Nicola Leoni

1855

Della interpretazione de’ miti e simboli eterodossi per lo intendimento della mitologia

2019
Nicola Leoni, Della interpretazione de’ miti e simboli eterodossi per lo intendimento della mitologia, per Nicola Leoni, Napoli, Stabilimento tipografico di Vincenzo Priggiobba, 1855, in-8, 62 p. PDF : Google.
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Introdvzione §

Promettemmo altra volta dar fuori la interpetrazione dei Miti Eterodossi, ora adempiamo alle nostre promesse. L’allegoria ci apre il campo ad interpetrarli, onde sotto il velo della favola scopriremo alcuni principii, alcune verità, che ci addimostrano ora il mondo fisico, ora il mondo civile e morale. Noi, senza far precedere una lunga prefazione a queste brevi pagine, diciamo solo che potranno tornar utili al leggitore, traendone quale sia stato il trasporto e la immaginazione degli antichi Greci e Latini in crearsi i loro Dii, ed escogitarne poscia una Teogonia, che commisero alla casta ieratica, la quale con le astuzie e con il terrore inspirava il sentimento religioso negli animi di coloro che può dirsi perdusi al bene dell’ intelletto, scambiando il sopraintelligibile per lo intelligibile, l’Ente per lo esistente. I Miti degl’ Iddii, immaginazione di un mondo ancor bambino e fantastico, precedendo di non poco i secoli della istoria, non presentano che un tipo misto di vero e di falso — di vero, alludendo tante volte al mondo fisico o morale — di falso, portando in mezzo narrazioni tutte fittizie ed immaginarie. Dal tipo vero, o solo allusivo ognuno può trarre dettati non poco utili alla istruzione di un mondo civile e morale. Il falso poi traendo origine da immagini tutte fantastiche, ci dipinge forse meglio, che il vero istesso i trasporti delle nazioni e del tempo, quando si deificavano gli stessi esistenti, innalzando loro tempii ed altari. E veramente l’Achille dell’ Iliade ci presenta meglio che Alessandro il genio eroico de’ Greci Elleni ; come del pari una biografia di Numa o di Pitagora, che molto hanno di favoloso, ci dipinge il genio pelasgico degli antichi Italiani, operosi e temperati a un tempo di un mistico contemplativo, più {p. 4}eloquentemente che non ha saputo fare ogni altro legilatore o filosofo de’tempi posteriori.

E non adempiamo che in parte alle nostre promesse, non dandoue che un saggio, lasciando a gli altri ciò che non abbiamo saputo, o non abbiamo voluto far noi. Tuttavolta in queste brevi escogitazioni ci siamo studiati interpetrare non poca parte della Mitologia, e quanto in essa è di più interessante, non essendo il rimanente, che o vera istoria, o puerili fantasie. E promettiamo che a ciascuna parola, che ci ha porto la interpetrazione di un mito, abbiamo aggiunto la sua etimologia, e per toglierne tante volte la interpetrazione del mito istesso, e per nulla tralasciare intentato di ciò che possa promettere la utilità di queste pagine. Abbiamo non meno tolto alcuni concetti, come scorgerassi dalle annotazioni, dagli antichi classici greci e latini, spigolati con lungo studio nel campo dovizioso delle opere di loro, e per impromettere a questo dettato più lunga erudizione, e per più copiosamente interpetrarlo. Perciò non ci cade dubbio, che i saggi institutori delle scuole letterarie volendole spiegare a’ loro alunni, rannodandole allo studio della Mitologia, potranno trarre per questi non poco giovamento.

Taluni, forse comparando questa ultima produzione con le altre nostre opere finora pubblicate, la troveranno di molto inferiore a’ quelle, e pregna di non pochi difetti, di aridezza di dettato, di povertà di concetti e d’immagina, e di altre cose non dissimili. A costoro noi rispondiamo, che oltre di esserei fatti, per quanto ci sappiamo, per un sentiero vergine, ancora e tutto nuovo, la natura istessa dell’ argomento chiede, siffatto dettato, siffatti concetti, siffatte immagini ; ed aggiungiamo, per toglierci da tali censure : che le umane, virtù di rado sorgono senza innestarsi con qualche vizio.

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Capitolo I. §

della origine del politeismo e de’ miti eterodossi, e cagioni che li propagarono.

Sommario —  1. Donde trasse la iniziativa la scienza mitografica, e quali cagioni concorsero a propagarla. 2. Come l’uomo passò dalla vera ad uno spettro di religione, la scienza della quale fu detta mitografia — se ne cerca la cagione nell’essersi obbliato il primo bibblico, Dio crea il cielo e la terra, e come dall’obblio di questo concetto la filosofia tenne dietro a diversi sistemi, onde sursero diverse religioni fino a nascerne il politeismo. 3. Si rafforzano i principii antecedenti rannodando la istoria alla intel lettiva — L’uomo non nacque nè parvolo nè selvaggio, ma invece adulto, educato nella scuola di Dio, onde potè aver lo intuito della Idea, da cui nacque la vera religione — L’uomo cadde da questo stato, addivenne selvaggio, la iniziativa dalla dispersione del genere umano, e cagioni fisiche che disciolsero l’uomo dal culto e dagli ordini civili, onde offuscossi il concetto dell’ atto creativo, e si disperse la intuitiva dell’ Ente e l’ unità di religione, e furono immaginati gl’ Iddii — 4. Oltre di queste altre cagioni — 5. Si numerano gl’ Iddii presidi a ciaseuna cosa, secondo S. Agostino nella Città di Dio — 6. Etimologia e significato della parola mito — Il primo parlar degli uomini essere tutto per miti, se ne trae un esempio dalla Repubblica di Platone, ragioni ed altri esempii, interpetrazione de miti di Pane, di Issione, e di Pasife — 7. Poi col tempo cangiossi il significato della parola mito, e se ne ricerca la cagione nella ignoranza e nello smodare de’costumi, ragioni ed esempii — 8. Delle varie specie di mito. 9. Di alcune induzioni, che hanno attenenza a questo ragionamento — Si dimostra come i miti furono creduti come una messe, cui ognuno può porre la falce, e dar loro diversi siguificati — Ragioni ed esempii tratti da Depuis, da Esiodo, da Giamblico, da Pitagorici e da Macrobio. 10. Iconologia, ossia personificazione della favola — divisione della favola secondo il diverso obbietto cui ha le sue mire.

Tempo già fu, che dilettando i prischi
Dell’ Apollineo culto archimandriti
Di quanti la natura in cielo e in terra
E nell’ aria e nel mar produce effetti,
Tanti Numi crearo : onde per tutta
La celeste materia e la terrestre
Vno spirto, una mente, una divina
Fiamma scorrea, che l’alma era del mondo.
V. Monti, i romantici.

1. Cadvva dalla intellettiva della miglior parte degli uomini la nozione del vero Dio, si vide sorgere su la terra uno spettro di religione, ed all’ Ente sostituendosi l’ esistente, in numeri Dii si {p. 6}ebbero tempii ed altari, si placarono con vittime e sacrificti, i voti del cuore umano furono quasi tutti rivolti al temuto nume di loro ; e propagandosi questo culto nel tempo e nello spazio, quasi tutta la terra addivenne idolatra. E raccontandosi innumeri miti di quest’Iddii, rannodossene in fine un’estesa e scientifica Mitografia. Il volgo ignaro piegovvi spontaneo l’orecchio ; nè lo scorgerli insussistenti alla intellettiva, nè il trovarli distruttori della purezza de’costumi, nè il vederne sorgere tante contraddizioni valsero ad aprir gli occhi e presentar loro lo insano spettacolo di tante fole e smentirle e rigettarle come cose da trivio e viete. Solo la voce di alcuni filosofi, e di tutto il popolo eletto ancora, che in mezzo a tante insanie che coprivano la terra, conservavano non oscurato quel raggio di sapienza che irradiò fin dall’ Eden beato nella mente de’nostri primi genitori, poteva sorgere libera e franca a maledire tante follie ; tuttavolta, o per lasciare illesa la eredità religiosa degli avi loro, o per non mostrarsi avversi al volgo, o ancora per la clava per la onnipotenza degl’imperi, che facevano fermo piedestallo a questa larva di religione, onde non cadere essi medesimi con il crollo di quella, ancora tai filosofi si tacquero, ribadendo i bei sentimenti che spuntavano loro nel cuore, per non pagarla con gli strazii, con la cicuta, e così il politeismo sorgeva impavido gigante e temuto da ogni parte. Noi in queste brevi investigazioni non tralasciamo portare in mezzo alcune nozioni preliminari, onde additar le cagioni, cui dalla religione primitiva dell’ Vno si venne a quella del moltiplice, interpetrare la parola Mito nel vero suo significato e di quali vesti fu poscia ricoperta quando erano in onore gl’ Iddii, e non poche altre cose, che hanno attenenza con queste ricerche filologiche.

2. Vno spettro di religione non poteva essere la religione dei nostri primi padri. La religione figlia ingegnosa del cielo dipartendosi dal trono di Dio, ed appresa dall’uomo dal solo intuito, o, per meglio dire, dalla semplice apprensione dell’ Ente, non può nascere che dal vero perfetto e non mai dall’errore. Religione e filosofia nella mente dell’uomo vanno sempre compagne indivise ; e quando questa si ottenebra, si smarrisce, si disperde per le ambage e circuizioni dell’errore, non dipartendosi da un’ontologismo perfetto, che mena alla primitiva nozione dell’Ente, ancora quella va sventuratamente disviandosi nell’uomo, e per uno psicologismo, che ha per prime nozioni intuitive le creature, non ci può presentare che gli esistenti come prima genesi religiosa. Corre in filosofia un dettato tutto ontologico — l’Ente crea l’esistente — e questa fu la filosofia di tutti i tempi fino a quando non andò per le cagioni, che ora esporremo, obbliato il {p. 7}primo bibblico. « Dio crea il cielo e la terra ». Questa formola, puro concetto della creazione, fu col tempo alterata : alterossi non meno nell’uomo il primitivo sentimento di religione, e di tempo in tempo andò prendendo varii e diversi aspetti, vagheggiando varit e diversi tipi. E su le prime quando a’ nostri padri era il concetto intuitivo e perfetto dell’ Ente, che può concepirsi con la formola ideale — l’Ente crea l’esistente — non si aveva che la vera religione primitiva pura e divina, quale una candida figlia del cielo discesa in su la terra per santificare ed incivilire l’umana progenie, e per indiarla, quando, compiuto il periodo della vita, l’uomo si discioglie dall’argilla onde è plasmato. Poscia oscurato questo concetto dalla immaginazione, e non presentandosi alla escogitativa che la nozione dell’esistente, ora come fantasma che procede per via di emanazione, e non potevasi avere per religione che un’emanatismo ; ora come un moltiplice con una divisione sostanziale, e non ne sorgeva che un politeismo, ossia la pluralità degli Dei ; ora l’Ente e l’esistente presentandosi come una identità sostanziale, non si pone dagl’incauti che un teocosmo, un panteismo, cui togliendosi via ogni concepimento di creazione, ciascuna creatura può chiamarsi un Dio. Ecco come uno de’filosofi italiani si raccapriccia a questi mostruosi errori, mettendo in comparazione la vera con l’erronea filosofia. « Il pensiero umano, ei dice(1), da primi tempi fino a noi ha percorso due strade distinte, che si possono seguire con gli occhi nella vasta estensione de’paesi e dei secoli. La prima di queste strade, che può paragonarsi ad una linea retta luminosa continua, la quale rimonta all’origine istessa dell’uomo, consiste nella rivelazione soprannaturale trasmessa dall’autorità e dalla tradizione : questo è il pensiero ortodosso, che si fonda sul mistero assioma rivelato e razionale della creazione e lo conserva in tutta la sua purezza. La seconda, che può rappresentarsi come una linea tortuosa avviluppata dalle tenebre piena d’interruzione, non cominciando che dopo la caduta, è tracciata dalla ragione umana, che manca di autorità tradizionale, e che non ha che alcuni avanzi alterati della rivelazione primitiva, o rinnovata : questo è il pensiero eterodosso, che ignora e nega la creazione, e per la mancanza di questa idea intermedia divinizza la natura ed umanizza Dio, e ondeggia così tra lo antropomorfismo e l’apoteosi. La prima ch’è unica, giacchè l’unità è il carattere della verità, abbraccia la Chiesa cattolica nel senso più esteso della parola, cioè la società divina ed infallibile prima e dopo Cristo : la seconda ch’è multipla, secondo la natura dell’errore, abbraccia il paganesimo sotto tutte le sue forme e con tutte le sue {p. 8}filosofie, l’eresie cristiane, il nominalismo del medio evo e la filosofia che predomina in Europa da Cartesio fino a noi ».

3. E rannodando insieme la parte istorica alla intellettiva, è d’uopo far meglio vedere lo sdrucciolo di non poca parte dell’umana famiglia dalla vera religione dell’ Ente in quella degli esistenti, della pluralità degli Iddii. L’uomo non uscì dalle mani del Creatore nè selvaggio, nè parvolo, ma invece adulto e virile, educato nella scuola dello stesso Dio per vie tutte misteriose ed arcane. Nè poteva, come vanno errati taluni, incominciare dallo stato selvaggio e barbaro ; perciocchè lo incivilimento ha bisogno di alcuni elementi che lo producono. E dall’altra parte quando l’uomo fosse venuto selvaggio o parvolo, sprovveduto di siffatti elementi, non potendo da sè stesso porgere amica mano ai suoi bisogni, senza avere speranza d’incivilirsi, perpetuandosi invece in tale stato tra le selve, ivi avrebbe sempre vivuto vita selvaggia, o vi sarebbe peruto nell’abbandono di sè stesso e nella debolezza di sua vita. L’uomo nato adulto e manodotto da Dio, la Idea presentoglisi spontaneamente allo intuito, la riconoscenza di sua creazione, il cum ulo interminato delle doti del Creatore, il culto e l’amore a lui dovuto, la religione, per dir tutto in una parola, dovè parlare eloquentemente nel suo cuore, dovè nascere tutta compiuta e perfetta, o, per adottare il concetto di un mito eterodosso, come Minerva usciva tutta compiutamente plasmata dal cervello di Giove. L’uomo non serbò per sempre la forza primitiva di sua mente, non manteune il culto civile, cui chiamollo il Creatore, ma si disperse nella gran selva della terra, addivenne parvolo, ed allora, così un filosofo italiano(1) « gli errori susseguenti non furono i vagiti della infanzia, ma il farnetico della infermità, e lo svariare della vecchiezza ». Si divise la umana famiglia in varie caste, in varie lingue, l’uomo andò solingo ed irsuto come belva tra le boscaglie, e molte cagioni concorsero alla sua dispersione. Il dipartirsi per diverse regioni della terra degli orgogliosi della torre di Babele, i sovvertimenti a quando a quando iterati di natura, un’aerimoto, un diluvio di acque, uno sbocco di fuoco, un tremito di terra ruinoso, uno sboccar fuori da’loro limiti di oceani, ed altri sconvolgimenti, onde fu preda la terra, bastarono a spaventare l’umana famiglia e dissolverla dall’unità, dal culto degli ordini civili, e farle abbandonare e fuggire alla rinfusa dalla terra natia, a chiamarla ad un’isolamento, a disperderla tra le selve, a declinarla alla vita selvaggia, o barbara, a renderla rinnegata ad ogni umano incivilimento. Così caduto l’uomo dal natio splendore, e severchiando in lui di {p. 9}molto il senso e la immaginativa alla ragione, restò invescato nella belletta de’ sensi, sostituendo il sensibile all’intelligibité, l’Ente all’esistente. E trascorrendo di tempo in tempo di errore in errore, e cogliendo in fine gli estremi, facendosi per ogni divieto, la Idea andò in lui offuscata e dispersa ; con la perdita della unità sociale fu obbliato del pari il concetto creativo e della unità cosmica, disparve la intuitiva divina, nacque il politeismo, e quasi ogni aggregazione sociale ebbe i suoi Iddii peculiari, pochi eletti infuori, che scrbando il concetto rivelato e tradizionale serbarono non meno il concetto di Dio, fu instituita una Mitografia, ed alla casta feratica fu affidata la tutela del patrimonio di cotanta insania.

4. Inoltre molte altre cagioni. Ora la pietà di un figlio deifica un padre rapito al suo amore ; ora la desolazione di una madro fa un Dio del figlio, a cui la natura ha tolto addivenire un’uomo ; ora un padre colpito nella sua tenera posterità invoca in essa gli Dei del suo dolore ; ora il menzogniero artificio delle caste ieratiche offre nuova esca alla credulità de’ popoli ; infine lo stesso linguaggio mitico perdendo di tempo in tempo il’ suo significato primitivo, pone divinità enimmatiche invese di simboli e di emblemi. Ancorpa e la pittura, e la scultura e la poesia sono fonte ubertosa di idolatria. I poeti, che adornavano la natura con le loro brillanti illusioni, son trascinati anch’essi a piè degli altari e finiscono adorando le opere della istessa loro immaginazione. Dai poeti tutto era deificato, onde l’immortal V. Monti(1).

Tutto era vita allor, tutto animava
La bell’arte de’ vati. Entro la buccia
Di quella pianta palpitava il petto
D’ una saltante Driade….
Quella limpida fonte uscia dall’urna
D’ un amorosa Nalade….
Il canto, che alla queta ombra del bosco
Ti vien si dolce nella notte al core,
Era il lamento di real donzella,
Da re tiranno indegnamente offesa.
Fanciul superbo di sè stesso amante
Era quel fior ; quell’altro al sol converso
Vna ninfa, a cui nocque esser gelosa ;
Quel lauro onor de’ forti e de’ poeti ;
Quella canna che fischia e quella scorza,
Che ne’boschi Sabei lagrime suda,
Nella sacra di Pindo alta favella.
Ebbero un giorno e sentimento e vita.

{p. 10}5. E non era obbietto a cui non fu posto preside un Dio. Invero i romani a ciascuna cosa facevan presedere un nume peculiare. S. Agostino rimproverando la turba degl’ Iddii, cui quegli affidavano, onde promettersi eterna felicità del loro impero, la tutela di ogni cosa, non credendo uno esser bastante per tutto, numera ad uno ad uno quest’Iddii. — Dimandiamo, ei dicc(1), voltando, come meglio ci è dato, le sue parole nella nostra lingua, quale tra la innumera turba degl’ Iddii credono di aver serbato e disteso quello impero. Perciocchè nè in un’opera così preclara e piena di tanta dignità ardiscono sotto il nome degl’ Iddii e delle Dee attribuirne qualche parte alla Dea Cloacina(2), o a Volupia, che dalla voluttà si ebbe questo nome ; o alla Dea Libentina, che fu così detta dalla libidine ; o al dio Vagitano, che presiede a’vagiti degl’infanti ; o alla dea Cunina, che tutela le cune di loro…… Nè stimarono commettere ad un solo nume la tutela de’ campi ; ma rura alla dea Rusina ; le giogaie de’monti al dio Giogatino ; i colli alla dea Collina ; le valli a Vallonia. Nè fu loro dato ritrovare una Segezia(3) di tanto potere, a cui una volta affidassero le biade ; ma fecero presedere la dea Seia a’frumenti seminati fino a quando stessero sotto terra ; pullulando poi su la terra e producendo le biade, la dea Segezia ; a’ frumenti raccolti e riposti, onde conservarsi in sicuro la dea Tutilina(4). E non sembrando loro essere bastante quella Segezia per conservare le biade dal pullulare in erba fino ad aridirsi le spighe, fecero preside Proserpina a’frumenti germoglianti ; a’gambi, e nodi degli steli il dio Nodoto ; allo involucro de’gusci la dea Volutina ; alle spighe uscenti fuori la dea Patelena(5) ; alle biade eguagliantisi sul prato con le nuove spighe la dea Ostilina(6) ; a’ frumenti nel tempo di {p. 11}fiorire la dea Flora(1) ; quando vanno in latte il dio Latturno ; quando maturi la dea Matura(2) ; quando vengono arroncati la dea Roncina(3).

6. Ora della parola mito — Sul principio della opera mia, dice Pausania(4), dovendo parlare delle favole immaginate da’Greci, le credeva ridicole e spregevoli ; ma ora ne porto diverso giudizio ; chè i sapienti della Grecia ebbero sotto tali enigmi colato verità importanti — Questo concetto di Pausania è quale lo richiede la esposizione di questo argomento. Invero la voce mito tutta greca μιθος altro non importa che un parlar vero, ma fatto per via d’immagini di esseri animati creduti in miglior parte divini. Così eo’miti di Giove, di Cibele e di Nettuno, che furono poscia creduti come tre divinità, altro non intendevasi che il cielo, la terra ed il mare. Era questo il parlare degli uomini della prima età del mondo, e può trarsene un esempio ancora da Platone, sebbene viveva in una età assai posteriore. Ei nella sua Repubblica(5) per dare un’immagine del mondo, dell’uomo e della vita dell’uomo, descrive un’antro, ove va rinchiusa fin dalla infanzia una moltitudine di uomini gravati di catene, a non potere nè alzare, nè muovere il capo, irradiando a loro spalle una luce, che solo per loro splende a riflesso, e passando ombre d’avanti a loro. Con l’antro egl’intende il globo, che noi abbitiamo — con le catene le nostre passioni — con le ombre gli uomini stessi abitatori del globo, e la figura del mondo. E va tuttavolta in uso ancor tra noi, come fanno i pittori, che volendo dar forma a gl’intelligibili, quali sono gli errori, le virtù, la scienza, le passioni dell’animo, le facoltà della mente, ed altre cose non dissimili, li presentano sotto il tipo or di uomo, or di donna. Ne’ primi tempi tutto era simbolico e conceputo per via d’immagini ; perciocchè secondo le escogitazioni del chiarissimo autore della Scienza Nuova(6), i primi uomini come fanciulli del genere umano non essendo capaci di formare i generi intelligibili delle cose, ebbero naturale di fingersi i caratteri {p. 12}poetici, che sono generi od universali fantastici da ridurvi come a certi modelli, o pure ritratti ideali tutte le specie particolari a ciascun suo genere simiglianti : come gli Egizii tutti i loro ritrovati utili necessari al genere umano, che sono particolari effetti di sapienza civile, riducevano al genere del sapiente civile da essi fantasticato, Mercurio Trimegistro ; perchè non sapevano astrarre il genere intelligibile di sapiente civile, e molto meno la forma di civile sapienza ». Invero tutto era rappresentato per via d’immagini sensibili nella prima infanzia del mondo. Quando volevasi dare un tipo del mondo, o di potenza, o di eternità rappresenta vasi sotto il simbolo di un globo. E col globo istesso porto o da Dio ad un principe, o da un principe a’popoli di lui, indicavasi e un potere supremo e un largitore di grazio. E quando si voleva additare la sovranità de’mari presentavasi un globo una ad un timone ; e quando piaceva darsi un’immagine di sacra inaugurazione di un principe, si presentava sormontato da un’aquila ad ali dispiegate ; e quando davasi una nozione della eternità veniva seguito da una fenice ; e quando alle vittorie ed ai trionfi un principe andava debitore dello impero della terra, nelle monete o medaglie faceva imprimore un globo, su cui poggiava una vittoria alata con in mano una corona. Ancora con miti descrivevansi gli avvenimenti degli uomini. Così Pane, che era ancora egli un simbolo della natura umana e selvaggia, volendo abbracciar Siringa, si trova fra le baccia le canne — Issione preso di amore per Giunone, dea de’matrimonii solenni, stringe in vece al seno una nube : indicavasi dalla istoria poetica con questi due miti la leggerezza, la vanità delle nozze naturali, cui un tempo l’uomo congiungevasi alla donna, come le belve alle belve. E i Proci invadono la reggia di Vlisse, ne divorano le sostanze, contendono di venire a connubio con Penelope : non era questo che un mito, cui intendevasi l’appropriato dominio de’campi, e le pretenzioni delle nozze solenni, che celebrate solo da’ nobili, non si permettevano alla plebe, e ciò da una delle leggi delle XII. Tavole(1), cui presso gli antichi romani era vieto a’plebei impalmare le donne patrizie, e non l’ottennero che dopo lunga lotta tra i nobili ed il volgo. E Pasife arde d’impuri amori e giace col toro, e ne viene il minotauro, ossia un mostro dalle sembianze di uomo e di toro : mito difficile a spiegarsi, se pure non intendevasi di aver gli eroi Cretesi lasciati liberi i connubii a gli estranei venuti in Creta con una nave detta Toro. Da’ questi e da innumeri altri miti, che potremmo portare in mezzo, non v’ha chi non comprende di leggieri, essere i miti un parlar vero espresso per via {p. 13}di allegorie, e tutti gl’intraprendimenti umani essere conceputi con modi fantastici e per immagini.

7. E non sempre questo si intese co’miti e con le favole, ma la ignoranza e lo smodare per ogni estremo fè ad essi cambiare significato. E prima dalla ignoranza. I primi abitatori della terra quando andarono perduti al bene dello intelletto, come fanciulli della umana famiglia, davano il nome di Dio a tutto quello, che rifuggiva alla loro intellettiva. Se ne può trarre esempio dal Saggio Politico del signor Vmboldt nella istoria degli Americani, infra i quali non pochi in istato ancora di selvaggi tengono come Iddii tutti gli obbietti, che sembrano loro inintelligibili ; e da Tacito(1), che facendo parola degli antichi Germani abitatori della maremme appo il mare diacciato, diceva credersi da costoro, come altra volta abbiamo favellato(2), di sentirsi ivi il suono del muoversi del sole dall’orto all’occaso, e di vedersi le immagini degli Dei. E per tal ragione si finsero essere il cielo come un’immenso corpo animato, cui donarono il nome di Giove, che con lo vibrar de’fulmini, e con il tuono volesse dir loro qualche cosa ; un Giove corpulento, di grandi e lunghissime braccia l’immense forze, un essere gigantesco, che per tale possanza dissero Messimo, di cui credevano riempiute tutte le cose, Iovis omnia plena, concetto tutto panteistico, da cui tragge gli esordii quello emanatismo, con cui ora va contaminandosi la vera filosofia in non pochi luoghi di Europa : un Giove che dicevano essere più alto della cima de’monti, onde Platone disse esser l’etere, che si diffonde dappertutto. E questo modo di concepirsi gli Dei non più porgeva miti di narrazioni vere, ma fittizie, immaginarie, fantastiche, quali nascevano dalla ignoranza. Lo smodare de’costumi oscurò ancora di tempo in tempo le vere narrazioni de’miti. Volendo gli uomini con gli esempii degl’ Iddii, che si creavano nella loro mente, trascorrere, senza rimorso, di errore in errore, di divieto in divieto, ingiunsero, come di Eusehio, ai miti, interpolandoli, significati mistici ed improprii, sensi laidi ed oscurissimi, e questo avvenne anche prima del cantore dell’ Iliade, chè a’Greci importava di non andare gli Dei avversi a’loro voti, come credevano avversi a’loro costumi, onde appiccarono a gl’ Iddii stessi i loro proprii trasporti, per trascorrere senza rimorso alcuno. È per questo che al concetto dell’ Ente sottentò quello degli esistenti, e gli esistenti furono deificati, e soprattutto coloro, cui la utilità pubblica andò debitrice di singolari servigii, di ritrovati necessarii alla vita, di conquiste, di vittorie, di trionfi, a cui {p. 14}tengono dietro la gloria e lo splendore delle genti, di fondazioni di città, di conduzioni di colonie, onde nascono le aggregazioni degli uomini, il culto civile, le dovizie dell’agricoltura, del commercio, lo splendore delle scienze e delle lettere, le scoperte di terre e di oceani remoti e sconosciuti, chiamandovi il traffico, quando l’ebbero disgombrati dalla orridezza di natura, che li circondava, e tutelati da mostri, che vi avevano disteso antico impero. E questi esseri benefattori della umana famiglia furono deificati, si ebbero tempii, altari e sacrificii con tutti i loro errori. Vomini, esseri esistenti elevati alla nozione dell’ Ente per pubblica riconoscenza, Diodoro Sicolo parla della maggior parte delle loro intraprese, delle conquiste, delle scoperte, degli amori, delle glorie, delle dissavventure, non obbliando a un tempo e il nascer loro e la culla, e la morte e loro tomba.

8. Ora delle varie specie di mito, onde gli antichi eterodossi veneravano molt’Iddii. Il dottissimo pontefice Scevola, come dice S. Agostino(1), tenendo parola al popolo romano, favellò di tre generi d’Iddii, uno come un comento de’poeti, e chiamollo nugatorio, cui si fingono degl’ Iddii molte cose indegne ed avverse alla purezza de’costumi ; l’altro come un comento de’ filosofi, e che poco fassi incontro a gl’interessi sociali, che anzi torna di nocumento a’ popoli ; l’altro da’principi e da sacerdoti. Da questa esposizione di Scevola lo immenso Varrone, come abbiamo dallo stesso Agostino(2), portò in mezzo tre specie di mitografia, mistica, fisica e civile. Mitografia mistica, ossia favolosa — ed in questa si finsero molte cose contra la natura e il decoro degl’immortali, una diva dal cervello di Giove, Minerva ; un dio dalla coscia dello istesso Giove, Bacco ; un’altro dalle gocciole del sangue, Pegaso cavallo alato, che si voleva nato dal sangue di Medusa ; e volando poscia nel cielo fosse collocato tra le costella zioni ; e molti altri Iddii, che si vollero adulteri, presedere al furto, servire a gli uomini. Mitografia fisica — ed in questi Varrone fa ricerca su la natura e genealogia degli Dei, se nacquero eglino in tempo o furono sempiterni ; se procreati dal fuoco, come credeva Eraclito, che tutto voleva far nascere da questo elemento, e tutto ritornare in esso ; o dai numeri, come eredeva Pitagora, filosofando l’anime e degli Iddii e degli uomini, e tutto e quanto v’ha nel mondo costar di numeri, e tutto nascere dalla armonia e concento di loro(3) ; o dagli atomi, come opinava {p. 15}Epicuro, il quale emulando la scuola di Democrito, voleva tutto andar composto di minutissimi corpicciuoli indivisibili. Mitografia civile — ed in questa riponeva tutti gl’ Iddii, che furono immaginafi da’principi e da Sacerdoti, e che meritano il culto degli uomini. Da tali mitografie prese le menti, tutte restarono invescate nella belletta de’sensi. E qui le parole del signor Bianchini, che mirabilmente descrive questo smodare delle genti. Ligate, ei dice(1), in tal modo, ora con inganno autorevole, ora con silenzio misterioso, ora con vaghezza di pompa, ora con indulgenza di senso, le menti più deboli, rimanevano ad oppugnare ancora le sorti, cioè di coloro che dati alla contemplazione del vero, potevano, come Tullio appresso i romani, e Socrate nella Grecia, ridersi apertamente di queste umane invenzioni ».

« Occuparono perciò questa seconda uscita con misteri egulmente ingannevoli ed empii, ed introdussero nel mondo una divinità corporale, che tutto lo informasse, quale anima grande un corpo vastissimo, e dalla maestà delle parti, dall’ordine, dall’avvenenza invitati, invece di riconoscere e di adorare l’autore, tentarono di cacciarlo per cedere il luogo ad un popolo di chimere o di numi, che situarono quale nel Sole o negli astri, quale ne’ bruti e negli scarabei, ritrovando in ogni creatura, benchè minuta, nicchio capace di una intera e propria deità ».

« La novità dello immaginato applicarono all’antichità dell’errore introdotto, esponendo quasi misteri di teologia quelli ch’erano avvenimenti d’istoria, e fantasie d’ignoranti spacciando per dogmi e per massime di filosofi. L’ambizione del parto ingegnoso portavali tanto appresso a loro numi, quanto l’ammirazione sopra il rimunente del volgo. La morale, che di qui trassero accomodata alle passioni de’letterati tanto allettava con l’albagia, quanto appagava con l’ apparenza. Nacque, allignò, si distese la seconda teologia de’ filosofi, detta naturale o fisica da Varrone. Finalmente si ritrovò un terzo genere di nomini, chiamato civile che si prevalse degli errori e delle passioni sì del volgo, come de’ letterati, e ne compose un misto di teologia nominata civile. Questa a tutti compiacendo lasciava i filosofi nell’ambizione di conversare con gli. Dei mondani, ed il volgo nella libertà di trattenersi con essi, e con gli antenati, nel mantenere il senso in possessione di ogni diletto, placando con giuochi, danze e conviti, in somma con la imitazione de’vizi de’loro maggiori, più che le anime degli antenati, poste tra i numi, o tra i genii, quelle de’viventi, che ereditavano le loro inclinazioni e le colpe ».

9. Da questo variar di significate della parola Mito or ci sorge {p. 16}vaghezza di venire ad alcune induzioni, che hanno molta attenenza con questo argomento. Alla narrazione vera del mito conceputa solo con immagini o simboli sottendrando il concetto di cose finte ed immaginate a talento, ognuno ha creduto i miti e le favole come una messe, cui può mettersi impunemente la falce, e scoprirvi ciò che meglio torna a sue propensioni, o va a seconda de’suoi studii. Lo istorico discoprendo il velo, cui vanno avvolti i miti, vi trova gli elementi e la iniziativa della storia antica de’ popoli ; il fisico vi discopre i misteri di natura ; il politico il raffinamento di un saggio governo ; il filosofo la parte più bella della morale. Altri riponendo un’allegoria in ciascun mito, spiegarono la mitologia per mezzo delle Costellazioni. « Le favole, così il sig. Depuis(1), altro non sono fuorchè le celesti apparenze e fenomeni della natura allegorizzati e abbelliti dalle grazie della poesia. « Ed Esiodo nella sua Teogonia parla degli Iddii come figli del cielo e della terra » Cantate, così volto in italiano le sue parole(2), o Muse, gli Dei immortali, figli della terra e del cielo stellato, nati dal seno della notte, alimentati dalle acque dell’oceano ». Del pari la sentivano i Fenici, gli Egizii ; e Sanconiatone credeva, esser le favole non altro che allegorie cosmico-fisiche. E Giamblico portando in mezzo le autorità dei più saggi sacerdoti Egizii, vuole che la religione e le favole di loro si raggirassero sopra il levarsi de’pianeti, delle stelle e delle costellazioni. Per questo taluni delle dodici divinità maggiori fecero dodici periodi di tempi corrispondenti a ciascuno mese dell’anno. Altri non meno spiegando i miti e le favole per mezzo di caratteri astronomici, e supponendo a un tempo alcune intelligenze unite a corpi celesti, ed un’anima sparsa dappertutto e motrice della natura, che da Pitagorici era detta anima del mondo, che con un’antico emanatismo volevano uscita dal seno della istessa divinità, anima variante di forme allo infinito, secondo i diversi effetti di che volevano esser ella produttrice, e secondo gli esseri diversi da lei usciti, tutta sopra queste intelligenze e sopra questa anima del mondo vanno raggirando la teogonia degli antichi poeti. E Macrobio in fine distinguendo i gradi dell’Essere supremo(3), che dice essere e Dio, e la mente da lui nata, e l’anima del mondo, vuole che su di quest’anima, sorgente di tutte le altre anime, e su l’eterne potenze vanno fondate tutte le favole, che hanno per obbietto il mondo visibile e le forze motrici, che lo {p. 17}governano. Da queste nozioni di Macrobio può dirsi dunque altro non essere i miti e le favole, che un velo ingegnoso gettato da prudente mano su tutte le opere di natura, e secondo questi principii noi ci studieremo interpetrare i miti eterodossi nel breve giro di queste nostre escogitazioni, dando a un tempo ad intendere, che il culto renduto a quest’anima dell’universo una al culto del Sole, della Luna e di altri corpi celesti, fu l’obbietto delle favole di tutti i popoli eterodossi.

10. La favola è un intelligibile, che non va soggetto a forma e ad immagini esteriori. Intanto i pittori e gli scultori volendola personificare e darne fuori una iconologia, ce la presentano sotto il tipo di una divinità allegorica, figlia del Sonno e della Notte, con una maschera in volto e splendidamente vestita, cui va compagna indivisa la menzogna occupata a contraffare la istoria. Avendo le favole per obbietto le nozioni della istoria teologica, favolosa e poetica, potrebbonsi dividere in istoriche, filosofiche, allegoriche, morali, miste ed inventate a capriccio. Favole istoriche, ossia antica istoria frammischiata a mille immaginazioni : tale è la favola della maggior parte degl’Iddii, Giove, Apollo, Bacco, Ercole etc. Filosofiche e sono quelle immaginate da’poeti a manifestare gli arcani della filosofia, come è il dirsi — l’oceano essere il padre de’fiumi ; la Luna avere sposata l’aria e addivenir madre della ruggiada — Morali, cioè finte a comunicare alcuni dettati per formare i costumi, e tali sono gli apologhi — Allegoriche, vale a dire che portano seco un senso mistico — Miste, cioè allegoriche e morali, e così può chiamarsi la favola di Leucotoe cangiata in albero, da cui tragge fuori lo incenso ; o quella di Clizia mutata in elitropio. Mista del pari è la favola del pomo di oro, che la Discordia fece cadere in mezzo al convito degli Dei, per darsi alla più bella delle Dee, quando da Giove scelto Paride per giudice, onde a quale delle dee si dovesse dare, se a Giunone, a Minerva od a Venere, ei donollo a Venere, che gli prometteva la più bella donna del mondo : favola mista di allegoria, perchè con il convito qui s’intende la celeste facoltà, cioè lo spirito e la mente degli Dei — con il pomo di oro il mondo, il quale come che è un’aggregato di contrarii concorrenti in uno, con ragione viene gettato dalla Discordia — e di morale, chè per Paride qui s’intende l’animo dell’ uomo che vive solo secondo il senso, il quale nulla curando le altre cose della terra, crede esser Venere, la bellezza tutto il suo mondo, il suo bene. — Inventate a capriccio, e sono quelle immaginate solo per divertimento, così potrebbesi dire la favola di Psiche.

[n.p.]

Capitolo II. §

Sommario — 11. Interpetrazione de’miti in particolare. 12. Dei maggiori. 13. Giove come nacque nella mente de’Greci, e donde può trarsene la etimologia — Iconologia di Giove e come da questa si trae la interpetrazione del mito, cui si scopre esser quegli l’etere o l’aere sparso dappertutto, e da ciò si dà la vera spiega di alcuni concetti de’classici latini — si rafforza la esplicazione di questo mito da un simulacro di Giove, ricordato da Pausania, a tre occhi, e che voleva intendere lo scultore in così immaginarlo 14. Giove preso per l’anima del Mondo, nozioni tolte da S. Agostino nella Città di Dio. 15. Esposizione del mito di Giove da Plutarco. 16. Bacco, figlio di Giove, interpetrazione di questo mito. 17. A Giove si dava per padre Saturno — Etimologia della parola Saturno — varie attribuzioni di lui tratte da un inno che si vuole di Orfeo — Interpetrazione di alcuni miti di Saturno, esposti e spiegati da Tullio nel lib. 11 della Natura degli Dei. 18. Nettuno — etimologia di questa parola tolta da Tullio e da Varrone — varii nomi di Nettuno, e loro significato. 19. Plutone — duplice interpetrazione del mito di questo Dio, onde si trova non essere che o le ricchezze della terra, od il sole o l’aria. 20. Apollo — varie maniere, cui lo rappresentavano gli Egizii, onde si scopre non essere che il sole, ragioni — etimologia della parola Apollo da Platone e da altri classici greci — interpetrazione di tutti i modi onde veniva rappresentato. 21. Varie attribuzioni di Apollo e loro significato. 22. Apollo uccide il serpente Pitone, allegoria di questo mito, tolta da Macrobio. 23. Apollo cacciato dal cielo pastura le greggi di Admeto, interpetrazione di questo mito. 24. Concetti tolti dalla Scienza Nuova del Vico intorno a questo nume, come ne interpetra i miti. 25. Mercurio — etimologia di questa parola — dall’allegoria de’suoi miti si scuopre, che con questo nume indicavasi l’apparente corso del sole ed i suoi fenomeni, pruove. 26. S. Agostino v’intende non altro che la parola. 27. Nomi di Mercurio tutti allusivi alla parola. 28. Diversa interpetrazione tolta dalla Scienza Nuova del Vico. 29. Marte — come questa divinità nacque in mente degli Egizii. 30. Vulcano — è una personificazione del fuoco, cui traggonsi molti vantaggi — (31). Sentimento della scuola stoica, cui con Vulcano può intendersi l’anima del mondo. 31. I Ciclopi compagni di Vulcano, allegoria del loro mito, cui intendonsi gl’igniti vulcani — traslato de’fulmini fabbricati da loro.

Giove, Satvrno, Nettvno, Plvtone, Apollo, Mercvrio, Marte, Vvlcano, Bacco, Ciclopi.

11. Senza voler perdere più tempo in interrogare i monumenti letterarii a noi rimasti fra gli avanzi e la polvere dell’antichità più remota, e discoprire le cagioni produttrici del politeismo, e le origini del mito ne’varii suoi concetti, or portando nostra mente alla interpetrazione del miti degl’ Iddii in particolare, nulla diremo di ciò ch’è favola, supponendo il leggitore esserne istruito. E se poi queste nostre escogitazioni si volessero a un tempo associare allo studio della Mitologia per la istruzione de’giovanetti, {p. 19}debbonsi far precedere le lezioni di questa alla interpetrazione di quelli, onde intender le favole nel vero loro significato.

12. Adorni gli antichi nostri padri di non volgare sapienza, volendo esprimere la natura, le forze ed i suoi fenomeni, si giovarono di miti e di simboli. Per questo numerando dodici Dii maggiori, li dividevano in triplice ordine, celesti, mondani e di coloro, che procreano la mente e gli animi — Celesti, quegl’ Iddii, onde vanno procreate le sostanze de’ Numi — Mondani quegl’ Iddii, onde il mondo esiste, e di questi altri creano il mondo, come Giove, cioè l’etere, o l’aria ; Nettuno il mare, le acque ; Vulcano il fuoco, esprimendosi i tre elementi, di cui si credeva esser composte le sostanze delle cose ; altri lo animano, come Giunone, cioè l’aria, l’etere, le biade ; Diana, la caccia, dalla quale gli antichi e soprattutto i selvaggi campavano in miglior parte la vita ; altri plasmato di varii e diversi obbietti, vi portano misura, ordine ed unità, come Apollo, Mercurio, entrambi l’armonia, Venere il bello, che sorge dall’unità e dall’ordine ; altri lo conservano, lo tutelano, come Marte, Pallade, Vesta, che si rappresentano armati, simbolica di fortezza e di tutela.

13. Giove — Ei nacque nella mente de’greci come un carattere poetico, come un tipo, come un’universale fantastico. Padre degli Dei e degli nomini, detto Giove, come vuole Tullio(1), a iuvando, ossia da’beneficii, che credevasi versare a larga mano per lo universo, veniva rappresentato da tutta l’antichità in atto di fulminare, e credevasi a un tempo che lo slancio da’ baleni, ed il fragore de’tuoni non fossero che i cenni e lo stesso favellar di Giove. In questo noi troviamo un mito, che non ha difficile interpetrazione, e ci viene porta dagli stessi antichi poeti. Eglino intendevano per Giove l’etere sparso per le regioni superiori dell’alto, e l’aere diffuso dappertutto. « Vedi, diceva Ennio in un verso riportato da Tullio(2), tutto questo che cade giù dall’alto e che tutti chiamano Giove ». Ed Euripide dallo stesse luogo di Tullio(3) « vedi, diceva, ciò che su in alto si eleva mobile e sparso da ogni lato, che con tenero amplesso circonda la terra : questo ritenete per sommo tra gl’Iddii, questo ritenete per Giove » Il seggio di Giove, così Virgilio(4), è posto dov’è aere, dov’è {p. 20}terra, dov’è mare : è Giove tutto ciò che vedi, tutte quello per cui ti muovi. E non è l’aere uno degli immensi ricettacoli dell’elettricismo, che lanciandosi di regione in regione per le vie dell’alto ingenera la folgore, e nel rapidissimo suo slancio, squardo i campi dell’aere, è infine il produttore del tuono ? E per questo i Greci lo chiamavano Διος, onde i latini dissero sub diu a cielo scoperto. E, preso Giove per l’aere, ben si possono interpetrare nel vero loro significato que’concetti dei latini — ab Iove principium — Iovis omnia plena ; perciocchè l’aere primo tra gli elementi è diffuso ancora per ogni recondito recesso della terra, è principio e generatore di tutte le cose, onde Giove fu detto padre degli Dei e degli uomini ; e del pari portò il nome di Ottimo-massimo, e mille altri grandiosi titoli de’quali vanno pieni i canti de’poeti greci e latini. E per questo ancora Giove era detto Dio del cielo, della terra e dell’ inferno, e se ne può trarre argomento da un simulacro, che, come dice Pausania, vedevasi in Argo con due occhi non dissimili a quelli, che la natura ha dato a gli uomini ; e con un terzo in mezzo alla fronte ; perciocchè oltre la idea dello scultore, da cui fu fatto, per indicare lo impero di Dio sul triplice regno della creazione, l’aere mobile per sua natura si eleva in alto cielo, si diffonde su la terra e sul mare, penetra nello imo degli abissi.

14. Altri credendo essere Giove non altro che l’anima del mondo, come mirabilmente fu esposto da Virgilio, svolgendo un principio della scuola pitagorica — essere un Dio diffuso dappertutto, per le terre, per lo mare, e per l’alto cielo(1) ; e dallo stesso poeta su le prime il cielo, le terre, i mari, il lucido globo della Luna, ed i pianeti andar tutti interiormente alimentati da un anima, ed una mente trasfusa da ogni parte agitare la immensa mole del mondo, e mescolarsi dappertutto, onde trassero origine gli uomini, i bestiami, gli uccelli, e tutta la famiglia de’pesci(2), volevano che tutta la turba innumera degl’ Iddii non fosse che il solo Giove. Mirabile per questo argomento è uno squarcio dall’ {p. 21}Agostino, ed io qui lo trascrivo, voltandolo in italiano con una libera versione — Or si crede, ei dice(1), esser Giove l’anima del mondo corporeo, che riempie e muove tutta questa mole, che voglion composta di quattro, o di quanti elementi a loro piace ; or ne cede parte a sua sorella Giunone, ed a’suoi fratelli ; or si vuole esser l’etere, oude dall’atto abbracciasse Giunone, ch’è l’aere sparso di sotto ; or ana all’aere è creduto essere il cielo, che con le feconde piogge e co’semi feconda la terra come sua consorte. Egli stesso nell’etere è Giove, nell’aere è Giunone ; nel mare è Nettuno ; e nelle parti inferiori del mare istesso è Salacia ; su la terra Plutone ; nell’imo della terra Proserpina ; ne’fuochi domestici Vesta ; nelle fornaci de’fabbri Vulcano ; ne’pianeti il Sole, la Luna e le stelle ; nelle divinazioni Apollo ; nelle merci Mercurio ; in Giano lo iniziatore ; ne’termini il contrassegnatore de’confini ; Saturno nel tempo ; Marte e Bellona nelle guerre ; Bacco ne’luoghi piantati di viti ; Cerere nei frumenti ; Diana nelle selve ; Minerva negl’ingegni ; egli stesso del pari in tutta quella innumera turba degli Iddii plebei. Egli con il nome di Libero presiede seminibus hominum ; col nome di Libera seminibus mulierum(2). A lui si dava il nome di padre del giorno, portando i parti alla luce ; di Dea Mena, presedendo a’mestrui delle donne ; di Lucina, invocandosi dalle parturienti ; di Opi, porgendo aiuto a’nascenti, e accogliendoli nel seno della terra ; di Vaticano ne’vagiti degl’infanti ; di Dea Levana, levandoli dalla terra ; di Dea Cunina tutelando le cune. Non è altro egli stesso in quelle Dive, che predicono i destini a’nascenti, o porta il nome di Carmente(3) ; presiede a gli avvenimenti fortuiti, e chiamasi Fortuna ; porge le mamme a parvoli, e si noma Dea Rumina(4), porge loro le bevande e dicesi {p. 22}Dea Potina ; somministra loro l’esca, ed è denominato Diva Educa. Dal terrore onde son presi gl’infanti è detto Paventina ; dalla speranza, che a noi viene, Venilia ; dal piacere Volupia ; dagl’incitamenti, onde l’uomo è spinto ad impuri conati, Dea Stimula ; dal rendere l’uomo strenuo e valoroso, Diva Strenia ; Numeria dall’insegnare i numeri ; e dall’insegnare il canto, Camena. A lui davasi il nome di Dio Conso porgendo consigli ; a lui il nome di Dea Sensia(1), inspirando sentimenti ; a lui il nome di Dea della gioventù, porgendo ai giovanetti gli esordii dell’età giovanile ; a lui il nome di Fortuna Barbata, vestendo a gli adulti la barba di peli ; a lui il nome di Dio Giogatino, congiungendo i coniugi ; a lui, invocandosi, il nome di Diva Virginiese, sciogliendo la cintura alle vergini addivenute consorti.

15. Plutarco poi dimandando, perchè l’anno andasse consacrato a Giove, e i mesi a Giunone, prende Giove per il Sole, e Giunone per la Luna ; poichè il sole con il suo corso apparente per le vie del cielo compie l’anno, e la Luna con le sue rivoluzioni i mesi. Nè, soggiunge, creder si deve esser il Sole immagine di Giove, e la Luna immagine di Giunone, ma lo stesso Sole nella sua materia essere Giove, e la stessa Luna nella sua materia Giunone, onde ella porta questo nome a iuvenescendo dall’ingiovanirsi, alludendo alle apparizioni della Luna ; ed è detta Lucina, quasi lucida, per esprimere il lucido candore della Luna istessa(2).

16. A Giove si dava per figlio il dio Bacco. Fu creduto che Giove lo rinchiudesse in una delle sue cosce, traendolo dal seno di sua madre Semele, che restò morta in veder Giove in tutto lo splendore di sua grandezza, quando non ancora era compiuto il tempo della gravidanza di lui, traendonelo poi fuori a suo tempo. A questo mito può darsi varia interpetrazione. Bacco fu nudrito sul monte Meros nelle Indie, voce tutta greca μηρος, coscia, onde si disse essere stato rinchiuso nella coscia di Giove ; e per questo ancora portava il nome di Ditirambo, ossia due volte nato ; sebbene {p. 23}altri a questa voce danno il significato di aprire ; poichè il vino, di cui egli fu l’inventore, bevuto oltre misura, apre gli animi, e ne appalesa gli occulti sentimenti. Altri non pertanto dicono, che Bacco fu rinchiuso nella coscia di Giove, onde parto immaturo e imperfetto venisse a maturità ed a perfezione, interpetrando questo mito, che il vino, ossia le uve calcate co’piedi, che vengono significati per la coscia, viene a concuocersi, a perfezionarsi. Diodoro Sicolo al contrario vuole, che Bacco vedendo andare a male il suo esercito nelle Indie dalla pestilenza, Bacco menollo in un luogo più salubre detto femur, coscia, e così immaginossi la favola di lui. Creduto inventore del vino, tutto e quanto può spigolarsi di lui ne’classici greci e latini, tutto si allude al vino, ed all’ubbriachezza. Ei è così detto da Βακχος, clamore, vociferazione ; o da Βαξειν, infuriare. È nominato ancora Briseo da Βριθειν aggravare il capo ; e Fiso da φλυειν, letificare, e ciò tutto dagli effetti del vino. Gli si metteva in mano un tirso, ossia un’asta attorcigliata di pampani, o di frondi di ellera : con questa asta nodosa ed obbliqua indicavasi gli ubbriachi andar vacillanti or da una parte, or da un’altra. A lui si innalzavano simulacri per lo più nudi, volendosi esprimere gli animi degli ebrii andar del tutto aperti ed in nulla simulati. Le orgie di lui celebravansi al suono strepitoso di cembali e di tamburi, per indirare il tumulto degl’ubbriachi. Al suo cocchio si aggiogavano pardi e pardi lo seguivano, per dimostrare non esservi uomini sì fieri, che non si rendono miti con l’uso moderato del vino.

17. A Giove si dava per padre Saturno. Egli fu così detto o a satis, campi seminati, chè, come osservammo in altra nostra opera(1), ancora i latini riconoscevano il primo passo del loro incivilimento dal disboscarsi la gran selva della terra, ciò che volevano avvenuto a tempi di Saturno, onde pe’latini questa età risponde a quella dell’oro de’greci ; e portò tal nome, chè le spighe furono considerate come il primo oro del mondo ; o come vuole Tullio(2), chè saturatur annis. L’Agostino prende Saturno per la terra, e pe’semi che si mandano alla terra — Lo chiamavano Saturno, ei dice(3), voltando nella nostra lingua i suoi concetti, chè era solito divorare tutte le cose che nascessero da lui ; perciocchè i semi ritornano nel luogo da cui son nati ; e quando si disse che a lui fu presentata una zolla, una pietra in vece di Giove, si volle significare, che con le mani degli uomini furono ricoperte le biade seminate, prima di essersi ritrovato a svolgere la terra con {p. 24}l’aratro. La stessa terra dunque non i semi dovè dirsi Saturno ; perciocchè la terra in certo modo divora le cose, che ha generato, nascendo da essa i semi, ed in essa ritornando. Se nella favola si dice, che Saturno avesse castrato il Cielo suo padre, con questo s’intese che presso Saturno, non presso il cielo, è un seme divino. Queste e molte altre cose, che si dicono di Saturno, tutte si rifescono ai semi — Ei non era che il simbolo del tempo, che tutto genera, strugge e riproduce. In un’inno che si vuole di Orfeo, tra le attribuzioni gli si dà il nome di padre degli Dei beati e degli uomini, di vario ne’suoi consigli, di distruttore e che ingenera tutte le cose, di raffrenatore con vincoli ineffabili dell’intero mondo, di germe della terra e del cielo stellato. Ancor di lui si raccontarono alcuni miti, che furono esposti da Tullio, i concetti di cui noi qui voltiamo nella nostra favella, soprattutto perchè da questi vengono ad interpetrarsi i concetti dell’inno di Orfeo « Tutta la Grecia, ei dice(1), portava un’antica credenza, che Vrano fosse stato mutilato da suo figlio Saturno, e questi stretto in catene dal suo figlio Giove. Sotto quest’empie favole va occulto un significato assai bello ; perciocchè l’etere generando tutte le cose per sè stesso, non ha d’uopo de’virili, onde generare per le vie ordinarie. Per Saturno poi si è inteso colui, che presiede al tempo, e ne regola il corso, ingiungendoglisi questo nome dal divorare, che fa degli anni, quod saturatur annis. Si è finto non meno di mangiarsi i proprii figli ; poichè il tempo insaziabile di anni consuma tutti quei che corrono. Si dice essere stato da Giove avvinto in catene, per non iscorrere troppo rapidamente, o per meglio dire, assoggettollo al corso degli astri, che sono per lui come tanti lacci.

18. Nettvno — Creduto come Dio del mare, Tullio(2) lo vuole così detto a nando, dal nuotare ; ma ei va tanto poco soddisfatto di questa etimologia, che egli stesso poscia la rigetta. Varrone(3) vuole esser così denominato dal verbo nubere, velarsi, o maritarsi ; perciocchè il mare circondando tutta la terra, per un traslato può dirsi di maritarsi con la terra istessa. Da greci Nettuno ποσειδων, che esprime quel potere, che ha l’amore di generare le cose su la terra e nel seno della terra. Gli si danno altri nomi, che esprimono movimento, quasi che egli sia un’altra cagione del moto della terra, urtandola con le acque del mare. È detto ancora μιακητας, che significa muggire, voce propria dei bovi, alludendosi al fremito che dà il mare in procella. Perciò a lui si {p. 25}sacrificavano tori neri sì a cagione del colore delle acque del mare, che sembran nere quando sono agitate, sì a cagione della simiglianza del muggito de’bovi con il rugghio de’mari — e per questo ancora i fiumi si dipingono solto le sembianze di toro, e con sguardi torvi da toro, quasi il corso di loro esprimesse un non so che di violento, e desse fuori un muggito.

A Nettuno si poneva in mano un tridente, simbolo del suo impero su i mari, o perchè i pescatori si giovano di questo istrumento quando tendono insidie a’pesci, o perchè è molto adatto a muover la terra.

Questa divinità nacque in mente de’poeti come un’universale fantastico, per indicarsi ogni oceano, ogni mare ; o come un carattere poetico, onde significarsi tutte le virtù nautiche, cui andarono celebrati non pochi nocchieri, e furono creduti come Iddii anche in tempi non di molto remoti ; sì perchè dalla istoria è dato principio al secolo degli eroi con le piraterie di Minosse, e con la spedizione navale, che fece Giasone nel Ponto per la conquista del vello di oro ; sì ancora, mancando a gl’antichi fiore d’ingegno, onde scoprire come dominare gli oceani e i mari ; od in fine, perchè lungo tempo paventando dell’aspetto delle onde, si tennero lungi a percorrerle. Nettuno rappresenta vasi col tridente in mano, segno della terza regione, il mare, dopo il cielo e la terra(1).

19. Plvtone — Egli veniva adorato da’greci e da’latini come il Dio delle ricchezze e dello inferno. A questo mito, spigolando nel gran campo delle opinioni degli scrittori, che parlarono di questa divinità, può darsi una duplice interpetrazione, che in tutto non rifugge dallo spirito degli antichi, che erano usi a rappresentar le cose sotto traslati allegorici. Altri riponendo la sua sede nel fondo delle miniere, e nel seno della terra, hanno creduto, che gli antichi non intendessero con questo nume, che le ricchezze istesse. Tutta la forza della terra, dice Tullio(2), e la natura fu inaugurata a questo Dio, e fu tenuto come il Dio delle ricchezze ; perciocchè tutte le cose vengono dalla terra, e nella terra ritornano. Il padre delle ricchezze, dice l’ Agostino(3), non è altro che la parte inferiore della terra. Voglion Plutone, dice un’altro antico filosofo, preside della terra ; poichè la parola Plutone importa il significato di ricchezze, che solo a noi vengono {p. 26}dalla terra, e. gli si assegna lo imperio dello inferno, perchè solo la terra è una materia più oscura di tutti gli altri elementi(1). Perciò i greci lo chiamavano αδης, invisible, o perchè per sè stesso è invisible, credendosi aver la sede nell’imo della terra, o da ανδανειν, placare, perchè presedendo alla morte, la rende per antifrasi quasi gioconda e soave. Ed è chiamato Plutone, che oltre il significato detto di sopra, tutte le cose, quando son vicine alla dissoluzione, finalmente ritornano a lui, alla terra, e vengono sottoposte al suo imperio. E gli si pone lo scettro in mano, chè lo imperio del Sole si distende su la terra. Altri poi lo ricercano nell’aria, e vogliono esser l’aere densissimo più vicino alla terra. Il più saggio tra tutti i romani, lo immenso Varrone, intende per Plutone l’aria, che sovrasta alla terra, ove tutte le cose vengono generate. Altri ancora(2), facendosi più innanzi, dimostra, che presso gli Egizii Plutone era lo emblema del Sole d’inverno, o del giro del Sole per tutto quel periodo di tempo, in cui questo pianeta percorre la parte inferiore dello Zodiaco. Ciò non va discorde dal sentimento di Porfirio in un frammento riportato da Eusebio(3), in cui dice esser Plutone il Sole, che nel Solstizio d’inverno passa sotto la terra, e percorre le sconosciuto e nascoto emisfero ; e di Macrobio che vuole essere Iao, cioè lo spirito delle sfere, il più antico tra gli Dei, che porta il nome di Plutone nello inverno, e di Giove in primavera(4).

20. Apollo —  Dio della poesia, della luce, della medicina e dell’armonia. Quando si disse ne’miti di questo nume non è, che un traslato allegorico, cui si vuole intendere il Sole, onde fu creduto il Dio delle divinazioni ; chè il Sole pone in luce tutti gli aspetti delle cose ; o, come vuole un mitologo(5), perchè nel suo apparente corso, e nel suo occaso mostra in molti modi gli effetti di sua dimostrazione. Perciò da’ Greci fu detto Ecateo, che può derivarsi dall’avverbio εκαθεν di lontano, cioè dal mandar di lontano sino a noi la luce del sole. Gli Egizii lo rappresentavano {p. 27}ora sotto il simbolo di un’occhio radiante ; ora sotto quello di uno scettro con in su un’occhio ; ed ora sotto quello di un serpente di oro alato, simbolica propria della luce solare. Questo solo basterebbe ad indicare come gli antichi immedesimassero il Dio Apollo con il Sole ; ma onde dar maggior peso a questo dettato daremo alcune nozioni, da cui scorgerassi, non essere Apollo che il pianeta del Sole. Si credeva esser figlio di Giove e di Latona — di Giove, ossia, come ogni altra creatura, figlio dell’autore dell’universo — di Latona, e con questo traendo la etimologia di questa parola del verbo latere nascondere, si volle significare, che prima di uscire lo imperio divino creatore della luce, le tenebre si addensavano accavallantisi su la faccia degli abissi. Si diceva essernato nell’isola di Delo, parola che importa manifestare ; perciochè, creata e radiando intorno la luce del sole, repente apparvero le sembianze e le figure delle cose. Fu nominato Apollo, voce tutta greca Απολλων, o come vuole Platone nel Cratilo, riportato da Macrobio(1), dal vibrare che fa il sole de’suoi raggi ; o come crede Speusippo, perchè la sostanza del Sole è tutta ignita ; o come stima Cleante, perchè il sole va di stagione in stagione variamente declinando nella sua comparsa su lo emisfero ; o come teneva in mente Cornificio, perchè il Sole respinto, e ciò secondo l’antico sistema astronomico, a percorrere l’uno e l’altro emisfero, ritorna sempre ad oriente ; od in fine, come ad altri piace, perchè il Sole tante volte toglie la vita ai viventi con un intemperie di calore, onde può derivarsi ancora dal greco απολλυμι, che risponde a perdere o distruggere degli italiani. È rappresentato sotto le sembianze di un giovane imberbe, chè il Sole non va soggetto a vecchiezza. Gli si pongono in mano l’arco e le frecce, per indicare i raggi del Sole ; e soprattutto la lira, chè il Sole con la sua forza centripeta, senza distruggere la centrifuga, libra in alto le sfere, ed ingenera una mirabile armonia in tutto il sistema planetario. Apollo era creduto come Dio della salute pubblica ; perciocchè il Sole la produce con la sua temperie. Perciò la parola Apollo può derivarsi da απολλυοντα, cioè dal tenerci lontani da’morbi. Poichè, dice Macrobio(2), dal Sole nasce continua salubrità, e di rado ne derivano alcune fiate ancora le pestilenze. I simulacri di Apollo vengono rappresentati con le tre Grazie nella destra, e con l’arco e le saette nella sinistra, ond’è detto Dio della medicina, giovando ai mortali col temperato suo calore, e cacciando al contrario nelle vene di loro umori pestilenziali con la oltre misura {p. 28}delle intemperie. E con questa osservazione ben dobbiamo approvare la etimologia della parola Απολλων, porta dal sig. Screvelio(1), dal verbo απολυιν, liberare,perchè il Sole con il suo temperato concorso ci tiene liberi dai mali della vita. E non meno, attenendoci alla etimologia de’varii suoi nomi, di leggieri scorgerassi, come questo nume in nulla si distingue dal Sole. Oltre ciò che si è detto dianzi, può derivarsi la parola Apollo dal greco απλος, da a privativa, e πολυς molto, ossia non molto, unico o quasi di semplice natura, quale caratteristica ben si addice al Sole ; se pure non si voglia far derivare da a, che come scorgesi da Screvelio esprime unità, e da πελειν essere, come se si volesse dire απελος, perciocchè è unico tutto ciò ch’è semplice. Egli era detto ancora Lemio del greco λοιμιος peste, ossia dallo averci tratto dalle pestilenze, onde fu detto ancora Peon, cioè fornito di facoltà medica. Chiamavasi Delio da δηλος illustrazione,cioè dallo illustrarsi tutte le cose dal Sole. Si nomava Febo da φοιβος quasi φως luce, o calore, e βιος vita, per esprimersi il calore vitale del Sole. Si diceva Pizio da πυθιος serpente, che si credeva di avere strozzato, onde, come dice Ovidio(2), furono instituiti i giuochi Pizii. Poichè Apollo va idenficato con il Sole, gli abitatori di Ieropoli quando volevanlo rappresentare sotto le forme umane, davano a’suoi simulacri tutte le caratteristiche del sole istesso. Gli facevano pendere dal mento una prolissa barba, per indicare la emissione de’raggi del Sole in verso la terra — gli ponevano sul capo un canestro di oro, per significare la luce eterea — gli facevano stringere nella destra una lancia, e gli ponevano su la fronte una immagine della vittoria, due simboli del suo potere irresistibile ; e nella sinistra un fiore, indice del regno vegetabile prodotto e perpetuato dal suo benefico calore. A canto a lui facevano distendere le ali d’un’aquila, con cui volevano dare un’immagine dell’etere emanante dal suo seno, come dal suo centro. A suoi piedi ponevano tre figure muliebri circondate da un serpente, tra le quali quella, che sorgeva in mezzo, era un simbolo della terra.

21. A lui il vaticinio del futuro. Perciocchè i suoi risponsi erano obbliqui, ambigui e difficili ad intendersi, fu detto da’greci Λοξιας obbliquo, se pur ciò meglio non può dirsi a cagione della obbliquità dell’apparente corso del sole per lo Zodiaco. A lui it {p. 29}concento della musica, onde fu chiamato Citaredo ; perciocchè il sole con ordine e misura contempera e regola ciascuna parte del mondo, e quasi in un ritmo serba la consonanza e la commensurazione del tempi. Da ciò fu creduto come il precettore e l’antiste delle Muse ; e gli si consacrava il cigno, chè non v’ha uccello più vocale e più candido di questo.

22. Tutta la Grecia celebrava in onor di Apollo alcuni giuochi detti Pizii, onde perpetuare una vittoria, che si voleva riportata da questo nume in uccidere il serpente Pitone. Anche in questo mito va rinchiusa un’allegoria, e noi qui ne daremo la interpetrazione come saggiamente fu esposta da Macrobio, la quale egli stesso improntava da Antipatro filosofo stoico — Dalla terra, così voltiamo in italiano le sue parole(1), ancor umida, elevandosi su nelle regioni superiori del cielo frequenti esalazioni, e poscia quivi riscaldate cadendo giù ravvolgentisi a simiglianza di un serpente mortifero nelle ime sedi della terra portavano il guasto, e contaminando tutte le cose per via di una putredine, la quale originata dal calore operante su lo umore mercè di una effervescenza, che ricoprendo il sole istesso con un folto addensar di caligine, sembra di ottenebrare in parte lo stesso suo splendore ; ma poscia estenuate col salubre fervore de’raggi cadenti a simiglianza di saette, prosciugate e svanite, i poeti ne immaginarono la favola del dragone ucciso da Apollo.

23. Raccontasi del pari di Apollo un’altra favola — che scacciato da Giove dal cielo andasse a pasturare le greggi del re Admeto, onde da’greci fu detto Απολλων νομιος, Apollo pastore, derivando la parola νομιος da νομη, pascolo, o dal verbo νομιν, pasturare. Macrobio istesso interpetra questo mito. Non dall’ufficio di pasturare le greggi, ei dice(2), Apollo fu detto pastore, fingendosene la favola, ma perchè il sole pascola tutte le cose, di cui è produttrice la terra, onde non di un solo, ma di ogni gregge può chiamarsi pastore. Altri intendono con questo un’Apollo re di Arcadia, che imperando con rigore fu gettato dal trono.

24. Il chiarissimo scrittore della Scienza Nuova, senza indentificare Apollo con il sole, lo prende per la luce-civile, ossia per la nobiltà degli eroi. Fra la gran farragine delle cose, che egli accumula intorno a questo articolo, noi qui sceglieremo alcune {p. 30}poche parole onde far conoscere le sue nozioni intorno a questo nume. « Si fantasticò, ei dice(1), la quarta divinità, che fu Apollo, appreso per Dio della luce civile, onde gli eroi si dissero κλειτοι, chiari da’greci, da κλεος gloria, e si dissero inclyti dai latini, da cluer, splendore d’armi…… Ed è detto Apollo Dio fondatore della umanità e delle di lei arti, una delle quali è quella di cavalcare ; onde il Pegaso vola sopra il monte Parnaso, il quale è armato di ali, perchè è in ragione de’nobili… Finalmente Apollo è sempre giovane, siccome la vita di Dafne sempre vardeggia cangiata in lauro, perchè Apollo co’nomi delle prosapie eterna gli uomini nelle loro famiglie : egli porta la chioma in segno di nobiltà, e restò costume a moltissime nazioni di portar chioma i nobili ; e si legge tra le pene de’nobili appo i Persiani e gli Americani di spiccare uno o più capelli dalla loro chioma : e forse quindi dissero la Gallia chiomata, da nobili, che fondarono tale nazione, come certamente appo tutte le nazioni a gli schiavi si rade il capo. »

25. Mercvrio — Dio dell’eloquenza e della mercatura, inventore della palestra e della lira, destro callidissimo in depredare, alato i piedi ed il capo, messaggiero degli Dei e degli uomini. Traendone la etimelogia, si vuole così denominato a mercium cura, cioè dalla cura che si credeva degli obbietti posti in commercio ; e l’Agostino dalla parola medicurrus, mediuscurrens, ossia come colui che corre fra due, o nel mezzo, cioè che Mercurio sta sempre in aria tra il cielo, la terra e lo inferno, carattere proprio di un messaggiero dal cielo alla terra e dalla terra al cielo.

I miti raccontati di questo nume non sono che una perfetta allegoria, con cui si vuole indicare il corso apparente del Sole, ed i suoi fenomeni. Ei si dipingeva con un caduceo in mano, che il poeta della lliade chiama verga dorata, cui andavano attorti due colubri, e fu creduto essere questo un simbolo di pace ; posciachè, incontrandosi ei con due colubri altercantisi, ne avesse tolto di mezzo la rissa, rappacificandoli col tocco della sua verga. Questo mito non era che un’allegoria, cui con il caduceo intendevasi il radiar del Sole, che dileguale addensate tenebre della notte ; e con i colubri, tenuti da tutta l’antichità per simbolo della vita, associati al radiar del Sole si voleva esprimere, che il Sole istesso fecondando la terra con il suo calore, e generando la vegetazione, anima e dà vita a tutta la natura. Si credeva che Mercurio scendesse nello inferno per ricondurre le ombre da que’luoghi tenebrosi : con questo indicavasi l’apparente discesa del Sole sotto l’orizzonte, e che al suo apparire nel nostro emisfero ne venissero scacciate le tenebre e le larve, figlie {p. 31}della notte. Narrossi di lui di aver morto Argo da cento occhi, posto a custodia della giovanetta Io, trasmutata da Giove in vacca, onde trarla al furore di Giunone : è questo un mito, con cui si voleva dare un’emblema del cielo, ove a notte serena si veggono scintillare innumeri punti luminosi. E si disse messaggiero degli Dei e degli uomini, onde si dipinse alato : la rapidità, onde il pianeta Mercurio percorre, come è noto dall’astronomia, per le vie del cielo, gli fè dare una tale attribuzione.

26. L’Agostino intende per Mercurio non altro che la parola. « È detto Mercurio, così egli(1), voltando in italiano i suoi concetti, quasi medius currens, perchè la parola o il discorso corre di mezzo fra gli uomini ; e si disse ερμης da’greci, posciachè ερμινια è chiamato il discorso, e la interpetrazione. Si volle presedere alle merci ; perciocchè tra i compratori, e coloro che vendono v’ha di mezzo il discorso. Gli posero le ali a’piedi e al capo, chè il parlare va rapido per l’aria. Portò il nome di nunzio, giacchè con il favellare si danno fuori tutti gli escogitati della mente » — E per questo egli era detto Cillenio, parola tutta greca, che può derivarsi da κυλλω, che risponde all’italiano rendere zoppicante, volendosi alludere, ch’ei facesse tutte le cose solo con il magistero della parola, senza prendervi parte le mani, chiamandosi κυλλοι, cioè zoppi, ossia monchi tutti quei che mancano delle mani.

27. Co’miti dunque di Mercurio gli antichi non intendevano che il mirabile magistero della parola. Nelle classiche opere de’greci si possono spigolare molti suoi nomi tutti allusivi alla parola. E su le prime è detto Hermes, che potrebbe derivare da ερειν parlare, o come altri vogliono Διοστορος, vocale —  Εριουνιος, utile, e ciò dalla utilità della parola. A simulacri di lui si metteva in mano una verga di oro, e se ne faceva gran conto, credendosi d’inestimabile valore quando altri venisse battuto con questa, e ciò dalla utilità della correzione. A questa verga si ponevano attorti due colubri, simbolica vera, chè con la parola si ammansiscono ancora le fiere. Si fingeva senza mani e senza piedi, per indicare non aver bisogno di questi per eseguire le cose a lui commesse, bastandogli solo la parola — di forma quadrata onde esprimere la sua stabilità e fermezza. Intorno alle statue di lui si accumulavano molte pietre ; perciocchè ognuno che vi passava dappresso vi gettava una pietra, e questo per utilità comune, chè torna utile a tutti che altri tolga le strade dagl’ingombri, ed affinchè i simulacri di lui con l’addizione delle pietre addivenissero più appariscenti.

28. Lo immenso scrittore della Scienza Nuova porge una {p. 32}diversa interpetrazione de’miti di Mercurio, e noi per adornare queste povere pagine riporteremo i suoi concetti, scegliendone solo poche parole tra la doviziosa sua erudizione. « Fantasticarono, ei dice(1), i poeti croici la undecima divinità maggiore, che fu Mercurio, il quale porta ai fomoli ammutinati la legge nella verga divina, parola reale degli auspicii, ch’è la verga con cui Mercurio richiama le anime dall’Orco, come narra Virgilio, richiama a vita socievole i clienti, che usciti dalla protezione degli eroi, erano ritornati a disperdersi nello stato exlege ch’è l’Orco dei poeti, il quale divorasi il tutto degli uomini… Tale verga ci viene descritta con uno o due serpi avvoltivi, che dovettero essere spoglie di serpi, significanti il dominio bonitario, che si rilasciava loro dagli eroi, e il dominio quiritario, che questi si serbarono ; con due ali in capo alla verga, per significare, il dominio eminente degli ordini… Oltre di ciò con ali a talloni per significare, che il dominio dei fondi era de’senati regnanti... Sicchè questa verga alata di Mercurio de’Greci, toltane la serpe… portò la legge agraria ai famoli degli eroi... Portò l’agraria di Servio Tullio con la quale ordinò il censo…. Da Mercurio de’Greci fu ritrovata la lira e gli fu data da Apollo, Dio della luce civile, ossia della nobiltà, perchè nelle repubbliche eroiche i nobili comandavano le leggi... Talchè la lira fu lo unisone delle corde o forze de’padri, onde si compose la forza pubblica, che si dice imperio civile, che fece cessar finalmente tutte le forze o violenze private, e la legge con tutta proprietà restò ai poeti definita lyra regnorum. »

29. Marte — Dio della guerra nacque in mente de’poeti greci come un carattere eroico, per indicare coloro, che con le armi avevano fatto prodigii di valore. Per questo meglio può dirsi esser Marte un Dio creato dalla politica degl’imperi, per risvegliare negli animi l’ardire, la forza, la grandezza. Gli Egizii, la teologia de’quali speculava su l’astronomia e l’astrologia, cioè su la osservazione de’pianeti e de’pretesi loro influssi, personificando per una divinità il pianeta che chiamasi Marte, trassero dalle proprietà di questo pianeta, che va sempre torbido e rossastro, caratteristiche per la divinità che ne immaginarono, onde lo dissero Dio della guerra. A Marte era sacro l’avoltoio, chè siffatti uccelli a stormi sogliono volitare per quei campi, ove la guerra fa strage di uomini, e sogliono presagirla col canto di loro.

30. Vvlcano — Dio del fuoco e delle arti, che si esercitano ammollendo, piegando e dando al ferro varie forme mercè del fuoco istesso. Nacque questo Dio in mente de’Greci, onde {p. 33}personificare il fuoco, da cui l’uomo sa trarre molti vantaggi.  — Il fuoco, dice Diodoro Sicolo, è detto Vulcano per metafora, e che deve adorarsi come un gran Nume, perciocchè di molto contribuisce alla produzione ed incremento di ogni cosa.

Col nome dunque di Vulcano non s’intende altro che il fuoco elementare. Invero il fuoco, che commisto all’aere, ossia si alimenta con l’aere, da’ Greci si dice Ηφαιστος che s’interpetra Vulcano, e perciò questo Dio si vuole nato da Giove e da Giunone, intendendosi con l’uno non altro che l’etere, con altra l’aria ; o dalla sola Giunone, chè il fuoco e le fiamme si alimentano con Paria. Si vuole inventore di molte arti, perciocchè queste in miglior parte si compiono col fuoco.

31. Gli Stoici ammettendo un’aria diffusa per tutto lo universo, dicevano di esser ella un fuoco sottile ed etereo al di sopra dei pianeti e delle stelle. Tenendo dietro a questo sentimento della scuola stoica potrà dirsi non meno, che gli antichi si avessero creata questa divinità, onde prestare un culto a questa loro anima del mondo. Il mito, che raccontasi di Vulcano, di essere stato precipitato dal cielo, e caduto su la terra andasse zoppicante per tutta la sua vita, non è altro che una personificazione del fuoco, che acceso la prima volta da’raggi del Sole, o raccolto dal fulmine e portato su la terra non mai retto porta le fattezze di uno zoppo nel moto del suo vampo.

A Vulcano si dava per consorte Venere, la più bella infra le Dive ; perciocchè le arti, di cui egli credevasi inventore acquistano grazia e bellezza mercè l’opera degli artefici. Il poeta dell’Iliade narra, che Vulcano trovando Marte giacer con Venere, li abbia entrambi stretto nei vincoli, ed esposto a gli sguardi di tutti — con questo mito, poicchè come i contrasti e le piacevolezze, la violenza e le blandizie non vanno d’accordo fra loro, così non possono andar congiunte neppure per natura ; e, quando per ventura queste cose avverse si contemperano fra loro, sorge un non so che di nobile e di bello, a cagione di un mutuo fervorosissimo accordo ed armonia. — Pari interpetrazione può avere l’altro mito — aver fenduto con una scure il capo di Giove, e che ne sia uscita fuori Minerva, Dea della sapienza e delle belle arti — cioè che il fuoco, di cui si servono le arti, sia stato un mezzo a dar fuori le arti istesse, pria occulte ed ignote.

32. Si volevano per compagni di Vulcano i Ciclopi di alta corporatura, con un solo occhio nella fronte, tutti intenti a fabbricare i fulmini di Giove nelle fucine di Lenno, di Sicilia, e di Lipari. Quanto di loro si disse dal poeta dell’Iliade e della Vlissea, non è che una perfetta allegoria, personificandosi con questi immaginati mostri i vulcani igniferi. Si credevano figli del cielo e {p. 34}della terra : con questo volevasi indicare l’altezza e le profonde radici de’monti vulcanici ; altri, stimandoli figli di Nettuno e di Anfitrite, non altro indicavano, che tai monti sbuffanti fuoco dalle loro cime sorgono non di rado presso i mari, personificando il mare per Nettuno ed Anfitrite. Si dipingevano qua’giganti di robusta e di alta corporatura, per darci un tipo dell’enorme mole e dell’altezza de’vulcani. Si dava loro un solo occhio scintillante nella fronte : con questo si alludeva all’ignivomo cratere dei Vulcani. I fulmini da loro fabbricati si volevano essere composti di tre raggi di acqua, di tre raggi di nebbia, di tre raggi di fuoco : è questa un’allegoria de’fenomeni prodotti dall’eruzioni vulcaniche ; se pure non si voleva alludere a’terribili effetti, che sentivano coloro, che erano colpiti da tali fulmini, e lanciati dalla destra dell’altitonante Giove.

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Capitolo III. §

Sommario — 33. Giunone attribuzioni di questa Diva tratte da un’inno di Orfeo —  da’concetti di Orfeo traluce un’allegoria, onde si scopre essere Giunone non altro che l’aria, ragioni. 34. Etimologia della parola Giunone tolta da Tullio —  interpetrazione de’miti di Giunone dell’autore della Scienza Nuova. 33. Cerere — Etimologia di questa parola —  il modo di rappresentarsi è una simbolica dell’agricoltura 36. Altri particolari di Cerere. 37. Proserpina figlia di Cerere — Etimologia di questa parola — Plutone rapisce Proserpina, e la trasporta seco nell’Erebo, cercandola la madre per tutta la terra, traslato allegorico di questo mito. 38. Diverse interpetrazioni del mito di Proserpina stratte da Eusebio, e da Bacone. 39. Cibele — Maniera di rappresentarsi di questa Diva, interpetrazione di sua simbolica — Vn’altra interpetrazione dello scrittore della Scienza Nuova. 40. Minerva — Etimologia di questa parola — 41. Interpetrazione del suo mito dello scrittore della Scienza Nuova. Nomi e attribuzioni di Minerva e loro significato. 42. — Venere — etimologia, e interpetrazione del suomito. 43. Cupido, e interpetrazione del suo mito. 44. Diana — Perchè detta Diva Triforme — etimologia della parola Diana. 45. Atteone e suo mito. 46. Attribuzioni, che si davano a questa Dea — si rappresentava sotto le forme di una donna a tre teste, interpetrazione di questa forma — Altra interpetrazione tolta dallo scrittore della Scienza Nuova. 47. Vesta. 48. Altre attribuzioni di Diana. 49. Le Muse — Etimologia di questa parola, e vario suo significato. 50. Donde da tre si immaginarono nove Muse, opinioni di Varrone e Diodoro Sicolo. 51. Nome delle Muse e loro ufficio. 52. Le Muse non erano che personificazioni allegoriche, cui intendevasi la poesia, la musica, la danza ec. Individuazione di questo personificamento. 53. Le Grazie — Simbolica ed allegorie delle Grazie — Sviluppo di questa simbolica e allegorie.

givnone, gerere, proserpina gibele, minerva, venere, diana, vesta, le mvse, le grazie.

33. Givnone — A questa Diva in un inno di Orfeo è dato il nome di regina degli Dei e degli uomini, di consorte di Giove, ed è lodata dalle qualità, che porta non dissimili all’aria, dal generare e nudrire i venti e le pioggie, dal potere che ha su di entrambi, dal somministrare di lievi e gradevoli aure alimentatrici della vita de’mortali, di generatrice di tutte le cose, e che senza di lei nulla avrebbe vita, ed in fine dallo impero, che ha su tutto lo universo. Volendo porre mente a questi concetti del poeta, senza sfuggirne veruno, io vi trovo un’allegoria, cui sotto il nome di Giunone si intese dagli antichi l’aria portando seco tutte le attribuzioni, che convengono a questo elemento. L’aria, dice Tullio(1), posta tra il cielo ed il mare porta il {p. 36}nome di Giunone, consorte e sorella di Giove, il quale del pari ha con l’etere molta simiglianza e stretta unione per la vicinanza che è tra Giove l’etere, e Giunone l’aria. Platone poi, come dicemmo de’miti di Giove, la vuole detta Giunone a invenescendo, dallo ingiovanirsi, alludendo alle fasi della Luna, confondendola con la Luna istessa ; e Lucina, quasi lucida, dal candore e lucidezza del raggio della Luna. E così interpetrandosi questo mito, a ragione i Greci la chiamarono Ηρα, a cagione della simiglianza di questo nome con quello di Αηρ, aria Fu detta ancora sorella e consorte di Giove, per la prossimità dell’aria con l’etere, cui, come dicemmo, intendevasi Giove, onde fu nomata aerea. E per questo ancora vedesi in alcune antiche medaglie assisa su di un carro trasportata da pavoni per le vie dell’aria. Da questo del pari fu indotto, quando il genio delle arti lo inspirava, il signor Albano, a rappresentar l’aria sotto le sembianze di una Diva, portata su di un carro da pavoni.

34. Tullio traendo la etimologia della parola Giunone, la vuole così detta a invando(1), o perchè considerata come l’aria dà vita e moto a’viventi, o dal credersi esser larga di soccorso alle donne ne’dolori del parto. Ma di questi e di altri titoli, cui questa Diva era onorata dai greci e da’latini, è d’uopo qui traserivere le parole dell’autore della Scienza Nuova, lasciando al leggitore di appigliarsi a quelle interpetrazioni, che gli sembreranno non disviate dalla ragione, e riggettare quelle, che gli parranno del tutto immaginarie ». I poeti teologi, ei dice(2), fecero dei matrimonii solenni il secondo de’divini caratteri dopo quello di Giove, Giunone seconda divinità delle genti, dette maggiori : la quale è di Giove sorella e moglie, perchè i primi matrimonii giusli, ovvero solenni, che dalla solennità degli auspicii di Giove furono detti giusti, da fratelli, e da sorelle dovettero incominciare : regina degli uomini e degli Dei, perchè i regni poi nacquero da essi matrimonii legittimi….. È Giunone detta Giogale da quel giogo, onde il matrimonio solenne fu detto coniugium, e coniuges il marito e la moglie. Detta anche Lucina, che porta i parti alla luce non già naturale, la quale è comune ai parti schiavi, ma civile, onde i nobili sono detti illustri : è gelosa di una gelosia politica, con la quale i romani fino al 309 di Roma tennero i connubii esclusi alla plebe. Ma da’ Greci fu detta Ηερα, dalla quale debbono essere stati detti essi eroi, perchè nascevano da {p. 37}nozze solenni, delle quali era nume Giunone, e perciò generati con amor nobile, che tanto ερος significa, che fu lo stesso che Imeneo : e gli eroi si dovettero dire in sentimento di signori delle famiglie a differenza de’famoli, i quali vi erano come schiavi…. E quel geroglifico o favola di Giunone appiccata in aria con una fune al collo, con le mani pur con una fune legate, e con due pesanti sassi attaccati a’piedi, che significavano tutta la santità del matrimonio ; in aria per gli auspicii, che abbisognavano alle nozze solenni. onde a Giunone fu data ministra l’Iride, ed asseguato il pavone, che con la coda l’Iride rassomiglia ; conla fune al collo per significare la forza fatta da’giganti alle prime donne ; con la fune legate le mani, la quale poi appo tutte le nazioni s’ingentili con lo anello per dimostrare la soggezione delle mogli a’mariti ; co’pesanti sassi ai piedi, per dinotare la stabilità delle nozze, onde Virgilio chiama coniugium stabile il matrimonio solenne : essendo poi stato preso per crudele castigo di Giove adultero, con si fatti sensi indegni, che le diedero i tempi appresso de’corrotti costumi, ha finora tanto travagliato i mitologi ».

35. Cerere — Fu tempo quando s’innalzarono are, e si porsero sacrificii ad una Diva, ch’era dipinta con una falce in mano, con un manipolo di spighe in un altra, adornandosele le tempia di una corona ancor di spighe. Ella era Cerere, e fu cosi denominata, come vuole Tullio(1), a gerendis frugibus, dall’averporto a gli uomini le biade, scambiandole con le ghiande e con altri frutti agresti, ch’erano il cibo dell’uomo selvaggio. Ella rappresentavasi su di un carro guidato da Trittolemo, o trascinato da due serpenti alati. È questa una simbolica tutta propria dell’agricoltura. Col carro si voleva indicar lo aratro, cui coltivasi la terra — con Trittolemo, che guida il carro, l’aratore — co’serpenti alati i solchi, che lascia dietro l’aratro, i quali sovente vanno serpeggiando. Varrone poi, prendendo Cerere per la terra istessa, ne tragge la etimologia dall’antico verbo cereo, che significa creare, per dinotare essere la terra generatrice di ogni cosa. Questa Diva non poteva essere immaginata nella mente de’poeti, che dalla riconoscenza, volendo tributare onori divini a colei, che insegnando all’uomo irsuto e ancor disperso nella grande selva della terra l’agraria, ne fece pullulare le biade, onde porgere all’uomo istesso un migliore alimento.

36. Presa Cerere per la terra con ragione da greci fu detta γημητηρ, da γη terra, e μητηρ, madre, madre alimentatrice degli {p. 38}uomini. Da ciò fu creduta madre di Giove ; perciocchè tutto quello che porge la terra viene da Giove, ossia dall’aria. Per questo ancora si disse da’greci, che ella donò alla luce Κορον, la saturità, chè la terra germina e produce tutte le cose, onde ci nutriamo e andiamo satolli. A lei si offriva il papavero, ed era questo una simbolica, indicandosi con la rotondità di tal flore la forma quasi sferica della terra, per la quale ella si prendeva.

37. A Cerere si dava per figlia Proserpina. È questo un nome tutto greco περσεφονη, che Screvelio nel suo lessico deriva da περθιν devastare, e φενιν uccidere. Quanto sia a proposito questa etimologia non può cadere in dubbio dalla interpetrazione del seguente mito — Fu creduto da’Greci, che Plutone come Dio dello inferno rigettato dal connubio di ogni altra Dea, uscendo fuori dall’Erebo, rapisse Proserpina nella valle di Enna in Sicilia, seco trasportandola a consorte nello imo della terra, ove distendeva il suo impero. Cerere sua madre dolente della perdita della rapita figlia, accende una fiaccola a gl’incendii dell’Etna, e la cerca per tutta la terra. Sapendo finalmente di trovarsi nello inferno, ottiene da Giove di riportarla con seco per sei mesi su la terra, lasciandola a gli amori di Plutone per altrettanto tempo alternativamente — Questo mito è stato altra volta esposto nella nostra opera della istoria delle Opere della Natura(1), e qui lo ripetiamo per dare ad esso una più estesa interpetrazione. È desso un trastato tutto allegorico, cui si vuole intendere l’agricoltura, onde viene a noi il frumento dalla terra coltivata ; perciocchè Proserpina, come dice Tullio, non significava che il seme delle biade(2). Proserpina si volle figlia di Giove e di Cerere, cioè del cielo e dell’agricoltura, come può scorgersi da ciò che abbiamo detto di Giove e di Cerere istessa. È rapita da Plutone — con questo volevasi indicare, ch’è d’uopo mandare il seme alla terra, nell’imo della quale credevasi aver regno Plutone, per farlo germogliare ; se pur non si voglia dire, che Cerere inventrice del frumento, disseminandolo in Sicilia restasse incendiato dal fuoco dell’Etna, personificando il fuoco in Plutone, ed il frumento in Proserpina. Cerere cerca la sua Proserpina per tutta la terra — con questo esprimevasi, che Cerere, ossia l’agricoltura in tutte le parti della terra è intenta a produrre Proserpina, ossia il frumento, cui ella si confonde. Proserpina fu tenuta per impero di Giove a {p. 39}rimanersi per sei mesi con Plutone nell’inferno e per altrettanti con Cerere su la terra — con questo indicavasi, che il frumento mandato alla terra vi resta seppellito per qualche tempo, e non si vede useir fuori e pullulare, che nella stagione di primavera. E perciò celebravansi per questa figlia di Cerere due feste, lieta l’una in primavera, lugubre l’altra in autunno. L’Agostino poi esponendo la dottrina di Varrone, prende Proserpina per la stessa fecondità de’semi mandati alla terra. E narra(1), che mancando un tempo questa fecondità, andando la terra infruttuosa, fu immaginato, la figlia di Cerere, ossia l’istessa fecondità essere rapita da Plutone e portata con lui nell’Orco ; e compianta poscia questa sciagura con pubblico lutto, venne in mezzo la ubertà de’campi, e, renduta una tale Proserpina, surse l’allegrezza tra tutti, e così furono a lei instituiti giorni solenni.

38. Eusebio prendendo il sole per Plutone, porge una diversa interpetrazione a questo mito « Proserpina, ei dice(2), è la virtù istessa de’semi, e Plutone il sole, che in tempo d’inverno percorre le parti più remote del mondo, onde vogliono di venire da lui rapita Proserpina «  E diversamente ancora lo interpetra Bacone. Per Proserpina, ei dice(3), gli antichi intesero quello spirito etereo, che si racchiude sotto terra, rappresentato da Plutone, e vi è rattenuto disgiunto dalla parte superiore del globo... e questo spirito si finse di essere stato rapito dalla terra, perchè vi viene raffrenato e rattenuto quando vorrebbe slanciarsi, fuori ».

39. Cibele — Questa Diva nacque in mente de’Greci per rappresentarsi un tipo di coloro, che radunando gli uomini in uno, prima dispersi nella gran selva della terra, fondarono città e borgate, e fecero nascere lo incivilimento ove prima non’era che {p. 40}fierezza ed un vivere da selvaggio. Quanto si disse di lei tutto era una simbolica. Ella rappresentavasi come una donna robusta e possente, onde dare una immagine della fermezza e stabilità della terra. Le si circondavano le tempia con una corona di quercia, per rammentare di essersi una volta gli uomini nudriti del frutto di questo albero. Le si mettevano sul capo alcune torri, e chiavi in mano, per indicare con quelle le aggregazioni degli uomini, che sursero in città fortificate e poste sotto la protezione de’fondatori, con queste le dovizie che la terra racchiude nel suo seno nello inverno e fuori tragge nella estate. Assisa su di un carro sostenuto da ruote trascinate da leoni, indicandosi col carro la terra librata in aria col proprio pondo — con le ruote la terra istessa in muoversi con un moto circolare — co’leoni, non esservi belva sì fiera, che non venga ammansita dalla tenerezza materna, oppure non esservi angolo di terra sì remoto e sì infruttuoso, che non possa mettersi a coltura. Le si metteva dappresso un tamburo per raffigurare il globo della terra. A questo mito lo scrittore della Scienza Nuova porge una diversa interpetrazione. « Cibele, ei dice(1), o Berecintia, la terra colta, e perciò si pinge assisa sopra un leone, ch’è la terra selvosa, che ridussero a coltura gli eroi…. detta gran madre degli Dei, e madre detta ancora de’giganti, che propriamente così furono detti nel senso di figliuoli della terra : talchè è madre degli Dei, cioè de’giganti, che nel tempo delle prime città si arrogarono il neme di Dei : e le è consacrato il pino, segno della stabilità, onde gli autori de’popoli stando fermi nelle prime terre fondarono le città, Dea delle quali è Cibele. Fu detta Vesta, Dea delle divine cerimonie presso i romani, perchè le terre in quel tempo arate furono le prime are del mondo. »

40. Minerva — Nacque questa Diva nella mente de’poeti, per crear un tipo di sapienza, e onde personificare il genio inventore delle belle arti e delle armi guerriere. La vogliono nata dal capo di Giove, fendendonelo Vulcano : intendevasi con questo le scienze, le lettere ed ogni altra disciplina non essere un ritrovato dell’uomo, ma nate dal cervello di Giove, ossia dal fonte inesausto della sapienza divina. Taluni si finsero in tal modo questa prima intelligenza per dire, che Dio per verbum avesse creato il mondo. I pitagorici dando a’numeri tante denominazioni, come dimostrammo nelle nostre Ricerche politico-letterarie della Magna Grecia(2), chiamarono Minerva il triangolo di tre lati eguali, supponendo essere nata dal suo vertice, e di Tritogonia, perciocchè questo triangolo si divide in tre perpendicole tirate da {p. 41}tre angoli. Così Plutaron(1). Altri la derivano da una parola celtica men, che in italiano risponde a giudizio, e da errua, che interpetrano forza e giudizio, onde Men-errua importa forza, giudizio, e ben risponde al tipo che se ne fecero gli antichi, onde personificare la sapienza e la forza. Da ciò l’Alighieri(2),

« L’acqua che io prendo giammai non si corse,
Minerva spira e conducemi Apollo,
E nuove Muse mi dimostran l’Orse. »

41. Tullio la vuole così detta(3) vel quod minueret, o perchè decima il numero degli uomini considerata come guerriera, vel quod minaretur, o perchè con la sua armatura guerriera caccia il terrore nel euore degli uomini e sembra minacciarli. Festo poi ne tragge la etimologia dal verbo moneo, cioè ammonire(4), ossia da’saggi consigli, che credevasi di porgere a gli uomini. Portava ancora il nome di Pallade, parola tutta greca, che deriva dal radicale « παλλειν vibrare, saettare, onde si rappresenta con in mano un’asta in atto di vibrarla. I greci, dice lo scrittore della Scienza Nuova(5), immaginarono la decima divinità delle genti, Minerva, e la finsero nascere con la fantasia fiera egualmente e goffa, che Vulcano con una scure fendette il capo di Giove, onde nacque Minerva, volendo essi dire, che la moltitudine de’famoli, che esercitavano arti servili, che venivano sotto il genere poetico di Vulcano : Plebeo, essi ruppero il sentimento d’infievolire o scemare il regno di Giove, come resto ai latini minuere caput, per fiaccare la testa, perchè non sapendo dire in astratto regno, in concreto dissero capo… In cotale favola i filosofi ficcarono la più sublime delle loro meditazioni metafisiche, che la Idea eterna in Dio è generata da esso Dio, ove le idee create sono in noi prodotte da Dio. Ma i poeti teologi contemplarono Minerva come la idea di ordine civile come restò per eccellenza a’latini ordo per senato ; lo che forse diede motivo a’filosofi di crederla idea eterna di Dio, che altro non è che ordine eterno ».

42. Ma di questa Diva non poche altre cose, poichè ne’suoi nomi, e nelle sue attribuzioni, da noi spigolati con lungo studio {p. 42}ne’classici greci, troviamo non poche virtù di molto utili all’uomo. Nata Minerva dal cervello di Giove qual tipo di sapienza e di valore, era conceputa senza madre ; perciocchè la virtù ed il valore non tanto scendono con il sangue per lungo ordine, come dice ironicamente il Panni(1), di magnanimi lombi, quanto si acquistano con lunghi sudori, facendo forza e resistendo a’moti smodati del cuore, ed elevandosi su la fralezza dell’argilla, onde l’uomo è plasmato. Il suo nome tutto greco Αθηνη può derivare da ατρειν, raccogliere ; perciocchè personificandosi ella per la sapienza, può considerarsi come una virtù, che tutto raccoglie in uno per saper contemperare la vita. Le si dava il nome di Pallade παλλας che oltre altri significati, come presso i lessiografi greci, può interpetrarsi giovanetta, e ciò a cagione di sua fresca giovanezza, effetto di sua verginità sempre incontaminata, sempre pura. Fu creduta inventrice dell’ulivo e dell’olio ; posciachè non perdendo mai quello la sua verdezza, e questo non potendosi mai contraffare con altro liquore, rimanendo sempre nella sua purezza, vera simbolica della verginità di questa Diva. Credendosi essere uscita armata dal cervello di Giove, i Greci le davano il nome di Αρεια marziale, duce e governatrice della guerra, pugnando acremente per tutelare la giustizia. Da ciò gli antichi le attribuirono virilità e truculenza, quali caratteristiche trasparivano da gli occhi suoi, dipingendoli di color glauco, come si scorge nelle fiere robustissime, quali sono il pardo ed il leone, gli occhi dei quali tinti di color glauco sono si vivamente lucenti, che altri non può guardarli che di trasverso.

43. Venere — Fu immaginata questa Diva dagli antichi greci onde personificare i sensi di piacere, di voluttà, che sopraggiungono a ciascun vivente quando le membra di loro vanno ad un compiuto sviluppamento. E Tullio(2) ne tragge la etimologia dal venire spontaneo di lei a tutto i viventi.

Si volle nata dalle onde del mare, posciachè la generazione di cui ella era tipo, per aver luogo ha bisogno di umore e di movimento, ciò che trovasi appieno nelle onde del mare. Ella fu detta Αφροδιτη, ed è quella potenza, cui son prodotti il maschio e la femmina. Ed Euripide ne tragge etimologia ; poichè tutti coloro, che sono presi da Venere, addiventano, come ei dice, αφρονες cioè stolti, insani, insipienti. A Venere assistono le Muse, e suoi compagni sono Suadela e Mercurio, poichè coloro {p. 43}che si amano restan presi dalla grazia e dalla parola. Esiodo(1), assegna a loro il riso e il dolo ; il poeta dell’Iliade poi le blandizie dell’elloquio, onde va illuso ancora l’uom saggio. A Venere era sacra la colomba ed il mirto — la colomba perchè molto amabile, ed è simbolo del vero amore, secondo la maniera di baciare tutta propria di essa — il mirto, poichè gli antichi si servivano di questa pianta per conciliare gli amori.

44. A Venere si dava per figlio il Dio Cupido, ed una a lei era venerato. Chi sia questo nume ben si scorge da un frammento delle Commedie di Alesside, e noi qui lo riproduciamo secondo la nostra istessa versione dal greco, quale fu prodotto in un’alra nostra opera(2),

« A me che un dì rediva dal Peireo,
Egra la mente dal pensier de’mali,
Filosofare fu talento — Quale
Amok si sia, nè pittor, ned altri,
Che sculta immago a questo demon fece,
Conoscer sembra : posciachè non maschio,
Nè femmina, non uom, non è un divino,
Non fatuo, non scaltro, è un misto, è un misto
Di tutto questo : in un’immagin sola
Presenta molti aspetti — un’ardimento
Dell’uomo è in lui, muliebre tendenza,
Vn’amenzia funesta, una ragione
Cordata circospetta, una ferina
Veemenza, indomabile fatiga,
Vn’ambir prodigioso, e tutto degno
Di maraviglia. Per Minerva e Giove
Non so quali sieno tali cose…… »

Cupido si finge fanciullo ; poichè vanno privi di sana mente coloro che son preda di insani amori. Si crede alato, chè amore spesso irrompe violentemente negli animi degli uomini. Gli pongono in una mano l’arco e gli strali, nell’altra una face, perciocchè l’amore è come un dardo, che dagli occhi scende al cuore, e vi apre profonda ferita — è come una fiaccola, che infiamma ed accende, ingenerisce e strugge. I greci lo chiamavano desiderabile ; poichè l’amore ha sempre trasporto alla fruizione di quelle cose, che sono di forma avvenente e graziosa ; o per una certa follia, un delirio, che nasce dall’oltremisura dell’amore, in modo che i perduti amanti può dirsi andar privi del bene dell’intelletto.

{p. 44}Rabaud di Saint-Etienne porge al mito di Venere una diversa interpetrazione « I pianeti, così egli, erano adorati relativamente alle vere o false influenze, che una lunga osservazione ad essi attribuiva. Venere anticamente chiamata Calisto, ossia la più bella, Venere che con tanta pompa esce dal grembo delle acque, passò per aver avuto da quelle il suo nascere. Fra i piccoli pianeti è dessa la sola, che porge dell’ombra ; erale attribuito un moderato calore, e il privilegio di umettare l’atmosfera : da ciò vennero gl’influssi, che le furono attribuiti, e gli emblemi sotto i quali erano indicati, e gl’inni religiosi, che vennero a lei rivolti. Sposa del Dio del fuoco, di quel Vulcano, i cui antichi altari ivano del pari con quelli di Prometeo, fu essa di mano in mano amante di Adone, cioè del Sole, e di Marte, col quale entrava essa in congiunzione, secondo i diversi suoi aspetti in cielo ».

45. Diana — Ella fu detta da Orazio Diva Triformis, perciocchè ella era considerata, come una divinità celeste, onde confondevasi con Febe, ossia con la Luna ; come una divinità della terra, e chiamavasi Diana ; come una divinità infernale e portava il nome di Ecate e Proserpina, o per altra cagione che poco dopo esporremo, e da questo triplice aspetto era detta ancora Epipirgidia e Trivia. Diana è parola tutta greca Διανοια, che importa agitazione della mente, pensiero. I latini ne traggono la etimologia da Dea iens, cioè Dea che trovasi in continuo movimento, per alludere al trasporto, che credevasi di avere per la caccia, se pur non si voglia derivare da dies giorno, che’è una stella, che precede la comparsa del Sole su l’orizzonte, ond’è detta Lucifer apportatrice del giorno. Portava poi il nome di Ecate da εκατον cento, o perchè ella veniva placata con cento vittime, o perchè desse in una erranza di cento anni coloro che dopo morte andavano insepolti. Era detta Trivia o dalla triplice sua apparenza, o che presedeva come Giove e Febo, come Ovidio disse, a’trivii,(1). Fu creduta come Dea della caccia, e perciò si dipingeva con l’arco, con il turcasso, e seguita da cani. Era questa una simbolica, con cui volevasi indicare come questo pianeta, ora siegue il sole, ora lo fugge, ora si accosta allo Zodiaco, ora si unisce a gli altri segni celesti.

46. Si vuole che Diana veduta nuda da Atteone celebre cacciatore, mentre si bagnava una alle sue ninfe, l’abbia cambiato in cervo, lasciandolo sbranare da’suoi cani, che lo seguivano. È questa una narrazione tutta istorica. — Atteone tutto intento a cacciar {p. 45}ne’boschi, alimentava molti cani, e nulla si dava cura dei suoi beni di fortuna, fino a mancargli del tutto, onde si disse essere stato cambiato in cervo, e divorato dai suoi cani.

47. A lei si davano diversi nomi, e per queste varie attribuzioni le vedove, e qui riportiamo le stesse parole di un’altra nostra operetta(1), sedute su la tomba degli estinti loro parvoli offrivano alla Luna corone di papavei, e lagrime, placandola, così Virgilio(2), col nome di Ecate. Le incantatrici, come dice Orazio(3), chiamandola Trivia, a lei ululavano nelle loro evocazioni. Dandole il nome di Latmia, a lei, così appo Ateneo(4), le preghiere del taciturno esploratore degli astri. Emergendo col suo raggio dalle nuvole, a lei fu dato il nome di Artemide. Col nome, di Diana, diva de’porti, e col nome di Delia, così Callimaco(5), guidatrice delle vergini oceanine, i primi nocchieri andavano nel suo tempio ad appiccarvi il timone, quando venivano scampati dalla tempesta. A lei i cacciatori su l’ara di Dittinna, come in un inno voluto di Omero(6), porgevasi in voto l’arco, la preda e la esultazione di una danza. Pindaro in un inno salutolla fluviale(7). Le Parche, ministre della vita dell’uomo, così presso Orazio(8), la seguivano, e le Grazie quando scendevano a gli auspicati talami. Dalle spose, così Platone(9), s’invocava Gamelia, Ilizia dalle madri. E finalmente s’invocava col nome di Opi, di Lucifera, di Diana quale madre e natura — Rappresentavasi sotto le sembianze allegoriche di una donna a tre taste, di cavallo, di cane e di cignale, o come vuole Pausania(10), sotto lo aspetto di tre corpi congiunti in un solo a tre facce. Non torna difficile la interpetrazione di questo mito — considerata come la Luna, con i tre corpi, e le tre facce si voleva dare un simbolo delle apparizioni della Luna istessa, che presenta nelle sue fasi nell’alto de’cieli, prima di mezza Luna, poscia di un mezzo globo, infine di un globo intero.

48. Vesta — Figlia di Saturno e di Rea veniva riconosciuta come {p. 46}la Dea del fuoco. Da’greci fu immeginata questa divinità, onde personificare il fuoco di tanto utile all’uomo, e può trarsene argomento dal tempio a lei fabbricato in Roma da Numa Pompilio quasi in forma di un globo, per dimostrare tutto l’universo, nel mezzo del quale stava quel fuoco, che dicevano Vesta. Ella, dice Ovidio(1), non è altro che la viva fiamma, e la stiman vergine, dice Lattanzio, chè il fuoco è un’elemento inviolabile, o nulla può nascere dal fuoco, anzi distrugge tutto ciò a cui si appicca(2).

49. A Vesta si consacrava un fuoco perenne, e ciò per dinotare, che ella stessa era questo fuoco, o che ella ne fosse la cagione, e che quasi sia nato per suo potere.

E non di rado fu presa per la terra. Invero Aristarco di Samo fu accusato da Cleonte, uditore di Zenone, di non aver tributato a Vesta gli onori dovuti, e di averne turbato il riposo : non è questa, dice Plutarco, che un’accusa tutta allegorica, con cui voleva intendersi di aver egli spostata la terra dal centro dell’universo, per farla rivolgere intorno al sole. Posciachè da gli antichi fu creduto rimanersi la terra sempre immobile e fissa nel suo centro, a Vesta fu dato il nome di εστια da εστενια, stare, per indicare che quasi su di un fondamento si poggia e sta l’univermondo. Vesta, dice Ovidio(3), non è altro che la terra ; e poichè questa si sostiene col suo proprio peso, è detta Vesta.

Presa Vesta per la terra le si davano sembianze rotonde, e veniva collocata per mezzo gli omeri, per esprimersi la forma quasi rotonda della terra, e che questa in tal modo conglobata vien posta. Si credeva esser la prima e l’ultima divinità, simbolica proprio della terra, perocchè tutte le cose fatte dalla terra si risolvono in essa, e poscia da essa di nuovo risorgono. Per questo i greci da Vesta prendevano le iniziative de’sacrificii, e con essa vi davan fine.

50. Le Mvse — Elleno erano così dette dal greco μουσειν, che risponde all’italiano spiegare i misteri, o da απο της μωσεως, ricerca, perchè si voleva di aver ricercato e insegnato a gli uomini cose sublimi, e che non sono alla intelligenza di tutti ; e con altro nome Camene, che può interpetrarsi canto ameno, dalla dolcezza del loro canto : Altri derivano il nome Musa dall’ebreo {p. 47}Musor, che significa disciplina, erudizione. A questo a noi sembra, che abbia inteso l’Alighieri in quei suoi versi(1),

« Minerva spira e conducemi Apollo,
E nuove Muse mi dimostran l’Orse »

Tante volte col loro nome non s’intende che la stessa poesia, come Alighieri per Musa intese Virgilio(2),

« Sì pia l’ombra di Anchise si porse,
Se fede merta la nostra maggior Musa »

E l’Ariosto del pari(3),

« Le donne antiche hanno mirabil cose
Fatto nell’armi e nelle sacre Muse »

51. Le Muse credute figlie di Giove e di Mnemosine cantavano su l’Olimpo le maraviglie degli Dei, quale concetto fu mirabilmente svolto dallo immortale Vincenzo Monti nel suo eruditissimo canto, la Musogonia. Furono credute figlie di Giove, e di Mnemosine, ossia della memoria, per indicare che le discipline necessarie all’uomo, ritrovate la prima volta da Giove non si possono acquistare dagli altri che con assidua meditazione e diligente memoria. Esiodo nella sua Teogonia vuole che a loro nulla andava ignoto, nè il presente nè il passato, e che nulla allegrava di tanto lo augusto congresso degli Dei, quanto il melodioso concento di loro voce. Sempre unite si componevano a coro, sciogliendo iterate danze, cantando inni e celebrando il culto degl’Iddii : con questo volevasi intendere, che le virtù personificate nelle Muse non vanno mai disgiunte fra loro, e che le discipline e le arti traggono la loro iniziativa ed il compimento dal cielo. Si disse elleno andar sempre cacciando per le selve, pe’monti, chè le scienze e le arti, cui presedevano, per coltivarsi con esito cercano sempre la solitudine della mente e del cuore. Pausania non riconosce che solo tre Muse, Melete, Mneme e Aede, tre nomi, de’quali traendo la interpetrazione dal greco, rispondono a tre altre italiane, memoria, meditazione e canto, che altro non sono che una vera personificazione di tre obbietti, che servono a dar principio, sviluppo e compimento ad un poema. E dalla lettura delle opere dello stesso Pausania apprendiamo da tre essersene fatte nove — Piero principe Macedone portandosi nella Beozia fè credere esser nove il numero delle Muse, dando loro il nome di altrettante graziose donzelle sue figlie — Varrone ne fragge la loro origine da diverso avvenimente — Volendo gli abitatori di Sicione elevare un monumento di gloria alle tre Muse, scelsero tre {p. 48}scultori a rilevar ciascuno dal marmo tre simulacri per collocarne solo tre nel tempio di Apollo, che per superiore bellezza meritassero l’approvazione di tutti. Operando gli scultori tutti e tre col portento dell’arte, trassero da’loro scarpelli nove maraviglie di bellezza, onde piacque collocarle tutte nel tempio di Apollo, e furono come le tre prime tutte credute figlie di Giove. E arrogi la opinione di Diodoro Sicolo — Osiride, così voltiamo in italiano le sue parole, teneva a suo diletto il canto e le ridde, ed aveva sempre con seco musici e cantori, fra i quali nove leggiadre donzelle molto intente al canto e alle danze, ed a queste davasi il nome di Muse.

52. Niuno ignora il nome delle Muse, Clio, Euterpe Talia, Melpomene, Tersicore, Erato, Polinnia, Vramia, Calliope. Noi, senza dire a quale delle belle arti ciascuna di esse voleva farsi presedere, chè non faremmo che ripetere indarno tutto quello, che ne hanno detto i mitologi, qui trascriviamo solo alcuni versi del cantore della Musogonia(1).

Di nove ie dico vergini leggiadre
Del canto amiche e delle belle imprese :
Melpomene, che grave il cor conquide ;
E Talia che l’error flagella e ride ;
Calliope che sol co’forti vive
Ed or ne canta la pietade, or l’ira ;
Euterpe amante delle doppie pive,
E Polinnia del gesto e della lira ;
Tersicore che salta, e Clio che scrive ;
Erato, che di amor dolce sospira ;
Ed Vrania, che gode le carole
Temprar negli astri ed abitar nel Sole.

53. Nè tre nè nove erano le Muse ; ma co’loro nomi dagli antichi sapienti altro non intendevasi, che personificazioni allegoriche delle belle arti, della poesia, della musica, delle danze, e degli effetti da queste prodotti. Con la parola Clio κλεος gloria, da κλειειν, cantar le geste, onde volevasi personificare la gloria che va immortale per coloro, che meritano le laudi della poesia. Per Euterpe ευτερπη dilettazione, rappresentavasi quella soave, quell’arcana voluttà che sentesi in cuore di coloro, che odono la melode de’versi. Per Talia da θαλεια immortalità e verdezza, esprimevasi la floridezza della poesia eterna duratura di età in età, di secolo in secolo. Per Melpomene μελπη canto, indicavasi lo insinuarsi de’melodiosi concenti per le vie più secrete del cuore. Per {p. 49}tersicore dal verbo τερπω e χορος dilettare, significavasi il diletto, che si tragge da coloro, che hanno apparato le belle arti. Per Erato da ερατος amabile, la stima che il tempe e la fama acquista a’saggi cultori delle belle arti. Per Polinnia πολυμνος celebre, di molta fama, il piceol numero de’vati, che mandarono a’posteri il loro nome per gl’inni cantati in laude degl’Iddii. Per Vrania da ουρανος cielo, la contemplazione de’cieli, l’astronomia. Per Calliope comparativo di καλος bello, che può interpetrarsi dolcezza, di voce, il diletto della eloquenza, e lo ammaliar quasi gli anini, traendo dietro a sè gli affetti del cuore umano.

54. Le Grazie — Tre di numero, Aglaia, Talia, ed Eufrosine, sebbene in non pochi luoghi della Grecia se ne riconoscevano quattro, e solo due presso gli Spartani, Cleta e Fenna, si volevano figlie di Giove e di Eurinome, o di Giove e di Giunone, o di Bacco e Venere, o in fine del Sole e di Egle. La freschezza di gioventù, cui dipingevansi, la verginità, le sembianze, il portamento, che loro si dava, il carattere, il nome istesso cui eran chiamate, altro non erano che una simbolica ed una allegoria, con cui si voleva esprimere i più preziosi beni, tutti i più puri piaceri, che l’uomo deve promettersi ne’suoi giorni, la buona grazia, l’allegria, un umore sempre eguale, la innocenza della vita, il candore de’costumi, e tutto ciò che a noi sparge di dolcezza la vita, non meno che la sennatezza, la prudenza, la gratitudine, la munificenza, le fraterne corrispondenze amorose, ed ogni legame, che rannoda l’uomo all’uomo e ne rende un tipo di grandezza sociale. E veramente elleno erano dette Carite, voce greca che significa gioia, e con questo nome volevasi esprimere, che l’uomo deve con piacere mostrare la sua riconoscenza e prestare buoni ufficii a coloro, de’quali hanno provato la munificenza. Si rappresentavano nella età più fresca di giovinezza, per indicarsi, che la ricordanza di un beneficio deve sempre star vivo nella mente, e non deve mai invecchiare. Eran dipinte vergini, vispe e leggiadre — vergini, perciocchè nella largizione de’beneficii è d’uopo aver mire pure e sante, senza le quali tutto va perduto e contaminato, e che la munificenza non deve andar disgiunta dall’accorgimento e moderazione — vispe e leggiadre — vispe, chè il beneficio non deve farsi aspettare, onde era ai Greci — non esser grazia quella che viene lentamente, e deve tosto obbligare chi ne va beneficato. Rappresentavansi strette le palme le une alle altre, e con questo volevasi esprimere, che le amabili qualità sono i nodi più dolci della famiglia umana, od ancora, che l’uomo deve stringersi all’uomo con alterno scambio di beneficii. Si dipingevano nude e tante volte moventisi in giro a danza : le decorose Grazie, dice {p. 50}Orazio(1), unite alla ninfe percuotono la terra con alternative piede — nude per indicarsi che nulla torna più gradevole della semplice natura — moventisi a danza, per dinotare che mutua deve essere la munificenza tra gli uomini ; e mercè la gratitudine il beneficio debbe ritornare donde è partito, oppure che elleno amiche della gioia innocua non sanno piegarsi a modi molto austeri.

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Capitolo IIII. §

Sommario 55. Ercole — Egli può considerarsi come un personaggio fantastico, ed allegorico. 56. Ercole fantasticamente considerato. si espongono e si interpetrano alcuni miti di lui una a’miti di Bellorofonte e di Cadmo. 57. Ercole uccide Gerione, a cui la favola da’tre corpi, interpetrazione di questo mito e secondo i principii della istoria, e per via di allegorie. 58. Ercole uccide Anteo figlio della terra, strozzandolo tra le sue braccia, interpetrazione di questo mito dallo scrittore della Scienza Nuova. 59. Ercole uccide Acheloo, che cangiossi prima in serpe. poscia in toro, quando gli fu strappato un corno, e raccolto dalle Naiadi, ne fecero il corno dell’abbondanza : è questo un fatto istorico personificato con un’allegoria. sviluppo di questa allegoria. 60. Ercole personaggio allegorico — Concetti di un inno di Orfeo, cui scorgesi essere Ercole non altro che il Sole. 61. Pruove tratte dalla istoria, onde dimostrare sotto il nome di Ercole intendersi il sole. 62. Altre pruove tratte dalle opinioni di Porfirio e di Macrobio. 63. Esposizione delle dodici fatiche di Ercole, e comparazione di esse a ciascun passaggio del Sole ne’dodici segni dello Zodiaco. 64. Cadmo, interpetrazione del suo mito. 65 Sfinge Cadmea, e suo mito. 66. Giano — Perchè andava rappresentato a due facce, opinione di Plutarco. 67. La favola di Giano è tutta allegorica, e va strettamente unita al sistema planetario, ond’egli deve considerarsi come un segno celeste. 68. Vn brano de’Fasti di Ovidio, onde dimostrare essere Giano un segno celeste. 69. Altre ragioni per lo stesso argomento — da altri si vuole essere il mondo, e da ciò Tullio tragge la etimologia della parola Giano — tempii ed altari simbolici innalzati a Giano. 70. Pane, simbolica di questa divinità boschereccia, e sua interpetrazione. 71. Conchiusione.

ercole, cadmo, sfinge cadmea, giano, pane.

55. Ercole — Egli è così detto dal greco Ερακλεης, che deriva da ερα Giunone, ossia l’aria, e κλεος gloria, come si dicesse un personaggio sublime celeste, o quasi superiore alla condizione umana, un eroe che poco curando le cose della terra si innalza dalla terra come l’aere su tutte le altre cose. Parleremo di lui come di un personaggio fantastico, e come di un personaggio allegorico. Sotto il primo aspetto con Ercole si volle personificare la natura sempre forte, stabile, invitta, sempre generante, anzi la potenza istessa di natura, che porge a tutti virtù e robustezza ; e non surse nella mente de’poeti, che come un carattere eroico, cui furono altribuite innumere e strepitose fatiche, che nè la vita di un uomo sarebbe bastata a farle, nè forza umana a compierle, onde si disse di esservene stato più di uno ; se pur con più ragione non si voglia dire, che a questo parto della immaginazione si attribuirono tutte le più grandiose azioni eseguite di tempo in tempo da tanti illustri, onde la gran selva della terra irta e dumosa, disgombri i mostri che la infestavano, fu posta a cultura, e porta la {p. 52}iniziativa dello incivilimento tra gli uomini. Sotto l’altro aspetto poi non sfugge a colui che vi pone mente di confonderlo col sole, rispondendo per un traslato allegorico le dodici fatiche a lui attribuite al passar che fa questo pianeta maggiore in ciascun segno dello Zodiaco, ossia costellazioni.

56. E prima di Ercole come personaggio fantastico. Così considerato si disse di lui di aver morto un terribile Leone, che shuffando fiamme dalla bocca desse lo incendio alla selva Nemea. Era questo un mito, cui s’intendeva che Ercole, carattere eroico disgombrando la terra dagl’innumeri mostri, che la circondavano, e disboscandola dagl’irti bronchi, dumeti e spinai, onde era ricoperta, vi portasse in mezzo la coltura. E con altro mito si disse di Ercole di aver ucciso col ferro e col fuoco un’idra, che sempre ripullulando nelle molte sue teste, quando altri le troncasse, non vi era chi potesse del tutto morirla : idra variante di tre colori, di nero per esprimere la gran selva della terra, cui fu appiccato lo incendio, per mettersi a coltura — di verde per indicare la terra in erba — di oro per significare le biade mature dal color dell’oro, tre colori che vanno impressi dalla natura nella spoglia della idra. E per questo ancora narrossi, che Ercole ancor bambolo strozzasse due colubri, per dare una nozione del tempo dell’eroismo bambino. Come del pari si disse di Bellorofonte di aver morta la chimera dalla coda di serpe, dal petto di capra, indice della terra selvosa, e dal capo di leone sbuffante fiamme. E come in fine narrossi di Cadmo, che, spenta la gran serpe, ne mandasse alla terra i denti, onde sursero uomini armati : concetti, cui con un vero traslato si volevano indicare i legni ricurvi e duri, co’quali prima di trovarsi l’uso del ferro fu svolta la terra, onde chiamarla a coltura. Raccontossi ancora di Ercole, che uccidesse un dragone ricoperto di squame e spine, sempre vegghiante alla custodia de’pomi di oro negli orti Esperidi. Non è questo che un gruppo di metafore, additandosi con le squame e le spine i dumeti ed i bronchi della selva della terra sempre folta prima di andar coltivata ; e co’pomi di oro le spighe del frumento, che furono considerate come oro dalla grande utilità che portarono alle umane aggregazioni. Oro le prime spighe di frumento, e tutto fu detto oro ciò che seco portasse molto utile all’uomo. Trascorrendo in vero col pensiere per alcuni periodi della istoria antica si rinviene portare il nome di oro le belle lane, onde presso il poeta della Iliade Atreo si duole di essergli da Tieste immolate le pecore di oro. Degli Argonauti fu narrato di percorrere i mari con ardito tentativo, onde andare a rapire il vello di oro, mentre a tutto altro intendevano. Ed il Gange, ed il Pattalo, e lo Idaspe, ed il Tago portavano il nome di fiumi di oro, {p. 53}poichè irrigando con le loro acque i campi, li fecondavano di doviziose biade. E il sommo cantor dell’Eneide(1) portando innanzi il traslato, da questi pomi di oro fece quel memorabile ramo di oro, di che Enea scendendo nello inferno per riveder l’ombra di suo padre Anchise, fè dono a Proserpina.

57. Vna delle grandiose fatiche di Ercole è ancora la vittoria riportata su di Gerione, a cui la favola attribuisce tre corpi, quando essendogli mancate le frecce, invocando Giove, gli mandò una pioggia di ciottoli, e con questi lo uccise, menando seco i bovi di lui per farne dono ad Euristeo. In questo mito si nasconde una verità, che non può andare discorde dalla istoria vera. I tre corpi dati dalla favola a Gerione forse non erano che tre corpi di armati, che per tutelare il suo territorio oppose ad Ercole ; oppure, che egli avesse tre fratelli, cui vivesse in tanta strettezza di amor fraterno, che potevasi dire, di loro di essere informati di un’anima sola in tre corpi. E quando a questo mito si volesse dare una perfetta allegoria, potrebbe portare questa interpetrazione — Con Gerione intendersi il fulmine, cui fu dato tal nome per indicarsi lo strepito, che seco porta il fulmine istesso — col triplicato corpo significarsi la triplice forza del fulmine, infrangere, prostrare, incenerire — co’bovi toltigli esprimersi il rombo, che siegue dopo lo slancio del fulmine squarciando i campi dell’aere, rombo che giunge all’orecchio quasi non dissimile al muggito de’bovi.

58. Ercole uccide Anteo, che la favola vuole figlio della terra, con sollevarlo in atto strozzandolo fra le sue braccia, scorgendo di non poterlo uccidere altrimenti, venendogli sempre dalla terra istessa porte nuove forze. Taluni interpetrando questo mito vogliono, che Anteo fosse un mercante stabilito nella Libia tanto dovizioso, che a nessuno veniva il destro di indebolirlo, onde la favola gli attribuiva 60 cubiti di altezza ; ma Ercole menandolo in mare, togliendogli di recarsi più a terra, ove poteva rinfrancarsi con nuovi sussidii, ivi lo fece perire. « Ercole, ecco come interpetra questo mito lo scrittore della Scienza Nuova.(2), carattere degli Eraclidi, ovvero nobili dell’eroiche città, lutta con Anteo, carattere dei famoli ammutinati, ed innalzandolo in cielo.… il vince e lo annoda a terra ; di che restò un giuoco ai greci detto del nodo : ch’è il nodo erculeo, col quale Ercole fondò le nazioni eroiche, e per lo quale da’plebei si pagava agli eroi la decima di Ercole, che dovette essere il censo, pianta delle repubbliche aristocratiche, onde i plebei romani per lo censo di Servio {p. 54}Tullio furono nexi dei nobili ; e per lo giuramento che narra Tacito, darsi da’ Germani antichi a’loro principi, dovevano lor servire come vassalli perangarii a proprie spese nelle guerre.

59. La favola racconta ancora un combattimento di Ercole contro Acheloo. Qnesti che si credeva figlio dell’Oceano e di Teti, combatte con Ercole, onde impalmare Deianira promessagli in isposa, e vedendosi inferiore di forze contra il suo rivale, trasformossi in su le prime in serpe, che terribilmente sibilando si sforzava cacciare il terrore nel cuor di Ercole e prostrarlo. Ercole lo strinse di tanto che stava per soffocarlo, quando cangiossi in toro, ma quegli presolo per le corna, e, strappandogliene uno, rovesciollo. Le Naiadi raccolsero questo corno, e riempiutolo da loro di fiori e frutti, fu detto il corno dell’abbondanza — non è questo che un fatto istorico personificato per mezzo di un’allegoria. Acheloo era un fi ume di Grecia, che scorrendo tra la Etolia ed Acarnania con le sue frequenti inondazioni portava il guasto alle campagne, e continue guerre tra gli Etoli stessi e gli Acarnani. Ercole alzando alte dighe a questo fiume, regolonne il corso, cessarono le inondazioni, si tolsero di mezzo le discordanze di guerra. Appiccando poi a questo mito un’allegoria, potrebbe interpetrarsi — con la metamorfosi di Acheloo in serpe voleva intendersi il corso tortuoso del fiume — con quella di toro le sue inondazioni ne’campi — con venirgli strappato da Ercole un corno il porsi in un solo letto le due correnti del fiume — con lo addivenire il corno strappato il corno dell’abbondanza, significarsi la fertilità, che poscia nacque ne’campi dalle irrigazioni delle acque di questo fiume.

60. Ora di Ercole come personaggio allegorico. E prima di ogni altro qui ci sforziamo di voltare nella nostra lingua alcuni concetti di un’inno, che si vuole di Orfeo, da’quali dimostreremo che Ercole in nulla va distinto dal Sole — Ercole, così egli, di animo grandioso, robusto, forte Titano, possente di mano, indomito, illustre ne’combattimenti, padre del tempo, eterno, ineffabile, potente in far tutto e tutto superare, creatore di ogni cosa, prestantissimo ausiliatore di tutti, cultore delle inculte genti, apportatore di pace a’morfali, generante, indefesso, ottimo germe della terra, fulgido dalle primogenite squame, apportatore dell’aurora e dell’oscura notte, esecutore di dodici fatiche per ogni parte della terra dall’orto fino all’occaso — A chi non sfugge una profonda intellettiva non può sfuggire del pari di scoprire in questi concetti del poeta non poche espressioni, che tutte convengono al sole. A lui s’innalzarono e tempii ed are, e con l’Ercole allegorico, che vi si adorava altro non intendevano che andar devoti del padre de’secoli, dell’anima visibile del mondo, delle immortale moderatore degli astri e delle stagioni, della forza e {p. 55}virtù di tutti gl’Iddii, del distruttore de’mostri della terra, e finalmente di quel nume sempre giovane, che assiso nel Sole, come su di una irradiante quadriga, trascorrendo dall’oriente al tramonto va diffondendo torrenti di luce, e distribuisce le ore passando di tempo in tempo pe’dodici segni dello Zodiaco.

61. E veramente scorgevasi in Megalopoli un simulacro di Ercole presso quello del sole ; ed Alessandro il grande quando rivide il suo Nearco, che credeva estinto una alla sua flotta, volle render grazia con un sacrificio e a Giove liberatore, ad Ercole, ad Apollo e ad allri Dei del mare, perciocchè Ercole non andava disgiunto nel culto da tutte queste divinità. Ne’suoi tempii ancora si alimentava il gallo, uccello del mattino e del sole ; e spesso vi si udiva risonare l’Io Pean sacro ad Apollo e ad Esculapio ; e quindi i sacerdoti Romani porgevano sacrificii ad Ercole, si circondavano le tempia di alloro, dando termine al sacro rito col sorgere e col tramonto del sole. Oltre l’alloro sacro ad Apollo e ad Ercole, ebbe questi insieme con quello la cetra e la compagnia delle Muse, onde fu detto Musagete. Ovidio non meno espone nei suoi Fastì(1) che i romani in ciascuno anno celebravano le sue feste una a quelle delle Muse.

62. A questo aggiungiamo la opinione di non volgari scrittori. Porfirio vuole, che al Sole fu dato il nome di Ercole, descrivendosi il cammino di quello a traverso de’dodici segni dello Zodiaco per mezzo di altrettante fatiche che la favole vuole eseguite da Ercole. Nè Ercole, diceva Macrobio(2), va estranio dalla potenza del Sole, il quale trasfonde negli uomini la forza, che li raggiunge a gli Dei, ed egli improntava questo sentimento dalla scuola Pitagorica, in cui fu creduto essere Ercole la forza della natura. E per esprimere questa forza fu porta a lui da Greci un’arma possente, la clava, e del pari si immaginava andar vestito della pelle di Leone, che tante volte si dipingeva tempestata di stelle, onde Ercole fu detto ancora Astrochitone, che porta il significato di adorno di stelle, cui altro non intendevasi, che il tempo, quando il Sole nel Solstizio estivo entrava nel segno del Leone, meta più sublime del suo corso.

63. A rafforzare quanto finora abbiamo detto, qui esporremo in iscorcio ad una ad una le XII. fatiche di Ercole, per {p. 56}compararle con il cammino, che il Sole fa di mese fu mese pe’dodici segni dello Zodiaco.

I. Ercole uccide il Leone del bosco Nemeo, e si ricuopre delle spoglie — Questa vittoria risponde al passar del Sole nel segno dello Zodiaco il Leone.

II. Ercole uccide la Idra Lernea, che si voleva di sette teste, sempre ripullulanti quando venivano troncate — risponde al passar del Sole nella costellazione della Vergine, denominata Lernea, chè era venerata a Lerno.

III. Ercole accolto in ospitalità dal Centauro Chirone uccide i centauri altercantisi per una botte di vino — uccide un feroce cignale, che infestava le foreste di Erimanto — Risponde al passar del Sole nel segno della Bilancia, che avviene sul principio di Autunno, fissato dal levar del Centauro, ch’è rappresentato con un’otre di vino e con un tirso adorno di pampani e di grappoli di uva. Levata dell’ Orsa detta ancora il Parco, o lo animale di Erimante.

IIII. Ercole raggiunge nel corso e prende una cerva dalle corna di oro, dai piedi di bronzo, sacra a Diana, detta la cerva del Menalo dal monte, ove ricoveravasi — Risponde al passar del sole nello scorpione, fissato dal tramonto della costellazione detta Calliope, che vien dispinta come una cerva.

V. Ercole disperde gli uccelli Stinfalidi, così detti dal lago, ove solevansi posare — risponde al passar del sole nel Saggittario, sacro a Diana, cui sorgeva un tempio a Stinfalo, e questo pessare è fissato al levar de’tre uccelli della via Lattea, lo Avoltoio, il Cigno, e l’ Aquila, che si dissero esser trafitti dalle frecce di Ercole.

VI. Ercole montando sul cavallo Arione giunge su le sponde del fiume Alfeo, e seco porta il toro di Creta, amato da Pasife, che devastava le pianure di Maratona. Combatte inoltre contro questo toro, ed uccide lo avoltoio, che divorava il fegato a Prometeo — risponde al passar del sole nell’Aquario ; e ciò era indicato dall’avoltoio posto nel Cielo a fianco della costellazione detta Prometeo, nel tempo stesso che il toro celeste, nominato toro di Pasife e di Maratona culminava al meridiano, e al tramonto del cavallo Orione, o di Pegaso.

VII. Punisce Busiride e Diomede delle loro crudeltà, uccidendo l’uno che soleva sacrificare tutti gli estranei, che giungevano nei suoi stati, e lasciando divorar l’altro, che era figlio di Marte e di Cirene, dai cavalli di lui, che alimentava di carne umana — r sponde al passar del sole nel segno dei Pesci, ed è fissato dalla levata Eliaca del Pegiso, che avanza il capo su l’Aquario, ovvero Euristeo figlio di Cirene.

VIII. Ercole scendendo su la nave Argo per la conquista del vello di oro, combatte con alcune donne guerriere, figlie di Marte, {p. 57}rapisce loro un bel cinto, e tragge una donzella dagli oltraggi di un mostro marino — risponde al passar del sole nel segno dell’Ariete, sacro a Marte, detto ancora Ariete di Frisso, o dal vello di oro, ed è indicato dal levarsi della nave Argo, dal tramonto di Antromeda, e dalla sua cintura, dalla Balena, e dal levarsi di Medusa, e dal tramontare della regina Cassiopea.

XIIII. Ercole monda le stalle di Augia, figlio del Sole, o come altri vogliono, di Nettuno, con farvi scorrere le acque del fiume Peneo o di Alfeo, e lo uccide negandogli la promessa ricompensa — risponde al passar del sole nel segno del Capricorro, ed è indicato dal tramonto del fiume dell’Aquario, la estremità del quale scorre nella stazione del Capricorno, e la sorgente è tra le mani di Aristeo, figlio del fiume Peneo.

X. Ercole vince Gerione, cui la favola da tre corpi, e ne conquista i suoi buoi, uccide un principe crudele, che perseguitava le Atlantidi — risponde al passar del sole sotto il Toro, che va segnato dal tramonto di Orione, che andò amante delle Atlantidi, ossia delle Pleiadi, e da quello del Boaro, conduttore dei buoi di Icaro.

XI. Ercole trionfa di un cane spaventoso dalla coda di serpente, e dal capo di ceraste — risponde al passar del sole nei Gemini, indicato dal tramonto del cane Frocione.

XII. Ercole trascorrendo l’Esperia toglie i pomi del giardino delle Esperidi, posti alla custodia di un Dragone. Veste inoltre, per fare un sacrificio, una tonica sparsa di sangue di un Cintauro, che fu morto da lui stesso al guado di un fiume, e questa tonica, lo brucia e lo consuma, e così compie il corso di sua vita — risponde al passar del sole nella costellazione del Cancro l’ultimo mese al tramonto del fiume Aquario, e del Cintauro, che sacrifica su di un’altare al levarsi del Pastore e della sua gregge, e quando Ercole declina verso le regioni occidentali, che van denominate Esperia, seguito dal Dragone del polo, custode dell’ Esperidi.

64. Cadmo — Narra la favola, che Cadmo nel fabbricare la città di Tebe, mandando i suoi compagni alla fonte di Dirce, per cavarne acqna, li vide divorati da un Dragone, che egli uccise, e seminandone i denti, ne nacquero uomini armati, che poscia si uccisero fra loro, pochi in fuori, che ebbero parte a fabbricar la città. Non difficile è la interpetrazione di questo mito ; posciachè Cadmo uccise un principe di nome Draco, che si voleva figlio di Marte, intendendosi dall’altra parte co’denti i sudditi del principe, i quali sollevandosi dopo la sconfitta di lui, Cadmo li fece, tranne alcuni pochi, tutti morire. « Egli, son queste le {p. 58}parole dello scrittore della Scienza Nuova(1), intorno a questo mito, uccide la gran serpe, sbosca la gran selva antica della terra, ne semina i denti, con la bella metafora con curvi legni duri che innanzi di trovarsi l’uso del ferro dovettero servire per denti dei primi aratri, che denti ne restarono detti, egli ara i primi campi del mondo : gitta una gran pietra, ch’è la terra dura, che volevano per sè arare i clienti, ovvero famoli : nascono da’sol chi uomini armati, per la contesa eroica della prima agraria gli Eroi escono dai loro fondi, per dire che essi sono signori de’fondi, e si uniscono armati contro le plebi : e combottono non già tra di loro, ma co’clienti ammutinati contro esso loro, e coi solchi sono significati essi ordini ».

65. Giano — Giano è rappresentato da tutta l’antichità a due facce, ond’è detto Bifronte. La favola vuole di portar tale denominazione, perciocchè accogliendo egli cortesemente nel Lazio, suo regno, Saturno scacciato dal cielo, avesse avuto da lui il dono di conoscere l’avvenire, e non mai obbliare il passato. Altri al contrario, e tra questi Plutarco(2), vogliono essere così chiamato, o perchè greco di origine venendo in Italia cangiasse e favella e maniera di vivere, o perchè desse a gli antichi abitatori del Lazio, incolti e fieri, consiglio a cangiare in mita la ferocia dei costumi, e darsi alla coltura dei campi, onde fu iniziato il loro incivilimento. Ma noi che in queste pagine abbiamo preso di mira la favola nel senso tutto allegorico, dobbiamo da altri principii interpetrare questo mito di Giano.

66. La favola di Giano è tutta allegorica, e va strettamente rannodata al sistema planetario, onde questo Nume sconosciuto dai Greci, il più antico Genio, che si a stato consacrato da’ Romani, come loro prima divinità tutelare, il eulto del quale fu da loro unito a quello del tempo e del Dio-Luce, ossia del sole, debbe non come un principe del Lazio, ma esser considerato come un segno celeste, che rifulge tra gli astri, preceduti da lui nel loro cammino intorno il sole.

67. E onde portare al vero questo nostro dettato qui riproduciamo poche parole di Ovidio, voltandole, come meglio ci è dato, in italiano. Ei ne’suoi Fasti drizzando una apostrofe a Giano : — Per qual Dio, egli dice(3), debb’io tenerti, se la Grecia non ha {p. 59}a le pari veruno Nume ? — E chiedendogli di additargli la cagione, perchè egli solo tra celesti sia un Nume, che vede di avanti e di dietro ; e fingendo di comparirgli Giano innanzi tra un torrente di luce, che irradiò tutta la casa, e lo riempì di terrore, così gli fa raccontare la sua istoria — Giù, Vate operoso, il timore ; odi le mie voci, ed apprendi da me stesso ciò, che desideri sapere. Caosse era il mio nome da gli antichi. Questo lucido aere, e questi tre corpi, che rimangono, il fuoco, l’acqua, e la terra, non erano che un solo ammasso ; e quando la discordanza degli elementi, che lo componevano, ebbe fine, disciolte le parti di questo ammonticchiamento, andarono ad occupare nuove sedi : in alto la luce, più vicino a questa l’aere, in mezzo la terra ed il mare. Io allora, che era stato un globo, ed un’informe mole, presi aspetto e forme degne di un Dio. Ora parimenti, poichè non è sì grande la nota della mia confusa figura, in me sembra lo stesso ciò che è d’avanti e ciò ch’è di dietro. Ecco la cagione della mia forma, che tu desideri sapere ; e, conoscendo questa, non ignori del pari quale sia il mio ufficio. Tutto ciò, che vedi da ogni lato, il Cielo, il mare, le nubi, la terra, tutto è chiuso ed aperto della mia mano. Presso di me solo è la custodia del mondo per quanto è grande, ed a me si appartiene solamente di ravvolgere i cardini. Quando mi è a talento di far risorgere la pace tra le rappacificate abitazioni, essa libera si vede camminare per vie sicure. Di letiforo sangue verrà rimescolato tutto l’orbe, se gli uomini infieriti non si rattengono dalla guerra. Vna alle Ore io presiedo alle porte del Cielo, e l’aere va e viene per mio comando. Per questo porto il nome di Giano, e quando il sacerdote impone la focaccia, e porge farro misto al sole, allora ricambierai il mio nome : poichè sul labbro di colui, che sacrifica ora per me risuona il nome di Petulcio, ora di Clusio(1). Vale a dire quella rude antichità volle con alterno nome significare le mie diverse vicende. Ti ho fatto noto il mio potere ; ora apprendi la cagione della mia figura. Già tu pure in qualche parte conosci ancora questa : ciascuna parte e di quà e di là ha due facciate, tra le quali l’una ha le mire al popolo, l’altra al lare. E come tra voi il portinalo sedendo presso le prime soglie del tetto vede lo entrare, e lo uscire. cosi lo portinaio del Cielo gardo l’Oriente e l’Occidente. — Da queste poche parole del cantore de’Fasti romani chi è colui, che sì perduto d’intelletto non vede di esser tutta un’allegoria la favola di Giano ? chi non vede essere egli non un principe {p. 60}del Lazio, ma un segno celeste, che deve trovarsi alla testa, e nello istante, che il sole incomincia l’apparente giro dei cieli, quando egli apre il cammino del tempo, che circola nello Zodiaco ?

68. Ma per venir meglio a’particolari su la interpetrazione di questo milo, aggiungiamo, voltandole nella nostra favella, le parole di Macrobio — Sonovi, ei dice(1), taluni, che vogliono esser Giano lo stesso che il sole e Diana, e che rappresentasi bifronte come padrone dell’una e dell’altra parte del Cielo, schiudendo il giorno col sorgere, e col suo tramonto dandogli termine ; e solevasi prima di ogni altro invocare quando si celebravano sacri riti qualche Dio, onde per lui si desse l’accesso a quel Nume, cui sacrificavasi, come se egli trasmettesse per le sue porte a gli Dei le preci dei supplicanti. Perciò sovente i simulacri di lui si rappresentavano tenendo con la destra il numero 300, e con la sinistra il 65, per dimostrare il numero dei giorni componenti il corso dell’anno, maggiore indizio del potere del sole — Altri vogliono essere Giano non altro che il mondo, ossia il Cielo, e di essere così denominato ab eundo ; poichè il mondo va sempre movenlosi con ravvolgersi in giro, e con darsi principio da sè, ed in sè ritornare, onde Tullio riportato da Cornificio(2), vuole non Giano, ma Eano ab cundo meglio essere denominato. E per questo i Fenici, volendo porgere un immagine sensibile di Giano, lo rappresentavano sotto le fattezze di un dragone, che spiegandosi in cerchio morde la sua istessa coda, onde far comprendere, che il mondo e si sostiene da sè stesso, ed in sè stesso si ravvolge — molti tempii inaugurati a lui dagli antichi romani ora erano un rappresentato di Giano Bifronte, ed ora di Giano Quadrifronte, ossia di quattro facce. I tempii di Giano Quadrifronte portavano quattro lati eguali con una sola porta, e tre finestre per ciascun ato. Co’quattro lati, e le quattro porte si volevano indicare le quattro stagioni dell’anno, e con le tre finestre di ciascun lato i re mesi di ogni stagione. E Varrone come rapporta Macrobio(3) vuole che a lui si erano innalzati dodici altari, per dare una simbolica dei dodici mesi dell’anno.

69. La Sfinge — Qui giova dir poche parole intorno alla Sfinge Cadmea, che fu dipinta da’poeti avere il corpo di cane, il capo ed il volto di donzella, le ali di uccello e voce umana. Questo mostro, {p. 61}così nato nella immaginazione de’poeti, vivendo tra monti proponeva alcuni enigmi, uccidendo coloro, che non sapevanli interpetrare, fino a quando indovinata da Edipo, gittossi giù da un monte e finì di vivere. La interpetrazione di questa favola è tutta istorica. — Cadmo impatronitosi del regno di Dracone, si impatronì ancora della sorella di lui chiamata Armonia, e menolla a seconda consorte, Sfinge una delle Amazoni, prima consorte di Cadmo, dolente di queste nozze, sottratti dall’ossequio di lui non pochi cittadini, ricoverossi nel monte delle Sfingi, sfidando a guerra il suo consorte, tendendo di giorno in giorno molte insidie, che con altro nome dicono enigmi, opprimendo non pochi de’Tebani. Cadmo promise largo prezzo a chi avrebbe morto siffatta Sfinge — Edipo lo uccise.

70. Pane — Pane era una divinità boschereccia, e rappresentavasi nella parte superiore di uomo, e nella inferiore irio e sotto le sembianze di caprone. Era questa una simbolica escogitata da gli antichi, onde personificare la natura, tutto l’universo, designando con la parte inferiore la natura selvaggia, aspra, ispida, dumosa, con l’altra l’uomo, l’aria, l’etere. Fu creduto abitar le selve e luoghi deserti, per esprimere l’unità di natura ; perciocchè la natura, l’universo è uno, ed unigenito. Si diceva vestire una veste di pardo bella e screziata di varii colori, per significare la moltiplice la variata bellezza, ed i diversi colori delle cose. Creduto custode degli orti e delle viti gli si poneva in mano una falce, gli si cingeva il seno di ogni specie di frutti, indicandosi con la falce esser della natura generar le cose e distruggerle, e distrutte riprodurle — co’frutti, la varietà de’frutti istessi, che nascondonsi nel seno della terra, e di tempo in tempo vengon prodotti. Si finse esser lascivo, e di inseguire le minfe de’boschi, vera simbolica per indicare la commistione di tanti semi, onde sorge il regno vegetabile ed animale, e tante esalazioni ed umori che vengono dalla terra e dalle acque per ravvivare la natura istessa. Si disse di produrre terrori panici, ossia terrori che sembra di nascere senza cagione, che vengono o dallo stormire delle frondi degli alberi, o dall’agitamento delle selve, senza esser mosse da vento, o da altri improvvisi suoni dagli antri e dalle voragini della terra, onde vengono atterriti gli armenti e le greggi, per indicare non pochi commovimenti e fremiti di natura, che sembrano inaspettati ed improvvisi, perchè non se ne conosce la cagione. Pane, per dir tutto in una parola, era considerato come un demone, come l’anima del mondo, per indicare il mirabile potere di natura, che subordinata alla Causa Prima, al Sommo Creatore delle cose, tutto genera, tutto alimenta, tutto provvede, tutto distribuisce, tutto pone in equa lance, onde sorge l’estetica, cioè il sublime ed il bello dell’universo.

{p. 62}71. Son queste le poche nozioni, che ho saputo dare intorno alla simbolica, ed ai miti etorodossi, e non ho fatto che aprire le prime tracce a questo studio filologico intentato, per quanto io mi sappia, e vergine ancora, sperando di sorgere queste mie brevi parole ad altri di più alta intellettiva e di miglior fortuna di incitamento, onde far tutto quello che i miei studii e la mia fortuna non mi han permesso di fare.

FINE.