vittima che si sacrificava alla Terra era una troia gravida, come praticavasi nelle rusticane feste dette da’ Romani sementine, che si celebravano dopo la semente, ed in cui si offeriva a Cerere ed alla Terra {p. 280}anche del farro. Nelle feste dette Fordicidia, in onore della Terra si sacrificavano delle vacche pregne, forse per significare la fecondità di essa.

Cerere. §

I. Nomi diversi dati a questa Dea e lor ragione. §

Cicerone (1) deriva il nome Ceres a gerendis frugibus, quasi Geres, per un cangiamento della prima lettera, e ciò perchè essa era la produttrice delle biade. Servio (2) il fa venire dall’antico cereo per creo, perchè questa Dea si reputava la creatrice del grano. Da’ Greci poi chiamavasi Δημητηρ, quasi Γημητηρ, o sia terra madre, essendo Cerere la stessa cosa che la Terra. Forse diminutivo di tal nome è l’altro Δηω, come chiamasi dai Greci ; o fu così della da δηω, ritrovare, perchè quando essa andava cercando la figliuola Proserpina, le si faceva lieto augurio col dire : la troverai.

II. Storia favolosa di Cerere. §

Cerere fu figliuola di Saturno e di Opi, e secondo il Boccaccio, ve ne fu un’altra figlia del Cielo e di Vesta, sorella di Saturno e moglie di Sicano, antichissimo re della Sicilia, il quale a’ suoi popoli insegnò l’uso del frumento.

Vi fu già un tempo, dicevano i poeti, in cui gli uomini, selvatici ancora, durando lor vita ne’ boschi a foggia di belve e liberamente vagando senza tetto e senza leggi, si pascevano di vili ghiande e nelle acque dei fonti spegnevano la lor sete. Or Cerere fu la prima che col curvo aratro insegnò agli uomini a coltivar la terra e ad usare, invece di quel ferino cibo delle ghiande, l’eletto frumento ; e perciò si disse che dettò loro le leggi (3). Di tutt’i luoghi della terra niuno fu più grato {p. 281}a questa dea che la Sicilia, la quale era tutta a lei ed a Proserpina consacrata, sicchè il loro culto presso que’ popoli sembrava quasi un ingenito sentimento(1). Enna, fra le altre città Siciliane nobilissima, era posta in mezzo all’isola, quindi detta il suo ombilico, su di un luogo alto, nel quale era una bella pianura ed acque vive, ed intorno intorno assai laghi e sacri boschetti, ed in ogni stagione bellissimi fiori. Quella città non già una città pareva, ma un gran tempio di Cerere, ed i cittadini, tanti di lei sacerdoti. Or vicino ad Enna era una spelonca, onde uscì Plutone a rapir Proserpina, fig. di Cerere, la quale essendo stata in quel dì dalla ninfa Aretusa ad un banchetto con altre dee, avendo dal doloroso pianto delle compagne al ritorno argomentato il rapimento della figliuola, disperata a cercarla tutta sola si diede, sì che e la nascente aurora ed il sole vicino a tramontare la videro infatigabilmente intesa a cercar della sua Proserpina(2). Nelle mani avea due gran faci accese al gran fuoco dell’Etna per la notte ; ed in tutto quel tempo, non gustò cibo, se non che il papavero, che per la sua virtù sonnifera, valse ad ammorzar qualche fiata col sonno il suo dolore ; percui chiamasi il papavero, Cereale(3). E delle fiaccole della nostra Dea cantò leggiadramente l’Ariosto :

Cerere poi che dalla madre Idea
Tornando in fretta alla solinga valle,
Là dove calca la montagna Etnea
Al fulminato Eucelado le spalle,
La figlia non trovò, dove l’avea
Lasciata fuor d’ogni segnato calle :
Fatto ch’ebbe alle guance, al petto, ai crini,
E agli occhi danno, alfin svelse due pini.
E nel foco gli accese di Vulcano,
E die lor non potere esser mai spenti ;
E portandosi questi uno per mano
Sul carro che tiravan due serpenti,
{p. 282}Cercò le selve, i campi, il monte, il piano,
Le valli, i fiumi, gli stagni, i torrenti,
La terra, il mare ; e poi che tutto il mondo
Cercò di sopra, andò al tartareo fondo.

III. Continuazione – Ascalafo. §

Or in questi suoi viaggi, assetata la povera dea, andò ad una rustica casuccia, da cui, picchiando, vide uscire una vecchia che al chiedersele dell’acqua da Cerere, le proferse certa polenta, che la dea trangugiò avidamente ; del quale atto rise sì forte un giovinetto che la dea adirata il trasformò in ramarro di vario colore(1), che fuggì tosto di mano alla dolente vecchia e si ascose in un forame.

Ritornata in Sicilia la nostra Cerere, guarda per tutto e pure all’amico fonte di Ciane, la quale più lingua non avea da dire alla madre che cosa fosse della figliuola. Ma pur vide su le sue acque galleggiare la cintura di Proserpina ; il che fu argomento di essere stata per que’ luoghi rapita ; di che pianse, e fu in collera colla Sicilia tutta, quasi ingrata a’ suoi beneficii, percui privolla di tutt’i suoi doni. Allora, per pietà di sì gravi mali, la ninfa Aretusa, dalle sue chiare acque levando il capo, alla dea disse che Proserpina per forza rapita, già moglie del dio dell’inferno, era regina di quel tenebroso regno, come Giunone del cielo. Cerere rimane attonita a tal nuova, e piena di dispetto ne va al cielo, sopra il suo cocchio, e piangendo dice a Giove che Proserpina era pur sua figliuola, e non convenire che se l’abbia in moglie quel villano rapitore con sì grave onta di Giove stesso e della madre. Giove la racconsola, mostrando che non tornavan certo quelle nozze a sua vergogna ; che Plutone era suo germano e che Proserpina signoreggiava in ampio reame. E poi esser legge del fato, non potere uscir dell’inferno chi vi avesse toccato cibo. Or per mala ventura, Proserpina, andando un giorno per certi {p. 283}giardini ricchi di alberi fruttiferi, ne colse una bellissima melagrana, di cui mangiò sette granelli. Ascalafo, fig. dell’Acheronte e di Orfne, ninfa dell’inferno, svelò un tal fatto ; percui, adirata la dea, spruzzandolo coll’acqua del Flegetonte, il trasformò in malaguroso uccello, detto gufo. Infine Giove, volendo far piacere a Plutone ed a Cerere, sentenziò che Proserpina per sei mesi fosse colla madre in cielo, e sei altri nell’inferno con Plutone. Allora acchetossi lo sdegno di Cerere, e la terra, quasi lieta per l’allegrezza della dea, ringiovanì e vestissi di bellissime messi.

Cerere fu regina di Sicilia ed insegnò a que’ popoli l’agricoltura, la quale essendo madre e conservatrice delle leggi civili, anzi dello stesso vivere sociale, si disse ch’ella avesse dato le leggi a que’ primi selvatici uomini ; ed ecco la Cerere legislatrice o Tesmofora. Si finse in Sicilia particolarmente venerata, per ragione di quella fertilità delle sue campagne, per la quale M. Catone(1) chiamò la Sicilia dispensa o granaio del popolo romano. Plutone, dice Tullio(2), rapì Proserpina ch’era la semenza delle biade, la quale nascosta sotterra è cercata da Cerere, sua madre. Lo stare Proserpina per sei mesi con Plutone, era simbolo de’ sei mesi che la semenza del grano è sotterra in quel tempo che il sole corre per i sei segni australi del zodiaco ; come gli altri sei mesi ch’era colla madre, significavano i sei mesi, in cui la semenza germoglia in piantoline, matura ed è mietuta, quando il sole va per gli altri segni dell’emisfero boreale(3).

IV. Continuazione – Sirene – Aretusa – Trittolemo. §

Ovidio racconta che quando Proserpina, essendo nei campi di Enna a coglier fiori, fu rapita da Plutone, eran con lei tre sorelle chiamate Sirene, Partenope, Leucosia e Ligea ; ed eran figliuole dell’Acheloo, fiume della Grecia che ha la sua origine dal monte Pindo, e {p. 284}di Sterope. Le quali, dolenti oltremodo di tanta perdita, furon subito a cercarla per ogni luogo della terra. Or, riuscendo vana ogni lor cura, pregaron gli dei che potessero, fornite di ale, andar sulle acque del mare per averne contezza. E però furon trasformate in uccelli con volto di donzella e dolcissima voce umana. Igino dice che furon cangiate in uccelli da Cerere sdegnata con esse, perchè non avevano aiutata la figliuola. Or delle Sirene varie cose troviamo presso gli antichi, Omero nell’Odissea dice che le Sirene col dolce lor canto affascinando i viandanti, li tiravano a’ loro scogli, ove li uccidevano facendone strazio. Poscia racconta come que’ mostri invitarono Ulisse a sentire il lor canto ed in qual guisa schivò egli un tal periglio. Comunemente si dice che le Sirene dal mezzo in su aveano forma di donzella, e dal mezzo in giù, di pesce, con due code. L’una dolcemente cantava ; l’altra suonava il flauto, e la terza, la lira ; e per loro dolce canto e suono facevano addormentare chi le udiva, e così li divoravano. Ma non avendo potuto prendere nella lor rete il prudente Ulisse, per dispetto si spinsero a rompicollo nel mare. Plinio e forse anche Omero, afferma che il loro soggiorno era il promontorio o capo della Minerva presso Sorrento ; e che la Sirena Leucasia fu sepolta in un’isoletta o scoglio nel golfo di Pesto, detto oggidì la Licosa. Si vuole poi che Napoli fu detta Partenope dalla Sirena di questo nome, la quale presso quella ridente e deliziosa città ebbe la sua tomba.

Secondo Servio, vi eran negli antichi tempi tre principesse, signore delle tre isolette del mar Tirreno che Aristotele chiama delle Sirene. Le quali, intese ad ogni maniera di malvagi diletti, tiravano i forestieri alla lor corte con lusinghevoli artifizii, ch’eran la dolce voce delle Sirene in linguaggio poetico ; i quali fra tanti sollazzi di quella corte perdevan la virtù e l’avere ; erano, cioè, divorati dalle Sirene.

La favola poi di Alfeo e di Aretusa non ha che fare propriamente con Cerere ; ma Ovidio (1) finge {p. 285}ingegnosamente che la ninfa Aretusa, vedendo sterilite le campagne di Sicilia per l’ira di Cerere che volea ad ogni modo trovar la figliuola, aprì a quella Dea che nella sua isola prediletta non già, ma bensì nel regno infernale era Proserpina, indegnamente rapita ; e che aveala veduta cogli occhi proprii seder regina, quando per occulte vie gettavasi sotterra per congiungere le sue acque con quelle dell’Alfeo. Or lieta la dea a tal nuova, volle che Aretusa i tristi suoi casi narrasse e per qual modo fosse stata in sì strano fonte conversa. « Io fui, ella disse allora, levando sulle onde il ceruleo capo, io fui una delle ninfe d’Acaia, fig. di Nereo e di Dori ; e fra le seguaci di Diana, di me non vi fu altra più amica de’ boschi e della caccia. Mi dicevano bellissima ; ma, ad altri studii intesa, poco o nulla mi caleva di ciò ; che anzi vedendo un giorno non poter io fuggire da Alfeo che mi perseguitava, pregai Diana di aiuto, e la buona dea mi cangiò di presente in bellissimo fonte. E così cangiata, per sotterranei ed occulti luoghi apertomi un sentiero sotto del mare, mantenendo pure e dolci le mie acque, ne andai frettolosa in Sicilia presso l’isola Ortigia. Ma non potei far tanto che Alfeo, mutato in un fiume non mi seguisse, alle mie unendo le chiare sue onde.» Così la ninfa Aretusa narrò a Cerere la sua mirabile trasformazione.

Cicerone(1) così descrive la fontana Aretusa : « In una isoletta ch’è l’ultima parte della città di Siracusa, vi è un fonte di acqua dolce, chiamato Aretusa, di grandezza incredibile ed abbondantissimo di pesci ; il quale tutto da’ fiotti sarebbe coperto, se argini e moli di pietra dal mare nol disgiungessero. » Pausania(2) inclina a credere l’unione delle acque dell’Alfeo e di Aretusa, indotto da una risposta dell’oracolo di Delfo, il quale, inanimando un tale Archia di Corinto a mandare una colonia a Siracusa, disse : Oltre il tenebroso mare della Trinacria giace l’isola Ortigia, ove sgorga l’Alfeo che confonde le sue acque colla fontana Aretusa. Si racconta che {p. 286}una tazza caduta nell’Alfeo presso ad Olimpia, si vide galleggiare sulle acque del fonte Aretusa ; e ch’esso divien torbido, quando nella solennità de’ giuochi Olimpici si uccidono le vittime e nell’Alfeo si getta il soperchio di quegli animali. Ma è tutto ciò una favola ; perchè l’Alfeo manifestamente mette foce nel mare, e niuna apertura si vede che ne assorbisca le onde ; percui non par possibile che rimangono dolci le acque di un fiume che passa pel mare o sotto ad esso.

Trittolemo finalmente fu il caro allievo di Cerere(1), la quale giunta nell’Attica, dopo lungo cercare, stanca e mesta presso alla città di Eleusi sedè su di un sasso vicino ad un ulivo, perciò chiamato pietra della mestizia. Quivi molti giorni si trattenne a cielo scoperto ; ma ritrovata da Celeo e da una sua figliuola, fu amorevolmente invitata a casa loro, avendo la dea presa sembianza di una vecchia. Era Celeo padrone di quel podere e marito di Metanira che piangeva per un suo figliuolino infermo. Entrata che fu la dea, donò al fanciullo il vigor della vita ; di che fu lietissima quella famigliuola. E poscia l’amò tanto che volle con latte divino nutricarlo di giorno, mentre di notte il passava pel fuoco, per renderlo immortale ; il che dalla madre osservato, fu cagione a lei di spavento, ed a Cerere di disgusto ; percui Trittolemo restò mortale, ma volle la dea che su di un cocchio tirato da dragoni alati, discorrendo per le regioni della terra, a’ popoli distribuisse la semenza del frumento ed insegnasse l’agricoltura ; e ciò fu prima in Atene, a tempo di Eretteo, sesto re di quella città. Poscia trascorse i paesi dell’Europa e dell’Asia, ed arrivò nella Scizia, ove allora regnava Linco, uomo astuto e di crudeli costumi. Il quale, conosciuto il fine degli aerei viaggi di Trittolemo, n’ebbe invidia ; e perciò con finta amorevolezza accoltolo nella reggia, tentò di ucciderlo. Ma Cerere non mancò al suo Trittolemo di pronto aiuto, e punì tosto la gelosa crudeltà di Linco, cangiandolo in lince, fiera di vario {p. 287}colore che significa la sua indole astuta ; e volle che Trittolemo continuasse il suo viaggio.

Il bue riputato era dagli antichi (1) più degli altri animali addetti all’agricoltura ; ed in Atene credevasi ministro di Cerere e di Trittolemo e fu allogato fra gli astri più splendidi. Dal bue venne il nome di Buzige, Ateniese, che fu il primo a porre i buoi all’aratro.

VII. Feste in onore di Cerere – Misteri Eieusini. §

I Siciliani e gli abitanti dell’Attica istituirono delle feste in onore di Cerere ; la prima Proarosia, avanti la semina ; la seconda, Tesmoforia, a Cerere Legislatrice, istituita da Trittolemo, perchè essa, oltre la coltura della terra, insegnò a’ Siciliani il vivere socievole e diede loro savie leggi ; la terza, Aloea (αλυα, area) che celebravasi ogni anno nel tempo, in cui trebbiavasi il grano. Ma la più celebre era quella de’ misteri Eleusini, appellati i Misteri per eccellenza, che si celebravano in Eleusi, città fra Megara ed Atene, così detta da Eleusi, fig. di Ogige e maestro di Mercurio. In questa città celebravansi le feste eleusine istituite da Eretteo, re di Atene, o da Museo, o da Eumolpo o da Orfeo. Avendo Trittolemo ordinato che niuno straniero potesse iniziarsi ne’ grandi misteri, per ammettersi Ercole che n’avea fatta la dimanda ed a cui niente potea negarsi, s’istituirono i piccioli misteri che si celebravano vicino ad Atene con offerire a Giove un sacrificio e fare alcune lustrazioni o purificazioni, bagnandosi nel fiume Ilisso. Questi piccioli misteri servivano di preparazione a’ grandi di Eleusi, per essere a parte dei quali era mestieri sottoporsi a molte pruove e ad un noviziato di cinque anni, ne’ quali era permesso solo di entrare nel vestibolo del tempio e non già nel santuario.

Or non vi era in tutta la Grecia festa più celebre de’ grandi Misteri Eleusini da Cerere stessa istituiti dopo di aver somministrato agli Ateniesi molto frumento in {p. 288}tempo di carestia. Il famoso tempio di Eleusi era destinato a queste misteriose cerimonie, ove i Greci concorrevano verso il mese di Agosto. Passati i cinque anni di pruova, a chi volea iniziarsi si aprivano i segreti riti, salvo pochî ch’era riserbato di sapere a’ soli sacerdoti. Due giovani Acarnani ch’erano stati ammessi senza le debite cerimonie, scoperti dal parlare ch’eran forestieri, furon dal gran Sacerdote condannati a morte, comechè stato fosse manifesto che quello era fallo di pura ignoranza. Il Gerofante o sommo sacerdote apriva agl’iniziati alcuni segreti che giuravano di non manifestare ; e chi mancava, riputavasi esecrando e spesso si puniva colla morte. Il nome del Gerofante era sì venerato che non potea profferirsi da’ non iniziati. Era pur delitto disprezzare questi misteri e questa fu una delle principali reità di Socrate. Molti grandi uomini s’iniziarono a questi misteri, e fra gli altri Cicerone, il quale dice (1) che gli uomini v’imparavano l’arte di ben vivere ed erano aiutati a menare una vita migliore. Alcuni pretendono che in essi s’insegnavano i principali dommi dell’unità di Dio, della sua provvidenza, della creazione, de’ gastighi e de’ premii di un’altra vita ec ; i quali, per timore del popolo, si tenevano con tanta cura celati. Ma i Padri della Chiesa ci fanno certi che sotto il venerando nome di misteri nascondevano quei ciechi Pagani le più colpevoli scelleratezze.

VIII. Erisittone – Mestra. §

Erisittone, re di Tessaglia, in disprezzo di Cerere tagliò una selva a lei consacrata, nel bel mezzo della quale era una ramosa quercia, intorno a cui le Driadi facevano i loro balli, e che di una Driade era pure il grato albergo. Cerere, in forma di sacerdotessa, cercò distornarlo da sì reo disegno, ma indarno ; percui gli mandò la Fame, per soddisfar la quale consumò tutto il suo avere e vendè una sua figliuola Mestra o Metra, la quale, ricevuto da Nettuno il privilegio di {p. 289}potere cangiar forma, si fece vendere più volte per soddisfare a’ bisogni del padre, il quale con tutto ciò finì miserabilmente la vita.

Pelope poi fu fig. di Tantalo e di Taigete. Volendo questi sperimentare la divinità degli Dei che nel loro pellegrinaggio avea in sua casa ricevuti, fece cuocere il figliuolo Pelope ed il diede loro a mangiare ; ma Cerere sola ne divorò la spalla destra. Giove allora ritornò Pelope in vita, e per la spalla mangiata da Cerere ne pose una di avorio.

IX. Iconologia di Cerere. §

In un affresco di Pompei vedesi Cerere in maestosa attitudine, con fiaccola nella destra, e sostenendo colla sinistra un cesto ricolmo di spighe. La sua bionda chioma è all’apollinea, con ghirlanda di spighe intrecciata con un lungo vezzo di perle o di ghiande. Altrove sì vede assisa con maestà, e col capo cinto di corona di foglie fermate con un diadema ; colla doppia fiaccola, e che colla sinistra prende un lembo del manto, nel quale Mercurio mette una borsa piena di danaro, per indicare che i due grandi mezzi di ricchezza sono l’agricoltura ed il commercio.

Sulle medaglie di Feres, nella Tessaglia, dice Millin, vedesi Cerere sopra un cavallo con due fiaccole in mano. Negli antichi monumenti figuravasi il più come una donna robusta, coronata di spighe, bionda e quasi rossiccia le chiome, accesa il volto e con de’ papaveri in mano. In un’antica moneta vedesi Cerere coronata di molte spighe ; e Tibullo (1) ci fa sapere che gli antichi ponevano una corona di spighe avanti la porta del tempio di quella Dea. In un dipinto di Pompei essa siede sopra un trono di oro, coronata di spighe intrecciate fra un velo bianco che le discende su gli omeri. Ha sopra una tunica senza maniche, ed un peplo giallo con pieghe fluttuanti. Tiene un fascio di spighe nella sinistra ed una face accesa nella destra.

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X. Principali epiteti di Cerere. §

Alma (ab alo), soprannome di Cerere inventrice del grano con cui gli uomini si alimentano.

Aloea (αλως, area), perchè presedeva alle aie.

Aleteria (αληθω, molo) ; soprannome della Dea, perchè in tempo di carestia avea impedito a’ mugnai di rubar la farina.

Ctonia (Χθων, terra), epiteto della Dea dal tempio che le edificò Ctonia sul monte Prono nel Peloponneso. Si celebravano in onore di lei alcune feste dette Ctonie.

Eleusina, dalla città di Eleusi, celebre pel tempio e pe’ misteri della Dea.

Ennea o Ennese, da Enna, città della Sicilia, ov’era in ispecial modo venerata.

Flava Ceres dicesi da’ Latini pel biondeggiare che fa la messe matura (1) ; e da Virgilio chiamasi rubicunda(2).

Legifera o Tesmofora (θεσμος, lex ), perchè diede le leggi al genere umano (3).

Spicifera chiamasi, perchè Dea delle biade(4).

Taedifera, gr. δαδουχος, perchè colle fiaccole (taedis) andò in cerca della figliuola(5).

XI. Alcune altre cose di Cerere. §

Cerere presedeva alla costellazione della Vergine, perchè questo segno del zodiaco cade nel mese di agosto, in cui la messe suol esser matura ; e perciò la Vergine si dipinge con una spiga in mano.

Gli agricoltori dedicavano a Cerere la falce, il vomero ed altri strumenti villerecci. Dopo la raccolta le offerivano le primizie delle biade, ed insieme vino melato e latte. A lei si sacrificava la troia, animale {p. 291}nocivo alle biade. Alla Terra ed a Cerere dagli agricoltori s’immolava ancora la troia precidanea (hostia vel porca praecidanea. Gell.) prima di mietere le biade ; sebbene vittime precidanee eran quelle che s’immolavano la vigilia delle grandi solennità ; o per supplire a qualche rito trascurato. A questa Dea si facevau pure sacrificii di erba verdeggiante in tempo di primavera(1).

I giuochi cereali si celebravano in onore di Cerere dalle matrone romane vestite di bianco e con fiaccole in mano, in memoria di Cerere che andava in cerca della sua Proserpina ; e si facevano per otto giorni nel Circo massimo colla corsa de’cavalli(2). Infine, essendo Cerere l’inventrice dell’arte di seminare il grano, da’ poeti si prende pel frumento stesso o pel pane(3).

Vulcano §

I.Nomi diversi dati a questo nume e lor ragione. §

Questo nume chiamavasi Vulcanus da’ Latini, o Volcanus, secondo Varrone(4), dalla violenza e dal fulgore del fuoco, quasi Fulganus. Secondo altri(5), fu così detto quasi volans candor, perchè il fuoco sembra volare per l’aria, nascendo dalle nuvole. Non so poi come il Calepino dica che fu detto quasi canus volitans per aerem, perchè la fiamma pare che vola ed è candida. Qualche erudito crede che venga da Tubalcain, con cui ha una manifesta somiglianza. Dicevasi pure Mulciber (a mulcendo), dal temperare o addolcire il ferro. Da’ Greci chiamavasi Ηφαιστος.

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II. Storia favolosa di questo Nume. §

Vulcano, secondo Omero(1), fu fig. di Giove e di Giunone ; ma Cicerone(2) annovera molti Vulcani ; il primo fig. del Cielo, da cui e da Minerva nacque Apollo, protettore di Atene ; il secondo, fig. del Nilo, detto Opa dagli Egiziani ; il terzo, fig. di Giove terzo e di Giunone, che avea la sua fucina a Lenno ; ed il quarto, fig. di Menalo, signore di alcune isole dette Vulcanie. Or Vulcano nacque sì deforme che Giove per dispetto il precipitò dal cielo con un calcio ; dalla quale caduta n’ebbe rotta una gamba e rimase zoppo. E peggio gli sarebbe venuto, se gli abitanti di Lenno per caso non lo avessero fra Ie loro braccia raccolto. Nella quale isola si dice che fosse stato nudrito da Eurinome, fig dell’Oceano e di Teti. Giove il volle in parte consolare di sì grave oltraggio, dandogli a fabbricare i fulmini. Le fucine di questo nume erano a Lenno, a Lipari e sotto il monte Etna in Sicilia ; percui cantò il Petrarca :

Le braccia alla fucina indarno muove
L’antichissimo fabbro Siciliano.

Quindi Lenno dicesì Vulcania(3). Ma per testimonianza di Omero, Vulcano nacque da Giove e da Giunone ; e Giove il precipitò dal cielo per aver egli voluto dare aiuto alla madre posta dal marito in prigione. Caduto Vulcano nell’isola di Lenno e per tal caduta reso zoppo, Teti ne prese cura. Lo stesso Omero(4) pone nell’Olimpo la casa e la fucina del Dio del fuoco ; ma Virgilio(5) la pone in un’isola vicina a Lipari, ch’e una delle Eolie o Vulcanie. Or ciò si finse, perchè l’isola di Lenno, l’Etna e le Vulcanie, fra le quali è Lipari, son soggette a’tremuoti ed abbondano di fuochi sotterranei. Ed il rumore che fa il fuoco nel tentare di {p. 293}uscire di sotterra, si disse ch’erano i colpi de’ martelli dei Ciclopi, ministri di Vulcano nel fabbricare i fulmini di Giove, chiamati da’ poeti Bronte, Sterope e Piracmone. I quali furono i primi ad inventare l’arte di lavorare il ferro ; e perciò si finse che avessero aiutato Vulcano nel fabbricare i fulmini.

Or quantunque insigne fosse la deformità di questo nume, pure, in compenso del discacciamento dal cielo, tolse in moglie Venere, la più bella fra le Dee, o Aglaia, una delle Grazie, secondo Esiodo.

III.Vulcano, dio degli Egizii – Sue doti, incumbenze e suoi pregiati lavori. §

I poeti han foggiato il loro Vulcano su di Tubalcain, fig. di Lamech, che fu artefice di ogni sorta di lavori di rame e di ferro(1). Gouguet dice che gli Egizii ebbero a re un Vulcano che ritrovò il martello, l’incudine e le tanaglie. Quel popolo(2) chiamava Vulcano il fuoco, e lo venerava qual nume ; e Sesostri gli edificò un tempio a Menfi. Dal Vulcano adunque degli Egiziani foggiarono i Greci il loro Dio del fuoco, ch’era pure il protettore di quelli che lavorano il ferro. Ed era sì perfetto nell’arte sua che tutte le armi degli Dei, ed anche i fulmini di Giove, si fingono fabbricati da Vulcano e da’ Ciclopi, ed anche quelle de’ più illustri eroi. Esso diede ad Ercole la corazza d’oro ; ad Eèta, re di Colco, due grandi tori che aveano piedi di bronzo e gettavan fuoco dalla bocca ; a Minerva, alcuni crotali o campanelli di bronzo che poscia la Dea donò ad Ercole. Cadmo nel dì delle sue nozze donò alla sposa Armonia un peplo ed una collana fatta da Vulcano. Questi(3) fabbricò con mirabil magistero le stanze degl’Iddii sull’Olimpo, e de’ belli sedili ne’ portici della casa di Giove ; il talamo di questo nume, ed uno scettro che Vulcano diede a Giove, {p. 294}Giove a Mercurio, questi a Pelope, Pelope ad Atreo, Atreo a Tieste, e questi ad Agamennone. Nè son da tacere il bel trono d’oro che Giunone promise al Sonno in guiderdone ; e la corazza di Diomede, e la tazza di argento che Fedimo, re di Sidone, donato avea a Menelao ; ed i cani d’oro e di argento nella reggia di Alcinoo, re de’ Feaci, che pareau vivi(1). Mirabile opera di Vulcano fu pure la reggia del Sole con tanto sfoggio d’ingegno descritta da Ovidio(2) ; e la corona da lui donata a Venere e da Venere ad Arianna(3) ; e le armi di Enea fabbricate ad istanza di Venere e sì bene da Virgilio(4) descritte. Si vuole(5) che la collana di Armonia fosse stata ad Erifile, moglie di Anfiarao e sorella di Adrasto, data in premio da Polinice, per avere perfidamente scoperto il marito ch’erasi nascosto per non andare alla guerra di Tebe, ove sapeva dover morire, come avvenne(6)

Molte altre mirabili opere attribuiva l’antichità a Vulcano in guisa che Omero(7) chiama istruito da Minerva e da Vulcano un uomo che faccia molte e bellissime opere di arte. Ma di tutte le opere attribuite al Dio del fuoco la più famosa è lo scudo di Achille descritto con arte maravigliosa da Omero(8) ; il che solo fa vedere che fu stoltezza il credere cieco il primo pittor delle memorie antiche. Ucciso Patroclo, grande amico di Achille, dal Troiano Ettore, questi s’impossessa delle armi di lui ch’eran quelle del figliuol di Peleo e se ne riveste. Alla nuova della morte dell’amico grandissimo fu il cordoglio e la disperazione dell’eroe, che vuol correre al campo per vendicarla ; ma la madre Teti, uscita del mare per consolarlo, lo esorta a soprassedere, finchè gli porti una nuova armatura. Ella {p. 295}di fatto si presenta a Vulcano e ne lo prega istantemente. Il quale, fatte alla Dea molte liete accoglienze, volenteroso si accinge all’opera e fabbrica uno scudo, di cui Omero fa una descrizione ch’è il più bel pezzo di poesia che ci abbia conservata la greca favella. Si vuole che la descrizione dello scudo di Enea fatta da Virgilio sia mollo inferiore a quella del poeta greco. Anche lo scudo di Ercole descritto da Esiodo fu opera di Vulcano. Per comando di Giove egli ancora di fango fece la prima donna, detta Pandora, che presentò agli Dei coperta di velo e con aurea corona in capo. In breve, Vulcano si diceva inventore dell’arte di lavorare il ferro, il rame, l’oro, l’argento e tutto ciò che abbisogna del fuoco per maneggiarsi, e l’insegnò agli uomini. E quei che professavan quest’arte, offerivano voti e sacrificii a Vulcano, ed il fuoco stesso chiamaron Vulcano.

Non solo fu egli Dio del fuoco e de’ fabbri, ma esercitò eziandio l’ufficio di coppiere alla mensa di Giove nell’Olimpo. Or come la sua deformità non era conveniente ad inspirare la gioia che regnar dee nei banchetti, gli fu sostituita la bella Ebe. Era insorta fra Giove e Giunone pericolosa contesa pel fatto di Teti, cui Giove promessa avea la vittoria de’ Troiani, onde fosse cosi vendicato il figliuolo Achille. Per ciò restarono i numi tutti contristati ; ma l’inclito fabbro Vulcano con accorte parole compose l’ire de’ coniugi, porgendo alla genitrice un tondo nappo, per cui….. la Diva dalle bianche braccia rise, e ne risero tutti gli Eterni. Veggasene in Omero(1) il grazioso racconto.

IV.Di alcune imprese di Vulcano e di alcuni suoi figliuoli. §

Nella guerra contro i giganti il nostro inclito zoppo Vulcano, malgrado la debolezza delle sue gambe, non mancò di adoperarsi per la salvezza degli altri Dei, avendo ucciso il gigante Clito con una mazza.

{p. 296}Allorchè Diomede, coll’aiuto di Pallade, fece le più mirabili pruove, era fra i Troiani un Darete, sacerdote di Vulcano, al quale fu ucciso da quell’eroe il primo de’ due figliuoli Fegeo ed Ideo ; nè il secondo avrebbe schivata la morte, se Vulcano non lo avesse cinto di nebbia e così sottratto al furor del nemico.

Famosa poi è la lotta di Achille collo Scamandro, fiume della Frigia, chiamato Xanto dagl’Iddii, e dagli uomini Scamandro, al dir di Omero(1). Il figliuol di Peleo, dopo grandi prodezze, fatta avea terribile strage de’ Troiani, ed incalzando gli altri, parte ne avea rincacciato nella città, e parte nello Scamandro, il quale, al vedere il suo letto iugombro tutto di cadaveri, irato parla ad Achille, Io minaccia, lo ravvolge ne’ vortici delle sue onde e comincia non mai udita lotta coll’eroe, il quale sarebbe restato sopraffatto dal fiume, se Giunone non avesse chiesto aiuto a Vulcano, il quale, all’invito della madre, un vasto foco accende, di cui la vampa si rivolge contro il fiume, il quale

« s’infoca ed in voce dolorosa esclama :
Vulcano, al tuo poter nullo resiste
De’ numi ; io cedo alle tue fiamme. Ah ! cessa
Della contesa ; immantinente Achille
Scacci pur tutti di cittade i Teucri ec. Monti

Ecco come Omero descrive la forza del fuoco, simboleggiato sotto il nome di Vulcano, a cui niuna cosa o nume vale a resistere.

Degno fig. del Dio del fuoco fu Caco, la cui favola appartiene agli antichi popoli d’Italia. Egli era(2) un ladrone famoso in quelle contrade, di gigantesca statura, di truce sembianza, e grande calamità di chi in que’luoghi capitava(3) ; e che da Virgilio(4) chiamasi mezzo uomo e mezzo bestia. Egli gettava fuoco da tre bocche(5), ed abitava un antro, donde usciva per {p. 297}uccidere e spogliare i viandanti, e la cui bocca era chiusa da un sasso grandissimo, ivi fermato con ferro ed ordigni fatti dal padre Vulcano. Ercole, poscia ch’ebbe morto Gerione(1), condusse in que’ luoghi buoi di maravigliosa bellezza ; e presso al Tevere fermate le bestie in luogo erboso, e stanco dal viaggio, quivi profondamente addormentossi. Allora Caco, invaghito di que’ buoi e scelti i più belli, ed attesochè le pedate avrebbero potuto mostrare al padrone, ove essi fossero stati guidati, per la coda indietro tirandoli, li condusse alla sua spelonca. Ma dal mugghiare delle bestie accortosi Ercole del furto, percuotendo Caco colla sua clava, l’uccise.

Altro famoso ladrone e fig. di Vulcano e di Anticlea fu Perifete o Corinete, il quale era gigante che armato di una mazza di ferro, uccideva i viandanti che capitavano ad Epidauro, città del Peloponneso. Teseo l’uccise e gli tolse la clava, di cui poscia fece uso egli stesso. Cercione, ancora, fig. di Vulcano, attaccava i viandanti a due alberi piegati ed avvicinati nella cima cosi che risalendo in alto li facevano in due parti. Teseo fecegli provare ciò che faceva soffrire agli altri.

V.Iconologia di Vulcano. §

Presso De La Chausse(2) si vede Vulcano col cappello, ed a guisa di fabbro deforme e zoppo, col martello nella destra, ed una tanaglia nella sinistra. I monumenti antichi rappresentano questo nume quasi sempre nella stessa guisa ; folta barba, capellatura negletta ; mezzo coperto di un abito che gli giunge sopra il ginocchio, cou una berretta rotonda e puntuta, cou un martello nella diritta, e le tanaglie nella sinistra. Dice Millin che quantunque tutt’i mitologi affermano che Vulcano era zoppo, pure in nessuna delle immagini che abbiamo di questo nume, si rappresenta con siffatta deformità. Solo in Cicerone leggiamo ch’era da {p. 298}ammirarsi in Atene un Vulcano fatto da Alcamene, ch’è in piedi vestito, e pare zoppo, ma senza alcuna deformità.

VI.Epiteti principali di Vulcano. §

Anfigieo, αμφιγυηεις, zoppo da ambedue le parti ; lat.ambiclaudus.

Clitomete, o inclito, gr. κλυτος, αγακλυτος e περικλυτος, celeberrimo, in Omero ed Esiodo, per la sua perizia maravigliosa nelle arli.

Etneo, Aetnaeus, dal monte Etna, in Sicilia, ove avea la sua fucina.

Κυλλοποδιων, zoppo, da κυλλος, claudus, e πους, pes ; aggiunto di Vulcano assai frequente in Omero.

Ignipotens, cioè arbitro del fuoco,si chiama da Virgilio, perchè ritrovatore di esso.

Iunonigena, cioè fig. di Giunone, si appella da Ovidio.

Lennio, Lemnius, dall’isola di Lenno, ove cadde dal cielo.

Pandamo (a παν, omne, et δαμαω, domo), domatore di tutte le cose, perchè il fuoco tutto doma.

VII.Alcune altre cose di Vulcano. §

Luciano racconta(1), che vennero a gara una volta, sull’eccellenza dell’arte, Minerva, Nettuno e Vulcano ; e che Nettuno fece un toro, Minerva una casa, e Vulcano, un uomo. Il dio Momo, scelto ad arbitro della contesa, nell’opera di Vulcano notò questo difetto, che non avea fatto una porta al petto dell’uomo, per iscorgere i pensieri dell’animo suo, e se egli dicesse il vero o mentisse.

Vulcanalia erano feste in onore di Vulcano, in cui i Romani facevano un picciol saggio del loro studio per una certa superstizione di buouo augurio. Plinio il giovane.(2), descrivendo il modo di vivere del suo zio, {p. 299}racconta ch’egli cominciava le sue letterarie vigilie net di delle feste Volcanali, e che ciò faceva non per ragion di augurio, ma per attendere a’ serii suoi studii.

I Romani aveano un tempio consacrato a Vulcano, edificato da Romolo, ch’era fuori della città, e nel quale si trattavano gli affari più rilevanti della repubblica. Fra gli animali poi era sacro a Vulcano il leone. Finalmente, dice Apollodoro, Vulcano fu quello che per commessione di Giove, attaccò Prometeo al monte Caucaso in pena di aver rubato il fuoco dal cielo. Si vuole che per ciò si servì di catene d’oro e di chiodi di diamante.

Diana §

I.Nomi diversi dati a questa Dea e lor ragione. §

Nell’articolo di Giano si disse che Diana fu detta quasi Jana, aggiunta la lettera D per dolcezza di suono, come afferma Macrobio(1), il quale riferisce che, secondo il sistema degli antichi Fisici, Giano era lo stesso che Apollo, o sia il Sole, e Jana, la stessa che Diana, o sia la Luna. Cicerone però(2) deriva il nome Diana da dies, perchè la Luna col suo splendore fa che la notte sia simile al giorno. Altri finalmente vogliono(3) che fu così detta dal greco διος, Giove, quasi Joviana, a Jove, perchè fig. di Giove. Da’ Greci chiamavasi Αρτεμις, da αρτεμης, intero, perfetto, dice Platone, perchè Diana fu vergine.

II.Storia favolosa di questa Dea. §

Cicerone(4) annovera tre Diane : la prima, fig. di Giove e di Proserpina ; la seconda, più conosciuta, che nacque da Giove terzo e da Latona ; e la terza, fig. di Upi e di Glauce. Quella adunque di cui si parla comunemente, è la fig. di Giove e di Latona, che nacque {p. 300}gemella con Apollo nell’isola di Delo. Callimaco nel bell’inno di Diana dice che Giove amò assai questa sua figliuola specialmente per la sua verginità ; e ch’egli le avea donato l’arco, gli strali ed il drappello di sessanta ninfe Oceanine per suo corteggio, oltre venti altre che le custodivano l’arco, i coturni ed i cani. Le concesse pure di presedere alla caccia, alle vie ed a’parti. Quindi ella riuscì abilissima a tirar l’arco, amava i boschi ed i monti e feriva i cervi al corso. In breve, la caccia era la sua passione, ed ella era la Dea de’cacciatori, e delle foreste. Or siffatta passione per la caccia fu fatale a Cencria, fig. della ninfa Pirene, il quale fu dalla Dea che cacciava, per imprudenza ucciso, di che la madre sparse tante lagrime da farne un fonte che portò poscia il suo nome ed in cui dicesi che fu ella convertita. Nè meno funesto fu il fato di Atteone, nipote di Cadmo e fig. di Aristeo, re di Arcadia, e di Autonoe. Era nella Beozia una valle ombrosa chiamata Gargafia con un limpidissimo fonte detto Partenio. In esso Diana, stanca per la lunga caccia, in un bel giorno di està, si lavava. Or Atteone che là vicino passava coi suoi veltri, seguendo l’orme di una fiera, fu da Diana trasformato in cervo ; nel qual sembiante veduto dai suoi cani, fu da essi miseramente lacerato. Apollodoro dice, essere stati cinquanta que’ cani che Diana rese rabbiosi contro l’infelice Atteone.

III.Continuazione – Carattere di Diana – Cinghiale Caledonio. §

Da non pochi fatti della storia favolosa di questa Dea si scorge che il suo carattere era quello di una Dea gelosa della sua bellezza, non che della sua virtù, e degli omaggi degli uomini, vendicativa, implacabile ed inchinevole a punire coloro che l’oltraggiavano. Ed i sacrificii di vittime umane di cui si compiaceva, ce la fanno credere anche crudele.

Chione, fig. di Dedalione, chiamata da altri Filonide, ebbe la follia di vantarsi più bella di Diana ; la quale di ciò sdegnata la uccise con uno strale. {p. 301}Dedalione per dolore si precipitò da una rupé del Parnaso, ma Apollo per compassione il cangiò in isparviere(1). Le figliuole di Niobe, come si disse nell’articolo di Apollo, furono da Diana nella propria reggia uccise a colpi di freccia per averla dispregiata a cagione della sua veste corta a foggia di uomo. Di Orione ancora raccontasi che avendo oltraggiata la nostra Dea, fu da essa di presente ucciso colle saette, o da uno scorpione ch’essa fece uscire dalla terra. Orione da Giove fu posto fra le costellazioni, il cui levare e tramontare suol essere accompagnato da piogge ; e però chiamasi da Virgilio procelloso, ed il Petrarca cantò :

Allor riprende ardir Saturno e Marte,
Crudeli stelle, ed Orione armato
Spezza a’tristi nocchier governi e sarte.

Ma fra tutte le altre strepitosa fu la vendetta che fece Diana di Eneo, re di Caledone o Calidonia, città della Grecia ; favola assai conta fra gli antichi poeti. Egli fu fig. di Partaone, o di Porteo (Πορθευς. Hom.) e di Eurite, fig. d’Ippodamante, ed avea sposata Altea, fig. di Testio, dalla quale ebbe Meleagro, Deianira e Tideo. Di Meleagro raccontasi che, sette giorni dopo la sua nascita, apparvero ad Altea le tre Parche, le quali filavano lo stame fatale di quel fanciullo, e che vaticinando avessero detto : Durerà la vita di questo fanciullo fino a che durerà questo fanciullo fino a che durerà questo acceso tizzone. Spaventata la madre, e preso di fretta il fatale tizzone, il nascose in una cassa. Eneo intanto in tempo della messe avea fatto dei sacrificii a tutt’i numi, fra’quali sola Diana fu a bella posta trascurata. La Dea per fare di tanto oltraggio una vendetta degna di lei, fece uscire di una foresta presso la città di Caledone, un cinghiale mostruoso e di straordinaria ferocia, celebrato sotto il nome di cinghiale Caledonio. Il quale orribilmente devastando quelle contrade faceva strage di armenti e di uomini e così impediva la coltura de’ campi. A liberare da tanto {p. 302}flagello quelle contrade, Meleagro, già divenuto uno dei più valorosi eroi della Grecia, invita il fiore de’ giovani guerrieri e bandisce una caccia non mai veduta per uccidere il mostruoso cinghiale. Questa famosa caccia fu posteriore alla spedizione del vello d’oro, e quasi tutti gli eroi che presero parte alla prima, non mancarono di cercare argomento di gloria in quella caccia, giacchè ne’ tempi eroici la forza ed il coraggio eran solamente strada alla immortalità. Oltre Castore e Polluce, Giasone, Piritoo e l’amico Teseo, di cui dicevasi che non vi era impresa senza Teseo, vi eran Plesippo e Tosseo, fig. di Testio e fratelli di Altea, e Telamone, e Peleo, padre di Achille ; ed oltre più altri la quanto bella, altrettanto valorosa Atalanta, ch’era di Arcadia e fig. di Giasio, re degli Argivi, compagna di Diana, velocissima nel corso e sì valente cacciatrice che Ovidio la chiama onore de’boschi. Riunito sì nobile drappello di eroi, si diede la caccia alla feroce belva. Anfiarao, sacerdote di Febo, fu il primo a ferire quel mostro ; ma Diana ne allontanò il colpo ; nè quello di Castore e Polluce fu più felice. Lo strale che dovea ucciderlo, fu lanciato dalla giovane Atalanta ; di che ebbero vergogna que’ forti eroi. Meleagro che avea con uno spiedo trapassata la belva da un fianco all’altro, ad Atalanta diede il teschio e la spoglia dell’ucciso cinghiale, cose che in que’ tempi si desideravano quasi argomenti di fortezza, come le spoglie de’vinti nemici. Ma i fratelli di Altea, mal soffrendo che il premio del valore si fosse dato ad una donzella, violentemente le tolgono la pelle dell’ucciso cinghiale ; di che sdegnato Meleagro non dubitò di uccidere i fratelli della madre ; la quale, udito l’indegno fatto, fluttuante fra l’amore del figliuolo e quello degli estinti, questo prevalendo, pose nel fuoco il fatale tizzone delle Parche, consacrando alle Furie la vita dell’infelice Meleagro, il quale finì consumandosi a poco a poco, come quel tizzone si consumava nel fuoco. Pel dolore di sì acerbo fato due sorelle di Meleagro furono da Diana cangiate in quella specie di galline che noi chiamiamo di Faraone e che forse è l’uccello Africano (Afra avis) di Orazio.

{p. 303}Fra gli antichi monumenti ci restano varii bassirilievi e statue che rappresentano Meleagro. Il Museo Pio–Clementino ne possedeva una statua che ora trovasi in quello delle Arti a Parigi ed è stimata uno dei primi capi d’opera dell’antichità. Nel giardino delle Tuilleries vi è una statua di Meleagro, il quale è appoggiato ad una lancia ed ha appresso a se il suo cane ; ed a’ suoi piedi è il teschio dell’ucciso cinghiale. Nel Museo Borb. si ammira un dipinto di Pompei, in cui vedesi al dorso di una montagna su di una colonna allogato un simulacro di Diana : siede Meleagro in mezzo al dipinto, e forse parla con Atalanta. A’piedi dell’eroe è la testa dell’enorme bestia e due cani ; e vi si veggono due uomini che pensierosi guardano, ove Meleagro fa ad Atalanta il dono fatale, che sono certamente i fratelli di Altea.

IV. Continuazione – Oreste ed Ifigenia. §

Si offerivano a Diana i primi frutti della terra, buoi, montoni, cervi ec. ed anche vittime umane ; il che dinotava in questa Dea un’indole crudele. Cosi gli Achei le sacrificavano un giovane ed una donzella ; ed a Sparta le s’immolava ogni anno un uomo. Ma nella Tauride, paese della Scizia, pareva che Diana fosse stata più avida di sangue umano ; e quivi i suoi sacrificii partecipavano della fierezza di que’ popoli. Non lungi da noi, diceva l’esule di Sulmona(1), è un luogo detto la Tauride, ove l’ara della faretrata Dea di crudeli vittime si pasce ; ed il bianco marmo di essa dello sparso sangue de’ forestieri rosseggia. Ed Erodoto afferma (2) che i popoli della Tauride ad una vergine immolavano qualunque naufrago o Greco, che fosse in quelle inospitali contrade capitato ; e che quella vergine credeva essere Ifigenia, di cui e di Oreste ecco la celebre favola.

{p. 304}Agamennone avea offesa gravemente la nostra Dea coll’uccidere nella caccia una cerva a lei consacrata e per essersi vantato che Diana stessa non avrebbe tirato un colpo più sicuro. Or eletto egli supremo duce de’ Greci contro Troia, per una gran fortuna di mare suscitata dall’ira di Diana, era trattenuto colla flotta in Aulide, città di Beozia sull’Euripo. Allora si consultò. Calcante, indovino, senza il cui consiglio non fu in quella guerra intrapresa cosa alcuna da’Greci ; il quale dichiarò che Diana opponevasi al loro tragitto in Asia ; e che perciò doveasi placare col sacrificio d’Ifigenia, fig. di Agamennone ; il quale ricusò di ubbidire, ma dovè cedere ; ed Ulisse con Diomede furon mandati alla madre Clitennestra per prendere l’infelice donzella, la quale giunta in Aulide fu con gran pompa portata all’altare della Dea per esservi immolata ; ma questa mossa a pietà dell’ innocente fanciulla, la tolse al sacrificio, ricoprendola di folta nebbia e sostituendo in suo luogo una cerva, ed un toro ; ed essa per aria fu portata nella Tauride, ove nel tempio di Diana esercitò le funzioni di sacerdotessa. Alcuni antichi scrittori (1) dicono che Ifigenia fu veramente sacrificata. Nè dee ciò recar maraviglia, poichè il Pottero(2) dimostra che anche i Greci qualche volta ebbero il barbaro costume di sacrificare agl’Iddii vittime umane. Or a que’di nella Tauride regnava Toante, il quale destinò Ifigenia a sacrificare sull’altare di Diana gli stranieri che nei confini del suo regno capitavano. Ma uno strano avvenimento tolse la vergine da que’ barbari luoghi.

Oreste era fig. di Agamennone, e di Clitennestra, fig. di Tindaro, re di Sparta, la quale coll’aiuto dello scellerato Egisto uccise il proprio consorte. Allora fu che Elettra, di lui sorella, vedendo il fanciullo Oreste in pericolo di essere dalla madre trucidato, mandollo segretamente nella corte di Strofio, re della Focide, che avea per moglie una sorella di Agamennone. Il quale {p. 305}accolse il giovanetto principe con molta amorevolezza e lo fece educare con Pilade, suo figliuolo ; per cui fra questi due principi si strinse un’amicizia si grande, che cresciuta coll’età fu una delle più famose amicizie della Grecia. Oreste intanto già adulto si propone di vendicare l’uccisione del padre, e coll’aiuto di Pilade uccide Egisto insieme colla propria madre Clitennestra. Commesso l’esecrando parricidio, tosto si turbò la mente dell’infelice Oreste ; piombano sopra di lui le furie infernali armate di serpenti, i cui occhi infiammati stillavano sangue ; e notte e giorno l’inseguono, mentre alle sue orecchie risuonano di continuo le grida della madre uccisa. I greci poeti non poteano con più vivi colori porre avanti gli occhi del popolo lo stato spaventevole di un cuore tormentato da’rimorsi. Or l’infelice principe, accompagnato dalle Furie, abbandona Argo e va in Delfo a consultare l’oracolo, dal quale seppe che per liberarsi da quel tormento, recar si dovea nella Tauride dal re Toante, rapire da quel tempio il simulacro di Diana e trasportarlo in Argo. Avuta questa risposta, coll’amico Pilade tosto s’imbarca, e giunti a’confini della Tauride, furon presi e condotti a Toante e portati al tempio di Diana per esservi immolati. Allora i due generosi amici danno a que’ barbari uno spettacolo tutto nuovo ; perchè essendo Pilade ed Oreste simili nel sembiante, nella statura ed in tutt’altro, e volendo Toante dar morte ad Oreste, tanto questi, che Pilade affermavano di essere Oreste, perchè l’uno volea per l’altro morire(1) Ma il Re mosso da sì generosa gara, volle amendue salvi dalla morte. Ovidio(2) dice che Ifigenia, vicina a sacrificare i due stranieri, dal linguaggio conobbe ch’eran greci ; e che la sacerdotessa stessa propose che uno di loro fosse immolato e rimandato l’altro libero alla sua patria ; il che diede occasione alla gara de’ due amici. Or ella dà una lettera diretta al fratello Oreste che credeva in Argo ; e ciò fu cagione di riconoscersi con indicibile allegrezza. {p. 306}Allora senza indugio pensano di fuggire da que’barbari lidi, dal tempio rapiscono il simulacro della Dea e lieti ritornano alla patria. Questa favola non ritrovasi in Omero ; ma i casi di questa principessa e della famiglia di Agamennone formano il soggetto di molte tragedie ; e l’Ifigenia in Tauride è una delle più belle di Euripide.

V. Varie incumbenze di Diana. §

Abbiam di sopra avvertito che Diana era Dea della caccia. Perciò portava la veste succinta e quindi fermata con una zona o cintura. Senofonte(1) scrive che la caccia ed i cani da caccia erano stati invenzione di Apollo e di Diana. La quale tutto dì era intesa a cacciare, ed abitava in mezzo a’boschi, accompagnata da una muta di cani e da un drappello di ninfe, specialmente Oreadi, anche cacciatrici. Perciò fu detta da Orazio vergine custode de’monti e delle foreste ; e Callimaco dice che a questa Dea sono a cuore gli archi, ed il ferir lepri, e le liete danze su per le montagne ; anzi che a Giove cercò quasi per retaggio tutt’i monti. Omero(2) descrive Diana che scorre pei monti, e tra questi nomina il Taigete e l’Erimanto, dilettandosi di ferire i cervi ed i cinghiali. E si noti che presso i Greci nella caccia delle lepri, per ciascuno si pagavano due oboli al tesoro di Diana. Vi era ancora una danza solita a farsi in onore di questa Dea dalle donzelle che prendevansi tutte in giro per le mani ; la quale credevasi molto cara alla Dea. In Delo ed in altre città della Grecia vi erano danze in onore di Apollo e di Diana Cacciatrice ; e presso Euripide nelle Troadi si descrivono le fanciulle che al suono delle tibie danzano tutte unite ed in giro in onore di Diana. Molte ninfe e Marine, e Fluviatili, ed Oreadi ec. volle la Dea al suo servigio, perchè amava con esso loro danzare ; sotto la quale allegoria forse intendevano la comitiva delle stelle, compagne della Luna, ch’era {p. 307}simboleggiala da Diana. « Presso i Greci moderni, dice Guys(1), vedesi tuttora un’esatta immagine de’cori delle Ninfe greche che tenendosi per la mano danzano sul prato o nel bosco nella stessa guisa che dai poeti ci venne rappresentata Diana su’monti di Delo o sulle sponde dell’ Eurota in mezzo alle ninfe, sue seguaci ».

Diana oltre a ciò presedeva a’parti, deta perciò da Macrobio (2) duce di coloro che nascono e de’mortali corpi autrice. Da Catullo chiamasi Giunone-Lucina, perchè l’una e l’altra Dea presedeva a’parti ed alla nascita ; e Plutarco (3) mette nel numero degli Dei nuziali anche Diana o Lucina ; e con Diana a’parti ed alle nozze presedevano eziandio le Parche. Le parturienti l’invocavano ne’ dolori del parto, e forse tre volte (4). Quindi Ovidio (5) per dire che Evippe avea nove figliuoli dice che essa nove volte avea chiamata Lucina in aiuto. Da un luogo di Orazio(6) si scorge che quantunque presso i Latini Ilitia era la stessa che Giunone-Lucina, pure talvolta l’invocavano sotto il suo nome greco.

Finalmente Diana presedeva alle vie, ed era come ispettrice e custode de’porti(7) ; e per ciò il simulacro di lei era collocato in capo alle vie ed anche avanti gli usci delle case. Ciò si scorge eziandio da moltissime medaglie coll’immagine di Diana battute dalle città marittime di Efeso, di Smirne, di Napoli ec.

VI. Culto prestato a Diana – Tempio di Efeso. §

Il culto di Diana fu molto esteso ed antico. Dalla Media negli antichi tempi si sparse lungo le coste del {p. 308}Mar Nero, e nell’Asia Minore, ove si confuse con quello di Cibele. Nella Scizia fu adorata sotto il nome di Diana Taurica, cui si offerivano vittime umane ; passò nella Grecia e fu l’ Artemide di quel paese ; ed i Romani l’invocarono col nome di Diana. Il novello culto de’figliuoli di Latona perseguitato da’sacerdoti delle antiche Divinità, fu bene accolto nell’isola di Delo, ov’era un altare di Apollo, da lui stesso fatto colle corna delle capre uccise da Diana sul monte Cinto, che era una delle maraviglie del mondo. Essa fu pure assai venerata in Aricia, città del Lazio, edificata da Ippolito, fig. di Teseo, e di Antiope. Nella Grecia non vi era borgo o città che non avesse tempii e simulacri della nostra Dea ; ma pare che il culto di lei avesse avuto la principale sua sede in Efeso, famosa città della Gionia, ove in suo onore celebravansi le feste dette Efesie. Ciò si pruova dal fatto di Demetrio(1), capo degli orefici che vivevano del lucro ricavato da certi tempietti di argento ch’essi vendevano, ne’ quali era il simulacro di Diana e l’effigie del tempio di Efeso. Il quale, vedendo che S. Paolo allontanava il popolo da quel superstizioso culto, suscitò grave tumulto fra quegli artefici, dicendo che per opera di Paolo si perdeva l’onore prestato al tempio della grande Diana degli Efesii e che cominciava ad obbliarsi la maestà di esso venerata dall’Asia tutta, anzi da tutto il mondo (2). In quella città adunque era il tempio di Diana Efesina, il più magnifico ed il più ricco che mai vi fosse stato sulla terra, noverato perciò fra le sette maraviglie del mondo. In esso l’ordine Gionico fu posto per la prima volta in uso(3) ; e tutta l’Asia concorse ad ornarlo ed arricchirlo con quanto avea di più prezioso(4). Vi {p. 309}erano 127 colonne del più bel marmo, dono di altrettanti re dell’ Asia, e la statua della Dea era di ebano o di legno di cedro. Erostrato, uomo di oscuri natali, desiderando di acquistare celebrità al suo nome, incendiò quel gran tempio. I magistrati di Efeso proibirono con gravi pene di porre il suo nome nelle pubbliche carte ; ma ciò non impedì che quel nome fosse tramandato alla posterità insieme colla storia dell’incendio di quel tempio(1).

VII. Iconologia di Diana. §

Diana, come Dea della caccia, si vede sempre in una biga tirata da due cervi velocissimi ; ovvero, in lunga verginal veste discinta, cavalca una cerva. I poeti tanto al sole che alla luna assegnano il trono di oro ; ma sembra più proprio di Diana il trono di Argento. In un’antica medaglia di Perga, in Panfilia, la Dea ha il capo coronato non di dittamo, ma di alloro ; sta in piedi, in abito succinto, con una corona di lauro nella destra, colla sinistra appoggiata ad un’asta e con un cervo a’piedi. Si rappresentava eziandio, specialmente de’trivii, con tre capi, perchè la Luna in cielo, Diana in terra, e Proserpina nell’inferno sono una medesima divinità.

Secondo il Millin, Diana, in una bella pittura, è seguita dalle Ninfe, sue compagne, dalle quali si distingue per la mezza luna, ond’ha fregiato il capo. Presso Virgilio(2), Didone si rassomiglia leggiadramente a Diana che, lungo la riva dell’ Eurota o sul monte Cinto, da cento e cento Oreadi accompagnata, esegue le sue danze, colla faretra su gli omeri, tutte le altre seguaci superando colla sua nobile statura. Sulla maggior parte delle medaglie antiche, dice Noel, vedesi Diana in abito da caccia, co’capelli annodati addietro, il turcasso su gli omeri, un cane a’fianchi ed un arco teso in atto di scoccare una {p. 310}freccia. Una statua del Museo Napoleone rappresenta Diana cacciatrice, calzata di ricco coturno ; posa una mano sulla faretra, tiene con l’altra l’arco, ed afferra per le corna una cerva. Dice Millin che le due trecce che formano la pettinatura di Diana e che vengono a congiungersi ed attaccarsi sulla sommità del capo detta corimbo, la rendono facile ad essere distinta, fra tutte le statue, ancorchè non avesse alcun altro de’suoi attributi.

VIII. Principali epiteti di Diana. §

Agrotera, gr. αγροτερα, presso Omero, cioè cacciatrice ; αγραυλος, che pernotta nella campagna ; o ουρεια, montana, montivaga, e negli Epigrammi, αγροτις κουρα, donzella cacciatrice.

Aricina, così detta dalla selva di Aricia, ove avea un culto particolare.

Aventina, dal tempio che la nostra Dea aveva sul monte aventino.

Cinzia, Cynthia, dal Cinto, monte dell’isola di Delo, ove nacque con Apollo. Dicevasi pure Delia.

Διδυμος, gemella, chiamasi da Pindaro, perchè nata ad un parto con Apollo.

Dittinna, Dictynna, gr. δικτυννα (a δικτυον, rete), dalle reti da caccia.

Efesia, dal magnifico tempio che avea in Efeso.

Elafiea, soprannome di Diana, col quale era adorata in Elide e che significa cacciatrice di cervi cervus et βολος, iactus. Il decimo mese dell’anno, o Marzo, dagli Attici dicevasi Elafobolione, perchè mese della caccia (ελαφος, cervus, et βολος, iactus).

Facelis da fax, facis, fiaccola, perchè Diana talvolta si rappresenta con una fiaccola in mano per significare Io splendore della luna. Perciò fu detta anche Lucifera e Fosfora (a φως, lux, et φερω, fero).

Faretrata(1), dalla faretra o turcasso che portava, come Dea cacciatrice.

{p. 311}Ilitia, lat. Ilithya, Ειλειθεια, da ελευθω, venio, quasi voglia dire, io vengo alla luce, io vengo nel mondo.

Lucina dicevasi Diana come Dea de’ parti, perchè il parto per opera sua veniva alla luce.

Diana saeva dicesi da Ovidio(1), perchè Dea vendicativa, iraconda ed avida di sangue.

Virgo per eccellenza chiamasi la nostra Dea da’ poeti(2), e Latonia Virgo da Virgilio(3).

Triformis Diva, τριμορφος, ch’è il Triceps, o Triplex de’ Latini, cioè Dea dalle tre teste. Fu pure detta Trivia, τριοδος, col qual soprannome le si offerivano de’ sacrificii ne’ Iuoghi, ove ponevano capo tre strade.

IX. Alcune altre cose di Diana. §

Callimaco pone al servizio di Diana venti ninfe dette Annisiadi, le quali avean cura de’ calzari venatorii della Dea e de’ suoi cani, attaccavano al cocchio di lei le cerve e le distaccavano ec. Secondo Virgilio(4) le fanciulle di Tiro godevano di portare siffatti calzari a mezza gamba che ben convenivano a donzelle cacciatrici.

Fra le piante erano sacri a Diana il papavero ed il dittamo ; e fra gli animali, la cerva ed il cinghiale. Da Ovidio i cani si chiamano turba Diania ; e gli strumenti da caccia, arma Diania.

Eroi e semidei. §

Notizia generale de’ tempi favolosi ed eroici della Grecia. §

L’antica Grecia avea ben molte ragioni per abbellire la sua origine col maraviglioso delle favole. Furono quindi i primi albori di quel gran popolo come un riflesso di gloria che gli veniva dall’eroismo de’suoi fondatori e de’suoi primi sovrani ; e la storia di quel {p. 312}tempo che passò dalla fondazione degli antichi regni della Grecia, sino a che l’un dopo l’altro divennero regolate repubbliche, non è che un quadro maraviglioso di favole bellamente dipinto dalla vivace fantasia de’ greci poeti su di un fondo istorico ; una tela di Eroi e di Semidei, colla quale la greca poesia ha saputo trarsi sopra l’ammirazione di tutt’i secoli. E quest’ammirabile poesia ben seppe appagane l’ambiziosa vanità greca ; poichè, avendo essi un’origine oscura ed ignobile, come quelli che discendevano da uomini, i quali, a guisa di fiere, viveano senza freno di leggi e senza coltura, finsero che i loro maggiori venivano da uomini preclari, detti Eroi, nati dagl’Iddii o generati dalla terra. E poi, vedendo essi alcune loro opere veramente grandi ed eroiche, come di Ercole sappiamo, di Teseo, di Minos e di tanti altri, non gli stimarono mortali, ma dissero ch’eran discesi da qualche nume. A ciò si aggiunge che gli scrittori delle prime loro memorie erano poeti che cantavano i grandi avvenimenti della patria, ed i loro versi si mandavano a memoria ; il loro linguaggio era sommamente poetico, e pieno di sublimi immagini e di audaci metafore ; il loro bel cielo, il suolo, tutto era fatto per innalzare a grandi slanci la loro fantasia. Così i sommi uomini erano trasformati in Eroi di divina origine ; e que’ vecchi tempi divennero un informe ammasso di stranissimi avvenimenti e di favolose tradizioni. Ora è qui da notare che l’epoca degli Eroi della Grecia, ricca di memorandi fatti, de’ quali la storia ci aprirà un bel campo di dilettevoli conoscenze, termina colla guerra di Troia ed arriva sino alla fondazione del regno di Sicione, forse il più antico degli altri tutti. Si osservi in fine che Eroe (Ηρως, Heros) ne’ tempi favolosi dicevasi un uomo che si era reso celebre per prodigiosa forza, o per una serie di belle azioni, ed a cui dopo la morte prestavansi onori divini. Davasi poi il nome di Semidei (ημιθεοι) agli Dei di second’ordine che traevano la loro origine da’Numi. Da Esiodo(1) si {p. 313}appellano gli Eroi divina generazione di uomini che diconsi Semidei ; ma Omero dà questo titolo a tutt’i Greci.

Or, come vuolsi, Ercole fu il primo de’mortali adorato in vita per Iddio ed a cui furon fatti tempii ed altari ; e chiunque era forte e valoroso, dicevasi Ercole, quasi fosse questo nome l’espressione generale della fortezza. Ragion vuole adunque che di lui si parli in primo luogo.

Ercole o Alcide. §

Ercole (Hercules) detto da’ Greci Ηρακλης, cioè glorioso, chiamasi pure Alcide da αλκη, robustezza. Varrone annovera molti Ercoli, e Cicerone sei ; ma il più celebre è l’Ercole Tebano, fig. di Giove e di Alcmena, o di Anfitrione e della detta Alcmena. Gli Autori Inglesi della Storia universale ed il Lavaur credono che la maggior parte delle decantate imprese di Ercole sieno state ritratte dalla storia di Sansone, seguendo le orme di S. Agostino, il quale sostiene che da Sansone principalmente, per la prodigiosa sua forza, i poeti hanno foggiato il loro Ercole, prima in Egitto, indi nella Fenicia, e finalmente nella Grecia. Egli poi era il tipo ideale della fortezza e della ferocia portata oltre l’ordinario ; per cui, parlandosi di uomo robustissimo, suol dirsi ch’egli è un Ercole ; e fatica erculea dicesi di fatica grandissima.

Or quest’eroe fin dall’infanzia mostrò la grandezza della sua forza. Giunone mandò per divorarlo due orribili serpenti, mentre egli era ancora in culla ; ed Ercole, senza restar punto atterrito, li uccise. Plinio(1) parla di un Ercole fanciullo che vuolsi opera della mano di Zeusi ; ed in una pittura di Ercolano si vede Ercole bambino che strangola i due serpenti mandati da Giunone.

Ercole ebbe molti maestri, avendo imparato a tirar l’arco da Radamanto e da Eurito ; e da Castore, a {p. 314}combattere tutto armato ; Chirone l’ammaestrò nell’astronomia e nella medicina, e Lino, a suonare la lira. Fatto adulto e cresciuto, di straordinaria statura e di forza stragrande, avvenue, come racconta Senofonte(1), che uscito il giovane eroe nella solitudine a deliberare se fosse stato meglio seguire la via della virtù o quella del vizio, mentre incerto e pensieroso medita sul partito da abbracciare, gli apparvero due donne di grande statura, una di sembianza nobile ed avvenente, e l’altra, di colore e di sembianze non naturali e con veste soperchiamente ornata. La prima era la Virtù, la seconda la Voluttà, ciascuna delle quali procurando di guadagnarlo colle promesse, Ercole abbracciò il partito di seguire la prima. Dopo ciò l’eroe si presentò ad Euristeo, fig. di Stenelo, il quale, avuta la signoria di Micene, guardava Ercole con somma gelosia, poichè questi avendo dritto alla corona, come fig. di Anfitrione, facealo forte temere di essere da lui sbalzato dal trono. Quindi a ragione Euristeo fece ogni sforzo per disfarsi di siffatto competitore.

Accortosi di ciò Ercole e vedendosi gravato di tante pericolose imprese, consultò l’oracolo, da cui ebbe risposta, essere volontà degl’Iddii che servisse Euristeo per dodici anni. Il quale gl’impose dodici ardue imprese che diconsi i dodici travagli o fatiche di Ercole (αθλα, aerumnae. Petron.).

La prima fatica fu l’uccisione di un leone di enorme grandezza ch’era in una selva d’Acaia detta Nemea, e che si appella il leone Nemeo. Il quale essendo invulnerabile per la sua pelle durissima, Ercole con inudito valore, presolo pel collo, lo strozzò e vestissi della sua pelle. Furono per ciò istituiti celebri giuochi detti Nemei che si celebravano in quella selva. La seconda fu l’uccisione dell’Idra (lat. excetra) che vivea in Lerna, palude dell’Argolide, o dell’Arcadia, secondo Virgilio. La quale nudrita nella palude, ne usciva per infestare gli uomini e gli armenti. {p. 315}Enorme era la grandezza di quel mostro che avea sette teste, ed anche più, secondo alcuni. Dice Igino che il veleno di questo serpente era sì pestifero che il solo alito uccideva i viandanti. Ercole l’assalì colla sua clava, ma indarno, perchè mentre abbatteva un capo, ne rinascevano due(1) ; ma finalmente l’uccise, avendole reciso il collo con un sol colpo. Del suo velenoso fiele Ercole intinse le saette che facevano ferite immedicabili, del quale morì egli stesso. La terza fatica fu quella di portar viva a Micene la cerva Cerinitide che avea le corna d’oro ed era consacrata a Diana. L’eroe l’inseguì per un anno, non volendola uccidere nè ferire ; ma finalmente nel passaggio del Ladone, già stanca la ferì, e sulle spalle, col beneplacito di Diana, la portò viva a Micene. Questa cerva da’ Greci chiamasi da’piè di bronzo(2), per dinotare la robustezza e velocità de’ suoi piedi.

In quarto luogo portò vivo sulle spalle il cinghiale Erimanzio, il quale, dall’Erimanto, monte di Arcadia, sbucando, devastava il paese della Psofide. Alcuni dicono che l’avesse ucciso. La quinta fatica fu quella di ripurgare la stalla di Augia, fig. di Elio e re di Elide, il quale, avendo un bovile ampissimo con tremila buoi che per trenta anni non era stato purgato, promise ad Ercole la decima parte de’suoi armenti, se in un giorno l’avesse nettato ; il che fu dall’eroe eseguito, facendo passare il fiume Alfeo, o il Peneo, a traverso di quella grande stalla. Ma Augia, non volendo stare a’ patti, fu da Ercole ucciso. Da ciò il proverbio : nettare la stalla di Augia(3), che vuol dire, fare un’opera d’immensa fatica. La sesta fu quella di purgare il lago Stinfalo, dell’Arcadia, dagli uccelli di rapina che si pascevano di carne umana, i quali furon [dal nostro eroe colle saette uccisi, e discacciati da quella palude col suono di campanelli di bronzo fatti da Vulcano e che aveagli donato Minerva. Questi uccelli, perchè {p. 316}pugnacissimi, si disse ch’eran nati da Marte. In settimo luogo gli fu ingiunto di prendere il famoso toro di Creta ; nella quale spedizione aiutò Giove ad atterrare i Giganti, e riconciliò con lui Prometeo, avendolo disciolto dal monte Caucaso. Virgilio(1) dice che Ercole uccise quel toro ; ma i più vogliono ch’ei lo portò vivo ad Euristeo. Tolse in ottavo luogo dalla Tracia le giumente di Diomede, fig. di Marte e di Cirene, e tiranno crudelissimo de’ Bistonii, popolo bellicoso di una parte della Tracia, il quale le tenea legate con catene di ferro e le alimentava della carne di coloro che passavano per que’ luoghi. Ercole, avendo prima condannato l’inumano tiranno ad essere da quelle lacerato, le condusse ad Euristeo che le consacrò a Giunone.

La nona fatica fu quella di togliere il cingolo ad Ippolita, regina delle Amazzoni, il quale diceasi la cintura di Marte, di cui ella era figliuola. Ercole, ricevuto il comando di Euristeo, assalì e vinse il popolo bellicoso delle Amazzoni, e fatta prigioniera Ippolita, portò la famosa di lei cintura ad Admeta, fig. di Euristeo, ch’era tanto vaga di possederla. La decima fu quella d’impadronirsi de’ buoi di Gerione, fig. di Crisaorre e di Calliroe, una delle Oceanidi. Era egli un gigante a tre corpi o a tre teste, dette perciò tergemino mostro(2), tricorporeo(3), e tricipite da Esiodo, e regnava nelle isole Baleari, o nella Spagna. I tre corpi erano forse tre fratelli che viveano con tanta amorevolezza ed armonia che sembrava che avessero un’anima sola ; o perchè egli regnava sulle tre isole dette Baleari, Maiorica, Minorica ed Ivica. Ercole uccise Gerione e ne portò via i bellissimi armenti per offrirli ad Euristeo. L’undecima fatica fu quella di cogliere i pomi d’oro del giardino delle Esperidi ch’era vicino al monte Atlante. Un dragone dalle cento teste e che teneva gli occhi sempre aperti, li custodiva. Or racconta Apollodoro che il nostro eroe giunto nel paese {p. 317}dell’Esperidi, per avviso di Prometeo, fece sì che Atlante fosse andato a cogliere le poma d’oro nell’atto ch’esso sugli omeri suoi sosteneva il cielo invece di lui ; sebbene altri affermano che Ercole stesso, ucciso il drago, avesse colti quegli aurei pomi e portatili ad Euristeo. Finalmente calò all’inferno per trarne fuori il can Cerbero(1). Egli andò al Tenaro, promontorio della Laconia, ov’era la porta del Tartaro, e per quel luogo vi penetrò ed a viva forza condusse il tricipite mostro a Micene, ove, dopo averlo mostrato ad Euristeo, il ricondusse all’inferno. In non pochi monumenti si osservano rappresentati i travagli di Ercole. Un bassorilievo, dice Millin, fa vedere l’eroe che saetta gli uccelli di Stinfalo, che abbatte l’idra e che s’impadronisce de’ pomi d’oro dell’Esperidi. Un bel vaso di marmo del Card. Albani rappresenta in rilievo le varie fatiche di Ercole ch’egli rassegna alla presenza di Euristeo.

Ma, oltre queste dodici fatiche, innumerevoli altre imprese di Ercole si raccontano. Egli debellò i giganti che assalirono il cielo ; giacchè essendo ne’libri del fato che senza l’ainto di un mortale non potean esser vinti, per consiglio di Minerva Giove chiamò Ercole in aiuto, ed egli uccise Alcioneo e Porfirione ch’erano i principali fra que’ mostri. Famoso è poi il combattimento che per Deianira, fig. di Eneo, re di Caledonia, ebbe a sostenere con Acheloo, fiume della Grecia ed il maggior fig. dell’Oceano e di Teti, il quale si trasformò prima in serpente, e poscia in toro ; ma Ercole lo vinse e gli tolse un corno, di cui le ninfe, dopo averlo ripieno di frutti e di fiori, fecero il Cornucopia, o corno dell’abbondanza. Si noti che gli antichi davano a’ fiumi capo e corna di toro ; e negli antichi monumenti(2) Acheloo vedesi col capo fornito di corna. Pausania descrive un monumento ch’era a Megara, il quale rappresentava la pugna di {p. 318}Ercole coll’Acheloo, in cui Marte era dalla parte del fiume, e Minerva, da quella di Ercole. Uccise Eurizione, Centauro, fig. d’Issione, che pretendeva di sposar la detta Deianira ; e nelle nozze di Piritoo fece strage de’ Centauri, i quali ubbriachi, avendo fatto insulti non leggieri a Deidamia, sposa di quell’eroe, erano venuti ad un serio combattimento co’ Lapiti. Delle sue spedizioni stabilì pure un termine nelle così dette colonne di Ercole, ch’erano i due monti Abila e Calpe, uno in Africa e l’altro in Europa sullo stretto di Gibilterra. Quivi giunto il figliuol di Giove e credendo che que’ due monti fossero il termine del mondo, vi fece innalzare due colonne, dette da Plinio meta de’ viaggi di Ercole. Innumerevoli altre imprese si attribuiscono a quest’eroe che troppo lungo sarebbe qui riferirle tutte ; per cui ora della morte di lui favelleremo.

Ercole, per comando dell’oracolo, abitar dovea nella città di Tirinto ch’era vicina ad Argo e da cui fu detto Tirinzio(1). Or viaggiando colla moglie Deianira per recarsi a quella città, e giunti al fiume Eveno che allora per molte acque era gonfio, Ercole il passò a nuoto, e Deianira, sulla groppa del Centauro Nesso. Ma l’eroe, da lui insultato, con un dardo il ferì nel petto ; il quale, vicino a morire, diede a Deianira la sua camicia tinta del proprio sangue, facendole credere che se mai Ercole l’avesse indossata, cresciuto sarebbe l’amor suo verso di lei. Ma a quel sangue era misto il veleno dell’Idra di Lerna, di cui eran tinte le saette dell’eroe. Or dopo qualche tempo accadde che Deianira per conciliarsi vie più l’amore dello sposo, gli mandò per Lica, di lui servo, il fatale regalo della camicia di Nesso. Della quale vestito, sentendosi tutto bruciare, gittò nel mare l’infelice Lica ; e recatosi sull’Eta o Oeta, monte della Tessaglia, degli orrendi suoi ululatì riempì que’ luoghi ; e vinto finalmente dall’acerbità de’suoi dolori, fatto un rogo e postavi sopra la pelle del leone Nemeo e la sua clava, vi fece attaccar fuoco da {p. 319}Filottete, fig. di Peante, al quale donato avea la faretra e le avvelenate saette, senza le quali, secondo l’oracolo, non potea Troia espugnarsi, e vi morì sopra. Così il fuoco consumò quanto vi era di mortale nel figliuolo di Giove, per volere del quale fu egli ammesso nel numero degli Dei ed allogato fra gli astri. Apollodoro dice che una nube lo accolse con un gran tuono e lo portò in cielo, ove sposò Ebe, Dea della gioventù e coppiera di Giove.

L’albero consacrato ad Ercole era il pioppo, di cui si coronavano i suoi sacerdoti e gli eroi che aveano operato famose imprese. Sopra i monumenti, dice Noel, Ercole vien rappresentato ordinariamente co’ tratti di un uomo forte e robusto, colla clava in mano e coperto della spoglia del leone Nemeo ch’egli porta qualche volta sopra un braccio ed alle volte sopra la testa. La più bella di tutte le statue di questo eroe è l’Ercole Farnese, Iavoro di Glicone, Ateniese.

Antico regno di argo. §

Questo regno fu così detto da Argo, uno de’suoi re e fig. di Giove. I suoi pascoli erano di tanta rinomanza che si finge, Nettuno avervi pascolato i suoi cavalli. Con Argo confinava Micene, da Orazio(1) celebrata per le sue dovizie. Da Argo sino a Stenelo regnarono quattro re nell’Argolide. Stendo fu cacciato dal regno da Danao, il quale avea cinquanta figliuole ed altrettanti figli maschi il fratello Egitto, re dell’Egitto ; e l’oracolo avea detto che uno de’generi di Danao lo avrebbe ucciso ; percui ricusò di darle in matrimonio a’figli di Egitto ; il quale, ciò mal soffrendo, cacciò il fratello dal regno. Danao colle cinquanta figliuole si recò in Argo, dove fece valere il dritto che vi avea, come discendente di Epafo, fig. d’Io, ch’era nata da Inaco, primo re dell’Argolide. Il popolo avendolo riconosciuto per suo re, Egitto sotto la condotta de’cinquanta suoi figli mandò contro di lui poderoso esercito e l’ obbligò a dar loro in matrimonio le sue {p. 320}figliuole, le quali per consiglio del padre nella prima notte delle nozze uccisero gli sposi, fuorchè I permestra, la quale avendo in orrore tal misfatto, salvò il marito Linceo, col quale fuggissene alla città di Lircea. Essa intanto ricuperò la grazia del padre e Linceo fu dichiarato erede e successore al regno. Le altre sorelle, per l’inumano tradimento verso i mariti, furon condannate nell’inferno a versare dell’acqua in una botte forata che non si riempiva mai ; onde il proverbio « la botte delle Danaidi ». Linceo intanto successe nel regno a Danao, da lui ucciso ; ed a lui, Abante, il quale da Ocalea ebbe due gemelli, Preto ed Acrisio, de’ quali il primo fece tutti gli sforzi per ascendere sul trono ; ma, dopo molte gare, i due fratelli si divisero il regno, Acrisio, Argo, e Preto, Tirinto. Nacquero intanto a Preto molte figliuole, le quali sorprese da strana malattia e credendosi diventate vacche, errarono lungo tempo, muggendo, per l’Argolide ; e ciò, per essersi vantate di superare Ginnone in bellezza. Ma furon guarite da Melampode con buona dose di elleboro. Acrisio poi ebbe una figliuola chiamata Danae, che fu madre di Perseo, che uccise Acrisio e fondò Micene. Dopo Euristeo salì su quel trono Atreo, fig, di Pelope e nipote di Tantalo. Il quale, per un gravissimo fallo commesso dal fratello Tieste, ne uccise i figliuoli e ne apparecchiò le carni in vivanda al padre ; alla quale vista fingesi che il sole si volse indietro. È noto che gli antichi credevano che il sole come godeva degli onesti fatti degli nomini, così avea in orrore le malvage loro azioni. La famiglia di Atreo ha dato agli antichi argomento di molte tragedie ; ed Orazio(1) per dire che la tragedia rigetta un verseggiare dimesso, nomina la famosa cena Tiestea. Atreo fu padre di Agamennone e di Menelao ; e Tieste, di Egisto, il quale esposto in un bosco e ritrovato da un pastore, fu nutricato con latte di capra e per ciò detto Egisto (ab, αιξ, αιγος, capra). Il quale, per instigazione del padre, uccise Atreo, cui successe nel regno Agamennone che {p. 321}fu potente e ricco sopra ogni altro monarca che fosse, allora in tutta la Grecia. E però, nella famosa spedizione contro Troia, fu eletto supremo duce ; e questa incendiata, dopo molte vicende, ritornato a Micene, fu dal cugino Egisto a tradimento ucciso non senza consenso della moglie Clitennestra.

L’unico figliuolo rimasto ad Agamennone fu Oreste, a cui nel trono di Argo successe Pentilo, a lui Adrasto, e poscia il figliuolo Egialeo. Dopo del quale salì sul trono Diomede, fig. di Tideo, il quale, dopo l’impresa di Tebe, cogli altri Greci andò alla guerra di Troia, dopo la quale tornò in Grecia ; ma disgustato della moglie passò nell’Apulia o Puglia ; ove avendo liberato Dauno, re di quel tratto della Puglia da esso detto Daunia, da’nemici che forte lo stringevano di assedio, ne ottenne buona parte del regno, e quivi fabbricó una città detta Argos Hippium o Argiripa. Fu finalmente ucciso da Dauno.

Antico regno dell’attica. §

Il paese dell’Attica era sterile di sua natura, ma per l’industria degli abitanti reudeasi fertile. Si finse che fossero stati prodotti dal terreno, a guisa degl’insetti, e che per ciò portavano sul capo una locusta d’oro(1). Fra le città di quel paese primeggiava Atene chiamata occhio della Grecia. Fu fabbricata da Cecrope che primo diede divini onori a Giove ; e dopo più altri re salì sul trono Pandione, padre di Progne e Filomela. Era la prima moglie di Tereo, re di Tracia, il quale avendo con gravissimo oltraggio tagliata la lingua alla cognata Filomela e postala in segreta prigione in un viaggio che con lei faceva da Atene nella Tracia, l’infelice donzella su di un fazzoletto scrisse con sottil ricamo il suo infortunio e lo mandò segretamente alla sorella, la quale vestita da Baccante, nelle feste ; Dionisiache, liberò la sorella, e per vendicarsi di tanta ingiuria, uccise Iti, suo figliuolo, e lo diede al padre in {p. 322}forma di vivanda, acciocchè il mangiasse. Di che avvedutosi Tereo si diede ad inseguirla insieme colla sorella Filomela, la quale, per compassione degl’Iddii, fu cangiata in usignuolo, come Progne, in rondine, Iti, in fagiano, e Tereo, in upupa. Quindi l’Ariosto :

Come vien Progne al suo loquace nido.

Ed altrove :

Qual Progne si lamenta o Filomena.
Che a cercar esca ai figliuoli ita era
E trova il nido voto

Successore di Pandione fu Eretteo, stimato il più possente principe di que’tempi ; per cui Borea, re di Tracia, bramando di stringere con lui parentela, chiesegli in isposa la figliuola Oritia, detta da Properzio Pandionia dall’avo. La quale venendogli negata dal padre, che avea fresco ancora nella memoria l’orrendo fatto di Tereo, quel barbaro re se la condusse via per forza. Perciò finsero i poeti che Oritia fosse stata rapita dal vento Borea, mentre stava a diporto presso il fiume Ilisso ; e ciò anche perchè la Tracia tenevasi per la regione de’venti e specialmente dell’Aquilone che si credeva abitare in un antro del monte Emo. Da Borea e da Oritia nacquero Zete e Calai, gemelli, poscia uccisi da Ercole, che si fingono alati ne’piedì e nel capo, come gli altri venti. Procri, sorella di Oritia, sposò Cefalo, fig. di Deioneo, o di Mercurio, e nipote di Eolo.

Regnò pure in Atene Egeo, il quale non credendo poter durare sul trono orbo com’era di figli, consultò l’oracolo di Delfo, da cui ebbe sì oscura risposta che, non bastandogli l’ingegno ad intenderla, si recò a Trezene da Pitteo, che con fama di gran sapienza reggea quella città. Il quale, ricavando profitto dall’oscurità dell’oracolo, persuase-il novello ospite d’impalmare la sua figliuola Etra. Egeo intanto, temendo di condurre {p. 323}in Atene una straniera per moglie, fece disegno di abbandonarla ; e perchè già era incinta, per non perdere la speranza di un figliuolo da lei, condotta Etra in un alpestre luogo, sollevò un gran macigno ch’era su di una cavità, nella quale, riposta la sua spada, sordo a’pianti della sconsolata, si accommiatò da lei ingiungendole che se partorisse un maschio, subito che giunto fosse in età di poter sollevare quel sasso, col contrassegno della spada, lo avesse inviato da lui in Atene. E di fatto Etra partorì un figlio che si chiamò Teseo, il quale fu riconosciuto dal padre all’eburneo manico della spada. Nel viaggio da Trezene ad Atene, udite le imprese di Ercole, e bramoso d’imitarlo, uccise Perifete ed il masnadiere Sinnide, non che Scirone, fig. di Eaco, e famoso ladrone dell’Attica, il quale precipitava da alte rupi i viandanti. Si segnalò ne’giuochi Eleusini, avendo ucciso Cercione, re di Eleusi ed inventore della lotta. Uccise ancora il famoso masnadiere Procuste, il quale costringeva i viandanti a stendersi sopra un letto di ferro, stirandoli sino a che divenissero della stessa lunghezza, ovvero tagliando loro i piedi, s’eran più lunghi. E finalmente essendogli riuscito di allacciare il famoso toro di Maratona, il condusse vivo in Atene, sacrificandolo ad Apollo.

Dopo ciò giunse Teseo in Atene, che col padre Egeo trovò assai costernata per l’infame tributo che doveasi ogni anno pagare al Cretese Minotauro. Il giovane eroe si offre ad uccidere il mostro, ed imbarcatosi consegna al nocchiere due vele, una nera ed un’altra bianca ; la prima, segno d’infausto evento al ritorno, e la seconda, di prospero. Giunto a Creta ottiene da Minos il permesso di combattere col mostro, ed uccisolo, libera gli Ateniesi dal sanguinoso tributo. Si vuole che Arianna, fig. del re, che Teseo avea sposata, dato avesse a lui un gomitolo di filo, col quale potè trovare il modo di sortire dal laberinto. Dopo questo successo veleggiò per Atene, avendo ingratamente abbandonata Arianna nell’isola di Nasso, mentre dormiva ; ed avvicinandosi alla città, trasportato dalla soperchia allegrezza, si dimenticò di far inalberare la vela bianca ch’era il convenuto segno della vittoria. {p. 324}Per cui Egeo, vedendo le vele nere e credendo il figlio divorato dal Minotauro, gittossi nel mare che da lui prese il nome di mare Egeo.

Oltre le mentovate imprese, Teseo vinse le Amazzoni insieme con Ercole, e n’ebbe in premio la loro regina Ippolita o Antiope ; strinse singolare amicizia con Piritoo, fig. d’Issione, nelle nozze det quale avendo i Centauri commesso grandi violenze, ne fecero orribile strage ; e rapirono la famosa Elena a Sparta, trasportandola in Atene. Giove comandò loro in sogno che dimandassero a Plutone Proserpina per moglie a Piritoo ; ed i due eroi per la Tenaria spelonca, creduta strada dell’inferno, vi calarono, e fatta a Plutone la strana dimanda, furon condannati ad essere straziati dalle Furie. Or essendo colà capitato Ercole, da Plutone ottenne la loro liberazione ; sebbene altri dicono che niuno di loro fosse di là uscito(1).

Antico regno di tebe. §

Nell’antica Beozia erano assai luoghi di grandissima rinomanza, e fra gli altri la grotta Trofonia, ov’era l’oracolo di Giove Trofonio ; la città di Tespia, sul fiume Tespio, alla quale faceva ombra a settentrione il monte Elicona, percui le Muse che l’abitavano furon delle Tespiadi ; e la città di Tebe, edificata da Cadmo, ove, dopo la morte di Anfione e Zeto, sali sul trono Laio, che sposò Giocasta, fig. di Creonte, dalla quale ebbe un figlio che fu dal padre consegnato ad un pastore, acciocchè, foratigli i piedi, per quelli lo avesse sospeso ad un albero, perchè divenisse preda delle fiere ; e ciò per aver predetto l’oracolo ch’egli dovea essere ucciso da un suo figliuolo. Ma il pastore per compassione il lasciò vivo nella campagna, donde da un guardiano di armenti fu condotto a Polibo, re di Corinto, il quale, fattigli risanare i piedi, percui era stato detto Edipo, il tenne nella reggia qual suo figliuolo. Edipo intanto, cresciuto in età, e sapendo che non era figliuolo di Polibo, andò a consultare l’oracolo di {p. 325}Delfo nel tempo stesso che Laio viaggiava per que’luoghi in cerca del figlio. I quali s’incontrarono nella Focide, ed insorta fra loro una contesa, Edipo ammazzò Laio che non conosceva ; e poscia andô a Tebe, ove per avere spiegato l’enigma della sfinge, ottenne la signoria di quella città. La Sfinge era un mostro che infestava tutto il paese vicino a Tebe, e che nel volto e nelle mani rassembrava una donzella, e nel corpo, un cane, ed avea ali di uccello, voce di uomo, unghie di leone e coda di dragone. Esso divorava i viandanti ; e l’oracolo avea risposto a Creonte che sarebbe cessato il flagello, quando si fosse da alcuno spiegato il seguente enigma che la sfinge proponeva ad essi : Quale animale il mattino cammina a quattro piedi, nel mezzodì, a due, e la sera, a tre. Edipo spiegò l’enigma dicendo essere l’uomo che nella fanciullezza cammina spesso colle mani e co’piedi, a guisa di quadrupede ; nella giovinezza, a due piedi ; e nella vecchiaia, co’due piedi e col bastone. Della quale spiegazione ebbe tanto dolore la Sfinge, che da uno scoglio si precipitò nel mare. Quindi un servo presso Terenzio : Io son Davo e non Edipo, cioè un uomo grossolano, non già d’ingegno sottile, com’era Edipo. Il quale, per orrore del commesso parricidio, si cavò gli occhi e maledisse la sua infelice discendenza.

Intanto i due suoi figliuoli Eteocle e Polinice, dopo la morte del padre, convennero di regnare a vicenda un anno per ciascuno ; ma il fratello maggiore mancò all’accordo e non volle cedere il regno a Polinice, il quale in Argo sposò la figliuola del re Adrasto che gli promise di riporlo sul trono. E di fatto preparò una famosa spedizione, nella quale il celebre indovino Anfiarao prevedendo dover tutti perire salvo che Adrasto, ricusava di prendervi parte e ne dissuadeva anche gli altri. Ma Polinice col mezzo della moglie Erifile l’indusse a seguire la poderosa armata che Adrasto condusse alle sette porte di Tebe ; percui sette furono i capitani che l’accompagnarono, Adrasto, di Argo ; Polinice, Tebano ; Tideo, Caledonio ; Anfiarao, di Pilo ; Capaneo, Argivo ; Ippomedonte, di Argo, e Partenopeo, fig. di Meleagro e di Atalanta, Arcade. Or tutti e sette {p. 326}questi principi perirono avanti le mura di Tebe salvo che Adrasto, il quale salvossi per la velocità del cavallo Arione detto vocale da Properzio(1), perchè prediceva il futuro. Raccontasi che i nemici fratelli, convennero di decidere l’affare, venendo a singolar tenzone, la quale si eseguì con tanto furore che vi perirono entrambi ; e che fu sì irreconciliabile il loro odio che durò anche dopo la morte, essendosi separate le fiamme del rogo, su cui si bruciavano i loro cadaveri.

E questa fu la prima guerra di Tebe tanto celebrata da’poeti ; ed i sette duci chiamaronsi i sette prodi contro Tebe (οι επτα επι Θηβας). Ma più famosa ancora è la seconda intrapresa da’discendenti di que’ primi sette. I quali, essendosi uniti insieme, pensarono a vendicare la morte de’loro progenitori ; e furon detti Epigoni (ab επι, post, et γεινομαι, nascor), cioè figliuoli e posteri de’primi eroi che caddero sotto le mura di Tebe. Scelto Alcmeone per duce, dieci anni dopo la prima spedizione, strinsero Tebe di assedio, e vedendo ucciso il re Laodamante, fig. di Eteocle, i Tebani di notte uscirono della città colle loro famiglie, lasciandola a discrezione degli Epigoni, e ne fabbricarono altrove un’ altra.

Antico regno di tessaglia. §

La Tessaglia era un paese assai celebre ne’tempi favolosi ed eroici. In essa era l’Olimpo, monte tanto famoso presso i poeti ; il Pelio, l’Ossa ed il Nefele, ove abitarono i Centauri. Quivi erano gli ameni giardini della valle di Tempo, la quale era in un sito assai delizioso fra l’Ossa, il Pelio e l’Olimpo, ed era bagnata dal bel fiume Peneo. Questa valle era ricca di tutt’i pregi di natura, talchè fu riputata il dolce soggiorno delle Muse, e le sue delizie andarono in proverbio. Si vuole poi che nella Tessaglia nascessero assai erbe velenose ; (percui i Tessali furon famosi pe’ veneficii e {p. 327}per le arti magiche, tanto che un venefico qualunque da Plauto(1) si chiama Tessalo. Celebri poi erano i cavalli della Tessaglia, i quali, di razza assai bella, eran pure ben maneggiati da que’popoli ; donde nacque per avventura la favola de’ Centauri, i quali aveano nella parte superiore del corpo la forma di uomo ; e nel resto, quella di cavallo. Dicono alcuni che l’idea de’ Centauri nacque dal vedere la prima volta gli uomini montali a cavallo, che doveano a quelle rozze fantasie sembrare mostri mezzo uomini e mezzo cavalli. Da’poeti si dicono fig. d’Issione, re de’ Lapiti, e di Nefele. In un trapezoforo o sia piede di mensa, del Museo Borb. si vede un centauro ricoperto di una nebride svolazzante e senza barba, che tiene colla sinistra una siringa. Vuolsi che sia il celebre Centauro Chirone.

Ma nella storia favolosa ed eroica de’ Tessali non vi ha impresa più memoranda della spedizione degli Argonauti. Esone, fig. di Creteo, volle, già vecchio, destinar Pelia, suo fratello uterino, al governo del regno dì Tessaglia fino a che non divenisse maggiore Giasone, suo figliuolo. Pelia però, risoluto di assicurare il regno per se, ne consultò l’oracolo, dal quale gli fu risposto che si fosse guardato da colui che portava una sola scarpa. Indi a poco, facendo egli un sacrificio a Nettuno, vi chiamò il ni pote Giasone, il quale ritrovandosi dalla parte opposta del fiume Anauro, mentre si affrettava di varcarlo, gli cadde dal piede una scarpa ; il che fece credere a Pelia che di lui dovea guardarsi, secondo l’oracolo. Laonde, avendo domandato al nipote che dovesse mai fare di una persona, da cui esso per detto dell’oracolo avesse a temere la morte, tosto rispose che l’avrebbe inviato in Coleo alla conquista del vello d’oro.

Or raccontano le favole che Atamante, fig. di Eolo, e re di Orcomeno, nella Beozia, ebbe da Nefele un fig. chiamato Frisso ed una fig. detta Elle. Sposò poscia Ino, fig. di Cadmo ; e come Giunone avea un odio implacabile contro la famiglia di costui, volle sfogarlo anche contro Ino ed Atamante ; ed alla prima pose in cuore di far {p. 328}perire i figliuoli di Nefele. Percui, avendo Atamante consultato l’oracolo sul modo di far cessare una gran carestia, Ino trovò il modo di far dire a’sacerdoti ch’era mestieri sacrificar Frisso agli Dei. Atamante suo malgrado fu dal popolo obbligato a condurre all’altare quel principe infelice. Ma Nefele, col favore di Giove, trovò la maniera di liberarlo, dandogli un ariete donatole da Mercurio e ch’era insigne pel suo vello d’oro ; sul quale montati Frisso ed Elle tentarono di passare il mare e recarsi nella Colchide per quivi porre in salvo la vita ; ma l’infelice Elle cadde nel mare che da lei prese il nome di Ellesponto. Forse quest’ariete era una nave chiamata l’Ariete che in su la prora avea la figura dorata di quest’animale. Frisso intanto giunto a Colco, ove regnava Eeta, fig. del Sole e della ninfa Perseide e fratello di Circe e di Pasifae, sacrificò l’ariete dal vello d’oro a Marte o a Mercurio, e l’aurea pelle donò ad Eeta, il quale l’appese ad una quercia in un boschetto consacrato a Marte o in un di lui tempio, ov’era custodito da un dragone che sempre vegliava. Eeta poi diede in moglie a Frisso la figliuola Calciope.

Or ritornando a Giasone, questo giovane eroe volonteroso si offrì ad eseguire i comandi del zio, e chiamato Argo, fig. di Frisso e di Calciope, fece da lui, sotto la direzione di Minerva, fabbricare la prima nave che dall’artefice si chiamò Argo. Catullo(1) afferma che questa fu la prima nave che avesse solcato l’infido elemento e che fu costruita di pini tagliati sul monte Pelio. Questa nave famosa fu trasportata in cielo e posta fra le costellazioni, come anche l’ariete che portò Frisso e ch’è il segno di Ariete. Allestita la nave, Giasone indusse ad abbracciar quell’impresa molti altri giovani ch’erano il fiore di tutta la Grecia per nobiltà e per valore, conosciuti sotto il nome di Argonauti, de’quali nomineremo i principali ; Tifi, a cui Giasone affidò il timone di quella nave e che morì nel viaggio presso i Mariandinii, ed ebbe per successore Anceo ; Orfeo, fig. di Eagro ; Zete e Calai, di Borea ; Castore e Polluce, di Giove ; Telamone e Peleo, di {p. 329}Eaco ; Ercole, di Giove ; Teseo, di Egeo ; Ida e Linceo, di Afareo, il quale Linceo aveva una vista sì acuta che vedea sino nelle viscere delle montagne, percui vista lincea si disse proverbialmente una vista acutissima ; Laerte, di Acrisio ; Autolico, di Mercurio ; Atalanta, di Scheneo ; Meleagro, di Eneo ; Augia, del Sole ; Ificlo, di Testio ; ed altri non pochi. Or a questi avventurieri accaddero nel viaggio molte disgrazie. Approdarono in prima a Lenno, ove abitavano donne forti e bellicose simili alle Amazzoni, delle quali era regina Issipile, moglie di Toante, da cui furono que’ prodi assai cortesemente accolti. Indi ripresero il viaggio verso il paese de’ Dolioni, ove regnava Cizico, fig. di Apollo o di Eneo, il quale li accolse con somma umanità ; ma partiti di notte tempo dall’isola, furon respinti indietro dal vento, ed essendo stati per errore giudicati Pelasgi, co’quali i Dolioni erano continuamente in guerra, avvenne sì fiera battaglia fra gli uni e gli altri, che Cizico ed un gran numero de’suoi restaron miseramente uccisi. Al far del giorno scorto l’errore, gli Argonauti ne furon dolenti a dismisura, e con molte lagrime diedero l’onore di magnifica sepoltura a quel principe infelice, da cui erano stati così amorevolmente trattati. Poscia fecero vela per la Misia, ove Ercole, avendo con maggior forza che pratica piegato il suo remo, lo ruppe, e mentre che andava nel bosco per farsene un altro, Ila, fig. di Tiodamante e molto caro a quell’eroe, fu per la sua bellezza dalle Ninfe rapito nell’atto che bevea ad una fonte. Or mentre si tratteneva Ercole, inconsolabile di tal perdita, a cercarlo, ma invano, facendo, dice Virgilio(1), di quel nome risuonare tutta la spiaggia, gli Argonauti si posero in viaggio, dimenticando quell’eroe, ed approdarono nella Bitinia, ove accadde la pugna del re Amico con Polluce. Indi veleggiarono verso Salmidessa, città della Tracia, ove consultarono il famoso indovino Fineo, fig. di Agenore, o di Nettuno, intorno alla riuscita della loro spedizione. Dice la favola ch’esso fu da Giove reso cieco, perchè apriva il futuro a’ mortali ; ed era di continuo molestato dalle Arpie che infestavano il {p. 330}paese. Erano queste mostruosi uccelli di rapina, col volto di donna, sempre pallido per la fame, con lunghi crini, e con mani armate di difformi e rapaci artigli. Spargevano esse un odore spiacevolissimo, insozzavano tutt’l cibi che toccavano e rapivano dalle tavole le vivande(1). Si chiamavano i cani di Giove e di Giunone, de’ quali servivansi contro quelli che volevan punire ; anzi Servio le pone nel numero delle Furie. Virgilio nomina la sola Celeno ; ed Esiodo, Aello ed Ocipede, il quale le chiama fig. di Taumante, fig. del Ponto, e della Terra, e di Elettra, fig. dell’Oceano e di Teti. Or giunti gli Argonauti alla corte di Fineo, questi li pregò che lo avessero liberato dalla molestia di que’ mostri, chè così avrebbe loro additato il modo di giungere salvi nella Colchide. Venute quindi le Arpie a fare il solito mal governo della mensa di Fineo, Zete e Calai, alati fig. di Borea, colla spada in mano diedero loro la caccia, inseguendole a volo sino a due isolette del mare Tonio, dette le Strofadi (στρεφω, verto), perchè là giunti i due volanti eroi, fu loro disdetto da Giove di più inseguirle e quindi dovettero tornare indietro. Allora Fineo avvertì gli Argonauti a schivare a tutte lor potere le Simplegadi, ch’eran due scogli o isolette poco lontane dal Bosforo, le quali, per l’impeto de’venti urtandosi fra loro, impedivano il passaggio dello stretto. Per consiglio adunque dell’indovino lasciano volare avanti una colomba e non si cimentarono di passare lo stretto fintanto che non la videro salva fuori di esso ; e le Simplegadi da quel tempo divennero immobili.

Giunto finalmente Giasone, dopo qualche altra avventura, alla foce del Fasi, fiume della Colchide, tosto espose ad Eeta il comando dello zio e gli fece la domanda del vello d’oro. Pronto si mostrò il monarca a compiacerlo, ma volle prima far pruova del suo valore, comandandogli di sottoporre al giogo due grandi, e fierissimi tori e che avesse con essi solcata la terra, seminandovi alcuni di que’ denti didragone già seminati da Cadmo ed a lui donati da Minerva. Questi buoi aveano le unghie di bronzo e mandavano per la bocca e per le nari vive flamme ; dono fatale di {p. 331}Vulcano. Giasone accettò l’arduo cimento, ed istruito da Medea, insigne maga, fig. di Eeta, che da lui si avea fatto promettere con giuramento di sposarla e portarla seco nella Grecia, ricevuto da lei un unguento di mirabile virtù, non fu punto offeso da que’ ferocissimi animali ; e post’i denti ne’solchi, ne sorsero tosto uomini armati, da’quali Giasone sarebbe stato ucciso, se, col consiglio della stessa Medea, non avesse procurato di introdurre fra loro una strana discordia. Ciò fatto, l’eroe domanda ad Eeta l’adempimento della promessa ; ma vedendo ch’egli cercava di uccidere gli Argonauti ed incendiare la loro nave, Medea, incantato il vigilante dragone, preso l’aureo vello e datolo a Giasone, fu accolla da lui nella nave insieme col fratello Absirto ; la quale tosto coll’invitto drappello prese il viaggio per la Grecia. Eeta, oltremodo adirato, inseguì Giasone ; di che accortasi Medea fece in pezzi Absirto e qua e là ne sparse le membra ; le quali il padre dolentissimo trattenendosi a raccogliere, diede tempo a’ fuggitivi di ritirarsi in Tessaglia. Egli poi seppellì i brani dell’infelice figliuolo in un luogo chiamato Tomi (a τομη, sectio) dal fatto di Absirto e celebre per l’esilio di Ovidio(1). Giunto intanto Giasone da Pelia e trovato morto il padre Esone, a quel re offrì il conquistato vello. Poscia, dopo varie avventure, con Medea si ritirò a Corinto, ove il re Glauco o Creonte, avendogli data in moglie la figliuola Glauce o Creusa, Medea, vedendosi abbandonata, mandò a fuoco il palagio del re, uccise tutt’i figliuoli di lui e fuggissene in Atene. Giasone dopo morte ebbe onori divini

Ora diremo brevemente di Bellerofonte, fig. del mentovato Glauco o Creonte, il quale, avendo ucciso un suo fratello, si rifuggì da Preto, dal quale fu espiato. Ma per le cattive arti di Stenobea, moglie di Preto, entrato in sospetto nell’animo di questo principe, fu da lui mandato a lobate, re della Licia e padre dì Stenobea, con lettere, nelle quali lo pregava di dar morte all’infelice giovane ; e da ciò si chiamano lettere di {p. 332} Bellerofonte quelle che sono dannose a chi le porta. Allora lobate mandò quell’eroe a combattere la Chimera che infestava un monte della Licia. Questo mostro era fig. di Tifone e di Echidna, ed avea il capo ed il petto di leone, il ventre di capra, e la coda di dragone, e vomitava fuoco dalla bocca. Bellerofonte, col favore di Minerva ed avendo ottenuto da Nettuno il cavallo Pegaso, andò coraggioso ad assalire l’orribile mostro e l’uccise. Alcuni pensano che la Chimera fosse un monte della Licia che nella cima gettava fuoco, e che nella parte superiore era abitato da leoni, nel mezzo da capre, ed alle falde, da serpenti ; e che avendo Bellerofonte distrutte quelle bestie, avesse dato origine alla favola della Chimera. Igino racconta che dopo l’impresa della Chimera, l’eroe tentò coll’alato Pegaso di salire in cielo ; e che avendo Giove mandato un assillo, il cavallo fece precipitare l’audace cavaliere al suolo, il quale morì di tal caduta. Da Properzio(1) il Pegaso si chiama cavallo di Bellerofonte ; e da Orazio(2) la Chimera dicesi ignea, cioè ignivoma.

Storia dell’assedio di troia. §

Ecco, dice Banier, un avvenimento che senza fallo è il più celebre de’ tempi favolosi ed eroici ; e che nel tempo stesso può dirsi l’ultimo, perchè da quel famoso assedio a’tempi storici non vi è stata cosa considerevole nella Grecia all’infuora delle guerre de’ discendenti di Ercole con Euristeo. Ma quale fu mai la fatale cagione che mosse il fiore de’ Greci guerrieri a cingere di sì ostinato assedio quell’infelice città, il quale non terminò che colla sua totale distruzione ? Lo sdegno de’ numi, dicono i poeti(3), pel quale avvenne il famoso rapimento di Elena. Di sopra(4) abbiam discorso ed il fatale odio di {p. 333}Giunone contra i Troiani, ed il pomo della Discordia, ed il giudizio di Paride ed il rapimento di Elena ; ora rimane a dire quel che tocca più da vicino la greca celebratissima spedizione contra l’infelice città di Priamo.

La più bella e naturale narrazione di questa guerra è quella di Omero nella sua Iliade, poema inimitabile, che non debbe essere già riguardato come una mera finzione, ma piuttosto come una copiosa raccolta delle più antiche storie della Grecia. Uopo è adunque distinguere nel poema di Omero quello ch’è storia e quello ch’è mera finzione. Egli descrive lo stato della Grecia di quel tempo, la quale era divisa in molti piccioli principati ; dice che Agamennone, re di Micene, di Sicione e di Corinto, era il più potente principe di tutta la Grecia e che fu eletto supremo capitano ; novera partitamente i nomi delle varie nazioni e de’ principi che favorivano i Troiani ; e descrive l’arte della guerra usata in quel tempo ; fa parola delle leggi e della religione de’Greci ; riferisce quali fossero i condottieri della flotta, il loro carattere, e la situazione de’paesi e delle città, con infinite altre cose, che sono pura istoria. Quindi è che il poema di Omero merita di esser tenuto per la più antica storia della Grecia, di cui i primi tempi sono sepolti nell’obblio, per non esservi stati scrittori che ne tramandassero a’posteri gli avvenimenti.

Secondo Virgilio mille erano i vascelli impiegati dai Greci in questa spedizione ; secondo Omero erano 1186 ; ed al dir di Tucidide, 1200. In questa guerra erano impegnate tutte le forze de’Greci, salvo che quelle degli Acarnani. Troia sostenne l’assedio di quel formidabile esercito per ben dieci anni. Oltre i popoli della Frigia, della Licia e della Misia, venne di Tracia in soccorso dell’infelice città Reso con formidabile esercito ; e Mennone, fig. dell’Aurora, con molti Assirii ed Etiopi.

Or la bella armata de’ Greci si era assembrata nel porto di Aulide, ove Calcante, celebre indovino, senza il consiglio del quale non fu in quella guerra intrapresa cosa alcuna da’ Greci, predisse che sarebbero stati ben dieci anni all’assedio di Troia, e dichiarò che Diana {p. 334}era quella che opponevasi al tragitto dell’armata nell’Asia co’ contrarii venti ; e che doveasi placare col sacrificio di una vittima, la quale fu Ifigenia, come di sopra si è detto.

Giunti finalmente i Greci alla spiaggia della Troade fu loro gagliardemente contrastato lo sbarco da’ Troiani. L’oracolo avea predetto a’ Greci che sarebbe stato ucciso chiunque il primo avesse posto il piede sulla spiaggia di Troia. Percui, quivi approdate le greche navi e tutti indugiando a smontar di nave per timore dell’oracolo, Iolao, fig. d’Ificle e di Diomedea. fu il primo a porre il piede a terra e tosto fu da Ettore ucciso, percui tutti il chiamarono Protesilao (a πρωτος, primus, et λαως, populus) per esser morto il primo fra tutti. Il che saputosi dalla moglie Laodamia, fig. di Acasto, ottenne dagli Dei di poter parlare coll’estinto sposo non più che tre ore. Ma dopo siffatto tempo ricondotto Protesilao fra le ombre da Mercurio, Laodamia ne morì di dolore. Poco tempo intanto dopo il cominciamento dell’assedio, fu il campo greco percosso da grave pestilenza, di cui l’origine da Omero(1) è attribuita ad Apollo ; perchè Crise, sacerdote di quel nume, essendo venuto alle navi de’ Greci per riscattare la figliuola Criseide ch’era schiava di Agamennone, fu da questo principe villanamente discacciato. Il sacerdote pregò il nume di vendicarlo del torto, ed Apollo mandò la peste nel campo de’ Greci. Oltre questa sciagura nacque pure una gara funesta fra Agamennone ed Achille, fig. di Peleo, fig. di Eaco, detto spesso per ciò Eacide, dall’avo, e Pelide, dal padre. Peleo era re di Tessaglia ed avea sposata Teti, la più bella delle Nereidi, nelle quali nozze fu dalla Discordia sulla mensa gittato il fatal pomo, di cui si è nella prima parte favellato. Teti, appena nato Achille, il tuffò nelle acque della palude Stigia, e così egli diventò invulnerabile, salvo che nel calcagno pel quale la madre lo avea tenuto. Ella il diede poscia ad educare al centauro Chirone, il quale, oltre tutti gli altri esercizii che convengono ad un principe, a lui {p. 335}insegnò la musica e la medicina. Avendo poi predetto l’oracolo ch’egli sarebbe morto all’assedio di Troia, Teti nascose il giovanetto eroe travestito da fanciulla nella corte di Licomede, re dell’isola di Sciro, ove, sotto nome di Pirra, si trattenne sino a che avendo Calcante predetto che Troia non potea espugnarsi senza il soccorso di Achille, Ulisse lo scoprì sotto le mentite spoglie femminili ; perciocché travestitosi da mercante gli recò preziosi regali, fra i quali eranvi delle armi. Achille, seguendo il natural talento, le indossò con trasporto, ed in tal guisa scoprì se stesso.

Achille adunque alla testa de’ suoi Mirmidoni, popoli della Ftiolide, andò cogli altri duci alla guerra di Troia. Di lui non vi era più forte e prode guerriero, siechè da Omero chiamasi di tutt’i Greci gran baluardo, e da Ovidio, muro de’ Greci. E se Agamennone e Menelao il superavano nella prerogativa del comando, Achille ed essi ed ogni altro di bellezza e di valore avanzava(1), e la sua velocità oltremodo celebrarono i poeti, percui sì spesso da Omero chiamasi Achille dal piè veloce (ποδυκης). Orazio(2) ci dà il carattere di quest’eroe come quello di un uomo pronto, iracondo, inesorabile, altero.

Ora, per ritornare alla gara fra quest’eroe ed il supremo duce Agamennone, diciamo che avendo questi restituita al padre la sua schiava Criseide per placare lo sdegno di Apollo, in vece di essa per forza si prese Briseide ch’era toccata in sorte ad Achille nella ripartizione di un bottino. Per tal cagione il figliuol di Peleo, sdegnato oltre misura, si ritira sopra le navi con tutta la sua gente e ricusa di più combattere pe’ Greci. Noi dobbiamo a quest’ira famosa, dice uno scrittore, l’Iliade, il più antico ed il più ingegnoso de’poemi conosciuti. Achille si rinchiuse nella sua tenda, ove procurava di consolarsi di quell’ingiusto oltraggio, cantando al suon della cetra le grandi azioni degli eroi. Nè le preghiere de’principi greci, continua lo stesso autore, nè le rimostranze di Fenice, suo antico precettore, nè le instigazioni di tutt’i suoi amici erano {p. 336}state valevoli a farlo uscire di questa specie d’inazione ; allorchè, avendo udito che in una zuffa Patroclo, fig. di Menezio, cui Achille avea promesso di riportargli sano e salvo il figlio dopo la guerra di Troia, era stato ucciso da Ettore, fig. di Priamo, dimenticando il suo antico risentimento contro Agamennone, fece ritorno al campo, fugò i Troiani e vendicò, coll’uccidere lo stesso Ettore, la morte del suo amico, il quale gli era stato sì caro che l’amicizia di Patroclo e di Achille si annovera fra le più conte della Grecia. Egli disonorò la vittoria coll’aver fatto strascinare per tre volte intorno alle mura di Troia l’infelice cadavere di Ettore attaccato pe’ piedi al suo cocchio ed esporlo a’cani ed agli avvoltoi. Ma essendo andato Priamo a gittarsi a’suoi piedi, supplicandolo di restituirgli il cadavere di suo figlio, commosso Achille dalle lagrime dell’infelice vecchio gli permise di portarselo via. Rendendo a Patroclo i funebri onori, per placarne l’ombra, gli sacrificò dodici giovani prigionieri troiani ch’egli uccise di propria mano sul rogo dell’estinto amico. Ovidio dice che Achille fu ucciso da Paride ; ed Igino aggiunge che il dardo ferì il calcagno, ove solamente l’eroe era vulnerabile. Omero però non fa menzione di tale prerogativa, ma il dice morto in un combattimento presso le mura di Troia(1). Dopo la sua morte nacque una famosa gara fra’Greci per ottenerne le armi fabbricate da Vulcano, le quali si ottennero da Ulisse con grandissimo cruccio di Aiace, il quale, per tal ragione, si uccise(2). E questo basti di Achille.

I Greci intanto ch’erano stanchi di un assedio sì lungo, si determinarono alla fine di venire ad uno stratagemma. Coll’aiuto di Pallade(3), fabbricano un cavallo di legno di smisurata grandezza, di cui fu fabbro Epeo, fig. di Panopeo, atleta, architetto e guerriero all’assedio di Troia. In esso rinchiudono buon drappello di scelti guerrieri, e fingendo esser quello un voto a Minerva che aveano offesa col rapimento del Palladio, fanno mostra di ritornare in {p. 337}Grecia col resto dell’armata. I creduli Troiani, per le arti specialmente del greco Sinone sì bellamente descritte nel secondo libro dell’ Eneide, smantellano le porte, e fatta una breccia nelle mura della città, vi fanno entrare il fatale cavallo che allogano sul Pergamo, ch’era la cittadella di Troia. Si danno ad una gioia immoderata, e la notte, sepolti nel vino e nel sonno, lasciano la città incustodita. Allora fu che i Greci guerrieri rinchiusi nel cavallo ne scendono chetamente, e dato il convenuto seguo alla greca flotta’ che si era nascosta dietro l’isoletta di Tenedo, col suo aiuto mettono a sacco ed a fuoco l’infelice città, la quale, se crediamo a Virgilio, in una notte sola fu interamente distrutta, di modo che altro non vi restò che il solo nome(1) ; nome che ha reso immortali i due più insigni poeti che abbia mai veduto il mondo, Omero e Virgilio. Terminata in tal guisa la guerra, i Greci si divisero le spoglie e’si posero in mare per far ritorno alla ler patria, ove pochi giunsero dopo varie e molte sciagure nel viaggio sofferte.

In quanto a’Troiani, quelli ch’ebbero la sorte di campa re dalla comune strage, andarono a fissare la loro sede in lontani paesi. Antenore si fermò in Italia e fondò la nazione degli Eneti. Eleno, fig. di Priamo, andò in Macedonia, e vi fabbricò la città d’Ilio. In quanto ad Enea, principe troiano, fig. di Venere e di Anchise, tutti gli serittori romani lo dicono venuto in Italia, e lo fanno fondatore del regno di Alba Longa. I Cesari ambiziosamente affettavano di essere suoi discendenti, siccome i Romani non lasciarono di derivare la loro origine da’ Troiani che seguirono Enea. Il solo Livio sembra che sia stato dubbioso in affermare un tal fatto, e si protesta di non avere pruove sufficienti per ammettere o rigettare la comune opinione. Ma contro all’universale consentimento de’Latini scrittori il dotto Bocarto(2) ha raccolto validissimi argomenti a provare che la venuta di Enea in Italia sia una mera favola. Per dire poi le sue avventure bisognerebbe ripetere quanto di lui cantò l’immortal Mantovano nel {p. 338}gran poema dell’Eneide ; percui stimiam meglio tacerne e così por fine alla favolosa storia degli Eroi.

Dei marini

Nettuno. §

I. Nomi diversi dati a questo nume e lor ragione. §

Dio del mare e fratello di Giove e di Plutone era Nettuno, detto da’ Latini Neptunus. Cicerone(1) pretende che questo nome venga da una parola latina (a nando), che significa nuotare, per una semplice mutazione delle prime lettere ; ma Cotta presso lo stesso autore deride siffatta etimologia, potendosi in questa guisa, egli dice, da ogni parola derivare un’altra col solo cambiamento di qualche lettera. Il Vossio però approva l’etimologia di Varrone, che fa nascere questo nome da un’altra parola latina (a’nubendo vel a nuptu), che significa coprire, perchè come una nube ricopre il cielo, così il mare ricuopre la terra (quod terras nubat, i. e. cooperiat. Varr.). Da’Greci chiamasi Posidone (Ποσειδων), o da due voci (ποσιν δουναι) che significano dare a bere, perchè il mare è il ricettacolo delle acque ; o da alcune altre parole (σειειν, movere, et πεδον, solum), che voglion dire scuotere il suolo, perchè il mare coll’impeto delle sue onde scuote la terra.

II. Storia favolosa di Nettuno. §

Omero(2) dice che Giove e Nettuno erano figliuoli di un medesimo padre, ma che il primo il vinceva in sapienza, come negli anni. Di fallo esso nacque da Saturno e da Rea, come Giove e Plutone, e come questi due fratelli, fu destramente sottratto alla voracità del genitore ; e nella partizione dell’universo fatta fra quei tre figliuoli del vecchio Saturno, a Nettuno toccò in sorte l’impero del mare, come nell’articolo di Giove si è detto. Quindi è che spesso appo i poeti Nettuno si {p. 339}adopera per significare il mare(1) ; e Virgilio(2) bellamente ci pone avanti gli occhi la signoria che quel nume vanta sul mare, allorchè descrive il modo come egli sdegnato con Eolo, che senza saputa sua suscitato avea, ad istanza di Giunone, fiera tempesta contro le navi di Enea, raffrena il furore de’ venti, accheta le onde sconvolte e riconduce la serenità desiderata. Anche magnifica è l’idea che Omero(3) ci dà della potenza di Nettuno, ch’era del partito de’ Greci contro i Troiani ; e bellissimi sono i versi con cui il gran poeta il descrive nell’atto di recarsi a soccorrere i Greci e risvegliare il coraggio de’ due Aiaci e degli altri greci capitani. Presso Ovidio(4) Venere dice a Nettuno che la sua potenza è prossima a quella di Giove. Egli dallo stesso poeta(5) chiamasi l’assoluto signore de’fiumi, i quali pronti ubbidiscono alla sua voce. Col suo tridente percuote la terra, e ne sgorgano larghi fiumi di acqua(6). Anzi qualche volta ad un colpo del tridente del Dio del mare, dicono i poeti, tremò non solo la terra, ma lo stesso Plutone nella sua reggia, temendo che a quella scossa non si aprisse la terra e nel tristo regno delle ombre penetrasse la chiara luce del giorno. E questa sua potenza, per la quale chiamavasi scotitor della terra, egli dimostrava particolarmente col tridente che era una specie di scettro a tre punte, che sempre mai portava in mano e che forse, secondo Millin, non era che un istrumento da prendere i pesci, di cui anche al presente fanno uso i greci pescatori. Certamente esso era un attributo proprio del Dio del mare ed un simbolo del suo assoluto dominio su quell’infido elemento, percui cantò Chiabrera :

Rassembrò quel grido
Strepito d’ocean, s’unqua si adira
Il Tridentier dalle cerulee chiome.

{p. 340}Apollodoro(1) racconta che i Ciclopi donarono il fulmine a Giove, l’elmo a Plutone ed a Nettuno il tridente ; e che coll’aiuto di siffatte armi vinsero i Titani e li rinchiusero nel Tartaro ; il che fatto si divisero quei tre fratelli l’impero dell’universo. Nella gigantomachia Nettuno uccise il gigante Polibote con avergli scagliato contra il promontorio detto Nisiro che avea staccato dall’isola di Coo.

III. Continuazione – Potenza di Nettuno – Alcuni dei principali suoi figliuoli. §

Come Nettuno era Dio del mare, così a ragione se gli attribuiva una grandissima potenza, attesochè maraviglioso è l’impero che anche sulla terra esercita quell’infido elemento, e tremendi sono gli effetti di esso, che noi tuttodì sperimentiamo. Di fatto al mare, e quindi a Nettuno, attribuivansi i tremuoti ed altri straordinarii fenomeni che succedono sulla terra, come pure i considerabili cambiamenti nel corso dei torrenti e de’fiumi. Erodoto(2) riferisce una tradizione de’ Tessali, i quali affermavano che la valle per la quale scorre il fiume Peneo a guisa di un canale, sia stata opera di Nettuno ; ed a ragione, egli soggiunge, perchè credendosi che quel nume scuota la terra e che tutte le grandi aperture fatte in essa sieno opera di lui, o sia del mare, al vedere quella famosa valle ognuno è indotto a pensare ch’essa sia nata da un tremuoto. Da ciò si scorge la ragione, per cui egli chiamavasi Ennosigeo, cioè colui che fatremare la terra ; e perchè dopo Giove, Nettuno era il nume che avea più potere degli altri. Ed una grande idea di questa sua potenza sul mare ci dà Virgilio(3), quando dice ch’egli fa attaccare i cavalli al dorato suo occhio, e loro ne abbandona le redini ; ch’ei vola sulla superficie delle onde, e che al suo cospetto i fiotti si cal {p. 341}mano e dileguansi le nubi, mentre cento mostri marini intorno al suo cocchio si raccolgono. Si sa che Omero(1) lo rappresenta nell’atto che sorte dalle onde, facendo tremare sotto i suoi piedi i monti e le foreste : « Egli ha fatto tre passi, dice il poeta, ed al quarto giunge sino a’ più lontani lidi. Dal seno delle profonde lor grotte le pesanti balene si alzano e van saltellando intorno al loro re. La terra con dolce fremito attesta la presenza di lui. Sotto al suo cocchio si curvano i fiotti, e le ruote che fuggono colla rapidità del lampo, sfiorano appena l’umida loro superficie.

Nettuno, oltre all’essere Dio del mare, avea pure la cura de’cavalli, dicendo Omero ch’egli era ed il domator de’cavalli, ed il conservatore delle navi. Anzi Virgilio(2) afferma che la terra percossa dal gran tridente di Nettuno produsse un generoso destriero. Perciò chiamasi Ippio o Equestre ; e Pausania fa menzione di tempii ed altari innalzati a Nettuno Equestre. E nella prima parte di quest’ operetta abbiam raccontata la famosa gara che fu fra Nettuno e Minerva per la città di Atene, e come Nettuno fece uscir della terra un bel cavallo, che qual simbolo di guerra fu nel consiglio degli Dei giudicato meno utile dell’ulivo di Minerva, ch’era simbolo della pace. Per tutto ciò Nettuno è stato uno degli Dei più onorati del paganesimo ; ed Erodoto asserisce ch’esso era sconosciuto agli Egiziani, e che a’ Greci ne venne la notizia da’ popoli della Libia che il riguardavano come la più grande loro divinità. Nella Grecia, in Italia e specialmente ne’luoghi marittimi furono in onore di lui innalzati molti tempii, ed istituiti de’ giuochi e delle feste.

Per questa potenza di Nettuno e per una tale idea di ferocia e di crudeltà che gli uomini meritamente attribuiscono al mare, è avvenuto che i poeti, come chiamano figliuoli di Giove tutti quelli che per insigne virtù si distinguono, quasi fossero progenie del cielo ; così dicono figliuoli di Nettuno, cioè quasi partecipi della {p. 342}inumanil à del mare, coloro che per immane ferocia o singolare empietà son famosi(1). Così fra’ primi era un Eaco, un Minos, un Sarpedone e cento altri ; fra i secondi, i Ciclopi, i Lestrigoni, Scirone, Polifemo e molti altri. E di questi diremo brevemente qualche cosa.

E qui mettiamo in primo luogo il famoso Polifemo, detto da Omero il Ciclope per eccellenza. Egli era fig. di Nettuno e della ninfa Toosa, fig. di-Forco. Questo mostro avea un sol occhio in mezzo alla fronte e mangiava carne umana(2) ed era di una statura pari all’altezza di un monte. Molti poeti mettono presso all’Etna la sede de’ Ciclopi, e però Polifemo chiamasi da Tibullo(3)abitatore della rupe Etnea. Telemo, fig. di Eurimo, famoso indovino, gli avea predetto che un dì Ulisse gli avrebbe cavato quell’unico suo occhio(4) ; vaticinio che il superbo gigante prese a scherno, ma che dopo fungo tempo avverossi pur troppo. Per quell’accecamento del figliuolo Nettuno sdegnato tenne tanto tempo l’accorto Ulisse lontano dalla patria, facendolo errare per tanti mari. Questo favoloso avvenimento è assai piacevolmente raccontato da Omero(5), e merita di esser letto da’giovani studiosi. Il Chiabrera, alludendo al vino che per opera di Ulisse imbriacò Polifemo, cantò leggiadramente :

Lagrime di piropo,
Onde lo scaltro Ulisse
Spense l’unico ciglio
All’immenso Ciclopo.

È noto pure il nostro Polifemo per l’avvenimento di Aci, giovane ed avvenente pastore siciliano, fig. di Fauno e di una ninfa di Simete, fiume di Sicilia. Per cagione di Galatea l’inumano Ciclope irato fuor di misura l’uccise, lanciando uno scoglio di enorme grandezza che lo {p. 343}schiacciò. Il quale, per opera di Galatea, fu cangiato nel fiume oggidì detto freddo, perchè nascendo dall’ Etna, porta al mare gelidissime le sue acque. Per tale fatto quella ninfa gittossi nel mare e si uni alle Nereidi, sue sorelle.

Dopo di Polifemo dirò alcuna cosa de’ Lestrigoni, che Gellio chiama fig. di Nettuno : ed uno Scoliaste dell’Odissea parla di un Lestrigone, fig. di quel nume, dal quale fa discendere il popolo de’ Lestrigoni. Erano questi una razza di uomini di gigantesca statura e feroci, che cibavansi di carne umana, ed abitavano nella Sicilia, o secondo altri, a Formia, città della Campania. Antichissimo re de’ Lestrigoni fu Lamo, di eui fa menzione Omero ed Ovidio ; ma quando, per sua mala ventura, alla loro spiaggia approdò Ulisse, quivi regnava Antifale, la cui moglie, dice Omero, era alta come una montagna. Essi fecero mal governo de’ compagni di Ulisse, come raccontasi nell’ Odissea(1)

Figliuoli di Nettuno furono eziandio Beoto ed Eolo o Elleno, ch’egli ebbe da Melanippe, fig. di Desmonte. Il primo diede il nome alla Beozia, ed Eolo, all’Eolia. Pausania dice che Eumolpo fu pure figliuolo del nostro Nettuno e di Chione, fig. di Borea, re di Tracia. Egli diede il nome agli Eumolpidi, sacerdoti Ateniesi, tanto celebri nell’antichità ; e fu uno de’quattro che Cerere stabili direttori de’suoi misteri. La famiglia degli Eumolpidi diede un ferofante agli Eleusini fino a che fu fra loro il tempio di quella Dea.

Molti altri figli ebbe Nettuno ; Ergino, che fu uno d’egli Argonauti, e che per le sue molte conoscenze nautiche ed astronomiche, successe a Tifi, pilota della nave Argo ; Erice, re della Sicilia. che per avere posto fra i suoi armenti uno de’buoi di Gerione, che Ercole avea smarrito, fu da questo eroe ucciso in un duello ; Epafo, Bolo ed Agenore ; ed infine l’invulnerabile Cicno, l’enorme Anteo, Allirozio ucciso da Marte ; e molti altri, dice Millin, erano considerati come figliuoli di Nettuno ; la quale moltitudine di figli deriva a quel nume dall’essere stato dato {p. 344}generalmente il nome di figlio di Nettuno a tutti coloro che si distinsero nelle marittime pugne, e per la loro abilità nelta nautica. Sesto Pompeo, gonfio di sue vittorie in mare e della gloria acquistata, volle anche egli essere chiamato figliuolo di Nettuno ; titolo che trovasi sulle medaglie di lui. Da Orazio fu detto Neptunius dux(1)

IV. – Di alcune Deità marine che hanno relazione con Nettuno. §

Gli antichi, dice Millin, aveano molti nomi per significare il Dio protettore del mare, come Pontus, Nereus, Oceanus ; ma in appresso si sostituì a tutti Posidone o Nettuno. L’ Oceano, secondo Esiodo, era fig. del Cielo e della Terra, e marito di Teti, diversa dalla Nereide Teti che fu madre di Achille. Da Omero e da Virgilio chiamasi padre degli Dei, e padre di tutte le cose. La quale favola, dice M. Dacier, ha dovuto avere origine dall’opinione di alcuni antichi filosofi, i quali credevano che tutte le cose aveano avuto principio da due elementi, cioè dall’acqua, o sia dall’Oceano, e dalla terra, o sia da Teti. Nella descrizione dello scudo di Achille si dice che il gran fiume Oceano chiudea l’orlo di esso ; dalle quali parole argomentano alcuni che quel gran poeta dovea conoscere questa verità geografica, che il mare circonda la terra. Dicesi ch’esso sia stato il primogenito de’ figliuoli del Cielo ; e per ciò spesso da’ poeti se gli dà l’aggiunto di vecchio, e gli Dei stessi per lui, come per la moglie Teti, aveano grandissima riverenza. Si diceva ancora dai poeti padre de’più gran fiumi, de’quali Esiodo ne conta venticinque, e di moltissime figliuole dette Oceanidi, ovvero Oceanine, ch’erano tremila, secondo lo stesso Esiodo ; per cui da Catullo(2) vien detto padre delle ninfe. Lo troviamo poi figurato in forma di un vecchio assiso sulle onde del mare con una picca in mano ed un mostro marino al fianco ; tiene un’urna e versa acqua. Si dipinge pure bicornigero.

{p. 345}Una delle Oceanidi fu Anfitrite che sposò il nostro Nettuno e che spesso si adopera a dinotare il mare(1). Essa si rappresenta su di una conchiglia tirata da delfini o da cavalli marini, nell’atto di andare a diporto su per le onde del mare, accompagnata dalle Nereidi che portano le redini, e da’Tritoni che col suono delle lor trombe ricurve annunziano l’arrivo della regina del mare. Spesso tiene uno scettro d’oro ; e secondo lo Spanheim, si suole anche rappresentare come una sirena, cioè mezzo donna e mezzo pesce.

Virgilio(2) elegantemente descrive il Dio del mare col nobile corteggio delle marine deità. Vi era Forco, fig. del Ponto e della Terra e fratello di Nereo, il quale era quasi duce del coro degli altri marini Iddii e de Tritoni. Figlie di questo Forco e di Ceto erano le Farciadi, cioè le Gree, le Gorgoni, il drago delle Esperidi, Scilla ; e Toosa, madre di Polifemo. Da Omero Forco si chiama principe del mare. Vi era Tritone, fig. di Anfitrite e di Nettuno, al quale serviva di trombettiere, detto perciò canoro, precedendolo ed annunziandolo col suonare una conca marina ritorta e fatta a foggia di cono, di cui anche gl’ Indiani si servivano in vece di buccina. I poeti a lui attribuivano pure l’ufficio di calmare i fiotti e far cessare le tempeste ; anzi da Ovidio(3) si scorge, essere stata credenza degli antichi che quel trombettiere col suono fragoroso della sua conca quasi sgridava le onde commosse, e che queste, come se avessero avuto senso, ubbidivano al suo impero. Veniva rappresentato in figura di mezzo uomo e mezzo pesce, con buccina in mano, o in atto di suonarla. Gli antichi ammettevano diversi Tritoni aventi tutti la stessa figura e le stesse incumbenze ; ed ora son figura, che serve di ornamento all’architettura ed in certi dipinti. In un calcedonio(4) vedesi Venere per le onde portata sul dorso di un enorme Tritone.

{p. 346}Nel corteggio del signore del mare si annovera anche Glauco, il quale era pescatore. Avendo egli un giorno nella spiaggia del mare posto sull’erba alcuni pesci, questi ritornati a vita per virtù di quell’erba, saltarono di nuovo nel mare. Di che avvedutosi Glauco e fatto accorto di quella occulta virtù, per essa gettossi nel mare e fu convertito in uno de’marini Iddii, ai quali i marinari salvati dalle fortune di mare sciolgono sul lido i loro voti insieme con Panopea e Melicerta(1). Questa Panopea era fig. di Nereo e di Dori ; e quindi una delle Nereidi ; e Melicerta di cui Ovidio(2) ha bellamente descritta la trasformazione in Dio marino, era fig. di Atamante, e d’Ino, fig. di Cadmo, percui dicesi Inoo da Virgilio. Giunone, gelosa della prosperità d’Ino, come di tutta la famiglia di Cadmo, pose sì strano furore nell’animo di quel re, che pigliando Ino per una leonessa, ed i figliuoli Learco e Melicerta per leoncelli, schiacciò il primo ad un muro. Ma Ino, temendo per se e per l’altro figliuolo la stessa sorte, con Melicerta si precipitô nel mare da un’alta rupe del promontorio Lecheo. Nettuno allora, ad istanza di Venere di cui Ino era nipote, perchè fig. di Armonia, li trasformò in due divinità marine. Ino fu chiamata da’Greci Leucotea, e Matuta da’ Latini ; come Melicerta da’ primi fu detto Palemone, e da’secondi, Portunno, così detto perchè presedeva ai porti, e spesso confondesi con Nettuno. E con siffatti nomi invocavansi nelle tempeste dal naviganti.

Più antico dello stesso Nettuno era Nereo, fig. del Ponto e della Terra. Da Esiodo si chiama il maggiore de’ figliuoli del Ponto e vecchio marino ; e questo poeta, il dipinge come un vecchio ingenuo e verace, amico della giustizia e della moderazione. A lui, come agli altri Dei marini, attribuivano la virtù di presagire il futuro, forse perchè il mare dà de’segni per prevedere le tempeste. La stessa fatidica virtù si scorge attribuita a Proteo ed a Glauco da altri poeti. Secondo {p. 347}Apollodoro, il suo più ordinario soggiorno era il mare Egeo, ove lietamente passava i giorni fra i canti e le danze delle Nereidi, ninfe marine. fig. di lui e di Dori. Omero(1) afferma che le Nereidi in un antro ch’era nel fondo del mare, formavano il’ bel corteggio di Teti, madre di Achille, la quale con esse compiange l’infelice fato del figliuolo e lo consola della morte dell’amico Patroclo. Presso Virgilio(2) in un antro ch’era sotto la sorgente del Peneo, stanno in compagnia di Cirene, madre di’ Aristeo ; e nell’ Eneide(3) esse formano il corteggio di Nettuno e ne circondano il cocchio. Catullo(4) le rappresenta in atto di sollevare il capo sulle onde del mare e di ammirare stupefatte la prima nave Argo che per loro era una novità mostruosa ; e ad esse attribuisce uno sguardo torvo, come si scorge ancora in alcuni antichi monumenti. Esse finalmente si rappresentavano per lo più a foggia di donzelle avvenenti, co’capelli intrecciati di perle, sopra delfini e cavalli marini, portando per lo più in una mano il tridente di Nettuno, e nell’altra, un delfino, o alcuni rami di corallo. Alle volte però ritrovansi rappresentate metà donne e metà pesci, e spesso si veggono assise sopra Tritoni od altri mostri marini. Le pitture di Ercolano ci offrono tre Nereidi, la prima collocata su di un cavallo marino ; la seconda sopra un grosso pesce ; e la terza su di un giovane toro, che finisce in delfino.

A lutte queste divinità aggiungiamo il celebre Proteo, fig. dell’Oceano e di Teti, e di Nettuno e di Fenice. Egli avea la virtù di presagire il futuro, ed Orfeo dice ch’egli conosceva si le presenti che le future cose. Egli prendeva molte e stranissime forme, ed era ora un giovane, ora un leone, ora un toro, ora un fiume ora anche una fiamma. La quale favola ha dovuto avere origine da’ poeti cosmogonici, i quali in versi {p. 348}cantavano l’origine delle cose, e ponevano l’acqua per principio di tutt’i corpi ; opinione abbracciata da molti antichi filosofi greci che l’attinsero dall’Egitto. Proteo adunque che prendea tante e sì diverse figure, simboleggiava l’elemento dell’acqua che si trasforma in varii corpi. Ora per ottenere che Proteo desse le sue fatidiche risposte, era mestieri sorprenderlo nel suo antro e legarlo, essendo antica credenza che quest’indovini non predicevano il futuro, se non quando si avea il coraggio di sorprenderli e legarli, come di Sileno e dello stesso Proteo afferma Virgilio(1). Da Omero si scorge che Proteo era il guardiano del gregge di Nettuno, ch’era composto di foche, animali anfibii che hanno voce simile a quella di un fanciullo, e di altri mostri marini : pereui disse Orazio(2), che a tempo del diluvio di Deucalione, Proteo guidava il suo gregge sopra le cime delle più alte montagne.

V. Iconologia di Nettuno. §

Nettuno(3) si rappresenta coronato di palustri giunchi, con chioma e barba ritorta e lunga, come gli Dei fluviali, col tridente nella sinistra, e che colla destra calma le onde agitate. Dipingesi pure con un delfino in mano e solto i piedi, e col tridente.

Nettuno è caratterizzato dalla robustezza, dallo sguardo fiero e dall’atteggiamento, con cui tiene un piede sulla cima di uno scoglio : allusione alla potenza ch’egli esercita anche sulla terra, scuotendola talvolta col suo tridente. Winckelmann dice che la configurazione di Nettuno è alquanto diversa da quella di Giove, avendo la barba più increspata, ed essendovi una considerevole differenza nel getto de’capelli che al disopra della sua fronte s’innalzano.

{p. 349}Alle volte si rappresenta con volto sereno e tranquillo ed alle volte commosso e sdegnato, per indicare il diverso stato del mare or quieto, ed or turbato. Si rappresenta pure sopra un cocchio in forma di conchiglia, tirato da cavalli marini, e col tridente in mano.

Una delle più belle statue di questo nume in piedi è quella del Museo Pio-Clementino. Sulle medaglie della città di Berito nella Fenicia i cavalli marini che portano il suo cocchio, hanno di cavallo tutta la parte superiore del corpo, mentre l’inferiore termina in coda di pesce, come tutt’i mostri marini. « Assiso sopra un mare tranquillo, dice Millin, con due delfini che nuotano sulla superficie dell’acqua, e con la prora di un vascello carico di grano, indica l’abbondanza arrecala da una prospera navigazione. Sopra una medaglia, in cui la vittoria comparisce sulla prora di una nave, suonando la tromba, mentre Nettuno nel rovescio in figura di combattente vibra il tridente per mettere in fuga i nemici, è stata rappresentata la grande vittoria navale di Demetrio Poliorcete sopra Tolomeo.

Nettuno sopra una medaglia dell’imperator Claudio, porta la folgore, come pure sopra una pietra incisa. Alcuni vogliono che negli antichi monumenti non si vede mai Nettuno con una corona di giunchi ; ma d’ordinario, a guisa di Giove, porta un diadema, o pure una benda regale. La corona di giunchi non vien data se non se a’ Tritoni e ad altre subalterne marine deità. Si noti infine che le statue antiche del Dio del mare sono rarissime.

VI. Principali epiteti di Nettuno. §

Enosigeo, Ενοσιγαιος, lat. Ennosigaeus presso Giovenale ; soprannome di Nettuno o del mare deificato, da ενοσις, concussio, e γαια, terra, perchè credevasi causa principale de’tremuoti. Per la stessa ragione trovasi chiamato Σεισιχθων ( a σειω, fut. σεισωconcutio, et χθων, terra), scuotitore della terra ; ed Enositone, Ενοσιχθων (ab {p. 350}ενοσις, concussio, et χθων). Questi epiteti si veggono spesso adoperati da Omero.

Γαιηοκος, Nettuno che cinge o contiene la terra (a γαια, et εχω, contineo), chiamasi spesso da Omero, perchè il mare circonda e quasi abbraccia la terra.

Equestre o Ippio, gr. Ἱππιος ; fu così detto, perchè ritrovò l’arte di cavalcare, secondo Pausania.

Istmio, gr. ισθμιος ; soprannome di Nettuno, dal culto a lui prestato sull’istmo di Corinto.

Neptunus Pater, da un picciolo tempio consacrato in Eleusi a Nettuno Padre(1).

Neptunus redux, cioè che riconduce a buon porto, ed a cui i marinari offerivano sacrificii in rendimento di grazie, trovasi mentovato in un’antica iscrizione rinvenuta in Ostia(2).

Taenarius, dicesi Nettuno(3), perchè avea un tempio che serviva d’inviolabile asilo, sul Tenaro, promontorio della Laconia, formato dall’estremità del monte Taigeto.

Tridentiger, et Tridentifer, Tridentiere, dicesi Nettuno(4), perchè l’insegna sua principale era il tridente.

VII. Alcune altre cose di Nettuno. §

Fra le piante erano a Nettuno specialmente consacrati il pino e l’appio palustre. A lui s’immolava un toro(5), che Pindaro chiama pigro, con voce greca che alcuni malamente, interpetrano bianco o veloce, sapendosi che a quel nume si sacrificavano tori di color nero(6). Le sue feste chiamavansi Neptunalia, e si celebravano sotto capanne formate di rami di alberi sulle sponde del Tevere.

{p. 351}Scilla da’più dicesi fig. di Nettuno e della ninfa Crateide, sebbene altri la dicano fig. di Forco e di Ecate, o di Tifone e di Echidna. Raccontasi (1) che la maga Circe, ingelosita di Scilla, de’ suoi veleni contaminò un bel fonte, ove quella vergine era solita stare al rezzo in sul meriggio e lavarsi. Per la virtù de’ quali magici farmachi fu essa nella metà inferiore del corpo cangiata in più rabbiosi cani marini che orribilmente latravano. Alcuni vogliono che per ragion di Nettuno, la moglie Anfitrite avesse indotto Circe a trasformare Scilla colle sue magiche arti in mostro marino. Pare che Virgilio abbia confuso questa Scilla con l’altra fig. di Niso, di cui si è parlato nella prima parte. Nè questo poeta è uniforme nel descrivere la trasformazione di Scilla ; poichè se nell’Eneide dice ch’essa al di sopra è una leggiadra donzella, mentre termina in corpi di lupi colle code di delfini (2), in una egloga poi afferma che finiva in cani marini (3), come Lucrezio, Ovidio, Tibullo ed altri eziandio asseriscono.

Omero (4) bellamente descrive in qual guisa Ulisse ammaestrato da Circe passa tra Scilla e Cariddi, due scogli pericolosissimi nello stretto ch’è fra la Sicilia e la Calabria. Or Cariddi era una vecchia figliuola di Nettuno e della Terra, la quale, rubato avendo ad Ercole alcuni de’buoi di Gerione, fu da Giove fulminata e trasformata nella voragine che porta il suo nome e ch’è nello stretto di Messina in faccia allo scoglio di Scilla. Questa voragine detta violenta da Tibullo, e non altrimenti che lo scoglio di Scilla, celebratissima nell’epopea greca e latina, era anticamente assai temuta, perchè essa tre volte al giorno assorbisce e tre volte rigetta e spinge sino al cielo le onde (5) ; il che tutto deriva dal noto flusso e riflusso dello stretto di Messina. Ed i latrati di Scilla non son altro che {p. 352}lo strepito ed il rumoreggiare delle onde che s’infrangono fra quegli scogli. E come avvicinandosi troppo allo scoglio di Scilla o alla caverna di Cariddi, si corre pericolo di naufragare, così, per esprimere che spesso il timore di un male ci conduce in un altro peggiore, si disse proverbialmente : Incidit in Scyllam qui vult vitare Charybdim.

Conso, divinità venerata da’ Romani come il Dio del consiglio, credesi essere lo stesso che Nettuno Equestre, in onore del quale Romolo fece celebrare quei solenni giuochi detti Consuali, che porsero il destro alla feroce gioventù romana di rapire le Sabine donzelle (1)

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Parte III.

Degli dei infernali §

tartaro ovvero inferno. §

I. Nomi diversi dell’Inferno. §

In Igino leggiamo che dalla Caligine nacque il Caos ; da questo, l’Erebo ; e dall’Etere e dalla Terra, il Tartaro. Or questo Tartaro o Inferno da’Greci chiamavasi Αδης, o Αιδες, da α privativo ed ιδειν, vedere ; per cui Aide dinota un luogo tenebroso, o secondo la frase di Virgilio, una casa senza luce (sine luce domus), o come dice Dante, un luogo d’ogni luce muto. E spesso questo nome davasi al nume stesso dell’inferno, chiamandosi Plutone Αιδης, o Αιδωνευς, Aidoneo. Si diceva pure Ταρταρος, il Tartaro, pel quale intendevano il luogo più profondo dell’inferno, immaginato da’ poeti nel centro della terra, per servire di eterna prigione a coloro, i cui delitti non erano espiabili. Lo chiamavano Erebo, che Esiodo a ragione dice figliuolo del Caos e fratello della Notte ; sebbene altri affermano che nacque da Demogorgone e dalla Terra ; ed era propriamente un luogo dell’inferno, ove prima di passare agli Elisii dimoravano le anime de’ buoni ; ma talvolta si prende per l’inferno stesso. Sovente si chiama pure Orco, ch’era nome di Plutone ; e però da Properzio dicesi Minos giudice dell’Orco ; e da Virgilio Caronte appellasi il nocchiero dell’Orco, o sia dell’inferno. Fu chiamato Orco da ορκος, giuramento, perchè non vi era più santo ed invidiabile giuramento che quando giuravasi per la palude Stigia, o per l’Orco, fiume che nasceva da quella palude. Or questi nomi di Aide, Tartaro, Erebo ed Orco, quantunque propriamente significano {p. 354}certi luoghi dell’inferno, nulladimeno spesso si adoperano da’ poeti a dinotare l’inferno tutto quanto.

Oltre a ciò dicevasi Dite (Dis, Ditis), ch’era nome del Dio delle ricchezze, o del Dio dell’inferno, e talvolta si prende per l’inferno stesso ; come Virgilio disse che notte e dì stassi aperta l’atra porta di Dite (1). E Dante cantò :

E’l buon maestro disse : omai, figliuolo,
Si appressa la città che ha nome Dite.

Averno pure da’ poeti dicesi l’inferno (2), dal Iago di Averno, il quale, come diremo, era per folte selve tenebroso, ed avea acque assai pestilenziali ; percui gli antichi il credevano quasi porta dell’inferno. Ed Acheronte anche prendesi per l’inferno. Finalmente spesso i Latini quel luogo sotterraneo, ove andavano le anime de’ mortali per essere giudicate e ricevervi la pena o il premio delle loro opere, si chiamava Inferi, o Inferna loca, cioè luoghi bassi e sotterranei.

II. Descrizione dell’Inferno secondo gli antichi poeti. §

Erodoto afferma che gli Egiziani i primi han creduta l’immortalità dell’anima ; i quali sognarono, passare essa, dopo la morte, per molti e varii corpi di animali, e ciò per lo spazio di ben tremila anni. Da che nacque la loro gran cura d’imbalsamare i cadaveri e di fabbricare quelle tombe magnifiche che fecero dire a Diodoro Siculo che gli Egiziani aveano più cura de’sepolcri de’morti che de’palagi de’vivi. Dall’Egitto Melampo, Orfeo ed altri recarono nella Grecia la dottrina dell’immortalità dell’anima, e quella della metempsicosi, e quindi l’idea di due luoghi che accoglier debbono le anime dopo la morte, uno di pena, detto Inferno, l’altro di premio, detto Elisio o Campi Elisii. Or ecco in qual guisa i Greci ed i Latini poeti li han descritti colla loro vivace fantasia.

{p. 355}Omero (1) afferma che Mercurio conduce all’inferno le anime de’morti in un luogo ch’egli alloga nel paese de’Cimmerii, popoli posti all’estremità dell’Oceano, e coperti da tenebre eterne. Or di quali Cimmerii parla il greco poeta ? Sappiamo che i Cimmerii eran popoli dell’Asia, presso al Bosforo da essi detto Cimmerio, non lungi dalla Palude Meolide. L’aere di quei luoghi era assai crasso e coperto di perpetua nebbia, per cui di rado godevano della vista del Sole. percui tenebre cimmerie proverbialmente si dicono per una foltissima caligine. Strabone però parla de’Cimmerii, antichi popoli della Campania, presso il lago di Averno, ov’era la grotta della Sibilla, vicino a Baia ed a Pozzuoli. Essi il giorno abitavano in antri e luoghi sotterranei, e la notte uscivano a commettere mille ruberie. Or i Cimmerii di Omero sono quelli presso Baia e Pozzuoli, perchè Ulisse, secondo quel poeta, vi giunge il medesimo giorno che si accommiata da Circe, il che non avrebbe potuto avvenire, se quei Cimmerii fossero stati popoli dell’Epiro o della Tesprozia, come vuole Le Clerc, o quelli del Bosforo, o di altre parti del mondo (2). É dunque poetica licenza, se Omero pone all’estremità dell’Oceano i Cimmerii dell’Italia. Strabone afferma che i Cimmerii di Omero erano sulle coste d’Italia, e che gli antichi ponevano presso al lago d’Averno la Negromanzia di Omero, cioè l’undecimo libro dell’Odissea, ove si parla dell’evocazione dell’ombra di Tiresia. Plinio (3) pone la città de’ Cimmerii nelle vicinanze del lago di Averno non lungi da Pozzuoli, da’Campi Flegrei e dalla palude Acherusia. Il che ebbe origine dall’essere que’luoghi bassi ed oscuri e circondati da montagne che impedivano di vedere il tramontar del sole.

Nell’Iliade (4) Giove proibisce a’ numi di prender parte alla guerra di Troia e minaccia di precipitarli {p. 356}nel Tartaro, ove sotterra è un baratro profondissimo, porte di ferro e soglia di bronzo ; e che tanto è di sotto all’Orco, quanto la terra al cielo. Il Tartaro, secondo Esiodo (1), era il carcere de’Titani, i quali vinti furon precipitati in quel caliginoso luogo, che tanto è lontano dalla terra, quanto questa dal cielo. E di fatto un’incudine di ferro fatta cadere dal cielo non giungerebbe sulla terra che il decimo giorno, come quella che dalla superficie della terra si facesse cadere giù nel Tartaro. Intorno ad esso avvi una trincea di solido bronzo, e porte e mura di bronzo fabbricate da Nettuno, ove dimora il Sonno e la Morte, nè vi giunge mai raggio di sole ; ed un terribile mastino che fa mille moine a chi entra, ma che non lascia uscirne alcuno, ne guarda l’entrata.

Virgilio, dopo aver raccontato come Enea offrì sacrificii agli Dei Mani e come ottenne l’aureo ramo, di cui non poteva fare a meno chi volea penetrare nella casa di Plutone, descrive nobilmente l’entrata di quell’eroe negli oscuri regni di Dite ; e dopo aver raccontato quanto quivi maravigliando vide, passa a descrivere la gran città di Plutone o il Tartaro, il quale, secondo il poeta, ha in tutto la sembianza di un’orrenda prigione, in cui Radamanto ha la soprintendenza, Tisifone è il carnefice de’rei, e l’idra dalle cinquanta teste ne guarda la ferrea porta. Ma il sesto libro dell’Eneide è un lavoro d’inestimabile pregio su questo proposito, che dovrebbesi riferire per intero, affinchè si conoscesse appieno questa materia.

Ovidio(2) ci ha dato pure la sua descrizione dell’Inferno ; ma è stato poco accurato nel distinguerne le parti. Secondo lui, una strada silenziosa e declive, fiancheggiata mestamente di tassi che danno un’ombra funesta, conduce all’infernale magione, ove folta nebbia esala dalla Stigia palude. Per quella via scendono le ombre di fresco uscite de’corpi che sono stati sepolti. Il Pallore ed il Verno signoreggiano que’luoghi {p. 357}incolti, pe’quali errano le ombre de’morti che ignorano la strada che mena alla feral reggia di Plutone. La vasta infernale città ha mille porte ; e come il mare da tutta la terra accoglie i fiumi nel suo seno, così quel luogo, Ie anime di ogni paese. Quivi errano le ombre esangui, che son tutte dedite ad occupazioni simili a quelle che amarono in vita. All’ingresso vi è il Cerbero che da tre gole manda fuori tre orrendi latrati ; e le Furie, fig. della Notte, divinità crudeli ed inesorabili, colle chiome di atri serpenti, stanno avanti le porte della tartarea prigione chiuse con chiavistelli di diamante.

In simil guisa Tibullo(1) con elegantissimi versi descrive la casa di Plutone. Secondo ch’egli dice, il paese degli empii giace da noi discosto in profonda notte avvolto, intorno al quale fiumi di nera acqua risuonano. Quivi l’orrenda Tisifone che invece di crini ha il capo attorto di crudeli serpenti, i rei flagella ; e per timbre qua e là fuggendo quell’empia turba si disperde. Nero serpente vi cova alla porta ; ed il rabbioso Cerbero e stride, e latra e veglia in guardia delle ferrate soglie. Quivi d’Issione che osò oltraggiare Giunone, le inique membra si aggirano su rapida ruota, e ad insaziabili avvoltoi Tizio fa pasto dell’atre sue viscere, mentre per nove ingeri è prosteso al suolo. Quivi ancora è Tantalo in mezzo all’acqua che fugge e che quando è già presso al labbro, più avviva la rabbiosa sua sete. Quivi infine è l’empia prole di Danao, la quale per avere offesa Venere, invano il cavo doglio delle vicine acque di Lete riempie. Passiamo ora a desc rivere l’amenità de’Campi Elisii.

III. Continuazione. Campi Elisii. §

Certo è, se crediamo a Macrobio (2), che gli antichi allogarono gli Elisii sopra gli astri, e che disserole anime giuste essere accolte in quell’ultima sfera che {p. 358}si chiama Aplanes. Alcuni poeti però pongono que’luoghi fortunati in mezzo all’aria, ove regna un clima purissimo ; altri, nella luna, ed altri nel centro della terra accanto al tartaro ; ma l’opinione più comune li pone in alcune isole dell’Oceano dette Isole Fortunate, di cui anche Pindaro fa menzione. Or gli antichi poeti negli Elisii, ove gli eroi e gli uomini virtuosi godono l’eterno guiderdone delle loro buone e gloriose azioni, trasportarono quanto di ameno e dilettevole può immaginare una bella fantasia colpita dalla dolcezza del clima e dalla piacevole varietà della natura. Poscia la Grecia, coltivando gli studii di una migliore filosofia, a’materiali piaceri di un luogo ameno e di un clima beato, aggiunse il gaudio di una mente placida e serena, il quale nasce dalla coscienza di una virtù pura e costante.

Pindaro finge due regni sotterranei, l’inferno, ove regna Plutone, ed i Campi Elisii, de’quali è signore Saturno, ove giudica Radamanto, che tutti gli altri poeti pongono nel regno di Plutone. Dice poi che coloro i quali saranno ritrovati mondi da ogni colpa passeranno a soggiornare nelle Isole Fortunate, ov’è l’augusto palagio di Saturno. Amabili venticelli ch’escon del mare, rinfrescano quelle isole, eterno soggiorno de’giusti. Quivi da ogni parte veggonsi bei fiori che risplendono al pari dell’oro e che o spuntano dal suolo o pendono dagli alberi che son nutricati da limpide acque. Di essi que fortunati abitatori portano e le mani ed il crine adorno. Il tutto si governa secondo i giusti decreti di Radamanto che sempremai siede allato a Saturno, padre de’numi e marito di Rea, il cui trono si eleva al di sopra di tutti gli altri.

Pindaro, nel descrivere in tal guisa i Campi Elisii, ha imitato Omero, il quale quasi nello stesso modo quel felice soggiorno descrive nell’Odissea (1). Anche Esiodo (2) alloga i Campi Elisii all’estremità della terra {p. 359}presso l’Oceano in alcune Isole Fortunate, ove regna Saturno. Quivi soggiornano le anime felici degli eroi che godono di una coscienza tranquilla e sicura, a’quali un terreno fertile tre volte l’anno produce saporosi frutti. Molto gaia ancora è la descrizione che degli Elisii leggiamo in Tibullo (1), il quale, credendosi vicino a morire, con nuova e ridente immagine finge che Venere stessa l’avrebbe condotto ne’ fortunati Elisii, ove regnano ognora e danze e canti ; e gli uccelli qua e là volando con delicato gorgheggiare formano dolci melodie. Quivi il terreno senza coltura è ricco di cassia, ed odorifere rose il suol benigno tutto germoglia ; e quivi drappelli di donzelle e di giovani si stanno fra liete danze, avendo il capo inghirlandato di mirto. Meglio però Virgilio (2) e con più lodevole filosofia ci pone avanti gli occhi la felice turba che alberga negli Elisii. Quivi, al dir del poeta, non giovanetti e donzelle, ma magnanimi eroi, di sangue divino e nati in secoli più felici, vivono tranquilla e beata vita, e gli studii loro son pur quelli che amarono in vita. La virtù li guidò quasi per mano a quel fortunato soggiorno. Ma i versi del poeta meritano di esser letti per la loro bellezza.

Or raccogliendo in uno le cose dette da’poeti sull’Inferno, ne daremo una descrizione composta delle differenti idee della greca e romana mitologia. Un luogo sotterraneo ove andavano le anime de’mortali per essere giudicate e ricevere la pena delle loro colpe, si chiamava Inferno, cioè luogo basso e sotterraneo. L’ingresso di questo regno è oltre i confini dell’oceano fra le tenebre eterne de’Cimmerii, ove i due fiumi Cocito e Piriflegetonte urtandosi cadono nell’Acheronte. Il lago di Averno, per folte tenebre che il circondavano, spaventoso, era una delle porte del regno delle ombre ; come ancora una spelonca di spaventosa profondità, ch’era nel Tenaro, promontorio della Laconia, credevasi una delle bocche dell’inferno. Nel primo entrare del doloroso regno {p. 360}stanno cento forme mostruose e terribili ; il Lutto, le Cure ultrici, i pallidi Morbi, la Vecchiezza, la Fame, la Povertà, la Morte ed il Sonno, parente della morte, la Guerra, le Furie e la Discordia dal vipereo ed insanguinato crine. Là pure (1) un opaco e grande olmo erge al cielo le annose braccia ; sotto ogni fronda del quale, a guisa di vani fantasmi, si annidano i Sogni. Anche Omero (2) all’ingresso dell’Inferno pone il popolo de’ Sogni. Oltre a ciò vi sono sulle porte varie mostruose apparenze di fiere ; i biformi Centauri e le biformi due Scille, e Briareo e la Chimera, e l’Idra Lernea, e Gerione, e le Gorgoni e le Arpie. Prima di giungere alla casa di Plutone ed al tribunale di Minos è mestieri passar l’Acheronte, comechè generalmente si dica che le Ombre debban passare il fiume Slige su di una barca guidata da Caronte, a cui ciascuna di esse dar debbe una moneta per nolo. Cerbero, cane a tre teste, sta continuamente alla porta dell’inferno, per impedirne l’entrata a’ vivi, e l’uscita a’ morti. Le ombre però di quelli, i cui cadaveri eran rimasti insepolti, errano per cento anni sulle rive della Stigia palude, nè da Caronte sono ammesse nella vecchia sua barca che dopo sì lungo spazio di tempo. Nè quel nocchiero in essa accoglie alcun uomo vivente, il quale non avesse mostrato il fatal ramo di oro che dovea staccare da un albero sacro a Proserpina, che trovavasi in una selva all’ingresso dell’Inferno. Traghettata la Stigia palude, le Ombre debbono subire un rigoroso giudizio della lor vita. Radamanto ed Eaco siedono giudici nel campo detto dell a Verità, perchè quivi non avea luogo la calunnia e la mensogna ; Minos ad essi superiore decide in caso di oscurità e di dubbio. Dopo la loro sentenza vanno le ombre al luogo de’ tormenti o nel soggiorno de’giusti. La città de’malvagi, secondo Virgilio, era divisa in sette rioni. Nel primo udivansi i dotorosi vagiti de’ bambini morti sul nascere ; nel secondo, eran le ombre di quelli che per falsi delitti apposti, furono {p. 361}ingiustamente condannati a morte ; nel terzo, eran quelli che un crudele destino avea spinto a darsi colle proprie mani la morte ; nel quarto si vedean coloro che morirono per un forsennato amore ; nel quinto, stavano allogate le anime de’guerrieri e degli eroi ; nel sesto era la tremenda prigione del Tartaro, ove giacevano i famosi scellerati, come Tizio, Sisifo ed altri, e dove stavano le Parche, le Furie ec. Il settimo finalmente era il felice soggiorno de’ buoni o i Campi Elisii.

IV. Descrizione più particolare di alcuni luoghi dell’ Inferno. §

Primieramente osservino i giovanetti che ad ogni cosa che avea relazione con Plutone e cogl’infernali luoghi, davasi dagli antichi poeti l’aggiunto di pallido e di nero. E perciò ancora essi opachi e tenebrosi si fingevano da’poeti ; ed avvedutamente Omero fra le tenebre di cui erano i Cimmerii eternamente coperti, pose il suo Inferno. E perciò pure finsero che l’Averno era la bocca dell’inferno, o l’inferno stesso. Virgilio (1) descrive una profonda spelonca trovata in rozza e scheggiosa roccia, difesa da un lago di nere acque e cinta da annose e folte selve. Della sua bocca usciva un alito, anzi una peste, percui gli uccelli non vi poteano volar di sopra senza lasciarvi la vita ; per la qual cosa fu questo lago da’Greci chiamato Aorno o Averno, cioè senza uccelli (ab α priv. et ορνις, avis). Pausania (2) riferisce che nella Tesprozia, antica contrada dell’ Epiro, era un lago detto Aorno, ove consultavasi un famoso oracolo che si dava coll’evocazione delle ombre de’morti mediante le arti della negromanzia ; e che quivi Orfeo avesse evocata l’ombra della consorte Euridice. Ma l’Averno di Virgilio ch’è il più celebrato da’ poeti, è quello della nostra Campania, non lungi da Pozzuoli, ne’ dintorni del quale essendo naturalmente assai caverne e luoghi sotterranei e {p. 362}caliginosi (1), finsero i poeti, essere quivi una bocca dell’inferno, per la quale entrò il figliuolo di Anchise guidato dalla Sibilla Cumana, come pel sesto libro dell’Eneide è noto anche a’fanciulli. Strabone(2) dice che l’Averno negli antichissimi tempi era da una selva inaccessibile di grandi alberi circondato, percui non vi penetrava mai raggio di sole, e che il volgo credeva, gli uccelli che sopra di esso volavano, dalle pestifere esalazioni cadere morti nelle acque, come avvenir suole in tanti altri luoghi simili detti Plutonii ; che in quella contrada erano i Cimmerii e le lor grotte ; e più altre simili cose. Ma che poi, per ordine dell’imperatore Augusto, avendo Agrippa fatto tagliare quella selva e costruire intorno al lago degli edificii, si vide che tutto era favola. A questo proposito dice il ch. Malte-Brun : « L’Averno che i Greci chiamarono Aornos, perchè gli uccelli ne fuggivano le rive, da cui uscivano vapori pestilenziali, oggidì ve li trae per l’abbondanza del nutrimento che loro offre. In alcuni siti ha 180 piedi di profondità, ma non ha più quell’aspetto tenebroso e lugubre, col quale cel dipingono gli storici ed i poeti dell’antichità. Alle vecchie foreste che ne coprivano le sponde trarupate, son succedute piccole selve e cespugli che in tutto l’anno conservano la loro verdura ; i pantani insalubri che lo circondano, sono stati cangiati in vigneti. Si osservano tuttavia sulle sue sponde, da una parte gli avanzi di un tempio di Apollo, dall’altra, la celebre grotta della Sibilla Cumana. Infine non vi è cosa più pittoresca che l’aspetto di questo lago che gli antichi riguardavano come la bocca dell’inferno. »

Strabone mette vicino a Miseno la palude Acherusia formata da un fangoso sporgere in fuori che quivi fa il mare. Aveva pur questo nome una caverna vicina all’Acheronte che comunicava coll’inferno e per la quale gli abitanti del paese pretendevano che Ercole avesse tratto fuori dell’inferno il Can Cerbero. Le acque {p. 363}dell’Acheronte erano amare e malsane e dimoravano lungo tempo nascoste sotto terra ; da che nacque la favola di essere quello un fiume infernale. Dal fatto di Alessandro, re dell’Epiro, che distesamente si racconta da Livio (1), si scorge che vi erano due Acheronti, uno che avea la sua sorgente nella Molossia, parte dell’antico Epiro, passava vicino alla città di Pandosia ch’era propriamente nella Tesprozia, e si gettava nel golfo Tesprozio, oggidì di Butrintò ; l’altro che scorreva presso ad un’altra Pandosia a’ confini, secondo Livio, de’Bruzii e de’ Lucani, non lungi dal mar Tirreno. E vicino a questa Pandosia fu ucciso Alessandro, re di Epiro.

Nella palude Acherusia insieme col Cocito si scarica il Piriflegetonte (a πυρ, ignis ; et φλεγετω pro φλεγω, uro), fiume della Tesprozia. Avendo i poeti della Grecia collocata nell’ Epiro il regno della Notte e di Plutone, i fiumi di quel paese divennero per conseguenza fiumi dell’Inferno.

Strabone però pone il Piriflegetonte vicino al lago Lucrino non lungi da Pozzuoli. Pare che Virgilio dica che l’Acheronte si scarica nel Cocito (2) ; nel che non si accorda con Omero, il quale afferma che nell’Acheronte si getta il Piriflegetonte ed il Cocito ch’egli chiama un rigagnolo dello Stige. Spesso poi il Piriflegetonte si confonde col Flegetonte, fiume dell’inferno che deriva dallo Stige. Esso volgeva torrenti di fiamme e da ogni lato circondava il Tartaro. Da una parte dell’ Inferno, dice Silio Italico(3), si apre un enorme abisso che termina in fangosa palude ; il terribile Flegetonte vi straripa furibondo e fa tutto rimbombare co’ rapidi vortici delle sue fiamme, lanciando infuocati macigni.

Anche il Cocito era fiume dell’Inferno, che i geografi pongono nella Tesprozia, ed altri presso il Lucrino. Lo Stige ed il Cocito erano limacciosi e lenti ; ma rapidi l’Acheronte ed il Flegetonte ; e lo Stige, per essere assai torbido e limaccioso più ad una palude rassomiglia che {p. 364}ad un fiume. Il Cocito, dice Virgilio (1), fiume limaccioso e che abbonda di canne, colla tarda sua onda, e lo Stige che con nove giri l’Erebo circonda, impediscono alle ombre l’uscita dall’inferno. Il Cocito era formato dalle lagrime de’malvagi.

Lo Stige, le cui ripe appellansi da Properzio sorde, cioè inesorabili, è una palude di orrida pece e di solfo limaccioso e fumante. Le sue acque mandavano fuori una nebbia foltissima, percui nebulosa appellasi da Ovidio. Per essa gli Dei stessi ed anche Giove temevano di spergiurare (2) : « L’acqua dello Stige forma un sotterraneo ruscello sempre coperto d’una cupa notte. Scorre esso nel Tartaro, ma la decima parte è riservata pel gastigo degli Dei spergiuri. Chiunque di essi siasi renduto colpevole, rimane per un anno senza segno di vita ; è egli steso su di un letto in un perfetto sopore, e privo del nettare e dell’ambrosia. Oltre a ciò egli è separato per altri nove anni dal consorzio degli Dei ; non è ammesso nè alle loro assemblee, nè a’ loro banchetti, e solo, spirato quel tempo, può egli rientrare in tutt’i suoi diritti. » Così riferisce Esiodo (3).

Virgilio pone il Lete nei confini de’ beati Elisii. Le acque del qual fiumicello beveansi dalle anime di coloro che passar doveano ad albergare in nuovi corpi, avendo esse virtù di far dimenticare interamente il passato ; per cui dicesi anche fiume dell’oblio. Quindi il Petrarca disse bever Lete per dimenticarsi. « E secondo quasi tutt’i poeti, dice il Dizionario Storico-mitologico, le acque di Lete e tutte le cose che di quelle acque venivano asperse, oltre l’oblio, inducevano anche il sonno. Virgilio nel quinto libro dell’Eneide diede al Dio del sonno un ramo stillante di umor Leteo ; ed Ovidio, nelle Metamorfosi, descrivendo la casa del Sonno, vi fece scorrere intorno un ramo di questo fiume. L’Ariosto, nel Furioso, imitò l’idea del fiume Lete, allorchè pose nella luna un gran fiume, {p. 365}nel quale erano da un vecchio gittati i nomi di tutt’i mortali. tranne alcuni pochi che certi benefici cigni a gran fatica pescavano col becco ed in tal guisa sottraevano all’oblio. »

V. Delle Ombre dei morti e dei Mani. Del Cerbero e delle Furie. §

Credevano i gentili che le anime, deposto questo corpo terrestre, prendevano un altro corpo per così dire ombratile e leggiero, privo di sangue, di carne e di ossa (1). Da Omero queste ombre chiamansi simulacri o idoli (βροτων ειδωλα καμοντων), cioè corpi vani ed ombratili, e da Virgilio, ombre tenui e simulacri. E quel che i Greci chiamarono idolo, da’ Latini appellavasi immagine (2). Or i poeti distinguevano tre cose nell’uomo, il corpo, l’anima e l’ombra o fantasma ; e fu antica credenza che le ombre de’ morti erano placate e pacifiche, quando i loro corpi aveano ricevuto l’onore dei funerali e della sepoltura ; e che le anime degl’insepotti erravano o intorno al proprio corpo, o secondo altri, intorno alla palude Stigia, che loro era vietato di varcare, per lo spazio di cento anni (3). Credevano pure i gentili che un certo idolo diverso dall’ombra e dai Mani, per qualche tempo vagava intorno al proprio tumolo. E quest’idoli che alle volte dicevansi esser comparsi ai viventi, erano le Larve ed i Lemuri, cui si offrivano cibi e si preparavano mense su i sepoleri, che dicevansi inferiae. E principalmente le anime di coloro ch’eran da immatura morte rapiti, vagando intorno a’ proprii corpi, si mostravano dell’acerbo lor fato assai dolorosi, come dalla morte del fanciullo Glaucia affermò Stazio (4). Finsero inoltre i poeti che le ombre scendevano all’inferno con quella forma che aveano nel {p. 366}tempo della lor morte. Così Deifobo mostravasi ad Enea col corpo tutto lacero, come morì (1) ; ed Euridice seguiva nell’inferno il suo Orfeo con lenti passi per cagion della ferita che le diè morte (2). E Tibullo (3) dice che intorno agli oscuri laghi del Tartaro la turba delle Ombre era pallida, colle guance scarne e co’ capelli bruciati dalla fiamma del rogo. Oltre a ciò si finse che le ombre de’ morti nell’inferno si radunavano chi al foro per attendere alle liti, chi nella reggia di Plutone, e chi si occupava nelle arti professate in vita. Presso Omero le ombre trattano le cause al tribunale di Minos, ed Arione si esercita, come in vita, alla caccia delle fiere.

Forse gli Dei Mani (Manes) erano diversi dalle ombre de’ morti, intendendo alcuni per Dei Mani una maniera di Dei Infernali che si placavano con certi sacrificii, sebbene altri sotto questo nome intendano le anime ovvero ombre de’morti ; percui vediamo agli Dei Mani, o sia alle ombre de’morti, dedicati i sepolcrali monumenti. Secondo altri poi gli Dei Mani erano Genii, che credevano assegnati a ciascun uomo nel suo nascimento, uno buono e l’altro cattivo, i quali neppure i loro cadaveri abbandonavano, e questi distrutti, ne abitavano i sepolcri. Da ciò venne che coloro i quali avessero demolito o in altra guisa profanate le tombe de’ morti, eran riputati violatori degli Dei Mani, secondo una legge delle dodici tavole (4) ; sebbene altri dicano che in detta legge voglionsi intendere le anime dei morti, alle quali erano indirizzate le lettere D. M. che poneansi su’ sepolcri e che gli antichi credevano sacre ed inviolabili. Si noti che la voce Manes spesso si adopera a significare l’inferno ch’è il luogo, ove stanno le ombre o i Mani ; come pure i sepolcri stessi e le ceneri, e finalmente le pene stesse dell’inferno, come nel celebre luogo di Virgilio, ove si dice che ciascuno soffre i suoi Mani(5), cioè i suoi mali, le sue pene.

{p. 367}Ovidio e Tibullo (1) allogano il Cerbero avanti la porta dell’inferno, forse alludendo al costume degli antichi principi che avanti le porte tenevano grossi mastini. Appresso Virgilio però quel cane sta in un antro all’altra riva dell’Acheronte, ove col suo eterno latrare ch’esce da tre gole, fa echeggiare quelle orrende bolge e riempie di spavento le ombre esangui (2). Omero(3) fa parola di questo mostro ch’egli chiama il mastino di Plutone, ma non gli dà il nome di Cerbero. Esiodo usa il nome Cerbero e lo dice fornito di una voce di bronzo e di cinquanta teste ; lo fa fig. del gigante Tifeo e di Echidna. Comunemente però a questo famoso cane si danno tre capi e tre gole ; e Virgilio (4) gli dà pure il collo crinito di serpenti. Alcuni poeti han finto che Cerbero toccato dalla verga di Mercurio restava assopito ; ma presso Virgilio (5) la Sibilla Cumana, per farlo star cheto, gli porge una mistura sonnifera. Orazio (6) finalmente, facendo plauso al canto di Orfeo, dice che alla dolcezza di quello dovette darsi vinto il crudele guardiano dell’infernal magione, benchè cento serpi ornino il furiale suo capo ; e pestifero fiato e tetro veleno esca della trilingue sua bocca ; ma questo poeta che qui dà al Cerbero tre capi, in un altro luogo (7) il chiama bestia dalle cento teste.

Le Furie, al dir di Virgilio (8), aveano nel primo entrar dell’Inferno i loro ferrati covili ; ma in altro luogo egli mette Tisifone all’entrata del Tartaro, a far da carnefice delle anime condannate agli eterni supplicii. Al dir di Ovidio esse sedevano avanti le porte dell’eterno carcere, ed aveano serpenti per crini, o crini frammischiati di serpenti ; percui da’ Greci Tisifone si chiama dalla serpentina chioma. Esse erano tre, Aletto Tisifone e Megera, e si vogliono fig. dell’Acheronte e {p. 368}della Notte, onde presso Virgilio Enea sacrifica una sterile vacca alla madre delle Eumenidi, cioè alla Notte. Dicevansi non solamente Furie, ma eziandio Erinni, Eumenidi e Dire. Di esse chiamate da Ovidio dura ed implacabile divinità, Aletto. dice Virgilio, era terribile a Plutone stesso ed alle altre Furie ; e secondo Eschilo, questi mostri erano odiosi agli uomini ed agli Dei.

Queste Dee si riguardavano come ministri della giustizia de’ Numi, e come Dee severe ed inesorabili, intente solo a punire il delitto sì nell’ inferno che in questa vita, e che ponevano nel cuore degli scellerati sì terribili rimorsi che toglievan loro ogni riposo, e visioni tanto spaventevoli che spesso facevan loro perdere il senno. Non vogliate credere, diceva Cicerone (1), che, siccome spesso da’ poeti si raeconta, coloro i quali hanno qualche empia e scellerata azione commessa, sieno dalle ardenti faci delle Furie agitati e scossi. Ciascuno è dalle sue magagne e da’ suoi errori in istrana guisa agitato ; ciascuno è dalle sue scelleratezze ridotto all’insania, i ferali pensieri ed i rimorsi della coscienza sono di noi stessi il carnefice ; questi sono degli empii le assidue e domestiche Furie che giorno e notte tormentano i parricidi. E Nerone, quel mostro di crudeltà, come Svetonio racconta (2), confessava di non essersi potuto liberare dalle Furie che continuamente colle loro ardenti fiaccole il tormentavano, cioè da’ rimorsi della coscienza.

VI. Caronte – Eaco – Radamanto e Minos. §

Il nocchiero della palude infernale che tragittava in una barca le anime de’morti, chiamavasi Caronte, detto da Orazio satellite di Plutone. Il nostro Dante il descrive come un vecchio bianco per antico pelo, ed il chiama Dimonio con occhi di bragia. Virgilio il fa nocchiero dell’Acheronte ; e da Tibullo chiamasi il sozzo nocchiero della Stigia palude ; e comunemente se gli attribuisce un umore tristo e severo, pel quale non avea alcun {p. 369}riguardo nè a dignità, nè a ricchezze. Egli dovea trasportare sulla sua barca le anime de’ morti, non già i corpi de’vivi ; percui con gravi parole ricusò di ricevere Enea nella sua nave e portarlo di là della stigia palude (1). E di fatto ricordavasi Caronte che avendo per timore accolto Ercole nella sua barca, quando questo figliuolo di Giove volle andare all’inferno, donde portò via legalo il tricipite Cerbero, per tutto un anno, come dice Servio, ne pagò il fio in una prigione. E temeva pure ch’ Enca imitato avesse l’audacia di Teseo e di Piritoo, che un dì tentarono di rapire la stessa Proserpina. Ma come vide l’aureo ramo, cadde l’ira del vecchio nocchiero, ed il figliuolo di Anchise fu tosto nell’affumicato legno accolto. Questo nume infernale fu nipote di Demogorgone e fig. dell’Erebo e della Notte ; ed il nome Caronte è di origine egiziana, nel quale idioma esso significa un nocchiero. I gentili ponevano in bocca a’cadaveri una moneta di oro o di argento per pagare a Caronte il nolo del loro passaggio.

Pare che Virgilio (2) ci descriva il Tartaro come una orrenda prigione, in cui Radamanto, a guisa de’Triumviri capitali de’Romani, eseguiva le sentenze de’giudici ed i rei dava in mano a Tisifone che nella tartarea prigione li rinchiudeva e faceva loro pagare il fio delle commesse scelleratezze. Si sa che Radamanto era fig. di Giove e di Europa, come lo era l’altro infernale giudice Minos, col quale egli date avea giustissime leggi a’Cretesi. Radamanto regnò nella Licia con fama di grandissima giustizia, come Eaco, fig. pure di Giove e di Europa, o di Egina, fig. del fiume Asopo, con ugual fama di giustizia regnò in quella contrada che dicevasi Enopia o Enone e che Eaco stesso chiamò. Egina dal nome della madre. La lode di giustissimo re gli meritò presso i poeti un posto onorevole fra i giudici dell’inferno, ove siede coll’urna in mano per discutere i falli degli uomini e sentenziare secondo i loro meriti.

{p. 370}Omero (1) fa dire ad Ulisse, aver veduto nell’inferno Minos, l’illustre figlio di Giove, che assiso, con aureo scettro in mano, giudicava le anime de’morti, i quali, chi seduto e chi in piedi, stavano al suo tribunale avanti la porta dell’ampia casa di Plutone. È noto infine che questo gran principe di Creta, di cui abbiam parlato nell’articolo di Giove, dettò leggi di grandissima sapienza e fu per fama di molta giustizia lodato a cielo da tutt’i poeti, percui il costituirono arbitro dell’inferno. Ovidio lo nomina gran legislatore, e giusto per eccellenza ; e da Omero e da Orazio dicesi coscio de’segreti di Giove.

VII. Storia de’più famosi malvagi posti da’poeti nell’inferno. §

Cominciamo da Tantalo, re di Lidia e fig. di Giove. Egli fu padre di Pelope e di Niobe ; e Giove (2) era solito confidargli ogni suo segreto, avendolo pure ammesso alla sua mensa ; ma Tantalo ebbe l’imprudenza di svelare agli uomini le segrete cose del padre de’numi. Fu per ciò da Giove condannato a stare nell’inferno in mezzo ad un lago di fresche e limpide acque che gli giungevano sino alle labbra, senza poterne mai bere una goccia, mentre saporosi frutti da’rami gli pendono sul capo, de’quali non può gustare un solo. Pindaro afferma che Tantalo rubò il nettare e l’ambrosia dalla mensa degli Dei ; ed a questo fatto il poeta attribuisce la cagione della pena datagli da Giove che gli sospese sul capo un sasso, dalla caduta del quale era continuamente atterrito. Quindi chiama sasso di Tantalo il timore di una guerra imminente. Orazio (3) paragona a Tantalo gli avari, perchè come quell’ infelice sta in mezzo alle acque e non può gustarne una stilla, così l’avaro in mezzo alle ricchezze non sa punto goderne ed è fra quelle veramente povero (inter opes inops). Dell’empia vivanda poi da Tantalo preparata agli Dei colle carni di Pelope, suo figlio, abbiamo altrove ragionato.

{p. 371}A Tantalo succeda il gigante Tizio, fig. della Terra, fulminato da Giove e precipitato nel Tartaro, ove un avvoltoio, o due, secondo Omero, gli va rodendo le viscere sempre rinascenti ; e ciò per aver osato di oltraggiare Diana. Pindaro (1) dice ch’egli fu da Diana stessa ucciso a colpi di frecce. Era di enorme statura, e da’più si dice che il suo corpo occupava nove iugeri di terra. Lucrezio (2) afferma che i poeti sotto l’immagine di Tizio ci han voluto rappresentare il tormento perpetuo di un cuore signoreggiato da qualche veemente passione.

Sisifo poi, discendente di Eolo, regnò a Corinto dopo che Medea se ne allontanò. I poeti lo collocano nell’inferno, condannato a dovere eternamente sollevare sino alla cima di un monte un gran macigno, donde, appena giunto, ricadeva per un potere supremo nella valle sottoposta. Lo Scoliaste di Omero afferma che fu condannato a tal pena per aver rivelato agli uomini i segreti de’numi. Altri lo dicono insigne per la sua astuzia e pe’suoi ladronecci, poichè, dopo avere spogliato gli stranieri che cadevano nelle sue mani, li faceva morire con un gran sasso.

A Sisifo soggiungiamo il famoso Issione, re de’Lapiti, e fig. di Flegias, chiamato perfido da Orazio, perchè ammesso da Giove alla sua mensa osò di oltraggiare la stessa Giunone. In pena della quale arroganza ed ingratitudine Giove lo percosse di un fulmine e lo precipitò nel Tartaro, ove Mercurio lo attaccò ad una ruota circondata di serpenti, che gira velocemente senza fermarsi un istante ; sulla quale egli legato, dice Pindaro, a’ mortali insegna, doversi usar gratitudine a coloro, da’quali si è ricevuto qualche beneficio.

VIII. I Greci attinsero dall’Egitto il loro Inferno ed i Campi Elisii. §

Diodoro di Sicilia riferisce che i Sacerdoti di Egitto trovavano scritto ne’loro annali che Orfeo, Museo, {p. 372}Omero, Pittagora, Platone ed altri Greci di gran rinomanza, erano stati in quell’antichissimo paese a consultare la loro riposta sapienza ; e che quanto poteano vantare i Greci di più ammirabile, tutto l’aveano attinto da’loro sacerdoti. E fra le altre cose, le pene de’malvagi nell’inferno, i beati Elisii de’giusti, le ombre de’morti, ed altre simili finzioni, tutte erano state da Orfeo portate dall’Egitto nella Grecia.

E di fatto Ermete chiamavasi in Egitto quegli che accompagnava il cadavere di Api fino ad un certo luogo, ove da lui era consegnato ad un’uomo mascherato a guisa di Cerbero. Da Orfeo l’appresero i Greci ; e però Omero disse che Mercurio o Ermete accompagnava le anime degli eroi, avendo in mano una verga ch’era il caduceo. Disse pure che l’inferno era oltre l’oceano, cioè al Nilo, chè dagli Egiziani nel linguaggio del popolo così chiamavasi quel fiume ; e di là delle porte del Sole, cioè di Eliopoli (ab ηλιος, sol, et πολις, urbs), città dell’Egitto. Verdeggianti prati eran la sede delle ombre, secondo Omero ; or questi non erano che un luogo presso la palude Acherusia non lungi da Menfi, irrigato di belle acque ed ombreggiato di ameni boschetti di canne e di loto. Ora gli Egiziani erano soliti per quella palude traghettare i cadaveri de’ morti, che sepellivano nelle tombe ch’erano in quel prato. La barca che trasportava i cadaveri, appellavasi bari (βαρις), ed al barcaiuolo che volgarmente gli Egiziani chiamavano Caronte, davasi un obolo pel trasporto ; da che è nata la favola di Caronte e della sua barca. Le varie dimore, dice il Banier, che Virgilio pone nell’inferno e particolarmente quella del Tartaro, prigione tenebrosa collocata nel centro della terra, son prese dalle moltissime stanze, dagli anditi e dalle giravolte del famoso laberinto di Egitto, e sopra tutto da quelle ch’eran sotterra, al dir di Erodoto. I Coccodrilli sacri che gli Egiziani nudrivano in que’ luoghi sotterranei, han dovuto dare l’idea di que’mostri che i poeti allogarono nel regno di Plutone e specialmente all’entrata di esso. Dall’Egitto eziandio venne l’idea de’ giudici dell’Inferno. E di fatto, dice Rollin, è noto che non {p. 373}era permesso in quel paese il lodare indifferentemente tutt’i morti, essendo mestieri ottenere da un pubblico giudizio un tale onore. Si radunavano i giudici di là da un lago che tragittavano in una barca. Appena un uomo era morto che conducevasi al giudizio. Se il pubblico accusatore provava essere sta ta cattiva la condotta del morto, se ne condannava la memoria e privavasi della sepoltura. Il popolo ammirava il potere delle leggi che sino alla morte stendevasi, e ciascuno mosso dall’altrui esempio temeva di disonorare la sua memoria e la sua famiglia. Quando il morto non era convinto di alcun mancamento, sepellivasi con onore. Or chi non vede da questo costume essere nata presso i Greci la favola de’giudici dell’Inferno ? Anche i principali fiumi del Tartaro sono stati foggiati da’Greci sulle idee religiose dell’Egitto. L’Acheronte de’greci poeti fu inventato sul modello di un lago di Egitto, presso Menfi, detto Acherusa, nelle sponde del quale si facevano le cerimonie de’ funerali dagli Egiziani. Di là da quel lago vi erano deliziosi boschetti ed un tempio consacrato ad Ecate tenebrosa, con due paludi chiamate Cocito e Lete. Da tutto ciò han pigliato i Greci le prime idee de’Campi Elisii, del fiume dell’obblio, del Cocito ec,

Plutone §

I. Nomi diversi dati a questo nume e lor ragione. §

I poeti sovente han confuso Plutone con Pluto, Dio delle ricchezze ; perciò si è fatta derivare la voce latina Pluto dal greco πλουτος, ricchezza, perchè le ricchezze si traggono dal seno della terra, ove sono le miniere. E Cicerone (1) afferma che quel nume che dai Greci appellavasi Plutone (Πλουτων), si chiamava Dite (Dis, Ditis) da’Latini ; e per esso intende la forza stessa e la natura della terra. Or è noto che dis significava ricco, ed era lo stesso che dives. Dicevasi pure Orco (Orcus), e Summano (Summanus), come se {p. 374}volessimo dire ch’egli era il Sommo, cioè il signore degli Dei Mani (quasi summus Manium. Capell.), sebbene Ovidio (1) ne parla come di una divinità incerta. Ad esso attribuivansi i fulmini notturni, come a Giove quelli che si scagliavano di giorno (2). Presso Plauto (3) si adopera la voce summanare per rubare, perchè Summano, cioè Plutone, rapisce e trae a se ogni cosa avidamente, e perciò un servo chiamavasi Summano, cioè ladro.

I Greci il chiamavano Aide (Αιδης) da due parole greche (ab α, priv. et ειδω, video) che significano non vedere, perchè era signore di quel regno tenebroso ed oscuro, ovvero un Dio invisibile. Chiamavasi pure Aidoneo (Αιδωνευς Hesiod.) che significa lo stesso.

II. Storia favolosa di Plutone. §

Plutone (4) fu fig. di Saturno e di Rea o sia Opi, e quindi fratello di Giove e di Nettuno. Egli era il più giovane di loro, e nel modo stesso che i due primi, fu sottratto alla crudele voracità del genitore. Nella divisione dell’universo a lui toccò l’inferno. Diodoro di Sicilia vuole che questa favola abbia avuto origine dall’essere stato Plutone il primo ad introdurre il costume di seppellire i morti e di rendere loro gli altri funebri onori. Ma pare più conveniente il dire ch’egli fu riguardato come Dio dell’inferno, perchè regnava in luoghi assai bassi riguardo alla Grecia, ove Giove avea sua signoria. Il suo dominio stendevasi sopra gl’infernali regni non solo, ove teneva il suo trono, ma sull’interno ancora della terra, e sulle miniere. Da Orfeo chiamavasi Giove terrestre ; da Virgilio, Stiglo Monarca ; e da Ovidio, tiranno del profondo inferno. Claudiano (5) introduce una Parca, che chiama Plutone {p. 375}sommo arbitro della notte e signore delle ombre, pel quale le Parche si affaticano a filare i loro fatali stami, giacchè esso presiede alla vita ed alla morte degli uomini. Il suo dominio era formidabile, e come dice Sesto Empirico (1), abborrito dagli stessi immortali. Ed Omero ha detto che Plutone fra tutte le divinità è la più formidabile a’mortali. Properzio il chiama padre e giudice dell’inferno ; e Stazio il descrive nell’atto di giudicare le ombre senza misericordia di alcuno, circondato dalle Furie e da ogni maniera di tormenti (2). Di Plutone poi, come degli altri infernali Dei, si è sempre detto da’poeti che hanno un cuore crudele ed inesorabile ; e ci vien descritto di una maestà truce e tremenda. Il suo capo, al dir di Claudiano, è in oscura nube ravvolto ; dalla qual cosa ha potuto avere origine l’elmo di Plutone (Orci galea), armatura che rendeva invisibile colui che la portava. Agamennone presso Omero chiama Plutone implacabile ed inesorabile e quindi a’mortali odiosissimo ; e ciò è tanto vero, dice M. Dacier, che a lui solo fra tutti gli Dei in niun luogo gli uomini han consacrato mai tempii ed altari o cantato inni in suo onore (3). E la stessa Dacier osserva che gli antichi davano il nome di Giove non solo al signore del cielo, ma ancora al Dio del mare, come in Eschilo, ed a quello dell’inferno, che da Omero dicesi Giove sotterraneo ed infernale ; con che volevano farci intendere i poeti che una sola è la divinità che governa l’universo. Abbiam detto che Plutone avea il suo soggiorno e la sua signoria nelle miniere, e che per ciò era tenuto pel Dio delle ricchezze. Quindi piacevolmente Demetrio Falereo (4) diceva che gli abitanti dell’Attica con tanta ostinazione scavavano la terra nelle miniere che pareva, volessero trarne lo stesso Plutone.

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III. Continuazione. Mitologia di Plutone di origine Egiziana e contenente un’allegoria astronomica. §

Dicono alcuni, essere certa cosa che gli antichi sacerdoti greci, seguendo le orme di quelli di Egitto, hanno spesso inventato delle favole che aveano per base i fenomeni celesti. E veramente Esiodo nella Teogonia per lo più chiama gli Dei figliuoli dello stellato cielo ; e quando Luciano discorre dell’ Astrologia, fa chiaramente vedere che ne’poemi di Omero e di Esiodo vi ha un’ analogia grandissima fra l’astronomia e le favole. Ciò posto, è cosa evidente che il Plutone de’ Greci era il Serapide degli Egiziani, come dice Diodoro di Sicilia ; il quale Serapide era la stessa cosa che Osiride, o il Sole, giacchè tutti questi nomi spesso si confondono. Or come gli Egizii rappresentavano il Sole, cioè il Genio solare, sotto il nome di Osiride, bisogna dire che il Plutone o il Giove infernale de’Greci, o l’Osiride di Egitto, era il sole d’inverno, cioè il sole che al solstizio d’inverno passa sotto la terra, e lo sconosciuto e nascosto emisfero percorre, come si ha da un frammento di Porfirio (1). Con questo principio possiamo spiegare l’opinione di coloro, i quali hanno preso Plutone per le ricchezze rinchiuse nel grembo della terra, avendo essi potuto cadere in questo errore a motivo che gli antichi credevano che i metalli si formano nelle viscere della terra per virtù degl’ influssi solari. Quest’ allegoria di Plutone, pel quale intendevasi il sole d’inverno, è molto chiaramente esposta da Macrobio (2) ; e pare che possa confermarsi con ciò che i mitologi dicono del celebre elmo di Plutone. Quando i giganti diedero la scalata al cielo, i Ciclopi somministrarono agli Dei armi potenti, e principalmente la folgore a Giove, il tridente a Nettuno ed un elmo a Plutone. Il quale, sebbene non sembrasse formidabile a’giganti, nulladimeno fu loro di grandissimo danno, poichè avea la virtù di rendere invisibili coloro che il portavano. {p. 377}Esiodo, nella descrizione dello scudo di Ercole, dice che l’elmo di Plutone, di folte tenebre circondato, stava sul capo di quell’eroe. Or le nubi di cui il sole nell’inverno è sempre coperto, hanno senza dubbio fatto immaginare quest’elmo di Plutone. Oltre a ciò il Sig. Dupuis fa vedere che Proserpina, moglie del Dio dell’inferno, era l’emblema della corona boreale, bella costellazione posta presso il serpentario, secondo tipo di Giove terrestre o infernale. Questo au tore dimostra ancora che la corona boreale, la quale accompagna il Sole, mentre percorre l’emisfero inferiore, apparisce nell’autunno ed insieme col sole tramonta sulla Sicilia, per un osservatore che si ritrovi in Egitto o nella Fenicia ; dalla quale cosa presero argomento di fingere che in quell’isola Proserpina sia stata rapita da Plutone, di collocarla nell’inferno per sei mesi, e per altri sei nel cielo, e di chiamarla sposa di Autunno, come la dice Orfeo in un suo inno.

IV. Iconologia di Plutone. §

Alcuni vogliono che negli antichi monumenti ritrovasi Plutone col capo ornato del fiore detto narcisso, il quale si reputava grato a’morti. E però anche le Furie ne aveano il capo inghirlandato, come dice Furnuto.

Un raro medaglione di Adriano offre una figura ritta in piedi, avente la barba e portante il tridente ed un’aquila ; a’suoi piedi sta il Cerbero. Secondo Vaillant, questo straordinario tipo rappresenta i tre figliuoli di Saturno riuniti, che si riconoscono Giove, per l’aquila, Nettuno, pel tridente, e Plutone, pel trifauce cane. Questo favoloso animale accompagna il Dio dell’inferno sulle pietre incise e sulle greche medaglie, ove Plutone è rappresentato assiso, portante ora una patera, ed ora un’asta ; una volta sola la forca, e due soltanto col modio di Serapi-Plutone.

Spesso i monumenti numismatici ci offrono Plutone che rapisce Proserpina da lui portata su di una quadriga. Questo Dio rappresentasi sempre con una folta {p. 378}barba ed in aria severa, ed ha sovente sul capo l’elmo donatogli da’ Ciclopi. I poeti ed i mitologi, dice Millin, ornarono la testa di Plutone di una corona di ebano, altri, di adianto o capelvenere, pianta che nasce nei luoghi umidi, profondi e scogliosi. Egli compariva sovente assiso sopra un trono di ebano ; così lo rappresentò in rilievo e circondato dalle Ore sulla base del trono di Amiclea, il celebre scultore di Magnesia, Baticlete. Sovente vedesi sopra un carro d’oro di antica forma, tirato da quattro neri e focosi cavalli, che si chiamavano Orfneo, Eton, Nitte ed Alastore.

Plutone si rappresentava, dice Albrico Filosofo, in un modo che conveniva al principe delle tenebre. Il suo aspetto era quello di un uomo terribile assiso su di un trono di zolfo, col regio scettro nella destra, mentre tiene nella sinistra un’anima, il Cerbero accovacciato a’ suoi piedi, e d’appresso tre Arpie, per le quali forse intendono le tre Furie ; e dal sulfureo suo trono uscivano i quattro infernali fiumi Lete, Cocito, Flegetonte, ed Acheronte.

V. Principali epiteti di Plutone. §

Ades o Adesio, Adesius, Αδης, soprannome di Plutone, da αδης pro αιδης, Orcus, o mors.

Altore, lat. Altor, alimentatore, perchè dalla terra, dice S. Agostino (1), si nutriscono tutte le cose che sono nate da essa.

Februo, lat. Februus, chiamavasi Plutone, come Dio delle purificazioni che facevansi per le ombre de’ morti nel mese di Febbraio dagli antichi Romani. Esse dicevansi Februa dal verbo Februo, purgare, espiare.

Plutone eziandio fu detto Giove coll’aggiunto ora di nero, Iupiter niger, ora di Stigio, Iupiter Stygius, ed ora di Ctonio, ευς Χθονιος, Giove terrestre.

Ferale, soprannome dato a Plutone per quell’indole sua crudele ed inesorabile, per la quale fu detto da Orazio illacrymabilis e torvo da Giovenale.

{p. 379}Quietalis(1) fu detto Plutone dagli antichi, forse perchè la morte è l’ultimo riposo degli uomini.

Tellumo, a tellus.

VI. Alcune altre cose di Plutone. §

Omero(2) racconta che Ercole osò ferire di saetta lo stesso Plutone alla porta del Tartaro, per cui diede grida di grandissimo dolore, e ne fu guarito da Peone, medico degli Dei, che avea pur sanata una ferita di Marte fattagli da Diomede.

Lo scultore Cefisodoto (3) avea fatta in Atene una statua della Pace, che portava Pluto o Plutone in grembo, per dinotare che le ricchezze cui questo Dio presedeva, sono il frutto della pace.

Ovidio dice che Plutone portava redini di rugginoso ferro, ch’era colore proprio di tutte le infernali cose, in guisa che di color ferrigno dicesi da Claudiano la sopravveste di quel nume. Lo stesso Ovidio chiama neri i cavalli di questo nume, di cui la cura era affidata ad Aletto, che facevali pascolare sulle rive di Cocito, e li attaccava al cocchio del suo signore.

A Plutone si offerivano vittime di color nero. Così Medea (4), volendo render propizii a Giasone gl’infernali Iddii, loro sacrifica tre neri agnelli che son poscia consumati dal fuoco. Anche i tori e le capre si bruciavano sopra i suoi altari(5).

Il cipresso era l’albero di Plutone, e perciò ponevasi qual segno funebre avanti la porta de’ defonti (6), e ciò per una sua proprietà, che una volta reciso, non rinasce mai più, simbolo della vita umana che quando giunge al suo tramonto, non vi è speranza che mai più risorga. Nella Grecia era generale l’uso di ornare la porta {p. 380}delle case che rinchiudevano un cadavere, di rami di cipresso, perchè quest’albero vi era comune. Ma in Italia era rarissimo, e perciò l’uso n’era riserbato a’ soli ricchi. Quindi Orazio afferma che di tutt’i beni nessuno lo seguirà alla tomba, salvo che il ferale cipresso (praeter invisas cupressus. Lib. II. od. 14. v. 33.)

Proserpina §

I. Nomi diversi dati a questa Dea e lor ragione. §

Dovendo noi parlare di Proserpina, Dea dell’inferno, diciamo che questo nome deriva da un verbo latino (proserpo), che significa germogliare, perchè per essa le biade germogliano ne’campi ; percui questa Dea fu annoverata eziandio fra’numi che presiedono all’agricoltura (1) ; e spesso confondesi con Cerere stessa, e con Iside che presso gli Egiziani dinotava la terra. Dicevasi pure da’ Latini Hecate, ch’è parola greca, Εϰατη, la quale deriva o dal greco εϰας, procul, perchè dimora assai lungi da noi ; o un soprannome di Apollo, di lei fratello, detto Ecato, perchè come da Febo dicesi Febe, così da Ecato dicesi Ecate. Da’ Greci dicevasi Persephone, Περσεφονη, o Περσεφονεια, e spesso Περσεφασσα, appo i poeti, perchè tutto colla morte distrugge (η τω φωνω παντα περθονσα). Finalmente si noti che alle volte Κορη, e doricamente Κωρη, vergine, donzella, assolutamente si adopera a dinotare Proserpina, fig. di Cerere (2).

II. Storia favolosa di Proserpina. §

Secondo Cicerone (3), Libera era la stessa che Proserpina, ed era sorella di Libero o Bacco ; e dal medesimo dicesi fig. di Giove primo e di Cerere, cioè del Cielo e della Terra, e reputavasi la virtù vegetativa della terra personificata. Essa fu rapita da Plutone, {p. 381}signore dell’inferno, come a lungo si è raccontato di sopra ; e come consorte del fratello di Giove, fu tosto dichiarata regina de’silenziosi regni dell’Erebo, ed ebbe col marito diviso l’impero sulle ombre de’ morti. Quindi Enea, dovendo mettere il piede negl’infernali luoghi, ad imitazione dell’ Ulisse di Omero, sacrifica all’uno ed all’altra per renderseli propizii(1). Tibullo espressamente fa menzione della potestà che avea Proserpina sulla vita umana(2) ; ed aveasi per arbitra della vita e della morte ; per cui non solo si chiamava Giunone Lucina, come quella che presiedeva alla nascita degli uomini, ma ancora Giunone infernale, perchè loro toglieva la vita. Da ciò venne che Orazio disse, niuno aver mai potuto evitare la crudele Proserpina, per significare che niuno ha mai evitata la morte (nullum saeva caput Proserpina fugit. Lib. 1, od. 28, v. 19) ; essendo noto, come in altro luogo abbiam detto, che Proserpina strappava pochi capelli dal capo di chi dovea morire e che così ne condannava la vita all’orco. Il che ebbe forse origine dal considerare gli uomini quali vittime destinate al Dio dell’inferno ; e si sa che costumavano gli antichi di svellere de’peli dalla fronte di una vittima che dovea sacrificarsi agli Dei e gettarli nel fuoco ; perciò si finge che Proserpina toglieva una ciocca di capelli agli uomini destinati quasi vittime alla morte. Il Tartaro adunque era il regno di Proserpina ; percui presso Orazio vedere il regno della brana Proserpina vuol dir morire. E dallo stesso poeta si rileva che le ombre uscite dell’inferno doveano ritornarvi nel tempo loro prescritto dall’imperiosa Proserpina. E pure, ad onta di tanta potenza che vantar potea la moglie di Plutone, Piritoo e Teseo osarono con inudito coraggio scendere all’inferno e rapire sullo stesso suo trono la regina dell’Erebo. È probabile che Ercole ed i due mentovati eroi fossero entrati nell’inferno col passaporto del ramo dalle foglie d’oro, essendoche, pel bel racconto di Virgilio(3), niuno {p. 382}entrar potea ne’bui regni dell’inferno, se portato non avesse seco un ramoscello con foglie d’oro che offrir doveasi in dono a Proserpina. Claudiano(1) introduce Plutone che, usando ogni maniera di argomenti per mitigare il dolore di Proserpina indegnamente rapita, fra le altre cose le promette che a lei sarebbe consacrato l’albero de’rami d’oro, che nella selva infernale bellamente risplendeva. Ma che cosa abbiano voluto intendere i poeti con tal finzione, non è facile indovinare.

III. Continuazione. Parche. §

La nostra Dea invocavasi in particolar modo negl’incantesimi, come regina delle infernali Deità, colle quali le streghe aveano troppo stretto commercio ; ed anche perchè la luna che presiede alla notte e ch’è la stessa cosa che Proserpina, è l’arbitra ed il fedel testimone de’loro arcani sacrificii(2), ne’quali era mestieri principalmente di grandissimo silenzio. Non di rado le maghe, le quali alle loro erbe univano i così detti carmi ed alcune preghiere, invocavano Ecate e la Dea Tellure fra gli Dei magici (Dii magici), come fa Medea appresso Ovidio(3) ; ed i monti e le rive de’fiumi che alle maghe somministravano in gran copia erbe di efficacia e virtù incredibile ; le quali nascevano particolarmente in Colco, nell’Iberia, e nella Tessaglia.

Comechè grandissima fosse stata l’autorità della regina dell’inferno, pure vuolsi credere soggetta a quella delle Parche, come lo erano tutti gli altri celesti ed infernali Iddii. E veramente esse ebbero gran parte nel rapimento di Proserpina. Plutone, dice Claudiano(4), volendo dividere il suo trono con una giovane Dea, e non trovandone una nell’Olimpo, nè sulla terra, che accettar volesse lo scettro del tenebroso suo regno, irritato minaccia di scuotere l’universo fin dalle {p. 383}fondamenta. Ma le Parche arrestano le sue minacce e con quelle mani, con cui regolano la serie fatale delle cose, distornano l’ira funesta dell’infernale monarca. Giove, dice uno scrittore, avendo appreso da Pan qual fosse il luogo, ove, dopo il rapimento di Proserpina, erasi ritirata Cerere, spedì a lei le Parche. Le loro preghiere calmarono quell’afflitta madre che acconsentì di rivedere la luce e di presentarsi al sovrano degli Dei, il quale giurò di restituirle la figliuola, purchè la stessa gustato non avesse alcun cibo, essendo questa fatal legge delle Parche(1). Il mentovato Claudiano dice che durante il tempo delle nozze di Plutone, esse cessarono da’loro lavori, e che furono incaricate di ricondurre Proserpina sulla terra, allorchè giungea l’istante in cui il Destino le avea permesso di ritornare fra le braccia della propria madre.

Or queste Parche che si annoverano fra le divinità infernali, perchè presiedevano alla vita ed alla morte degli uomini ed a bitavano un antro tenebroso nel Tartaro, erano riguardate come padrone dispotiche della sorte di tutti, di cui regolavano i destini, in guisa che quanto avviene in questo mondo, tutto è soggetto al loro impero. Lo Spanheim dimostra che gli antichi davano al Fato anche il nome di Parche ; e Lattanzio afferma che al Fato gli Dei tutti e lo stesso Giove ubbidiscono, e che le Parche possono più che tutt’i celesti numi. Esse erano tre, delle quali la prima presiedeva al principio, la seconda, alla continuazione, e la terza, al termine della vita umana ; ovvero la prima ordiva, la seconda tesseva, e la terza rompeva o tagliava lo stame della vita dell’uomo. Ma Albrico Filosofo dice che la prima detta Cloto (Κλωθω, Clothus) teneva la conocchia e filava ; la seconda Lachesi (ΔαΧεσις, Lachesis) avvolgeva il filo ; e la terza Atropo (Ατροπος, Atropos) il tagliava. Secondo Tibullo(2), le Parche predicevano sul nascere di ciascuno il tenore della sua vita, filando quello stame fatale che a nessuno de’ numi {p. 384}è dato di sciogliere. Secondo Igìno, esse erano fig. dell’Erebo e della Notte ; con che forse vollero darci ad intendere l’oscurità impenetrabile della nostra sorte che, come dice, Orazio(1), la Divinità cuopre di caliginosa notte. Apollodoro però le dice fig. di Giove e di Temi. Alcuni vogliono che furon dette Parche per antifrasi, essendo che esse sono inesorabili e non perdonano ad alcuno. Da’Greci appellavansi Μοιραι da μερω, dividere, perchè le Parche distribuiscono ed assegnano a ciascuno la sua sorte ; o da μοιρα, fato, perchè le Parche spesso si confondono col fato.

Nell’inno di Mercurio attribuito ad Omero, il soggiorno delle Parche si finge essere nelle valli che circondano il Parnasso ; il che conviene molto bene colla bellissima invenzione di Catullo, il quale nel suo celebre epitalamio sulle nozze di Peleo e di Teti, introduce le Parche che cantano i grandi destini del fatale eroe che da loro nascer dovea, essendo noto che quelle nozze si celebrarono in Tessaglia. In questo luogo con inimitabile eleganza descrive le Parche che, volgendo i loro fusi, cantano gli eterni decreti del Fato, di cui erano ministre(2). Da un verso del lodato poeta(3) si scorge che le Parche erano vestite di un abito ricamato di rami di quercia, come alcuni interpetri vogliono, sebbene altri intendano di una corona di quercia che portano sul capo, perchè anche Platone dice ch’esse aveano il capo ornato di corone ; e ne’frammenti di Sofocle Proserpina si finge coronata di frondi di quercia. Secondo lo stesso Catullo la veste delle Parche era bellamente orlata di porpora di Tiro ; ed Orfeo le dice coperte della più risplendente e lucida porpora.

Baticlete sulla base del trono di Amicleo pose le Parche insieme colle Ore intorno a Plutone ; ed a Megara erano state scolpite da Teocosmo sulla testa di un Giove, forse per dinotare che anche questo nume era {p. 385}soggetto al Destino, di cui le Parche erano ministre. Nel palazzo Pitti a Firenze vi è un quadro di Michelangelo rappresentante le Parche colla conocchia, col fuso e colle forbici, di così grande espressione che riempiono di spavento a vederle. Il destino di ciascuno dagli antichi si credeva scritto in un libro, ove gli Dei andavano a consultarlo. Così presso Ovidio(1) si legge che Giove stesso con Venere va a consultarlo per leggervi il fato di Giulio Cesare. Questa specie di archivio, in cui la fatale serie delle cose vedevasi registrata, stava, secondo quel poeta, nel luogo, ove soggiornano le tre sorelle, cioè le Parche, ed era fatto di bronzo e di solido ferro, sebbene la fatal sorte de’monarchi vi era scritta sul diamante, come quella di Cesare, in quella guisa che presso Claudiano A tropo sul diamante segna le fatidiche parole di Giove.

Alle volte vediamo le Parche occupate a cantare il felice destino di alcuni, come nell’epitalamio di Catullo predicano il fato glorioso di Achille ; e spesso prescrivono il tempo che l’uomo dee dimorar sulla terra, come da Ovidio si scorge, allorchè parla del fatale tizzone, al quale era attaccata la vita di Meleagro. Esse presiedono al ritorno dall’inferno di tutti coloro che, essendovi entrati, a veano da Plutone ottenuto il permesso di uscirne, come Cerere, Bacco, Ercole, Teseo ed altri. Esse compiono i tempi assegnati dal fato(2) ; ed alle volte si servono del ministero degli uomini per togliere la vita a coloro di cui è compiuto il corso. Così elegantemente Virgilio(3) per significare che Aleso dovea morire per mano del figliuolo di Evandro, dice che le Parche gli posero le mani addosso e lo consacrarono alle armi di Evandro, cioè di Pallante, suo figlio. Il veloce avvolgersi de’loro fusi dinotava il fatale rivolgimento degli anni e de’ secoli che le Parche con immutabile volontà regolavano(4). Per {p. 386}significare un uomo, di cui la vita fosse stata una serie di sventure, dicevasi che in sul suo nascere la Parca gli si era mostrata con volto nugoloso(1). E questo basti delle Parche.

IV. Iconologia di Proserpina. §

Proserpina per ordinario si rappresenta assisa allato a Plutone, sopra un trono di ebano e con una fiaccola in mano ; ovvero sopra un cocchio con due neri cavalli e sempre allato a Plutone. Spesso si vede col papavero ch’è il proprio suo simbolo, o tenendo in mano de’ narcissi ch’ella raccoglieva, quando fu rapita da Plutone. Non di rado si vede col calato sul capo, il qual vaso o paniere simile a quelli, di cui servivansi in Grecia per coglier fiori, era simbolo del canestro che teneva Proserpina, allorchè fu rapita da Plutone.

Il rapimento di questa Dea è quasi il solo avvenimento della sua vita che i pittori e gli scultori abbiano rappresentato. Plinio(2) scrive che Prassitele fece di bronzo una Proserpina rapita, opera ch’egli chiama bellissima. Lo stesso autore parla di un ratto di Proserpina rappresentato in un quadro di Nicomaco, che vedevasi nel Campidoglio in un tempio di Minerva. Sopra un vaso della galleria del principe Ponialowscki, che rappresenta l’istituzione de’misteri eleusini, Proserpina vien dipinta con lunga tunica e con ampio peplo ; sulla testa ha un diadema gemmato ed è adorna ancora di una collana e di due braccialetti con perle.

Sopra i medaglioni e le medaglie di Siracusa vedesi la testa di Proserpina che fu presa da alcuni per quella di Aretusa, credendo di raffigurarvi delle foglie di canne, nelle spighe che le servono di corona ; ma la parola Κορας, donzella, che trovasi in molte {p. 387}medaglie, prova ch’essa è una Proserpina, la quale, essendo figlia di Cerere, può benissimo essere coronata di spighe, come la madre.

V. Epiteti principali di Proserpina. §

Antesforia, da ανθος, fiore, e φερειν, portare ; epiteto della Dea, col quale si alludeva a’ fiori ch’ella sceglieva, allorchè fu rapita.

Core, gr. Κορη, donzella ; soprannome che leggesi nelle medaglie di Sicilia, come abbiam detto.

Clonia, gr. Χθονιϰ, terrestre, da Χθων, terra.

Giunone infernale, e Stigia, luno inferna, Stygia, come altrove si è detto.

Libera, lat. Libera, così detta da Libero o Bacco, di cui si voleva sorella.

Libitina, lat. Libitina, Dea che presedeva a’ funerali, che aleuni prendono per Venere, altri per Proserpina. Libitinarii erano quelli che presedevano in Roma a’funerali e somministravano tutte le cose ad essi necessarie. E Libitinense chiamavasi una porta dell’anfiteatro, perchè da essa faceansi uscire i cadaveri de’Gladiatori uccisi.

Sotera o Conservatrice, gr. ςωτειρϰ, lo stesso che sospita, soprannome dato a Proserpina nell’Arcadia, a Sparta e nella Sicilia, forse alludendo al frumento che conserva l’uomo e lo libera dalla morte.

Teogamia da θεος, Iddio, e γαμως, nozze. E Teogamie eran feste celebrate in Sicilia ed in Atene in memoria delle nozze di Proserpina con Plutone.

VI. Alcune altre cose di Proserpina. §

Proserpina, dice il Banier, o Giunone Stigia, la quale spesso disputa ad Atropo l’uffizio di reci dere il filo della nostra vita, fu posta ancora nel numero delle Parche. Or ecco come questo Autore spiega la favola di esse. La loro grande vecchiezza significa l’eternità de’divini decreti. La conocchia ed il fuso ci additano ch’era loro incumbenza regolarne il corso ; e quel {p. 388}filo misterioso, quanto poco dobbiamo appoggiarci ad una vita che si attiene a cosa sì debole. Se esse aveano le ali, ciò dinota la velocità del tempo che vola e passa come un sogno. Le corone che portano sul capo, dimostrano l’assoluto potere che le Parche hanno su tutto l’universo ; l’antro tenebroso che esse abitano, era un simbolo dell’oscurità del nostro destino. Finalmente, se i Filosofi le hanno allogate sulle sfere celesti, ove accordano la loro voce col canto delle Sirene e delle Muse, ciò vuol dire che quelle Dee regolano l’armonia maravigliosa di esse, in cui consiste l’ordine ed il sistema dell’universo.

A Proserpina si sacrificava una troia, ed anche una vacca nera e sterile(1), in segno della sua sterilità. Il simbolo poi più ordinario di questa Dea era il papavero, come l’emblema del sonno de’morti.

fine della terza ed ultima parte

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Consiglio generale di pubblica instruzione §

Napoli 13 Settembre 1856

Vista la domanda del tipografo Andrea Festa, con la quale ha chiesto di porre a stampa l’opera intitolata : Compendio di Mitologia per uso de’ giovanetti del Sacerdote D. Antonio Maria Durante ;

Visto il parere del Regio Revisore Sig. D. Girolamo d’Alessandro ;

Si permette che la suddetta opera si stampi ; però non si pubblichi senza un secondo permesso, che non si darà se prima lo stesso Regio Revisore non avrà attestato di aver riconosciuto nel confronto esser l’impressione uniforme all’originale approvato.

Il Consultore di Stato

Presidente Provvisorio

Cav. Capomazza

Il Segretario Generale

Giuseppe Pietrocola

Commissione arcivescovile per la revisione de’libri §

Napoli 3 Settembre 1856

Nihil obstat

P. Joseph M. Pennasilico C. O. C. Th.

IMPRIMATUR

Pel Deputato

Leopoldo Ruggiero Segretario