Giovan Battista Niccolini

1880

Lezioni di mitologia

2017
Source : Lezioni di mitologia di G. B. Niccolini; Racolte e pubblicate da corrado Gargiolli; mitologia teologica con traduzioni da Teocrito, Orazio, Ovidio, Claudiano. Volume unico Mitologica Teologica, Milan, Guigoni, 1880.
Ont participé à cette édition électronique : Nejla Midassi (OCR, Stylage sémantique), Eric Thiébaud (Stylage sémantique) et Diego Pellizzari (Encodage TEI).

A Gaspare Gorresio §

Non ha guari mi si rioffriva all’occhio uno dei vostri dotti opuscoli, colle cortesi parole da voi scrittevi per me: « in testimonianza d’amica memoria ». E bastarono perchè mi si ravvivasse con molta soavità e con nuovo desiderio la memoria dei colloqui nostri in Torino, singolarmente nell’anno 1862, da quando ebbi la ventura di conoscervi dappresso nella conversazione del celebre Conte Federigo Sclopis, allora Presidente del Senato, visitandovi io poi con assai frequenza nella Biblioteca Universitaria e passeggiando talora con voi nelle vie di cotesta veramente italiana città, al mio cuore carissima e dai buoni venerata, nella compagnia pure di quel dolcissimo Giovanni Boglino, fratello a me per intima amicizia, e nel quale già parvemi riabbracciare le sante anime di Silvio Pellico e di Vincenzo Gioberti, poiché e’ visse per lungo tempo familiare ad ambedue. — Sovrattutto m’è fìsso in mente quel giorno in cui ci aggirammo per Doragrossa, e voi con erudita e limpida parola, e con abbondevole copia di argomenti e d’esempi, sponevate parecchie verità intorno all’ Orientale Letteratura, della quale siete maestro, giustamente commendato in Europa.

Non isgradite ora, che io, a testimonianza di grato animo e di affetto, che non iscema per lontananza nè per tempo, v’intitoli, fra le Opere che tutte riunisco e do alla luce del sommo Toscano del nostro secolo, fra le Opere del Niccolini da voi tanto ammirato, la Mitologia Teologica.

Dettò il nostro Poeta nell’anno 1807-8 per gli Artisti queste Lezioni, di guisa che non possiam ricercarvi quel più peregrino sapere, quella più squisita dottrina, che in tali studj addimandasi dalla matura Filologia, dalla Critica odierna; ed egli ben lo sapeva, e lo scrisse a chiare note da sè medesimo.

Tuttavia le versioni che qua e là vi ponea dagli antichi Poeti, rendono tale il Volume, che, eziandio senza il gran nome dell’Autore, potrebbe esser indirizzato all’eccellente traduttore del Ramaiana. Ad ogni modo, non cancellate da’ vostri affettuosi ricordi, quello di un ammiratore ed amico, che bramò anche in questa raccolta apparecchiare, per dirlo con modo dell’ Alighieri, grazioso loco al nome vostro.

Corrado Gargiolli.

Avvertimento. §

Dei pregj delle Lezioni di Mitologia di G. B. Niccolini, pubblicate nell’anno 1855 in Firenze, favellarono molto saviamente i critici e i biografi di lui, e tali giudizj riporteremo a suo tempo, come è debito nostro, in questa raccolta. — Dei difetti, o mancamenti, parlò l’Autore meglio di qualunque lettore, scrivendo, è gran tempo, a chi lo richiedeva di stampare il suo Corso; « Son grato alla cortese opinione che il Prof. Valeri ha delle mie Lezioni di Mitologia ; ma, dopo le opere di Creuzer e d’altri letterati Tedeschi, gli antichi Miti hanno mutato aspetto. Quindi mi converrebbe spender molto tempo e molta fatica, perchè la mia opera, scritta innanzi alle investigazioni dei valorosi filologi Alemanni, fosse degna della pubblica luce. Altri studj più cari me lo vietano ora; nondimeno gli son riconoscente della sua graziosa offerta »1. Ed è pure da riferire la breve lettera, colla quale, trenta anni appresso, e’ consentiva la stampa di una parte del Corso medesimo agli Editori Fiorentini: « Ben volentieri permetto loro, secondo che desiderano, di stampare le Lezioni da me recitate nell’Accademia di Belle Arti nel primo anno del mio Corso. Li prego nulladimeno di fare avvertire che sono scritte coll’ unico scopo di porre nei giovani il desiderio di leggere i Classici, il cui studio tanto aiuta la fantasia degli Artisti. Per giungere a ciò, ho tradotto non piccola parte dei loro scritti; e se nella gioventù fosse entrato l’amore di questi studj io avrei fatto di più »2.

Veramente unanime fu l’ammirazione per le versioni del Niccolini, lodato rispetto ad esse anche da critici non a lui molto benigni.

Pubblicheremo la Mitologia Storica3 immediatamente dopo la Teologica: e aggiungiam solo qui, che stampate tutte le Lezioni dell’Autore, si acquisterà migliore intelletto del suo metodo4 e de’ suoi fini, e apparirà splendidamente la singolare armonia, che in tant’ Uomo avverossi fra il letterato, il poeta, l’erudito, il cittadino e l’insegnante degno dei nuovi tempi, ch’egli potentemente valse a preparare, e da’ quali dovrebbe sorgere, insieme colle voci di alta riconoscenza per lui, frutto più copioso di nobili ed efficaci opere, onde l’Italia non fallisca oggimai alla gloriosa sua meta.

Corrado Gargiolli.

Lezione prima.
Che contiene il Metodo da tenersi per insegnare la Mitologia. §

Poiché gli uomini da Dio ribellatisi ne meritarono la vendetta, che sulla terra gli sparse atterriti e maravigliati, il loro culto rivolsero alla Natura; e quindi l’universo che annunziar dovea la maestà del suo Autore, tempio d’idoli divenne, e gli Dei furono figli dell’uomo. Ma era sublime il primo errore dei mortali, e manifestava la dignità della origine loro. E consegnato infatti agli annali di tutte le genti che agli astri, e specialmente al sole ed alla luna, fu tributato il primo omaggio dell’uman genere disperso. E certo, se fra le cose create degna avvene alcuna di ammirazione, egli è il ministro maggiore della Natura, il padre degli anni e della luce, per cui l’universo ride e si rinnova, il vincitor delle tenebre, la vera sede di Dio, che, al dir del Profeta, vi pose il suo padiglione.

Ma col proceder del tempo l’uman genere, dai vizj e dalle sciagure avvilito, così il mondo divise, che ogni bisogno ebbe un dio, e fu facile allora agli istitutori dei popoli idolatri, che utili cose vollero persuadere al volgo, il fingere d’aver commercio cogli Dei; e lusingar volendo ad un tempo la popolare ambizione, recarono alle divinità l’origine delle nazioni per essi ordinate. Quindi è che l’istoria di tutte le genti (se quella dei Giudei se ne eccettua, che Iddio scelse pel sacro deposito del suo culto) comincia dalle favole: onde io ho giudicato di dover con queste dar principio alle mie Lezioni, ed aprire quel vasto arringo, in cui inoltrandomi sì pieno di lusinghiera fiducia sul vostro compatimento, ho quasi dimenticato la difficoltà dell’impresa a che accinto mi sono.

Non fu mai maggiore l’opportunità di ripetere col divino Alighieri;

« Che chi pensasse al poderoso tema,
E all’omero mortai che se ne carca,
Noi biasmerebbe se sott’esso trema. »

Ma per dimostrarvi che arduo è l’assunto, ed accrescere ad un tempo in voi il desiderio di impadronirvi di quelle notizie che sono l’oggetto delle mie fatiche, ho deliberato di darvi il prospetto delle Lezioni che formeranno il Corso della Mitologia nel presente anno. La strada che dobbiamo percorrere ò difficile ad un tempo stesso ed amena; ed io, per quanto la povertà dell’ingegno mio lo concede, porrò ogni mia cura per allontanare tutti gli ostacoli che s’incontrano in così lungo cammino.

Essendomi prefìsso di cominciare dalle Favole per quindi condurle dove, purgate dalla ragione, prendono sembianza d’Istoria, mi è necessario dì par lare in primo luogo delle opinioni che sulla formazione degli Dei e del mondo avevano le diverse idolatre nazioni; poiché la notizia di questa formazione è fondamento di tutta la Mitologia, e in molti vetusti monumenti, non conoscendo quello che immaginarono gli antichi su questo particolare, nulla i simboli direbbero agli occhi ineruditi.

Percorsa che avremo l’istoria di questi vaneggiamenti coi quali l’umana ragione architettò l’universo, si renderà necessario di mostrare come dai Pagani si adoravano questi Dei, nati dai forti inganni della loro mente. Quindi i templi, gli altari, i boschi sacri, gli asili, le statue, i sacrifizj saranno l’oggetto delle nostre ricerche.

Questo esame ci porgerà l’occasione di dividere le divinità pagane in due classi: maggiori, e minori. Sarà mia cura di non omettere veruno dei simboli coi quali questi Dei vengono rappresentati, e di combinare per quanto potrò la Mitologia scritta colla figurata; e per rialzare maggiormente la vostra fantasia, quando alcuno degli antichi poeti canterà le lodi e le gesta dei numi, io leggerò la migliore traduzione che siavi; e quando questa manchi, sia tale che vivamente e con dignità non rappresenti l’originale, avrò io l’ardire di volgarizzarlo per vostro vantaggio, come la tenuità dei miei lumi il comportano. Gli Inni di Omero e di Callimaco, le Metamorfosi d’ Ovidio, poeta sopra ogni altro pittore, e le opere di molti altri famosi diventeranno a voi familiari, e così la vostra mente, ricca delle immagini veramente ritratte da questi ingegni sovrani, nuova vita imprimendo nelle tele e nei marmi, accrescerà quella nobile e antica gara che regna fra la Pittura e la Poesia.

L’amenità di questi studj, nei quali desidero avervi compagni e non discepoli, diverrà maggiore quando esaurita la teologica Mitologia, giungeremo ai tempi che chiamò favolosi Varrone, nei quali si contengono imprese che argomento furono dei più celebrati antichi poemi. Il lungo viaggio degli Argonauti di cui fu prezzo il vello d’oro conquistato da Giasone, che, soccorso da Giunone, dal coraggio e più dall’amore, vinse tanti pericoli, somministrerà materia a molte Lezioni, e potrete di mille immagini far tesoro udendo i versi di Orfeo, di Apollonio Rodio e di Valerio Flacco, nelle di cui carte vivono ancora

« Quei gloriosi che passaro a Coleo: »

vi sembrerà di errare sulle sponde del Fasi estremo, e di veder veramente dalle glebe incantate nascere fatali guerrieri; spirar fiamma i tori che tardano a riconoscere lo stesso tiranno di Coleo, e domato il terrore custode del vello di Frisso dai potenti incantesimi di Medea, della quale Euripide finirà di narrarci le sciagure e i delitti.

Ma maggiore argomento di pianto vi daranno gli squallidi campi di Tebe, contrastati dagli odj profani di due fratelli destinati alla colpa ed all’odio vicendevole, che nè la pietosa sorella, nè la madre veneranda per la maestà dei mali, nè la morte stessa può estinguere, poiché la pira che il consuma, si divide, o sembra far guerra. Stazio, sublimo artefice del terrore, ci sarà guida, e vedromo ancora in Eschilo ed in Euripide i Sette Re congiurati all’eccidio di Tebe.

Ed eccoci giunti a quell’epoca in cui la Grecia potente spiegò  tutte le sue forzo por vendicare l’ingiuria del violato ospizio di Menelao; eccoci all’istoria d’Ilio sciagure d’Ilio che fama divennero di Omero,

« Di quel signor dell’altissimo canto.
Che sovra gli altri com’aquila vola. »

Chi fra voi non rivolgorà la sua attenzione ai versi di tanto poeta, del

« Primo pittor delle memorie antiche. »

di quello che colla divina Iliade dettò i più sublimi concetti a Fidia, a Zeusi, a Polignoto e ad Apelle?

O sacra arto dei versi! Ilio appena mostrano le rovine, ma il suo nomo vola eterno por le bocche degli uomini, e a quante carte, a quante statue, a quante pitture atlìdata fu la t’ama di quelli ho pugnarono e cadiloro sotto le mura, opera degli Dei!

Dopo che Omero ci avrà descritto l’ira di Achille, la discordia degli Dei, il tenero addio di Andromaca ad lettore, che rimprovera a Paride lo sciagiure della patria e la sua viltà, e fìnalmente Priamo che bacia le mani lorde del sangue del suo figlio per riaverne il cadavere. Quinto Calabro ci dirà gli altri infortunj che successero fino a quel giorno fatale in cui i Greci, aiutati dal tradimento e dalla fortuna, adeguarono al suolo l’altezza di Troia convertita in cenere e caverne.

Nè senza vendetta fu il pianto dell’Asia. Gli scogli Cafarei ruppero le navi trionfali dei Greci ingannati dalle infide faci di Nauplio. Sul soglio del Re si assise l’adultero Egisto. L’amore e le tempeste resero lungo l’errore di Ulisse, mentre i Proci insidiavano la fedeltà di Penelope, che aspettandolo, canuta divenne.

Sofocle ed Euripide comanderanno il nostro pianto sulle sciagure di molti dei vincitori dell’Asia. Le avventure dell’accorto figlio di Laerte narrate ci saranno da Omero nel suo poema. Egli è grande ancora in questo, poiché (come Longino con degno paragone si espresse) se nell’Iliade egli è simile al sole quando nel mezzo del giorno riempie di sua luce l’universo, nell’Odissea ancora imita l’astro medesimo allora che tramontando, sembra coi suoi raggi mandare l’ultimo saluto alla terra.

Ma poco compenso ai nipoti di Bardano sarebbero i diversi infortunj degli Achei. Essi mal vinsero: i Penati rapiti da Enea in fra l’iliache rovine torneranno sul Tarpeo: Troia migliore risorgerà in Roma, e Roma comanderà all’universo. Virgilio, quel grandissimo per cui Omero dubita della prima palma nell’epica poesia, ci dirà l’origine e gli augusti principj della gente romana, e nella divina Eneide di lui avrà il suo compimento l’istorica Mitologia.

Mancherei allo scopo del mio istituto se, esaurite le favole teologiche ed istoriche, tralasciassi di parlarvi delle divinità adorate da quelle nazioni che barbare furono dai Greci e dai Romani chiamate: onde ne tesserò l’istoria, ne spiegherò gli attributi, ma brevemente; perchè il loro culto, le loro imprese poco illustrate sono dai monumenti degli artefici, dai versi dei poeti. A questo breve trattato sugli Dei dei barbari succederanno molte Lezioni sull’allegoria, delle quali non posso, quanto bisogna, raccomandarvi l’importanza. Basterà dirvi che il celebre Winkelman, tanto benemerito delle arti belle, ha scritto su questo soggetto un’operetta, che per l’utilità quasi gareggia colla famosa istoria dell’arte del disegno. I lumi di tanto scrittore diminuiranno le difficoltà delle nostre ricerche: egli v’indicherà le figure allegoriche, delle quali negli scritti degli antichi si parla, e che tuttora si vedono nei loro monumenti. Difficile è l’arte di esprimere le idee col mezzo delle immagini, in che consiste l’allegoria, la quale vedrete che, per esser vera, dee contenere con chiarezza le qualità distinte della cosa indicata.

Imparata che avrete dagli antichi la difficil pittura del pensiero, agevolmente vi si presenterà il modo di ritrarre con simboli semplici e chiari gli esseri astratti, come la Virtù, la Costanza, la Ragione, e mille altre divinità della Morale, che nel segreto del loro cuore più che i falsi numi adorate furono dai filosofi dell’antichità, che meno di noi le nominavano, ma più n’erano fedeli ai venerati precetti.

Vorrei nel prospetto di queste Lezioni aver potuto imitare l’architetto, che colla facciata dell’edifizio ne raccomanda i più segreti divisamenti, e costringe a percorrerlo l’attonito pellegrino che di esso ha piena la vista. Ma se la conoscenza delle mie forze mi vieta così care speranze, io confido che, me dimenticando, rivolgerete la mente alla dignità dell’impresa, e agli scritti di quei grandi dei quali le idee possono farsi vostre; giacché i concetti della mente dirigono la mano di coloro che nati sono alla gloria dell’arte. Michelangelo, leggendo gli alti versi di quel magnanimo suo concittadino, che sdegnando trattare argomento mortale, dagli abissi si alzò sino al cielo, sentiva farsi maggiore, e più terribili nasceano dalle mani animose le immagini della gente perduta.

E voi pure vi esalterete in voi stessi, udendo i versi immortali di quei sommi intelletti che trionfano di tanti secoli, e dei quali la fama durerà quanto il mondo. Voi eccita la lode, nutre l’emulazione; a voi la patria raccomanda la gloria delle arti, sacra eredità dei nostri maggiori. Comandate ai nemici del nome Italiano l’invidia e l’ammirazione, per cui disperino di emularci, conoscendo che il genio non può mai coll’armi acquistarsi. Ma che:… Non sono io in questo recinto che è consacrato a presentare alla pubblica ammirazione le opere della vostra mano? Non mi stanno sugli occhi le promesse del vostro ingegno, e l’altezza delle comuni speranze?

Lezione seconda.
Sulle diverse Cosmogonie. §

Non vi ha monumento che attesti l’imbecillità dell’umana mente alle proprie forze abbandonata, quanto la tradizione delle diverse idee tenute dagli antichi sulla origine del mondo e degli Dei. La presente Lezione è destinata a narrare questi errori, fondamento all’istoria ed alla religione delle nazioni idolatre.

Principio si prenderà dai Caldei, popolo antichissimo, ove nacque l’autore di quell’insensato progetto, che Iddio arrestò e punì colla diversità delle lingue.

Sincello così n’espone la loro Teogonia. Un mostro mezzo uomo e mezzo pesce comparve verso Babilonia, abbandonando il mare Eritreo. La testa di uomo sovrastava sopra quella di pesce, e piedi umani pure stavano uniti alla coda. Questo mostro era robusto, aveva favella umana, ed erudiva di giorno i mortali nelle scienze, nella religione, nelle arti. Si nascondeva quando il sole. Comparvero altri mostri simili a lui. Questi chiamato Cannes, ov vero Oen, insegnava che già tutte le cose erano possedute dall’acque, dalle tenebre, e che in queste erano chiusi uomini ed animali mostruosi, simili a quelli che erano ritratti nel tempio di Belo da Erodoto descritto. Omorca, che signoreggiava l’universo, narra lo stesso, fu da Belo divisa in due parti: con una di queste formò la terra, coli’ altra il cielo, uccise tutti i mostri ed ordinò l’universo.

Avendo distrutti gli animali che non tolleravano la luce, s’accorse essere il mondo deserto, impose a un nume di troncargli la testa, e col sangue che dalla^ piaga scorreva formarne gli animali e l’uomo Quindi fece le stelle e i pianeti, dando compimento alla creazione.

Non so se questa serie di assurdità sia un’alterazione della Genesi di Mosè; che io non sono nè curioso nè ardito per investigarlo. Aggiungerò solamente che questo Belo ordinatore della materie non é probabilmente che il sole, poiché in un monumento riportato dal Begero si vede sedente collo scettro nella destra, colla corona raggiante sul capo, e con due segni dello zodiaco, il sagittario ed i pesci. Nè meno assurde erano le opinioni dei Fenicj, come si rileva da Eusebio, che ci ha conservato un frammento di Sanconiatone, che forse egli trasse da Filone, traduttore delle opere di questo antichissimo sacerdote.

Il principio dell’universo, secondo esso, era uno spirito di aere oscuro, ed un turbato caos di folte tenebre ingombro. Ciò per molti secoli fu infinito: ma lo spirito s’innamorò dei suoi principj, si mi schiò con essi, e questa misura fu Desiderio chiamata. Di qui cominciò l’universo: ma lo spirito mentovato non conobbe da verun altro la sua produzione. Si unì finalmente col mot, o mud che è lo stesso del fango, e secondo altri una corruzione nata dalla mistura delle acque, onde derivarono le generazioni di tutto l’universo.

Vi furono oltre a ciò alcuni animali privi di seotimento, dai quali furono prodotti altri dotati d’intelletto, che detti furono contemplatori dei cieli Zophasemen. Ebbero questi la forma di ovo, e generato il fango, cominciarono a risplender col sole e con gli altri pianeti. L’aria si riempì di luce; dal calore furono generati i venti e le nubi onde fu innondata la terra. Le acque separate dal calore del sole si riunirono coU’aria; le nuvole si urtarono fra loro, e vita diedero al folgore, il di cui tuono riscosse gli animali ragionevoli, che cominciarono allora a moversi sopra la terra.

Ecco le idee dei Fenicj sull’origine del mondo, nelle quali, quantunque la materia sia posta innanzi lo spirito, pure sembra a questo data l’eternità e l’indipendenza, attributo di Dio; onde il sistema fenicio non conduce direttamente all’ateismo, come sembrò ad Eusebio di Cesarea. Forse questa cosmogonia a tanto sospetto soggiacque, perchè fu derivata da quella di Thoth, che fu pure agli Egiziani comune, dei quali Diodoro Siculo ne ha conservato le opinioni intorno alla formazione dell’ universo. Egli così a un dipresso si esprime. Una era la forma della terra e del cielo, le di cui nature erano in sieme confuse. Separatesi, il mondo si ordinò come al presente si scorge. L’aria cominciò a moversi costantemente; il foco, alzandosi al cielo, per sua natura produsse il rapido circolare moto del sole e dell’altre stelle. Il fango, unito alla materia umida, cadde a terra vinto dal proprio peso, e si accumulò tutto in un luogo, dove essendo agitato da continuo moto, le parti acquee si separarono dalle solide, onde si formarono il mare e la terra. Questa in principio era molle; ma riscaldata dai raggi solari cominciò a fermentare.

Essendo giunta la fermentazione alla perfetta sua maturità, ed essendosi le membrane onde era involta affatto seccate, si aprirono, e balzarono fuori tutte le famiglie degli animali onde è popolata la terra. Quelle che avevano ricevuto maggior grado di calore divennero volatili; quelle che in loro avevano più terra, furono rettili ed animali terrestri; quelle nella di cui generazione preponderò l’acqua, balzarono come pesci nell’elemento che loro conveniva. Col progresso del tempo la terra, inaridita dal sole e dai venti, perde il potere di produrre animali, che quindi moltiplicarono col mezzo della generazione. 5

Se questa cosmogonia fosse la sola degli Egiziani, ninno potrebbe scusargli dall’ateismo, poiché di alcuna divinità nell’esposta cosmogonia non si favella, ed è il sole l’artefice e l’eccitatore dell’universo. Parve altrimenti al dottissimo Cudworth, che mostrò le contradizioni di Eusebio di Cesarea. Non è del nostro istituto il comporre sì ardua lite: riporteremo solamente che dagli Egiziani era adorata fra l’altre una certa divinità detta Neph, da cui era opinione di alcuno che fosse formata la macchina del mondo. Questa era simboleggiata nel sembiante di un uomo di color celeste, che avea nelle mani una cintura ed uno scettro, sulla testa un maestoso pennacchio, dalla bocca gli usciva un ove da cui si schiudeva un altro iddio detto Phta, il quale forse è lo stesso che il Vulcano dei Greci. Il senso degli espressi simboli così dichiaravasi.

Le piume onde va coperta additavano la sua invisibil natura, il supremo dominio delle cose, la spiritualità dei suoi moti. Nell’evo era simboleggiato l’universo. Eppure, sotto la forma di serpente col capo di sparviere, è sentimento di alcuni che fosse da loro Iddio ancora adorato. Se questo apriva gli occhi, l’universo si erapiva di luce; le tenebre occupavano tutte le cose se li chiudeva.

Percorsa la teogonia e dei Fenicj e degli Egizj, ragion vuole che quella dei Greci si discorra, che da ambedue queste nazioni riceverono parte della loro religione e dei loro costumi.

Orfeo, che molte cerimonie relio’iose istituì colla divinità dei suoi versi, viene accusato per alcuni di avere a suo capriccio inventati i nomi degli Dei e confusa la loro genealogia. Altri, al contrario, lo difendono da tanto rimprovero, asserendo che di Dìo ebbe idee più giuste di ogni altro pagano. Orazio, infatti, lo chiama interprete degli Dei e correggitore dei guasti costumi dei mortali; e se fede si dasse al compendio che Timoteo fece della cosmogonia orfica, egli potrebbe trionfare di tutte le calunnie dei suoi avversarj. In tanta discordia di opinioni, non posso che riportare le parole del mentovato scrittore.

« Nel principio Iddio formò l’Etere, ove abitavano gli Dei, e da ogni parte di questo erano il Caos e la Notte che sta sotto l’Etere, volendo con ciò significare che la Notte era prima della creazione, e che la Terra, attesa l’oscurità, era invisibile, ma che la Luce penetrando l’Etere, aveva il mondo intiero coperto del suo splendore. Questa luce era la primogenita degli esseri, e il principio di essa avea dato vita a tutte le cose ed all’uomo istesso. »

Da Orfeo, secondo alcuni, dedusse Esiodo la sua teogonia, della quale darò il compendio fatto da Banier, poiché tutto il sistema mitologico comprende Dopo questo, diminuirò la noia che forse avrà ca gionata l’istoria di tanti delirj, leggendovi la descri zione della battaglia dei Giganti contro gli Dei che è nel poema del mentovato scrittore. Ho cer cato, traducendolo per vostro vantaggio, d’impri mere nella copia tutta l’anima dell’originale: non so se avrò avuto la fortuna di riescirvi. Udite intanto l’origine e la genealogia degli Dei.

Nel principio era il Caos, indi la Terra, l’Amore il più bello fra i numi immortali. Il Caos generò l’Èrebo e la Notte, dalla quale unione nacque l’Etere e il Giorno. Formò la Terra appresso il Cielo e le Stelle, soggiorno dei numi. Formò ancora le Montagne unite in matrimonio col Cielo; produsse l’Oceano, e con lui Geo, o Ceco, Iperione, Giapeto, Ftia, Rea, Temide, Mnemosine, Febea, Tetide e Saturno. Produsse ancora i Ciclopi: Brente, Sterope, Arge, fabbricatori del fulmine a Giove e simili agli Dei. Ebbero ancora il Cielo e la Terra altri figli, cioè i superbi Titani, Cotto, Briareo e Gige, i quali aveano cento mani e cinquanta teste. Teneva Cielo rinchiusi i suoi figli, onde la Terra era afflitta. Nel suo dolore fabbricò una falce, che diede a Saturno; ed egli, insidiando il padre mentre inviavasi al letto materno, gli fé’ colla falce quell’ingiuria che in lui fu ripetuta da Giove suo figlio.

Dal sangue che piovea dalla ferita nacquero i Giganti, le Furie, le Ninfe; e dalle parti recise gittate nell’Oceano nacque la bella Venere, detta Afrodite dal nome della spuma marina, eterna voluttà degli uomini e degli Dei, indivisibil compagna delle Grazie e di Amore, a cui mille altari fumarono in Pafo, in Amatunta, in Citerà. Regnava intanto la discordia fra gli Dei, e Cielo minacciava di punire i Titani suoi figli. La Notte, benché niun dio degnasse il suo letto di tenebre, generò da sé stessa l’inesorabil Destino, la nera Parca, la Morte, il Sonno, i Sogni dall’ali nere, Momo dio della Maldicenza, l’Inquietudine compagna del Dolore e del Rincrescimento, l’Esperidi custodi dei pomi d’oro, le Parche, cioè Cleto, Lachesi ed Atropo, dee terribili, che filano la vita dei mortali e vendicano i delitti. Nacquero dalla Notte ancora Nemesi che premia le virtù, e i vizj punisce, la Frode, l’Amicizia, la Vecchiezza, la Contesa madre della Fatica, dell’Oblio, della Fame, degli Affanni, delle Guerre, delle Stragie delle Sconfitte, e di tutto ciò che i mortali tormenta, come le querele, le dissensioni, i discorsi maligni ed ingannatori, lo scherno delle leggi, la doppiezza e il giuramento. Ponto, cioè il mare, dal suo commercio colla Terra ebbe il giusto Nereo, Taumante, Forci, Ceto ed Euritia. Da Nereo e da Dori, figliuola dell’Oceano, nacquero le Nereidi nel numero di cinquanta. Taumante sposò Elettra figlia deirOceano, e n’ebbe Iride e l’Arpie Aello e Ocipete. Forci da Ceto ebbe Pefredo ed Enio, che ambedue furono subito chiamate gree dalla parola greca γραυσ che significa vecchia, perchè nascendo erano già canute. Ebbe ancora dalla stessa unione le tre Gorgoni: Steno, Furiale e Medusa, dal sangue della quale, allorché Perseo le recise la testa, nacquero il cavallo Pegaso e Crisaoro, il quale avendo sposata Calliroe figlia dell’Oceano, n’ebbe Gerione mostro di tre teste. La stessa Calliroe die la vita ad un altro mostro detto Echidna, cioè vipera, che nella metà era simile ad una bellissima ninfa, e nell’altra ad un orribil serpente.

Quantunque gli Dei vietassero ad Echidna ogni commercio, chiudendola in un antro della Siria, pure da Tifone ebbe Orco, Cerbero, l’Idra Lernea, la Chimera, che fu uccisa da Bellerofonte, e la Sfinge onde tanto in Tebe si pianse, e il Leone Nemeo, che da Ercole fu ucciso. Ceto generò pure da Forci il Drago custode del giardino delle Esperidi. Tati dall’Oceano ebbe tutti i fiumi, ed innumerabile stuolo di ninfe abitatrici delle fontane. Esiodo le fa ascendere a tremila, e ad altrettanto i fiumi figli dell’Oceano e di Teti. Ftia ed Iperione generarono il Sole la Luna, l’Aurora colle dita di rosa; e Creio dal suo matrimonio con Eurita ottenne Astreo, Perseo e Fallante. Perseo, unito all’Aurora, generò i Venti e Lucifero, quella bellissima fra le stelle, cara a Venere, a cui un moderno poeta paragona con tanta eleganza, imitando Virgilio, la sua amica. Giova ridirne i versi:

« Qual dagli antri marini
L’astro più caro a Venere
Coi rugiadosi crini
Fra le fuggenti tenebre
Appare, e il suo viaggio
Orna col lume dell’etereo raggio,
Sorgon così tue dive
Membra dall’egro talamo,
E in te beltà rivive.
L’aurea beltade ond’ebbero
Ristoro unico ai mali
Le nate a vaneggiar menti mortali.6 »

Dal commercio di Fallante con Stige figlia dell’Oceano e di Teti nacquero Zelo, la bella Nice, o Vittoria, la Forza, la Violenza, eterne compagne di Giove, ch’egli chiamò in sua difesa quando far volle sui Titani la memorabil vendetta. Stige giunse la prima sull’Olimpo coi suoi figli; lo che tanto piacque a Giove che doni ed onori le rese in gui derdone; ritenne i figli di lei, e volle che nel di lei nome temessero di spergiurare gli Dei. Febea ebbe da Geo l’amabile Latona ed Asteria, che poi maritata a Perseo, divenne madre dì Ecate, divinità veneranda sopra tutte, cui Giove die l’arbitrio del cielo e della terra e del mare, che sempre era fra gli antichi principio di sacrifizj e preghiere, e presiedeva ai consigli dei re, alle guerre ed alle vittorie.

Rea si congiunse con Saturno, e n’ebbe prole troppo chiara e potente in suo danno: Vesta, Cerere, Giunone, Plutone, Nettuno e Giove. Avea l’accorto vecchio consultati gli oracoli, che predetto gli avevano che uno dei suoi figli gli avrebbe tolto l’impero del cielo, onde questo padre snaturato tutti gli divorava subito che Rea gli dava alla luce. Ma nulla basta contro il Fato. Rea consigliatasi coi suoi genitori presentò a Saturno una pietra coperta di fasce, invece del figlio che occultò in Creta; onde questa isola va superba per essere stata culla di Giove; e i Cretesi mendaci ardiscono di mostrare ancora il sepolcro del padre degli uomini e degli Dei. Giove, essendo adulto, fu grato alla Terra, liberando i Ciclopi, i quali gli donarono il fulmine, per cui comanda agli Dei, ed atterrisce i mortali. Erasi intanto Giapeto congiunto a Climene figlia dell’Oceano, che diede alla Terra Atlante magnanimo, il perfido Menezio, l’astuto Prometeo, l’incauto Epimeteo, cagione di lacrime eterne al genere umano. Giove fece piombare nell’inferno Menezio ripieno di mille colpe, die la cura ad Atlante di sostenere coi forti omeri il Cielo nel paese dell’Esperidi, e sul Caucaso incatenò Prometeo, le di cui interiora rinascevano alla pena sotto il rostro di un avvoltoio.

Dopo la guerra contro Saturno e contro i Titani, Giove, avendoli vinti, gli confinò tanto sotto terra quanto il Cielo dalla Terra è distante, e die loro per custodi Cotto, Gige e Briareo, onde erra Banier che sembra creder questi confinati in pena, giacché come avremo luogo di vedere, stettero nella battaglia dei Titani dalla parte di Giove. Si unì la Terra col Tartaro, volendo vendicare i Titani, e generò l’ultimo e il più terribile dei suoi figli. Tifone, dalle di cui spalle nascevano cento teste di serpente. Pericolava il Cielo; Giove stava in forse del suo trono; ma rimediò alla comune paura l’arme per cui trionfò dei fratelli di questo, il fulmine, col quale lo precipitò nel Tartaro profondo.

Origine dal fulminato gigante ebbero i Venti, tranne Noto, Borea, Zeffiro, figli dei numi. Giove possessore tranquillo dell’Olimpo, sposò Meti, dea fra tutte sapientissima; e questa era per dare alla luce Minerva. Sapendo il padre che il figlio, il quale da lei fosse nato, dominerebbe l’universo, divorò la madre e la prole. Sposò quindi Temi, che generò le Stagioni, Eunomia, Dice, Irene; e le tre Parche, nel che sembra Esiodo contradirsi, poiché innanzi le fa figlie della Notte. Natale Conti concilia questa difficoltà dicendo, che quando le Parche rendevano ragione, figlie chiamavansi di Giove; allorché il caso guidava le forbici fatali erano figlie della Notte. A me sembra che questa coatradizione, e mille altre, abbiano origine dall’essere il poema di Esiodo stato soggetto a molti cangiamenti, come viene asserito da tutti i dotti. Ebbe ancora da Eurinome figlia dell’Oceano le tre Grazie: Talia, Eufrosine ed Aglaia; da Cerere, Proserpina, che fu da Plutone rapita, da Mnemosine le Nove Muse, da Latona Apollo e Diana, da Giunone Ebe, Marte, Lucina e Vulcano.

Nettuno ebbe da Anfitrite Tritone; Venere generò da Marte lo Spavento, il Timore, eterni compagni di questo dio, ed Armonia la bella.

Maia figlia di Atlante partorì Mercurio a Giove, che ebbe pure da Semele Bacco, ed Ercole da Alcmena.

Vulcano sposò Aglaia la più giovane delle Grazie. Bacco si congiunse all’abbandonata Arianna, ed Ercole fatto dio diventò marito di Ebe. La bella Perseide partorì al Sole Circe ed Eete, il quale sposando Idia per consiglio divino, n’ebbe in figlia Medea.

Tale è la generazione degli Dei, secondo i Greci, conservataci da Esiodo, il di cui poema non è del tutto privo di bellezze, come Banier sentenzia arditamente. Voi stessi potrete esserne giudici, mentre io adempio alla promessa.

Giove innanzi la battaglia così parlò:

Uditemi, del cielo e della terra
Illustri figli, onde io quel che comanda
Il core a me nell’animoso petto
Dica: Gran tempo fra di noi pugnammo,
Numi Titani, e di Saturno figli,
Della vittoria e dell’ impero incerti.
Mostrate invitte mani e forza immensa
Contro i Titani nella mesta pugna,
E la dolce amistà vi risovvenga,
E quai cose sofferte: il mio consiglio
Vi trasse al raggio della cara luce
Dal dolore dei lacci e della notte
Lacrimosa. — Sì disse, e l’incolpato
Cotto gli fé’ risposta: — venerando,
Cose ignote non parli, e della mente
Gli accorgimenti e i providi consigli
Del tuo cor, che scacciò dagl’ immortali
L’ immenso danno, sappiam tutti, o figlio
Di Saturno. È mercè tua se qui siamo
Alla notte involati e alle catene:
Noi che maggior della paura il danno
Soffrimmo, or con prudente e intensa mente
Fia difeso da noi l’impero tuo
Contro i Titani nella forte pugna. —
Sì parlava, e lodar gli accorti detti
I benefici numi, e guerra il core
Più che innanzi chiedeva, e guerra a gara
Moveano tutti, uomi e donne, i figli
Di Saturno, i Titani, e quei che Giove
Dell’Erebo all’orror tolse tremendi,
Che d’ogni arme maggior avean la forza:
Ben cento mani dall’immense spalle
Minacciando sorgeano a tutti, e sopra
II forte omero a ognun cinquanta teste
Torreggianti erari nate, e nella mesta
Pugna ai Titani stavan contro armati
D’ immense rupi la possente destra.
Anche i Titani dall’opposta parte
Rincoran le falangi, e insieme entrambi
Mani ostentano e forza. Orribilmente
L’immenso mare risuonò: la terra
Alto strideva: l’agitato cielo
Geme, e sotto il furor dei piedi eterni
Crolla l’Olimpo. La tremenda scossa
Fino al Tartaro giunge: il capelstio,
L’inaudito tumulto, e dei potenti
Le percosse: dall’una all’altra parte
Volan dardi, cagion di pianto alterno.
D’ambo la voce al ciel stellato arriva
E della zuffa l’ululato; e Giove
Non più contiene l’ira sua. D’eterno
Vigor ridonda l’animoso petto,
E tutta appar l’ira del dio. Dal cielo
Spesso all’Olimpo folgorando move,
E dall’Olimpo al cielo. Il fulmin vola
Col baleno, col tuono, e lo circonda
La sacra fiamma, dell’eterno braccio
Terribil gloria. Già risuona acceso
Il fertil suolo che gli stride intorno
: D’ inestins^uibil fuoco arde la selva:
Arde la terra; già del mare i flutti
E l’immenso oceano: e già la vampa
Circonda i fiorii della terra: arriva
Già la fiamma al divino eter: la luce
Del fulmin sacro, che tonando scende,
Dei possenti gli eterni occhi confonde.
Meraviglioso ardor l’Èrebo investe,
Ode, e vede la pugna, e con la terra
Par che di nuovo si confonda il cielo,
E il caos antico l’universo teme. —
Tanta dei numi era la guerra: I venti
Mescon fremiti, polve, e grida, e pianto,
E tutto il fulmin vince arme di Giove.
Già la battaglia inchina. Era il valore
Innanzi eguale, e la vittoria incerta:
Ma fra le prime schiere ivano Gige
E Cotto e Briareo, che avean di guerra
Insaziabil sete, e dalle forti
Mani trecento pietre ad un sol tratto
Scagliavan spesso, e ai pallidi Titani
Facean di mille dardi ombra tremenda:
Ma il mesto suol già gli ricopre, e lega
Catena eterna le superbe mani;
E Giove solo col poter del ciglio
Li circondò di triplicati nodi.

Lezione terza.
Dei Templi e dei sacrifizj. §

In mezzo ai campi, nel maestoso silenzio delle selve gli antichi sentivano la divinità, e sopra a zolle ed informi pietre offrivano sacri fizj al padre degli uomini, di cui, al dire di Cicerone, degno tempio è solamente l’universo. Perciò i Persiani vietarono i simulacri, e deridevano i Greci che sembravano volere nei templi circoscrivere Iddio. Banier reputa che il tabernacolo di Mosè costruito nel deserto fosse il primo: ma questa opinione dà troppo tardo principio all’idolatria, che grandeggiava innanzi lui nell’Egitto. Vi è anzi ragione di credere che da questo paese piuttosto derivasse il costume di edificare i templi fra le altre nazioni. Ma siccome la vanità di ogni popolo cerca di arrogarsi le invenzioni di tutte le cose, la Grecia ne fa autore Deucalione, e l’Italia Fauno o Giano. Che che ne sia, è certo che i luoghi sacri agli Dei, che in prima erano rozze fabbriche, divennero col tempo miracoli dell’arte, come il tempio antichissimo di Belo, quello di Giove Olimpico e quello di Diana in Efeso, dal di cui incendio cercò Erostrato di acquistar fama. Sarà mia cura descriverli quando parleremo degli Dei ai quali erano sacri. Gli Auguri rivolti all’oriente disegnavano col lituo, o bastone ritorto, una parte di cielo, e questa dicevasi tempio: però Lucrezio dice i templi del cielo; quindi fu comune questa denominazione a tutti i luoghi destinati al culto di qualche nume.

Si dividevano in più parti i templi: la prima dicevasi vestibolo, dove era la piscina, dalla quale i sacerdoti attingevano l’acqua necessaria per le lustrazioni di coloro ch’entravano nel tempio. Succedeva a questo la navata, quindi il penetrale, ove la divinità stava, e sacrificavano talora i sacerdoti. Terminava il tempio la parte posteriore detta οπιψοδομοσ. I templi degli Egiziani differivano dagli altri contenendo tre vestiboli, come da Erodoto si rileva.

È da notarsi, specialmente per gli artisti, che gli antichi nel genere ancora degli edifìzj significavano la natura dei numi ai quali erano dedicati, poiché per Giove, per Marte e per Ercole adopravano l’ordine dorico; l’ionico per Bacco, Apollo e Diana; il corintio per Vesta: e qualche volta gli univano, come nel tempio di Minerva presso i Tegeati, dove queste diverse norme dell’ architettura furono da Scopa Pario con solenne artificio distribuite. Ma di questa varietà erano causa i moltiplici attributi del nume, o la pluralità degli Dei che nel tempio erano adorati. E con ogni altra iorma della fabbrica alludevano alle qualità degli frnmortali che credevano abitarvi, poiché lunghi e scoperti erano i templi di Giove, di Cielo, della Luna, rotondi quelli di Venere, del Sole, di Cerere e di Bacco, e riquadrato era quello di Giano. Nè ciò bastava: conveniva pure che il luogo ancora additasse la natura e 1’ ufficio degli Dei. Infatti, quelli ai quali era affidata la tutela delle città, collocando la loro sede nel più elevato sito, sembravano signoreggiarle. In mezzo alla frequenza dei cittadini sorgevano le macchine sacre alle divinità, venerande custodi e maestre delle arti e della pace. Tutti i templi erano volti all’oriente, poiché ninno omaggio riputavano agli eterni più caro della luce, primogenita degli esseri ed anima dell’ universo. Ancora i primitivi Cristiani tennero questo costume, come Clemente Alessandrino ne insegna, ma per motivo vero e sublime.

Lunga opra sarebbe l’annoverare quante pitture, quanti simulacri che fama sono ancora degli artefici antichi, ornassero queste fabbriche, e come le dipinte pareti, gli scudi votivi, le insegne conquistate rammentassero agli uomini terrori, speranze, vittorie e tutti gli altri eventi della fortuna, le cui permutazioni non hanno tregua. Difendeva la presenza degli Dei ancora l’oro, che non avea violata l’ingenua semplicità dei loro templi; ed eran pure assicurati dalla riverenza di que’ rozzi mortali non corrotti dai vizj e dalle sciagure. Divenuti i numi d’oro e d’argento, invogliarono alla rapina; e ne diedero i primi l’esempio i Galli guidati dal sacrilego Brenno, che derubarono il tempio di Delfo, e deridendo la religione dei sepolcri cercarono con memoranda avidità l’oro fra le ceneri degli estinti, mostrando che dalla barbarie dei vincitori nemmeno il sonno della morte è sicuro.

Converrà adesso parlare dei sacrifizj, che divideremo, secondo il genere dei numi ai quali erano offerti, in celesti, marini ed infernali. Succederà a questi la descrizione di quelli coi quali gli antichi sancivano il giuramento, placavano le ombre degli estinti, le di cui tombe bevvero qualche volta umano sangue. Achille offerse al troppo vendicato amico quello dei prigionieri Troiani; Pirro sulla tomba di lui uccise Polissena guidato dal paterno furore. Ma gli Dei aveano già dato l’esempio della colpa: che r ara di Diana era stata tinta in Aulide col sangue d’Ifigenia, e un padre immolava all’ambizione del regno la sua primogenita figlia.

Euripide, Seneca ci narreranno nella seguente Lezione, questi sacrifizj, eterna vergogna degli uomini e degli Dei, che furono

« Famoso pianto della scena Argiva. »

Favelleremo intanto di quelli che si offrivano ai celesti. — Erano soliti celebrarsi in primo luogo quando le gote dell’aurora, per servirmi dell’espressione di Dante, pallide divenivano, ed il sole appariva sull’oriente. Serti composti colle frondi degli alberi cari agli Dei ai quali sacrificavasi, coronavano le vittime, gli altari, i sacerdoti, i vasi stessi che accogliere dovevano il sangue delle vittime. Con queste corone alcuni cingevano la sommità del capo, altri le tempia, altri il collo. S’indoravano le corna delle vittime, e si cingevano di bende: nè a questo uso sceglievasi il rifiuto, ma la gloria del gregge. Puro esserne doveva il colore, perfette le membra, nè bove che mostrasse dall’ ingrato aratro consumato il collo, cader poteva innanzi all’ara degli Dei. Chiunque toccasse l’altare macchiato di delitto, grato non era il sacrifizio, e sicura la collera dei numi. Infatti, al dir di Giovenale, qual’ostia non merita di vivere più del colpevole? La viva acqua dei fiumi purgar doveva le mani asperse di stragi recenti ancora a coloro che escivano dalle battaglie. Tanto credevasi piacere pure m^ani e core innocente alla divinità nelle tenebre ancora di una falsa religione: Nè minor cura adopravasi nell’isceglier legittimi legni, cioè ordinati dalle leggi, che prescrivevano il modo di sacrificare. Doveva ardere il mirto a Venere, il frassino a Marte, ad Ercole il pioppo, e così a tutti gli altri Dei quegli alberi, dei quali cara era loro la tutela. Quindi ai sacrifizj assistevano certi ministri detti lignitori, perché l’omettere la più piccola diligenza credevasi esser principio d’infortunj. In alcune città, per sacrificare a certi numi, solo ammettevansi alcune famiglie, come per Ercole, fra i Romani, i Pinarj e i Potizj,7 e per Cerere, in Atene, gli Eumolpidi. Osservavano se le ostie condotte agli altari ripugnavano, giacché allora erano credute poco accette; e ciò pareva loro di esplorare, spargendole con una mistura di sale e farina di orzo, detta mola, e strisciando loro l’obliquo coltello dalla fronte sino alla coda.

Osservate queste cose, il sacerdote ammantato di bianca o purpurea veste dettava le preci, e spargeva il vino fra le corna della vittima destinata. Costumavasi ciò alcuna volta pure dagli astanti, giacché Virgilio ne rappresenta Didone bellissima, che tenendo dalla destra la patera, diffonde il liquore di Bacco sulla candidissima ostia, pregando voti inesauditi. Dopo il vino e le preghiere conspargevasi coir accennata mola il tergo della vittima già coll’acqua lievemente spruzzato: si arrecavano in mezzo al mistico mormorio dei sacerdoti i sacri coltelli e le scuri e l’urna ripiena dell’ acqua pei ministri; quindi gettavasi il resto della mola, coi peli strappati alla fronte dell’ animale consacrato, nel foco che sopra l’ara splendeva, il che diceasi primo libamento; quello per cui propiziavasi tenea l’altare colla destra, e finalmente la vittima percossa cadeva nel proprio sangue, il di cui spruzzo sovente sulla bianca veste del sacerdote rosseggiava.

Purgate ed aperte le vittime, nelle di cui viscere palpitanti cercavano l’ ira degli Dei e gli eventi occultati nel futuro, l’ incenso accresceva la fiamma dell’altare, a questo succedeva il vino, e poscia le scelte parti della vittima consperse dell’ indicata mola erano offerte agli Dei. Le reliquie si serbavano ai solenni conviti.

Alle divinità dell’aria, oltre il fumo delle vittime, caro era ancora l’odore di eletti incensi; onde Me dea bruciò soavi farmachi ai venti perchè non negassero alla famosa nave la terra sperata. Nei sacrifìzj degli Dei marini raccoglievasi il sangue, e le nere vittime non percoteva la scure, ma scannava il coltello. Omero, nel lido del mare risonante, mostra nell’Odissea nerissimo toro svenato all’adirato Nettuno, a cui, se le sue onde spianava, offrivano ancora il cinghiale e l’agnello; l’unito sangue solevano in queste propiziazioni scagliare nel mare, e gli animali promessi sempre fra l’onde immolavano quando dalla tempesta erano stati suggeriti i voti, e la paura dei mortali avea patteggiato coi numi. Prima le interiora, quindi il vino riceveva l’oceano paventato; e Virgilio ne rappresenta il suo eroe, che ornato le chiome di ulivo, getta dalla prora nei flutti parte della vittima e il liquore, dono di Bacco, di cui tre volte al padre dell’onde fa libazioni il condottiero degli Argonauti, perchè reputavasi che dei numeri impari si compiacesser gii Dei: opinione avvalorata dai sottilissimi vaneggiamenti dei filosofi pittagorici. Miele e latte consacravasi alle Ninfe custodi dell’acque.

Nell’orrore della notte, col capo inchinato verso la terra, al contrario dell’ ostie offerte ai celesti, scannavansi da sacerdoti in veste nera gli atri animali, che mansuefar doveano l’eterna mestizia e del re di Stige e dei numi consorti nell’impero e nella pena. Cupe fosse ricevevano il tiepido sangue, e l’olio invece del vino versavasi sulle viscere che fumavano all’imperatore dell’ombre. Di tutte le propiziazioni agii Dei infernali madre era la paura, e perciò il sacrifizio che loro facevasi da quei che scampati erano al furore di una malattia chiamavasi lustrazione, o ringraziamento, perchè aveano risparmiato di uccidere.

All’Eumenidi in silenzio sacrificavano gli Esichidi, così detti dal nome di Esico eroe, al quale un ariete era prima immolato.

Una nera pecora gravida sgozzavano a Brimo, dea severa e terribile, che nel più profondo della notte, quando

« Del sonno il peregrin cede al desio,
E delle porte il vigile custode;
E tregua al duolo ancor nel mesto sonno
Trova di estinti figli afflitta madre, »

passeggia chiusa nella sua nera veste dentro i sepolcri, e fa risuonare le aride ossa de’ morti.

Il sacrifizio, col quale gli antichi davano autorità maggiore al giuramento, vi dirà Omero, tradotto dall’ immortai Cesarotti, che osserva la derivazione di questo rito dall’Egitto, ove le bestie a ciò destinate si chiamavano ostie di maledizione, se ne tagliava la testa, e carica d’ imprecazioni si gettava nel Nilo.

Ma dalla tenda imperiai già pronti
Escono i scelti duci, e innanzi agli occhi
Dell’ammirato popolo festante
Spiegano tutta dei regali doni
La magnifica pompa, e l’auree masse,

E gli splendidi bronzi, ed i superbi
Dodici corridori, e le di Lesbo
Sette donzelle, a cui splendeva in mezzo
D’amabile rossor distìnta il volto,
Quasi rosa tra fior, Briseide bella.
Il cignal sacro da più funi avvolto
Tenea Taltibio; Agamennón s’accosta,
E ‘1 coltel tratto, dell’irsuta fera
Le dure sete pria divelte offerse
Primizie a Giove, e a lui le mani alzando
Riverente pregò: taciti, intenti
Stanno i Greci a quel prego. — Odimi, augusto
Regnator delle cose, e voi m’udite,
Sole, Terra, o venerande Erinni
Punitrici degli empj; a tutti io giuro
Che ‘l pudor di Briseide e la beltade
Mi furon sacri, che l’amore e i dritti
D’Achille rispettai, che intatta e pura
Io gliela rendo (ella al Signore un guardo
Volse loquace, indi il chinò): s’io mento.
Quante mai pene hanno i spergiuri al mondo
Piombin sul capo mio. — Disse, e le fauci
Del cignal trapassò: l’araldo il teschio
Spiccò, roteilo, e lo scagliò nel mare
Carco di tutti sopra sé raccolti
I tristi augurj e minacciati danni.

Aggiungerò a questi bei versi alcune notizie sui sacrifìzj che ai morti si facevano, come mi sono prefisso nella mia Lezione. Quindi Omero ci occuperà di nuovo, leggendovi nella traduzione del sq pra lodato autore la terribile espiazione offerta a Patroclo da Achille per dolore forsennato.

Usanza fu degli antichi pianger gli estinti parenti per tre giorni, avanti di rendere alla gelida spoglia i debiti onori. Allora si recidevano le chiome, e quasi ultimo dono, le ponevano, non senza pianto, nei sepolcri. E chi ardirà di riprendere questi tributi, i quali solo seguivano i miseri al caro lume della vita rapiti, e contender loro quell’onore

« Che solo in terra avanzo è della morte? »

Nulla di più santo presso gli antichi che le tombe: onde Tibullo, ne’ di cui versi odi ancora i sospiri dell’amore, diceva all’amica infedele: « Io porterò al sepolcro della tua sorella corone bagnate dalle mie lacrime: sederò supplichevole sulla terra che la ricoprirà, e col cenere muto mi lamenterò delle mie sciagure. »

Se ricchi e famosi erano gli estinti, costruivasi loro insigne pira, e vi ardevano le cose che nella vita loro erano state le più care, le armi, i destrieri e (oh barbarie:) gli uomini stessi, che fatti schiavi avevano le vicende instabili della guerra.

I più stretti congiunti (ministero pietoso e tristo ad un tempo) rivolgendo le faci indietro, accendevano il rogo. Che più: Fra le consorti, nell’Oriente, quando il cadavere del marito incendevasi, vi era gara di morte.

Cessata la fiamma, incenerito il rogo ed il corpo, erano le reliquie e le ossa cercate fra le faville; il che appare chiaramente in Virgilio nel funerale di Miseno, quantunque Teofrasto ne dica che una pietra circolare chiudeva la salma destinata al rogo. Steril giovenca all’ignudo spirto immolavasi: bende cerulee, frondi di funebre cipresso circondavano gli altari ed i vestiboli delle case. Invocavansi le omhre a bere il sangue accolto nelle fosse, a cui si univa qualche volta latte, vino e farina. Saliti sopra il tumulo, chiamavano tre volte l’anima del trapassato, ne spruzzavano di chiarissime acque i compagni con un ramo di ulivo, e così tutti piangendo gli dicevano l’ultimo addio.

Funerali di Patroclo.

………………………………… Ma grande
Ed ammirando in suo cordoolio Achille
Ultimo vien presso alla bara: il capo
Del diletto guerrier sostenta e stringe
Con ambe mani, e ad or ad or sov’esso
Il suo dechina, e il freddo volto esangue
Scalda co’ baci del suo pianto aspersi.
Giunto al luogo prefìsso, egli in disparte
Si trasse alquanto, e verso il mar fremente
Volgendo il guardo: — delle patrie sponde.
Gridò, Sperchio fìume onorato, indarno
Il buon Pelèo d’un sacrifizio santo
Già ti fe’ voto, e ti promise ancora
Che la mia chioma a te sacrata un giorno
Dispersa avria sull’onde tue, se salvo
E vincitor di Troia alle sue braccia
Ritornato m’avessi. Invan, che a tanto
Non giunge il tuo poter; vuol altro il Fato;
Debbo in Troia morir: tu soffri adunque
Che del mio capo la recisa spoglia
Sia sacro dono all’amistade, e pegno
Di dolorosa tenerezza. — Ei tosto
Le lunghe anella del suo crine, aurato
Degli omeri flagello, e della fronte
Maestosa alterezza, in su la bara
Tronca col ferro, e del defunto amico
N’empie le mani, e le si accosta al petto.
Nuovi lai, nuovi pianti: al Re si voglie
Pelide allora, e di riposo e cibo.
Disse, ha d’uopo la turba; alle sue navi
Tu la rinvia; quei che del rogo han cura
Restin qui meco e i primi duci, io vado
Il gran rito a compir: parte gemendo
La folla degli Achei. Già scorgi alzarsi
Dai funerei ministri eccelsa pira
Costrutta d’ammontati aridi tronchi,
Che ha cento pie per ogni lato: in cima
Vi si adagia il cadavere; dai membri
De’ buoi scoiati e dei sgozzati agnelli
A lui qual nume in sacrifizio offerti
Il puro fior delle adipose carni
N’estragge Achille, e dell’estinto il corpo
Da capo a pie tutto ricopre, intanto
Che le ammassate vittime d’ intorno
Gli fan corona: indi su lui riversa
Da doppia urna d’argento un doppio rivo
Di biondo mei, di liquid’olio. A questo,
Quasi a seguir del lor Signor la sorte,
Tristo pegno di fé, mescono il sangue
Quattro destrier d’alta cervice, e quattro
Fidi suoi cani: e ciò bastasse: Ah ch’entro
L’alma d’Achille anco pietade è atroce:
Stavan le traccia dietro il tergo avvinti
Dodici Troi presso la bara: il fero
Va coll’acciar di gola in gola, e tutti
Sul feretro gli stende, indi mettendo
Alto di tetra gioia orrido strido:
— Patroclo, esclama, questo sangne accogli
Di cui t’ inondo: esso è de’ Teucri il sangue
Che giurai d’ immolarti; il voto io compio,
Godi del dono mio; s’Ettor vi manca
Non ti lagnar; peggio è per lui, che a pasto
Del foco no, ma de’ miei cani il serbo. —
Fallace voto del furor: dall’alto
Vegliano uniti in sull’Ettorea salma
Venere e Febo: ella il bel corpo inonda
D’ambrosio odor che delle fere edaci
Gl’ impeti affrena, e inviolato il rende
Del cocchio ostile al trascinar; lo copre
D’ intorno Apollo d’azzurrina nube
Che gli fa velo incontro al Sole, e scudo
Ai strali penetrevoli cocenti.
Ma il rogo è acceso: l’agitabil vento
Manca alla fiamma: ad alta voce Achille
Borea e Zefiro implora, e lor promette
Sacrifizio gradito; essi a quel grido
Corrono ufìzìosi, e di lor possa
Tutta investon la pira; ale rugghianti
Scuotono a gara; ecco inalzarsi a un tratto
Vampa vorace, che s’apprende e sparge
Per l’ammontata arida selva, e stride,
E in suo cammino struggitor s’inforza.
Iliade, Canto XXIII, v, 220 e segg.

Lezione quarta.
Degli Altari ed altre notizie soprei i sacrifizj. §

Nella passata Lezione, dopo aver favellato dei templi, si ragionò ancora de’ sacrifizj, argomento vasto ed importante, e che per esser esaurito quanto è permesso dal metodo prefissoci nei nostri studj, addimanda nuove notizie, che farò succedere a quelle che intorno agli altari ho raccolte.

Lasceremo ai grammatici il combattere sull’etimologia della voce altare, e sarà per noi soggetto di dubbio ancora se sussista veramente la differenza notata fra l’are e gli altari da Servio, che afferma questi ultimi solamente proprj delle divinità celesti. Certo è che ai numi infernali sacrifìcavasi nelle fosse, e ne fa fede fra molti Ovidio, descrivendo Medea che d’Ecate implora il soccorso.

Ed è fuori d’ogni dubbio che sopra il suolo si offrivano le vittime agli Dei della terra. Tutto additava fra i primi uomini la semplicità dei loro costumi, che più ancora si manifestava nel modo d’o norare gl’immortali: quindi è che nel principio gli altari non furono che ammassi di erbe, pietre informi, mucchi di terra, come attestasi per Pausania essere stata l’ara di Giove Licio.

Coi costumi si mutò la materia onde erano composti; e piacque ogni forma, quantunque si osservasse di costruire più alti quelli ch’esser sacri doveano a Giove e agli altri celesti, più bassi tenendo i destinati agli Dei della terra. Di marmo, di bronzo, di oro si formavano le are; raramente si trovavano di legno, come per Pausania si osserva. La cenere stessa fa destinata a questo uso, ed è celebre l’altare che a Giove Olimpio fu eretto da Ercole Ideo in faccia al Pelopio ed al tempio di Giunone. Questo, secondo il mentovato scrittore, era dell’altezza di ventidue piedi, in varj ordini diviso, cinto di scale, di cenere e pietre composte. Altari di consimil materia sorgevano nel tempio stesso d’Olimpia a Giunone e alla Terra. Miracolo del mondo era l’ara formata di corna inalzata ad Apollo in Delo, che niun glutine, verun legame congiungeva; onde Callimaco, lusingando la credula superstizione, disse, esser di tanto artificio solamente lo stesso nume capace.

Alcune are erano solide, altre vuote nella parte superiore, onde accogliere potessero delle vittime il sangue, e il vino delle libazioni. Nè tutte s’inalzavano nei templi, ma fra i boschi ed i campi, e sovente sopra le montagne, forse perchè l’immaginazione dei mortali reputava che così avvicinandosi al cielo, giungessero più rapidamente innanzi agli Dei i voti e i sospiri.

Infatti antichissimo era fra gl’idolatri il rito di sacrificare su luoghi elevati, onde nelle sacre carte questo profano costume è materia alle rampogne dei profeti, alla pena dei prevaricatori, allo zelo dei giusti. Però Ezechia fu lodato perchè fé’ dissipare le altezze, romper le statue, recidere i boschi, causa perenne al popolo ebreo d’idolatria, errore così caro all’umano intelletto.

Sei are sorgevano sull’Olimpo, di molte erano popolati rimetto, il Parnete, l’Anchesmo; e quando gli Argonauti vollero sul lido del mar risonante erger un altare ad Apollo, fu loro prima cura di elevarlo eccessivamente, come se imitar volessero un monte.

Triplici qualche volta erano gli altari, e tribomi dicevansi, e sembra che si praticassero nel culto di divinità, di ufficj e di parentela congiunte, giacché nell’Egitto, maestro di scienze e di superstizioni, vi erano di tal sorta dedicati a Latona, Apollo e Diana.

Fra l’are giunte fino a noi alcune la semplicità sola raccomanda, altre l’ornamento, gli Dei, i genj, i sonatori di flauto che vi sono scolpiti; la maggior parte di esse ha negli angoli teste di animali.

Numerosi al pari degli Dei erano gli altari, e Virgilio ci mostra larba, il barbaro rivale di Enea, che cento, così traduce Annibal Caro,

« N’avea sacrati, e di continui fochi
Mantenendo agli Dei vigilie eterne
Di vittime, di fiori e di ghirlande,
Gli tenea sempre riveriti e colti. »

Oltre l’esser nei capistrada delle città, nelle vie maestre, nei circhi, negli stadj, si vedevano pure nei teatri. Il primo che ivi sorgeva dalla parte destra sacro era al dio che si onorava cogli spettacoli; l’altro, alla sinistra collocato, consacravasi ad Apollo, ovvero a Bacco, secondo che una commedia una tragedia veniva rappresentata.

Quando l’ultima viltà e la tremante adulazione pose gl’imperatori romani nel numero degli Dei, ebbero ancor essi altari, e più dei numi, non perchè tutti gli credessero ascritti al concilio dei celesti, ma perchè gli schiavi temerono mai sempre più i tiranni che la divinità.

Esiste ancora in Narbona l’ara dedicata ad Augusto, e di molte iscrizioni la memoria non ci è stata invidiata dal tempo.

Di due are massime, così dette dalla venerazione in cui erano tenute e dalla loro altezza, troviamo fatta menzione nell’antichità: la prima, elevata fu per onorar Giove in Olimpia; la seconda edificò Ercole dopo la morte di Caco,

« Che sotto il sasso di monte Aventino
Di sangue fece spesse volte laco.
Onde cessar le sue opere bieco
Sotto la mazza di Ercole, che forse
Gliene die cento, e non sentì le diece. »

Quest’ara, opera di quelle mani onde fu la terra vendicata e difesa, era in Roma nel Foro Boario presso la porta Carmentale.

 

Solenne il rispetto che gli antichi avevano per gli altari, onde nè lume profano poteva accendere il loro foco, nè da questo poteva accendersi lume profano. Guai a chi santamente le are non toccava, giacché inevitabile credevasi la pena degli spergiuri.

I re vi giuravano sopra i trattati di pace; erano abbracciate dai colpevoli e dagl’ infelici; onde unica ara alle sue fortune chiamò Ovidio quel raro e memore amico, a cui scriveva nell’esigilo lettere che dettava il dolore; ed Enea, lagnandosi della rotta fede dei Rutuli, chiama, presso Virgilio, Giove e le are in testimonio del patto violato.

Solevansi gli altari pure toccare quando alle promesse si aggiungeva il giuramento; onde Giovenale disse che gli empj venditori di spergiuri, che intrepidamente vi si accostavano, ponevano la mano, non solo sull’ara, ma pure sul piede di Cerere, divinità venerata.

Si celebravano gli sponsali e pubblici conviti ancora innanzi all’are, e il luogo per inalzarle doveva esser dalla pubblica autorità determinato.

Assai degli altari. Intorno ai sacrifìzj eccovi quel di pili che importa sapere; poiché, se tener conto si dovesse delle numerose divisioni che ne facevano gli antichi, mancherebbe a così lunga serie il giorno.

Ma siccome i mortali agli Dei si volsero, o per ringraziarli dei ricevuti benefìcj, o per chieder l’adempimento dei loro voti, parlerò delle ostie che allora si offrivano, poiché ogni genere di sacrifìzj può in queste due classi esser compreso.

Quando di lungo viaggio erano fuggiti ai perìcoli, propiziavano alla Fortuna Reduce e ai Lari i pellegrini; ad Ercole Invitto le salve legioni; a Nettuno coloro che all’alto mare aperto fidati, avea fragil legno divisi dalla morte, ed a Mercurio ancora, se l’avarizia gli avea spinti sulle navi a cercar merci ed oro profondendo la vita.

Sacrificavano a Giunone una giovenca colle corna dorate quei felici, che credevano aver sortito dal cielo una moglie pudica, e le offrivano incenso sotto il nome di Lucina, perchè ne favorisse il parto quando era per farli ricchi di prole.

Un bianco toro, una corona, opime spoglie offrivano a Giove quei Consoli, che sul Campidoglio venivano dall’aratro ai trionfi.

I Messenj al nume signor della guerra facevano sacrifizj detti Ecatomfonie, come se cento nemici avessero uccisi.

A Giano, a Vesta, ai Lari, coronati libavano gli sposi il farro e il vino; gli agricoltori offrivano agnelli e giovenchi a Cerere, vestiti di bianco, e legate le mani con rami d’olivo, perchè loro rendesse con larga usura il seme fidato alla terra, e con fallaci erbe non deludesse la speranza della messe.

I sacrifizj statuiti avevano luogo in tutti i mesi. Quelli di Giano, di Giunone, di Esculapio nel gennaio, di Nettuno e degli Dei infernali nel febbraio, di Minerva nel marzo, di Venere nell’aprile, di Apollo nel maggio, di Mercurio nel giugno, di Giove nel luglio, di Cerere nell’agosto, di Vulcano nel settembre, dì Marte nell’ottobre, di Diana nel novembre, di Vesta nel dicembre. Ovidio nei Fasti alla curiosità desiderio non lascia.

Conviene adesso parlare dei ministri per le vittime, degl’istrumenti adoprati per ucciderle, e quindi dei sacrifizj umani praticati dagli antichi, fra i quali si distinguono quelli d’Ifigenia, d’Astianatte e Polissena, ch’ Euripide e Seneca, tradotti, vi narreranno. — Seneca, la di cui descrizione ho tradotta come le forze del mio ingegno il permettevano, vi racconterà il secondo, che fu di doppio dolore cagione ad Ecuba, al pari d’Ilio, splendido documento dell’instabil sorte. Serberemo i versi di Euripide alla seguente Lezione.

Precedevano le ostie coronati di lauro i tibicini. Quindi seguivano vaghi fanciulli e giovinette gloria del loro sesso, che ministravano al sacrificio. Il ministro detto presultore, distribuiva secondo l’ordine i vasi per le libazioni ripieni di vino. I così detti vittimari conducevano gli animali destinati, spargevano l’acqua, le mole, uccidevano la vittima, se esser scannata doveva; e se dalla scure atterrata, al ministro detto popa consegnavanla che succinto e mezzo nudo la percoteva. Gli ufficj di questi ultimi non sono abbastanza distinti, e quindi da alcuni sono stati confusi.

Fra i Gentili erano preceduti i sacrifizj dalle lustrazioni, che facevansi con un ramo di ulivo, o con istrumento a ciò destinato, del quale può vedersi la figura nelle medaglie argentee di Giulio Cesare e di Antonino Pio.

 

Presentata che si era l’ostia, il vittimario portava la teca, che conteneva i ferri; il sacerdote sceglieva o il maglio o la scure o il coltello, ch’esser soleva lungo, con manico d’avorio dall’oro o dal hronzo adornato. Con un ferro detto dolabra, delle palpitanti vittime radevano la pelle: le parti di esse ponevano in vasi detti in genere anclabri, che ciholi si chiamavano allorché la forma n’era rotonda, ascanii, se quadrata. Il sangue si accoglieva in vasi detti sfagbii, dei quali la figura si scorge nelle medaglie di Caligola e di Augusto. I pezzi della vittima destinati ai numi, ovvero ai puhhlìci conviti, si cocevano nelle olle o vasi, detti extarii dall’interiora, o si arrostivano nelli spiedi, come in Omero si lecere. Si faceva ancora uso di due altri vasi, detti salino e patella. Le acerne erano piccole cassette ove l’incenso era riposto; nei canestri portavansi le primizie che si offrivano agli eterni.

Accrescerei il catalogo di questi sacri utensili, se in queste cose la vista, più di ogni descrizione, non ammaestrasse; onde per voi stessi consultar potete le accennate medaglie e i monumenti, mentre io adempio al mio scopo venendo a favellare di quei sacrifìzj, i quali vorrei per onore del genere umano che non fossero mai stati in uso, come un letterato francese pretende. A questa opinione, che onora il core e non la mente di chi la produsse, si oppone in primo luogo l’autorità di Erodoto, il quale afferma che i popoli della Tauride immolavano ad una Venirine tutti gli stranieri che il nau fragìo gettava nella loro terra. Umani sacrifìzj pure disonoravano gli Spartani, finché Licurgo, come Plutarco ha lasciato scritto, non vietò così barbaro costume. Volete di più? Udite come Cicerone rimprovera ai Galli questo costume nella sua Orazione in difesa di Fonteio. Egli dice, volendo dimostrare la poca fede dei loro giuramenti: « Cosa volete che vi sia di santo e di religioso per coloro i quali, se qualche volta dal terrore guidati, giudicano doversi onorar gli Dei immortali, con umane ostie ne funestano i templi e gli altari? Onde nemmeno onorar possono la religione, se prima violata non l’hanno con qualche delitto. Chi fra voi ignora che così barbara e mostruosa usanza si mantiene presso loro ancora ai dì nostri? Laonde quale reputate voi che esser possa la fede di chi i numi crede doversi placare colle colpe e col sangue dei mortali: Aspetterassi da costoro pietà, e moderazione? »

Dopo il discorso del principe degli Oratori, l’accennato parere non può considerarsi che come un sogno, e non è senno nè lode combatter coll’ ombra.

Abuserei colla vostra indulgenza se non rimediassi colla brevità alla noia che in voi deve produrre l’aridità di queste ricerche. Seneca intanto, coi suoi versi immaginosi, vi sarà di sollievo.

Il Sacrificio di Astianatte e Polissena.

Fra le troiane mura eccelsa torre
Sorgeva un dì sulla superba altezza,
E fra i merli sedendo il frìgio rege,
Arbitro della guerra, ire e consigli
Dava ai Troi, stringendo al sen canuto
Il tenero nipote, e a lui nel volto
Dolce memoria dell’età primiera
Rivedea lagrimando. E quando i Greci
Ver le navi spingea l’ettorea spada
E la face temuta, al pargoletto
Mostrava il vecchio la paterna guerra:
Quivi Andromaca ancor cercò cogli occhi
Il magnanimo sposo, e d’ogni dardo
Impallidiva, e in rimirar le prove
D’immortale valor, dicea piangendo:
Mai questa torre Ettore mio non guarda!
Ma già fu gloria degl’iliachi muri,
Ora è dirupo. Lo circonda a gara
Il volgo, i duci, e son vote le navi.
Chi di colle minor le vette ingombra,
d’altra rupe sull’acuta cima
Libra i tremuli piedi; altri di un faggio
Abbraccia il tronco, un lauro altri ricopre.
Trema ogni ramo dell’ombroso bosco
Per la sospesa plebe, e son coperte
D’Ilio che fuma le ruine altere;
E v’ha chi stassi spettator feroce
Sopra l’ettorea tomba, e calca l’ossa
Di quel famoso, che l’achive squadre
Sol della vista sgomentò. Ma giunge
L’atroce Ulisse, e ha nella destra il figlio
D’Andromaca: e venia tranquillo in volto
Il fanciul generoso all’aspra torre.

Allor che stette sulla cima, il volgo,
I capitani, Ulisse stesso in core
Sentia pietade involontaria, e tutti
Piangean mirando dell’ettoreo figlio
L’innocente alterezza. In core acheo
Breve è pietà: che già ripete Ulisse
Le preci di Calcante, e al crudo rito
Chiama numi di sangue. Allora, oh vera
Prole d’Ettorre: il ferro ostil previene
Astianatte: in giù si slancia, il corpo
Precipita, si frange in mille parti
Su gli aspri sassi, e con il proprio sangue.
Infelice fanciul, bagni il tuo regno.
Ahi: più del padre il tuo volto deforme
Non ritiene le nobili sembianze:
Neppur la madre il riconosce: Appena
Ai piedi rimirò dell’alta torre
L’achiva turba Astianatte infranto,
E pianto sparse sull’imposta colpa,
Torna a nuovo misfatto ove d’Achille
Posta è la tomba, cui l’estremo fianco
Lambe il flutto reteo. L’avversa parte
Chiusa è da colle facile, che sorge
A guisa di teatro. Era ogni lido
Ingombro, e presso la sperata terra
Già credea di vedere il facil volgo
Che odia e mira i delitti. Ancor di Troia
La schiava gente al proprio pianto accorsa
Era, e vedeva già muta e tremante
D’Ilio, onde han pieni ognor gli occhi infelici.
Troncar l’ultima speme il ferro argivo.
Quando improvviso balenar di tede
Percosse i lumi della turba incerta,
E Polissena apparve. Ivale accanto,
Pronuba quasi dell’orrende nozze,
Elena, e dolor fìnto ornale il volto,
Principio al comun pianto. Ogni Troiano
Dicea sommessamente: Abi quella face
Splenda alle nozze di tua figlia, o vile
Spartana, e così te la Grecia renda
Al credulo marito: — E la fanciulla
Frigia intanto chinò la mesta faccia.
Che l’ultimo rossor facea più bella,
Come più dolce del morente sole
E il raggio, allor che la vicina notte
Fa guerra al dubbio giorno, e il mesto impero
Chiede del mondo la regina antica.
Tace attonito il volgo, e chi commove
Beltade, e chi di gioventude il fiore,
Tutti fortuna; e il fermo cor che morte
Incontrar sembra, e desta in cor di tutti
Maraviglia e pietade. È sul paterno
Sepolcro Pirro, ma nè cor, nè volto
Muta l’ardita vergine, e rivolge
Sicuro il collo ver l’ignudo ferro:
Tutti ammutirò: esita Pirro: e nuovo
Prodìgio, Pirro in ferir lento, appena
Sentì la voce del furor paterno
Nascose il brando nel virgineo petto,
E vasta fuga aperse all’alma. Il sangue
Scorre in tiepidi rivi, e tu lo bevi
Di Achille, ancor crudele, avida tomba:
E già l’ossa funeste aggrava il corpo
Di Polissena, anco in morir regina.
Piangon gli Achivi; gemito sommesso
Danno i Frigi, e al dolor vietan la voce:
Che le lacrime pie son colpa al vinto.
Troadi, Atto V.

Lezione quinta.
Dei sacrifizj umani. §

I mortali non contenti nel princìpio di offrire alla divinità, erbe ed incensi, quindi animali, arrivarono a tanta insania che con umane vittime contaminarono le loro mani e i templi degli Dei.

È opinione di alcuni che questa orribile costumanza avesse principio coli’ idolatria al tempo di Saruch nella quinta generazione; e se ciò sussiste, antica è la colpa.

In Igino ancora si legge che Callistene alla salute della patria immolò la figlia; che i Tiri sacrificarono i figli di Sisifo, persuasi al misfatto dall’oracolo di Apollo. Lo stesso autore infama la memoria di Teseo, cui lo stesso dio ordinò di uccidere Antiope sua moglie e figliuola di Marte, che Adrasto ed Ipponoo suoi figli seguirono gettandosi nel fuoco8; vittima volontaria per la salvezza di Tebe sua patria si offerse Meneceo, e di questi furori e di questi delitti sono ricchi gli annali del genere umano.

Grato era a Baal il fumo de’ cadaveri offertogli dai Cananei e da altri popoli nemici d’Isdraele, che prevaricando, macchiò anch’egli le mani già pure, onde da Dio abominati furono e puniti sì crudeli olocausti.

A Mitra, a Serapi, a Marte, alla Luna, ad Iside, ch’è lo stesso presso gli Egiziani, propiziarono con umano sangue: tanti mali potè consigliare la superstizione !

Fuggiva la pietà dai crudeli altari di Teutate e d’Eso orribile, sui quali palpitavano vittime umane. Che più: a Venere stessa uomini sacrificavano i Cerasti; ninna divinità si compiacque maggiormente di questi sacrifìzj che Diana, e lo mostreremo quando della di lei statua in Tauride si avrà nel corso della presente Lezione opportunità di parlare. Causa di tanta empietà era la credenza che questa abominazione allontanasse l’ira divina, meritata colle scelleraggini, quasi le colpe con altre colpe potessero espiarsi.

Seneca, di cui la descrizione serbiamo alla seguente Lezione, ci mostra per questo motivo immolati i figli di Tieste, e maggiore compassione desterà nei vostri cori di quella che sentiste udendo del sacrificio di Astianatte e di Polissena.

Sacrificavansi ancora umane vittime per la salvezza di un moribondo amico o congiunto; e quando un tiranno pericolava nella salute, gli schiavi, dei quali è gloria l’ubbidire, prevenivan volontarj la sovrastante fortuna. E se in loro non era l’ardire della disperazione, se ne ordinava il sacrifizio; onde Amasi patteggiò con Plutone dieci uomini per la propria vita.

Nè a sesso nè a età perdonavasi in questa orribile espiazione: ferivano i Sardi il tremulo collo dei vecchi che avevano oltrepassati i settant’anni; da alcuni gli ospiti, da altri gli schiavi erano scannati.

Oh barbarie ! chiamavasi mistico sacrifizio quando un parto, tolto al reciso ventre della madre, ponevasi sugli altari sanguinosi. Questo rito crudele è da Lucano attestato, I Galli (Cesare lo riporta) sacrificavano i colpevoli, bruciandoli coi vimini dai quali erano avvolti, e quando i rei mancavano, stimando far cosa grata agli Dei, discendevano al supplizio degl’innocenti. Lo stesso Giove Laziale di umane ostie già compiacevasi, ma Numa, di mansueti costumi maestro ai Romani, eluse con accorta ripulsa la dimanda di quel dio che parlar facevano i sacerdoti crudeli.

A Saturno i Cartaginesi i propri figli offerivano, il fiore della gioventù; e quel che é più terribile, doveano assistere al sacrifizio le madri. Le trombe, i timpani erano destinati a vincere il suono delle loro grida. Fra gli stessi Giudei vi era una valle, detta del ruggito, dove s’immolavano i bambini dai padri, persuasi che questo sacrifizio avrebbe gli altri figli scampati dalla morte, e resi loro per tutta la vita felici.

Degni di lode i Siri, che tutti i sacrifizj cruenti vietarono, conoscendo che coli’ uccisione degli animali si avvezzava alla crudeltà ed al sangue il core dei mortali !

Ma quali erano i riti che per celebrare queste empietà si osservavano ve lo dirà Euripide, da cui ho tradotto quei versi immortali ai quali è consegnato il fato di Polissena e d’Ifigenia. Ambedue queste descrizioni sono meno adorne d’immagini che quella di Seneca: ma pure di molta compassione percotono il core per la stessa loro semplicità, giacché il sentimento rifiuta tutti gli ornamenti delle frasi.

Udite la morte della prima, narrata ad Ecuba dal nunzio:

Perchè vuoi che il dolor rinnovi, o donna,
Narrando il fato di tua figlia? Assai
Piansi in mirarla alla funesta tomba,
E le lacrime ancor stanno sul ciglio.
Ma il vuoi? parlare e sospirar mi udrai.
Tutte le achive squadre erano accorse
Al sacrificio orrendo. Afi’erra Pirro
Quell’innocente, ed al funesto altare
L’avvicina; ed io presso orale. Ancora
Della memoria tremo; e mesta schiera
Delle donzelle al duro ufficio elette
Le fean triste corona. Il figlio atroce
D’Achille inalza la dorata coppa,
E liba al padre. Della man col cenno
D’impor silenzio all’ addensata turba
Mi comanda, ed io sorgo, e grido: Achei
Tacete; e tutto è quoto. — Allora esclama
Pirro: mio padre: o della Grecia eterno
Alloro, prendi le funeste stille,
E placa la sdegnosa anima: sorgi,
E bevi il sangue: di donzella è sangue:
La Grecia, il figlio te lo dona: a noi
Concedi i venti, e delle tarde navi
Tronchin le sarte, e tua mercede i Greci
Bacin la patria lacrimata terra. —
Così dicea: con mormorio sommesso
Tutte le squadre accompagnar le preci.
L’aureo coltello impugna, e a noi comanda
La maestade della man feroce,
D’afferrar Polissena; ed essa grida:
Achivi, onde io più non ho patria, alcuno
Non sia tra voi che d’appressarsi ardisca:
Vittima volontaria offro il mio petto.
Libera nacqui, e da regina io voglio
Morir. Paventi il ferro alma privata,
Non d’Ettore la suora; io serva a Dite,
Rossor delle maggiori ombre, non scendo. —
La plebe ondeggia: Agamennon gridava:
All’infelice giovinetta. Achei,
Almen lasciate libertà di morte. —
E la vergine udendo i regi detti,
I bei veli del sen bianco custodi,
Arrossendo, sciogliea con mano incerta.
Apparve allor d’effigiati marmi
L’emulo petto. Le ginocchia inchina,
E intrepida dicea gli ultimi detti
Del dardanio valor memoria eterna:
II collo e’l petto che ferir bramasti.
Eccoti, Pirro: ove tu vuoi ferisci. —
Ei dubitando, con mano tremante
Vibrava il ferro nel sicuro collo.
Già sulla veste le rosseggia il sangue.
Sente la morte Polissena, e vede
Appressar le felici ombre congiunte;
Onde in atto pudico il corpo esangue
Compose, e i lini. Del cadere onesto
In te la cura trionfò di morte,
Magnanima donzella: e frondi e fiori
Spargon i Greci sulla fredda spoglia:
E, tributo miglior, recano i Frigi
Meste corone del lor pianto asperse.
Ecuba, verso 518 e seg.

Alla morte d’Ifigenia è prezzo dell’opera il far precedere alcune notizie che riguardano questo sacrifizio. Vi sarà in primo luogo noto che Timante nella pittura che lo rappresentava avendo tutte le immagini di mestizia esauste nel volto dei circostanti, le sembianze del misero padre, imitando Euripide, coperse di un velo, quasi disperasse dell’arte, Pausania, che dovrebbe essere nelle mani di tutti gli artisti, dice che presso gli Egineti vi era un’antica statua creduta d’Ifigenia. I Megaresi, secondo mentovato scrittore, ne mostrano la tomba. Molta il discordia di pareri regna sull’esito di questo sacrifizio. Alcuni dicono che Ifigenia fosse immolata, come Eschilo nell’Agamennone, Sofocle nell’Elettra, Lucrezio ed Orazio. Altri, come Euripide, dicono che Diana, compassionando la giovine principessa, l’avea portata nella Tauride nel momento dell’ espiazione, e mise in luogo di essa una cerva. Ovidio l’ha posta nel numero delle sue Metamorfosi.

Antonino Liberale riporta che fu cangiata in una specie di Genio immortale, e che nell’isola di Leuce si congiunse ad Achille.

Evvi un’altra opinione seguita da molti famosi lirici, e specialmente da Stesicoro, la quale narra che una donzella di questo nome fu in Aulide sagrificata, ma che di Teseo, e non di Agamennone era figlia, e che Elena a lui l’aveva generata quando al rapimento fe’ succedere V imeneo, che essa non ardì a Menelao manifestare.

Racine, prima lode del Teatro francese, ha adottata questa credenza, ed io ho reputato farvi cosa grata traducendo la parlata di Clitennestra, e la descrizione del sacrifizio, che di bellezze classiche ridonda.

Udite, innanzi, i divini versi di Lucrezio sull’istesso soggetto, che ho desunti dal volgarizzamento del Marchetti. A questi succederà Euripide, e finalmente il Tragico francese.

Sacrifizio d’Ifigenia.

« Questa il fior degli eroi scelti per duci
Dell’oste argiva in Aulide già indusse
L’ara a macchiar della gran dea triforme
Co ’l sangue d’Ifigenia, allor che cinta
Di sacra fascia il bel virgineo crine
Vid’ella a se davante in mesto volto
Il padre, e a lui vicini i sacerdoti
Celar l’aspra bipenne, e’1 popol tutto
Stillar per gli occhi in larga vena il pianto
Sol per pietà di lei, che muta e mesta
Teneva a terra le ginocchia inchine.
Nè giovò punto all’innocente e casta
Povera verginella in tempo tale
Che prima al re titol di padre desse;
Che tolta dalla man de’ suoi più cari
Fu condotta all’aitar tutta tremante:
Non perchè terminato il sacrificio.
Legata fosse co’1 soave nodo
D’un illustre imeneo; ma per cadere
Nel tempo istesso di sposarsi, offerta
Dal padre in sacrifìcio ostia dolente.
Per dar felice e fortunato evento
All’armata navale… »
Lucrezio, Della Natura ec. lib. i.

Racconto del nunzio.

Tutto dirò se non lo vieta il core.
Che spavento e stupor tengono a gara,
E ancor trema e rifugge. Eramo giunti
Della figlia di Giove al sacro bosco
Ed ai floridi prati ove dei Greci
Son le schiere accampate. In mezzo a noi
Stavasi Ifigenia; la vide il padre:
Gemè, la fronte rivolgendo indietro
Si pose il manto innanzi agli occhi, e pianse;
Ma la donzella al re s’accosta, e dice:
Eccomi, padre: a te la cara vita,

Per la patria e pei Greci ecco ch’io dono:
Volentieri del mio sangue spargete
L’ara del nume: così piacque ai fati,
Io vi ubbidisco; il mio morir vi renda
Vincitori e sicuri, e nel ritorno
Per me baciate la felice terra
Ch’ io più non devo riveder. padre,
Dammi gli ultimi baci, e tu gli rendi
Alla dolente tua consorte. Oh mia
Madre, son queste le sperate nozze?
Ma che? ministri all’ara e niun Argivo
Ver me s’appressi, che sicura al ferro
Offro il collo animoso. — In questi detti
Figlia di re conosce ognuno. In mezzo
Taltibio stava, e all’affollate schiere
Voti e silenzio comandò. Calcante,
D’infelice corona ornolle il crine,
E nell’aureo canestro il ferro ignudo
Pose. Achille lo prende, intorno all’ara
Corse, e quindi esclamò: Dea, che godi
Col certo strale saettar le belve,
E col tuo raggio della mesta notte
Le tenebre rallegri, accetta il sangue
Che Grecia t’offre e Agamennon ch’è padre.
A noi concedi il navigar felice.
Possiam di Troia conquistar le mura. —
All suol rivolte le pupille avea
Il popolo e gli Atridi. Il sacerdote
L’acciar si reca nelle mani, e prega,
Ed attento osservò dove alla gola
Vibrasse il ferro. Io di dolor nei lacci
Preso, alla terra dechiiiava i lumi.
Ma un gran portento all’improvviso oprossi.
Che del vibrato ferro udì ciascuno
Distintamente il colpo. Ove sparisse
La versrine sotterra alcun non vide.
Un grido alzava il sacerdote; e tutto
L’esercito gridò, che inopinato
Era il portento, sì che visto ancora
Fede non ottenea. Giaceva al suolo
Palpitante una cerva, e vasto il corpo
E belle avea le forme, e tutta avea
Sparso del sangue suo Tara del nume.
Con quella gioia che pensar ti puoi
Allor Calcante esclama: dell’ Acheo
Campo duci supremi, or la montana
Cerva mirate che la dea si pose
Qual vittima dinanzi, e se ne appaga,
Perchè l’aitar non macchi un sangue illustre:
Al mar si vada, ed alle navi: il cielo
Ai nostri legni assente aura felice.
D’Aulide i lidi abbandonar conviene,
E in questo giorno valicar l’Egeo.
Euripide, Ifigenia in Aulide.

Parlata di Clitennestra.

Apra il mar nuovi abissi, i Greci inghiotta
Con mille navi, e se d’Auìide il porto
Vomiterà le infide prore, il copra
Di spezzati navigli e membra infrante
Ira miglior degli accusati venti.
sole, che nell’esecrata terra
D’Atreo ravvisi il vero erede, il figlio,
E dalla mensa di delitto piena
Un dì torcesti l’atterrito raggio,
Oggi ricalca la funesta via
Che il padre t’insegnò. Che dico, o madre
Infelice! la mia figlia già cinge
Abominato serto, ed offre il collo
Ai coltelli sacrati. E chi gli apprestaf
Il genitore. E già Calcante Oh crudi:
Fermate; il sangue che già scorre, è sangue
Di chi il fulmine vibra; il tuono io sento,
Trema la terra: un Dio la scote, un Dio.
Racine, Ifigenia.

Racconto d’Ulisse.

A Grecia intera più funesto giorno
Non sorse mai. Già sopra il campo vola
Discordia, e dà della battaglia il segno.
Ed atterrita Ifigenia rimira
Tener le schiere un lato, e l’altro Achille,
Che solo è in sua difesa, e solo i Greci
Spaventa, e i numi fa discordi in cielo.
Di mille dardi all’ombra il di si cela,
E primizia di strage il sangue scorre.
Ma Calcante si avanza: aveva i lumi
Scintillanti terrore, e sulle bende
L’ irta chioma si alzava orribilmente,
E del nume il furor gli agita il petto.
Esclama: Udite, o Greci, odimi Achille:
Adesso un Dio per me vi parla, e spiega
I suoi decreti e la sua scelta. Un’altra
Ifigenia macchiar deve la riva.
D’Elena è figlia, e ne fu Teseo il padre
Quando placò con imeneo segreto
I brevi sdegni alla rapita donna.
Io vidi, io stesso dei nascosi amori
Questo frutto infelice, e scorsi allora
La minaccia dei fati. Or qui la tragge
Fortuna, e il suo furor: sotto mentito
Nome vi sta davanti agli occhi, e m’ode. —
Così dicea Calcante, e sopra l’asta
Poggiati immobilmente odonlo i Greci,
E guatano Erifile: all’ara innanzi
Stavasi, e forse del feral coltello
Le dimore accusava, e il volsjo ammira
I suoi natali e la sua sorte: il core
Pietà furtiva percotea. Ma Troia
Gli si fa innanzi, e del tuo sangue è prezzo.
Sventurata Erifile. Allor si grida:
Mora, mora. — Calcante impugna il ferro,
E il rio decreto ad eseguir s’accinge.
Ma la vergine esclama: arresta, il sangue
Di quel possente che nel sen mi scorre.
Verserò senza della man profana
Il crudel ministero. Afi’erra il sacro
Acciaro dall’altare, e in sen l’immerge.
Appena il sangue sull’infausta terra
Rosseggiava, rimbomba il tuono, e crolla
L’ara, fremono i venti, e il mar risponde
Coi muggiti, la riva geme e spuma.
Volontaria del rogo arde la fiamma;
Balena il cielo, e s’apre: un santo orrore
C’investe, e quindi fra le liete schiere
Ilio, Ilio, suonar s’ode: a Diana
Mille salgono a un tempo incensi e voti.
Racine, Ifigenia.

Lezione sesta.
Dei simulacri e dei boschi sacri, e dei riti ad essi risguardanti. §

Le umane invenzioni rozze furono nel loro principio, e non giunsero a quell’alto grado di bellezza e di perfezione in che collocate sono, se non arricchite dall’ eredità del sapere. Così le statue non furono dapprima che rozze ed informi pietre, destinate a rappresentare le divinità; quindi lantamente l’arte seppe loro infondere tanta vita da gareggiare quasi colle vive sembianze.

È impossibil cosa di rintracciare la patria di questo ritrovato, e non vi ha motivo per concedere precedenza ad un paese anziché ad un altro. Dopo che Iddio fu dimenticato dai potenti felici, il bisogno dei numi deve esser nato col tempo e colle sciagure. I mortali, da queste avvertiti, avranno con facile errore sottoposti i numi alle forme umane, nobilitando così la nostra natura, e diminuendo i’ immenso spazio che l’uomo dalla divinità divide. Qual terra adunque esser vi può dove non sia nato quest’ uso, e chi non scorge che l’origine di esso nelle tenebre della più remota antichità sta nascosa?

Osserva Winkelman, che coloro i quali trattano del nascer di un’arte, sogliono il più delle volte, fidati a poche relazioni di rassomiglianza, dedurre da queste generali conseguenze, e tessere di tutti i ritrovati false genealogie, nelle quali una sola nazione di tutte l’altre è maestra. Per evitare questo errore sarò contento di osservare che nelle più antiche statue egizie non erano separate nè le gambe, nè le braccia; chiusi stavano gli occhi, pendule le mani. I Greci trenta divinità visibili adoravano, senza dar loro figura umana, indicandole con informi masse o pietre quadrate, come facevasi presso gli Arabi e le Amazzoni. Pausania vide questi informi sassi in Fera città dell’Arcadia. Altro non fu la Giunone di Tespi, la Diana d’Icaro: colonne erano il Giove Milichio a Sidone, la Diana Patroa, la Venere di Pafo. Sotto questa forma Bacco rappresentavasi. Semplici pietre additavano Amore e le Grazie stesse. Indi i Greci, come osserva Winkelman, ancora quando le arti fiorivano, significavano le statue colla parola ϰιων, cioè colona: tanto nei vocaboli sta l’origine delle cose racchiusa. Con due pezzi di legno paralleli, insieme uniti a due traversi pure di legno, disegnavano gli Spartani Castore e Polluce. Questa configurazione primitiva, come si osserva dal sopra mentovato scrittore, si scorge tuttora nel segno col quale nello Zodiaco sono i Gemini additati. Furono collocate col progresso del tempo le teste sulla cima di queste pie tre: cosi a Tricoloni e a Tegea in Arcadia foggiati erano Nettuno e Giove: tale era la Venere Urania che Pausania vide in Atene. Erme (come noto è a tutti) chiamavansi le pietre quadrangolari con una testa, alle quali, con profondo scherzo, paragona Giovenale gl’inetti nobili di Roma, che si appoggiavano sulla fama degli avi. A questi abbozzi successero molti progressi: si distinse il sesso nei simulacri; convenienti forme si effigiarono nella parte superiore di essi, indicando con taglio longitudinale la divisione delle gambe. Un triangolo era l’emblema col quale s’indicava il sesso femminile dagli Egizj. Dedalo insegnò il primo a rappresentare le statue con occhi guardanti, a disgiungerne le gambe, a distaccarne dal corpo le mani, onde fama eterna ottenne, e diede a questi simulacri il suo nome.

Il nome di erme non si dava solamente alle statue di Mercurio, ma a tutte quelle ancora che ne imitavano la figura. Onde diceasi Ermatene, Ermapollo, e altrimenti, secondo la divinità rappresentata. Ancora nei bei giorni dell’arte per le città tutte di Grecia questi simulacri erano sparsi, ed Alcibiade fé’ troncare il capo a tutti quelli che erano in Atene, a riserva di quello che stava avanti la porta di Andocide, che per questo motivo la prigionia sofferse. Nè fuggì la pena pure Alcibiade, potente più eh’ a privato non convenivasi; poiché, appena partì colla flotta, fu accusato e coU’esiglio punito. Ma di tutte le teste rimaste fu modello il volto di Alcibiade; al che allude l’eleofante Ariste lieto in una sua lettera, dove una donna di sue bellezze gloriosa scrive che norma il sembiante di lei, e non quello di Alcibiade, esser doveva dell’erme.

Era lecito il servirsi agli antichi artisti d’ogni materia e d’ogni forma per le statue degli Dei. Oltre il marmo e la pietra, l’arancio, la palma, l’ulivo, l’ebano, il cipresso erano materia all’effigie degli Dei. Nel Giove Olimpico, che veruno emulò, e neir Esculapio di Epidauro, l’avorio erano con artificio, che vincea la preziosa materia, distribuiti. Anticamente la creta serviva alle statue degli Dei che furono detti Fictilia, dall’arte di gettarle, e Plinio dice che la semplicità dei primi Romani escludeva l’oro ancora dalle figure degli Dei. Giovenale, favellando del Giove di Creta di Tarquinio Prisco, lo chiamò di creta, e non violato ancora dall’oro. Marco Acilio duumviro romano fu il primo ad indorare la prima statua in Italia, eh’ eresse nel tempio della Pietà al padre di lui Glabrione. Nè legge veruna prescrivea l’ altezza dei simulacri: presso gli Egiziani ne erano alcuni colossali, altri piccolissimi, e tali che comandavano riso ed affronti, e gli ebbero da Cambise allora che a Memfi vide il tempio di Vulcano. Però quando l’Egitto fu conquistato da Alessandro, retto quindi dai Tolomei, imitarono i greci costumi nel rappresentare la divinità; il che fu loro di doppio vantaggio cagione, giacché del vincitore evitarono gli scherni, ed ai Greci vani fecero credere che la loro mitologia veniva interamente dall’ Egitto. In questa diversità di statura data ai numi furono seguiti dai Greci e dai Romani, quantunque di alcune divinità le statue fossero comunemente piccole, come quelle de’ Lari e degli dei Pataici d’ origine fenicia, che sulla prora dei vascelli si collocavano.

Numerose erano le statue. Quando Pausania, ovvero altro scrittore, ne farà memoria, sarà mia cura riferirne la descrizione allora che tesserò l’istoria degli Dei. Costumavasi offrir loro sacrifizj e preci nei pubblici infortunj, e così piene della deità reputavansi, che Dei erano dette. Nel giorno festivo dei numi, ai quali erano le statue dedicate, praticavano ornarle con nastri e fasce, uno’erle coli’ olio: questa ultima cura particolarmente, si rendeva ai Lari. Passando loro vicino le adoravano prostrandosi, ovvero accostando la mano alla bocca. Avevano queste figure ordinariamente i simboli loro sacri. L’egiziane n’erano ingombre.

Esposte intorno alle statue le notizie piii importanti, conviene, che de’ boschi sacri ancora favelli; l’uso dei quali è certo che ha preceduto quello dei templi, come vi ho dimostrato. La notte, propria delle selve, spaventò dai più remoti tempi l’ignavo timore dei mortali, che vi adoravano lo stesso silenzio, e l’ombre di divinità ignota e terribile ripiene. In questi luoghi si celebrarono i primi misteri del Gentilesimo: sacro era per gli Arabi il bosco d’Elim, ove gli Ebrei, varcato l’Eritreo, si accamparono. Pei Greci la selva di Dodona fu solenne oggetto di venerazione; trentadue boschi sacri si numeravano in Roma. I Druidi, col sangue umano aspersero gli alberi ove credeano chiusi gli Dei.

In principio l’orrore solo rendeva sacrosante le selve, e l’ ingresso n’era vietato ai profani; quindi vi si fabbricarono ed altari e templi, che n’accrebbero la religione. E quando questi ultimi erano stati costruiti in luogo non selvoso, cercavano di rimediarvi cingendoli di alberi intorno. Mosè, prefìggendosi di vietare agli Ebrei l’idolatria, verso la quale li traea il loro genio e delle altre genti l’esempio, non permise che l’altare di Dio fosse circondato da alberi a foggia di selva. Pure, tanto l’inclinazione prevalse, che Gerusalemme stessa vide un bosco fra le sue mura. Nelle selve sacre si univano gli antichi nei giorni festivi, e comuni banchetti vi celebrava la pubblica gioia. Corone, ghirlande, doni vi appendeva la superstizione, prodiga tanto, che appena, al dire di Stazio, luogo restava ai rami. Tagliarli intieramente era sacrilegio: pure concesso fu diradarli, propiziando con sacrifizio al nume del luogo. Celebri sono nell’antichità i boschi di Apollo, di Lucina, di Feronia, di Diana Aricina, di Giove Laziale, di Augusto, e molti altri, dei quali la descrizione presso gli antichi si legge. Famosa è quella che Lucano ne ha data del bosco di Marsiglia, che i soldati romani atterrarono, non liberati coll’esempio del capitano dal timore comandato dalla maestà del loco, ma pesata, come egli dice, l’ira di Cesare e quella degli Dei. Tradurrei per vostro vantaggio i versi di questo ingegno sovrano, se il Tasso avendone derivate le bellezze nel suo poema, non rendesse inutile e presuntuosa questa impresa. Quindi ho voi garizzato quella parte del Tieste di Seneca, ove si descrive il bosco che era presso alla reggia degli empj fratelli. Confido che vi riempirà di maraviglia e di terrore non meno il sacrifizio eseguitovi dal mostruoso Atreo. Da Seneca vi saranno rammentati ancora i riti per tanta empietà osservati, dei quali si ragionò nella passata Lezione.

Racconto del nunzio.

Sta della rocca Pelopea gran parte
Conversa all’austro, e sorge il fianco estremo
Eguale a monte, e la città minaccia;
Onde sull’umil plebe al re l’inulta
Morte è dal loco saettar concesso.
D’immensa folla ivi capace sala
Splende, e le sono mille travi aurate
Ornamento e sostegno. Appo le note
Pompe che adora, e per cui serve il volgo.
Sembra la reggia allontanarsi in mille
Recessi: e cinge delle ricche stanze
La fuga artificiosa antica selva.
Alto arcano di regno. Educa il mesto
Suolo non liete piante, o vaghe frondi,
Schiave dell’arte, ma tassi e cipressi
Ed elei negre; il bosco oscuro ondeggia
Mosso dall’aura: gli sovrasta, e vince
Altera querce le minori piante.
Di Tantalo i nipoti auspicio al regno
Qui soglion trarre: qui dei dubbi eventi
Cercar la sorte: ai paventati tronchi
Stan mille doni affissi: evvi la tromba
Che degli emuli cocchi il volo accrebbe;
D’Enomao il cocchio infranto, e stavvi il sangue
Del traditore auriga, al mar Mirtoo
Infamia e nome. Qui stan tutte altere
L’avite colpe, gran base di regno.
Nasce fra l’ombre che ogni augello teme
Un rivo, e pigro qual palude stagna.
Così di Stige è l’inviolabil onda
Sacramento dei numi. Odi la notte
Gemer gì’ iddii ferali, e suonar gli antri
Per le scosse catene, ulular l’ombre.
Ombre di sangue. Qui, con gli occhi vedi
Ciò che udire è terror; splende la selva
Come da fiamme accesa, e di latrati
Triplice suona. Inusitati mostri
Nell’attonita reggia han sede: il giorno
Qui non placa il timore. Ha propria notte
La selva, e quando il sole alto nel cielo
Regna, vi sta buio d’ inferno. Han certa
Pur qui risposta i dubitati voti,
E allor che il nume i fati apre, lo speco
Mugge. Traendo del fratello i figli,
Dalle Furie condotto, occupa Atreo
Il recesso fatai. Chi mi dà voce
Che pareggi l’orror dell’alto eccesso,
Onde nuovo cammino impara il sole?
Orna gli altari, e le innocenti mani
Al tergo avvince: i giovinetti al cielo
Levan la fronte, che purpurea benda
Mestamente circonda: incensi, il sacro
Liquor di Bacco Atreo sparge sull’ara:
Atrocemente sugi’ ignudi colli
Striscia il coltello, onde non manchi il rito
A tanta colpa: è sacerdote Atreo!
Ei le funeste preci all’ara innanzi
Dicea con labbro violento: il bosco
Trema e la terra: la funesta reggia
Sembra, ondeggiando, dubitar. Si cangia
In sangue il vino che libò l’ iniquo
Re, cui cadon le bende. 1 rei ministri
Tremano: immoto è solo Atreo. Sgomenta
Ei la minaccia dei presenti numi.
Già tronca le dimore, e gli occhi in giro
Torvamente rivolge. Eguale a tigre
Che dell’avida bocca il furor primo
Non sa dove converta, e d’ambo i lati
Scuote le giube sanguinose, e tiene
Dubbia la fame dei digiuni denti;
All’empia morte le dovute teste
Così riguarda Atreo. Sceglier gli piace
Degno principio a tanta colpa; alfine
Tantalo elegge: in lui punir dell’avo
Voleva il nome. Non preci, nè pianti
Perde il giovin sicuj’o: ampia ferita
Gli fa nel petto Atreo: si cela il ferro
Tutto nel seno, che alla man si giunge.
Lo tragge, e sopra i pie mal fermi crolla
La dubbia salma: alfìn sull’empio zio
Cade, e lo bagna del comune sangue
. Nè il tiranno cessò. Strascina all’ara
Filistene infelice, e già cammina
Sulla strage fraterna: alfìn pietoso
La cervice gli fende: il prono tronco
Cade, guizza la testa, e il labbro forma
Incerte voci e impallidisce: cerca
L’ultimo errore dei nuotanti lumi
Il fratel pargoletto; eppure Atreo
Non gli perdona, e colpa a colpa aggiunge.
Come armeno lion fra molta strage
Esulta, e turba con sanguigne zampe
Le ignude ossa, ove ha regno, e l’ampia fame
Sol depone e non l’ ira, e il ruggito
Dei fieri denti che minaccian stanchi
I timidi torelli: ahi: tale Atreo
Era. Nasconde lo stancato ferro
Nel tergo al pargoletto: ei cade, e spenge
Dell’ara il foco l’ innocente sangue.
Nè questo è il fine della colpa: è grado
A delitto maggiore, a cui la fede
Mancherà dei nipoti. Appena ei vide
La strage, e sen compiacque: oh vista: ancide
Le palpitanti membra, e le prepara
Esca alla cena Tiestea: sicuro
Della strage crudel, s’occupa solo
Della fraterna mensa. Sol paziente.
Troppo soffristi, e la tua fuga è tarda:
Già banchetta Tieste, e assai di luce
Vi è perchè scorga il feral cibo, e cessi
II felice ignorar, dimora al pianto.
Seneca, Tieste. Atto IV.

Lezione settima.
Giove: suo nascimento, sua educazione e sue prime imprese. §

Nelle passate Lezioni ho cercato, quanto la povertà dell’ingegno mio lo concedeva, di rendere vostre tutte quelle notìzie, che preceder deggiono lo studio delle favole e la storia degli Dei, che colla scorta de’ Classici e dei monumenti mi accingo a tesservi, confortato dalla lusinghiera esperienza del vostro compatimento. Sia da Giove il principio.

Lungo e difficile, come Pausania l’attesta, sarebbe il numerare le nazioni che si gloriarono di aver data a Giove l’educaziono o la cuna, o perchè i re tutti ebbero presso gli antichi questo nome, sia che la patria dei sommi fu sempre di dubbi e di contrasto argomento. Creta, più d’ogni altra greca città, questo vanto si arroga; e l’antro del monte Ditteo ferace di querci fu della puerizia di lui testimone famoso. Si oppongono alla gloria dei Cretesi mendaci, i quali additano pure il sepolcro di Giove, i Messenj, che?ul giogo d’Itome mostrano un fonte, dove le ninfe lavarono le tenere membra del padre degli uomini e degli Dei, quando i Cureti lo sottrassero alla crudeltà di Saturno. E l’Arcadia è illustre ancora pel fiume Lusio, il quale per Cortina scorre, e che, secondo Pausania, servì allo stesso uso del fonte Itomeo detto Clessidra.

Nè meno pretende a tanta gloria la pingue Beozia: poiché quando i Greci chiesero fine alle morti dalla peste e dalla fame cagionate, fu loro risposto che cesserebbero quando l’ossa di Ettore fossero da Obrino trasportate in quella città che non avesse militato all’eccidio di Troia, e che fosse ad un tempo patria di Giove; ed ambedue queste qualità si trovarono riunite in Tebe, città della nominata regione.

Che che ne sia, l’istoria dei natali di Giove, del parto di R.ea, dell’inganno di Saturno deluso da un sasso fasciato, si trova espressa in un’ara grande, scolpita nelle quattro faccio che fu trovata in Albano, e che il celebre Gori fece incidere, e pubblicò nella Collezione delle Iscrizioni Doniane.

Nè minor lite reo’na fra a:ìi antichi sulle nutrici di tanto fanciullo, poiché Luciano e Arato, con molti altri, dicono che alimento gli fosse il latte della Capra di nome Amaltea, ma chiamata ancora Olenia dei Classici, perchè presso una città di Beozia detta Oleno fu nutrita. Una medaglia battuta in onore di Antonino Pio esprime nel rovescio Giove b'ambino portato da questo animale. Virgilio nelle Georgiche dice che dalle Api fu pasciuto di miele nell’antro Ditteo Giove, che in mercede loro quindi concesse maraviglioso intelletto. Reda, Itome, Adrastea, le sorelle dei Cureti figlie di Melissea, Tisoa, Agno, si disputano nell’antichità l’aurea culla del fi"lio di Saturno. Nè mancò chi le colombe e l’aquile ministre del folgore gli assegnasse in educatrici.

Lasciò scritto Cicerone che in un tempio veneratissìmo vedevasi la statua della Fortuna, dal di cui seno beato suggeva Giove con Giunone il primo alimento; e ninna certamente gli antichi immaginarono nutrice del Tonante più degna.

Secondo alcuni erano così le cure divise: Adrastea lusingava il sonno di Giove; le ninfe Melie, recandolo in seno, lo nutrivano del latte amalteo e del mèle dell’ape, detta Panacri da Callimaco; onde nacque l’opinione, seguita da Virgilio, espressa in un’antichissima gemma veduta dal Bandini.

Protessero l’educazione del nume i Coribanti, che furono detti Cureti ancora, e Dattili Idei, che con celere ed armonica danza movendosi, picchiavano gli scudi per occultarne il vagito.

Così sono rappresentati in due medaglie dei Laodicesi e degli Apamesi di Frigia, destinate ad onorare due imperatori romani, Caracalla e Decio.

Titano si accorse che Giove e i fratelli di lui erano contro il giuramento educati; onde di tale sdegno arse che Saturno e Rea circondò di catene. Udì Giove adulto il fato dei genitori; raccolse gran schiera di soldati cretesi e di stranieri esuli, e nel primo impeto di battaglia debellò i Titani, e ripose sul soglio Opi e Saturno. Innanzi di combattere fece sacrifizio in Nasso, e gli apparve un’aquila, augurio della vittoria futura; perciò volle che sacra gli fosse, e quando, al dir di Orazio, l’esperimento fedele in rapire il biondo Ganimede, su i vaganti uccelli le concesse l’impero. Perciò nei monumenti è sempre posta al destro lato di Giove, e nel Museo Guarnacci si vede un simulacro, ove Giove stesso colla tazza nella destra pasce la regina dei volatili quantunque tal ministero sia dato comunemente a Ganimede nelle antiche sculture. Nel Museo Gherardesca, vedrete Giove assiso sopra ornatissimo trovo, che il destro piede fa posar sull’aquila, quasi base delle sue alte venture.

Non placarono i henefizj del figliuolo 1’ troce animo di Saturno, il quale memore degli oracoli fatali, insidie gli preparava. Giove, avvertito, riunì il primiero esercito, e cercò di aggiungere i Cecropi fallaci, che ricevuti gli stipendj, derisero la fede del giuramento, onde il nume sdegnato in sciinmio li converse.

Giove, nonostante, trionfò del padre; gli tolse il trono, lo avvinse, e piombar lo fece nel Tartaro, dove gli die per custodi Cotto e Briareo. Tanto la sete del regnare poteva ancora negli Dei!

Nè bastò al sire dell’Olimpo questa vendetta: tolse a Saturno il mezzo di generare altri figli. Drepano fu chiamato Corcira dalla falce ministra di quell’ingiuria, a cui deve il suo nascere la madre degli amori.

Favoleggiarono gli antichi che Apollo coronato di lauro e vestito di porpora cantasse dopo la pugna famosa, e coll’eterna armonia della sua cetra e dei suoi versi di incognita e maravigliosa dolcezza così riempisse il cuore dei numi.

Il divino Pindaro colla maestà de’ suoi versi ci dipinge l’aquila, assisa sullo scettro del dio, che l’ale e gli occhi dechina per la dolcezza del suono, e cader lascia dagli artigli la folgore eterna.

E Tibullo disse ad Apollo, alludendo al canto famoso: « Vieni splendido e bello; copriti di veste purpurea, ed ordina bellamente le lunghe chiome: sii tale come quando cantasti lodi a Giove vincitore dopo che fu posto in fuga Saturno. »

Ma col regno di Giove vennero sciagure e delittiPrima la terra non era domata dall’aratro; i limiti non dividevano i campi, che volontarj producevano tutti i frutti. Veleno non avevano i serpenti, nè avidità di sangue i lupi; il mare non aveva procelle. Fuggirono con Saturno questi beni; l’avarizia dominò il cuore de’ mortali, la giustizia e il pudore lasciarono la terra contaminata, nuove strade furono aperte alla morte.

Nè Giove fu sicuro fra tanti iniqui dopo aver dato l’esempio della violenza. Egeone con altri giganti congiurati tentò rapirgli l’occupato trono; Egeone, che contro il fulmine del Saturnio picchiar faceva cento scudi, ed altrettante spade impugnava vomitando per cinquanta bocche le fiamme. Ma non rispose l’evento all’ardire ed alla forza; poiché da Giove fu superato, e sotto l’Etna sepolto; ove, al dir dei poeti, ancora minaccia, quando l’immenso fianco mutando avventa contro il cielo le sue fiam me, fa crollar le caverne di Vulcano e cadere gli stessi fulmini, onde fu vinto, dall’incude dei Ciclopi.

Aveva lo stesso gigante già dato a Giove soccorso contro gli Dei congiurati.

Dopo questa vittoria Giove soggiogò le nazioni dell’Oriente, instituì i re, che secondo Omero, sono la prima cura di lui.

Domò altri giganti dei quali era capitano Tifone che si accamparono nei campi Pallenj in Macedonia e nei Flegrei in Italia, che poscia furono chiamati Cumani. Istituì leggi, vietò l’uso delle carni umane, mostrando ai mortali le ghiande della querce che perciò gli fu sacra, e divise l’universo trionfato con Plutone e Nettuno col mezzo della sorte. Peride Callireuco non ammette questa credenza, considerando che solo le cose eguali si lasciano, e fra gli eguali, all’arbitrio della fortuna; ma la forza e i pensieri perfetti costrinsero i fratelli secondo lui a non invidiargli di possedere il cielo quasi propria sua casa. Lattanzio spiega questa favola istoricamente, asserendo che l’oriente fu di Giove, l’occidente di Plutone, e le regioni marittime di Nettuno.

Non ostante, fu opinione degli antichi che il potere di Giove non solamente al cielo si limitasse, ma che sul mare e sulla terra ancora fosse esteso. E questo triplice dominio credo significassero ponendo un terzo occhio sulla fronte del nume. Così effisriato era Giove Patroo veduto da Pausania nel tempio di Minerva in Corinto. Era fama presso quei cittadini che davanti a quella statua Priamo, nell’eccidio di Troia, tentasse fuggire l’imminente fortuna, ignorando che fra le cure dei vincitori non fu mai la riverenza dei numi.

In qualunque maniera succedesse la divisione dell’universo, Giove, dopo questa, fu tranquillo. Ozio beato regnò nell’Olimpo, e coll’ozio vennero i vizj, che mai sempre furono la ricreazione dei potenti sicuri.

L’amore divenne gran parte della vita di Giove che vestì mille sembianze per deludere il geloso ingegno di Giunone, e macchiando i talami de’mortali, gl’illustrò col vitupero, associando in tal maniera col cielo la terra. Il celebre ratto di Europa che die nome ad una parte del mondo, è fra le segnalate imprese di Giove. Teocrito, ovvero altro greco poeta, lo dà descritto in un Idilio, con tanta grazia e semplicità così bella che vince ogni dire. Uditene la traduzioue che ho tentata, e che sarà copia infelice di così leggiadro originale.

Già Venere ad Europa un caro sogno
Mise allora che l’ombra ultima cade
Alla sorgente aurora, e dolce il sonno
Siede sugli occhi, e con soave nodo
Gli lega e vince le disciolte membra.
Quando dei veri sogni erra la schiera
Per le tacite case, e colle nere
Ali ricopre gli stancati letti,
Allor dormia nelle sublimi stanze
La figlia di Fenice, e le parea
Veramente veder due terre in lite.
Per lei sembianza avean di donna entrambe:
Una è simile a peregrina; ha l’altra
Le patrie foggie, e proteggea la figlia
Dicendo: Io le dièi vita, e questo suolo
Pargoletta toccava, e fu nutrita
Soavemente. Con le forti palme
L’altra invadeva il delicato collo.
Gridando: Europa è dell’Egioco Giove:
Mi fu promessa, ed è fatato il dono.
Sorse tremante dall’aurato letto
La fenicea donzella, e colle incerte
Mani sostenne la pensosa testa,
E il cor le palpitava. Assisa e muta
Stette gran tempo: le due donne ancora
Eran negli occhi. Alfin proruppe: sogni.
Perchè turbate del tranquillo letto
La sicura quiete? e chi dei numi
La vision m’offerse, e chi fu quella
Straniera? oh come amor di lei mi prese !
Quanto m’accolse dolcemente: i lumi
Come in atto amoroso a me rivolse !
Così la mia madre mi guarda. Oh Dei,
Rendetemi quel sogno ! — E così detto,
Dal talamo balzando, andava in traccia
Delle care compagne, ad essa eguali
Per natali ed età; soave scherzo
D’Europa e quando per le danze ornava
La potente bellezza, e allor ch’il bianco
Corpo tergeva nell’Anauro, o i fiori
Come toì^liea la tenerella mano
Agli odorosi prati. Apparver tosto
Le vergini compagne: avea ciascuna
Nelle palme un canestro, e verso il lido
Ivano: qui s’unia la bella schiera,
Perchè amava le rose e del sonante
Mare il fiotto gradito. Europa avea,
(Meraviglia a vedersi) aureo canestro
Opra del dio Vulcano: in dono il diede
A Libia allora che fu sposa al nume
Scotitor della terra: ella alla nuora
Telefuessa lo donò: d’Europa
Presente illustre alfin divenne: in belle
Opre il metallo variato; scolta
V’era Flnachia figlia, e avea sembiante
Di vitelletta, e coi mutati piedi
La misera le salse onde fendea
. Stupidi due la rimiravan. Giove
Soavemente colla man divina
La carezzava: al fianco eragli il Nilo,
Che con sette onde dà tributo al mare.
Tutto d’argento era il niliaco flutto,
Oro era Giove, e bronzo Io: le donava
Forme più care di bellezze eterne
Il nume: del canestro all’orlo estremo
V’era Mercurio effigiato, e presso
L’ucciso Argo, cui preme unica notte
I cento lumi; dal recente sangue
L’augel nascea, che delle occhiute piume
Colla pompa emular sembra le vele
Di nave, che pel mare aperto vola.
Le labbra estreme dell’aurato vaso
Leggiadramente adombra. Era d’Europa
Tale il canestro: giunte erano appena
Le giovinette nei fioriti prati,
Che a vicenda traean vario diletto
Di primavera dai beati alunni.
Chi il soave narciso, e chi del croco
A gara toglie l’odorosa chioma,
Chi le viole e mille e mille fiori,
Memoria e pianto degli eterni numi.
Piovon le foglie in terra, in mezzo stassi
Regina Europa alle donzelle, e sola
Degna le rose colla man divina
Togliere al prato. Fra le Grazie apparve
Così Vener, dell’onde unica lode.
E non a te saran, vergine bella.
Lunga cura i tuoi fiori: e il cinto intatto
Giove ti vede, ed arde. E tu puoi solo
Giove domare, onnipotente amore:
Già medita schivar l’ire gelose
Di Giuno, ed alla tua tenera mente
Tessere, o giovinetta, illustre frode.
Cela ir suo nume, muta forma, è toro:
Non qual si nutre nelle stalle, e il curvo
Aratro trae per le ostinate glebe,
O fra gli armenti pasce, o con domata
Cervice traggo ponderoso carro:
È tutto biondo; della fronte il mezzo
Solo candido cerchio orna e distingue.
Non hanno i glauchi occhi minaccia; amore
Folgoranti gli rende, e sulla fronte
Sorgon le corna, e son fra loro eguali,
Siccome quelle di crescente luna,
Venne sul prato, nè terror la vista
Pose nel core alle donzelle. Ognuna
D’appressarsi s’invoglia, e il mansueto
Amabil toro carezzar, che vince
Coll’alito divino ancor dei prati
La fragranza gentile. Ai pie d’Europa
Incolpata fermossi, a lei lambiva
Il collo, e l’adescava: essa lo palpa
Con la tenera mano, e dalla bocca
Soavemente gli tergea la spuma,
E lo baciava. Ei sì dolce muggia.
Che del flauto Migdonio udire il suono
Giurato avresti. Le ginocchia inchina
Della vergine ai piedi il toro, il collo
Volge, la mira, e il dorso ampio le accenna.
Alle giovini allor dall’ampie treccie
Europa disse: Qua, care compagne,
Qual sia piacere nel seder su questo
Toro: noi tutte accoglier puote il tergo,
Vasto qual nave. Come gli altri tori
Non è per certo: è mansueto e dolce;
Ha senno d’uomo: la favella solo
Gli manca. — Ella così dicea ridendo,
E sopra il toro ascese. Appena il caro
Peso sentia, che salta in piedi, e vola
Al mare. Europa alle dilette amiche
Volgea la faccia e le distese mani:
Ma chi giungere un dio puote? Nel mare
Già balza, e nuota qual delfìn: sull’onde
Delle Nereidi galleggiò la schiera,
Delle balene sopra il dorso assisa.
Lo stesso Ennosigeo l’onde sortite
Spiana all’alto germano, e rìde il mare
Di tanto pegno altero. Anco i Tritoni
Abitatori del veloce flutto
Suonano a nozze la ricurva conca.
Con una mano Europa al lungo corno
S’attien del tauro; coll’altra raccoglie
Della purpurea veste il sottil lembo;
Ma dell’omero eburneo il lin custode
Empie qual vela un venticello. Appare
La vergine più snella, e parte mostra
Del bianco seno, ed ai liberi crini
L’error felice accresce. Allor che lunge
Dalla terra già sua non vide Europa
Più lido e monti, ma di sopra il cielo,
E sotto il mare immenso, intorno intorno
Guatando, disse: Ove mi porti, o dio!
Toro, chi sei? perchè coi duri piedi
Solchi l’umida via, nè temi il mare?
Scorron solo le navi il mare; i tori
Premon le vie dell’Oceano? e come
Avrai qui cibo? sei tu forse un dio?
Ma non opri da nume. In mare il toro
Non cammina, nè può sopra la terra
Far viaggio il delfino; e tu passeggi
Per la terra e pel mare, e non t’anneghi.
Sono l’ugne il tuo remo, e forse ancora
Per l’etere celeste alzato a volo
Emulerai gli augelli. Oh quant’io sono
Sventurata! oh mia casa, oh padre: Io lungi
Da voi, sola, smarrita, in nuova foggia
Navigo: o sommo imperator dell’onde,
Mercè. Che dico? innanzi a me tu sei:
Questa liquida via non senza un dio
Io varco. — Disse, e le rispose il toro:
Fa cor, fanciulla, e del furor dell’onde
Ridi: io son Giove; e l’amor tuo mi fece
Vestir forme di toro; e per te sola
Tanto seritier misuro. E te fra poco,
Creta mia cuna accoglierà; le nostre
Nozze vedranne, e fia sede beata
Di te, madre famosa a figli illustri,
Scettrati regi all’universo intero. —
Disse, e fu fatto, che di Giove i detti
Son fato. Apparve Creta, e spogliò Giove
La mentita sembianza, e sciolse il cinto
Alla donzella, che divenne donna
E chiara madre alla sperata prole.

Lezione ottava.
Gli amori, le trasformazioni, i figli e i terapli di Giove. §

A diverse sembianze favoleggiarono i poeti che sottoponesse la sua divinità il padre degli uomini e degli Dei, onde essere dei suoi amori contento. Dopo le nozze di Meti figlia dell’Oceano, che a mostruoso fato soggiacque, e quella pure di Temi, amore lo prese della sorella; nè la reverenza del sangue comune protesse Giunone delusa. Il pudore vietavagli di manifestare i voti nascosi nel cuore, onde si cangiò in cuculo, e volò nei campi corintj sul colle già detto Tronace, che Coccige quindi, con greco vocabolo, fu per tal motivo chiamato. Tempesta, comandata dal dio che a sua voglia il cielo oscura e rasserena, coperse la terra di unica nuvola: Giunone si rifuggì sull’accennato colle, dove, simulando evitare il furore della procella, venne il finto cuculo, e con ali umide e tremanti si pose sulle ginocchia della dea, che impietosita lo celò nella sua veste. Depose allora il mentito aspetto`. ed a un dio innamorato chi resiste? Dal primo furto di Giove nacquero le Preci, che, al dir d’ Omero, seguono con tardo piede l’ingiuria veloce.

Nè Giove marito si astenne dagli amplessi delle mortali in onta agli sdegni gelosi della moglie. Leda figliuola di Tindaro gli piacque, ed in candido cigno trasformato volò presso lei, fìngendo evitare l’artiglio di un’aquila che sopra gli pendeva. Elena e Polluce nacquero dal primo ovo; Castore e Clitennestra dal secondo; il cigno, ministro alle voluttà del dio, dicesi collocato fra gli astri alla destra mano di Cefeo.

Teocrito vi ha narrato nella passata Lezione il ratto di Europa. x\ggiungerò che Giove ehbe da lei Minosse e Radamanto. Fra le amanti di Giove infelicissima fu Antiope, argomento dei tragici incolti versi di Pacuvio. Costei, fìgha di Nitteo e moglie di Lieo re dei Tebani, fu violata da Giove mutato in Satiro. Il marito, cui non placò l’essere un dio autore della colpa, repudiò la consorte, e le successe nel talamo Dirce, che alle tenebre di una prigione condannò la rivale. Sua propizia fortuna, o di Giove il volere, fé’ che vicina a partorire fuggisse nel Citerone, ove diede alla luce Anfione e Zeto, che adulti, divennero vendicatori dell’ingiuria materna, e pii e scellerati ad un tempo uccisero Lieo e la matrigna.

Nò di minore compassione percuotono il cuore le vicende d’Io, che Ovidio, volgarizzato dall’ Anguillara, vi narrerà nel fine della presente Lezione, Giova intanto compire brevemente la serie dello colpe di Giove, poiché i semidei celebrati dai versi dei greci poeti, dai quali comincia l’istorica Mitologia, devono a queste colpe la gloria dell’origine e la felicità delle imprese.

Calisto, l’emula di Diana, felicissima fra tutte le ninfe (se Giove non le avesse rapito il pudore mentendo le forme della dea, i di cui studj seguiva) diede alla luce Arcade: e la costellazione cui dà il suo nome stancava gli occhi dei greci nocchieri, poiché, come dice Omero, è per essi intatta dai lavacri dell’oceano, cioè non tramonta.

Danae non difesa dalla torre di bronzo (tanta è la possanza dell’oro:) deve a Giove l’esser madre di Perseo, di quel famoso che liberò Andromeda bella, benché bruna pel colore della sua patria.

Argo e Sarpedone (che tanta lode ottenne pugnando sotto le mura d’Ilio) furono figli di Deidamia, da Giove delusa.

Che dirò d’Ercole, prima lode di Giove, che in tante imprese vincitore stancò la fama, ma non l’ire della matrigna? E noto a tutti che tanto figlio ebbe Giove da Alcmena, che ingannò colle sembianze d’Anfitrione marito.

Nè minor vanto di Giove partorì Semole, punita della dimanda superba, poiché celebre al pari d’Ercole è Bacco, che empì l’ Oriente e 1’ Occidente di sua fama, e fu causa d’invidia e di conquiste ad Alessandro.

A questi s’aggiunga Piritoo, tìglio della consorte d’Issione, e che l’ardire e l’amicizia rendono illustre.

Eccovi il catalogo di altri figli meno chiari. Deu calione da lodoma, Britomarte da Carme, Megato da una delle ninfe Sitinidi, Edio padre d’Endimione da Protogenia, Arcesilao e Carlio da Torabia, Colaxe da Ora, Cimo da Birno, e Bardano da Elettra, e i fratelli Palici da Talia.

Nè Giove nelle sue galanterie si dimenticò delle dee. Latona lo fé’ padre di Apollo e Biana, li due occhi del cielo; la bionda Cerere generò da lui Proserpina, per cui tanto pianse ed errò, che col primo sorriso mansuefece la severa mestizia dell’imperatore di Bite. ‘Mnemosine, seco unita nelle spiagge Pierie, diede alla luce le Muse, delizia degli uomini, oblio sicuro delle mortali sciagure.

E Giove non fu meno ambizioso che lascivo, poiché, come. Lattanzio riferisce, sul monte Olimpo abitando, proponeva premj a coloro che d’utili ritrovati arricchissero l’uman genere, e quindi s’arrogava la gloria dell’invenzione. Ma tutto quello che d’isterico hanno preteso di ritrovare gli antichi nelle divinità é per la critica dubbio; e qualora vi sia qualche parte di vero, é colla favola tanto confuso che é impresa ardita ed inutile lo sceverarlo, abbandonandosi alla licenza di congetture difficili ed infelici. Beve render cauti coloro che di mendace fama in traccia non vanno, il vaneggiare di molti illustri, che tanto differiscono nei resultati delle loro ricerche. E a questo fato soggiacer dovevano brancolando nelle tenebre di una religione così diversa per origine, indole, tempo ed uso, che tanto deve alle costumanze, ai bisogni, alle speranze, alle paure, erario dei sacerdoti. Sia d’esempio Giove quanta incertezza regni nella Mitologia, Tre (al dir di Cotta in Cicerone nel suo libro Della Natura degli Dei) erano i Giovi, secondo i teologi. Il primo ed il secondo nati in Arcadia; uno dall’Etere, l’altro dal cielo: il terzo in Creta, figliuolo di Saturno. Ma lo stesso Cicerone mille altri ne nomina e tutte le nazioni sotto nomi diversi, come afferma Eusebio da Cesarea, si disputarono Giove. Nè minor discordia è fra i Classici su cosa fosse Giove. Altri l’aria, altri il fuoco, altri l’etere, altri il cielo, altri il sole. Euripide disse nelle Troadi: « Giove, difficile a conoscersi dai mortali, sei tu la nostra mente o la necessità della natura? » E nelle Supplici: « Giove, perchè i miseri mortali ti chiaman sapiente? è necessità far tua voglia: pendiamo dal tuo cenno. » Ecco Giove confuso col destino.

Abbandonando tanti ‘dubbj e tanta diversità di opinioni, vi parlerò dei templi più famosi di Giove e dei nomi diversi che l’evento, i luoghi e le persone gli diedero, i quali influirono tanto nelle varie maniere colle quali fu dagli antichi rappresentato. Udite intanto come viene da Pausania descritto il tempio di Giove Olimpico nell’Attica. — « Avanti di entrarvi (così favella il mentovato scrittore) conviene dirvi che Adriano imperatore dei Romani l’ha consacrato, ponendovi quella bella statua che converte gli occhi di tutto il mondo, non per la sua grandezza, perchè in Rodi ed in Roma si veggono statue colossali, ma per la sua ricchezza perchè è d’avorio e d’oro, e per la proporzione che vi re gna, in che si dimostra dell’artefice l’eccellenza. Voi vedete in questo tempio due statue dell’imperatore Adriano, fatte di marmo di Taso, e due altre di marmo egiziano. Sulle colonne del tempio sono rappresentate in bronzo tutte le città che gli Ateniesi chiamano colonie di Adriano. Il recinto del tempio è per lo meno di quattro stadj (cinquecento passi geometrici), ed in così lungo circuito voi non trovate luogo che non sia pieno di statue, perchè ciascuna città ha voluto segnare il suo zelo dando un simulacro: ma gli Ateniesi si sono particolarmente distinti col magnifìco colosso che hanno eretto ad Adriano, che è situato dietro il tempio. Contiene tanto spazio molte antichità: un Giove in bronzo, un vecchio tempio di Saturno e Rea, una selva sacra, chiamata bosco di Olimpia. Ivi si vede un’apertura, per la quale le acque scolarono dopo il diluvio di Deucalione. Tutti gli anni praticano di gittarvi una specie di pasta composta di farina di grano e miele. Fra queste antichità io pongo ancora una colonna, su cui è la statua di Socrate, uomo degno di memoria, che alla posterità lasciò tre grandi esempj: il primo di costanza, perchè all’età di novantotto anni non avea cessato d’insegnare e di avere discepoli; il secondo di una modestia rara, che dagli affari pubblici e dalle cure del governo lontano lo tenne; il terzo di amore supremo per la libertà, che attestò essergli più cara della vita, perchè udita la disfatta degli Ateniesi a Cheronea, volontario pose fine alla vita.

« Fa di mestieri porre nella stessa classe quei Persiani di marmo frigio, che sostengono un treppiede di bronzo, e che sono capilavori tanto essi che il treppiede. Del resto, il tempio di Giove Olimpico è antico: si pretende che da Deucalione fosse edificato; ed in prova, la tomba di lui presso il tempio si addita. » Fin qui Pausania. Maggiori particolarità rileva nelle Illustrazioni dei marmi Arimdelliani Prideaux, che osserva come questo tempio era grande quanto quello di Salomone, e minore al solo tempio di Belo che in Babilonia sorgeva. Pisistrato gli die principio: i figli di lui, Ippia ed Ipparco, lo continuarono. Perseo re di Macedonia, Antioco Epifane siro lo accrebbero; la gloria di compirlo e di consacrarlo toccò, come fu detto sopra, ad Adriano. La costruzione e gli ornamenti costarono somme che sembrerebbero incredibili, se s’ignorasse che settecento anni scorsero dalla fondazione al compimento. É vanto per l’Italia che Copuzio Romano fosse l’architetto della navata.

Nè minor pompa spiegava il tempio, che costruito in Elide a Giove, detto pure Olimpico, comandava dei Greci l’ammirazione. La statua del nume era frutto dei trofei riportati dagli abitanti d’Elide sopra i Pisani. Libone Eleo ne fu l’architetto. L’ordine era dorico: colonne ne circondavano l’esterno: il loco, dove era fabbricato, avea la forma di peristilio. L’altezza era di sessantotto piedi, la larghezza di novantacinque, la lunghezza di dugentotrenta. Bellissimo marmo tratto dal monte Pentelieo lo copriva: dal mezzo della volta pendeva una Vittoria di bronzo dorato, e sotto il simulacro di essa stava uno scudo d’oro dove era effigiata Medusa: due conche pur dorate sospese scorgevausi all’estremità della volta accennata. Correr pareva intorno al tempio un cordone, e vi erano affissi ventuno scudi aurei, che da Mummie vincitore furono consacrati al dio. Con solenne artifìcio effigiata era nella facciata anteriore del tempio la pugna di Enomao e di Pelope. Giove stava in mezzo, ed alla destra di lui il re, la consorte Sterope, e l’auriga Mirtillo coi fatati cavalli. Pelope, Ippodamia e lo scudiere tenevano la sinistra. Opera di Peonio erano tutte queste figure. La facciata posteriore rappresentava il combattimento dei Centauri e dei Lapiti nelle nozze di Pirotoo: dalle mani di Alcamene, emulo e scolare di Fidia, erano nate le sembianze famose. Nel interno dell’edifizio scolpita era la caccia del cignale, terrore dell’Erimanto, e le imprese di Ercole contro Diomede e Gerione ed altri mostri, onde fu la terra vendicata e difesa. Sotto due loggie sostenute da due ordini di colonne si arrivava al trono e al simulacro dì Giove, opera di Fidia, che niuno, al dir di Quintiliano, potè emulare; in cui l’oro e l’avorio erano distribuiti con tal lavoro, che la preziosa materia era vinta. Una corona che imitava le foglie di ulivo cingeva la fronte del nume, che nella destra tenea una Vittoria, pure di avorio e di oro, nella sinistra uno scettro mirabile sovrastato dall’aquila. Nei calzari e nel manto di Giove era compreso ogni genere di animali e di fiori. Splendeva per l’oro e per le pietre preziose il trono variato dall’ebano e dall’a vorio e dalle figure di animali diversi: agli angoli vi erano quattro Vittorie che pareano darsi la mano per danzare; altre due stavano ai piedi del nume. I gradiniMalla parte anteriore erano ornati di sfìngi; al di sotto Apollo e Diana miravansi punire nei figli la superbia di Niobe. Le traverse ch’erano ai piedi dello stesso trono, erano di mille figure adornate; in una erano figurati sette vincitori dei giuochi olimpici, nell’altra Ercole che coll’Amazzoni a combattere si prepara. Oltre i gradini del trono, vi erano ancora due colonne che gli erano di sostegno. Finalmente una gran balaustrata dipinta di figure tutta 1’ opera racchiudeva. Paneno fratello di Fidia vi avea ritratto Atlante che sosteneva il cielo, ed Alcide pronto ad ofi’rire gli omeri eguali a tanto peso: Teseo e Piritoo fra i seguaci dell’eroe: il combattimento di lui col leone nemeo: l’attentato d’ Aiace verso Cassandra: Ippodamia con la madre, e mille altri mitologici argomenti. Nel più eminente luogo del trono, sulla testa del simulacro, vi erano le Grazie e le Ore, le une e le altre nel numero di tre.

Nella base di questa macchina Fidia avea scolpito da una parte Giunone, Giove e le Grazie; dall’altra il Sole che guidava l’eterno suo carro. Vi si ammirava Venere, che appena nata dal mare era accolta dall’Amore, e la dea della Persuasione oftVivalo una corona. Nè in questo bassorilievo dimenticati erano Ercole e Minerva, Apollo e Diana,, che con Anfitrite e Nettuno era scolpita pure nel l’estremità, e parea sopra un cavallo correre velocemente. Una cortina di velo tessuto dagli Assirii e tinto dai Fenici: (dono d’Antioco Epifane) si estendeva dalla sommità fino al suolo. Sarebbe lungo annoverare gli splendidi doni di ogni nazione che accresceano la maestà di questo tempio misurato dalla statua e dal trono di Giove. Basterà dirne che dagli antichi, nel loro entusiasmo, questo edifizio fu chiamato Cielo.

Udite da Ovidio, nell’insigne traduzione delFAnguillara, d’ Io infehce le vicende.

« La vide un dì partir dal patrio speco
Giove, e disse ver lei con caldo affetto:
O ben degna di me, chi fìa, che teco
Vorrai bear nel tuo felice letto?
Deh: vieni, o ninfa, fra quest’ombre meco
Che fian oggi per noi dolce ricetto.
Mentre alto è il Sol, che ‘1 suo torrido raggio
Non fesse a tal beltà noia ed oltrasrofio.
E se qualche animai nocivo e strano
Temi, che non t’offenda o ti spaventa.
Non temer, che quel dio vero e soprano,
Ch’ha lo scettro del ciel, mai gliel consenta
Quel dio, che con la sua sicura mano
Il tremendo dal ciel folgore avventa.
Non fuggir, ninfa, a me, che son quell’io
Del ciel signore, e folgorante dio.
Fugge la bella ninfa, e non ascolta;
Ma Giove che d’averla era disposto,
Fé’ nascer una nebbia oscura e folta,
Che con la ninfa il tenesse nascosto;
Qui lei fermata ed ai suoi preghi volta,
Non pensa di partirsi così tosto,
Ma seco quel piacer sì grato prende.
Che quel ch’ama e l’ottien beato rende.

Gli occhi intanto Giunon chinando a terra,
Vide la spessa nebbia in quel contorno,
E che poco terren ricopre e serra,
E ch’in ogni parlar è chiaro il giorno.
Vedendo che nè i fiumi nò la terra
L’han generata, riguardando intorno.
Del marito ha timor, che in ciel non vede,
E conosce i suoi furti e la sua fede.

Noi ritrovando in cielo, è più che certa,
Che sian contro di sé fraudi ed offese:
Discende in terra, e quella nube aperta,
Non se le fé’ quel che credea palese.
Giove, che tal venuta avea scoperta,
Fé’ che la donna un’altra forma prese,
E fé’ la violata ninfa bella
Una matura e candida vitella.
Poi fìnse per diporto e per ristoro.
Andar godendo il bel luogo, ov’egli era;
Giunon con gelosia, con gran martore.
La giovenca mirò sdegnata e altiera;
Pur fìnge e dice: ben felice toro,
Che goderà così leggiadra fera!
Cerca saper qual sia, donde e di cui,
E di che armento, e chi l’ha data a lui.
Per troncar Giove ogni sospetto e guerra,
Che la gelosa già nel suo cor sente.
Perchè non ne cerchi altro, che la terra
L’ha da sé partorita, afferma e mente.
Ella, ch’aver non vuol quel dubbio in terra,
Cerca che voglia a lei farne un presente.
Che farai, Giove? a che risolvi il core?
Quinci il dover ti sprona, e quindi amore.

Troppo è contro il suo fin ch’egli si spoglie
D’una vita si dolce e sì gioiosa.
Ma se nega alla sua sorella e moglie,
Che sospetto darà sì lieve cosa?
Amor vuol ch’ei compiaccia alle sue voglie.
Ma non vuol già la sua moglie ritrosa.
Alfin per torlo allor quel gran sospetto,
Tolse a sé stesso il suo maggior diletto.

Così la dea ben curiosa ottiene
Quel don, che tanto travagliata l’ave:
Nè però tolto quel timor le viene,
Che l’imprime nel cor cura si grave;
Anzi tal gelosia nel cor ritiene.
Che nuovi inganni e nuovi furti pavé;
Onde die il don, che sì l’accora e infesta.
In guardia ad un ch’avea cent’ occhi in testa.

Argo avea nome il lucido pastore,
Che le cose vedea per cento porte.
Gli occhi in giro dormian le debite ore,
E due per volta avean le luci morte;
Gli altri, spargendo il lor chiaro splendore,
Tra lor divisi fean diverse scorte:
Altri avean l’occhio alla giovenca bella,
Altri intorno facean la sentinella.

Ovunque il bel pastor la faccia gira.
Ch’ha di si ricche gemme il capo adorno,
Alla giovenca sua per forza mira,
Perch’egli scuopre ancor di dietro il giorno;
Nè gli è d’uopo, s’altrove ella s’aggira,
Voltar per ben vederla il capo attorno:
Che, se ben dietro a lui si parte o riede,
Dinanzi agii occhi suoi sempre la vede.

Lascia che pasca il dì l’erbose sponde,
Che sparte son nel suo bel patrio regno;
Acque fangose, ed erbe amare e fronde
Le sue vivande sono e’l suo sostegno.
Ma come il Sol nell’Ocean si asconde,
Argo li gitta al collo il laccio indegno.
E le sue piume son dove la serra
a non ben sempre strameggiata terra.

Talvolta l’infelice apre le braccia
Per abbracciar il suo nuovo custode;
Ma col piede bovin da se lo scaccia.
Nò man può ritrovar onde l’annode.

Pregar il vuol che d’ascoltar gli piaccia,
Ma come il suo muggire orribil ode,
Scorre di qua, di là tutto quel sito,
Fuggendo sé medesma e’I suo muggito.
Dove la guida il suo pastor, soggiorna
Pascendo l’erbe fresche e tenerelle;
Alle paterne rive un dì ritorna
Dove giocar solea con le sorelle;
Ma come le sue nuove altere corna
Mira nell’acque cristalline e belle,
S’adombra tutta, e si ritira e mugge,
E mille volte vi si specchia, e fugge.

Le Najadi non san che la vitella,
Che vuol giocar con loro, e le scompiglia.
Sia la perduta lor cara sorella;
Ed Inaco non sa che sia la figlia:
Tutto quel ch’esse fan vuol fare anch’ ella,
Dando a tutti di sé gran meraviglia:
Toccar si lascia, e fugge, e torna a prova.
Come fa il can, ch’il suo patron ritrova.

Mentre scherzando ella s’aggira ed erra,
Il mesto padre suo grato ed umano
Svelle di propria man l’erba di terra,
A lei la porge e mostra di lontano;
Ella s’accosta, e leggermente afferra
L’erba, e poi bacia la paterna mano;
Dentro a sé piange, e direbbe anche forte,
Se potesse parlar, l’empia sua sorte.

Pur fa che il padre (tanto e tanto accenna)
Seguendo lei nel nudo lito scende,
Dove l’unghia sua fessa usa per penna
Per far noto quel mal, che sì l’offende;
Rompe col piede al lito la cotenna
Per dritto, per traverso, e in giro il fende;
E tanto e tanto fa, che mostra scritto
Il suo caso infelice al padre afflitto.

Quando il mìsero padre in terra legge
Che la fìo’lia da lui cercata tanto
E quella, che credeva esser nel gregge
Nascosta sotto a quel hovino manto,
Appena in pie per lo dolor si regge;
Raddoppia il duol, la pena, il grido e il pianto;
Le nuove corna alla sua figlia abbraccia,
Baciando spesso la cangiata faccia.

O dolce figlia mia, che in ogni parte,
Da dove nasce il Sol fin all’occaso,
Già ti cercai, nè mai potei trovarte,
E finalmente or t’ ho trovata a caso;
Figlia, onde il cor per gran duol mi si parte
Mentre ch’io penso al tuo nefando caso:
dolce figlia mia; deh chi t’ha tolto
Il tuo leggiadro e dilicato volto?

Deh: perchè col parlar non mi rispondi,
Ma sol col tuo muggir ti duoli e lagni,
E il mio parlar col tuo muggir confondi,
E col muggito il mio pianto accompagni?
Tu sai dal mio parlar che duol m’abbondi;
Ved’io dal tuo muggir come tu piagni.
Io parlo, e fo quel che si dee fra noi,
Ma tu sol muggi, e fai quel che far puoi.

Ohimè: che le tue nozze io preparava
Far con pompa, con gaudio e con decoro;
Onde nipoti e genero aspettava,
Per la mia vecchia età dolce ristoro.
È questo dunque il ben, ch’io ne sperava?
Dunque ho da darti per marito un toro?
Dunque i vitelli al nostro ceppo ignoti,
I tuoi figli saranno, e i miei nipoti?

Potessi almen finir con la mia morte
L’intenso e dispietato dolor mio,
Che a fin verrei di sì perversa sorte.
Veggo or quanto mi neccia essere dio:
Poich’ai morir mi son chiuse le porte.
Che posso altro per te che dolerm’io?
E mentre rotan le celesti tempre,
Il tristo caso tuo pianger mai sempre?

Mentre il misero vecchio ancor si duole,
E tutte le sue pene in un raccoglie.
Lo stellato pastor, che la rivuole.
Presente il padre la rilega e toglie,
E per diversi pascoli, ove suole
Condurla spesso, la rimena e scioglie;
Egli in cima d’un colle fa soggiorno,
Che scopre la foresta intorno intorno.

Giove non vuol, come ben grato amante,
Ch’in sì gran mal l’amata sua s’invecchi;
Onde al suo figlio e nipote d’Atlante
Commette che contr’Argo ir s’apparecchi:
E perchè non sia più sì vigilante,
Vegga di tor la luce a tanti specchi.
Tosto ei la verga e l’ali e’I pileo appresta
Alle mani ed a’ piedi ed alla testa.

Lasciata l’alta region celeste,
Nella parte più bassa se ne venne,
Dove giunto, mutò sembiante e veste,
E lasciò il suo cappel, lasciò le penne:
Per far dormir le tante luci deste
Sol la potente sua verga ritenne:
E dove è quel pastor il cammin prese,
Che in capo tien tante facelle accese.

Come rozzo pastor gli erra da canto,
Che alle fresche erbe il suo gregge ristora:
E con le canne sue sì dolce canto
Rende, che n’addolcisce il cielo e l’ora.
Or l’occhiuto pastor, che l’ode intanto,
Di sì soavi accenti s’innamora,
E dicea a lui: Qui meco venir puoi,
Ch’avrem grata erba ed ombra il gregge e noi.

Il cauto Dio fa tutto quel che vuole
L’avveduto custode e circospetto,
E col suon dolce e le sagge parole
Cerca addolcirgli il senso e l’intelletto.
D’Argo molti occhi han già perduto il sole,
E forza è che stian chiusi a lor dispetto:
Ma molti ei ne tien desti e gli ritarda,
E con quei vegghia e la giovenca guarda.

Mentre in parte discorre e in parte sogna,
E non dà noia al discorso il sognare,
Col pensier desto di sapere agogna,
E il pastor prega che voglia contare
Come fu ritrovata la sampogna,
Che sì soavemente ei sa sonare.
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Dalla sampogna il suono, e la favella
Dalla sua lingua subito disgiugne;
Con maggior sonno poi gli occhi suggella,
Che con la verga sua toccando aggiugne;
Sfodra la spada sua lucida e bella,
E dove il capo al collo si congiugne,
Fere, e tronca la testa empia e superba,
E macchia del suo sangue i fiori e l’erba.

Argo, tu giaci, e 1 gran lume che avevi
In tanti lumi un sol colpo ti fura;
Tanti occhi, onde vegghiar sempre solevi
Perpetuo sonno or t’addormenta e tura;
E ‘1 dì che più d’ognun chiaro vedevi.
Una infelice e tetra notte oscura:
Solo una man con tuo gran danno e scorno
T’ha tolto i lumi, la vigilia e ‘1 giorno.

Ma la gelosa dea, che gli occhi a terra
Chinava spesso al suo fido pastore
Quando il vide giacer disteso in terra,
E ‘1 capo tronco senza il suo splendore.
E ch’empia morte quei bei lumi serra,
I quai solcano assicurarle il core,
Dal morto capo quei cent’ occhi svelle,
E fa le penne al suo pavon più belle.

Empie di gioie la superba coda
Del suo pavone, e gli occhi che distacca
Dal capo tronco, ivi gl’imprimé e inchioda,
E con mirabìl’arte ve gli attacca.
Tutta arrabbiata poi la lingua snoda:
Dunque, disse, debb’io per questa vacca
Sempre star in sospetto, in pene e in guai,
E non mi debbo risentir giammai?
Non pon già tempo in mezzo alla vendetta.
Ma fa venire una furia infernale
Centra la figlia d’Inaco, ristretta
Dentro alla scorza d’un brutto animale:
Laddove giunta, il corpo e l’alma infetta
Di quella afflitta, e giugne male a male;
E tal furor a lei nell’alma porse,
Che tutto il mondo profuga trascorse.

La spiritata bestia scorre, e passa
Dove il rabbioso suo furor la mena;
E s’ alcun le s’oppon, le corna abbassa,
E ‘1 fa cader dall’aria in su l’arena.
Gli uomini e gii animali urta e fracassa,
Che a tempo a lei non san voltar la schiena:
Tu solo, altero Nil, restavi in terra
A veder la sua rabhia e la sua guerra.

Laddove giunta, prostrata sul lito,
Sol col volto e con gli occhi al ciel s’eresse,
E con un sospirar, con un muggito,
Che veramente parca che piangesse.
Parca che con Giunone e col marito
De’ suoi strani accidenti si dolesse,
E che chiedesse il fin, come innocente,
Del suo doppio martir che prova e sente.

Giove con grato modo e caldo affetto.
Per ammorzare ogni rancore e sdegno.
Che rode alla gelosa moglie il petto,
Per l’acque giura del tartareo regno,
Che mai più non avrà di lei sospetto,
E tenga il giuramento Stigio in pegno:
E prega che placar ornai si voglia,
E torle quella rabbia e quella spoglia.
Udito il giuramento, allegra torna
Giunon, ed Io racquista il primo stato:
Si fan due bionde trecce ambe le corna;
Ogni altro pel da lei toglie commiato:
L’occhio suo come pria picciol ritorna,
Il volto è più che mai giocondo e grato
E tornata che fu l’umana faccia,
I pie dinanzi suoi si fer due braccia.

L’unghia sua fessa di nuovo si fende
D’altri tre fessi, che fan cinque dita;
La man già si disnoda e già s’arrende,
E torna più che mai sciolta e spedita.
Tosto si leva e in alto si distende,
E ferma su due pie tutta la vita:
Mutata tutta in un punto si vede;
E quanto più le par, men ella crede.

Volea parlar per veder s’era quella
Che esser solca, ma temea non muggire:
Apre la bocca al dir, poi la suggella
Per non udir quel che fuggia d’^udire.
S’ arrischia alfin, ma con rotta favella
Tutta dubbiosa sotto voce a dire;
E poi che’l caso suo conobbe espresso,
Il ciel ringraziò del buon successo. »
Metamorfosi, lib. I.

Lezione nona.
Dei cognomi di Giove. §

I nomi che diedero a Giove le nazioni, presso le quali fu adorato, sono di non lieve importanza nella Mitologia, giacché, come ho avuto luogo di riflettere nella passata Lezione, contribuirono non poco sulle maniere diverse nelle quali fu rappresentato; in che’ gran parte ebbero ancora i varii poteri che gli erano attribuiti. Generalmente il simulacro di lui facevasi sedente: nuda n’era la parte superiore, coperta l’inferiore; nella sinistra ponevangli lo scettro, e nella destra l’aquila o la vittoria, come abbiamo veduto nella descrizione del Giove Olimpico. Non ostante questi simboli, infinita varietà vi era nelle statue antiche, come dagli scrittori e dai monumenti si rileva. I Cretesi non davano orecchie a Giove, quattro glie ne attribuivano gli Spartani. Gli Eliopoliti lo effigiarono colla destra armata di sferza, a guisa di auriga, e tenente nella sinistra i fulmini e le spighe, e con sembianze imberbi, quantunque comunemente con virile aspetto usanza fosse il dipinger Giove. L’ulivo e la querce gareggiavano fra loro per ornare la fronte del nume. Ma tutte queste differenze potrete scorgere mentre io, adempiendo al mio scopo, vi tesso il catalogo dei più famosi cognomi dati al figlio di Saturno.

Padre, Re, Ottimo, Massimo, fu da tutti chiamato, poiché nella religione pagana gli era attribuito l’impero del mondo, e l’arbitrio delle sorti mortali.

Col nome di Custode particolarmente adoravasi presso i Romani, ed è nelle medaglie di Nerone ritratto assiso sul soglio, col fulmine nella destra e coir asta nella sinistra. Che dirò del celebrato Giove Capitolino, cui doni mandava il mondo soggetto, che fu venerato in molte greche città, e specialmente in Corinto col nome di Corifeo? E noto che non solo il tetto, ma le pareti erano dorate nel magnifico tempio che sorgeva sul monte, cui die nome ancora Tarpea, della quale vi narrerà la morte Properzio, ingegno sovrano, che col volo della fantasia, col fuoco delle immagini primeggia fra tutti i poeti.

Fulminatore e Folgoratore fu appellato, essendo il fulmine l’arme del Saturnio, e vi alludeva Orazio dicendo: « Nè. la gran mano di Giove fulminante. »

Tonante lo dissero gli Auguri; ed Augusto, dopo la guerra Cantabrica, gii eresse un simulacro nel Campidoglio, di cui Plinio forse favella, commendandolo sopra le altre opere di Leocrate insigne scultore. In alcune medaglie del nominato imperatore vi è l’iscrizione di Giove Tonante.

Molte sono l’etimologie del cognome Feretrio dato a Giove: io, non invidiando queste dispute ai grammatici, dirò che vi consacrarono opime spoglie Romolo, Cornelio Cosso, e Marco Marcello uccisore di Viridomaro re dei Galli.

Perchè Giove fosse chiamato Statore Tito Livio lo insegna, riportando queste parole pronunziate da Romolo, mentre i suoi cedevano; — Padre desili uomini e degli Dei, qui almeno respingi i nemici, togli il terrore ai Romani, arresta la fuga vergognosa: in questo luogo stesso io ti prometto sotto il nome di Giove Statore un monumento, che ai posteri attesti che col tuo presente soccorso hai Roma salvata. — In alcune antiche medaglie, specialmente in quelle di Antonino Pio e di Gordiano, scorgesi nel rovescio un’immagine nuda in piedi, appoggiata colla destra sopra un’asta, e col fulmine nella sinistra, e vi si legge inscritto: A Giove Statore. Vitruvio nel terzo libro, degli edifizi peritteri ragionando, ne avverte che di tal genere era il tempio di Giove Statore nel portico di Metello.

Onorato era presso i Romani Giove Lapideo. Così chiamavasi per la pietra che adoperavano nel giuramento, di cui ci ha conservato memoria Polibio nella guerra fra i Romani ed i Cartaginesi. Eccone la formula e il modo:

« Se rettamente, e senza inganno io faccio questa alleanza mi concedano ogni felicità gli Dei: se altrimenti opero e penso, salvi tutti gli altri in onta delle patrie leggi, perisca io nei proprj lari, nei proprj templi, nei proprj sepolcri, e vada in pezzi come questo sasso che cade dalla mia mano. » — Queste cose il Megalopolitano. E Livio asserisce che così giuravano i Cartaginesi, e ci mostra Annibale che nella sinistra afferrando un agnello, nella destra una pietra, chiama in testimonj delle sue promesse Giove e gli Dei spergiurati.

Di Giove Pistore fu l’ara nel Campidoglio, perche ai Romani assediati dai Galli fama era che avesse consigliato di gettare del pane negli accampamenti di Brenne, onde togliergli la speranza di vincere i Romani col mezzo della fame. È opinione di alcuni, ma ridicola, che la statua detta Marforio sia il simulacro di Giove Pistore.

Pistio dai Greci, Fidio, Santo e Sango dai Romani, fu nominato Giove, e sopra un marmo dice averlo così veduto scolpito Lilio Giraldi nella figura di due ingenui fanciulli in mezzo a due figure, una virile detta Onore, 1’ altra muliebre su cui si leggeva Verità: come simulacro, di Fidio inscritto era sulla testa dei fanciulli.

Giove Pluvio ricorda Pausania, Furnuto, ed il commentatore di Pindaro: i Pagani gli attribuirono quel miracolo che fece il Redentore per le preghiere di una legione cristiana. Gli Ateniesi con questo nome l’adorarono nell’Inietto; ed Aquilicia, ci accenna Tertulliano nell’Apologia, furono chiamate lo cerimonie instituitegli dalla superstizione feconda in delirj. Tibullo cantò: « L’arida erba non prega il Pluvio Giove. »

Elicio, dal chiamare i fulmini, fu detto il Giove dell’Aventino: questa scienza fu posseduta, secondo gli storici, da Numa; e Dutens, così liberale per gli antichi, scorge in questo re un conoscitore solenne dell’elettricismo. Nè deve passarsi sotto silenzio Giove Vimineo, che diede, o più probabilmente ebbe nome da un colle di Roma, dove fra i vimini l’antica semplicità altari gli eresse.

Sacra era la vendetta per gli uomini innanzi che l’Evangelo insegnasse la sublime scienza del perdono, onde Giove Vendicatore ebbe adorazioni dai Romani; e da Agrippa, al dir di Plinio, il Panteon gli fu consacrato. Museo disse: « Ha Giove occhi vendicatori. »

Eccovi quasi esausta la serie dei cognomi che il padre degli uomini e degli Dei ebbe presso i Latini ed i Romani. Ora mi rivolgo a quelli che presso i Greci e presso i barbari ottenne. Sarò breve, e per quanto sarà in mio potere, alleggerirò la noia di queste ricerche, nelle quali l’utilità difficilmente può mescolarsi col diletto.

Assai di Giove Olimpico. Da Ida, e Ditte, monti di Creta, fu nominato Ideo, Ditteo. Egioco, secondo alcuni, si disse dai turbini, ma più comunemente dall’egida che Omero descrive, e che sortì questo nome dalla pelle della capra Amaltea. Del titolo di Patroo dato al dio, e della maniera colla quale fìguravasi, vi fece in un’altra Lezione saggi Pausania, che lasciò scritto che Priamo davanti a questo simulacro fu ucciso da Pirro, immemore della pietà paterna. Fu anche chiamato Panonteo, perchè il nome di lui volava nelle bocche di tutti i mortali. Carco della sua altezza lo cognominò la Beozia, ed Ascreo dal monte, sacro pure alle Muse, Plutarco. Giove Espiatore commemorò Erodoto, e chi era macchiato del sangue degli amici e dei parenti ne abbracciava l’altare che in Olimpia, al dir di Pausania, sorgeva.

Con somma religione Giove ospitale, o Xenio, riguardavasi, e Virgilio cantò: « Giove che sacri diritti agli ospiti concedi. »

Nè può omettersi il cognome che gli dava Dodona, celebre selva, ove le Caonie colombe volando, al dir dei poeti, presagivano il futuro. Un equivoco della lingua fenicia, nella quale colomba suona lo stesso che sacerdotessa., ha la favola originata.

E dove lascio l’antro di Trofonio che diede a Giove l’oracolo e il nome? Frequente menzione ne fanno gli antichi. Tullio, Pausania, Luciano, e Filostrato nella vita dell’impostore Apollonio Tianeo. Giove Epidoto, cioè datore di beni, onorò Sparta severa. Giove Polieo, o custode delle città, Atene ingegnosa, Panellenio, o comune a tutti i Greci, fu cognominato, e famoso tempio gli edificò Adriano. Sotto il nome di Aratrio lo adorarono i Fenici i. Ammone fu detto nell’Affrica dall’arena, ed è noto che avea le corna d’ariete, e Lucano ci ha conservato le alte parole e degne d’un nume che rispose a Labieno Catone, quando fu pregato di interrogarne l’oracolo sugli eventi futuri. Assabino fu detto Giove dagli Arabi; Ermontide dagli Egiziani dalla città di Ermonto. Con Belo fu confuso dagli Assiri, benché sia più probabile che sotto questo nome anticamente adorassero il Sole.

Pongo fine e questo lungo catalogo leggendovi la descrizione che del Giove del Museo Pio dementino, detto forse dagli antichi Milichio, cioè propizio, ha data il padre del famoso Ennio Quirino Visconti, che secondo il parere di molti si giovò totalmente dei lumi del figlio. A questa succederà la promessa Elegia di Properzio, che ho tradotta, quantunque disperi che le straordinarie bellezze di cui ridonda possano in altra lingua trasportarsi.

« Il più bel simulacro di Giove che ne abbia, come si esprime Visconti, lasciata l’arte e la religion degli antichi, è nel Museo Pio dementino, dove questa divinità è siffattamente effigiata che sembra accostarsi all’idea che n’ebbero le nazioni pagane. Siede egli qual si conviene a sovrano. Ha l’aquila ministra presso di se; ed appoggiandosi colla manca allo scettro, sostiene ora colla destra posata alle ginocchia il fulmine, sua arme. Ma il placido e sereno contegno del volto espresso in quell’aria,

« …qua coslum tempestatesque serenat, »

può farci credere che invece del fulmine reggesse, come divinità propizia, una patera in atto di gradire e ricever le offerte, come il Giove Custode nelle monete di Nerone, o la Vittoria, come il Vin citore in quelle di Domiziano, e come ancor le tre Grazie che adornavano il trono del Giove di Fidia in Olimpia, e vedonsi in mano di Giunone in una rara medaglia mezzana, di Faustina giuniore, del Museo Albani, e finalmente le Ore, o Stagioni, come in un medaglione di Commodo in Vaticano. Il capo, a cui servono d’ornamento la barba e i capelli inanellati, è lievemente inchinato quasi in attudine di concedere. Fu disegnata dal celebre LeBrun fra i più bei monumenti di Roma, e ne fu disotterrata una copia in piccolo, presso Corinto, da un viaggiatore inglese che la reputò un Nettuno Ismico. »

Tarpea.

Dirò la selva alla Tarpea donzella
Infamia e nome, e dell’antico Giove
Le schiave soglie. — Nel felice bosco
Sorge un antro ederoso, e col nativo
Fonte si ascolta mormorar le frondi,
Casa a Silvano; all’assetate agnelle
Qui le dolci acque comandar solea
La loquace zampogna. Or d’alto vallo
Tazio le cinse, e con la fida terra
Fece al campo corona. Altera Roma,
Che fosti allor che la guerriera tromba
Crollava i sassi del tuo Giove, e quando
L’aste sabine nel Romano foro,
Ove or dai leggi al trionfato mondo.
Stavano, e le tue mura erano i monti:
Nasceva il rivo ove è la Curia; il bevve
Di sudor generoso ancor fumante
Il destrier di battaglia. All’acque il piede
Tarpea volgeva: al delicato capo
Peso era l’urna, onde libava a Vesta,
Quando mirò nell’arenoso campo
Ambir l’onore della polve prima
Tazio, e sopra le varie armi dipinte
Le bionde chiome libere dall’elmo,
Spesso ondeggiando far velo alla faccia
Bella nell’ira ancor. Stupida. mira
L’armi diverse e la regal sembianza
Tarpea. — Già l’urna che appressava al fonte
Dall’immemore man le cade: il biondo
Crine desia, la luna incolpa, e tinge
Nel fiume i crini, e quante volte i gigli
Alle ninfe custodi offrendo disse:
Ah non offenda mai l’asta romana
Al mio Tazio il bel volto; — e allor che il primo
Fumo scorgea sulla città levarsi,
Salia sul Campidoglio. Eran di sangue,
(Tanta è l’offesa degli irsuti pruni)
Tinte le bianche braccio, e dalla sua
Rocca piangendo, gli infelici amori,
Onta e furore del vicino Giove,
Così spiegava; fortunato foco.
Che del mio Tazio a me le schiere insegni:
O belle agli occhi miei tende sabine:
Ahi, voglia il ciel che nuova preda ai vostri
Penati io venga, e del mio Tazio sia
Prigioniera felice: Addio romani
Monti, addio Roma, addio Vesta che infama
La mia vergogna. Ah quel destrier. Sabini,
Datemi quel destrier stesso che porge
Volontaria la bocca al fren beato:
Del signor vostro all’amor mio nel campo
Darà fìae e riposo. Adesso io scuso
Scilla crudele alla paterna chioma,
Onde latra il bel corpo, e l’onda freme,
E te fanciulla, che il fraterno mostro
Un dì tradisti col seguace filo,
Famoso inganno del Dedaleo errore.
All’ausonie donzelle io sarò colpa
Empia ministra del virgineo foco,
E di quell’ara che il mio pianto irriga.
Diman si pugna, ed è pubblico grido.
Del difficile giogo occupa il tergo
Rugiadoso: è la via lubrica, infida,
E tacit’acque nel confìn fallace
Nasconde. Aiuto di potenti carmi
Io vorrei darti, o bello; a te conviene
La pinta toga, e non a chi nutria
Il fero latte d’inumana lupa,
Rossor materno. Ospite, ovver regina,
Della tua prole arricchirò la reggia:
Non umil dote, la tradita Roma
Ti porto. Ahi: tu delle rapite donne
Compensa i danni con ingiuria alterna,
E me rapisci: alle cognate squadre
Io nel mezzo starò con questo petto;
Partirò le ire, ed unirò le destre,
Scosse le spade: tacerà la tromba
Di guerra, e canterai tu solo Imene,
E sparse intorno al mio felice letto
Giaceran l’armi: ma la quarta volta
Odo lo squillo del vicino giorno
Nunzio, e nel mare cadono gli stanchi
Astri: provar ti voglio, o caro sonno,
E ai scorni chiederò del mio diletto.
Vieni agli stanchi lumi ombra benigna. —
Disse, e a quiete incerta alfin permette
Le membra, e dorme a nuove furie in braccio
Vesta, tutela dell’Iliaco foco,
Nutre la colpa, e fiamma a fiamma aggiunge.
Precipita Tarpea, qual col reciso
Petto sen balza l’amazzonia schiera
Sul Termodonte. Il giorno era che a Pale
L’ebra turba consacra inni e conviti,
E sopra i mucchi dell’acceso fieno
Volar gli immondi cibi. Ozi decreta
Romolo alle sue schiere: è muto il campo.
Coglie il tempo Tarpea: già nell’ostili
Tende penetra: qui del monte insegna
L’ignoto calle, e col fatai nemico
Lega la fede dell’iniquo patto.
Tazio non tardo, i vigilanti cani
Occupa colla spada: è tutto al sonno
In preda. Giove, per la tua vendetta
Vegli tu solo: Avea Tarpea tradito
La sicurtà delle fidate porte,
E la patria cadente, e fisso il giorno
Alle nozze sperate: onor non diede
Tazio alla colpa, e fur l’armi sabine
Alla vergin Tarpea morte e sepolcro.
Al regio letto in questo modo ascese
Chi le fiamme ingannar tentò di Vesta.
E fu data la morte al tradimento.
Properzio, Elegie.

Lezione decima.
Giunone. §

Argo e Samo gareggiarono per l’onore di esser patria a Giunone, regina degli Dei, consorte e sorella del Tonante. La prima città colla testimonianza di Omero dà forza alle sue ragioni; la seconda op pone il grido volgare, gli annui sacrifizii, e l’auto rità di non meno venerati scrittori. Contento d’ indi care la lite e le armi degli avversarli, parlerò pri ma delle gesta della dea, quindi dei simboli coi quali era rappresentata a tenore dei nomi e degli attributi diversi che l’antica credulità le concesse

Nacque ad un parto con Giove, ma il timore ma terno non la celò al genitore, perchè questi avea patteggiato coi Titani solamente la morte dei maschi: che nulla da femmine imbelli potevan temere quegli animosi che appena il fulmine vinse, e che vinti minacciavano dalle ruine. La cura di educare la divina fanciulla fu affidata ad Eubea, Prosimna ed Acrea, figliuole del fiume Asterione, come lasciò scritto nel suo Viaggio corintiaco Pausania, che nell arcadico sembra contradirsi, dicendo che da Temeno fu educata. Ole antichissimo poeta, attribuì questa gloria alle Ore: Ovidio nelle Metamorfosi alle figlie dell’Oceano; e questa opinione si avvicina a quella di Omero, ove Giunone andando a visitare Teti, l’Oceano dice che nelle loro case già fu da essi beatamente nutrita. In questa diversità di nutrici e di patria, la fortuna della dea a quella di Giove rassomiglia.

È inutile il ripetervi a quale inganno dovesse Giunone il divenir moglie del proprio fratello: aggiungerò solamente che vi alludevano gli Argivi, onorando un simulacro di lei assiso sul trono, e collo scettro su cui posava il cuculo, ministro della frode amorosa.

I figli più illustri della diva sono Marte, Vulcano ed Ebe: i più oscuri, Arge, lUitia e le Preghiere. A ninna fra le immortali piacquero maggiormente i litigii, ed a dritto, dissero i poeti, partorì Marte, supremo danno, e cagione perenne di lacrime al genere umano. Gran scusa alla collera di Giunone erano i continui furti di Giove; i quali sempre ingiustamente puniva nelle donne deluse, nei figli innocenti, e nelle intere nazioni presso le quali erano nati. Ercole, più felice, quantunque esercitato in mille imprese dall’odio della matrigna, fu debitore dell’immortalità all’inimicizia famosa. Favoleggiarono gli antichi che lo sdegno di Giunone andasse tant’ oltre che fuggitasi nella Eubea, non poteva dal suo ritiro toglierla veruna promessa del ravveduto marito. Il consiglio di Giove non trovava mezzi di placarla. Citerone, re dei Plateensi, il più astuto dei mortali, persuase al dio di fabbricare un simulacro di legno, e dopo averlo ornato delle più splendide spoglie collocarlo sopra un carro, spargendo al tempo stesso la fama delle sue nozze con Platea figlia di Asopo. Prestò lede Giunone alla falsa novella: accecata dal furore corse al plaustro, si avventò sulla creduta rivale, ed avendola riconosciuta per una statua, terminò col riso l’ordita frode, e ne fu frutto la desiderata riconciliazione. La gelosia non la difese dagl’inganni: mentre dormiva, Pallade, o Giove secondo altri, le accostò al petto Alcide bambino, che succhiò il primo alimento dalla sua nemica, che svegliata scosse l’odiato fanciullo; onde fìnsero gli antichi che il latte parte scorrendo pel cielo ne colorisse quel lato cui dà il nome, e parte scorrendo per la terra mutasse dei gigli già crocei il colore. Ercole adulto ferì lo stesso seno da cui fu nutrito, come Omero nel quinto libro dell’Iliade lasciò scritto.

Venerata con somma religione era specialmente la divinità di lei in Sparta, in Argo, in Micene, quantunque ancora presso gli abitanti di Elide fossero stabiliti per ogni quinto anno giuochi, nei quali le donne si disputavano la palma per la celerità maggiore nel corso. Le più provette fra queste potevano ancora nell’olimpico agone presentarsi ad ambire la gloria dei piedi veloci negli stadii minori.

Sacra era a Giunone la vacca, perchè quando la paura dei giganti costrinse gli Dei a fuggire nell’Egitto, prescelse la dea questa forma per celare le sue sembianze. Col sangue di un’agnella le propiziavano, a tenore di una legge di Numa, le donne famose per impudicizia che avessero osato di profanare il tempio colla loro presenza.

Devote pure le erano le oche ed il pavone; le prime perchè dell’aria (che reputavasi dagli antichi lo stesso che Giunone) sentono il più piccolo cangiamento: il secondo, perchè nacque, al dir dei Mitologi, dalla morte di Argo, cui fu inutile la vigilia dei cento lumi coi quali custodiva la misera Io. Una delle più grandi disavventure di Giunone fu l’essere sospesa alla volta dell’etere dal prepotente marito, mentre due incudini alle candide braccia erano catena. Niuno degli Dei potè liberarla; solo Vulcano lo ardì: il padre lo precipitò dell’Olimpo, e dopo aver percorso vasto spazio, Lenno pose fine alla sua caduta, e i pietosi cittadini aiutarono il dio, cui l’infermo piede i passi ritardava.

Ancelle di Giunone furono quattordici ninfe, ma prevalevasi sopra tutte d’Iride, e lo accennò VirgiHo quando dalla dea, pietosa per la misera Didone, fu inviata a troncarle il crine, fatale indugio alla morte cercata.

Eccovi esposto quello che intorno a Giunone immaginato fa dai poeti e dai teologi, dai quali fu coll’aria confusa.

I simboli co’ quali effigiavasi furono diversi, secondo i luoghi, gli attributi ed i nomi. I più comuni avrete nella descrizione della Giunone del Museo Pio Clementino. Degli altri, favelleremo in appresso.

« Nè l’immagine fedelmente espressa dal marmo (così il Visconti), nè quanto possiamo dire di questa eccellente statua quasi colossale dell’altezza di palmi tredici, può farne al giusto comprendere tutto il merito. E certamente una delle più perfette statue vestite, che ci rimanga dell’antichità, e la conservazione e l’integrità ne aumentano il pregio, non mancandovi che le sole braccia ch’erano già riportate in antico.

« Siccome l’aria del volto, l’ornato della testa, la grandiosità dell’abito e della positura ce la fan riconoscere facilmente per Giunone, così ci resta molto più sensibile la perdita delle braccia, nelle quali il greco artefice avrà gareggiato sicuramente con Omero per esprimerne la bellezza, pregio singolare di questa dea sopranominata costantemente λευκώλενος; dalle bianche braccia. Le medaglie e gli altri monumenti antichi c’insegnano facilmente ciò che dovea sostenere; la patera, cioè, e lo scettro, simboli consueti della regina degli Dei. L’elevazione indicata del braccio sinistro, e la soave inclinazione del capo verso la destra, non lasciano dubitare nè dell’azione della figura, nè della convenienza degli accennati attributi. Se si consideri l’arte, tutto in questo simulacro è interessante e mirabile. La grazia dei contorni, la bellezza e la maestà de’ grandi occhi, onde Giunone fu appellata βοωπις, occhi di bue, l’eleganza e la gentilezza dei panneggiamenti, la finitezza del lavoro in ogni minima parte ce la danno per un’opera di un grande artefice della Grecia. Se non ci mancassero troppi dati per ve rificarne l’identità, si potrebbe dire cbe fosse quella stessa di Prassitele, che si ammirava nel tempio di Platea in piedi appunto, e molto maggior del naturale. Ma ora nè possiamo distinguere con precisione la maniera di quel gran maestro, delle cui opere non conosciamo che alcune copie per plausibile congettura, nè sappiamo la provenienza della statua da tempi remoti. Ci é soltanto noto, che fu nel passato secolo, cioè nel 600, disotterrata sotto il Monastero di San Lorenzo in Panisperna, ove collocano i topografi di Roma le Terme d’Olimpiade, personaggio incerto, in uno scavo intrapreso per ordine del cardinale Barberini, e diretto da Leonardo Agostini antiquario. Dalla similitudine del diadema con quello che si osserva in alcune medaglie sulla testa della Giustizia, creduta esprimere il ritratto di Livia, col nome di questa prima Augusta, fu contradistinta, non riflettendosi che la bellezza sublime dei lineamenti del volto lungi dall’indicarci qualche ritratto, ci mostra una fisonomia affatto ideale, che non combina coli’ immagini più sicure di quell’Augusta, e che lo stile stesso della scultura reclama un secolo assai più remoto. Certamente se si considera lo stile della testa, ci ravviseremo un non so che di quel quadrato, secondo la frase di Varrone, rammentato da Plinio; e se si fa riflessione alla maniera nella quale é trattato il panneggiamento, vedremo nella caduta della drapperia sul fianco sinistro un serpeggiamento, o successione di pieghe uniformi, solita osservarsi nei monumenti di quello stile più antico che noi chia miamo etrusco. Questi caratteri ci danno il tempo di questa scultura per molto remoto, e per quello appunto, in cui l’arte essendo giunta sotto Prassitele alla maggior perfezione, conservava ancora qualche traccia della maniera più antica che l’avea preceduta, come appunto nelle pitture di Raffaello si ravvisano talvolta i vestigi delle maniere usate nelle scuole dei più abili quattrocentisti. Nè meno che per la scultura è osservabile questo marmo nobilissimo per ciò che può avere relazione alle antiche costumanze. Notabile è l’ornamento del capo gentilmente ripiegato al dinanzi. Questa specie di corone, dette volgarmente diademi, erano appunto di quelle usate dalle donne greche, chiamate στεφαναι, e coronœ dai Latini. Il nome però più particolare di queste si fatte, che sorgono verso il mezzo e vanno decrescendo nei lati, ci è stato conservato da Polluce, e più precisamente da Eustazio, che così lo descrive. — Dicono gli antichi che la sfendone è un ornamento femminile, così detto per la similitudine colla fionda da lanciare, perchè anch’esso è largo nel mezzo, o nella parte che resta sopra la fronte, più stretto e sottile verso le estremità, per le quali si lega dietro la testa. — La esatta descrizione di un ornato che si vede sul capo di tante statue e busti muliebri, senz’essere mai stato bastantemente illustrato, mi è sembrato meritare un poco di riflessione. Lo meritano ancora le crespe della tonaca, e il lembo della sopraveste, su cui si scorge un riporto aggiuntovi per abbellimento. Le prime στλιόες dai Greci appallavansi, e le vesti così pieghettate στολιδωτοι, e di una di queste così pieghettate fa menzione Senofonte. Osserva Polluce che solevano esser di lino, e che col tenerle piegate si obbligavano a prendere simili piegature. La guarnizione del lembo era detta dai Greci πεϛα:, instita o segmentum dai Latini; onde poi si trovano menzionate dai Romani segmentatœ vestes. Era questo presso i Romani distintivo delle gentildonne e delle matrone, onde ben conviensi a una dea che era chiamata dai Gentili Magni Matrona Tonantis. »

Omero, tradotto dal celebre Cesarotti, vi mostrerà la dea che col cinto di Venere accresce la sua eterna bellezza per distogliere col piacere Giove dalle cure, onde ritardava il fato d’Ilio, che maggiore rinacque dalle rovine,

«……………………………………… E tosto
S’avvia colà dove in eburnea cella,
Nido d’ogni delizia, accoglie e serba
Tutti i tesori suoi. Spiccan tra questi
Due preziosi arnesi: e primo un cinto.
Cinto d’inenarrabile testura.
Di portenti fecondo: alle sue fila
Invisibili al guardo errano intorno
Quai susurranti pecchie a’ fiori estivi
Tutti i Genii d’Amore, i cari Vezzi,
Gli accorti Cenni, il tenero Sorriso,
E’I Desio tutto foco, e la Repulsa,
Dolce ritrosa che negando invita,
E ‘1 Silenzio che chiede, e ‘1 bel Mistero
Col dito in su le labbra, e la soave
Sospirosetta amabile Tristezza,
E i vaghi Sdegni, e le animate Paci,
E i molli Scherzi, e Voluttà spirante
Ebbrezza di delizia, e quanto alfine
Forma il senso inefFabbile, per cui
Delira il saggio e s’incatena il forte.
Placido e lento e con soave forza
Nè certa men tocca lo spirto, e al core
Scende e l’allaccia in dolce nodo e saldo
L’amor, che l’altro portentoso arnese
Di Ciprigna diffonde. Un vago è questo
Monil, che tolte dall’Eoe conchiglie
Formar candide bacche, a cui frammisto
Fulgido elettro de’ suoi rai l’asperge.
Tra ‘1 scintillar di quei raggianti lampi
Mezzo ascoste traspaiono a vicenda
Celesti forme: tenera Amistade,
Che più che in sé vive in altrui; l’ignudo
Non fucato Candor; di sé sicura
Nobil Fiducia che alla fede invita;
E l’ingenuo Pudore, amabil velo
Di compresso desio; di nebbie sgombra
Placida Ilarità; Dolcezza umile
Che l’ire ammorza, e Sofferenza accorta
Che i tempi esplora, e di contrasti ignara
Condiscendenza, che alle proprie voglie
Cede così che delle altrui s’indonna.
Grazie decenti. Atti gentili, e quelle
Arti celesti che dal bello han nome
E son alma del bel, gli acconci Detti
E i soavi Colloquìi, e quanto accorda
Col Piacer la Ragione, e d’alma e spirto
Mesce i diletti a quell’ardor, che senza
Leggiadra ésca vital langue e si spegne.
Con tai due nuove e di diversa tempra
Arti, che all’uopo adattamente appresta,
Tutto vince la dea: del cinto armata
Marte fé’ schiavo, e del monile adorna
Vide al suo piede il già pentito sposo
Chieder gemendo de’ suoi proprii oltraggi,
Quasi di proprie colpe, a lei perdono.
Con questo a Giuno ella ritorna; e, prendi,
Disse, ecco ciò che più t’è d’uopo: il collo
Tu ne circonda, e checché brami o tenti
Certa sii d’ottener. De’ tuoi trionfi
Godo al par che de’ miei; nè del mio zelo
Chieggo mercé: solo Giunon rammenti
Che vive in Troia un figlio mio. — Sorride
Giuno cortese accortamente, e ratto
Di là si toglie. Le Pierie piaggie
Pria trasvolando e gli ubertosi paschi
Della florida Emazia, il corso volse
Dell’erma Tracia alle pendici alpestri,
Seffsrio eterno di nevi: indi sul dorso
Poggia dell’Ida; al Gargare sublime
Lieta s’avanza, ed improvvisa al guardo
S’appresenta di Giove. In lei s’affisa
Muto il gran Nume, e nel suo volto ammira
Un fior di leggiadrissima beltade,
Che di dolcezza insolita l’inonda.
Quasi dessa non pargli, e al par sorpreso
Di lei, di se: Tu qui dal ciel? domanda,
Compagna amata, e che ti guida? — sposo,
(Tinta le guance d’un rossor gentile
La dea rispose) ohimè: poss’io divisa
Dalle tue braccia, e del tuo affetto incerta
Così a lungo restar? Troppo mi punge
La memoria del fallo a cui mi trasse
Sconsigliata pietà, troppo m’ è grave
L’ombra sol del tuo sdegno: in te rispetto.
Adoro in te quanto d’augusto e caro
Può darmi il ciel; tu mia delizia e vanto;
Sposo insieme e german, sovrano e nume.
Tutto mi sei. Se i dolorosi Greci
Salvi bramai (nè sola io già), se giusta
La lor causa credendo, osai talvolta
Col mio zelo spiacerti, il mio rimorso
Assai ti vendicò, punimmi assai Un girar del tuo ciglio.
Il so, del mondo, De’ mortali la cura alla tua mente
Commise il Fato; il tuo volere è legge.
Giustizia arcana il tuo consiglio; io cedo:
La mia pietà, la mia ragione audace
Nel petto affogherò, da te discorde
Non sarò mai pur d’un pensiero: il giuro
Pel capo tuo, per quell’augusto letto
Conscio della mia fé, che mai non seppi
Nè profanar nè spergiurar: prescrivi.
Ecco l’ancella tua; solo mi rendi.
Rendimi l’amor tuo, torna il mio Giove;
No, dal tuo cor non discacciarmi — E dolce.
Mentre sì parla, due vezzose stille

Brillan sugali occhi. Ai lusino’hieri sensi.
All’atto umile, alla piacevol voce,
Ai cari vezzi già l’arcana forza
Dell’ arnese di Venere serpeggia
Soavemente a Giove in sen; già tutta
La trascorre con l’occhio e in lei si pasce.
Per man la prende, e: Sì, dice, vincesti,
Tuo ritorno, son tuo: che ignota forza
Esce da te, dai detti tuoi: qual nova
Spezie di bello in te risplende, e tutto
M’empie lo spirto e ‘1 cor: No dea, no donna
Non fu giammai, che con sì cara e degna
Seduzion mi risvegliasse in petto
Così tenero amor. — Scherzi, riprese
Sospirosetta con sogghigno accorto,
Scherzi o t’infinofi: e che? t’uscir di mente
La candida Latona, e Cerer bionda,
Semole, Alcmena, e Leda, e Danae, e…? — Taci,
L’interruppe commosso, a che richiami
Obliate memorie? oh fossi ognora
Stata qual sei, che dal tuo sen divelto
Altro mai non m’avria. Non rinfacciarmi
Terreni affetti: al solo ben del mondo
Dati fur quegli amplessi, onde temprasse
Divino seme de’ mortali i danni
Con celesti virtù: la terra a questi
Deve Alcide, e Polluce, e Perseo, e Bacco,
Veraci eroi che di tiranni e mostri
Purgar cittadi e disertar foreste.
Ma ciò già fu; te mia compagna e sposa
Volle il destin: sopra ogni dea t’esalta
Il nodo che ne stringe, esempio augusto
Dei solenni Imenei, figura e pegno
Di quel nesso vivifico, che cielo
Con terra innesta, e l’universo attempra.
Non un afi’etto sol, di tutti è un misto
Quel ch’io sento per te: lievi faville
Fur l’altre e vane; un sacro fuoco è questo
Ch’alma e sensi m’investe. Il giorno istesso
Che colsi il fior di tua beltà non arsi
Di tale ardor; vieni al mio sen. — Tacendo
Cade la dea fra le sue braccia: intorno
Poi gira il guardo timidetta, e sembra
Dell’altrui paventar. — Deponi, o cara,
L’importuno sospetto (impaziente
Ripiglia il re del cielo): occhio profano
Di nume, o di mortai non fìa che turbi
Le nostre gioie: inaccessibil velo
Anche al guardo del sol farà riparo
Al tuo vago pudor. — Tronca un amplesso
Le risposte e gl’indugi; il dio la stringe
Cupidamente; un’azzurrina nube
D’ oro trapunta e di purpurei solchi
Cela i riti d’amor. Sentì la terra
La sacra fiamma che ‘1 Tonante accende,
E dall’intime viscere dischiude
D’amorosette pallide viole.
Di m.olle loto e teneri giacinti,
E di candidi gigli, e d’aureo croco
Messe odorosa, che a’ due sposi appresta
Profumato d’ambrosia amico letto;
Mentre dal sen della dorata nube
Che gli circonda, di nettaree stille
Rugiada soavissima discende.
Sorride il cielo, circola d’intorno
Arcano gaudio, e con bisbigli e tresche
Di lieti augei, d’ implacidite belve,
E garrir d’aure, e fremito di fronde,
Crollar di rami e gorgogliar di fonti
Al gioir del suo nume Ida festeggia. »
Iliade, Canto XIV, v. 267 e segg.

Lezione decimaprima.
Dei cognomi di Giunone. §

Moltiplici, quasi al pari di quelli di Giove, furono i cognomi che la verità degli ufficii, la fantasia dei poeti, l’ambizione delle nazioni impose a Giunone. Lo scopo della presente Lezione è di parlare de’ più famosi, esponendovi le maniere nelle quali fa la dea, a tenore di essi, rappresentata.

Lucina, quantunque questo nome a Diana pur competesse, fu chiamata per diverse ragioni, fra le quali la più comune è perchè delle donne nei dolori del parto affidata le era la tutela.

Nelle medaglie di Faustina è effigiata nelle sem. bianze di una matrona stolata, che ha nella destra la patera e l’asta nella sinistra. Egeria ancora per la stessa ragione era detta.

Juga dicevasi, perchè al giogo del matrimonio sottoponeva i coniugi, che davanti al suo altare si univano con un laccio in augurio, raramente avverato, della concordia futura.

Gamella, o Nuziale, cognominata era, perchè nelle nozze onoravasi, e fra i precetti che il sommo filosofante di Cheronea diede ai maritati, yì è quello di far sacrifizio a Giunone Gamelia.

Cinzia dicevanla quando diminuiva il sollecito pudore delle vergini, cui lo sposo, con mano ardita, scioglieva il cinto beato.

Regina appellavanla i Latini, e celebre era il suo tempio che Camillo, unica lode della patria cadente, trasportò da Yeio sull’Aventino. Altro pure ne sorgeva sul Campidoglio che C. Flaminio nella sua guerra contro i Liguri avea promesso di edificare alla consorte del Tonante.

Insigne nella storia delle arti è il tempio che a Giunone, sotto lo stesso nome, sorgeva in Ardea, perchè accenna l’epoca in cui la pittura fu conosciuta nel Lazio mercè di Marco Ludio oriundo d’ Etolia.

Di Giunone Moneta è frequente menzione negli scrittori, ed [è dubbio se onore di tempio avesse sul Campidoglio, o sull’Aventino. Certo è che ivi si conservano i libri, nei quali era opinione conservarsi il fato dell’impero romano.

Tutte le Calende erano sacre a Giunone; onde ancora fu detta Calendare, e il pontefice massimonella curia celebre propiziava.

Col titolo di Curi, perchè così l’asta significavano i Sabini, Roma la invocò, e di qui vogliono che derivasse il costume di dividere coU’asta le chiome degli sposi.

Un promontorio dell’ Italia le diede il nome di Lacinia, e santo a tutti i popoli era il suo tempio: e Fulvio Censore che lo scemò di marmi per ornar il tempio della Fortuna Equestre, volle l’antica superstizione che colla morte de’ suoi figli fosse della sacrilega rapina punito.

Giunone Caprivora fu adorata dai Lacedemoni, e Pausania vuole che l’uso di sacrificarle quell’animale fosse stabilito da Ercole, quando dopo aver pugnato con Ippocoonte ed i suoi figli, volle onorare la dea, che favorevole gli era stata.

Samia ed Argiva fu detta dalle due greche città, che vi accennai disputarsi la gloria di esser patria.

La statua della dea che in Argo amruiravasi, era opera di Policleto, composta di avorio ed oro, come il Giove Olimpico ed altri simulacri. Sedeva coronata sopra un soglio circondato dalle Grazie e dall’Ore, di maravigiioso lavoro. Avea in una mano un pomo, e lo scettro nell’altra.

Simile effìgie, nata dalla stessa mano famosa, era nel tempio di Giunone detta Prosimna dal nome di una sua nutrice.

Giunone Citeronia commemora Plutarco nella vita di Aristide.

Di Telchinia, così detta dai Telchini, che primi fecero le statue dei numi, favella Diodoro.

Eccovi tessuta la serie dei nomi più illustri. Ragionar degli altri sarebbe inutile e noioso. Aggiungerò la descrizione che Visconti nel Museo Pio Clementino dà di due statue di Giunone velata, e di Giunone lattante. Udirete, ch’egli porta opinione che il fanciullo, il quale è nelle braccia della se conda non è Ercole, come reputavano, ma Marte t il quale come nascesse da Giunone fa Ovidio nei Fasti narrare a Flora custode dei giardini. Molte immagini, onde può far tesoro il pittore, mi è sembrato che adornino questo mitologico racconto, che per vostra utilità, seguendo il mio costume, ho ardito tradurre.

Giunone velata.

« La statua di Giunone velata, disotterrata presso Castel di Guido, sito corrispondente all’antica Lorio, è considerabile per la sua integrità, essendosi conservata la destra che sostiene la patera. Questo simbolo, il velo e il diadema la caratterizzano abbastanza per Giunone, che velata appunto s’incontra e colla patera nelle antiche medaglie, che portano l’epigrafe di Giunone regina. E velata era la sua statua che sul Campidoglio si venerava, come dai medaglioni d’Adriano apparisce; nei quali si rappresentano le tre divinità capitoline. Era così proprio il velo dì questa dea che Albrico e Fulgenzio, vissuti in un tempo nel quale i filosofi pagani si sforzavano di scusare con industri allegorie tutte le assurdità delle lor religioni, ne danno dell’industri spiegazioni.

« Il primo intende pel velo le nubi che ofi’uscano Taria, di cui questo nume è il simbolo; l’altro crede additarsi col velo che le ricchezze, delle quali Giunone è arbitra, si tengono studiosamente celate.

« Queste sottili interpretazioni non ci danno si curamente l’idea dei più antichi artefici, i quali la velarono come matrona, o come ancora sposa di Giove, col quale titolo ebbe un simulacro in Platea, opera di Callimaco. Velata era la sua statua antichissima di legno in Samo, lavoro di Smilide, contemporaneo di Dedalo, come apparisce dalle sue medaglie; ed oltre il velo aveva ancora sul capo una specie di modio: lo che più volentieri osservo, perchè nel nostro simulacro esisteva anticamente questo attributo, rimanendovi ora sul capo un piano rotondo che lo reggeva, oltre un foro quadrangolare in cui s’innestava. questo fosse un vestigio delle colonne che negli antichissimi tempi si venerano per statue, o un vero moggio, segno della gratitudine degli adoratori che dichiaravano così tenere dai numi le loro dovizie: nella nostra statua, che non è certamente di uno stile così antico, può ditsi aggiunto per imitazione di qualche vetusta immagine della dea, o per dimostrarla dispensatrice e padrona delle ricchezze, come si è accennato. Questo simulacro ben inteso ne’ panneggiamenti, non è opera greca, ma lavoro de’ tempi dell’impero romano. Adornava forse in Lorio un sùburbano imperiale, nel quale fu educato e morì- Antonino Pio. »

Giunone lattante.

« Singolare è pel soggetto questa statua di Giunone lattante. Ma quanto siamo certi che la dea sia appunto la sposa e la germana di Giove, e per l’ornamento del capo, e per una certa nobile fiso nomia che è sua propria, altrettanto siamo dubbii sai bambino che tiene al petto. Winkelmann, che il primo ha pubblicato questo curioso simulacro, l’ha creduto Ercole bambino, cui Giunone porsela mammella, o ingannata da Giove, come crede Pausania, o persuasa da Pallade, al dir di Tzetze. Si aggiunge che il robusto infante la morse, onde essendosi sparso il latte, se ne formò la via lattea nel cielo.

« Quantunque però si faccia negli antichi epigrammi menzione di un’effigie di Giunone in simile atto, non avendo il bambino nessun segno che lo distingua pel figlio di Giove e di Alcmena, non siamo sicuri di questo soggetto. Sembra anzi che Albrico abbia supposto che in simili immagini il bambino sia Mercurio, anch’esso in qualche occasione allattato dalla dea. Non so per altro perchè tutti si siano apposti a credere in braccio della gelosa moglie di Giove un parto delle sue rivali, quando era ella stessa lieta di triplice prole, d’Ebe, cioè, di Vulcano e di Marte. Siccome il sesso esclude la prima, non esiterei di scegliere Marte tra i figli di Giunone per supporlo il bambino rappresentato nel nostro marmo; non solo perchè dovea esserle il più diletto, siccome quello che, secondo la Mitologia meno antica, riconosceva la vita dalla sola sua madre, ma perchè alcune medaglie imperiali vengono opportunamente in soccorso di tale congettura.

« Fra le medaglie in gran bronzo di Giulia Mammea madre di Alessandro Severo, una ve ne ha, nella quale è effigiata Giunone sedente con un fiore nella destra, e un putto in fasce nella sinistra. L’epigrafe intorno, Julia Augusta, mostra chiaramente che vuole alludersi all’imperatrice. Quest’allusione non permette che il bambino possa interpretarsi per altro che per Marte. Il fiore che è nella destra della dea n’è un’altra prova. Sappiamo da Ovidio che offesa Giunone per non aver avuta parte nel natale di Pallade, voleva anch’essa avere una prole che fosse sua unicamente, doride o Flora fu quella che trovò il mezzo di appagarla presentandole un fiore nato ne’ campi olenii di Acaia, che col solo contatto la rese feconda. La prole fu Marte, il fiore, secondo Servio, era di gramigna. Ora se la Giunone nella medaglia di Mammea ha in braccio Marte bambino, ò questo un indizio per riconoscere lo stesso sosfo-etto nel nostro marmo: la tenerezza e la compiacenza caratterizzate sul volto della dea confermano questo pensiero. Può dirsi una Giunone Marziale, che ad altro per avventura non si riferisce questo suo epiteto, e l’erba o il fiore che ha nella destra nelle monete di Gallo e di Volusiano, da alcuni antiquari preso per una tanaglia, alluda forse alla maravigliosa generazione del dio della guerra. Mi resta solo ad osservare che Giunone ebbe ancora il titolo di Natalis, ed allora è lo stesso che Lucina, ufficio che potrebbe simboleggiarsi dal putta che stringe al seno.

« Ma questa statua, la cui testa per la maestà dei lineamenti e per la dolcezza dell’espressione merita distinta lode, è in tutto il resto delle membra e del panneggiamento d’uno stile così diverso che non può attribuirsi ad un solo maestro, benché il corso dei secoli ne abbia assai rispettata l’ integrità. »

Nascita di Marte narrata da Flora.

Io già fui ninfa del beato campo,
Che vide gli ozi della gente prima.
Come fui bella io noi dirò: lo vieta
Il rossore che grazie accrebbe al volto,
Onde a mia madre fu genero un dio.
Primavera fìoria: nei verdi prati
Errar mi vede Zeffiro che chiama
L’erbe novelle: io fuggo, e già mi segue,
Mi raggiunge; io contrasto, ei fu più forte;
Che dato avea della rapina il dritto
Al lascivo fratel Borea, che ardio
Nei talami Erettei la cara preda
Portar, strisciando al delicato volto
La gran barba di nembi umida e grave.
Ma il fallo emenda, e a me di sposa il nome
Concesse, e mai nel fortunato letto
Non sta querela. Primavera eterna,
Gloria dell’anno, nei miei campi regna:
Sempre han gli alberi fronde ed erbe il suolo.
Nella terra dotai possiedo un orto.
Che educa l’aura, e che coli’ acqua irriga
Limpido rivo; dei gentili fiori
Il mio marito ornollo, e disse: O dea,
Io ne concedo a te l’arbitrio eterno,
I divisi colori, io contar volli,
Ne lo potei. La copia era maggiore
Del numero. Ed allor che col primiero.
Raggio alle foglie la rugiada il sole
Scote, e percosse tremolan le stille,
Onde agli alberi son gravi le chiome,
L’Ore succinte con le varie vesti
Convengon quivi, e nei canestri lievi
Scelgon leggiadramente i nostri doni:
Gli rapiscon le Grazie, e tesson serti.
Che son decoro dell’eterne chiome.
I nuovi semi per l’immense genti
Sparsi: d’un sol colore era la terra.
Prima dal Terapneo sangue formai
Un fiore, e ancor nella sue foglie scritta
Sta la querela: del giardin felice
Tu, misero Narciso, ancor sei lode,
Perchè simile a te non fer gli Dei
Altro fanciullo. A che di Croco io parlo
E d’Ati e del fìgiiuol di Mirra infame.
Famoso pianto della Cipria dea,
E d’altri mille che non han qui nome,
Che dall’altrui dolor cresce il mio vanto?
Marte deve la vita all’arti nostre:
Giove l’ignori eternamente ancora:
Ne fo preghiera. Alla scettrata diva.
Consorte a Giove, non temuto oltraggio
Accrebbe l’ire delle offese antiche,
Quando balzò dalla divina testa
Palla nelle paterne armi sonante.
All’Ocean che tutto il mondo abbraccia
Iva Giunone, e del marito i furti
Tutti volgea nella sdegnosa mente
Per far querela al gran padre dei numi.
Quando gli stanchi piedi innanzi ai nostri
Lari fermò, la vidi, e della via
La cagion le richiedo: ella m’espone
A un tempo il loco e del cammin la meta:
Le do conforto di soavi detti;
Ella risponde: Il mio dolor non chiede
Parole, ma vendetta: è padre Giove
Sprezzando l’uso de’ materni ufficii;
E’ m’ usurpa i miei dritti e va superbo
Di doppio nome. Ed io madre non sono
Senza il marito, nè compensa i danni
E la vergogna prole unica e mia.
Oserò tutto, pur che resti il letto
Inviolato: non avrà la terra
Alla mia cura ignote erbe potenti.
Nò il mare immenso? ancor di Lete in riva
Io coglier voglio i ferruginei fiori.
Ornamento alle Furie. — Io dir pensava:
Già la voce correva: era nel volto
Scolpito il dubbio. Lo mirò la diva,
E disse: ninfa, in prò mio tu potresti
Non so che… Per tre volte io le volea
Darle promessa di soccorso, e tante
Morì sul labbro la parola. E Giove
Ed i fulmini suoi m’eran sugli occhi,
Quando Giuno soggiunse: Ah mi soccorri,
Ten prego, o Ninfa: noi saprà quel forte
Che paventi: e giurò l’acque di Stige,
Pallor dei numi, Allor risposi: In questo
Orto, portato dagli Olenii campi
Sorge il fior tuo soccorso e tua vendetta.
Disse chi lo recò: Steril giovenca
Tocca, e madre sarà. Lodò l’evento
La promessa, e fu madre: e quindi io svelsi
Lo stabil fiore con la lieta destra:
A se Giuno l’appressa, e già nel seno
A lei palpita il dio re della guerra.
Ovidio, Fasti, lib. V, v. 251 e segg.

Lezione decimaseconda.
Nettuno. §

Nettuno, fra gli Dei consiglieri, dopo Giove per impero il maggiore, a cui servono l’onde sortite, sarà della presente Lezione argomento. A Saturno lo partorì Rea: ma il patto crudele che fermato il genitore avea coi Titani comandò all’amore materno di celarlo, dandolo in custodia ai pastori, e fra la greggia crebbe il signore dell’ acque. Un destriero offerto al padre ne saziò la crudeltà, e ne persuase r inganno.

È troppo grande la divinità di Nettuno perchè gli antichi non siano discordi sull’educazione di lui; la quale, alcuni opponendosi all’accennata opinione, vogliono che alla ninfa Apno fosse commessa, altri a Giunone. Sapendo che l’ infanzia dei potenti fu sempre miracolosa, sono contento d’ indicare e non di comporre questa lite; e seguendo l’ istoria del nume, dirò che adulto fu alleato a Giove nelle guerre, le quali ebbe dopo che Saturno fu balzato dal trono. Il felice evento di queste, permise ai fratelli di gittare le sorti per dividere il governo dell’universo, e la fortuna diede a Nettuno l’arbitrio delle onde. Divenuto abitatore del nuovo regno, amore lo prese di Anfitrite ribelle ai desiderii dello dio. L’impegno di conciliarla alle sue voglie commise al delfino, che fortunato nell’impresa n’ ebbe in premio (come lasciò scritto Igino) di risplendere nel cielo non lungi dal Capricorno.

E opinione di alcuni che Venilia, e non Anfitrite, fosse moglie di Nettuno; il quale, imitatore di Giove fratello, in fiume, in toro, in delfino mutò sua sembianza; Cerere deluse trasformato in cavallo; ed ebbe da varie ninfe infinito numero di figli. Libia lo fé’ padre di Fenice, di Aello e di Agenore; Cedusa di Asopo, Bilie di Orione, Celeno di uno dei Tritoni, Tirro di Palemone e Neleo, Venere di Erice; e Teseo ancora, secondo la Mitologia, era suo figlio, quantunque Plutarco, che nella vita di lui ha soggiogate le favole col vero, ne avverta che questa fama fu sparsa accortamente da Piteo, avolo materno dell’eroe, per conciliargli la reverenza dei Trezenii, che sommamente onorano l’imperatore dell’onde, offerendogli le primizie delle biade, ed avendo scolpito nelle monete loro il tridente. Nonostante i Tragici, dai quali colle finzioni fu violata l’antica semplicità mitologica, finsero che Nettuno, come padre di Teseo, mandasse quella foca, o mostro marino, onde il misero Ippolito fu trascinato dai cavalli che avea colle proprie mani nutriti.

Devono pure agli amorosi furti di Nettuno la vita Bronte, Busiride, Lestrigone, Efialte, Polifemo, Pelasgo, Amico, Anteo, Albione e mille altri, dei quali la fama è men chiara. Non fu questo dio esente dall’ambizione, giacché congiurò con gli altri per legar Giove, che fatto accorto da Teti, fu contento di punire la ribellione in Apollo e Nettuno, comandando loro di servire a Laomedonte per la costruzione delle mura troiane. Il re spergiuro negò ad ambedue la pattuita mercede; onde Nettuno sdegnato mise orribile ed immensa balena, che tutta la regione inondò coll’acque dalla vasta bocca vomitate. A questa, per allontanare lo sdegno del nume, fu offerta Esione, cara a Laomedonte sopra l’altre figlie Aetasa, Aioche e Medicasta.

Da Ercole, come udirete nel viaggio degli Argonauti, ebbe la vergine salute, e morte il mostro vendicatore. Erodoto spiega l’origine di questa favola dicendo, che Laomedonte si servi per edificare i muri iliaci del denaro offerto nei sacrificii a Nettuno e ad Apollo.

Venne Nettuno pure in contesa con Minerva e Vulcano per la preferenza dell’arte; e commemorò Luciano che Nettuno formò un toro. Minerva inventò il modo di costruire una casa, e da Vulcano fu l’uomo composto. Un’altra volta ebbe gara con Minerva nell’Areopago per dar nome ad Atene, e al dono dell’oliva oppose il destriero, ch’egli il primo nel luogo, ove fu poi eretta l’Academia, domò, come Sofocle accenna nell’Edipo Colonco. Il commentatore di Apollonio gli contrasta questo vanto, che attribuisce a quel Sesonoschi, detto altrimenti Sesostri, che regnò nell’Egitto dopo Oro, che d’Iside e Osiride fu figlio.

Eccovi esposto quello che intorno alle gesta di Nettuno favoleggiarono i poeti. Conviene adesso aggiungere i modi nei quali è rappresentato dai poeti e dai monumenti, ed i diversi cognomi che attribuiti gli furono dagli antichi. Luciano nei Sacrifizii, e Cicerone nel suo libro Intorno alla natura degli Dei, avvertono che effìgiavasi con neri capelli ed occhi cerulei. I poeti lo mostrarono assiso nudo sopra la conca col tridente, e talvolta di cerulea veste coperto. Al cocchio del nume alcuni aggiunsero i destrieri, altri i vitelli marini. Gran schiera di Dei e di Ninfe dell’ Oceano lo accompagnava, tutta varia di sembianze. A destra gli pone Virgilio le smisurate balene, e l’antico coro di Glauco, Palemone, i celeri Tritoni, e tutto l’esercito di Forco: a sinistra Teti, Melite, Panopea, le Nisee, Spio, Cimodoce e Talia. E quando Giunone ai fati d’Enea oppose l’ira dei venti, che prima dormiva nelle caverne di Eolo re loro, fìnse il poeta che Nettuno al tumulto levasse il capo grazioso fuori del mare, e che ai suoi detti i rivali fratelli le contrastate acque abbandonando, fine avesse la suscitata tempesta.

Udite Virgilio nella celebre traduzione di Annibal Caro:

« Così dicendo, in quanto appena il disse
La tempesta cessò, s’acquetò il mare,
Si dileguar le nubi, apparve il sole.
Cimotoe e Triton, Tuna coli’ onde,
L’altro col dorso le tre navi indietro
Ritirar dallo scoglio in cui percossero:
Le tre che nell’arena eran sepolte,
Egli stesso, le vaste sirti aprendo,
Sollevò col tridente ed a sé trassele;
Poscia sovra al suo carro d’ogni intorno
Scorrendo lievemente, ovunque apparve
Agguagliò il mare, e lo ripose in calma. »
Eneide, libro I, v. 230 e segg.

Filostrato nelle Immagini unisce i cavalli e le balene al cocchio di Nettuno, che fa ridere il seno del tranquillo Oceano. Platone, presso gii Atlantidi, rammenta un tempio di maravigliosa struttura, nel quale il dio col sublime capo toccando il soffitto sedeva sopra un cocchio, e governava la briglia di alati cavalli. Cento Nereidi posate sopra i delfini gii facevan corona. In due medaglie, una di Vespasiano, l’altra di Adriano, intitolate a Nettuno Reduce, si scorge l’immagine di lui, che colla sinistra vibra triplice scutica, e colla destra elevato tiene il tridente.

Re fu detto dai Trezenii, perchè unitamente a Minerva Poliade, o Urbana, gli fu da Giove assegnato il dominio della loro regione. Aluchete fu detto, dal suono del mare imitatore del muggito, o perchè usanza era d’immolargli un toro. Inondatore, Prosclistio, perchè, adirato con Giunone, inondò un campo argivo; dove poi, come Pausania avverte, gli fu edificato un tempio. Un promontorio della Laconia gli die il nome di Tenario, e nel tempio di lui, narra Tucidide, dai barbari Spartani furono trucidati gì’ Iloti. Dal celebre edifizio che sacro gli era in Tenedo, Tenedio fu detto. Elitio lo chiamarono in Lesbo ed in Eubea.

Nè tacerò che Conso appellarono i Romani Nettuno, e che Consuali si dissero i giuochi che successivamente denominati furono Circensi. Un’ ara sotterranea gli era costruita nel circo massimo, e si onorava col corso dei cavalli. Ippico lo chiamò la Grecia, sia che maestro lo reputassero di frenare i destrieri, o perchè dalla terra percossa dal tridente balzasse fremente cavallo. Nell’ istmo di Corinto, ove celebravansi i giuochi, dei quali i vincitori vivono ancora nei versi’ dell’immenso Pindaro, sorgeva un tempio a Nettuno Ismico dedicato. Col nome di Petreo, perchè divise le montagne, adoravasi dai Tessali; cognome di Eliconio Elice gli diede, città sessanta stadii da Egio lontana. Nisireo da un’isola del mare Carpazio; Egeo da Egide isola dell’Eubea. Si legge che Portunno ancoralo cognominassero i Latini, quantunque comunemente dessero questo titolo a Palemone. Da Ennosigeo, cioè scotitore della terra, è volgare la denominazione che deriva dalle idee tenute dagli antichi sulla ca-’ gione del terremoto, secondo essi prodotto dalle acque; onde è che in figura di toro vengono rap. presentati nelle antiche monete Nettuno e i fiumi.9

Ecco quasi compita la serie dei cognomi dal Paganesimo dati a Nettuno, che ninno atteggiò con maestà degna di un dio quanto Omero descrivendone il viaggio sul mare per porgere ai Greci soccorso. Questa passo dell’ Iliade, ammirato da Longino, merita di esservi letto nella traduzione del celebre Monti.

« Nè invan si stava alla vedetta intanto
Il re Nettuuo, che su l’alte assiso
Selvose cime della tracia Samo,
Contemplava di là l’aspro conflitto;
E tutto l’Ida e Troia, e degli Achei
Le folte antenne si vedea davanti.
Ivi, uscito dell’onde, egli sedea;
E del cader de’ Greci impietosito,
Contro Giove fremea d’alto disdegno.
Ratto spiccossi dall’alpestre vetta,
E discese. Tremar le selve e i monti
Sotto il piede immortai dell’incedente
Irato Enosigéo. Tre passi ei fece;
E al quarto giunse alla sua meta in Ega,
Ove d’auro coruschi in fondo al mare
Sorgono eccelsi i suoi palagi eterni.
Qui venuto, i veloci oro-criniti.
Eripedi cavalli al cocchio aggioga.
In aura vesta si ravvolge tutta
La divina persona; ed impugnato
L’aureo flagello di gentil lavoro,
Monta il carro, e legger vola su l’onda;
Dagl’imi gorghi uscite a lui d’intorno,
Conoscendo il re lor, l’ampie balene
Esultano, e per gioia il mar si spiana.
Così rapide volano le rote,
Che dall’asse ne pur si bagna il bronzo;
E gli agili cavalli a tutto corso
Verso le navi achee portano il Dio. »

Di Nettuno i simulacri sono rari, come udirete dalla seguente illustrazione.

« Rarissima (così il Visconti) è fra le antiche la statua di Nettano: noi vi distinguiamo l’immagine del dio del mare non solo dall’ idea del volto, che ha qualche tratto della fìsonomia di Giove senza però averne l’aspetto egualmente maestoso e sereno, nè dalla nudità, che ben conviene al nume dell’acque senza però esserne un distintivo particolare; ma dal tridente principalmente, chiamato da Eschilo10 l’insegna di Nettuno, ch’egli stringe nella sinistra. Benché le punte delle quali é armato, e donde il nome tridente deriva, sieno moderne, la forma dell’ asta medesima, che non é rotonda ma quadrangolare, e che perciò non dovea essere uno scettro, non lascia di determinare questo strumento, pel tridente del dio del mare, o pel bidente del dio dell’Inferno. Siccome l’aria del volto e la nudità della persona escludono Plutone, resta evidente che il nume rappresentato è un Nettuno, che affatto nudo é rappresentato in una statuetta di bronzo dell’ Ercolano11. Plutone non s’ incontra mai così nei monumenti, ma spesso è tutto vestito. Era stato preso per Giove, e per tale ristorato nel palazzo Verospi: errore derivato da una certa simiglianza colle sembianze fraterne. Ora, per vieppiù distinguerlo, gli è stato aggiunto il delfino, che nei marmi e nelle medaglie suole accompagnarlo. Osservabile è l’integrità di questo simulacro, e la grana finissima del marmo, quasi diafano, in cui è stato scolpito. »

Lezione decimaterza.
Mercurio. §

La favola non essendo in parte che una serie di racconti alterati dalla maraviglia, dal terrore e dall’interesse, soggiace necessariamente alle stesse condizioni dell’istoria; e quindi ad un solo, celebrato dai poeti dispensatori della fama, sono spesse volte attribuite le azioni di molti, che ebbero la sventura di un nome comune. Infatti, al dire di Cicerone, seguito da Arnobio, quattro, oltre il figlio del re degli Dei, furono i Mercurii: il primo nacque dal Cielo e dal Giorno, il secondo di Valente e di Foronide, ed è lo stesso che Trofonio: il terzo dal Nilo; del quarto s’ignorano i genitori, ma fu anch’ egli adorato dagli egiziani, e gli attribuivano la morte di Argo e la scoperta dell’ argento. Nonostante a Mercurio figlio di Maia e di Giove, nipote di Atlante e di Pleione, appropria la Mitologia ogni vanto degli altri.

In tanta varietà doveva necessariamente dubitarsi dagli antichi della patria del nume. Omero ed Or feo lasciarono scritto che nacque in Cillene monte dell’Arcadia; Pausania afferma nel suo Viaggio in Beozia che non lungi da Tanagro, in un monte chiamato Coricio, vide la luce: quindi descrivendo l’Arcadia, indica tre fonti nel campo Feneotico, dove le ninfe del divino fanciullo, allora nato, lavarono il tenero corpo. Alcuni dicono che Mercurio, e non Ercole, da Giunone ingannata suggesse il latte, che a parte del cielo die nome.

Omero, o chi sia l’autore degli Inni, narra che appena dalla ricciuta Maia fu partorito, abbandonò la culla. Nato nella mattina, sonava alla metà del giorno stesso la cetra, e verso la sera rubò i bovi del lungi saettante Apollo, superando la soglia del rovinoso antro dove agli amplessi della madre, fra le tenebre care agli amanti, veniva lo dio signore del fulmine. Escito, incontrò presso la casa una lènta testuggine, che pasceva la florida erba, e guardandola rise, e disse: Io non ti disprezzo, a me utile segno. Salve, o amabile compagna dei conviti, letizia dei cuori. — Ciò detto, portando 1’ amabile scherzo, ritornò nell’antro, dove uccise la testuggine col ferro; e avendo divise misuratamente le canne, trapassò con queste il dorso dell’ucciso animale, lo circondò di bovina pelle, con accorto consiglio v’impose i cubiti e li fornì di due gioghi, vi tese sopra sette corde, e tentandole ad una ad una col plettro ne risvegliò l’armonia, che colla propria voce accompagnò cantando gl’immortali amori della propria genitrice.

Salito quindi sopra la sommità dell’odorifero albergo, alto inganno agitando nella mente, vide che il cocchio ed i cavalli il Sole nell’Oceano nascondeva. Balzò dall’ antro, corse agli ombrosi monti Pierii, dove le liete erbe pasceva l’armento degl’immortali. Separò da questo cinquanta bovi, e delle sue arti non dimentico, egli con la preda camminava all’indietro. Nè bastò questo accorgimento all’ineffabile astuzia di Mercurio. Gettò i sandali nell’arena del mare, e con foglie di mirto e di mirica ordì pei piedi nuovo riparo. Lo vide dall’ombroso Onchesto un vecchio, cui lo dio comandò il silenzio dicendo: vecchio, che scavi le piante coi curvi omeri certamente molto ti affaticherai prima che ti rendano il frutto sperato; ma ora fai vista di esser cieco e sordo, e taci, poiché io non porto via la tua roba. — La luna col recente raggio illuminava la terra quando il potente figlio di Giove arrivò al fiume Alfeo, dove in una stalla nascose i bovi dalla larga fronte involati ad Apollo. Due ne uccise, e fé’ libazioni agi’ immortali; quindi affrettandosi verso il proprio tetto, non riscontrò per sua gran ventura ninno degli uomini e degli Dei: dei cani stessi non s’udiva il latrare. Entrò con tacito piede nell’antro, si cinse di nuovo delle fasce, credendo di fare inganno a Maia. Ma ad essa, come a dea, tutto era noto; onde rimproverò la frode al figliuolo, chiamandolo grande sollecitudine dei mortali.

Giunse intanto Apollo nell’Onchesto, scoperse l’autore del furto dagl’indizii datigli dal vecchio di cui favellammo, volò al selvoso monte Cillenio; il giocondo odore che diffondeasi accusò la casa del nume fanciullo, cui minacciò, se non manifestava la preda il tartaro caliginoso e le invincibili tenebre della morte. L’infanzia fu la scusa e la risposta di Mercurio, che dopo molte frodi e parole andò col Saettante sull’Olimpo al tribunale di Giove, che rise vedendo l’accorto fanciulletto, che colla fascia nella destra negava accortamente l’imputato delitto. Impose ad amendue di essere amici, e fe’comandamento a Mercurio di mostrare dove avesse nascoso i rapiti giovenchi ad Apollo, che rimase maravigliato del sottile inganno, e più dell’accennato istrumento, che celermente percosso dal figlio di Maia suonò incognita armonia, che l’amabil voce seguiva. A quel concento gli Dei immortali e la terra tenebrosa parean di nuovo confondersi, e risentire l’antico amore.

Questo canto fu pegno di pace fra gli Dei: il re delle Muse imparò l’arte di percorrere le corde della sacra cetra allegratrice delle Muse, gioia delle amabili danze, decoro dei gloriosi giuochi. In ricompensa concesse a Mercurio la cura della 2:reo’2’ia, ed aurea verga di tre foglie, potente ad eseguire tutti i consigli di Giove. Questi sono i principii dell’infanzia del nipote di Atlante narrati per Omero. Luciano, che sovranamente era fornito del talento di spargere il ridicolo su tutto, amplificò il racconto di Omero dicendo che, mentre Vulcano educavalo, gli rapì l’incudine e il martello; a Venere, che l’abbracciava, involò il cinto; lo scettro a Giove, e ne avrebbe rubato anche il fulmine, se non avesse temuto la fiamma. Poco altro la favola aggiunge. Dicesi che a Batto, in pena della perfidia, cangiò in pietra di paragone il petto spergiuro, e l’arte insegnò di rubare ad Autolieo avo di Ulisse.

Dio dell’armento lo venerarono i pastori, perchè primo diede 1’ esempio della rapina: tanto è vero che tutti gli incliti ladri sono santificati dalla forza e la fortuna assolve le colpe potenti.

Un nume non poteva essere senza amori: frutto ne furono diversi figli. Da Aglauro figlia di Cecrope ebbe Erico, da Daira Eleusina, Buno da Alcidamea, Calco da Ociroe, Evandro dalla figlia di Cadmo, e da Cleobula Mirtillo. Lungo sarebbe 1’ annoverarli tutti. Aggiungerò alcune delle maniere nelle quali fu Mercurio rappresentato, e la descrizione di due statue di lui data dal Visconti nel Museo Pio Clementino. Da Omero è narrata la pietosa cura che il nume si prese di Priamo, che verso la tenda di Achille avviavasi per chiedere il corpo dell’estinto figliuolo, e baciare le mani ancora dell’ettoreo sangue macchiate.

Alato, senza alcun ornamento, con lieto volto ed occhi argutamente ridenti rappresentavasi: un gallo presso gii ponevano. Nella via Lechea, che conduceva a Corinto, fu effigiato in bronzo, con un ariete accanto, perchè affidata gli era la tutela dell’ armento. Gli attribuivano il caduceo con due serpi, simbolo dalla sicurezza della concordia, e favoleggiarono che alla verga, donatagli da Apollo gli aggiungesse il nume, poiché ne divise l’ ira facendo del dono esperimento. Degli altri simboli ed ufficii propri di questa divinità favellerò nella seguente Lezione, giacché, come più volte ho notato, a que sti si deve la diversità dei modi nei quali furono i numi ritratti. Udite intanto dal sopralodato Visconti come è scolpito Mercurio fanciullo, e Mercurio Agoreo o Preside del Foro.

Mercurio fanciullo.

« L’eleganza dello scalpello, la venustà del soggetto, rendono pregevolissima questa statuetta di grandezza naturale, di Mercurio fanciullo. L’ali che ha sulla testa assai bizzarramente frammischiate ai capelli, come simbolo della velocità dell’ingegno di questo nume inventore, secondo Macrobio, non ne rendono equivoca la rappresentanza. E quantunque nella maggior parte dei monumenti le ali appariscano sul suo petaso, o cappello, in una medaglia di Metaponto si vedono legate al capo con un semplice nastro, come appunto nel bel marmo che ora spieghiamo. La fìsonomia fina e vivace, rilevata dalla forma del naso alquanto ripiegata all’insù, caratterizza l’astuto figlio di Maia come Omero l’appella, παιδα πολυτροπον` nè lascia il miuimo dubbio che questo marmo ci offra il pesante Morfeo, dio del Sonno, rappresentato anch’egli coll’ali sulla fronte nei marmi antichi, quantunque l’atto del silenzio, che esprime appressando l’ indice della destra alle labbra, possa convenire anche al Sonno. Questo gesto è proprio per altro di Mercurio, come ne fan fede molte antiche gemme, fra le quali una bellissima del Museo Strozzi, ed un’altra della collezione Stoschiana illustrata da Winkelmann. Conviene infatti il segreto al messaggero dei numi, ma dubito che il nostro marmo alluda a qualche fatto più conveniente all’età in cui si esprime Mercurio. Omero, altri che sia l’autore dell’antichissimo inno in sua lode, narra che avendo egli involato lo stesso giorno che nacque i buoi di Apolline, per quanto colla sua avvedutezza si avvisasse di celare ogni indizio del furto, non potè sfuggire alla vista di un vecchio lavoratore dei campi di Onchesto, al quale raccomandò con tutta energia che tacesse:

« Veggendo come non veggente sii,
E sordo udendo, e taci. » 12

Questa favola sembra presentarci il momento della nostra statuetta, in cui si mira l’avveduto bambino dissimulare con un riso artificioso l’imbarazzo della sua sorpresa, e far cenno col dito per inculcare il silenzio a chi l’avea osservato. Questo riso appunto che brilla insidiosamente sulle sue labbra, e l’aria vezzosa del volto, son rammentati da Luciano in uno dei suoi Dialoghi, in cui delinea collo spiritoso suo stile il carattere di Mercurio infante, similissimo a quello che ha segnato l’antico scultore nei tratti di questa graziosa figura col suo maestrevole scalpello. Il braccio sinistro mancava nell’antico ed ora porta la borsa, distintivo notissimo di questo dio, a cui si attribuiva il lucro ed il commercio; il quale serve per farlo al primo colpo d’occhio conoscere. L’abito è una specie di camicia o suhucida, che si osserva qualche volta nei putti antichi. Fu dissot terrato questo gentil monumento nel territorio di Tivoli; nel predio dei Sabi a Quintiliato, contrada cosi detta dalle reliquie della villa di Quintilio Varo. Gli eruditi spositori delle antichità Tiburtine convengono che in questo sito fose precisamente il predio di Cintia celebre nei versi di Properzio. »

Mercurio agoreo.

« Il caduceo, in greco ααδυκειον, cioè verga di banditore e di araldo, rende assai distinta questa statua di Mercurio, giacché è la sola nella quale siasi conservata questa singolare insegna del messaggiero dei numi. Ha egli il suo petaso, o cappello, in capo e tiene la clamide ravvolta al braccio sinistro, emblema consueto della sua speditezza, per cui gli furono anche attribuite le ali alle piante. Questa verga era di oro, onde sortì Mercurio il soprannome di verga d’oro κρυσορραπις e vien detto la verga della felicità e della ricchezza dall’autore dell’inno omerico, che ne descrive i pregi e le virtù, eh’ erano d’ estensione mirabile, e solo non giungevano alla divinazione. Da’ serpi che sogliono intrecciarvisi vuol denotarsi, secondo Plinio, la concordia dei feroci, o si allude ad una favola rammentata da Igino, che ha lo stesso significato.

« Benché il simulacro non sia di greca scultura ha però una certa nobila semplicità nella composizione, pregio che raccomanda quasi sempre le opere degli antichi. Adornava il Foro di Preneste, nelle cui ruine fu dissotterrato, e deve dirsi perciò Mer curio Agoreo, o Forense, come era chiamato dagli antichi quando le sue statue erano situate nei Fori, ai quali presiedeva, non solo come nume della Eloquenza, ma ancora come divinità tutelare del Commercio. La verificazione di quanto affermiamo è un risultato degli schiavi intrapresi nell’orto dei Padri Dottrinarii di Palestrina, che resta immediatamente sotto le sustruzioni arcuate che servono ora di muro alla città. Questo è il piano sottoposto al monte ed al tempio della Fortuna Primigenia, che ne abbelliva le falde fino ad una certa altezza, e di maniera che se ne godeva nel Foro il maestoso prospetto, compartito con simmetria e varietà in diversi ordini, di sustruzioni, portici ed edifizii, nella guisa appunto che si godeva dal Foro Romano l’ imminente Campidoglio colle sue fabbriche e coi suoi templi. In questo piano adunque, oltre le colonne che adornavano la piazza pubblica e le statue, fra le quali un Lucio Vero giovine, maggiore del naturale, un’Augusta in forma di Venere, un istrione, un gruppo d’Esculapio e d’Igia, questa di Mercurio Agoreo, e diverse altre che si riporteranno a suo luogo, si sono scoperte due basi di gran mole con singolari iscrizioni, le quali dimostrano evidentemente che spettavano questi avanzi al Foro Prenestino, che in una di esse vien menzionato: e non altrove appunto che nei Fori solevano inalzarsi le statue dei benemeriti delle città. »

Omero, Inni, tradotti dal Salvini.

Lezione decimaquarta.
Dei simboli e degli uffìcj di Mercurio. §

Fra i cosinomi che l’antichità diede all’astuto figlìo di Maia, non ve n’ha forse alcuno più ripetuto che quello di Cillenio, il quale da Cillene, monte di Arcadia e patria del nume, secondo la più comune opinione deriva. L’alato Cillenio lo chiamò Virgilio che apportatore lo fa dei cenni di Giove ad Enea immemore della Italia promessagli dal destino. Così traduce Annibal Caro:

« …………………………Udite ch’ebbe
Mercurio, ad eseguir tosto s’accinse
I precetti del padre, e prima ai piedi
I talari adattossi. Ali son queste
Con penne d’oro, ond’ei l’aria trattando
Sostenuto dai venti ovunque il corso
Volga, sopra la terra, o sopra il mare.
Va per lo ciel rapidamente a volo.
Indi prende la verga onde ha possanza
Fin nell’Inferno, onde richiama in vita
L’anime spente, onde le vive adduce
Nell’imo abisso, e dà sonno e vigilia,
E vita e morte, aduna e sparge i venti
E trapassa le nubi, Era volando
Giunto là ‘ve d’Atlante il capo e il fianco
Scorgea, delle cui spalle il Cielo è soma;
D’Atlante, la cui testa irta di pini,
Di nubi involta, a pioggia, a venti, a nembi
E sempre esposta, il cui mento, il cui dorso
E per nevi e per gel canuto e curvo
E da fiumi rigato. In questo monte.
Che fu padre di Maia, avo di lui,
Primamente fermossi: indi calando
Si gittò sopra l’onde, e lungi al lito
Di Libia se n’andò l’aure secando
In quella guisa che marino augello
D’un’ altra ripa, a nuova pesca inteso.
Terra terra sen va tra rive e laghi
Umilmente volando…………………… »
Eneide, lib. IV, v. 237 e segg.

Di questa descrizione di Virgilio si giovò GianBologna nel simulacro del nume, al quale un vento è sostegno mentre s accinge al volo, per cui dal cielo fino agli abissi discende apportatore dei comandi paterni.

Messaggiero e banditore dei numi Mercurio pure fu detto, e per tanto ufficio attribuito gli fu il caduceo, che come segno di pace scolpito si mira nelle antiche monete. Intorno a questo simbolo molto fa veleggiarono gli antichi. Omero, custode della prima semplicità della favola, nell’Inno attribuitogli narra che gli fu data l’aurea verga in cambio della lira da Apollo, che la cura gli affidò degli armenti. I mitologi più recenti aggiungono che col potere di questo l’ire separò nell’Arcadia di due serpenti, onde vi furono uniti per significare la concordia degli animi più efferati. Jamblico, che col velo dell’allegoria adonestar volle di soverchio le favole per opporle con insana fiducia alla luce dell’Evangelo, asserisce che i serpenti simboleggiavano la dialettica arte insegnata dal nume dell’eloquenza. Checché ne sia, il caduceo distingueva i legati di pace; e gli atleti nella palestra lo adoperavano forse perchè in questo costume formata fu- dal dio la rozzezza dei primi mortali.

Vergadoro fu il nipote d’Atlante pure cognominato per questo segno, che era con molto artifizio composto; perchè aureo fu detto ancora dagli antichi quello che era bello, come da Esichio e da Ateneo si rileva. Di Mercurio chiamato Acacesio, da Acaco figlio di Licaone educatore del nume, era celebre il tempio presso i Megalopolitani. Tetragono, cioè quadrato, lo dissero pure gli antichi, secondo alcuni dai quattro ritrovati dei quali fé’ ricca l’umana gente; e al parer di altri, più probabile, dalla figura della statua di lui Erme nominata, colla quale comunemente gli antichi decoravano le loro biblioteche. Trecipite chiamò il nume l’oscuro Licofrone nella Cassandra, forse perchè deità comune al cielo alla terra, all’inferno. Così scolpito gli antichi lo ponevano per indicare le strade, e verso di esse rivolgevano la testa del nume, sotto la quale ogni avvolgimento della via era indicato. Arpedoforo cognominavasi Mercurio dalla falce, o spada falcata, colla quale uccise Argo custode d’ Io sventurata. Strofeo lo dissero perchè presiedeva al giro delle merci, o perchè il suo idolo collocavano presso la porta, onde presedesse alla sicurezza delle case allontanando i ladri, dai quali era venerato. Thot fu Mercurio nominato dagli Alessandrini, Taaut da’ Fenicii, Tentate dai Cartaginesi e dai Galli, che con umano sangue lo placavano onorandolo sopra ogni altro dio come narra Giulio Cesare nei suoi Commentarj.

Di Mercurio Agoreo, di cui il simulacro vi descrisse il Visconti nella passata Lezione, troviamo fatta memoria spesse volte nei Classici; e Pausania ci avverte che neir Attica specialmente onoravasi, ed in Tebe gli sorgeva un tempio che Pindaro, illustre per versi e per la pietà, gli avea consacrato. Pitagora soleva chiamare lo dio Questore delle anime, perchè alle beate sedi dell’ Eliso le conduceva, ed allora l’epiteto di infernale gli davano. Onde Claudiano disse: Tegeo, nipote di Atlante deità comune ai celesti e agli infernali, cagione di commercio fra la terra e l’averno. — Crioforo, o {portatore dell’Ariete, fu detto Mercurio, perchè presso i Tanagrj vi era un simulacro del dio scolpito da Calami antichissimo artefice, in memoria che il nume avea liberato quei popoli dalla peste, portando intorno alle mura sugli omeri il mentovato animale. Nonacrite fu nominato da Nonacrizia città dell’Arcadia, e Melopoo perchè commessa gli era la tutela del gregge. Cammillo, cioè ministro degli Dei, lo dissero gli Etruschi con nome ai Beoti ancora comune. Odio dalle strade denominavasi, ed Egemonio perchè era dei miseri e dei giusti, liberati dalle spoglie mortali, condottiero.

Secondo alcuni l’Anubi de2:li Eo’iziani è lo stesso che Mercurio. Esaminerò la verità di questa asserzione favellando delle divinità egiziane. Udite intanto da Apuleio come veniva rappresentato. » Di Anubi il simulacro ha or nera, or dorata la cervice canina; nella sinistra porta il caduceo; colla destra verde palma brandisce. »

Eccovi ordita la serie dei diversi cognomi, coi quali fu dai Pagani distinto Mercurio, a cui come suo ministro favoleggiarono che Giove affidasse pure la cura di Bacco fanciullo, come rilevasi da Plinio, da Pausania, da molte gemme annulari, e da due antichi bassirilievi, uno del Museo Chiaramonti, l’altro del palazzo Albani, recentemente dal celebre Zoega illustrato. Diminuirà la noia del tessuto catalogo r illustrazione del famoso Visconti sopra la statua chiamata l’Antinoo di Belvedere, ma riconosciuta dal consenso dei dotti e’degli artisti per rappresentante il figlio di Maia. Farò a questa succedere una breve Ode di Orazio in lode del nume, la quale ho volgarizzata non con fedeltà di traduttore, ma con licenza d’interpetre.

Mercurio detto l’Antinoo di Belvedere.

« Ecco la prima volta che questa insigne statua comparisce al pubblico senza la falsa denominazione che per ben due secoli ebbe dal volgo degli eruditi e dei professori. I più esperti uomini d’ ambedue le accennate classi s’erano giù avvisti che le immagini sicure di quel famoso Bitino non avvaloravano, ma smentivano l’opinione comune. Se però consentivano su questo punto, dissentivano sull’altro della nuova denominazione, Alcuni s’immaginavano di ravvisarvi Teseo, altri fra i quali il celebre Mengs, un Ercole imberbe, i più finalmente, dietro l’autorità di Winkelmann, un Meleagro. Se di Teseo per altro ha la nostra statua la serena avvenenza del volto, non ha però nè i lineamenti coi quali in altre antiche reliquie vien rappresentato, nò l’ornato; poiché lo sogliamo sedente vedere colla benda, nè finalmente i capelli che crespi in nessuna immagine di Teseo s’incontrano. Se d’Ercole ha una certa robusta muscolatura, che anco traspare sotto la rotondità delle forme giovanili, non ha però nè la pelle leonina, nè la grossezza del collo, nè la proporzione della testa nè finalmente la fisonomia, ch’è nel nostro marmo assai più divina. L’opinione che lo crede un Meleagro, benché la più seguita, è la meno probabile delle tre: non ha forse altro fondamento che una leggera somiglianza di attitudine conia celebre statua di quell’eroe, che si con serva in questo stesso Museo, Disconvengono però a Meleagro i tratti del sembiante totalmente diversi e nella j^resente statua assai più sublimi; disconviene l’abitudine delle membra molto più robusta e per così dire atletica, di quella che si osserva nei Meleagri; disconviene la graziosa pendenza del capo, propria di un nume che s’ inchina ad ascoltar le preghiere dei mortali; disconviene finalmente l’assenza totale dei distintivi del vincitor della belva di Calidone, che non solamente nella nostra statua posson mancare, ma nelle tante copie antiche e ripetizioni della medesima che sussistono in Roma e fuori, non appariscono affatto, e non si conserva verun vestigio. Io non ho mai dubitato di ravvisare Mercurio in uno dei più bei simulacri dell’antichità e dell’idolatria, A lui si compete, anzi è suo particolar distintivo, il crine vezzosamente increspato. A lui secondo la minuta descrizione di Galeno, l’aria soave del volto e lo sguardo dolcemente penetrante; a lui la vigorosa complession delle membra che palesa l’inventore o il padre della palestra, al dir di Filostrato. sua figlia; a lui finalmente è tutto proprio, secondo l’osservazione degli antiquarii, il manto ravvolto al braccio sinistro, simbolo della sua speditezza nelle tante incombenze delle sue moltiplici attribuzioni. Mancano è vero, i segni di Mercurio più comuni; l’ali, il petaso, il caduceo, la borsa. Non sono però questi simboli tanto suoi proprii che senza uno o più di questi non s’incontrino immagini di Mercurio; e forse non convenivano alla destinazione di questa statua, non essedovene alcuno caretteristico del Mercurio Eisagonìo, che presiede alla palestra e agli atleti, che n’era forse il soggetto.

« Alcuno di questi simboli, e singolarmente il caduceo, poteva essere nell’antico, giacché sono mancanti le mani. Che più? per ridurre la congettura a dimostrazione si chiede di vederne un’antica copia in cui esistano tuttora i segni non equivoci di Mercurio? Questa è sotto gli occhi del pubblico nella Galleria Farnese, dove con piacevol sorpresa può vedersi l’Antinoo di Belvedere coi talari ai piedi e col caduceo alla manca. Parte di questi simboli è indubitatamente antica, e il ristauratore non ha fatto altro che terminarli.

« Ecco dunque schiarito e ridotto a certezza il soggètto della statua Vaticana, aggiungendo al peso delle sopraccennate congetture quello gravissimo del confronto riconosciuto dagli eruditi come il mezzo più certo per decifrare simili ambiguità. Che se alcuno fosse curioso di apprendere onde avesse il nostro Mercurio tratta la comune denominazione, potrei dire che l’avvenenza del volto e l’increspatura dei capelli suscitarono l’idea di questa rassomiglianza, che non ha poi retto alla diligente osservazione dei ritratti certi di Antinoo. Credettero ancora di avere un altro fondamento per tale opinione nel nome di Adrianello che davasi, ai tempi del Nardini, al sito dell’Esquilino dove fu scoperto questo bel marmo, e ch’egli sospetta esser potuto derivare da un’aggiunta fatta da quell’Augusto alle vicine Terme di Tito; come se una statua, dissot» terrata dalle rovine di un edifizio ch’ebbe per fondatore Adriano, non potesse appartenere ad altri che al suo favorito.

« Paolo III la reputò degna di figurare nel giardino di Belvedere presso al Laocoonte e all’Apollo, e questo giudizio è stato confermato dall’ammirazione dell’ età susseguenti. Non vi è sicuramente opera di scultura nella quale sia giunta a tanta perfezione l’espressione della carne, difficilissima in un ignudo nobile e giovanile. La testa non cede nella bellezza del disegno e dell’esecuzione ad alcuna che sia mai stata scolpita, ed ha un’aria così tranquilla e divina che incanta gli spettatori. Nessuna statua ha accoppiata tanta robustezza con tanta eleganza. Nessuna è stata immaginata o eseguita con più ardire, o si consideri il serpeggiamento della figura, il rilievo dei fianchi, il contorno delle gambe, e sin l’espressione delle articolazioni dei piedi. È vero che nelle gambe trovano alcuni conoscitori qualche difetto, ma può questo ben provenire dalla riunione moderna dei pezzi antichi eseguita con qualche arbitrio, L’ armoniosa relazion delle parti è tanto sorprendente in questa statua, che l’intelligente Pussino non ha prese sopra altro marmo le più belle proporzioni della figura. E il numero delle copie antiche che ci rimangono ne dà una maggiore idea del merito dell’ originale, che tale è senza quistione il marmo Vaticano, come ne fa fede la nobil franchezza dell’ esecuzione. Tra le molte che n’esistono, due ne furono dissotterrate per la Via Appia nella tenuta detta Il Colombaro, ove era forse la villa dell’imperatore Gallieno. Oltre il Mercurio del Palazzo Farnese, n’ esistevano altre tre repliche nella Villa Mattei. Una piccola, in bronzo, dissotterrata negli scavi dell’ Ercolano, è ora in Francia, ed è stata pubblicata dal conte di Caylus. Non si dee per altro porre, nel numero delle copie di questa statua quella di bronzo di Salisburgo, quantunque nella Storia delle Arti ciò si asserisca. È questo uno dei piccoli nei di quelr opera classica, che non ne oscurano il merito singolarissimo. La figura stessa della statua Salisburgense, riportata in Grutero, ne dimostra la totale diversità. È ben vero che si dice rappresentare r immagine di Antinoo come si vede nel marmo Vaticano, e l’asserzione di questa pretesa rassomiglianza ha sedotto Winkelmann, che sicuramente non avea veduto l’originale.

« Mi resta da osservare che il contorno del basamento antico nel quale è incassato il piantato della statua, è tutto segnato di colpi di scalpello; lo che indica essere stato rivestito di più preziosa materia. »

Ode di Orazio sopra Mercurio.
Parafrasata

Cillenio dio, gloria dell’avo Atlante,
Che il fero culto del recente mondo
Colla palestra ornasti, e col sonante
Carme fecondo;

Te canto, o padre della curva lira,
Al faretrato iddio dono maggiore
Della minaccia, onde fu pegno l’ira
D’eterno amore:

A te fanciullo del rapito armento
La cura con miglior senno commise,
E vedovo dell’arco, all’ire intento,
Apollo rise.

Tu l’aer tratti, a te servono i venti
Coll’eterno vigor dei piedi alati:
Scendi fra noi quando di dio gli accenti
Seguono i Fati.
Nume pietoso ai miseri mortali
Priamo guidasti fra l’Achive tende:
Gli accrebbe onor la maestà dei mali.
Non regie bende.

Baciò le mani al vincitor tremendo
Sparse di sangue, ed ammutir le squadre
Achille nel senil volto piangendo
Rivide il padre.

Nell’Eliso la tua verga conduce
I Giusti sciolti dal corporeo manto,
E quei che spargon per la nova luce
Provido pianto.

Tu vinci gli occhi col miglior dei numi,
Che per te lascia le Cimmerie grotte:
Dical Argo, cui preme i cento lumi
Unica notte.

Lezione decimaquinta.
Apollo. §

Fra i più chiari figli di Giove, Apollo si distingue, il signore del canto, l’eterno rettore dei corsieri del sole, il custode del futuro, di cui dilegua le tenebre; il re della Delfica terra, di Claro, di Tenedo, e dei regni Panopei. Al figlio di Saturno lo partorì Latona con la sorella, emula illustre che seco divide l’impero del cielo, e va superba della luce fraterna.

In Delo una palma additava ove la madre perseguitata si appoggiò, partoriente (per servirmi dell’espressione di Dante) li due occhi del cielo.

Apollo, benché dio, soggiacque a molte sventure: onde veruno dei numi fu di esso più compassionevole, avendo fatto degli umani mali esperimento.

Illustre fra gl’infortunii di lui è quello che gli procurò l’amore paterno. Aveva Esculapio, peritissimo della medicina, trovato il mezzo di sottrarre i mortali alla più terribile delle dee, alla Morte. Sdegnato Giove perchè T umana gente liberata da questo terrore sarebbe in ogni colpa trascorsa, uccise questo raro medico, cui non valsero le sue arti. Apollo percosso dalla pietà dell’estinto figliuolo, non potendo rivolgere la sua vendetta contro il Tonante, diresse infallibili saette sui Ciclopi fabbricatori del fulmine, arme di Giove, e ministro della morte vendicata. Sdegnato il padre degli uomini rilegò dal cielo Apollo, che esule famoso errò per la terra lungo tempo, e finalmente ricovrossi presso Admeto, nella cui casa sofferse la mensa servile, e tutti i danni

« Che l’arco dell’esilio pria saetta. »

Sull’Amfriso pasceva le cavalle del re, e nel pingue lago Bebeide lavava le chiome, già gloria della madre. Quante volte Diana arrossì incontrando nelle selve il fratello divenuto servo d’ un mortale: Conobbe Admeto finalmente l’ospite divino, e nacque fra loro non volgare amicizia, cui fu debitore il primo d’infiniti benefizii, onde nell’insigne tragedia di Euripide il nume col suo pietoso ministero aiuta Ercole, che libera dalla morte l’unica Alceste.

    Nè la serviti: d’Apollo ebbe fine, poiché la povertà lo costrinse a dividere con Nettuno l’impresa di costruire le mura troiane. Non adoprò il dio, secondo Ovidio, i comuni mezzi, ma col suono della lira volontarie le pietre si unirono perché sorgessero le mura dello spergiuro Laomedonte. Nè la pattuita mercede segui la fatica: più generoso del re dell’acque, non fece piangere Apollo i popoli per la colpa del re, ma propizio ai Troiani diresse l’arco di Paride contro Achille, di lui solamente minore. Egli, che al dire di Orazio, del mentito destriero col timido inganno non avrebbe vinto i Troiani in misera gioia immersi, ma spenti i figli nascosi ancora nelle viscere materne, cadde, benché figlio di dea, e il collo superbo bruttò nella polvere troiana. Così ritardò i fatti troiani il nume, che in altre opere servili domò la divina alterezza perchè fu aiutatore di Alcatoo per edificare l’ inestricabile errore del laberinto. Tale grido correva fra i Megaresi, come Pausania nel suo Viaggio nell’Attica fa testimonianza.

Nel suo mortale pellegrinaggio cercò Apollo l’oblivione di tante cure, ed inventò la musica; scoperta che da altre divinità gli venne contrastata. Infatti nella passata Lezione vi feci osservare che questo ritrovato fu pure a Mercurio attribuito: conciliano alcuni questa difficoltà, concedendo la lira al figlio di Maia, ad Apollo la cetra.

Il nume non fu nell’amore felice, benché fra gli immortali bellissimo e ricco di tanti doni. Superbo pel vinto Pitone, vide Amore che torceva l’arco, e rampognò il potente fanciullo perché usurpava quell’armi stesse, alle quali la difficil vittoria doveva sullo spazioso serpente. Sdegnato il figlio di Venere volò sul Parnaso, e due dardi di diversa opera tolse dalla faretra. Col primo, dorato e ministro di amore, ferì Apollo; col secondo, di piombo, d’invincibil odio cagione, saettò la figlia del fiume Peneo, emula di Diana nella castità e nei comuni studj.

Non giovarono a Febo le preghiere, le promesse per fermare il timido corso della giovinetta, cui la fuga accresceva bellezza. Ali dava la speranza al primo; il timore alla seconda, cui l’implorata divinità paterna salvò il pudore, mutandole forma: in fronde i crini, in rami crebbero le braccia, che il dio intorno al collo sperava. Trionfò Apollo delli stessi suoi danni, facendo a sé sacro l’ albero in cui si cangiò l’amata ninfa, che quindi divenne

« Onor d’imperadori e di poeti. »

Misere pure furono le amanti che a Febo non furono crudeli. Clizia, volgendogli la faccia, attesta ancora il suo affanno. Cara gli era soprattutto quando amore lo prese di Leucotoe, ch’egli deluse nelle sembianze della genitrice. Le invidiò gli amplessi immortali la ninfa affannosa, diffamò la colpa di lei, onde il padre spietato sotterrò viva la misera, che invano al consapevol nume tendeva le braccia.

Tentò Apollo di richiamare il calore nelle gelide membra. Si oppose il Fato alle sue cure; onde cercando compensi al suo dolore, convertì la giovinetta in una verga dell’ incenso odorato, che sale alle sedi degli immortali.

Ma Clizia, quantunque nell’amore avesse scusa il suo fallo, non gustò più la dolcezza dei baci divini. Invano per nove giorni cogli sparsi capelli si assise digiuna sulla nuda terra, guardando cogli occhi instancabili il volto dell’iddio fuggente. Pietà crudele diede fine alla pena della sventurata, in croceo fiore, detto Elitropio, trasformata.

Ma assai per la presente Lezione degli amori di Apollo. Un simulacro di lui chiamato Saurottono, v’illustrerà il Visconti. Molte cose intorno a questa divinità insegnate vi saranno da Callimaco nel suo Inno, che in parte ho tradotto.

Apollo detto il Saurottono.

« I capi d’ opera della scultura furono eternati dall’ammirazione degli antichi, non solo colla memoria che ce ne hanno lasciata nei loro scritti, ma più colle repliche e copie eccellenti, delle quali erano piene le case e le ville de’ grandi, i luoghi pubblici e i templi di Roma. In questa elegantissima statua siamo sicuri di ravvisare il celebre Saurottono, lavoro di bronzo dei più rinomati dello spesse volte lodato Prassitele, di cui non solo in marmo, ma in bronzo ancora ed in gemme si conservano le copie. Ci ha lasciato Marziale un epigramma sovra il Saurottono, che si ammirava in Roma a’ suoi giorni, e così si esprime: — fanciullo insidioso, perdona alla strisciante lucertola: ella desidera di morire per le tue mani. — Poco più c’insegna questo epigramma di ciò che il nome stesso della statua ci apprenderebbe, giacché altro non vale in greco saurottono che uccisore della lucertola. Nò il soggetto rappresentato in questa azione, nè l’artefice di sì bell’opera, sono menzionati nel distico. La descrizione che ce ne dà Plinio è più accurata, e servì per far riconoscere in simile statua il Saurottono di Prassitele al celebre Winkelmann mio antecessore. Fece (son le parole di Plinio dove parla delle opere di Prassitele in bronzo), fece un Apollo jmbere insidiante ad un serpente lucertola con una saetta da vicino. L’età della nostra figura, l’attitudine di scagliare una freccia da vicino e senza l’arco, la situazione del giovinetto mezzo nascoso dietro al tronco, indicata da Plinio colla parola insidiante, da Marziale col fanciullo insidioso, sono altrettanti segni per riconoscervi la stessa opera rammentata per ambedue. Anzi, quando questo scrittore non ci dicesse che il garzoncello rappresentato è Apollo stesso, effigiato dallo scultore fra giovane e fanciullo, che fa prova contro una lucertola puerilmente di quelli strali inevitabili, che dovevano un giorno trafiggere il Pitone, lo potremmo congetturare da questa statua. La nobiltà delle forme e la bellezza ideale, colla quale l’artefice lo ha caratterizzato, ce la fanno conoscere per un nume. L’azione di saettare non può essere equivoca che fra Apollo e. Cupido, ma la mancanza delle ali esclude quest’ultimo. La chioma vezzosamente raccolta, e quasi all’ uso donnesco, è tutta propria del figlio di Latona, sebbene conviene particolarmente all’età in cui è figurato, nella quale, secondo Giovenale, fanno i capelli fanciulleschi incerto il volto. Molte statue in simile attitudine esistono ancora al presente, e sono 1’ attestato della celebrità del loro originale. Quella della Villa Al bani è in bronzo, ma non posso crederla quella stessa che ha- fuso Prassitele, anzi una copia alquanto minore, perchè le altre in marmo sono più grandi, ed alcune, fra le quali la nostra e quella della Villa Borghese, di più elegante lavoro. »

Inno di Callimaco.

Come si scosse l’apollineo ramo
E l’atrio intero: lungi ite, profani,
Lungi. Le porte col bel pie percote
Febo: noi vedi? La Deliaca palma
Di repente si spiega, e dà soave
Cenno; e per Taer dolcemente il cigno
Canta. Apritevi, o porte, ecco lo dio
Della danza e del canto: ai modi alterni
Deh v’accingete, o giovinette. Apollo
A tutti non appar, che cari solo
Gli sono i buoni, e chi noi vede è vile
. Vedremti, o lungo Saettante, e grandi
Sarem. Non taccia mai piede, nè cetra,
Febo presente, se d’Imen le leggi
Desiate propizie, e la canuta
Chioma in lieta vecchiezza al vostro capo
Troncar volete, e se desio vi prende
Di fermar mura sopra basi antiche.
Ma fine a gli ozj della lira impose
Il canto, e ancor l’ammiro. Adesso udite:
Silenzio: udite la canzon d’Apollo.
Tace del mar la formidabil onda
Quando canta il poeta i certi dardi
E il divin plettro del Licoreo nume.
Nè più Teti nel mare ulula Achille,
Quando, Io Pean, Io Pean rimbomba:
Le lacrime sospende, e più non apre
La mesta bocca in miserabil atto
Niobe, che in Frigia sorge umida pietra,
E ognora attesta con immoto lutto
Di superbe parole alta vendetta.
Misero è ben chi cogli Dei contrasta:
Pugna col rege chi con dio combatte.
Apollo il coro onorerà se canta
A senno suo: chi al par di lui lo puote.
Che siede a destra del gran Giove, e vince
Con beata armonia le cure eterne,
E crebbe invidia ai gigantei trionfi?
Nè un giorno solo regnerà nel canto
Febo che d’inni è colmo: il dir sue lodi
E lieve. Apollo aurea ha la veste, e d’oro
Tien pur la lira, la faretra e Tarco,
I coturni e la fibbia. E chi più ricco
E dello dio? Per me Delfo lo dica
: Decoro è in lui di gioventude eterna,
E neppur l’ombra di lanugin prima
Oltraggio fece al delicato volto:
Non adipe ha la chioma. Olj odorati
Stilla, e la stessa panacea. Beata
È la città che tal rugiada asperge.
Salvo sia tutto: in varie arti maestro
E nume: impera alla faretra, al canto,
E il poeta e l’arcier ama, e le sorti.
Le mediche insegnò cure, e di morte
All’invitta ragione oppor dimora.
E pastor lo dirò, che il vide assiso
Pascer cavalli, e nel temuto incontro
Arrossì la sorella; in lui cotanto
Potea l’amor del giovinetto Admeto:
— Io Peane, diciam — fu l’inno primo
Che sonava per Delfo, allorché Apollo
Insegnò l’arte dei curati strali.
Scendevi in Pito, o nume, allor che l’atro
Serpe incontrasti, che terror novello
Era ai mortali: tu consumi il peso
Della faretra: nell’immensa helva
Seguonsi i dardi con stridore orrendo,
E: Saetta, saetta, urla la plebe.
Te Peane però si grida, o diede
Cagione all’Inno la felice madre,
Che all’uom ti partorì pronto soccorso.
A te il livore sussurrò di furto:
Io non ammiro quel cantor che lascia
Di narrar quanto il vasto mare abbraccia;
Ma l’urta il nume con irato piede
E grida: Larga dell’assirio fiume
E l’onda, ma sua preda è solo il fango,
E va superba di sozzura. All’alta
Cerere, madre delle bionde spighe.
La Melissa che è a lei sacra, non reca
Da tutti i fonti l’acque, e rivo sceglie
Limpido e sacro, che soave stilla,
Dell’onde onor fra gli educati fiori.
Che lusinga l’auretta e chiama il sole.

Lezione decimasesta.
I templi di Apollo. §

Non posso dar principio migliore alla seconda Lezione sopra Apollo che con Delfo, nobilitato dalle imprese, dal tempio e dall’oracolo del nume. Pausania, tesoro di pellegrine cognizioni per l’artista, c’istruirà colle sue stesse parole.

«Vi sono molte tradizioni, e tutte diverse, intorno alla città di Delfo, e più ve n’ha ancora sull’oracolo di Apollo, perchè dicesi che anticamente Delfo era il luogo ove la Terra rendeva le sue risposte, e che Dafne, una delle ninfe della montagna fu scelta dalla dea onde vi presedesse. I Greci hanno antiche poesie intitolate Consigli di Eumolpó, che attribuiscono a Museo figlio di Antifemo. È fama che la Terra pronunziasse ella stessa i suoi oracoli in questo luogo, e pure i suoi Nettuno col ministero di Pircone. Si pretende che snccessivamente la dea dasse la sua porzione a Temi, e che Temi ne facesse dono ad Apollo, e che quest’ultimo, per aver la parte di Nettuno, gli cedesse Calaurea che è dirimpetto a Trezene. Ho sentito dire a degli altri che dei pastori avendo condotto per caso i loro armenti verso questo luogo, si trovarono ad un tratto agitati da un vapore che gli occupò, e che inspirati da Apollo cominciarono a predire il futuro. Ma Femonoe divenne allora molto celebre: ella fu la prima interprete del dio, e lo fé’ parlare pure per la prima volta in versi esametri. Non ostante Boeo nativa del luogo, e conosciuta per Inni che fece per gli abitanti di Delfo, attribuisce a stranieri venuti dalle contrade Iperboree la costruzione del tempio ove Apollo dava i suoi oracoli: asserisce inoltre che molti fra loro profetizzarono, e che Oleno, fra gli altri, inventò il verso esametro per quest’ uso. Non ostante, l’opinione più probabile e più seguitata è che Apollo ha sempre avuto delle donne per interpreti delle sue risposte.

« Si pretende che la prima cappella del dio fosse composta dai remi di un lauro di Tempo, e non era che una semplice capanna. È grido che successivamente dell’api ne fabbricarono un’altra colla cera e colle loro proprie ali, e che la prima fu agli Iperborei mandata da Apollo. Ma secondo un’altra tradizione, questa seconda cappella fu edificata da uno di Delfo chiamato Ptera, che coll’equivoco del suo nome, che in greco significa ala, diede luogo alla favola mentovata. Credono, in terzo luogo, che il tempio di Apollo fosse composto di rame; il che non deve sembrare incredibile, poiché Acrisie avea fatta edificare una camera della stessa materia per la sua figlia, la quale si vede ancora a Sparta nel tempio di Minerva Calcieca, così chiamata perchè era tutta di rame. In Roma, il luogo ove si amministra la giustizia, sorprende per la sua gran dezza: ma ciò che più vi si ammira è un pavimento di rame che per tutto si stende.

« Così non è incredibile che il tempio di Apollo in Delfo fosse di rame, ma che Vulcano lo fabbricasse; il che non credo, come repugna che vi fossero delle vergini d’oro, che voce armoniosa risuonavano, nella maniera che Pindaro ha immaginato, giovandosi, a quel ch’io penso, di ciò che Omero disse sulle Sirene.

« Vi è discordia sulla maniera, nella quale questo tempio fu distrutto. Alcuni dicono che dall’ aperta terra fu inghiottito; altri che si fuse il rame onde era composto. Che che ne sia, il tempio di Apollo fu rifatto di pietra la quarta volta da Agamede e da Trofonio. Fu bruciato di nuovo sotto l’arcontato di Ersiclide in Atene, il primo anno della Lvm Olimpiade, illustrato dalla vittoria che Diognete di Crotone riportò ai giuochi olimpici. Quanto al tempio, che oggi sussiste, furono gli Antizioni che ne ordinarono la costruzione col danaro dal popolo consacrato per quest’uso. Spiritare di Corinto n’è stato l’architetto.

« Si vuole clie nella più remota antichità Parnaso avesse in questo luogo una città,fondata. Egli era figlio della ninfa Cleudora, e, come tutti gli eroi, passava per avere due padri, uno mortale in Cleopompo, l’altro immortale in Nettuno. Il monte Parnaso, e la selva, da lui ebbero, il nome. Aggiungono che trovasse l’arte di conoscere l’avvenire col volo degli uccelli, e che la città di cui è fondatore fosse sommersa nel diluvio di Deucalione.

« I pochi uomini che avanzarono all’acque avendo guadagnata la sommità del Parnaso coi lupi e le altre hestie feroci, che con gli urli servivano loro di scorta, vi edificarono una città chiamata Licorea per questo motivo. Con tutto ciò, un’ altra tradizione porta che Apollo ehhe dalla ninfa Coricia Licoro, che diede il suo nome al detto luogo, e quello di sua madre ad un altro, che Coricio ai tempi nostri ancora vien chiamato.

« E fama inoltre che lamo nato da Licore ehhe per figlia Celeno, che partorì ad Apollo un figlio chiamato Delfo, da cui la città ha tolto la sua denominazione. Altri dicono che Castalio, figlio della Terra, ehhe una fanciulla chiamata Tia, che fu la prima insignita del sacerdozio di Bacco, e celebrò Torgie in onore del dio; dal che, dicono, è nato che tutte le donne prese d’ una santa ebbrezza hanno voluto praticare le stesse cerimonie, e Tiadi sono state dette.

« Secondo i mentovati, Delfo nacque da Apollo e da questa Tia: alcuni gli danno per madre ancora Melene figlia del Cefiso.

« Col tempo la gente del paese chiamò la città non solamente Delfo, ma Pito: di che Omero fa testimonianza nella enumerazione dei Focesi. Coloro che si piccano di sapere le genealogie, pretendono che Delfo avesse un figlio chiamato Piti, che regnando diede il suo cognome alla terra.

« Ma l’opinione più comune è che Apollo vi.uccidesse un uomo colle freccio. il di cui corpo essendo rimasto insepolto, infettò gii abitanti, e pose alla città il nome di Pito, cioè cattivo odore. Infatti Omero ha detto che l’isola delle Sirene era piena d’ossa; perchè coloro che prestavano orecchie a queste incantatrici morivano, ed i loro corpi, privi di tomba, avvelenavano l’aria dell’isola.

« I poeti dicono che fu da Apollo ucciso un drago, cui la sicurezza dei suoi oracoli aveva la Terra affidata. Si racconta ancora che Crio potente nelTisola Eubea, aveva un figlio scelerato che ardì saccheggiare a mano armata il tempio di Apollo, e le case di molti ricchi particolari. Porse il popolo preghiere al nume perchè in tanto pericolo non lo abbandonasse, e Femonoe interprete di lui risposegli in versi esametri, dei quali è tale il senso: — Apollo scoccherà una freccia mortale contro il bandito del Parnaso, e lo distenderà ai suoi piedi. Macchiato di un sangue così vile, ricorrerà ai Cretesi per esser purificato, e questo avvenimento sarà celebre eternamente. —

« Il tempio di Apollo fu dunque esposto fino dal suo principio alle intraprese degli uomini avidi e scelerati. Infatti, dopo questo bandito dell’isola Eubea, gli Orcomeni di Flegia, e quindi Pirro figlio di Achille, si prefissero di saccheggiarlo. Una parte dell’armata di Serse ebbe lo stesso scopo. I Focesi per le istigazioni dei loro capi, si resero padroni del sacro deposito, ch’era conservato in questo tempio, e lo possederono lungamente. Quindi i Galli vennero all’assedio di Delfo. Finalmente era nei fati di questo tempio di non scampare all’ empietà di Nerone. Egli portò via cinquecento statue di bronzo, tanto d’uomini illustri che dei numi.

« Passiamo adesso all’istituzione de’ giuochi Pitici. Dicesi che questi giuochi consistevano anticamente in una gara di musica e di poesia, nella quale il premio concedevasi a colui, che avesse cantato i) più bell’inno in onor del nume. Nella prima celebrazione Crisotemi di Creta fu vincitore: egli era figlio di quel Carmanore che aveva purificato Apollo.

« Dopo lui Filamrnone figlio di Crisotemi, ed in seguito Tamiri figlio di Filammone, poiché si vuole che nò Orfeo, il quale rispettabile rendeva un’alta saviezza con una perfetta cognizione dei misteri, nè Museo che si era propoposto d’imitare Orfeo, vollero avvilirsi a disputare la palma dei giuochi Pitici. Si racconta che Eleutero fu dichiarato vincitore per la sua bella e sonora voce, quantunque cantasse un inno non suo.

« Vogliono che Esiodo non fosse ammesso alla gara perchè non sapea colla lira accompagnare il canto. Quanto ad Omero, si pretende che venisse a Delfo per consultare l’oracolo: ma che essendo divenuto cieco, facesse poco uso del talento di ma-ritare il suono colla voce.

« Nella XLVIII olimpiade Glaucia di Crotone fu proclamato vincitore in Olimpia. Il terzo anno di questa olimpiade gli Anfizioni fecero delle variazioni, perchè, lasciando J sussistere il premio della musica e della poesia, ne aggiunsero due altri; uno per quelli che accompagnavano col flauto, l’altro per quelli che lo sonavano. Allora s’istituì a Delfo gli stessi giuochi, li stessi combattimenti che in Olimpia: la quadriga fu solamente eccettuata. I fanciulli per una legge espressa, furono ammessi alla corsa dello stadio semplice ed a quello dello stadio ripetuto; ma nella Pitiade successiva si abolì il premio, e fu stabilito che non vi sarebbero che delle corone pei vincitori. Si tolse l’accompagnatura dei flauti, perchè aveva un non so che di tristo, e non poteva convenire che alle lamentazioni ed all’elegie, ed infatti questo era l’uso che se ne faceva.

« Nel seguito ai giuochi Pitici si aggiunse la corsa dei cavalli. Nell’ottava Pitiade si diede una corona pei giuocatori d’ istrumenti a corde senza canto. Nella seconda si comprese la corsa degli uomini armati. »

Fin qui Pausania. Daremo quel che avanza del suo racconto nella se^’uente Lezione. Udite intanto da Orazio nuove lodi del nume.

Nume, che ultor della fastosa lingua
Sentì la prole Niobea, che l’ arco
Certo sul rapitor Tizio volgesti,
E contro Achille Larisseo maggiore
Duce d’ogni altro, e per te solo, o Dio,
Ineguale guerrier, benché di Teti
Figlio scotesse le Dardanie mura
Con la, fato di Troia, asta tremenda.
Qual pin reciso da bipenne acuta,
O querce, ch’il furor di Noto atterra,
E di larga mina il bosco ingombra.
Cade il Pelide, e nella Teucra polve
Pone il capo, dolor lungo alla madre.
Col palladio destrier timido inganno
Ei non tendeva alla Priamea reggia,
E ai Frigi immersi in lacrimata gioia,
Che avria, tremendo apertamente ai vinti,
I figli ascosi nel materno seno
Con le fiamme rapite al frigio rogo
Arsi, se Giove, che dei numi è padre.
Non donava ad Enea patria migliore,
Vinto dai preghi della Cipria dea
E dalla voce tua, padre del canto.
Eterna gloria della lira argiva.
Febo che lavi nel tuo Xanto i crini,
L’onor difendi della Daunia musa.
Imberbe Ageo. Tu gli animosi spirti
Mi desti, e la divina arte dei versi
Ed il nome di vate. voi, che siete
Fra le vergini prime, e voi di chiara
Stirpe fanciulli, alla gran dea tutela
Che l’error segue dei fugaci cervi,
Del Lesbio metro l’armonìa serbate.
Ed i numeri miei. Dite Latona,
E lei che adorna del fraterno lume
La notte, e sola soffre occhio mortale.
Alla messe propizia, e che degli anni
Mostra la fuga col crescente raggio.
Quindi sposi direte: un inno ai numi
Caro sciogliemmo nei festivi giorni,
E i modi ne dettò Fiacco poeta.
Orazio, Ode V, lib. iv.

Lezione decimasettima.
Monumenti del tempio di Delfo. §

Pausania, nell’enumerazione dei doni che ornavano il tempio di Delfo, tesse la storia delle imprese di quelle nazioni, dalle quali erano stati offerti. Io sopprimerò questa parte del racconto di lui, perchè non conviene allo scopo delle mie Lezioni, lasciando sussistere quello che riguarda la mitologia e l’arte.

« Delfo è situato sopra una sommità, dalla quale si può discendere per tutte le parti con un facil pendio. Il tempio di Apollo ha la stessa posizione ed occupa gran parte della città, e molte strade vi fanno capo.

« Annovererò hrevemente i più considerevoli monumenti consacrati al dio. Lasciando le statue dei musici e degli atleti, che hanno nell’arte loro riportata la palma, Faille di Crotone sarà da me solo rammentato, illustre per tre vittorie riportate ai giuochi pitici, due al pentatlo, una alla corsa. ma più illustre ancora pel suo combattimento navale contro i Persiani. A dritto dunque gli eressero una statua in Delfo. Nel recinto del tempio vedrete subito un toro di bronzo, opera di Teopropo di Egina, offerta dai Corciresi, Si presenta quindi a vostri occhi il dono dei Te^eati in memoria del trionfo che riportarono su gli Spartani. Consiste in un Apollo, in una Vittoria con le statue degli eroi originarii di Tegea; come Callisto figlia di Licaone Arcade che diede il suo nome a tutta la contrada, il figlio di lui Elato, Afida e Azano, Trifilo, che ebbe per madre non Erato, ma Laodamia, figlia di Amicla re di Macedonia, ed Eraso figlio di Trifilo. L’Apollo e la Callisto sono di Pausania di Apollonia; la Vittoria e la statua di Arcade sono di Dedalo Sicionio; Trifilo ed Azano sono di Samola Arcadie. Finalmente Elato, Afida ed Eraso sono di Antifane Argivo. Innanzi a questi simulacri ne stanno altri nuovi dei Lacedemoni in rendimento di grazie per la vittoria che riportarono sopra gli Ateniesi. j) Dietro queste statue, nel secondo posto, si scorgono quelle di quegli animosi guerrieri greci, che favorivano ad Egospotamo l’impresa di Lisandro. Patrocle e Canaco se ne credono gli autori. Gli Argivi, che in questo combattimento ebbero la presunzione di credersi vittoriosi, inviarono a Delfo un cavallo di bronzo ad imitazione di quello di Troia, opera di Antifane Argivo.

« Sul piedistallo del medesimo vi è un’iscrizione la quale riferisce che le statue onde è circondato provengono dalla decima del bottino, che gli Ateniesi conqaistarono dai Persiani nella battaglia di Maratona.

« Dette state sono in prima Minerva ed Apollo, in secondo luogo Milziade, come generale dell’armata ateniese, in terzo luogo gli eroi che diedero il nome alle varie tribiì ateniesi: Eretteo, Cecrope, Pandione, Leo, Antioco, Egeo ed Acamante figlio di Teseo. Vi si ammira ancora Codro figlio di Melanto, Teseo e Fileo, benché tribù alcuna non abbia il loro nome. Dalle mani famose di Fidia sono nati tutti questi simulacri.

« Presso del nominato cavallo si mirano pure altre offerte degli Argivi, che consistono nelle immagini dei principali capi che presero il partito di Polinice, e si unirono con lui per l’assedio di Tebe; Adrasto figlio di Talao, Tideo figlio di Eneo, i discendenti di Preto, come Capaneo nato da Ipponoo, ed Eteocto da Isi; finalmente lo stesso Polinice ed Ippomedonte, nato da una sorella di Adrasto. Là pure vedesi il carro di Anfiarao con Batone suo parente e suo scudiere, che tiene le briglie dei cavalli. L’ultima di queste statue è di Aliterse; l’altre sono di Ipatodoro e di Aristogitone. Offrirono pure ad Apollo gli Argivi le statue degli Epigoni, e quella di Danae re di Argo con Ipermestra, figlia di lui, sola innocente. Accanto ad essa è Linceo, e tutti gli eroi discendenti da Ercole, e da Perseo d’Ercole ancora più antico.

« Succede il presente dei Tarentini, che consiste in cavalli di bronzo e nelle immagini de’prigionieri. Questo monumento è della scuola di Agelada Argivo. Accanto vi è il tesoro dei Sicionii, ove si custodiva il danaro consacrato ad Apollo. Oggi non vi è danaro nè in questo luogo, nè in alcun altro del delfico tempio. Segue il dono dei Gnidii, eh’ è una statua equestre di Triopa loro fondatore, Latona, Apollo e Diana: questi ultimi scoccano le loro frecce sopra Tizio, che sembra averne le membra forate. Gli Ateniesi ed i Tebani hanno pur costruita col nome di tesoro una specie di cappella, i primi per lasciar una memoria della pugna di Maratona, i secondi di quella di Leuttra.

Gli Ateniesi hanno ancora edificato un portico colle ricchezze dei popoli del Peloponneso e dei loro alleati. Rostri di navi e scudi di bronzo ne stavano sospesi alla volta. Sopra questo portico vi è una rocca ove sedeva Erofile Sibilla quando gli oracoli proferiva. Vedrete ancora in Delfo una testa di toro di Peonia in bronzo, donata da Dropione re di quella contrada. Davanti alla nominata testa sta un simulacro donato dagli abitanti di Andro, che credesi rappresentare Andreo loro fondatore. Seguono Apollo, Minerva e Diana consacrati dai Focesi; Giove Ammone sul carro, dono dei Cirenei, popolo della Libia di origine greca; una statua equestre di Achille, dei Tessali; un Apollo con una cerva, dei Macedoni, che abitano la città di Dione sotto il monte Pierio. La statua di Ercole, che quindi si scorge, è dono dei Tebani, il Giove in bronzo e l’immagine dell’Isola d’Egina dei Filasi, l’Apollo della stessa materia, appartiene agli Arcadi di Mantinea. Un poco più lontano vi è Apollo ed Ercole che disputano un tripode: ognuno di loro vuole averlo, e sono per battersi: ma Latona e Diana ritengono Apollo; Minerva pacifica Ercole. La Minerva e la Diana sono di Chioni, le aitre statue del monumento di Dillo e di Amicle scnltori di Corinto. Ve tradizione in Delfo che Ercole figlio di Anfitrione, essendo venuto per consultare l’oracolo, Xenoclea, ch’era la sacerdotessa, non volesse dargli alcuna risposta, perchè dal sangue d’Ifito era ancora macchiato. Ercole sdegnato pel rifiuto portò via dal tempio un treppiede, e la sacerdotessa gridò: E Ercole di Tirinto, e non quello di Canopo, — perchè innanzi Ercole egiziano era pure a Delfo venuto. Finalmente Alcide avendo reso il tripode, ottenne quello che desiderava, e quindi i poeti hanno presa l’occasione di fingere ch’Ercole aveva pugnato con Apollo per un treppiede.

« Dopo la famosa vittoria che i Greci riportarono insieme a Platea, la nazione intera stimò di suo dovere il fare un dono ad Apollo, che consistè in un tripode d’oro sostenuto da un drago di bronzo. Il serpente rimane ancora: ma il tripode fu rubato dai generali dell’armata focose.

« L’ascia che si vede fu offerta da Periclito figlio di Eutimaco. Ecco quello che intorno ad essa si racconta. Cigno figlio di Nettuno, che regnò a Colono città della Troade, verso l’isola Leucofri, sposò Proclea figlia di Clizio e sorella di quel Caletore che, secondo Omero nell’Iliade, fu ucciso da Aiace, mentre voleva bruciare la nave di Protesilao. Cigno ebbe da Proclea un maschio ed una femmina; il primo si chiamò Tene, ed Emitea la seconda, Morta la prima moglie, sposò in seconde nozze Filonome figlia di Craugaso, che s’innamorò di Tene figliastro. Non essendo riescita nella sua passione, l’accusò al marito di averla volata violare. Cigno, ingannato da questa impostura, fece chiudere il fratello e la sorella in una cassa, e li gettò nel mare. Salvati per loro ventura, arrivarono a Leucofri, che dal nome di Tene Tenedo fu detta. Qualche tempo dopo. Cigno scopre la menzogna e la sceleraggine della moglie. S’imbarca e va in traccia dei figliuoli per confessar loro la sua imprudenza, e dimandarne perdono. Ma nel momento che tocca la riva, e che attacca il canape del suo naviglio a un albero, ovvero ad uno scoglio. Tene prende un’ascia, taglia la fune, la nave s’allontana, e fugge preda dei venti. L’ascia di Tene ha fondato un proverbio che si applica a quelli che sono inflessibili nel loro sdegno.

« I Greci inviarono pure a Delfo un Apollo di bronzo egualmente che che un Giove in Olimpia, dopo le due vittorie marittime di Artemisio e di Salamina. Due altre statue del nume sono ofierta degli Epidauri e dei Megaresi. Nel pavimento del tempio di Delfo bellissime sentenze leggevansi, e di somma utilità per la condotta della vita. Tralascio di riportarle, giacché sono notissime, spettando ai Sette Sapienti della Grecia, e parlerò solo del come è concepita la risposta dell’oracolo, per quello che si dice, data ad Omero, la quale si legge nella colonna a cui sovrasta la statua del principe dei poeti. — Felice ed infelice, giacché tu sei nato per l’una e l’altra sorte, tu vuoi sapere qual’è la tua patria: limita la tua curiosità a conoscere il paese di tua madre: ella era dell’isola d’Io, ove terminerai i tuoi giorni. Riguardati solamente da un enigma. — Però gli abitanti d’Io mostrano ancora la tomba di Omero nella loro isola, e quella di Olimene in un luogo separato.

« Presso la fontana Cassotide sorge un edifizio, ove sono pitture del celebre Polignoto, dedicate ad Apollo. Si chiama questo luogo Lesche, perchè anticamente vi si veniva a conversare. Quando vi sarete entrato, vedrete sopra un muro a man dritta un gran quadro che rappresenta la presa di Troia, e a sinistra i Greci che s’imbarcano per il ritorno.

« Si prepara il vascello che deve salire Menelao, equipaggiato da soldati, marinari e fanciulli: Fronti, celebre piloto, è in mezzo, con un remo in mano. Sopra lui si vede un certo Ictemene, che porta dei vestiti, ed Echeace che discende da un ponte con un’urna di bronzo. Polite, Strofìo ed Alfio disfanno il padiglione di Menelao, che era un poco lontano dalla nave, ed Anfialo ne tende un altro più vicino. Sotto i piedi di Anfialo v’è un fanciullo di cui s’ignora il nome. Fronti è il solo che abbia la barba, e di cui Polignoto abbia preso il nome da Omero. Briseide è in piede: Diomede sopra essa, ed Ifi accanto, sembrano ammirare la bellezza di Elena. Questa bella donna è seduta: presso di lei è Eu ribate araldo d’ Ulisse, benché manchi di barba. Elena ha due donne seco, Pantali ed Elettra. La prima è vicina alla sua padrona; la seconda le attacca la sua calzatura. Omero si serve di altri nomi nell’Iliade, quando ci sappresenta Elena che va colle sue donne verso le mura della città. Sopra Elena vi è un uomo seduto, vestito di porpora, ed esternamente afflitto. Non vi è bisogno d’iscrizione per conoscere che è Eleno figliuolo di Priamo. — (È da notarsi questo passo di Pausania, perchè ci fa intendere che in questa pittura, ove vi era più di ottanta figure, ogni principale era distinta col nome. Conviene credere che non pregiudicassero alla bellezza dell’opera, giacché Polignoto è uno dei più famosi antichi pittori). —

« Presso Eleno sta Megete col braccio fasciato nella stessa attitudine che Lesche lo dipinge nel suo poema sul sacco di Troia, poiché dice che il medesimo fu ferito da Admeto argivo, nel combattimento che i Troiani sostennero nella notte stessa che la città loro fu presa. Dopo lui é Licomede figlio di Creonte, ferito nel pugno, come il mentovato poeta narra ch’egli fu da Agenore. Polignoto avea dunque lette le poesie di Lesche, altrimenti non avrebbe potuto sapere tutte queste circostanze. Egli rappresenta lo stesso Licomede ferito in due altre parti alla testa e nel tallone. Eurialo figlio di Mecesteo ha pure due ferite, una nel capo, l’altra nel pugno. Tutte queste figure sono al di sopra di Elena situate. »

Questa pittura che ci convince quanto la Mitologia scritta influisca sulla figurata, continuerà Pausania a descriverci nella seguente Lezione.

Udite la sorte di Niobe e dei figli di lei da Ovidio, che in questa parte ho volgarizzato. Vi recherà maraviglia che ncii sia accinto a questa impresa dopo la celebre traduzione dell’Anguillara. Ma questo insigne traduttore, dividendo cogli artisti dell’età sua il difetto di dare moderni costumi agli antichi, nuoce allo scopo dei nostri studii. Quindi è che mi perdonerete se avventurato mi sono a così diseguale confronto.

Niobe.

O fortunata fra l’Ismenie madri,
Niobe, se altera della propria sorte
Non eri. In mezzo alle tebane vie,
Ripiena il petto di furor presago.
Manto scorrea: sulle tremanti bende
L’orror s’innalza delle chiome, e grida:
Affollatevi, o donne, e date ai figli
Di Latona ed a lei preghi ed incensi.
Cingete il crin di lauro: io vel comando.
La Diva il vuole. Le prescritte frondi
Cingono il crin delle Tebane: al cielo
Mille salgono a un tempo incensi e voti.
Ma vien Niobe superba: ampia corona
Le fan mille compagne il frigio manto
L’oro distingue, e ancor nell’ira è bella.
Crolla sdegnosa la leggiadra testa,
E accresce onor la libertà del crine,
Che sopra i delicati omeri ondeggia.
Fermasi, e volge alteramente intorno
I lumi, e grida: E qual furor, Tebani,
Gli uditi numi preferire a quelli
Cho sugli occhi vi stanno? a che si adora
Sugli altari Latona, e senza incensi
E il mio nume? Di me Tantalo è padre,
Che solo fra i mortali un dì sedeva
Alle mense celesti: ed è sorella
Alle Pleiadi la madre, ed avo Atlante,
Quel potente che il ciel sostiene e i numi
Sull’eguale cervice, ed ho per avo
E per socero Giove: il Frigio aspetta
I miei cenni tremante; a me di Cadmo
Serve là reggia, e Tebe, a cui le mura
Del marito la cetra unì: rimiro
Ampli tesori delle regie stanze
In ogni parte: a questo aggiungi un volto
Degno di diva, e sette figli, e sette
Giovinette, che son di mille amanti
E speranza e sospiro. Ancor cercate
Cause alla mia superbia? A me Latona
Preporre osate, cui l’immensa terra
Un asilo negava allor che il seno
La colpa le aggravò? la terra, il cielo
E l’onda stessa le si chiuse: alfine
Dielle l’errante Delo instabil suolo.
Qui fu madre di due figli, che sono
Settima parte della nostra prole.
Io son felice, e di fortuna rido
Le minacce: me fa copia sicura.
Molto può tormi, e molto avanza, e sono
Maggiori i beni del timor. Fingete
Che pera alcun dei figli miei: saranno
Più che due sempre su: l’allor strappate
Al crine, e l’ara si rovesci. — Il volgo
Muto obbedì con mormorio sommesso.
Veneran sempre gli oltraggiati numi.
Che sol questo alla plebe il re non vieta.
Ode l’ardire dei superbi detti
Latona, e del dolor le furie a gara
Accrescon rabbia all’animoso petto.
E sì parlava colla doppia prole
Sulla vetta di Cinto. Io che son madre
Di voi superba, e fra le dee minore
Solo di Giuno, non avrò gli altari
Che i secoli onorar, nè fia chi adori
Mia dubitata deitade? figli,
Soccorretemi voi; che non è questo
Sol mio dolore: è ancor vergogna. — Aggiunse
Niobe alla colpa vituperii: ardio
Avvilirvi, miei figli, e ai numi eterni
I mortali anteporre: e me chiamava
Priva di prole: dell’altero detto
In lei cada l’ingiuria, in lei che il fasto
Paterno vinse. — Le preghiere univa
Latona ai detti: il vieta Febo, e grida:
Taci: dimora alla vendetta è il pianto.
La sorella l’imita: eguali a notte
Volano entrambi. La faretra stride
Sopra gli omeri irati, e le Cadmee
Mura minaccia. Innanzi a queste un piano
Campo largheggia, a cui le dure glebe
Frangono le confuse orme dei carri,
E dei corsieri le ferrate zampe.
Parte dei figli d’Anfion qui preme
Ai veloci cavalli il tergo ornato
Dalla porpora tiria, e regge briglie
Che l’oro aggrava. Era tra queste Ismeno,
Primo dolor dell’infelice madre,
E certo giro al corridor prescrive
Col freno, e spuma la ribelle bocca.
Oimè, grida, nel petto il fìsso dardo
Brandisce, e manca nella destra il freno.
Dubita il corpo, e lento, lento cade.
Ode della faretra il fischio, e volge
Sipilo il freno, qual nocchier presago
Che scema ai venti con dimesse vele
Il furor, quando unica nube ingombra
Il cielo, e che la nera onda s’avventa:
Vana è la fuga: che il seguace dardo
Lo giunge, e passa la cervice, ed esce
Dalla gola col sangue. Egli già prono
Dai crini del corsier balza, e la terra
Bagna di sangue. Dell’avito nome
Tantalo erede, e il suo minor fratello
Fedirne, prova di novelle forze
Facean nella palestra, e petto a petto
Con stretto nodo opposto era e congiunto,
Allor che uniti gli trafìsse il dardo.
Gemono insieme; ed ambo il duolo aggrava
Le curve membra; sopra il suol d’entrambi
L’ultimo errore dei natanti lumi
Cerca la luce, e fuggon l’alme insieme.
Alfenore li vede, e palma a palma
Battendo vola, onde alle fredde membra
Doni un amplesso: l’infelice cade
Nell’ufficio pietoso. Apollo il core
A lui trafìgge col fatato strale,
Che svelle e spiccia colla vita il sangue.
Damasittono intonso un colpo solo
Non uccise: ferita avea la gamba
Ove al ginocchio si congiunge: il ferro
Trarre volea; ma nell’incerto collo
Giunge saetta, la rimbalza il sangue.
Che schizzando rosseggia, e l’aer stride.
Ultimo Ilioneo rivolge al cielo
Le braccia, invano supplicanti, e grida:
Perdono, o Numi (ahi non tutti dovea
Il misero pregar). Sentiva Apollo
Pietà; ma liberato era dall’arco
L’irrevocabil strale: entrò nel core
Poco, e causa di morte è breve piaga.
La fama e il pianto dei congiunti accusa
Tanta ruina alla fastosa madre,
Che tiene ira e stupor, perchè dei numi
L’oltraggiata ragione osi cotanto:
Che posto fine il padre avea col brando
Alla vita e al dolor. Quanto diverso
Era, Niobe infelice, il tuo sembiante:
Tu ma calcavi i rovesciati altari,
Abominio ai congiunti; or pianto avrai
Dalli stessi nemici: i freddi corpi
Abbraccia, sopra vi si stende, i baci
Ultimi senza alcuno ordin dispensa
Su tutti i figli. Le livide braccia
Inalza al ciel dall’infelice amplesso,
E grida: Del dolor nostro, o Latona,
Pasciti, e sazia il tuo feroce petto:
In sette figli io moro. Esulta, o fera
Vincitrice, trionfa: e perchè dissi
Vincitrice? a me più misera resta
Che a te felice: dopo tante morti
Ancor ti vinco. — Con stridore orrendo
L’arco scoccò: tremano tutti: audace
E Niobe sola. In nere vesti avvolte
Stavano intorno del funereo letto
Con sparse chiome le sorelle meste.
Fere lo strale una fra queste; cade,
E muor baciando la fraterna bocca.
All’altra che volea porger conforto
Alla madre, troncò morte la voce,
E le labbra silenzio eterno oppresse.
Alla terza il fuggir dubbio si toglie,
E la sorella sua preme. Vedresti
Celarsi l’une, tremar l’altre, sempre
Correre a morte per diverso fato.
L’ultima avanza di cotanta prole:
Colla vesta e col suo corpo la madre
La protegge gridando: Una ti chiedo,
Una di tante: e in mezzo ai prieghi muore
La giovinetta. Fra gli estinti figli
Piomba l’alfin vedova madre: i mali
La irrigidir: non move aura le chiome:
Manca al volto il colore: i lumi stessi
Immoti stanno nelle guance meste,
E nell’immagin sua nulla è di vivo.
Fredda è la lingua: più non scorre il sangue
Nelle vene: non pie muove nè braccia,
Nò collo: il core, il core stesso è sasso:
Ma piange: un turbo alla paterna terra
La rapisce, ed ancor lacrime stilla
Il marmo, e le vendette eterne attesta.
Ovidio, Metamorf., lib. vi.

Lezione decimottava.
Apollo detto di Belvedere. §

Voleva compiere la descrizione di quelle pitture colle quali Polignoto celebrò Delfo, ma pensando che veruna lode per Apollo è più grande che il simulacro di lui, detto di Belvedere, non ho voluto ritardare neppur un momento di aprirvi il tesoro di quelle cognizioni, colle quali Winkelmann e Visconti illustrarono l’origine e le bellezze di questa statua, eterna maraviglia e disperazione dell’arte.

« Questa statua, che già da tre secoli si am mira in Vaticano come il miracolo della scultura non.può essere sì degnamente descritta che si possa figurare alla fantasia con tutti quei pregi, che si apprendono dall’ispezione oculare. L’artefice, che si era sollevato fino a concepire una bellezza che con venisse ad un dio, l’ha poi espressa con tanta fé licita nel marmo, che sembra aver realizzato la sua idea con un semplice atto di volontà. Ha rap presentato il figlio di Latona quando è sdegnato e ha ritratto nel suo volto lo sdegno; ma in quel modo che non ne altera la soave bellezza, nè la interna serenità inseparabile dalla natura di un nume. L’arco, ch’ei regge ancora in alto colla sinistra, è già scaricato; la destra è un solo istante che ne ha abbandonato la cocca; il moto dell’azione non è per anco sedato nelle agili sue membra, che ne conservano ancora un certo ondeggiamento, come quello della superfìcie del mare il momento dopo che è cessato il vento. Guarda egli il colpo delle sicure saette con una certa compiacenza che mostra la soddisfazione delle divine sue ire; ma contro chi ha vibrato gli strali? non dubitano tutti di rispondere unanimemente contro Pitone. Ma perchè non piuttosto contro il campo degli Achei per vendicare l’oltraggio del suo sacerdote, vendetta memorabile che è l’occasione dell’ Iliade? Perchè non piuttosto contro l’infelice prole di Niobe onde la materna offesa non resti inulta? Perchè non contro dell’infedele Coronide, che faceva essere il figlio di Giove geloso di un uomo mortale? Tutti questi soggetti son più nobili e più degni d’esser immaginati che la morte di un rettile, e il suo sguardo sollevato non sembra osservare un mostro che strisci sul suolo. Qualunque però sia stato lo scopo delle sue freccie, l’ azione di aver saettato è tanto evidentemente espressa, che non cade in equivoco. Se questa sola basta ad incantare chi osserva questo bel simulacro nel tutto insieme, cresce poi il piacere a considerare le perfezioni d’ogni sua parte. I suoi capelli raccolti in un nodo sopra la fronte, e circondato da uno strofio, o cordone, ornamento proprio dei numi e de’ re, sono così elegantemente increspati e ravvolti, che danno idea della sorprendente bellezza della chioma di Febo più che gli epiteti di χρυσοκομοςe di, ακερσερσεκομης, chioma d’oro, e intonso, co’ quali l’hanno espressa i poeti; il solo Callimaco quando ha detto che stillavano la panacea sembra essersi più avvicinato alla sublime idea dell’artefice. Lo sdegno che appena s’affaccia nelle narici insensibilmente enfiate, e nel labbro di sotto alquanto esposto in fuori, non giunge ad oscurare le luci, o a contrarre il sopracciglio del dio del giorno. Il lungi-saettante si ravvisa nei suoi sguardi, e la sua faretra appena agli omeri sembra che, secondo la frase d’ Omero, suoni sulle spalle del dio sdegnato. Una eterna gioventù si diifonde mollemente sul suo bellissimo corpo, così giudiziosamente misto di agilità, di vigore e di eleganza, che vi si vede il più bello e il più attivo degli Dei, senza la morbidezza di Bacco, e senza le affaticate muscolature di Ercole, ancorché deificato. L’aurea sua clamide s’allaccia gentilmente sull’omero destro, e i piedi sono ornati di bellissimi calzari, forse di quel genere che i Greci chiamavano sandali, di sottili strisce. Il tronco stesso, riservato per sostegno, non è restato insignificante, ma vi è scolpito un serpe, o alludente alla vittoria di Pitone, che allora non potrebbe esser 1’ argomento del simulacro, o alla medicina, di cui Apollo è il nume, e il simbolo la serpe.

« Questa incomparabile figura fu ritrovata a Capo d’Anzo fra le ruine di quell’antica città, celebre nella storia romana e pel porto e pel tempio della Fortuna, e per le delizie imperiali chiamate da Filostrato col nome di reggia dei- Cesari, che tale poteano dirsi, attesa la premura che si presero di abbellirle tanti imperalori romani da Augusto fino ad Antonino Pio. Fra questi alcuni, e singolarmente Nerone, riguardavano Anzo come la patria, e Cajo Caligola pensava sino farla sede dell’impero e seggio ordinario degli Augusti. Non dee far maraviglia dunque che tante insigni sculture lo adornassero, come l’ApoUine di Vaticano, e la celebre statua del Gladiatore Borghese. Giulio II aveva acquistata la prima avanti la sua assunzione al Pontificato, e la teneva a’SS. Apostoli nel suo palazzo. Salito al trono, la collocò insieme col Laocoonte nel suo giardino Vaticano colla direzione, come si crede, del Buonarroti. Il marmo è un finissimo greco di somma conservazione, non mancando che la mano sinistra, ed essendo le gambe riunite dei loro pezzi antichi. Quello che avanza circa la qualità del marmo, onde è formato l’Apollo è assicurato dalla dilÌ2^ente osservazione fattavi espressamente dai periti e professori di questo genere e in ciò la forza della verità mi obbliga a dissentire da un grand’uomo dei nostri tempi (il celebre Mengs) che non contento di aver rapita la meraviglia del secolo colle sue sorprendenti pitture, ha meritato ancora la fama di autore, mercè l’amicizia di persona distinta per impieghi e per letteratura, che si è compiaciuta fare al pubblico un dono postumo dei suoi scrìtti. Mi conviene, dissi, dissentire in ciò che riguarda il marmo, non solo di questa statua, ma in ciò che ne deduce; cioè che questa, e gli altri capi d’opera dell’arte antica non sieno che copie d’alti perfetti originali, o almeno originali di second’ordine, impareggiabili, se si confrontino con ciò che l’arte rediviva fra le nazioni moderne ha saputo produrre, ma molto al di sotto dell’opere ammirate dalla Grecia. Questa opinione, comecché faccia onore a chi l’ha proposta, perchè nasce da un’idea di perfezione assai superiore alla comune capacità che quel grande uomo si era fissata in mente, e che era l’archetipo che si sforzava ritrarre nelle sue pitture, formata sull’astrazione di ciò, che vi ha di più sorprendente nei pezzi dei più insigni della greca scultura, non è però confermata dalla verità, ed è appoggiata di vacillanti argomenti, quando si voglia estendere a tutto indistintamente ciò che ci è pervenuto dalle antiche scuole dell’arte. I dubbi sull’originalità dell’Apollo si riducevano alla qualità del marmo, all’essersi trovata in Anzo, e ad alcuni apparenti difetti osservati nella figura, riconosciuta d’altra parte per ciò che di più bello esista nell’arte.

« L’opinione falsa che fosse marmo di Carrara, era la ragion più forte, come quello ch’era ignoto nel secolo dei grandi artefici. La non originalità dell’Apollo era poi un argomento da estendere i dubbi sopra qualunque altra scultura.

« Verificato pertanto che sia marmo delle cave di Grecia e del più bello, cade il fondamento di di tutto il discorso. L’essere stato collocato piuttosto ad Anzo che a Roma non è da badarsi da chi ò versato nella storia romana e degl’imperatori, e sa a quanto giungesse il lusso dei Cesari e la non curanza del pubblico di Roma per le arti del disegno. E poi, una villa che onoravano tanto spesso del loro soggiorno i signori del mondo allor conosciuto, potea ben meritare l’ornamento dei capi d’opera della scultura che si vedeano tal volta ornare come l’Ercole di Mirone e il Giove di Prassitele, i portici e i giardini privati. I difetti che voglionsi riconoscere nell’Apollo sono la perfetta eguaglianza dei piedi nella lunghezza, e la situazione della clavicola non precisamente equidistante dagli omeri. Questa terza difficoltà può incontrar più d’una risposta. E per lasciare la generale che nulla vi ha di veramente perfetto, e che perciò si trovano degli errori nei capi d’opera, non solo dell’arti del disegno, ma delle lettere ancora e delle scienze, e che ciò che distingue l’autore eccellente non è tanto l’assenza dei difetti, quanto l’esistenza di certe bellezze e di certi pregi, che non possono esser il prodotto che di talenti non comuni: può dirsi ancora che è stato consiglio dell’artefice di allentanarsi in ciò dal rigido vero per servire alla destinazione del simulacro, che, veduto nel sito dove dovea collocarsi, avrebbe non solamente celate queste scorrezioni, ma ne avrebbe ritratto qualche maggior grado di bellezza e di effetto. Che se s’insistesse ancora, e si opponesse, perchè di una statua così eccellente non abbiano parlato gli antichi, non mi curerei di rispondere, che poche memorie ci sou restate nelli scritti a noi pervenuti, e soltanto di quelle che o per la situazione in luoghi assai frequentati, per la religion de’ popoli, o per altre curiose avventure si rendevano più interessanti. Si è fatta commem orazione assai inesattamente da Plinio e Pausania, e casualmente da alcuni altri; e perciò sono restate ignote quasi 1500 statue del solo Lisippo, ognuna delle quali, secondo Plinio, poteva render l’autore illustre; non mi curerei, dico, di questa risposta, ma sosterrei piuttosto, che veramente è questo uno dei quattro celebri Apollini in marmo rammentati da Plinio, ma che non può determinarsi per mancanza di piìi accurata descrizione, Lasciando da parte quelli che non possono convenire all’azione del nostro, ne rammenta Plinio due di Filisco, un di Prassitele, ed uno di Calamide. Quei di Filisco erano nei Portici di Ottavia, uno nel suo tempio, l’altro per ornamento, e questo aggiunge ch’era nudo. Da tal particolarità sembra inferirsi che l’altro fosse vestito. Ma l’essere anche ai tempi di Plinio situati ambedue in luogo pubblico e sacro, mi fa pensare che non fossero poi trasportati ad Anzo dove fu scoperta questa insigne scultura.

« Più facilmente può credersi questa statua l’Apollo di marmo di Prassitele che Plinio annovera fra le più belle opere di quello scultore, senza additare il sito preciso dove si custodiva. Potrebbe anche con maggior probabilità esser quello di Calamide esistente ai tempi di Plinio negli Orti Serviliani, appartenenti agli Augusti fino dai tempi di Nerone, donde può essere stata trasferita nelle delizie Anziatine, o da Antonio, o da Adriano che frequentavano quel soggiorno.

« Questa statua, una delle più maravigliose, rappresentava l’Apollo Alessicaco, ovvero Averrunco, cioè Allontanatore dei mali, ed era stata a questo nume eretta in Atene dopo la cessazione di un male epidemico. Ben conveniva in questa occasione una simile rappresentanza di Apollo in atto appunto di saettare infermità e morte, ma nel tempo stesso col serpe ai piedi, simbolo dei rimedii e della salute; per mostrare che il morbo eccitato dall’ira del nume cessava poi per la sua clemenza col mezzo dell’arti agli uomini da lui insegnate. Che se si voglia vibrante i dardi contro il sespente Pitone, è anche questa un’immagine tutta propria dell’ Apolline Averrunco, giacché questa favola fìsica non aveva altro significato che la dissipazione operata dal sole de’ vapori maligni esalati dalle grandi inondazioni della terra confuse col diluvio universale, perciò adattatissimo simbolo del fine di una mortalità impetrato dalla potenza d’Apollo.

« Nel terminare queste riflessioni su tanto incomparabile simulacro, non voglio defraudare il lettore di una descrizione piena d’estro di questa statua dettata a Winkelmann dall’entusiasmo che concepiva in considerarne cogli occhi e coll’immaginazione le straordinarie bellezze. Eccola:

« La statua dell’Apollo di Belvedere è il più sublime ideale dell’arte, fra tutte le opere antiche che sino a noi si sono conservate. Direbbesi che l’ artista ha qui formata una statua puramente intellettuale, prendendo dalla materia quel solo che era necessario per esprimere la sua idea e renderla visibile. Questa mirabile statua tanto supera tutti gli altri simulacri del dio, quanto l’Apollo di Omero è più grande degli altri descritti dai susseguenti poeti. Le sue forme sollevansi sopra l’umana natura, e il suo atteggiamento mostra la grandezza divina che l’investe.

« Una primavera eterna, qual regna nei beati Elisi, spande sulle virili forme di un’età perfetta i piacevoli tratti della ridente gioventù, e sembra che una tenera morbidezza scherzi sulla robusta struttura delle sue membra. — Vola, o tu che ami i monumenti dell’arte, vola col tuo spirito sino alla regione delle bellezze eteree, o diventa un Genio, e prendi una natura celeste per riempier l’anima tua coll’idea di un bello sovrumano; potrai formartene allora una giusta immagine, poiché in quella figura nulla vi è di mortale, nessuno indizio si scorge dell’umana fralezza. Non vi son nervi nè vene che a quel corpo diano delle ineguaglianze e del movimento: ma par che un soffio celeste, simile a fiume che va placidissimo, tutta abbiane formata la superfìcie. Eccolo: egli ha inseguito il serpente Pitone contro di cui ha per la prima volta piegato il suo arco, e coll’agil piede lo ha raggiunto e trafìtto. Il suo sguardo, sollevato in una piena compiacenza, portasi quasi all’infinito bene al di là della sua vittoria. Siede nelle sue labbra il disprezzo, e lo sdegno che in sé racchiude gli dilata alquanto le nari, e fino sull’orgogliosa sua fronte s’inalza: ma la pace, la tranquillità dell’animo rimaner sembrano inalterabili, e gli occhi suoi sono pieni di quella dolcezza, che mostrar suole allorché lo circondano le muse e lo accarezzano. Fra tutti i rimastici simulacri del padre degli Dei, nessuno ve n’ha che si avvicini a quella sublimità in cui egli manifestossi alla mente di Omero: ma. in questa statua del figlio di Giove seppe l’ artefice, eguale a quel gran poeta, tutte rappresentare come in una nuova Pandora le bellezze particolari, che ad ognuna delle altre deità sono proprie. Egli ha di Giove la fronte gravida della dea della Sapienza, e le sovracciglia, che il voler supremo manifestan con i cenni; gli occhi della regina degli Dei in maniera dignitosa inarcati; é la sua bocca un’immagine di quella dell’amato Branco, in cui respirava la voluttà: la sua morbida chioma simile a teneri pampini scherza quasi agitata da una dolce auretta intorno al divino suo capo, in cima a cui sembra con bella pompa annodata dalle Grazie e di aromi celesti profumata. Mirando questo prodigio dell’arte, tutte l’altre opere ne oblio, e sovra di me stessa e dei sensi mi sollevo per degnamente estimarlo. Il mio petto si gonfia e s’inalza, come quello dei vati dal profetico spirito investiti, e già mi sento trasportato in Delo, e nelle Licie selve, che Apollo onorò di sua presenza. Farmi già che l’immagine, che io men formo, vita acquisti e moto come la bella opera di Pigmalione. Ma come potrò io ben dipingerla e descriverla? Io avrei bisogno dell’arte medesima, che guidasse la mia mano anche nei primi e più sensibili tratti, che n’ho abbozzati. Depongo pertanto a’ piedi di questa statua l’idea che ne ho dato, imitando così coloro che posavano a pie dei simulacri degli Dei le corone che non giungevano a metter loro sul capo. »

Debbo farvi avvertire che il celebre Visconti, poiché fermò sua dimora in Parigi, mutò d’opinione riguardo all’autore della celebre statua dell’Apollo di Belvedere, e alla qualità del marmo in cui è scolpita. Affermò non potersi supporre opera di Ca. lamide un lavoro sì perfetto, dove la più severa bellezza è unita a tutte le grazie immaginabili, perchè il mentovato Artefice conservava qualche cosa della durezza e della magrezza delle scuole più antiche. Quindi non è lontano dal credere che lo scultore dell’Apollo abbia imitata questa statua da una delle più antiche di Calamide, correggendone i difetti, aggiungendovi nuove bellezze. Così facevano gli antichi: così Glicone perfezionò nell’Ercole di Farnese quel di Lisippo, di cui esiste una copia antica in Firenze: così Cleomede nello scolpire la Venere Medicea aveva ritenuta l’attitudine principale della Venere Gnidia. Quanto al marmo della statua il Visconti dice sostenersi dai mineralogisti che nelle cave abbandonate di Carrara si trovan vene di marmo perfettamente simili a quella dell’Apollo, e vide in Parigi un marmo di Carrara, che si credeva greco.

Udite adesso da Ovidio, che, incoraggito dal voNicccLiNi. Lez. di Mit. ecc. 30 stro compatimento, ho tradotto, quanto il più bello dei numi fosse nel suo primo amore sventurato.

Dafne.

Fu Dafne a Febo il primo amor, che diede
Non sorte ignara, ma il furor di un nume
Iva superbo del domato mostro.
Quando mirò curvar l’arco a Cupido,
E disse: Colle forti armi che tenti,
Fanciul lascivo? ai nostri omeri solo
Questa gloria convieni teme il nemico,
Temon le fere l’infallibil dardo
Di me, ch’or dianzi sul Piton, che mille
Campi ascondea con spazioso giro,
Votai della faretra il peso immenso.
Con la tua face le concesse cure,
Ignote a me, sii d’irritar contento,
E non usurpa le mie lodi. - — Amore
Così rispose: Il tuo strale trafìgga
Tutto, io te ferirò: mia gloria avanza
La tua, quanto agli Dei cedono i mostri. —
Così disse, e stridea l’aer diviso
Dalle rapide penne: il voi rattiene
Sull’ombroso Parnaso, e li due strali
Dalla faretra liberò: di piombo
È l’uno, d’oro l’altro, ed hanno effetto
Contrario; il primo all’odio, ed all’amore
Desta il secondo: per la sua vendetta
Ambo gli sceglie, e col primiero Apollo
Fere, e Dafne con l’altro. Ama lo dio;
La ninfa ancor d’amante aborre il nome;
Sol delle selve a lei piace il secreto;
Emula di Diana, ama alle belve,
Terror dei boschi, contrastar le spoglie;
Ai capelli l’error frena una benda.
Ed ai voti di mille amanti oppone
Odio e rifiuto, e amor dispregia e nozze.
Spesso le disse il padre; A me tu dai
E genero e nipote, o figlia. — Aborro
Come delitto d’Imeneo la face:
E dolcemente nel paterno collo
Trattien le braccia, di rossore onesto
Ornata il volto, e dice: A me concedi
Padre, ch’io viva eternamente casta.
Giove a Diana noi negò. — Compiace
Egli dicendo: Al voto tuo contrasta
La potente beltà. — Ma Febo intanto
Ama Dafne, la mira, e come amante
Spera quel che desia; mentono al nume
Pur gli oracoli suoi. Qual lieve paglia
Arde, e splende per largo incendio il campo,
Tal regna nel Febeo petto la fiamma,
E di sterile amor nutre la speme;
Vede pender sul collo il crin negletto,
E qual fìa, grida, se all’error felice
Legge l’arte donasse? — I lumi ammira
Emuli delle stelle, e quella bocca.
Che non basta il veder: loda le mani
E le braccia, che appena il vel nasconde,
Quel ch’è celato col desio figura
Più bello. Ma la ninfa emula il vento
Nella celere fuga, e non s’arresta
Per questi detti: Ferma, Dafne, il prego,
10 non ti seguo qual nemico; agnella
Sì dal lupo s’invola, e con tremante
Penna l’aquila tal fugge colomba:
Ma son nemici: io per amor ti seguo;
Misero me, che tu non cada, e il pruno
Non ti punga il bel pie, che non è degno
Di essere oifeso, che di pianto io sia
Cagione: aspra è la via dove ti affretti;
Non fuggir tanto; io pur freno il mio corso;
Pensa a chi piaci: abitator del monte
E pastore io non sono, e qui gli armenti
E il gregge inculto non osservo — ignori.
Temeraria, chi fuggi: a me di Delfo
Serve la reggia e Claro, io son di Giove
Figlio: degli anni io sono il padre: io solco
Gl’ignoti abissi dell’età future,
11 passato, il presente: io con la cetra
Marito il suon degli animosi carmi:
Certo è il mio strale, ma del mio più certo
Fu quello onde ho piagato il core. Il mondo
Le mediche arti a me deve dell’erbe;
Mi è soggetto il potere. Ahimè non vince
Un’erba amor: per me vane son l’arti
Utili a tutti. — Più narrar volea.
Ma fugge il nume e l’imperfetta voce
Dafne, e più bella ancor si mostra: i venti
Svelan le bianche membra: il sole avverso
Nella veste fiammeggia; un’aura lieve
Dolcemente solleva il crin, che torna
Indietro, e sua beltà la fuga accresce.
Nè più il giovine iddio perder sostiene
Le sprezzate lusinghe, e l’orme segue
Coi pie veloci, come amor consiglia:
Così Gallico cane in voto campo
Siegue una lepre: ella col pie salute
Cerca, ei la preda, e par che già l’afferri.
E lei spera tener: suona il deluso
Dente: dubita l’altra, e al vano morso
Quasi presa si toglie. Era lo dio
Con la vergine tal: rende paura
Celer la ninfa, e la speranza Febo,
Che più veloce la seguia: gli dava
Ali l’amore; già il fugace tergo
Preme, e lo sparso crine agita, e Dafne
Impallidisce stanca, e volge i lumi
Verso l’onde paterne, e grida: Aita,
Padre mio, se sei nume: apri la terra
Ove piacqui: le mie membra trasforma,
E perdi. — Appena i preghi avea compiti
Che si aggrava torpor le membra e in molle
Nodo il core si cangia e in fronde il crine.
Crescono in rami le sperate braccia,
E il pie già sì veloce al suolo è fìsso
Con le pigre radici, e copre il volto
La frondifera cima: in questo solo
Sta l’antico decoro. Eppure a Febo
Caro è l’arbor novello: al tronco accosta
La destra, e ancor nella corteccia fresca
Le sente il core palpitare: i rami.
Siccome membra abbraccia, e bacia il legno
Che fugge i baci. In questi accenti il nume
Sciolse la voce alfin: Se a me consorte
Esser non puoi, l’albero mio sarai.
Colle tue frondi, la mia chioma, l’arco
E la cetra ornerò; dei lieti duci
L’onor sarai quando le lunghe pompe
Vedran sul Campidoglio, e i lieti evviva
Del romano trionfo. E tu custode
Fida starai presso l’auguste porte
Tutela del sacrato arbor di Giove.
Fia teco il vanto di perpetue frondi,
Sicome regna gioventude eterna
Nell’intonso mio capo. — Eran d’Apollo
Tali gli accenti: coi novelli rami
Il suo lauro acconsente, e quasi capo
Scosse l’onor della frondosa cima,
Raro dono al Poeta, e che di Giove
E del fulmine suo l’ire prescrive.
OvidioMetamorf., lib. I.

Lezione decimanona.
Imagini di Apollo in pittura e in scultura. §

Altri lumi dal Winkelmann e dal Visconti derivar voglio sopra Apollo, primo vanto di Latona, innanzi di tesservi il catalogo dei diversi nomi coi quali l’antichità lo distinse.

Così il primo favella: « La più sublime idea della giovinezza virile ideale si scorge principalmente in Apollo, che riputavasi il più bello fra i numi. Nelle sue figure si ravvisano in bella armonia combinate la robustezza di un’età perfetta, e le molli forme di una florida gioventù. Queste forme sono grandiose, e sublimi eziandio nella loro giovine morbidezza; nè rassomigliano già quelle di un amante effemminato e molle, allevato fra le fresche ombre, e come dice Ibico, da Venere stessa nutrito di rose, ma son degne di un garzone nobile, e nato a grandi imprese. Si vede nella sua figura una sanità vivace che annunzia la forza, simile all’aurora di un bel giorno. Non pretendo però che tanta beltà si trovi in tutte le statue di Apollo.

« La più bella testa del nume, dopo la celebre di Belvedere, è senza dubbio quella d’una poco osservata statua sedente del medesimo, di grandezza maggiore del naturale, nella Villa Ludovisi. È questa intatta al pari di quella, e anco meglio esprime un Apollo benigno e tranquillo. Tale statua è altresì rimarchevole per esser la sola, che io sappia, che ha un particolar attributo di Apollo, cioè il bastone di pastore incurvato, appoggiato alla pietra su cui siede la figura: dal che appare che siasi voluto rappresentare Apollo pastore (νομιος) per indicare l’arte pastorizia da lui esercitata presso Admeto re di Tessaglia. Vi hanno quattro teste di Apollo perfettamente simili: una è quella statua di Belvedere, l’altra unita al busto, e affatto intera, sta nella camera dei Conservatori del Campidoglio; la terza è nel Museo Capitolino, e la quarta nella Farnesina. Da questa si può prendere un’idea di quell’acconciatura di capelli che i Greci chiamavano κρωβυλος, e che presso gli scrittori non trovasi mai con sufficiente precisione descritta. Questa voce significa nei maschi quella maniera di acconciarsi che nelle fanciulle chiamavasi κορυμβος, cioè i capelli legati insieme dietro alla testa. Le donzelle li tiravano su tutti air intorno del capo, in cima al quale annodavangli in guisa che non dovea vedersi il laccio che li sosteneva.

« Tale è la capigliatura di una figura muliebre in una delle più belle pitture dell’Ercolano, la quale presso ad un autore tragico si posa sopra un ginocchio, e sta scrivendo sopra una tavola. La somiglianza dell’acconciatura dei capelli in amendue i sessi può scusare coloro i quali hanno dato il nome di Berenice ad un bell’Apollo di bronzo nel Museo di Ercolano che ha i capelli voltati all’insù, e legati in cima al capo come le quattro mentovate teste, a cui pure affatto si assomiglia nella fìsonomia, e sono tanto più scusabili quanto le mentovate teste erano loro ignote. »

Fin qui Winkelmann nella sua insigne istoria dell’arti del disegno. In un’altra operetta sull’Allegoria, non tradotta, per quel ch’io sappia, ancora nella nostra lingua, e che vi esporrò nel fine del mio Corso mitologico, così favella il sopra lodato Autore intorno alla chioma del nume. « La capellatura bionda di Apollo può essere considerata egualmente come allegorica, facendo allusione al Sole, del quale questo dio è l’imagine: ma senza attaccarci questo senso bisognava dargli dei capelli di questo colore come al più bello dei giovini, poiché questi generalmente son biondi. D’altronde nella pittura il contrasto dei capelli neri con la bianchezza della carne è troppo duro, e produce un effetto meno piacevole che quello dei capelli biondi; verità di pratica, riconosciuta da tutti gli artisti. Un passo di Ateneo che contiene due espressioni di Simonide m’impegna a fare questa osservazione. La prima è il tono della voce di una vergine che esce da una bocca di porpora, ed il personaggio messo in scena da Ateneo dimanda: Questo giro non sembra egli bello ai Greci? — La seconda espressione riguarda l’epiteto di Apollo dagli aurei capelli, perchè, come dice ristessa persona, se non sono neri, il quadro non può esser bello. Così, sino ad ora, si è interpretato questo passo. Questa critica non può aver luogo, perchè la bella natura ci prova al contrario, ed è da presumersi che i Greci avranno fatta la stessa osservazione, perchè tutte le figure di Apollo, conformemente a l’epiteto in quistione e ad altri di simil genere che gii hanno dati i poeti, saranno state dipinte con una capellatura bionda, come noi possiamo giudicare dal piccolo numero di pitture che sono giunte sino a noi, nelle quali questo dio è rappresentato. Noi troviamo in Plutarco che gli antichi pittori hanno dato dei capelli biondi a tutte le divinità giovanili, neppur Zeffiro eccettuato. Sembra dunque che nel passo di Ateneo , che ho citato, bisogni porre un interrogativo dopo la seconda dimanda, come ve n’ha uno dopo la prima, per salvare la manifesta contradizione che ha imbarazzato alcuni autori, e fra gli altri Francesco Giunio , che ha scritto sulla pittura degli antichi. Forse così uno s’inganna nella spiegazione che si dà alla maniera, nella quale Anacreonte desiderava che fossero dipinti i capelli del suo favorito: gli voleva neri nell’interno e splendidi di fuori: non ch’eglino fossero neri, ma solamente ombrati, come sembra, ed è realmente, una bella chioma bionda quando divisa vi si forma delle cavità. Così mi sembra che deva intendersi dei capelli di color blu che Omero dà ad Ettore ed a Bacco: vale a dire dei capelli biondi, che interiormente, e nei luoghi ove sono ombrati, offrono una tinta di questi colori. »

Scusate, per amore di Winkelmann, questa digressione di lui medesimo sopra i capelli biondi, che può esservi forse di qualche utilità, e mostrarvi almeno quanto si possa rimanere ingannati, volendo ricavare da certe tradizioni notizie intorno ai costumi.

« Apollo (prosegue il medesimo) è qualche volta rappresentato nelle medaglie con una patera in mano, e tiene al tempo stesso un ramo di mirto, attributo ordinario alle sue figure nell’isola di Lesbo, perchè, secondo l’opinione degli antichi, quest’albero favorisce la divinazione. Per questa ragione in Atene si diede il nome di θαυμαντις13, indovino del dio, vale a dire di Apollo, a quelli che morendo di fame masticavano le foglie di lauro. Sopra una medaglia di argento di Antioco III re di Siria i due sassi sono indicati in una figura seduta di Apollo, coi capelli annodati sopra la sommità del capo, ordinario ornamento alle giovinette, il quale annunzia che non erano maritate. Una statua in Campidoglio e due altre nella Villa Medici che gli rassomigliano, hanno i capelli annodati nella stessa maniera. Il pomo posto nella mano di Apollo indicava il premio che si dava nei primi tempi ai giuochi Pitici, il quale consisteva in questo frutto. Apollo traversando l’aria portato da un cigno è un’immagine rara, ma bella e significantissima, che si trova in una medaglia. La medaglie della città di Tessalonica offrono Apollo che si corona da sé stesso di lauro come vincitore nel suo combattimento con Marsia. Sopra una pietra incisa del Gabinetto di Stosch, Temi gli presenta una tazza di ambrosia, immagine tolta da Omero. Apollo si trova con dei cervi e dei cani sopra una medaglia; e rappresentato con questi attributi era nominato Agreo, cioè cacciatore: ma l’Apollo di Vaticano non può essere un Apollo cacciatore, come Spence pretende. La cerva sopra un altare, con altri attributi propri: di Apollo, rappresenta la ninfa Arge, che fu trasformata in questo animale per essersi vantata, seguendolo, che ella l’avrebbe raggiunto ancora che la velocità di lui fosse rapida quanto quella del Sole.

«  Plutarco fa menzione di un Apollo tenente un gallo sulla mano per indicare il Sole di cui annunzia il comparir sull’orizzonte. Il frontispizio del settimo volume dell’ Antichità Greche di Gronovio, mostra Apollo che tiene il piede sopra un orso: non ho potuto trovare da che questo simbolo sia derivato. Un topo accanto alla testa di Apollo sulle medaglie di Tenedo indica il soprannome Smìnteo di questo dio, che nel dialetto cretese significa Topo, perchè Apollo deve averli da questa isola banditi. A Delo vi era una statua del nume con un arco nella destra, e le tre Grazie poste sulla sinistra: ciascuna di esse teneva istrumento musicale: una il flauto, l’altra la siringa, quella del mezzo la lira: si pretendeva che questa statua fosse fino dai tempi di Ercole. Il delfino di cui si fa uso nei tripodi di Apollo, è un ornamento allegorico che significa la metamorfosi di questo dio in pesce: può ancora applicarsi al creduto amore di questo animale per la musica. Apollo non è stato mai rappresentato col berretto frigio, e le teste fornite di questo e con lunghi capelli effigiate nei lati di una tomba di marmo antico trovata in Francia, non sono che maschere che trovansi frequentemente nei monumenti di simil genere, onde si è ingannato De Boze nella Dissertazione che ha stampata nelle Memorie dell’Accademia delle Iscrizioni. »

Fin qui Winkelmann. Visconti vi descriverà adesso la statua dell’Apollo Citaredo.

« Nell’insigne simulacro di Apollo, che abbiamo descritto (l’Apollo del Belvedere), ci ha rappresentato r artefice la possanza e lo sdegno di questo nume: in quello che ora spieghiamo, ravvisiamo solamente il padre della poesia, il nume dei Vati, il condottier delle Muse. Nell’aria del volto animato dall’estro, nelle labbra semiaperte al canto, nell’abito teatrale che lo copre sino a’ piedi, nella cetra che tien sospesa dal lato manco, nel moto delle braccia al suono, apparisce un dio che accompagna sulla cetra celeste le soavi modulazioni della sacra favella de’ vati. In osservare questa bella statua attorniata dalle altre nove delle Muse, che fan corona al loro corifeo, ci rammentiamo di quello scolpito a bassorilievo sull’ arca di Cipselo unitamente al coro delle nove dee d’Elicona; e i versi che v’erano sottoposti convengono perfettamente colle nostre statue:

Il re saettator, figlio a Latona
Apollo è questo: e queste son le Muse,
Amabil coro che il circonda e segue.

« La maraviglia di chi considera il movimento e l’espressione di questa bellissima statua è giustificata dal pregio in cui si conosce essere stata presso gli antichi dalle medaglie che ci rimangono. È noto, per infamia della storia augusta, il fanatico trasporto di Nerone pel suono della cetra e pel canto, che lo fece discendere sino a comparire su i palchi d’Italia e di Grecia a contrastare la palma coi professori più rinomati di queste arti, e a compiacersi di riportarla come di uno dei più gloriosi suoi fasti. Ci narra Svetonio che volle esser venerato qual nuovo Apolline, e come tale nelle statue e nelle monete effigiato. Parecchie di queste medaglie greche e latine si conservano tuttora con tale impronta, e. ciò che più singolarmente fa al nostro proposito si è che la figura di Nerone Citaredo è tanto simile a questa statua di Apollo, che ne sembra copiata nel modo e nell’attitudine e sin nel lauro che gli corona le chiome. È credibile che l’adulazione, in un secolo specialmente pieno di gusto e d’intelligenza nelle belle arti, non abbia scelto fra i simulacri di Febo che il più nobile e il più celebrato, perchè servisse di emblema del citaredo imperatore. Possiamo dunque inferirne che questa che abbiamo presente fosse presso gli antichi la più bella figura che offrisse Apollo in abito di Citaredo. E se mi sarà lacito d’inoltrare le confetture, dirò che è una replica, o una copia fatta da mano maestra, dell’Apollo sonatore di cetra di Timarchide Ateniese, famosa scultura che accompagnava nei portici di Ottavia le nove Muse di Filisco. La mae stria del lavoro, non meno che la celebrità del luogo dove erano esposte queste statue alla luce dell’universo, che si affollava nella sua metropoli, può essere stato il motivo che indusse gli antichi scultori a copiarla per fare una statua dell’imperatore, come ancora delle diverse repliche delle Muse che ci sono rimaste in attitudini simili forse a quelle delle lodate di Filisco, come andremo a suo luogo notando.

« Raccogliamoci alquanto dallo stupore in cui ci trasporta l’osservazione di così bel simulacro per esaminar ciò che d’istruttivo, circa le antiche costumanze, ci presenta parte per parte. Incominciando dal capo veramente mirabile per avervi l’antico artefice scolpita, per così dire, l’immaginazione, sollevata dall’estro quasi al vaticinio, è questo coronato dal lauro, pianta consacrata da Apollo ad esser l’ornamento dei vincitori e dei poeti. Era simil corona tanto propria dei citaredi che nel certame delfico dei sonatori di cetra comparivano questi coronati di lauro. Osserva Luciano a tal proposito che i più poveri si contentavano dell’alloro naturala, mentre i più ricchi si adornavano di lauree d’oro, ornate di smeraldi in luogo di bacche. La gemma che distingue la corona del nostro Apolline può riferirsi a simil costume: questa gemma unica nel centro della corona, che corrisponde alla fronte, soleva adornare le lauree più preziose, come lo dimostrano molte medaglie, fra le quali un medaglione di Commodo del Museo Carpegna ora in Vaticano, un busto colossale di Traiano in Campidoglio, e una singolarissima testa di Augusto in età senile in questo nostro Museo. L’abito è quello stesso che i poeti latini attribuiscono a’ citaredi e alle persone teatrali, e chiamano palla, benché non con tutta la proprietà. (La palla dei Latini era, secondo Tosservazione di Servio, la stessa cosa che il peplo dei Greci). Questa danno ad Apollo quando lo descrivono come poeta, o come cantore, onde Properzio: Pizie (o Apollo) risuona carmi in lunga veste. Ed Ovidio: Lo stesso dio dei poeti ragguardevole per aurea palla, tratta le armoniose corde della dorata lira. E Tibullo: L’estremità del peplo, o palla, sembrava scherzare fra i talloni, poiché questa era la veste dello splendido corpo. Pendeva dalla manca parte la garrula lira, opera dì rara arte, risplendente per la testuggine e l’oro.

« Qui sembra che il poeta avesse innanzi agli occhi la nostra statua, dove l’artefice ha voluto significare la ricchezza di questo abito di Apollo colla gemma che lo guarnisce sul petto. La clamide che gli sta sospesa agli omeri con due borchie è anche parte di questo abito citaredico, per testimonianza degli antichi scrittori. La fascia, o zona, che gli circonda il petto, é più alta delle cinture ordinarie: era questa un altro abbigliamento della vestitura scenica, come può ancora congetturarsi dalle immagini della Musa tragica, e di quella delle tibie, fornite nei monumenti antichi di simil fascia. La cetra apta baltheo, secondo la espressione di Apuleio, pende dagli omeri del nume per una specie di armacollo. Tali cetre più grandi, che così per comodo si sospendevano, vengono da Esichio dette φορμιγγες, parola greca con cui talora si denota ogni sorta di cetra o lira: nomi dagli antichi stessi usati talvolta promiscuamente. La nostra è notabile pel basso rilievo di Marsia appeso, che ne adorna uno dei corni, o braccia, dette dai Greci άγκωνες o cubiti. Intendiamo adesso quanto voglia significarsi da Tibullo colle citate parole opera di rara arte, e come convenientemente Luciano descriva Orfeo e le Muse affigiate nelle cesellature dell’aurea cetra di Evangelo. Intendiamo ancora con quanta ragione fosse prescelto questo simulacro a rappresentare Nerone, che mostrava una somma emulazione coi più famosi sonatori di cetra, e nei pubblici certami di Grecia fìngea assoggettarsi al libero giudizio de’ Presidenti dei giuochi per aver motivo di più compiacersi della vittoria. Quel corpo rettangolare, che si distingue verso la estremità inferiore della cetra, era detto Magade dagli antichi, e lo troviamo descritto in Esichio qual lo veggiamo rappresentato. Serviva per chiudere un vuoto che desse maggior voce allo strumento, le cui corde sulla magade si terminavano. Questa concavità distingueva le lire dalle semplici cetre, che non ne erano fornite, secondo l’opinione degli espositori delle antichità ercolanesi. »

Per la vittoria navale di Azio

Tacete tutti: nuovi versi io canto,
Sacerdote alle Muse. Innanzi ai lari
Cada percossa una giovenca. L’urna
Ministri l’acque di Cirene: il serto
Lazio con l’edra Filitea gareggi:
Fumin gl’incensi: triplicata benda
Cinga l’are: la pura onda spargete.
Mentre all’aitar recente i frigi modi
Ai numi liberà Migdonia tromba.
Lungi, frodi. La colpa in altro cielo
Alberghi. Febo con l’allor lusinga
La nuova strada al suo poeta. musa,
Narra del Palatino Apollo il tempio:
Del tuo favor l’impresa è degna. Augusto
Chiede versi; si taccia anco di Giove
Quando Augusto si canta: a Febo un porto
S’innalza, e fugge d’Atamante i lidi,
E cela dell’Jonia onda il muggito.
Or la nave lulea fama è del mare
Che al pallido nocchier non detta i voti.
Qui del mondo pugnar le mani: ascose
Mole di pini con diverso fato
L’onde soggette. Eran d’Antonio i legni
Odio a Quirino, e in la feminea destra
Avvilita tremò l’asta romana.
Dell’augurio di Giove avea le vele
Piene l’Augusta nave, e l’altre insegne
A vincer dotte per la patria. Alfine
In doppio arco curvò Nereo le schiere,
E dai lampi dell’armi il mar dipinto
Tremava, allor che lasciò Delo Apollo;
Delo che sta, vindice il nume, e un giorno
Soffiò Noto dinanzi al suo furore.
Sopra Augusto ristette, e nuova fiamma
Apparve, che curvossi in face obbliqna
Tre volte. Non avea sparsi sul collo
I crini, e della lira il suono inerme;
Ma quel sembiante che al maggior Atride
Rivolse, onde con mille avidi roghi
Vuotò le tende Achee, e i giri immensi
Sciolse al Pitone, che l’ imbelle Lira
Temeva: disse: salvator del mondo,
O maggiore degli avi Ettorei, Augusto:
Vinci sul mare, è tua la terra: e l’arco
Milita a te che sull’irate spalle
Risuona. Salva la tremante Roma
Che alle vendette si confida, e pose
Sopra la prora tua pubblici voti:
Se non difendi le Romulee mura
Fu infausto il voi dei Palatini augelli,
E il flutto osa soffrir le regie vele
Se tu sei prence dei latini remi.
Deh non temer se la contraria armata
Con cento ali remeggia: il mar sdegnoso
Sotto le freme: sull’avverse prore
II centauro coi sassi invan minaccia:
Dipinta è la paura, e vano il lagno.
La causa nel guerrier combatte, e dona
Viltade o forza: se da sé diparte
Il giusto, toglie dalle mani incaute
La vergogna le spade. E tempo. I legni
Vadano ad incontrarsi: io son degli anni
Il padre: io guiderò di Giulio i rostri
Con la man trionfale. — In questi accenti
Sciolse la voce, e consumò nell’arco
Il peso alla faretra: infuria l’asta
Di Augusto dopo l’Apollineo strale.
Vinci, R-oma, pel nume. Antonio fugge:
L’acque Jonie portar lo scettro infranto.
Cesar stupito dall’Idalia stella
Grida: Son nume: del mio sangue è fede
Questo. — I Tritoni accompagnar col canto
La voce, e plauso dier le dee marine
Alle libere insegne intorno. Al Nilo
Fugge l’infamia dell’Egitto, e solo
Le lascia arbitrio della morte il Fato.
Ahi: trionfo miglior fora una donna
Per quelle vie che incatenato scorse
Giugurta. Avresti, o Febo, onor di tempio,
Che dieci navi nel Leucadio flutto
Uno strale domò dell’arco eterno.
Properzio, libro IV, eleg. vi.

Lezione vigesima.
Dei cognomi di Apollo. §

Questa Lezione, ultima fra quelle che trattano di Apollo, è destinata a tesservi la serie dei nomi più illustri coi quali l’antichità distinse il più hello se non il più grande dei numi.

Pulio fu detto, perchè autore ai mortali di salute, e Teseo gli fé’ voti sotto tal cognome, quando per la cara Atene volle profondere la vita esponendosi al Minotauro infamia di Creta.

Sopra Pachino, promontorio della Sicilia, fu chiamato il nume Libico, perchè colla peste vinse quei popoli che invader volevano le fortunate contrade alle quali la mal cauta Cerere affidò la sua figlia.

Delo cuna del dio, e sola fra tutte le terre pietosa a Latona, gli die di Delio la volgare denominazione, ed P^pidelio fu detto il simulacro di lui, il quale, dopo che l’isola predetta fu da un Prefetto di Mitridate saccheggiata, la fortuna dell’onde recò alle spiaggie del Peloponneso per farlo oggetto di culto ai Greci presso Malea.

Regna discordia sulle cause per le quali Febo si nomina: l’opinione che più al vero si avvicina è quella che derivar fa questo nome dalla luce, prima qualità di questo dio, che simboleggia il Sole

« Il ministro maggior della natura. »

Più incerta ancora è la ragione per cui Licio fu detto; e Pausania si contradice, perchè nel Viaggio in Attica lo deduce da Lieo figliuolo di Pandione, e nel Viaggio a Corinto, dal lupo che sacro era al nume, forse, onde la velocità significare.

Lucigenete Apollo fu chiamato da Omero, non come generato di Licia (poiché questa favola, come osserva Eraclide Pontico, non appartiene ai tempi Omerici), ma perchè autore è della luce primogenita degli esseri e dell’universo,

Latoo lo dissero per Latona madre di lui, e frequenti esempi di questo cognome si leggono in tutti i poeti.

Spodio fu adorato in Tebe perchè sopra la cenere dei sacrifìcii sorgeva il suo altare.

Perchè Delfico fosse chiamato vi si presenta subito il motivo, avendovi Pausania descritto il famoso tempio che in Delfo ad Apollo sorgeva. Stazio volendo esprimere il dolore del dio per la morte di Anfìarao, reputò di non poter meglio giungere al suo scopo che dicendo: « Sarai sempre di Febo eterno e nuovo dolore^ e lungamente in Delfo sarai pianto. »

È celebre il tempio che aveva pure a Triopo città della Caria il dio, onde Triopo fu appellato, ed i vincitori nei giuochi che sacri gli erano ne riportavano in premio tripodi di bronzo.

Diede al dio il nome d’Ismenio il colle Ismene, che sorgeva della destra porta di Tebe all’ingresso, celebrato da due statue, una di Fidia, l’altra di Scopa, rappresentanti Mercurio e Minerva.

Patroo cognominarono Apollo, non come protettore di una città sola, ma quasi padre di tutte. Rendevano famoso il tempio, che sotto questo titolo aveva in Atene, le opere di Eufranore, che primeggia fra gli antichi pittori.

Pitio lo dissero dalla morte del serpente Pitone, che le membra anelanti abbandonò sul giogo Cirreo, dopo aver coperto colle voluminose spire la terra spaventata.

Cintio Apollo fu chiamato dal monte di Delo, e divise questo nome colla sorella.

Didimeo, perchè credevasi lo stesso che il Sole, il quale con doppio lume fa heto l’universo, rallegrando ancora le tenebre della notte colla luce che sparge nel volto della Luna.

Filesio chiamarono Apollo dal bacio che diede a Branco fanciullo caro al nume, o perchè amabile è la sua luce quando appare sull’orizzonte.

Ecaergo, o Lungi-saettante, sovente è detto da Omero, perchè equiparato al sole che da lontano i suoi effetti produce.

Pagaseo, perchè in Pagase, ove la prima nave fu fabbricata, aveva un tempio.

Clario da Claro città dell’Asia, nella quale ebbe oracoli ed altari fondato da Manto figlia di Tiresia, che qui fuggiva la vendetta degli Epigoni vincitori di Tebe.

Come Teossenio, cioè ospitale, fu venerato dai Pellensi nell’Acaia, e presso il tempio del nume celebravansi il certame chiamato Teoxenia, istituito da Castore e da Polluce, del quale era premio, secondo Pindaro, una veste, e secondo Pausania, dell’argento.

Col nome di Parrasio s’onorava Apollo in Arcadia; Agieo fu detto dalle vie, e così lo nomina Orazio in un’Ode, di cui vi ho letta la traduzione. 14

Patareo da Patara città della Licia lo dissero, onde il Lirico mentovato cantò: « Delio e Patareo Apollo, che i liberi crini lava colla pura rugiada Castalia, che tiene i gioghi e la selva nobile di Licia. »

Amicleo lo nomarono ancora da Amicla, luogo nell’agro spartano, dove al nume edificato era un tempio insigne per ricchezza e per lavoro.

Col nome di Carneo si trova frequentemente Apollo mentovato dagli scrittori e specialmente da CaUimaco: alcuni rintracciano il motivo di questo nome in Carno figliuolo di Giove e di Europa, che fu educato dal nume, altri in diversa favola che per brevità tralascio.

Timbreo afferma Strabene che fosse chiamato da Timbra, luogo prossimo a Troia, dove vogliono che Achille, essendo da Paride ucciso, fosse inventata ìa favola che Apollo dirigesse l’arco dell’imbelle figlio di Priamo, perchè ivi un tempio gli sorgeva.

Apollo Grineo è illustre per Orino città dei Mirine:, nella quale il dio aveva oracolo antichissimo, ed are. Virgilio disse: « Ci promette l’Italia Apollo Grineo. »

L’arco di argento gii diede l’epiteto di Argirotosso, e per l’arco sua arma fu chiamato Arcitenente ancora dai Latini.

Musagete chiamarono Apollo perchè scorta ai passi e all’armonia delle Muse.

Presso gli Eliopolitani effigiato era Apollo nelle sembianze di un giovine senza barba, che colla destra teneva inalzata la sferza a guisa di auriga, e il fulmine e le spighe confondea colla sinistra.

Dal catalogo di questi cognomi potete ricavare che Apollo presso gli antichi si confondeva col Sole quantunque i Mitologi diano a quest’ultimo origine differente.

Prevalendomi di questa conseguenza, narrerò l’avventura di Fetonte; che ho tradotto dalle Metamorfosi di Ovidio, giacché voi, col vostro compatimento mi avete incoraggito a tentare simile impresa dopo l’Anguillara.

Avventura di Fetonte.

Per sublimi colonne era del Sole
Alta la reggia: vi risplende l’oro,
E le fiamme emular sembra il piropo,
E l’avorio le cime orna e ricopre.
Vibrano luce sulla ricca soglia
Doppie porte d’argento, e dal lavoro
La materia era vinta. È da Vulcano
Qui sculto il mar, che della terra abbraccia
Il globo, e il cielo che sovrasta al globo.
Cerulei numi ha l’onda: evvi il canoro
Triton che suona la ritorta conca,
E Proteo dubbio, ed Egeon che preme
Con le sue braccia alle balene il tergo:
Dori e le figlie altre nuotar vedreste
Ed altre assise: dai capelli verdi
Sgorga l’onda: d’un pesce un’altra è peso:
Non hanno tutte un sol sembiante, eppure
Non è diverso, che cosi conviene
A sorelle. La terra uomini porta
E selve o fere e ninfe, e degli aperti
Campi tutti gli Dei. Là sopra il cielo
Sei segni a destra, ed a sinistra stanno
Altrettanti. Calcò le chiare soglie
La prole di Climene, e vide i tetti
Del dubitato padre, e ratto l’orme
Drizza al volto paterno. Il pie ritenne
Lungi, perchè non soffre occhio mortale
Luce di Febo, che sul soglio siede
Di smeraldi distinto, ed ha velate
L’eterne mem.bra di purpurea veste.
Stanno al lato del nume i mesi, i giorni.
Gli anni, i secoli, e poste in spazii eguali
Ore e Stagioni: a Primavera il crine
Cingono i fiori: ed ha di spighe un serto
La nuda Estate: dell’Autunno i piedi
Tingon le uve calcate; al freddo Inverno
Le chiome irsute son di neve asperse.
Stupisce all’alta novità del loco
Il giovinetto, ma le scorge il Sole
Con gli occhi omniveggenti, e dice: figlio,
Che vuoi? qual è del tuo venir la mente?
Egli risponde: Dell’immenso mondo
Pubblica luce, Febo padre, l’uso
Se a me concedi di cotanto nome,
Nè vera colpa sotto iramagin falsa
Cela Climene, o genitore, un pegno
Dammi, onde io tolga dalla mente incerta
Quest’errore infelice, e in me ravvisi
Tua vera prole l’atterrito mondo. —
Disse; e dal capo il genitor depose
I raggi tutti. Colla mano impone
Che gli si accosti, indi l’abbraccia e dice:
Degno tu sei d’essermi figlio, e vera
L’origin fu che t’additò la madre;
E perchè escluda i dubbi ogni mio dono
Chiedi, e l’avrai. Stige n’attesto ignota
Ai lumi miei: — taceva appena il nume,
Che fé dimanda del paterno cocchio
Fetonte, e per un dì chiese il governo
Dei volanti corsier. Pentiasi il padre
D’aver giurato, e il luminoso capo
Tre volte scosse, e dagli eterni crini
Piovea la luce; indi riprese: O figlio,
Temeraria la mia voce divenne:
Io questo sol ti negherei, se fosse
II non darlo permesso: il ciel non vuole
Ch’io ti sconsigli. Ah tu. Fetonte, ignori
Quello che brami: è grande il dono, e vince
L’età le forze: uomo tu sei, rinchiesta
Non è mortale. Ahi stolto: i numi stessi,
E i più superbi, sull’ardente carro
Non oserian posarsi, e dell’immenso
Olimpo il re, che colla man tremenda
Vibra i fulmini suoi, paventa, o figlio,
Questo mio carro, e chi maggior di Giove?
Arduo è il primo cammin: lo vince appena
Il recente vis^or d’Eto e Piroo:
Altissima è del ciel mezzo la via:
Sempre nuovo terror mi scote il petto
Quando miro confusi e mare e terra.
Prono l’ultimo calle un fren sicuro
Tetide stessa, quando accoglie il carro
Dentro l’onde ospitali: un moto eterno
Rapisce il cielo, e con veloce giro
Gli astri conduce: nell’avversa parte
Io mi sostengo, e per contraria forza
L’impeto vinco che comanda al mondo.
Fingiti il cocchio fra i rotanti poli;
Potrai tu gire e trattener dell’asse
La fuga? forse col desio figuri
Città di numi, e selve e ricchi templi.
Forme e insidie di belve all’aspra strada
Crescon tema, e se ninno error t’inganna
Passar tu devi dell’avverso toro
Le corna, e l’arco Emonio, e l’ampia bocca
Di lion fero, le curvate braccia
De lo scorpione, del vicino cancro
La diversa minaccia. Èlieve forse
Gli animosi frenar, che dalle nari
E dalla bocca spiran fiamma? Appena
Tolleran me, quando nel corso avvampo
La ribelle cervice, e l’auree briglie
Rimbalzan sopra gli arruffati crini.
Deh, figlio mio, non far ch’autore il padre
Ti sia d’un dono sì funesto: ancora
In tempo sei, li tuoi voti correggi.
D’esser mio sangue vuoi tu certo pegno?
Tel do temendo: il mio timor fa prova
Ch’io ti son padre: deh: guardami in volto:
Così nel cuore il tuo guardo potesse.
Figlio, sorprender le paterne cure.
Mira del ricco mondo i doni e scegli:
Non soffrirai ripulsa; il carro solo
Non dimandar, ten prego: è pena il dono,
Non gloria. stollo, a che forza mi fai
Coi lusinghieri amplessi? avrai, non temi.
Quello che brami: ch’io giurai di Stige
L’inviolabil acque: ah tu più saggio
Sii nei tuoi voti: — Avea Febo compiti
I suoi consigli: non gli udì Fetonte,
E la dimanda incalza: il petto insano
L’ardor possiede del paterno carro.
Le concesse dimore invan frappose
II genitore: alfin conduce il figlio
Al cocchio, dono di Vulcano: è l’asse
D’oro, d’oro il timone e delle rote
Il giro estremo: son d’argento i raggi.
Di crisoliti è sparso il giogo: accrebbe
Febo splendor delle disposte gemme
All’ordin vario. Mentre l’opra ammira
Magnanimo Fetonte, aprìa l’Aurora
Le porte d’oriente, e vi spargea
Le rose col bel pie: fuggon le stelle
Che Lucifero aduna, e lascia il cielo
Fra gli astri ultimi. Il padre allor che vide
Rosseggiare la terra, e i corni estremi
Quasi svanire alla sorella, impone
All’Ore il carro preparar: veloci
I comandi del dio seguon l’ancelle,
E traggon fuor dalle sublimi stalle
I cavalli, che pasce ambrosia, e fuoco
Spirano dalle nari, e il fren sonante
Mordono ognora coll’indocil bocca.
Di liquor sacro il genitor consperge
Al figlio il volto, e a tollerar la fiamma
Capace il rende; gli circonda il crine
Coi raggi, e fuori dal commosso petto
I presaghi sospir traendo, disse:
Cedi almeno, o fanciullo, ai miei consigli
In questo; adopra il freno, e all’aura sferza
Perdona: e il volo trattener fatica:
Non ti piaccia pe’ cinque archi diretti
La via: sicuro il calle ove si vede
Certi vestigi delle nostre rote.
Perchè la terra con il ciel divida
Egual calore, il sommo evita e l’imo:
Sicuro andrai nel mezzo: il resto, o figlio.
Alla fortuna raccomando: io bramo
Che sia di te più savia: a me si vieta
Libertà di dimore, e già la notte
Toccò le mete dell’esperio lido.
Chiede la terra i nostri ufficii; splende
L’aurora, e innanzi a lei fugge la notte.
Le briglie afferra, e se il mutabil petto
Cede ai consigli miei, lascia l’impresa,
Or che a te si concede, e ancor non premi
L’asse mal desiato. — Occupa il carro
Fetonte già coll’agil corpo, e gode
Trattar con mano le permesse briglie,
E rende grazie non volute al padre.
D’infiammati nitriti empiono il cielo
Eto, Flegonte, Piroento, Eoo
Del Sol destrieri, e percotean coi piedi
La sbarra: allor che dell’immenso cielo
La libertà Teti concesse, ignara
Dei fati Fetontei. Fugge la via
Sotto i pie dei corsier, le nubi opposte
Stridon divise, già levati a volo
Avanzan gli Euri dalla stessa parte
Nati. Lieve era il carro, al giogo istesso
Mancava il peso, onde simile a nave
Che leggera al furor cede dei flutti,
Salta il cocchio che par vuoto: abbandona
Il trito spazio: già trema Fetonte,
E non sa volger le commesse briglie,
E non potria sapendo. Allora è fama
Ch’osar bagnarsi nel vietato flutto
I gelidi Trioni: ire novelle
Prese il serpente, e tu pigro Boote
Col tuo plaustro fuggisti. Allor che vide
Giù giù la terra di Olimene il figlio
Impallidì, tremar le guance, e gli occhi
Per tanto lume ottenebrarsi: in core
Tardo pentir gli nasce, e te condanna,
Fasto infelice del paterno sangue.
Come legno che Borea ha vinto, e lascia
Il pallido nocchiero al vento, ai voti,
Che si faccia non sa: del ciel gran parte
A tergo stassi, e più davanti: i lumi
All’occaso rivolge, e all’oriente:
Stupido per timor non lascia il freno,
Nè lo ritiene. Non conosce il nome
Dei destrieri del Sol; nel vano cielo
Gli sparsi mostri minacciar rimira:
Ma quando vide colla torta coda
Lo scorpione vibrar l’atro veneno,
Fuor di sé per paura il freno errante
Abbandona. Lo sente Eto sul tergo,
E dei fratelli suoi la fuga accresce:
Non ha legge l’error: l’impeto cieco
Di qua, di là, di su, di giù gli mena:
Ora toccan le stelle, or Cintia ammira
I fraterni cavalli a lei dappresso.
Fuman le nubi, la profonda terra
Si apre: gl’immensi boschi ardon coi monti:
Dà materia la messe al proprio danno:
Le cittadi e le genti in cener solve
L’ignoto incendio: mancan l’onde ai fiumi:
Si stringe il mar, d’inaridita polve
Diviene un campo. Il torvo volto ardia
Rege Nettuno sollevar tre volte;
Ma l’ardor non sofferse. Alfin la Terra
Al cielo alzò l’inaridito volto,
E la mano alla fronte oppose, e disse
L’universo scotendo: O Giove Padre,
Che fanno in ciel le tue saette? Almeno
Col tuo fuoco perisca, e il danno immenso
L’autor compensi. Forma voci appena
L’arida lingua: intorno al crin fumante
Volano le faville; il premio è questo
Dei doni miei? Per voi produco invano,
Ingrati Numi, i non mertati incensi.
Il caos antico teme il mondo. Atlante
L’ardente globo sulle stanche spalle
Più non sostiene. Per l’empireo ancora
Non tremi Giove? — Proseguir gli vieta
La fiamma, e negli estremi antri si cela.
Giove attesta i celesti: all’ardue cime
Vola, onde suole nella vasta terra
Mandar nuvoli, pioggia, e venti e tuoni.
Mancan l’acque e le nubi: il folgor vibra
Sopra l’auriga, e con la vita il carro
Gli toglie, e fiamme con le fiamme affrena.
Gli atterriti corsier rompon le briglie:
Là giace il freno; col timon spezzato
Stanno le rote in altra parte, e sparse
Tutte le parti dell’infranto cocchio.
Precipita Fetonte, e larga fiamma
Gli depreda le chiome: un lungo tratto
Segnò di luce nel turbato cielo:
Così membra cader stella che fende
Il liquido seren. Spengi il fumante
Volto, padre Eridan, rege dei fiumi.
Ovidio, Metamorf., lib. II.

Lezione vigesimaprima.
Diana. §

Secondo Cicerone, nel libro che intorno alla natura degli Dei ha scritto, più furono le Diane. Una nata di Giove e di Proserpina e madre dell’Amore; l’altra figlia di Giove e di Latona; la terza di Upi e di Glauce, che i Greci sovente chiamano col vocabolo paterno. I vanti di tutte s’arroga la seconda, che è sorella di Apollo e custode delle selve ed onore degli astri, perchè, come dai poeti appare era lo stesso che la luna, quantunque a quest’ultima l’antichità dia per genitore ora Iperione, or Fallante. Fingono i Mitologi che prima del fratello nata, uffìcii di levatrice prestasse alla madre, onde differente n’è la patria, e al dire dell’innografo conosciuto sotto il nome di Omero, nacque in Ortigia la prima, in Delo il secondo. Contuttociò l’opinione più comune è ch’ambedue questi numi vedessero la luce in Delo ad un parto stesso, come da Cornelio Tacito si rileva. Ecco le parole di lui. « Primi fra tutti vennero gli Efesii commemorando che, non come è credenza volgare, procreati furono Apollo e Diana in Delo, ma che presso un loro fiume chiamato Cencrio situato in Ortigia scorgevasi un ulivo, al quale la gravida Latona appoggiata, avea partoriti i due numi, ai quali poscia fu consacrata nel sito stesso una selva, ove Apollo dopo l’uccisione dei Ciclopi evitò l’ira di Giove. »

Nè questa differenza deve farci maraviglia, giacché tutto quello che è argomento alla vanità delle nazioni soggiace a infiniti cangiamenti. Sappiamo infatti da Erodoto che gli Egiziani dicevano generate da Cerere e da Dionisio queste due divinità, alle quali Latona non era stata che una semplice nutrice. Questa opinione fu seguita da Eschilo, che chiamò Diana figlia di Cerere, la quale, al dire di Pausania, era lo stesso che l’Iside degli Egiziani. Checché ne sia, avendo veduto i dolori che costava l’esser genitrice, dimandò a Giove padre verginità eterna. La diva a cui sono a core i dardi, la caccia delle lepri, le allegre danze sotto gli alberi, e il celere corso per le montagne, sedea ancor bambina, come narra Callimaco, sulle ginocchia del genitore, quando fece al padre la prima richiesta, aggiungendovi queste parole: — Dammi oltre l’inviolata castità ancora molti titoli onde Febo non gareggi meco: dammi frecce ed archi. Non ti chieggo il turcasso ed il grande arco, poiché a me fabbricheranno tosto i Ciclopi gli strali e l’arco pieghevole: ma il portare del lume, il cinger vesta fino al ginocchio orlata acciò uccida le belve selvagge. Concedimi sessanta ballatrici oceanine, tutte di nove anni, non cinte ancora, tutte fanciulle. Yoglio inoltre venti ninfe Amnisidi per ancelle, che abbiano cura dei miei coturni da caccia, e dell’altra suppellettile destinata a questo uso, ed i veloci cani bene nutriscano quando le linci ed i cervi non ferirò colle saette. Voglio inoltre tutti i monti: assegnami però qualunque città ti piaccia, poiché sarà cosa rara che io vi scenda. Abiterò sempre nei poggi, e mi mescolerò solamente coi luoghi abitati dagli uomini quando le donne, oppresse da acerbe doglie, mi chiameranno in soccorso. Le Parche mi destinarono a questo ufficio perchè mia madre, quando mi portava nel suo seno, e quando ancora mi partorì, alcun dolore non sofi’erse. — Così detto volea la fio’liuola toccare la veneranda barba del padre (questo atto presso i Greci facevasi dai supplicanti, che abbracciavano ancora le ginocchia), e invano stese le mani molte volte; Giove, sorridendo acconsentì piegando la testa sul petto, ed accarezzandola disse: - — Ah se le dee mi partorissero tali figli, poco curerei Tire di Giunone gelosa. Abbiti, figliuola, quello che dimandi; avrai cose ancora maggiori. Ti do, non che una torre, trenta cittadi trenta che non sapranno esaltare altro dio che te sola, e da te si chiameranno. Disegnerai pure a comune molte ville, tanto mediterranee che isole, e in tutte vi saranno i tuoi altari, i tuoi boschi. Commesse alla tua custodia saranno le strade e i porti. —

Così avendo favellato confermò colla testa i suoi detti. Andò quindi la fanciulla a Leuce monte di Creta, crinito di boschi; poscia all’Oceano, e scelse le ninfe che desiderava per seguaci. Gioì Cerato, gioì Teti perchè mandarono le loro figlie in compagnia di Diana. Circondata da queste andò ai Ciclopi, e gli trovò che nell’isola, Lipari or detta, e già Meliguni, stavano intorno ad una massa infocata, la quale preparavano per un lavoro che dovea servire per Nettuno, e consisteva in un vaso per abbeverare i cavalli del nume. Spaventaronsi le ninfe quando videro gli orridi mostri simili ai gioghi delle montagne Ossee, ai quali sotto i cigli un solo occhio simile a vasto scudo fiammeQ:oriava luce spaventosa. Nè meno le atterrì lo strepito delle incudini sonanti, il vento dei mantici e l’urlo delli stessi Ciclopi, che rimbombava l’Etna, l’isola tutta, l’Italia vicina, e la Corsica ancora con eco spaventoso. Diana solo non mutò faccia, perchè fanciulla ancora di tre anni, quando fu posta a sedere dà Latona sui forti ginocchi di Brente, a lui con la mano pargoletta strappò dal largo petto le lane ferruginee.

Eccovi esposti i principii della fanciullezza di questa diva, i cui attributi unì l’ Ariosto nella seguente maravigliosa ottava che fa indirizzare a Diana da Medoro, famoso per la fedeltà e per gli amori non sperati, frutti della sventura.

« O santa Dea, che dagli antichi nostri
Debitamente sei detta triforme.
Ch’in cielo, in terra e nell’inferno mostri
L’alta bellezza tua sotto più forme,
E per le selve di fere e di mostri
Vai cacciatrice seguitando l’orme,
Mostrami ove il mio re giaccia tra tanti,
Che vivendo imitò tuoi studi santi. »

Unisco la illustrazione di due simulacri di questa divinità, tratta dal Museo Clementino del celebre Visconti. Quindi Ovidio, che ho tradotto seguendo il mio costume, vi narrerà il destino di Atteone.

« Uno de’ più nubili simulacri di Diana questa tavola ci presenta, scultura bellissima donata dal signor principe Don Andrea Doria Panfili a Clemente XIV, la quale esprime eccellentemente il movimento della dea e ne’ capelli che leggermente svolazzano, e nell’andamento dei panneggiamenti eseguite coli’ ultima delicatezza; quindi il celebre Winkelmann meritamente la stimò la più bella fra le figure non succinte della figlia di Latona. Si vede la dea in atto di estrarre dal turcasso, che tiene appeso agii omeri, una freccia per lanciarla coir arco, ch’ella reggeva nella sinistra. È vestita d’una semplice tonaca spartana, così appunto senza maniche come un antico scoliaste ce la descrive, che lasciava il braccio nudo incominciando dagli omeri e che si vedeva in moltissime statue di divinità femminili. Due sole borchie sostengono sopra di essa una specie di peplo; tutto l’abito insomma è tanto semplice quanto a una dea si conviene che è nemica d’amore. Notabile è nella no stra statua che non è succinta come le sue immagiai ce l’offrono da cacciatrice, eppure la sua attitudine non è il riposo, col quale ha creduto il senator Bonarroti di render ragione dell’abito che giunge fino a’ piedi di una sua Diana. La sua azione è quella di saettare, nè dee farci maraviglia che tuttavia non sia stata scolpita succinta, quando in una moneta della famiglia Ostiglia l’osserviamo in veste talare con un cervo che ha raggiunto, stretto da lei per le corna colla sua destra, e con una lancia da cacciatrice nella sinistra. E poi si può dare che l’espressione del nostro simulacro non sia quella della caccia, ma che lanci i suoi dardi o contro il tentatore Orione, come canta Orazio, o contro i figli di Niobe per vendicare la madre. Omero stesso nella sua Necromanzia fa menzione di qualche eroina estinta dalle sue freccio, e la presente scultura poteva anticamente aver rapporto a così fatte avventure.

« Niuna cosa per altro in questa elegantissima statua mi è sembrata meritare tanta attenzione, quanto la benda che le avvince la fronte. Ha osservato Winkelmann che siffatta benda è propriamente il credemnum de’ Greci, ed io rifletto che l’etimologia stessa di quella voce lo insegna. Credemnum non è altro, anche secondo Eustazio, che vìncolo o laccio del capo; ottimamente dunque si appropria questo nome a siffatte bende, che non solo i capelli, ma il capo stesso e la fronte stringono e legano. Convengono alla descrizione dell’antico credeimio anche le due estremità, che in alcune immagini si osservano pendenti, poiché Penelope presso Omero con quelle appunto si copre e asconde le gote. Quello però che non sembrami avere il Winkelmann dimostrato, e che io credo insussistente, è la sua massima che qualunque statua con tal benda si osservi debba a Leucotea attribuirsi, perchè Clemente Alessandrino dà il credemno per distintivo di Leucotea. Il fondamento di ciò è la favola Omerica, nella quale si narra che questa diva del mare die il suo credemno al naufrago Ulisse perchè gii fosse di scampo. Deducesi da tutto ciò che Ino o Leucotea con tal benda soleva effigiarsi: non mi sembra per altro legittima conseguenza l’inferirne che questa sola dea ne avesse il capo adornato. L’ispezione dell’antico ce la mostra assai frequentemente in figure virili, e anche barbate, che sono per altro della compagnia di Bacco, per tacere l’immagine di questo nume, che ne hanno cinta la fronte. E dunque piuttosto il credemno un ornato bacchico che si dava a Leucotea come nudrice di Bacco, non così proprio per altro di questa seconda divinità che non possa attribuirsi ad altro soggetto; così ne ha circondata la fronte l’Urania colossale del Palazzo Farnese, e quel che è più osservabile questa nostra Diana, Omero stesso, ch’è il fondamento dell’opinione del Winkelmann, dà il credemno ad Andromaca, nuzial dono di Venere; lo dà a Penelope, come abbian sopra notato, e Coluto nel principio del suo poema ne adorna le ninfe dello Scamandro.

« Vero è con tutto ciò che forse questa è la sola figura che non sia bacchica, la quale s’incontri con simile abbigliamento, poiché le Muse stesse non sono aliene da questo nume, a cui è sacra una delle sommità del Parnaso. La nostra Diana si rende con ciò tanto più singolare, non avendo col jiume tebano alcuna cognita relazione. Potrebbe dirsi che Bacco, come deità della campagna, era ancora una delle deità della caccia. Spesso in atto di cacciatori veggonsi i Fauni e anche i Centauri, che pur sono suoi seguaci: Narcisso in una pittura dell’Ercolano, quantunque cacciatore, è ornato d’una corona bacchica. Anzi osservo in Polluce che un abbigliamento, che da lui ai cacciatori si attribuisce, non si osserva ora che nelle immao’ini di Bacco de’ suoi seguaci. E questo l’ephaptis, che secondo Polluce è un piccol manto col quale si coprivan le mani quei che sul teatro rappresentavano i cacciatori. Simili mantelli che nascondono per lo più una sola mano, si veggono soltanto in qualche figura di Bacco, in alcuni busti di Sileno, uno dei quali in bronzo, è presso di me e in altre immagini, che pure a simili soggetti appartengonsi.

« Commento con diligenza questa parte dell’antico vestiario perchè non la veggo peranco dagli eruditi rilevata in que’ monumenti che ce la mostrano. Anzi questa riflessione mi fa sovvenire d’un simulacro poco finora e niente a proposito illustrato. Fra i piccoli busti dell’ Ercolano è un Ercole vestito da donna con corona e abbiggliamento da baccaute. Questo bronzo mi serve di lume per riconoscere Ercole in abito femminile nel superbo simu lacro della Villa Panfili, spiegato per Clodio da certi antiquarii. E questi un giovine robusto di capelli ricci, con un collo erculeo, coperto di veste muliebre e con una mano nella stessa guisa avvolta nel manto. Non mi sembra d’errare quando lo credo Alcide, che presso ad Onfale o presso a Jole così mollemente si adorna, forse nella licenza de’ baccanali, da quest’ultima circostanza indicati nel marmo della Villa Panfili, e nel bronzo di Napoli dalla corona di pampani.

« Finalmente se taluno vi fosse che amasse tanto l’opinione di Winkelmann che volesse assolutamente avere per Leucotea, o per persona a lei aderente, qualunque immagine la cui testa è dal credenmo legata, come Winkelmann stesso denominò Cadmo una simil testa virile, si potrebbe dire che la nostra statua non Diana rappresenti, ma Agave madre del cacciatore Atteone, e cacciatrice anch’essa e in atto di cacciatrice dipinta una volta da Lesche, a cui sarebbe stato dato il credemno come ad una Cadmeide, e però germana di Leucotea. Non voglio tralasciare di rilevar la materia di questa statua, ch’è un marmo bianco greco, composto di vari strati, detto volgarmente Cipolla. In questo si trovano lavorate molte delle più antiche e più belle statue greche.

Diana succinta.

« L’abito succinto che appena giunge al ginocchio, la faretra appesa agli omeri, l’attitudine del corso espresso in tutte le membra, il cane che Taocompagna, indicano abbastanza la cacciatrice Diana. Tale appunto la veggiamo in tante greche medaglie particolarmente di Mitilene, e tanto simile è quella figura alla presente statua in ogni più minuta particolarità, che non può dubitarsi che non provengano queste diverse immagini da un medesimo originale. Sarà stata questa qualche eccellente opera di rinomati artefici, della quale non vi è restata negli scrittori memoria. Ha questa bella statua una specie di stivaletti, ch’erano i coturni venatorii degli antichi, de’ quali doveva esser calzata l’immagine di Diana che le promette in voto il virgiliano Micene in que’ versi: « Tutta di levigato marmo starai con roseo coturno avvinte le gambe. » La tonaca è breve, e così raccolta dalla cintura che le lascia scoperte le gambe, come appunto bramava ella d’abbigliarsi, secondo Callimaco, allorché dice ch’ ella desiderava d’esser ministra della luce,

« E di portar la tunica succinta
Sino al ginocchio, e debellar le fere. »

Le chiome strette in nodo le ondeggiano poi sulle spalle, la faretra le pende dagli omeri. Alcuni eruditi han creduto che il portar alle spalle il turcasso sìa distintivo di questa dea, ma i monumenti li contradicono. Delle altre cacciatrici si vedono figurate in tal guisa, e segnatamente Atalanta nel bel bassorilievo Borghesiano della morte di Meleagro. Fu trovata la presente statua negli orti Carpensi, come si è altrove accennato. Era stata anticamente ristorata e dorata, ma il ristauro accusava un secolo poco alle arti favorevole. La nicchia dove era collocata vedevasi rivestita di alabastri, e l’abside n’era messo a musaico. »

Atteone.

Tebe già stava: e tu, Cadmo, potevi
Per l’esiglio sembrar felice; il fato
Soceri t’accordò Venere e Marte;
La prole aggiungi di cotanta moglie,
Figli e figlie, nipoti, amabil pegno,
Giovini anch’essi: ma se dir beato
Anzi l’ultimo dì si vieta all’uomo.
Tu primiera cagion fosti di pianto,
misero Atteon, mutato in cervo
Con non tue corna, e voi, cani feroci.
Ch’il sangue saziò del signor vostro.
Colpa fu di fortuna, e non delitto:
Ahi qual può nell’error esser delitto:
Sorgeva un monte che di varie belve
Macchiò la strage: il sole in mezzo al cielo
Facea l’ombre minori, allor che chiama
L’Ianzio giovinetto i suoi compagni,
Che gian pei boschi con error diverso:
Compagni di fatica, ei dice, assai
Reti e ferro macchiò di belve il sangue
Nel fortunato dì; quando l’aurora
Il nuovo giorno sul rosato carro

Ricondurranne, alla proposta caccia
Torneremo di nuovo. Apre la terra
Di Febo il raggio, e lo star più si vieta:
Tregua alle reti. — Obbediente ai detti
La schiera le dilette opre interrompe.
S’apre una valle che Gargafia ha nome
Cui l’acuto cipresso orrore accresce,
Cara alla dea succinta. Antro selvoso
Cupo vaneggia nel recesso estremo:
Arte par di natura, e qui fìngea
L’imitatrice sua col proprio ingegno,
E con pomice vivo e lievi tufi
Curvava arco nativo. Un fonte a destra
Strepita, e move fra dipinte sponde
L’onda d’argento. Qui la dea soleva
Terger nell’acque le virginee membra
Nella caccia stancate. Or che vi giunse,
A ninfa delle certe armi custode
Consegna i dardi, la faretra e l’arco
Disteso: un’altra alla deposta veste
Sottopone le braccia, e sciolgon due
L’impaccio dei coturni ai pie veloci,
E Crocale più dotta in un sol nodo
Raccoglie i crini per lo collo sparsi.
Benché laccio veruri non le reprima
La libertà delle neglette chiome.
Attingon l’onda e Jale e Nife e Rani;
Dall’ abil’ urna la diffonde a gara
Fiale con Seca: coU’usato umore
Mentre si terge la Titania dea.
Il nipote di Cadmo al bosco arriva
Per ignoto sentier con passi incerti
Vagando: così piacque al fato. Appena
Nell’antro penetrava, al suo conspetto
Si percossero il sen le ninfe ignuda,
E subito ululato empì la selva.
Si gettan sulla dea, veste le fanno
Del proprio corpo: ma col collo a tutte
Sopravanza Diana:15 avea la faccia
Eguale a nube, che pel sole avverso
Fiammeggia, o come è dell’Aurora il volto
Quando le briglie sparse di rugiada
Le presentano l’Ore, e invan la chiama
Il suo Titon con desiose braccia.
Pur dalie ninfe sue celata e stretta
Rivolge indietro il volto, e le deposte
Armi, ricerca, e quasi strali accoglie
L’umor soggetto nelle cave palme.
Bagnano ad Atteon le chiome e il volto
L’onde vendicatrici: e detti aggiunge
Che nunzi sono del futuro danno:
Or ti lice narrar che senza velo
Mi vedesti se il puoi: — nè più minaccia.
Giunge alla fronte di vivace cervo
Le corna, il collo gli prolunga, acute
Rende l’orecchie, ed in sottili gambe
Muta i piedi e le braccia, e il bianco corpo
Tutto gli vela di macchiata pelle,
E d’ignoto timor gli colma il petto.
Fugge l’eroe tebano, ed ha stupore
D’esser così veloce: allorché vide
Nel rio vicino le mutate forme:
Me infelice: gridar volea: non forma
Più la lingua parole: un strido è voce,
Il pianto scorre sul non proprio volto:
D’uomo ha solo il pensier. Rivolge in mente
Che risolva? Se torni al regio tetto,
O fra le selve si nasconda: incerto
Fra verofosrna e timor vesrsronlo i cani.
Primo Melampo col latrato accenna
Ai compagni la preda: accorron tutti
Rapidi più del vento, Ileo feroce,
E Lelape, e Teronte, Agre che trova
Orme di belve con sagaci nari,
E mille veltri che è il ridir dimora.
La turba, che furor di preda infiamma,
Fra rupi e tane, fra scoscesi sassi
E dove non è via lo segue: ei fugge
Pei luoghi istessi ove inseguì le belve;
Fugge i suoi servi: dir volea: Fermate,
Sono Atteone, conoscete il vostro
Signore: al suo desio manca la voce:
L’aer risuona di latrati; il tergo
Melan chete il primier fere coi denti,
Oresitrofo quindi al manco lato
Si avventa, e manca alle ferite il loco;
Geme, e se umano del suo pianto il suono
Non è, nò meno si conviene a cervo.
I noti gioghi di querele meste
Riempie; a terra le ginocchio inchina
Di supplicante in atto, e il muto volto
Come le braccia intorno intorno volge.
E gl’ignari compagni accrescon rabbia
Coi gridi usati alla feroce torma,
E con gli occhi Atteon cercano, a gara:
Atteone, Atteon gridano; il capo
Al suo nome rivolge: essi querela
Fanno ch’ei sia lontano, o che non pasca
Gli occhi bramosi nell’offerta preda.
Esser lungi vorrebbe, ed è presente:
Vedere e non sentir le prove atroci
Dei feri cani, che immergean la bocca
Nel petto, e in forma di fallace cervo
Sbranano il signor loro; in molte piaghe
All’alma irresoluta aprian la fuga.
Ei more, e solo colla vita ha fine
Il tuo furore, o faretrata dea.
Ovidio, Metamorf., lib. III.

Lezione vigesimaseconda.
Gesta e simulacri di Diana. §

« L’animosa fanciulla in mezzo al terrore delle compagne, ch’avriano con le mani sopraposte agli occhi desiderato di celarsi nel grembo alle loro genitrici, cosi disse ai Ciclopi: — Su via, fabbricatemi un arco Cidonio (così dicevasi da Cidone città di Creta, celebre per questo genere di armi), le freccie, la faretra: io sono figlia di Latona come Apollo: che s’io prenderò in caccia qualche serpe solingo, qualche altra gran fiera, a voi ne farò dono. — Sì disse, e le armi, in men ch’il dico, le compirono i Ciclopi. Vola armata alla casa di Pane in Arcadia, e quel nume barbuto le fé’ dono di cinque cani capaci di strascinare per la pelle gli stessi leoni, e di altrettante cagnoletto credute prestissime a seguire i cavrioli, le lepri, ed a guidare sulla traccia di qualunque animale. Di qui partita trovò sulla vetta del monte Parrasìo delle cerve saltanti, alta e mirabile cosa, che pasceano sempre sulla riva dell’ Anauro da’ neri sassi, e piiì grandi dei tori, alle quali oro splendea dalle corna. Stupefatta così disse al suo core: — Questa prima caccia sarà degna di me. — Di cinque, quattro ne prese senza il corso dei cani, ma da per se stessa, acciocché le portassero il cocchio veloce. Una fiigoita sul fiume Celadone ricevè il masso Cerineo per voler di Giunone, acciocché fosse d’Ercole l’ultima impresa.

« Tu, virginea Diana, ucciditrice di Tizio, cui un avoltoio divora il core rinascente, avendo d’oro Tarmi e il cinto, poni aurei freni, ed aureo cocchio attacchi alle cerve. Dove queste ti condussero per la prima volta? Sul monte Emo di Tracia, ove il turbine di Borea i mortali con grave gelo flagella. Qui da un pino tagliasti la fiaccola che accendesti sul Miso Olimpo con quella luce inestinguibile, che dai fulmini del tuo padre deriva. Quante volte, diva, provasti l’arco d’argento: La prima in un olmo, la seconda in una quercia, la terza in una belva, la quarta scoccasti le infallibili saette sopra una città di scelerati, che contro i suoi, contro gli stranieri, molte colpe avea commesse. Ahi miseri coloro nei quali scagli il tuo terribile sdegno: divora la peste i loro bestiami, la grandine le loro terre, i vecchi con recisi capelli piangono sopra i figliuoli, muoion le gravide donne, o partoriscono nell’esilio figli che non si reggono sopra i piedi. A quelli che tu placida e dolce-ridente guardi, sono feconde le spighe, i quadrupedi, e cresce l’avere, e non scendono nel sepolcro se non portando lungo spazio d’anni: non divora le loro famiglie la discordia, che scote le case piii ferme; pongono le sedie intorno ad una sola mensa le parenti, le cognate. Sia, o veneranda, caro a me solo chi è veritiero, ed io sia quegli; abbia sempre a cuore il canto in cui si odano le nozze di Latona, e tu molto regni con Apollo, e di tutte l’imprese tue si favelli, dei cani, degli archi, dei cocchi, che leggermente ti trasportano quando vai verso la sede di Giove. Qui gl’immortali incontro ti si fanno nel vestibolo, e il buon Mercurio riceve le tue armi. Apollo la tua caccia. Ma non ha più questo premio da che il fiero Alcide è venuto nel cielo. Egli ostinatamente sta alla porta aspettando che tu rechi qualche pingue pasto, e ridono senza fine sopra lui tutti gli Dei, e specialmente la stessa suocera Giunone quando ti prende di sul cocchio un toro assai grande, o per un pie di dietro smisurato palpitante cignale, e quindi con accorte parole, così ti favella: Ferisci le bestie feroci, affinchè i mortali ti chiamino come me divinità del soccorso: lascia pascere sui monti le capre selvaggie e le lepri: e che fanno di male? ma i cignali offendono i seminati, e i bovi sono gran danno ai mortali; onde ancor questi uccidi. Così parlando intorno alla smisurata bestia s’affatica, poiché quantunque abbia divinizzate le membra sotto la frigia querce del monte Oeta, egli è quello istesso Ercole vorace, ed ha quel medesimo ventre col quale s’in contro in Teodamante che arava, e fé’ suo pasto un bove. A te, o Diana, le Ninfe Annisiadi rinfrescano le cerve distaccate dal giogo, e recano loro il trifoglio facile a nascere, che mietono dai prati di Giunone, e che pascon i destrieri di Giove. Tu vai, diva, intanto nella casa paterna, tutti t’invitano nella loro sede: ma tu vuoi stare seduta presso Apollo.

« Ma quall’ isola, qual monte a te più piacque qual città, qual porto? Quale delle ninfe amasti sopra le altre? quali eroine avesti per compagne? Dillo, dea, onde agli altri si canti. Dolica, una delle Cicladi, fra l’isole ti fu la più cara; Perga di Panfilia tra le città; Taigeto fra le montagne; Euripo fra i porti. La ninfa Gortinia ucciditrice di cervi amasti sopra le altre; Britomarte certa saettatrice, del di cui amore preso Minosse errò pei monti di Creta. La ninfa or sotto querci irsute si nascondeva, or fra stagni paludosi: l’amante per balzi e per dirupi la seguiva, nè cessò mai finche avendola quasi afferrata ella si precipitò dalla punta di una montagna nel mare, e quivi balzata nelle reti ai pescatori fu da questi posta in salvo. Quindi i Cidoni chiamaron la ninfa Dittinna, cioè dalle reti, e Ditteo il monte da cui saltò; eressero altari, vi fanno sacrifizii, e in quel giorno la ghirlanda è di pino, giunco; ma si vieta il cingersi di mirto, perchè un ramo di quest’albero si attaccò al velo della donzella mentre fuggiva. Fu tua compagna ancora Cirene, cui desti due cani da caccia, e la bionda Procri consorte di Cefalo Peionide amato dall’Aurora. Dicono ancora che tu ami al pari delle tue pupille la bella Antidea.

« Queste già portavano gli agili archi e il turcasso intorno agli omeri, che spogliati dal lato destro mostravano l’ignudo seno. Approvasti ancora grandemente la figlia d’Iasio Arcoside, Atalanta dai piedi veloci, ucciditrice dei cinghiali, e le insegnasti accertare il colpo ed inseguir le fiere coi cani. La lodano quelli che furono chiamati per la caccia del cignale di Calidone: infatti i segni della vittoria vennero in Arcadia, che possiede ancora i denti della belva. Nè Ileo e lo stolto Reco, benché nemici, possono vituperarla nell’inferno: che non mentirebbero le loro viscere, che sparsero di sangue la Menalia montagna.

« O Diana, tu hai molti templi, molte città: tu abiti Mileto, che fondò sotto i tuoi auspici Neleo figliuolo di Codro, il quale dalla terra di Cecrope sciolse le navi. Agamennone pose nel tuo tempio in Aulide il timone della sua nave, quando i venti imprigionati differirono la vendetta degli Achei sopra il rapitore troiano. Salve, o venerabile custode dei porti; e niuno ti disprezzi: che ad Eneo, il quale ne spregiava gli altari, toccarono in sorte pugne infelici: nè vi sia alcuno che ardisca di contrastarle l’arte di ferir cervi, che premio doloroso di questo vanto riportò Agamennone sulle rive dell’Eubea. Oto e Arione male ambirono le tue nozze. Non ricusate la solenne danza annuale in onore di lei; che questo rifiuto costò lacrime a Ippona. »

Fin qui Callimaco vi ha raccontate di questa di vinità le geste più illustri. Ora conviene parlare delle maniere colle quali Diana in diversi simulacri effigiata si vede.

« Quello del Museo d’Ercolano, così Winkelmann si esprime, sta in atteggiamento di andare come lo sono per lo più le figure di questa divinità. Gli angoli della bocca sono un po’ rivoltati all’ insù, e piccolo n’è il mento: vedesi però chiaramente esser questa sembianza un’idea imperfetta della bellezza anziché ricavata dal naturale: pure bellissimi ne sono i piedi, nè più ben fatti si veggono nelle più belle greche figure. I capelli vengonle sulla fronte in piccoli ricci, e lateralmente le scendono in lunghe treccie sugli omeri: di dietro sono legati a molta distanza dalla testa, e cinti da un diadema, su cui stanno otto rose rilevate d’un color rosseggiante. L’abito è dipinto in bianco; la sottoveste ha larghe maniche formate a pieghe increspate e irregolari, come nella precedente statua, e la veste, o piuttosto il breve manto messo a pieghe parallele e compresse, viene nell’orlo esteriore circondato da una stretta fascia di color d’oro, sopra alla quale sta immediatamente altra fascia più larga di color rossigno, sparsa di fiori bianchi per indicare il ricamo: nella stessa guisa é dipinto l’orlo della sottoveste. Rossa è la cigna della faretra, che dalla spalla destra viene a passare sulla mammella sinistra, e di tal colore sono pure i lacci dei calzari. Stava questa statua in un piccol tempio di una villa, che apparteneva alla sepolta città di Pompeia.

« Generalmente Diana più che ogni altra delle dee maggiori ha la figura e le sembianze d’una vergine, eh’ essendo dotata di tutte l’attrattive del suo sesso, sembra ignorarle. Non. ha però umile e piegato a terra lo sguardo, come Pallade, ma libero, franco, gioviale, quasi intento alla caccia, sua piacevole occupazione, e quale appunto si conviene ad una dea, che per lo più rappresentasi in atto di correre; cioè diretto orizzontalmente in guisa che stendasi sui circostanti oggetti. I suoi capelli sono d’ogni intorno della testa ripiegati in su, e di dietro alla maniera delle fanciulle legati sopra alla collottola, come in un gruppo, o nodo, senza diadema, e senza quegli altri attributi, o fregia che le furono dati nei tempi posteriori. La sua figura è più svelta, ed ha membra più pieghevoli che Giunone e Pallade; cosicché Diana mutilata si riconoscerebbe fra tutte le altre dee. Come Diana stessa, presso Omero, fra tutte le sue belle Oreadi distinguevasi: per lo più non ha che una corta veste, la quale non le oltrepassa il ginocchio; ma talora è pure effigiata in veste lunga, ed è la sola d^a che in alcune sue figure porti scoperta la destra mammella.

« Sopra un’urna sepolcrale, eh’ è nella casa Accoramboni, ove è rappresentato il sacrifizio di Oreste e di Pilade, si vede Diana Taurica che tiene un ferro nel fodero per indicare i sacrifizi umani; e il soprannome di questa deità vi è indicato per una testa di toro scorticato, sospesa ad un albero che ad essa è vicino.

« La sola antica testa di Diana,’sulla quale la mezza luna si sia conservata, appartiene alla figura di questa dea eh’ è nella Villa Borghese in Roma. Le sue Oreadi, o ninfe, di cui Obi è la più conosciuta, hanno delle lunghe ali di aquila, come le aveva la dea nella famosa arca di Cipselo. Sopra un’urna eh’ è nel Campidoglio, e sopra un bassorilievo della Villa Borghese, queste ninfe tengono i cavalli attaccati al carro di Diana, quando discende per dare un bacio a Endimione addormentato. Giulio Scaligero pretende che queste ninfe per esser distinte non portino il turcasso sulle spalle, ma al fianco, il che non si saprebbe provare cogli antichi monumenti, ma al contrario non si vede in niun luogo le Oreadi col turcasso. Nel numero delle ninfe di Diana si trovano ancora le Driadi, vale a dire le custodi delle foreste, e sopra tutto delle querce. Una pittura di Ercolano ci rappresenta una Driade, di cui la parte inferiore è formata di foglie, e che tiene un’ asce nelle sue mani: la più cognita fra queste si chiamava Figalia. »

Non solamente le donne seguaci furono di Diana, ma fra gli uo’mini ancora vi ebbe chi imitavane gli studii. Giova rammentare fra molti Ippolito, emulo della castità di questa dea, tanto da meritare l’ira di Venere, cui soddisfece l’amore della delusa matrigna. Diana, nella tragedia di Euripide intitolata l’ Ippolito coronato, introdotta per sciogliere Fazione, ci palesa l’innocenza del suo seguace, ed ordina che nella patria onori gli sieno fatti. Quindi ho creduto potere aggiungere a questa Lezione la descrizione della morte di Ippolito, la quale ho tra ciotta da Racine, che ne accrebbe le bellezze derivate dal nominato tragico greco.

Morte d’ Ippolito.

Lasciata di Trezene avea la porta
Ippolito: facea corona al cocchio
Schiera ch’imita il suo silenzio, e gara
Ha di mestizia col signor, che segue
Pensoso il calle Miceneo. Le briglie
Erran sul collo ai corridori alteri,
Cui parlava col freno e colla voce.
Ora inchinan la fronte e i mesti lumi
Conformi al duolo dell’eroe. Dall’onde
Quando levossi orribil suono, e scossa
Fu la calma del pigro aer: gemendo
Fin dall’abisso una tremenda voce
Risponde al grido: a noi ricerca il core
Fredda paura; i corridori al cielo
Tendon le orecchie e i rabbuffati crini.
Ecco deirOceàn sul tergo immenso
Montagna d’onde gorgogliando alzarsi:
Si appressa al lido, e vi si frange, e getta
Con infinite spume orrido mostro.
La minaccia dei corni arma la fronte,
E gialla squamma gli ricopre il corpo.
Serpe feroce ed indomabil toro
Colla coda più volte il mar misura.
Freme la riva al suo muggito, il cielo
Inorridisce e si avvelena, il suolo
Crolla, e quell’onda che il portò sul lido
Verso il mare dà volta impaurita.
Fugge nel tempio ognun. Prole d’eroe
Vera, Ippolito sol frena i cavalli:
Afferra i dardi, incontra il mostro, e larga
Piasra nel fianco con la man sicura
Gli apre. Per rabbia e per dolore il mostro
Verso i destrieri si rivolta, e cade,
E. loro offre muggendo ardente gola,
E fiamma gli ricopre, e fumo, e sangue.
Gli trasporta il terror, son sordi al freno
E alla voce: l’eroe frenarli tenta,
E per, sanguigna spuma è rosso il morso.
Fama è che un nume nel tumulto orrendo
Pungea di sproni il polveroso fianco
Ai corridori fra l’acute rupi
Precipitati dal timor: già l’asse
Cigolando si frange, e volar mira
In mille parti lo spezzato carro
Ippolito sicuro, e cade avvinto
Ei stesso nelle briglie. Ahi: scusa il mio
Dolor: causa mi fìa d’eterno pianto
Questa immagin crudele. Io vidi, io vidi
Dai destrier che la sua mano nutria
Strascinato quel tuo misero figlio.
Richiamarli volea: terror la voce
Accresce a loro: una ferita sola
Son le sue membra: di querele e gridi
Risuona il piano. Si rallenta alfine
La fuga, e stanno ver la tomba antica,
Che dei regi avi suoi l’ossa nasconde.
Sospirando vi corro, e m’ accompagna
La guardia sua: del generoso sangue
L’orma ci guida. Son tinte le rupi,
Han delle chiome le sanguigne spoglie
Gli spini. Arrivo: egli mi chiama, ed alza
La destra verso me gelida e nuda,
E gli occhi moribondi apre, rinserra,
E spira. Fra le mie braccia non lascia
Che sfigurato corpo: orrido oggetto
Ove trionfa degli Dei lo sdegno,
E appena tu conosceresti, o padre.
Racine, Fedra, Atto v. Sc. 6.

Lezione vigesimaterza.
Tempio di Diana in Efeso. §

Quando nelle prime Lezioni, brevi e generali notizie intorno ai templi vi diedi, promisi ancora che dei più famosi derivata avrei dagli scrittori la descrizione quando favellato avessi delle divinità, alle quali erano consacrati. Adempio all’obbligo della mia promessa ragionando del famoso tempio sacro a Diana in Efeso, che si annoverava fra le sette meraviglie del mondo.

Era antichissimo, ma non fu però nel suo principio così magnifico come divenne in appresso, poiché, secondo Plinio, tutta 1’ Asia concorse per lo spazio di dugento ventanni, o come dice altrove, di quattrocento, cfd ornarlo, ad abbellirlo. Asserisce Pindaro in una delle sue Odi ch’egli fosse edificato dalle Amazzoni allorquando andarono a far guerra a Teseo ed agli Ateniesi. Ma Pausania dice che a questo gran poeta non era nota 1’ antichità di questo tempio mentre le stesse Amazzoni vennero dalle rive del Termodonte per sacrificare a Diana Efesina nel di lei tempio, del quale avevano cognizione; e ciò perchè qualche tempo prima disfatte da Ercole, e precedentemente da Bacco, nel di lei tempio si erano rifugiate.

Ci vien riferito da Dionigi il Geografo che ve ne ha uno molto più antico fabbricato dalle medesime Amazzoni, il quale molto bene dimostrava la semplicità dei primi templi, giacché non consisteva che in una nicchia scavata in un olmo, in cui apparentemente era la statua di Diana. Quello del quale io parlo era meno antico. Ecco la descrizione che fa Plinio di questa magnifica mole.

« Fu fabbricato questo, tempio dicegli, in un luogo paludoso per assicurarlo dai terremoti e dalle crepature, che alcune volte nella terra si fanno; ed affinchè le fondamenta di un sì pesante edifizio avessero della sodezza in quel morbido terreno, ed inzuppato d’acqua, vi posero del carbone pestato, e sopra esso pelli di montone colla lor lana. Aveva (Questo tempio, continua lo stesso autore, 425 piedi di lunghezza e 200 di larghezza: le 127 colonne che sostenevano Tedifizio sono state donate da altrettanti re, ed erano di 60 piedi alte. Fra queste colonne ve n’eran 36 ben lavorate collo scalpello, e una di mano del celebre Scopa. L’architetto che condusse a fino questa greca mole fu Chersifrone, Ctesifone, ed è cosa mirabile che siansi potuti mettere in opera architravi di sì gran peso. L’artificio di cui servissi questo valente artefice per ve nirne a capo è singolare. Distese sulla sommità delle colonne certi gran sacchi ripieni di rena: poi lasciando scorrere leggermente questa sabbia, vennero gli architravi a prendere insensibilmente il loro posto. Chersifrone ebbe maggior difficoltà a collocar una pietra di maggior mole sopra la porta del tempio. »

Crederebbesi che Plinio, mancandone la relazione, avesse immaginato in qual maniera era riuscito a situare questa enorme macchina: ma invece di questo riferisce freddamente e con serietà una visione dell’architetto, al quale apparve Diana esortandolo a farsi animo: e dice che il seguente mattino vi-, desi la pietra discendere da per se stessa, e adattarsi nel luogo in cui si dovea collocare. Si potrà ben credere che il tetto del tempio fosse di tavole di cedro, conforme avverte lo stesso autore; ma non so se vorremo prestar fede a ciò ch’egli dice della scala, per cui salivasi sino alla cima del tetto e ch’era fatta d’un solo tronco di vite, quantunque nei terreni dell’Asia ingrossi e cresca a dismisura. Nè Chersifrone, nè il suo figliuolo Metagene terminarono un’ opera così grande e magnifica. Altri architetti vi travagliarono, e ben 220 anni di tempo ci vollero prima che fosse interamente compita.

Dovevano le ricchezze di questo tempio essere immense, giacche tanti re contribuirono ad abbellirlo: nò in Asia vi era cosa piìi famosa di questo edificio, non tanto per la divozione, quanto pel gran concorso di gente che portavasi ad Efeso. Quel che racconta San Paolo della sedizione tramata dagli orefici di questa città, che tiravano il loro sostentamento nel formar piccole statuette di Diana in argento, può ben provare la celebrità del culto di quella dea. Sembra peraltro che la descrizione fattane da Plinio riguardi il tempio, che fu bruciato da Erostrato nella maniera che a tutti è ben nota: imperocché quello che esisteva a suo tempo era stato fabbricato da Dinocrate, o, secondo Plinio, Dinocare, ristesse che disegnò la città di Alessandria, e che del monte Atos voleva fare una statua ad Alessandro. Quest’ultimo, che fu veduto da Strabene, era altrettanto vago e pieno di ricchezze quanto era il primo, e vi si vedevano l’opere dei più famosi scultori. Era quasi tutto l’altare di mano di Prassitele. Parla Senofonte di una statua d’oro massiccio, della quale Erodoto, che visitato avea questo tempio, non fa parola. Assicura Strabene che gli Efesii aveano ancora collocata per gratitudine nel medesimo luogo una statua d’oro in onore d’Artemidoro, uno degli artefici del tempio. Dice Yitruvio che questo tempio d’ ordine ionico era dipterico, vale a dire tutto ai lati circondato da due ordini di colonne in forma di un doppio portico, che aveva 71 pertica di lunghezza, più di 36 di larghezza, e che vi si contavano 127 colonne tilte 60 piedi.

Era questo tempio un asilo dei più celebri, il quale, secondo l’autore da me citato, si estendeva fino a 125 piedi all’intorno. Mitridate l’aveva limitato per quanto portava un tiro di freccia. Marcantonio raddoppiò questo spazio; ma Tiberio per evitare gli abusi che commettevansi col favore di tali privilegi, abolì quest’asilo. Non troviamo in oggi di un così celebre edifizio che alcune ruine, delle quali può vedersi la relazione nel viaggio di Spencer.

Le medaglie ci rappresentano spesso questo questo tempio colla figura di Diana: ma il frontespizio, nel breve spazio che ha tal sorta di monumenti, non è adornato che di sole otto colonne, qualche volta di sei, di quattro, o solamente di due.

Darò compimento alla presente Lezione ricordando la Caccia di Meleagro, e le sventure e i delitti onde venne accompagnata, e che ho tradotto da Ovidio.

Caccia di Meleagro.

Dedalo stanco nella terra etnea
Stava, e mite dicean Cocalo d’armi
Prodigo ai mesti. Più non dava Atene
Lamentabil tributo: era Teseo
Lode comun fra i coronati altari.
Pallade vi s’invoca, e col Tonante
Gli altri Celesti hanno votivo sangue,
Promessi doni, vario onor d’incensi.
Per l’argive città la fama errante
Spargea di Teseo il nome, e quei che chiude
L’Achea ferace a lui chieser soccorso
Nei perigli maggior: supplice ancora
L’ implorò Calidon, benché superba
Di Meleagro. Fu cagion dei preghi
Della Latonia dea cinghiai ministro
E vindice. Volò pubblico grido
Che Eneo, per l’anno che con larga usura
Rese ai cultori gli affidati frutti,
Biade a Cerer libasse, e vino a Bacco,
A Pallade l’umor biondo di olivo,
Onde a tutti gli Dei giunse l’onore
Ambizioso, che agli agresti numi
Nel principio si dee. Solo a Diana
Freddo rimase l’obliato altare.
Può lo sdegno sui numi ancora: Inulta
Io non sarò se inonorata, esclama
La diva: manda per gli oenei campi
Cignal vendicator d’Epiro erbosa,
Maggior de’ tori: spiran fiamme e sangue
I lumi: eguale è il setoloso tergo
A selva d’aste: la bollente spuma
Con strider roco dall’adunca guancia.
Ch’arma il fulmin dei denti, a terra cade.
Or calca nelle liete erbe nascenti
La promessa dell’anno, or del cultore,
Pianto maggior, miete i maturi voti;
Cade la vite al suo marito accanto,
E il sempre verde olivo. Infuria ancora
Nel gregge, nell’armento, e noi difende
Cane, toro, pastor. Fugge la plebe,
E par nelle città sicura appena,
Finché desio d’onore arse nel petto
A Meleagro, e di compagni illustri
A schiera eletta. Vi è la doppia prole
Di Leda, che diverso onor commenda;
Giason ch’osava violare i flutti
Con la nave primiera; evvi Teseo,
Piritoo d’amistade unica fede,
I due figli di Testi e Linceo, il fero
Leucippo, e per saette insigne Adrasto,
Ida veloce, Telamon, d’Achille
II padre, ed Echion nel corso invitto;
Nestore ancor nei primi anni, ed Eclide
Dalla moglie sicuro; evvi Atalanta,
Gloria primiera delle Licie selve.
Splendida fìbbia le stringea la veste.
Semplice è il crine, e in un sol nodo accolto
Pendente sul sinistro omero suona
La custode dei dardi eburnei, e tiene
L’arco pur la sinistra. Era il sembiante
Tal ch’in fanciulla pueril potresti
Dirlo, e virgineo in giovinetto. Appena
L’eroe di Calidon la vide, ed arse,
E felice, esclamò, colui che degno
Di tue nozze farai: nè più concesse
Il loco ed il pudor. Dell’alta gara
Preme l’opra maggiore il dubbio petto.
Densa, e dal tempo inviolata selva
Frondeggia in piano, ed i soggetti campi
Riguarda: degli eroi parte le reti
Distende, parte scioglie i cani, e segue
L’orme dei piedi nell’arena impresse,
E ha desio di trovare il suo periglio.
Vi era concava valle, ove discende
L’acqua dei rivi che le piogge unisce.
Qui violento i suoi nemici incontra
Il cinghial, più di folgore veloce,
Che vien da nube che squarciata tuona.
Cede ogni ramo, l’abbattuta selva
PJsuona, il grido si ripete, a tutti
Nelle mani tremar vedesi i dardi.
Egli ruina, ed i latranti cani
Sparge, disperde con obliquo morso.
Inutil fu dell’Echionio braccio
Lo strale, e lieve die ferita il tronco.
Tolse al tuo dardo, o Pagaseo Giasone,
L’ immensa forza il desiato colpo:
Febo Ampicide, disse, a me concedi
Certa saetta, se ai fumanti altari
Vittime e doni offersi. — Ai preghi il nume
Quanto puote acconsente: egli percuote
Senza piaghe il cinghiai, che tolto avea
Diana il ferro dello strai volante.
Cresce la rabbia della belva. È lieve
Sembianza all’ira sua folgor che abbatte
Ed arde i templi del suo Giove: orrenda
Luce vibrano gli occhi, e fiamme e spuma
Fulminava la bocca: e come vola
Mole librata da potente ordigno
Che ruina le mura, e l’alte torri
Ove il chiuso soldato impallidisce;
Tal, con certo furor, s’avventa il crudo
Cinghiale: abbatte Pelagone, Eupolmo
Che gli amici involare. Ahi non fuggisti
Enesimo infelice, il mortai dente:
Mentre volgevi l’atterrito tergo
Le recise ginocchia il proprio peso
Abbandonare, e non saria Nestorre
Ad Ilio giunto consiglier canuto
Se, sull’afRssa asta librato, i rami
Non afferrava di vicina querce
Ove mirò sicuro il suo nemico,
Che invano i denti nell’annoso tronco
Consuma, e stanco coll’adunco rostro
D’Otriade, ch’ai recenti anni si fida,
L’anche divora. Ma di Leda i figli,
Non stelle ancora eh’ il nocchiero implora.
Su due destrieri più che neve bianchi
Ivano, e d’ambo dalla man vibrato
Fischiar l’aure facea tremulo dardo,
E ferita la belva avriano: il denso
Orror dei boschi contendea l’ingresso
Ai cavalli, allo stral. Segue il cinghiale
L’incauto Telamon: felice inciampo
Fangii esculee radici, e prono al suolo
Cade: Peleo l’alzò: vibra Tegea
Coler saetta dal curvato legno.
Che alla belva strisciò l’orecchia: il sangue
Sul nero vello rosseggiò: più lieto
Meleagro di lei fu certo: il primo
Il sangue vide, e l’additava il primo
Ai compagni, e gridò: L’ambito onore
È d’Atalanta. Arrossir tutti; un grido
Levossi, e con la voce il valor crebbe.
Volano mille dardi: è l’uno all’altro
D’ inciampo, ed al disio nuoce la fretta.
Quando incontro il suo fato Anceo furente
Vola gridando: All’arme mia cedete,
O giovinetti; dal virile braccio
Feminea destra impari: anche Diana
Lo difenda coll’armi. — In queste voci
Il superbo prorompe, e quindi innalza
D’ambo le mani la bipenne incerta,
E si rizza sui pie: lasciava appena
L’alzata scure le tremule dita
Che all’audace il cinghiai s’avventa, e sbrana
L’inerme ventre. Cade Anceo; la terra
Colle fumanti sue viscere bagna.
Verso la belva d’Ission la prole
Iva, allorché Teseo gli grida: cara
Metà dell’alma mia, ferma; da lungo
Star si lice anche ai forti: e giacque Anceo
Per valor temerario. — Ai detti aggiunse
Strale potente del seguace voto,
Ma di pioppo s’oppon frondoso ramo.
Yibra un dardo Giasone ancora: il caso
Lo porta al tergo del fidato cane.
Che si volge al signore e muor latrando.
La man di Meleagro ebbe diverso
Fato: in terra la prima asta configge,
La seconda nel tergo. E mentre volge
La belva inferocita il corpo in giro,
E con roco strider versa il novello
Sangue e la spuma, Meleagro irrita
Il suo nemico, e nell’avverso fianco
Nasconde il dardo. Ecco di plauso un grido
Le gioie attesta dei compagni: e chiede
Toccare ognun la vincitrice destra.
E lui, che tanto della terra ingombra,
Miran stupiti, e l’accostarsi appena
Credon sicuro, e tinger tutti a gara
Il vano ferro nell’irsuto tergo
Della belva, che morta ancor spaventa.
Ma d’Eneo il figlio coli’ imposto piede
Schiaccia il capo fatale e dice: A parte
Vieni Atalanta di mia gloria, e prendi
Questa spoglia mio dritto: e le offre il tergo,
E per gli immensi denti il capo insigne.
Alla donzella il donator col dono
Piace: invidiano gli altri, e.per la schiera
Un indistinto mormorar s’ascolta.
Di Testi i fiorii con distese braccia:
Lascia il dono, esclamaro, e i nostri vanti
Non usurparti, o donna: ah non t’inganni
La fiducia del volto, e il nuovo amante. —
E a lei la preda e la ragion del dono
Tolgon. Le mani per furor si morse
L’eroe, gridando: Usurpatori ingiusti
Dell’onore non vostro, io voglio ferro
E non parole; e con nefando colpo
Il sicuro Plexippe uccide. Incerto
Fra vendetta e timor di fato eguale
Stava il fratello: i suoi dubbi interrompe
Meleagro, e nel sen ribagna il ferro
Ancor fumante del fraterno sangue. —
Ai templi degli Dei doni portava
Altea pel figlio vincitor, ma vede
I suoi fratelli estinti, e palma a palma
Batte: d’alte querele empie le vie,
Cangia l’aurato ammanto in veste negra.
Quando l’autor della recente morte
Noto le fu, lascia il dolore, e muta
In amor di vendetta il vano pianto.
Eravi un ramo, che le tre sorelle
Arbitro della vita avean sul fuoco
Posto allora ch’Altea dal grembo scosse
L’ infausta prole. Con la man temuta
Toccando i fili del fatato stame
Disser le dive: Egual tempo doniamo
Al legno ed al fanciul. — Balzò la madre
Dal letto, e tolse dal vorace foco
Il ramo palpitando, e con la pura
Onda il consperse. Nel recesso stava,
O eroe, dei tuoi felici anni custode:
Ma nel trasse la madre, e tede e frondi
Prepara, e la fatai fiamma v’appressa.
Quattro volte sul foco impor tentava
Il vital legno, e dall’ impresa orrenda
Altrettante desiste: in cor combatte
Sorella, madre, e due nomi diversi
Traggono un solo cor. Spesso sul volto
Stava il pallor della futura colpa:
Ora è simile a chi crudel minaccia;
Ch’ impietosisca or crederesti. Il pianto
Le asciugava il furor; lacrime nuove
Trova sul ciglio la stupita mano
ual nave che rapisce il vento e l’onda
Sente il doppio furore, e all’uno all’altra
Dubbia ubbidisce: così Testia ondeggia
In gran tempesta di contrarli affetti.
Or depon l’ira, or la nutrisce: alfine
È sorella miglior che madre, e vuole
Placare le cognate ombre col sangue,
Empiamente pietosa. Il crudo foco
Risplende, e grida: fatai rogo, avrai
Tu le viscere mie? — Già colla destra
Crudele afferra il ramo, e innanzi all’ara
Dei sepolcri si prostra, e dice: dee.
Dee della pena, al sacrifìcio orrendo
Rivolgete la fronte: ecco un delitto
Vendico, e faccio: con la morte espio
Morte, e colpa novella a colpa aggiungo.
Ahi tutta pera in ammassato pianto
La scelerata casa: Eneo felice
Godrà del figlio la vittoria, e solo
Testio starassi nella muta casa?
Nè piangerete entrambi? Ombre fraterne.
Alme recenti, i lagrimati uffìcii
Sentite: abbiate per le tombe un dono,
Un dono grande, il figlio mio, di questo
Percosso petto scelerato pegno.
Ahimè, dove son tratta? ah voi, fratelli,
Perdonate a una madre: a tanta impresa
Mancan le mani: meritò la morte,
Io lo confesso, eppur ch’egli è mio figlio
Sento: dunque vivrà del vostro sangue
Vincitore crudele, e re superbo?
Voi poca polve e nude ombre sarete:
Io lo vedrò? pera, l’iniquo pera,
E tragga nella sua ruina il padre,
La patria, il regno: ed io son madre: ahi dove,
Dove sono i pietosi antichi voti:
Cara memoria del dolor materno,
Ove se gita? nel primiero foco
Meglio perivi: io noi soffersi: il dono
Or mi riprendo: rendi a me la vita
Oh’ io ti diedi due volte, oppur la madre
Aggiungi, crudo, alle fraterne tombe.
Ah lo voglio, e noi posso: e che far deggio?
Dei fratelli mi stanno innanzi agli occhi
Ancor le piaghe, e di cotanta strage
Immagine maggiore: or mi percote,
O figlio, il core di pietà materna.
Lassa! vincete, e mal vincete, o miei
Fratelli: ecco vendetta, ombre di sangue,
E poi vi seguirò. — Disse; e col volto
Rivolto indietro, con mano tremante
Getta nel foco il ramo: acuto grido
Diede, e l’ardeva involontaria fiamma.
Sente da cieco fuoco arder le membra
L’ignaro Meleagro, e del suo duolo
Col coraggio trionfa: ignobil morte
Senza sangue gì’ incresce, e al prode Anceo
Le felici ferite invidia. Il padre
E le sorelle pie gemendo implora:
Delle pallide labbra il suono estremo
Chiamò forse la madre: il dolor cresce
Col fuoco, e langue e pere in un: io spirto
Volò nell’aure lievi, e velo al ramo
Fé’ la bianca favilla. Alzasi un grido
In Calidone: ogni età piange, il volgo
Coi potenti confuso, e con le sparte
Chiome le madri. Il genitore i crini
Canuti e il volto nella polve intride
Col fato della lunga età sdegnato.
Dalle furie inseguita, il suo rimorso
E la vita troncato avea la madre.
Ah se a me cento bocche e pari ingegno
Donassero le muse, io non potrei
Nel vario pianto le sorelle meste
Seguire: Al seno con le palme oltraggio
Fanno, sul freddo corpo i caldi baci
Trattengon: dopo il rogo al mesto petto
L’urna custode della muta polve
Si stringe, il nome sulla tomba impresso
Bagnan di nuovo pianto. Alfìn Diana
Per tanto lutto impietosisce: il corpo
Alle meste vestìa piume, e le braccia
In lunghe ali distese, in rostri il volto,
E lor die per l immenso etere il volo.
Ovidio, Metamorf., lib. viii.

Lezione vigesimaquarta.
Dei nomi più famosi di Diana. §

Diana, onde non esser minore del fratello, chiese a Giove molti nomi e li ottenne. Favellerò dei più famosi, perchè influirono sulla maniera colla quale fu presso gli antichi rappresentata.

Luna fu detta, perchè non altro che questo astro reputavasi, come dal consenso risulta di tutti i poeti. E favoleggiano che per Endimione pastore le stelle abbandonasse, colla speranza dei furti amorosi, che nei sassi del monte Latmo celar pretese

« Ai tanti occhi del cielo. »

Origine alla finzione diede forse Endimione perchè primo ad osservare il corso di questo pianeta, norma alle pastorali fatiche.

Davasi alla luna la biga tirata da un cavallo bianco e da un nero, ovvero da bovi. Per testimonianza di Festo, anche il mulo univasi al carro della diva. Ippolito Pindemonte dice con molta leggiadria in una sua Canzone alla Luna:

« L’Ore in oscuro ammanto
E con viole ai crini
T’ imbrigliavano intanto
I destrieri divini,
E sull’apparecchiata argentea biga
II silenzio sedea tuo fido auriga. »

Ecate fu da molti reputata lo stesso che Diana e la Luna. Non è qui luogo di discutere 1’ origine di questa opinione. Osserverò solamente che secondo Esiodo, che ha conservata l’antica semplicità delle favole, questa prima era figlia di Asteria, sorella di Latona e moglie di Perseo.

Titania fu cognominata Diana, perchè da uno dei Titani nata.

Partenia sì disse dall’ amor della castità, o più propabilmente da Partenio monte di Arcadia, atto alla caccia, occupazione favorita di questa dea.

Lucifera, o Portaluce cognominavasi, e nei Monumenti Inediti di Winkelmann per ciò espressa si vede colla face e col cane.

Illitia presso i Greci appellavasi, perchè negli acerbi dolori del parto invocata.

Orifea la nominavano, perchè le sommità dei monti sacre le sono, e sotto questo. titolo ebbe un tempio presso gli Argivi.

Ortia scrive Esichio che fosse denominata Diana da una regione dell’Arcadia, ed infame ne era il tempio presso gli Spartani, ove nei più remoti tempi si sacrificavano vittime umane. Licurgo cangiò questo barbaro costume nella flagellazione dei fanciulli fino all’effusione del sangue. Gli altri cognomi di questa divinità hanno relazione ai luoghi, ove le sorgevano templi, ovvero ai diversi attributi che stimavano spettarle. Quanto al simulacro ed al culto di Diana Efesina v’ instruirà Visconti nella seguente illustrazione:

« Assai ci sorprenderebbe la stravagante immagine della dea, che in questa tavola ci si presenta, quando già da troppi monumenti non conoscessimo il mistico simulacro della celebrata Diana Efesina. Se dunque non ce ne giunge nuova la rappresentanza, altro non faremo che considerar di passaggio il rapporto de’ moltiplici attributi dei quali è carico, colla divinità medesima, che n’ è il so^ra^etto. A ragione si è lamentato Gronovio degli antiquarii, che invece di spiegare tutti que’ simboli coll’arcana teologia che questa dea riguardava, abbiano accozzati insieme diversi numi, ed ora in Cerere, ora in Iside ed ora in Cibele abbiano trasformata la dea degli Efesii. Quantunque non siamo stati iniziati ai misteri di questo nume, possiamo pure da un solo passo di San Girolamo indovinare il sistema dei Gentili riguardo a questo antichissimo simulacro, cioè, che lo consideravano come un simbolo della natura. Così si esprime quel dottissimo Padre ne’ suoi commenti all’Epistola di San Paolo agli Efesini: — Diana con molte mammelle adoravano quei d’Efeso, non quella cacciatrice, che tiene l’arco ed è succinta, ma quella multimammia che i Greci chiamano (grec) affinchè con quella effìgie ancora mentissero esser lei la nutrice di tutte le bestie e di tutti i viventi. — Tanto basta per poter riguardare la Diana d’Efeso come l’ immagine mistica della natura, o della terra medesima confusa colla natura stessa per essere la nudrice di quanto quaggiù vediamo.

« Su questo principio andremo spiegando tutto quel che ci offre di misterioso questa bizzarra figura. Incominciando dalla sua forma, altro questa non c’indica senonchè l’antichità del simulacro. Siccome ne’ vetusti tempi i sassi in forma di mete, di piramidi, di colonne furono per divinità venerati, così nella forma della nostra figura ravvisiamo le traccie di simili rozzi idoli, a’ quali si andò a poco a poco ora aggiungendo il capo, ora staccando le braccia, ora separando le gambe, ora distinguendo informemente le varie membra. Se si vuol riconoscere in questa figura un vestigio dell’arte egizia, che pure ne’ tempi antichissimi potè avere sulle arti della Grecia e dell’Asia qualche influenza, non dubiterò di ravvisarvi lo stile egiziano di rappresentare come fasciate le loro immagini, che potè dalle loro mummie trarre 1’ origine. Questo rozzo corpo del simulacro è stato poi di varii emblemi arricchito, che tutti han relazione all’idea che si eran formata que’ popoli del significato della lor divinità. A questa sola spiegazione lian rapporto le varie fasce che la circondano, dove hanno alcuni travedute, o le vitte di Cerere, o i circoli, e fin le stesse fasi lunari.

« Siccome di legno era quest’idolo vetustissimo, il rozzo artefice non aveva ardito staccargli le braccia dal corpo senza dar loro un sostegno: perciò si veggono nelle medaglie e nelle gemme come rette da due bastoni, che veru si appellavano dall’antichità, per esser simili agli spiedi, armi da caccia, e così confacenti a Diana. Un luogo di Minucio Felice l’attesta, che, guasto da’ critici, è stato colla sua vera lezione esposto e sostenuto da Luca Olstenio. Eccone le parole: « Diana Efesia con molte mammelle e spiedi costruita. » Questa descrizione vien confermata da tutte le antiche medaglie, che di simili sostegni fornita ce la presentano. Siccome il nostro marmo era in questa parte mancante, non ha quindi potuto conservarci simile particolarità. La testa della nostra Diana coronata di torri si assomiglia in ciò a quella della Cibele dell’orbis terrarum, o dell’universo, ed è così ornata perchè munita in eccelsi luoghi sostiene le città, come simbolo della Terra, che riguardata come la madre delle cose quaggiù esistenti, poteva dagli antichi essere presa indifferentemente per la stessa natura, tanto più che da lei alcuni filosofi derivavano persino il Sole. Quel gran disco che le contorna tutto il capo non è già un velo, come sembrò al Menestrier, ma bensì un nimbo, solito aggiungersi intorno al volto delle deità. L’orlo rilevato che lo termina, dimostra abbastanza che non è un velo; e ne’ monumenti che ci mostran velata la Diana d’Efeso, questo velo è in altra guisa lavorato e disposto. Può questo ancora essere il simbolo del disco lunare, come lo è sovente nelle antichità dell’ Egitto, e il nome di (grec), o lunette, che avevano presso i Greci simili nimbi, è un’ altra probabilità per tal congettura.

« Essendo tutto il simulacro della dea ornato di figure di animali, tutti prodotti da lei e nutricati, non è maraviglia se incomincian questi a guarnire sino il suo nimbo: quelli però su d’esso effigiati, forniti di ali, e perciò collocati nella parte più sublime, sembrano aquile, grifi e simili mostruosi animali. I leoni si veggono sulle spalle e sulle braccia della dea: ma quello che v’è di più osservabile è il suo petto e la sua collana. Pendono dal primo sedici poppe simboli della propas^azione e della fecondità. La seconda scende a guisa di luna crescente, ed è tutta tramezzata da ghiande, sotto un festone di varie frutta, denotanti il più antico cibo degli uomini. Il resto del petto è coperto dallo Zodiaco, su cui ci son visibili i segni dell’Ariete, del Toro, de’ Gemini, del Cancro e del Leone, e sul quale sembran danzare quattro donne alate con serti e corone ed archi nelle mani, credute sinora dagli antiquarii Vittorie, ma da me piuttosto riguardate come le Ore, o le Stagioni, cha van danzando alternativamente sullo Zodiaco, e così alate appunto, e come ninfe, o seguaci di Diana, o della Luna, rappresentate ne’ bassi rilievi esprimenti la favola d’ Endimione. Ne’ vani delle fasce è tutta coperta la statua al dinanzi di mezze figure d’ animali, capri, tori, grifi e simili; dai fianchi, di fiori e d’api; e sulla sommità, di due mezze figure femminili nude ed alate. Si scorge benissimo che la forma umana non si estende sino alla metà inferiore delle medesime, ma non sembra sì facile il supplirla colla immaginazione. Io per me credo che le lor gambe dovrebbero essere di volatile in corrispondenza delle ali, e che queste altro non siano che le sirene. La lor figura intera sembra indicata in alcuni rami che sono nel Tesoro Gronoviano uniti alla dissertazione di Menestrier rappresentanti questa Diana medesima. Ed è molto probabile che siccome in altre si sono espresse le sfingi per dimostrar la natura madre universale persino de’ mostri, così nella nostra, e in altre ancora, sieno state scolpite le sirene. Certo che chiamarle sfingi, come taluno ha fatto, mi sembra improprio, perchè le sfingi non sogliono ordinariamente osservarsi con tutta la mezza figura superiore umana, e persino le braccia. Si potrebbero dire le Stìnfalidi, secondo alcuni scrittori, che iianno rappresentato questi uccelli come mostri di sembianze feminee: ma siccome nella maggior parte de’ monumenti son le Stinfalidi diversamente espresse, sarà sempre più credibile che sien sirene.

« Enumerati così i varii simboli di questa immagine misteriosa, e conosciuto che abbiamo esser tutti emblemi della natura, altro non ci resta a notare, senonchè le statue di Diana in tal guisa espresse, sono una prova di quanto fosse divulgata ancora per l’Italia e per Roma questa asiatica religione, conformemente a quelle parole di un certo Demetrio, che leggiamo negli Atti degli Apostoli, che l’Asia non solo, ma tutto l’universo adorava la gran Diana Efesina. Era questo Demetrio un orefice che lavorava in argento dei tempietti della dea con una certa somiglianza al gran tempio di Efeso, una delle maraviglie del mondo, anzi la più stupenda, al dire di parecchi autori; costui mosse a tumulto la moltitudine, perchè le dottrine evangeliche predicate da San Paolo aveano fatto di molto decrescere lo spaccio di queste sue opere. Una somiglianza di quel gran tempio, o piuttosto del sacello della dea, esiste in piccolo, lavorata in oro dagli antichi, e sta rinchiusa nel castone di un anello, la cui gemma trasparente, eh’ era una sottil calcedonia, la copriva e la difendeva. Si vedono in questo lavoro come tre porte, delle quali quella di mezzo è la maggiore. Si erge sopra di questa la mezza luna, simbolo di Diana, e il suo simulacro, che dovea esservi in antico, ora manca.

« Si comprende però che avea maggior risalto che il rimanente del lavoro, perchè la gemma è alquanto scavata nel sito che gli corrispondeva. Nelle porte laterali si vedono due candelabri: al di sopra sembrano collocati due vasi, e al di sotto due volatili con alcune piccole perle. Una sì rara antichità mi è sembrata degna di una sì minuta descrizione, e perchè illustra il citato loco degli Atti Apostolici, e perchè è troppo aderente al nostro argomento. Ho detto che lo credo piuttosto il sa cello della dea che il gran tempio, perchè diversamente architettato si osserva questo nelle medaglie. Si sa che le colonne erano scanalate, quasi ad imitazione delle pieghe degli abiti feminili, e d’ordine ionico; e scanalate e col capitello ionico erano appunto le colonne incise in una patera etrusca insieme con due Amazoni, che ora si è smarrita, e che certameute alludeva alla fondazione di quel gran tempio, alle Amazoni attribuita da parecchi scrittori. »

Illustre fra le compagne di Diana fu Calisto, ed è prezzo dell’opera riportar le avventure di questa infelice, che Giove sedusse, mentre s’aggirava sulla terra bisognosa de’ suoi uffìcii pei danni dall’ ardimento di Fetonte prodotti.

Uditene il racconto da Ovidio che ho tradotto:

Cura del nume era l’Arcadia: impera
Ai fiumi irresoluti il corso, e rende
L’onor primiero delle verdi frondi
Ai rami inariditi: or viene, or torna
Rapidamente: alfine i lumi erranti
In Calisto trattenne: il memor petto
Conobbe i segni dell’antica fiamma.
La giovinetta non domò col fuso
La man sdegnosa, nè all’indocil chioma
Impose leggi: sol frenò la veste
Aurata fibbia, ed i negletti crini
Candide bende. Or nelle mani ha l’arco,
Or le saette: e può vera chiamarsi
Guerriera di Diana: a lei più cara
Non fu veruna fra l’eletta schiera,
Che sul Menalo stanca i pie veloci.
È breve ogni favor: Pv^egnava il sole
In mezzo al cielo, allor che in denso bosco
Cercò le note ombre Calisto, e tolse
La faretra alle spalle, e tese il lento
Arco, gittato sull’erboso suolo;
Il dipinto turcasso al capo stanco
Sottopose. Mirò Giove la ninfa
Incustodita, e disse: Ah questo furto
La moglie non saprà: se noto ancora
Le fosse, vale, sì, vale una lite
Quel volto: e ratto di Diana il manto
E le sembianze veste, e dice: ninfa.
Parte migliore del seguace coro.
Da qual monte ritorni? — Il molle fianco
Dal riposo dell’erba alza la ninfa
Dicendo: Salve, o dea, maggior di Giove,
Giudice me. L’ascolta il nume, e ride,
E cento baci, che non dà fanciulla,
Sopra la bocca alla risposta pronta
Stampa. La ninfa di un color di rosa
Tinge la faccia, ed i mutati amplessi,
E sente, e fu2ri?e: col delitto il nume
Si manifesta: quanto lice a donna
Ella repugna (ah men crudel saresti
Se la vedessi, o Giuno:); e chi resiste
A Giove? al cielo vincitor ritorna
Il nume, e porta del pudor rapito
Dolci vestigi. Odia Calisto il bosco
Conscio, ratta s’invola, e quasi oblia
Toglier l’arco sospeso e i certi strali.
Quando Diana alle sue ninfe in mezzo
Lieta pel sangue delle vinte fiere
Apparve, a sé chiama Calisto: il piede
Volge la ninfa impaurita, e crede
Che sempre nella dea Giove si celi.
Allorché vide le compagne note
Lascia ogni tema, e del bel numer’una
Tosto diviene. Ah come mal si cela
Nel volto accusator la colpa: appena
Alza gli occhi dal suolo, e non si unisce
Qual pria soleva della diva al fianco
Fra le ninfe primiera. Ammuta; e casta
Se non era Diana, in mille segni
Leggea l’ingiuria del virgineo fiore.
Ben lo vider le ninfe. Avea la luna
Nove giri compiti, allor che stanca
Per le fraterne fiamme un bosco grato
Di fredde ombre occupò Diana: un rivo
Con lento mormorio l’onda stringeva
Fra pietre attrite: il chiuso loco osserva
La diva, o tìnge nel lodato rio
I piedi estremi, a alle seguaci grida:
In questa selva ignota al Sol, non temo
Occhi profani: col sudor la polve
Nel desiato umor tergiamo, o ninfe. —
Consentir tutte, ed arrossì Calisto;
Depongono le vesti: ella soltanto
Cerca dimore: alla dubbiosa il manto
Toglesi, e col delitto il corpo ignudo
Appar: le pronte mani invano oppose
Fra l’attonite ninfe al sen materno.
Che esclama Ciutia: Dal mio ceto, o donna,
Va lungi, e non macchiar 1’ onde scerete. —
Sapea la maritai colpa di Giove
L’alta matrona, e differia la pena,
Qual uom che a nuocer luogo e tempo aspetta.
Or d’indugio ragion non v’è; fanciullo
Arcade è già (dolor di Giuno): è nato
Dalla rivale sua: biechi rivolse
Gli occhi, gridando: Al tuo fallir mancava
Che tu feconda colla prole al mondo
La nostra ingiuria e il disonor di Giove
Attestassi: ma pena avrai. Le forme,
Tuo vanto, e a Giove di peccar cagione,
Io ti torrò. - — Disse, e pel crin l’afferra,
E prona al suol la getta: invan tendea
Le supplicanti braccia: un nero vello
La inorridisce, e cresce in ugne adunche
La man curva, e dei pie gli uffici adempie.
Per vasta bocca ecco deforme il volto
Lode di Giove: il favellar l’è tolto.
Onde pietà col suo pregar non mova,
E si disserra dalla roca gola
La voce che ha terror, minaccie ed ire.
Orsa è fatta: ma resta in lei la mente Antica, e attesta con assiduo grido
Il suo dolore, e verso il cielo inalza,
Qual sian, le man; sente ch’ingrato è Giove
Se chiamarlo non può. Sola negli antri
Ahi quante volte non ardì posarsi,
E verso i lari errava, e per li campi
Già suoi: fuggiva dei latranti cani
L’ire minori fra scoscese rupi,
E cacciatrice paventò la caccia.
D’esser fera obliava, e sopra i monti,
E gli orsi impaurita orsa fuggiva.
Ovidio, Metamorf., lib. II.

Lezione vigesimaquinta.
Minerva. §

Pallade, o Minerva, come ogni altra divinità, va soggetta a dubbii e differenze sull’origine e sulla patria, dovute alla vanità delle nazioni, alla mala fede degli scrittori, e più ancora a quella mistura di diverse opinioni or popolari or filosolìche, che formano la religione dei popoli antichi.

Erodoto, citato da Pausania, lasciò scritto che Minerva dicevasi figlia di Nettuno e della palude Tritonide, e questo favoloso natale attestavano le pugne scherzevoli con le quali dalle fanciulle celebrata era in quel loco la nascita della dea.

Inventore dell’opinione che vuol Pallade nata dal capo di Giove fu Stesicoro, che volle forse con questo racconto, in apparenza ridicolo, insegnare ai mortali che la sapienza in Pallade figurata era interamente fisrlia di dio.

Luciano, che burlando or insegnò, or pervertì, nei dialoghi degli Dei introduce, con quella grazia ch’è tutta sua, Giove afflitto dai dolori del parto, che non il soccorso di Lucina implora, ma quello di Vulcano, che con acutissima scure fa gli uffizii di levatrice, onde sonora nell’armi balzò dal capo divino la dea del sapere.

Omero, nel quarto libro dell’ Iliade, non dalla palude Tritonide, ma da Alalcomenio castello di Beozia, Alalcomenia disse Minerva; e questo luogo per patria del nume vien confermato da Strabone, che riporta che Rodi ancora si arrogava questo vanto.

Apollodoro nel secondo libro della Biblioteca dà per genitori a Pallade Euritia e Orio; ma distingue da Pallade Minerva, scrivendo la prima esser madre alla seconda, e che vennero ambedue, come guerriere, in contesa: Pallade era per ferire Minerva: Giove oppose l’egida, onde spaventata fu uccisa dalla madre rivale, che afflitta quindi ne formò l’effìgie, e le pose sul petto quell’arme, cagione di terrore e di morte. Questo simulacro è fama che fosse il celebre Palladio che Troia difendeva.

Tale discordia di natali e di genitori derivò, secondo Cicerone, dalTesserci state cinque Minerve. La prima, madre di Apollo; la seconda nata dal Nilo, e dagli Egizii in Salde adorata; la terza generata da Giove nel modo sopra espresso: la quarta nata dallo stesso dio e da Corife figlia dell’Oceano, detta dagli Arcadi Coria, ed inventrice delle quadrighe; la quinta figlia di Pallante ed ucciditrice di lui, perchè tentava di violarla.

A Pallade generata dal capo di Giove si attribuiscono tutte le glorie dell’altre, e dicono che Teducazione di lei fu subito confidata a Dedale ingegnosissima donna, che in ogni buona arte ammaestrò la fanciulla.

Nella battaglia de’ Giganti stette per Giove: le armi terribili, il cocchio e le cavalle macchiò di molto sangue, e vogliono alcuni che in tal circostanza di Pallade sortisse il cognome, perchè alle fraterne morti aggiunse Fallante figlio della Terra. Nei petti più sicuri poneva terrore lo scudo della dea, che nel fine della presente Lezione vi sarà descritto per Omero tradotto dal celebre Cesarotti.

Virgilio, imitando il principe dei poeti, così n’accenna la forma nell’ottavo libro dell’ Eneide tradotta dal Caro:

« Lo scudo, la corazza, e l’elmo, e l’asta
Avean dall’altra parte incominciati
De l’armigera Palla, e di commesso
Lo fregiavano a gara. Erano i fregi
Nel petto della dea groppi di serpi.
Che d’oro avean le scaglie, e cento intrichi
Facean guizzando di Medusa intorno
Al fiero teschio, che così com’era
Disanimato e tronco, le sue luci
Volsrea d’intorno minacciosa e torva. »

Una deità così terribile dovea dividere con Marte la gloria feroce di presiedere alla guerra; ed infatti Omero, o chi sia l’autore delllnno a Venere, così parla di Minerva, dicendo che ignote le erano le dolcezze dell’amore: « Alla figlia di Giove dagli occhi glauchi piacquero i doni di Marte, le stragi, le guerre, le tenzoni, le pugne: insegnò la prima ai mortali fare i cocchi e le rote armate di bronzo. »

Gli stessi versi detti Ortrii le si tributavano, e dei quali fa l’inventore Arione Metimneo, spiravano guerra, ed i maschi petti animavano nella zuffa.

Il celebre Monti cantò le qualità guerriere di Minerva in questi versi:

« Alma figlia di Giove
Che alla destra t’assidi
Del tuo gran padre, e sola
De’ celèsti vibrarne osi gli strali,
Nè del cangiato vibrator s’accorge
La folarore divina:
Tremenda, alta reina.
Cui diletta per mezzo alle battaglie
Il nitrir dei cavalli,
Il picchiar degli scudi,
Delle rote il fragor; che la grand’asta
Sull’egida battendo empi di lampi
Di Maratona i campi
E le rupi Erettee: tu che d’Atene
Vai per la notte oscura
Visitando le mura, e ti palesa
Il risonar dell’armi
E il sibilar delle gorgonie serpi
Sull’usbergo immortal: tu qui presente,
Vergine armipotente, o che ti piaccia
Poliade chiamarti.
Od Equestre Minerva, ascolta, o dea,
I nostri voti, e rendi a questo regno,
Prendi alla tua cittade il suo sostegno.
Teseo, Parte I, scena 2.

Ma per attributi migliori era insigne ancora la dea. Mostrò alle fanciulle, secondo l’Inno omerico, tutti gli uffìcii che la solitudine rendono cara delle domestiche pareti.

Luciano in un suo dialogo intitolato Hermolimo narra che venuta a contesa con Nettuno, oppose al toro, ovvero al fremente cavallo nato dal tridente del nume, la maniera di edificare una casa.

A lei, per testimonianza di Teocrito, di Virgilio, di Ovidio, si devono le trombe, le tibie, i fusi, il ricamo, l’arte di tessere ogni genere di lanificio, e fino le leggi.

Ma per ninno ritrovato acquistò maggior fama e riconoscenza dai mortali che pel dono dell’oliva, il di cui albero, al dire di Erodoto, non trovavasi anticamente che presso gli Ateniesi.

La castità di Minerva è posta in dubbio. Senza parlare di Vulcano e di Erictoneo, il quale nacque in modo ch’è bello il tacere, alcuni scrittori danno ad essa e ad Esculapio Igia, o la dea della salute, per figlia.

Assai delle azioni e degli attributi della dea. Passiamo a trattare di più interessante soggetto, cioè delle maniere nelle quali era dagli antichi sentata. Dopo, Visconti v’illustrerà un simulacro di lei nel Museo Capitolino. Pallade è stata rappresentata con Giunone, allato del trono di Giove, in piedi. La sua figura, vale a dire il Palladio dei Troiani, teneva una lancia nella mano destra, un fuso nella sinistra, e così credesi vederla in una medaglia posteriore a Troia. Avanti che le fosse data la civetta, il suo attributo era la cornacchia. Una statua in marmo di grandezza naturale lavorata nel più antico stile greco rappresenta Pallade con la sua egida attaccata al collo con delle strisele di pelle, e gettata sopra il braccio sinistro per servire di difesa, nella stessa maniera che i Greci portavano i loro scudi all’assedio di Troia, perchè a quest’epoca non si era ancora scoperta la maniera più comoda di porre delle strisce nella parte interiore dello scudo per passarvi il braccio: circostanza che si avrebbe potuto riportare per schiarire un passo di Snida. Nel combattimento si voltava lo scudo in maniera che copriva il braccio sinistro, e fuori dell’azione si trovava sul dorso sospeso al colio. Quando Pallade tiene un ramo d’olivo, e questo simbolo indica la sua vittoria sopra Nettuno cagionata dal nome che si trattava di dare ad Atene. Quando ella è col serpente, ella si chiama Igiea, Peonia; perchè madre d’Igia dea della salute, come vi accennai: cosa talmente conosciuta, che mi sono maravigliato che Gronovio abbia potuto prendere simil figura per Circe. La testa di toro ornata di bende, che si vede da un lato nelle medaglie ateniesi, significa il sacrificio destinato a questa dea, alla quale, secondo Omero, s’immolava una vacca. Nel numero delle rappresentazioni rare è quella d’una pasta antica del Gabinetto Stosciano, che offre Pallade sonante due flauti, e rappresentata in questa maniera si chiamava Pallade Musicale, perchè si pretendeva che i serpenti della sua egida si movesseso quando si suonava il flauto in vicinanza. La Pallade Mecanica, che sopra un basso rilievo presiede alla costruzione di Capua, è egualmente rara.

Si è portati a prender per una trombetta il carcasse che una figura mutilata di una pittura di Ercolano armata di arco e di freccia portata sulla spalla, per farne una Pallade che avea il soprannome di trombetta. La veste di questa dea è rossa, ed il manto, o la drapperia che vi è sopra è ordinariamente gialla nelle antiche pitture, come le copie dei quadri dai bagni di Tito conservati alla biblioteca del Vaticano lo provano: l’uno e l’altro colore possono indicare il fuoco, giacché Pallade è stata riguardata come l’immagine del fuoco etereo.

Nel rovescio di una medaglia di Marc’Aurelio si vede Pallade montata sopra una sfinge, la quale ha, come vi è noto, l’ali d’uccello, gli artigli di leone, il viso e il busto di fanciulla: e Pausania c’insegna che gli Ateniesi rappresentavano questo animale sull’armatura della dea, perchè era forte e sagace. Gli Etruschi attaccarono ali alle spalle ed ai piedi di Minerva, forse perchè figlia di Pallante,

« Pallade, come Diana (al dire di Winkelmann) ha sempre l’aspetto serio, e par l’immagine del pudor verginale scevra di ogni debolezza di sesso, in guisa che sembra aver domato lo stesso amoreIndi è che gli occhi di Pallade servono ad ispiegare quel nome che aveano le pupille sì presso i Greci che presso i Romani. Questi chiamavanle pupille, cioè fancilline, e quelli (grec), che suona lo stesso. Ha gli occhi meglio tondeggianti e meno aperti di Giunone; non solleva la testa orgogliosa, ed ha modesto lo sguardo, come chi tranquillamente medita. Tale però non è la testa di Pallade posta per simbolo di Roma, ove qual dominatrice dei regni mostra nell’atteggiamento una franchezza e superiorità da sovrana di quasi tutto il mondo allora conosciuto, ed ha, siccome Pallade aver lo suole, il capo armato d’elmo. Deggio qui però osservare che questa dea sulle greche monete d’argento della città di Veha in Lucania, ove ha un elmo alato, tiene bene aperti gli occhi e lo sguardo, o mira orizzontalmente, o tende all’alto. Essa ha generalmente i capelli annodati a molta distanza del capo i quali poscia sotto il legame or più or men presso pendono in lunghi ricci paralleli. — Forse da quell’acconciatura dei crini a lei propria ha preso Pallade il soprannome poco conosciuto di (grec); Polluce spiegando questa voce con quest’ altra (grec), non ce ne dà una più chiara idea: ma probabilmente quest’epiteto indica una maniera particolare di legare le chiome: maniera che ha pur voluto spiegare il mentovato scrittore. E anche vesimile che l’aver questa dea i capelli più lunghi dell’altre sia il solo fondamento, per cui sulla sua chioma biònda giurar si solea. Si trova, sebben di rado, qualche volta Pallade tenente la destra sul capo armato d’ elmo, qual vedesi presso il Giove seduto in cima alla facciata del tempio di questo dio sul basso rilievo del sacrifìcio di Marc’ Aurelio, e su una medaglia di Adriano nella biblioteca Vaticana. »

Udite adesso quel che Visconti nota sopra una statua della dea.

« Questo elegante simulacro di Minerva Armata ha segni troppo distinti per riconoscervi al primo sguardo la dea della Guerra. Ha Telmo in capo, suo ornamento insieme e sua difesa, onde trasse i titoli di (grec), e (grec), cìoò che ha bella ed aurea celata. E questa fregiata da due civette, uccello a lei sacro per la somiglianza del colore delle sue pupille con quelle della dea. Gli antichi, accuratissimi osservatori delle proprietà, reflettevano che questo appunto è il colore degli occhi de’ più feroci e guerrieri animali, e per ciò l’attribuivano a Pallade che uscita dalla testa del padre degli Dei tutta armata non respirava che battaglie e stragi. Ha F egida al petto, corazza di Giove, fatta dal cuoio della capra Amaltea, ove è il terrore, la tenzone e la fuga, simboleggiata nel capo della Gorgone, che vi trionfa nel mezzo. Ecco come ce la descrive Omero:

« E la tunica messasi di Giove
Ammassatore delle nubi, armossi
Di forti arredi a lacrimosa guerra.
Cacciò alle spalle l’egida co’ fiocchi
Orrenda, che ‘1 timore da per tutto,
E la fuga d’intorno incoronava.
Eravi la tenzon, v’era la forza,
V’era la strepitosa orribil caccia,
E v’era ancora la Gorgonia testa
D’un crudel mostro, cruda testa orrenda,
Di Giove allievo di capra portento. »

« Questo capo fatale ai riguardanti era affìsso sul suo usbergo, anche come un trofeo; per aver Medusa contrastato con Minerva sulla bellezza dei suoi biondi capelli, per tal presunzione cangiati in serpi: sebbene nel nostro marmo, come in altri monumenti antichi, i serpi non appariscano. Osserva Fornuto che talvolta si figurava la Gorgone dell’ egida colla lingua fuor della labbra; e così esistono in Roma varie teste di Medusa, e si trova anche nel basso rilievo nell’urna sincrolarissima di porfido nero, ch’è sotto l’aitar maggiore di San Nicola in Carcere. Ciò non ostante alcuni antiquari: tanto si son dilettati di misteriose interpretazioni, che in una simile testa rappresentata in gemma han travedute la immagine della Verità. Che gli antichi per altro supponessero la spoglia istessa del mostro piuttosto che la sua immagine sull’egida di Minerva, lo ricavo da ciò che narra Pausania, che nel tempio di Minerva Itonia essendo apparsa la dea alla sua sacerdotessa lodamia, questa all’aspetto della Gorgone divenne sasso. Il resto dell’abito conviene a Pallade: la tunica senza maniche all’uso delle Spartane, e il manto assai bizzarramente ripreso dalla cintura stessa della tunica. Quando la dea andava in guerra, nell’allacciarsi l’egida lo lasciava cadere sulle soglie paterne, ma nella nostra statua se 1’ è ravvolto intorno, poiché essendo in compagnia delle Muse non ha voglie tanto feroci. In fatti la dea del sapere non poteva stare in compagnia più propria che quella delle Belle Arti, e il parto del cervello di Giove che colle figlie di lui e della Memoria. Si vedevano perciò queste divinità nel tempio di Minerva Alea in Tegea, e molti antichi sarcofagi ce le mostrano a Pallade unite. »

Descrizione delle armi di Pallade.

« Ma l’altra dea ch’è del gran padre immago,
Arme arme intuona, e dalle spalle al suolo
Lascia cader lo storiato peplo
Dell’ingegnosa mano opra ammiranda,
E della guerra lagrimosa indossa
Tutta la maestosa orrida pompa.
Pria del temuto Agitator dei nembi
Veste l’usbergo, indi alle spalle adatta
L’Egida incorruttibile, che vibra
Per cento fiocchi sanguinoso lume:
L’Egida cui d’intorno erano accolti
Tutti di guerra gli abborriti mostri
, Spaventevol corona: ivi la Rabbia
Schiumosa i labbri, ivi la Zuffa e l’Ira
Lacere i volti, e di flagello armata
La Caccia inseguitrice, e la strillante
Trepida Fuga, e ‘1 crin scomposto ed irto
L’ulutante Spavento; orribil orlo
Forma allo scudo in cento gruppi attorta
L’anguivelluta Gorgone tremenda,
Portento inenarrabile, che in mezzo
Grandeggia, e sporge coU’atroce testa,
E già si slancia, e dagli occhi ebbri e carchi
Di Tartareo velen spande la morte.
Quindi il capo immortai grava del pondo
Dell’elmo d’oro altocrestato, e tale
Che porrla ricoprir coll ‘immensa ombra
Cittadi e genti: ecco sul carro ascende
Ch’arde e lampeggia, e la grand’asta afferra,
La grave, enorme, immensurabil asta
Di mura atterratrice, a folgor pari.
Domatrice d’eserciti, e di troni
Disperditrice, ove di Giove al fianco
Lascia la Diva, e a noi scende ministra
Dell’alta inesorata ira paterna. »
Iliade, Canto V, v. 875 e segg.

Lezione vigesimasesta.
Dei cognomi di Minerva. §

Gli attributi delle divinità antiche, le stesse sembianze che gii artefici ed i poeti loro davano sono consegnate ai diversi cognomi, il numero dei quali indicava di un nume la gloria e la possanza. Minerva, dea del valore e del sapere ad un tempo, ne sortì molti, ed io ne riporterò i più famosi.

Omero continuamente chiama Minerva dagli occhi glauchi, e per testimonianza di Pausania così ancora effigiavasi, poiché in Atene sopra il Ceramico vi era un tempio, ove il simulacro della dea era con occhi di questo colore figurato. Pensano alcuni che di ciò fosse cagione la libica credenza che ascrive la nascita di Minerva alla palude Tritonide ed a Nettuno, cui pure occhi glauchi danno i poeti. Altri dalla nottola sacra alla dea derivano questo cognome, e Gellio crede con probabilità maggiore che glauchi gli occhi di Pallade si dicessero perchè tremendi di aspetto, e simili a quelli del biondo imperator delle foreste.

Col titolo di Marziale, o Guerriera, fu adorata dagli antichi, ed ebbe un’ara nell’Areopago che le consacrò Oreste, assoluto pel di lei voto della pena decretata al matricidio, onde colpevole, guidato dalle furie paterne, divenne. Gli Ateniesi colle spoglie di Maratona le costrussero un tempio.

Ippia, od Equestre, fu detta perchè la prima inventò il cocchio con evento più felice della tibia, giacché favoleggiarono che dopo l’invenzione di questa, avendone tentato il suono, si vide nell’acque per l’enfiate gote così deforme che da sé gettò lungi il mal trovato istrumento.

Custode delle città udirete chiamata Minerva da Callimaco nella celebre Elegia sui lavacri di lei, la quale per vostro vantaggio ho tradotta.

Dai Lacedemoni fu cognominata Calcieca, perchè aveva presso loro un simulacro di bronzo, che Gitiade, pure spartano, aveva composto. E nella nona regione di Roma antica afferma P. Vittore che fu col titolo di Calcidica venerata: anzi è parere di alcuni che consecrato le fosse il tempio ove si adora adesso, vero nume, la Madre di Cristo, e che conserva nonostante coli’ unito ‘convento il nome di Minerva.

Minerva fu Ellolide appellata, perchè nell’incendio di Corinto presa dai Doriesi, due sorelle, Euritio ed Ellolide, si rifugiarono nel tempio della diva, e qui perirono nella comune ruina. Fu dalla peste seguito il delitto; e gli abitanti avvertiti dall’oracolo, al quale nelle sciagure erano ricorsi, espiarono l’ombre dell’estinte, ed a Pallade fabbricarono tempio, istituirono feste sotto il mentovato cognome.

Minerva Oftalmite, cioè Oculare, ebbe un tempio in Sparta da Licurgo costrutto, cbe diede questo cognome alla dea, perchè gli fu tolto un occhio da Alcandro, giovine feroce, che il popolo consegnò alla vendetta del suo legislatore. Ma egli magnanimamente lasciò l’oltraggio impunito, e si fé’ coi benefìzi un amico nel reo.

I Telchini, per origine Cretesi, ma abitanti nell’isola di Cipro, essendo celebri per l’artificio d’imitare le opere antiche, eressero a Pallade i primi un simulacro, che da loro fu nominato. Rinomato presso i Danni, antichi popoli della Puglia, fu il tempio di Pallade Achea, dove fama era che si conservassero tutte l’armi di Diomede, che dall’opportunità del luogo invitato, scese coi suoi compagni in questo loco, ove, ardendo le navi di lui, le Troiane donne fuggire poterono la servitù sovrastante.

Minerva col titolo d’ Igiea, o dea della Salute, ebbe statua nella rocca di Atene, che Pericle le pose facendo credere al volgo sempre superstizioso che questa divinità gli si era in sogno manifestata per insegnargli il modo di guarire un artefice insigne, caro alla plebe, che era caduto nell’assistere alla costruzione delle porte.

Col nome di Vittoria era pure dagli Ateniesi adorata, e il simulacro di lei senza ali teneva un melagrano nella destra, uno scudo nella sinistra. Po liade, Civile, la istessa nazione la disse, onde nelle ‘medaglie di Atene si vede da una parte il tridente, dall’ altra la testa di Pallade, perchè col dio del mare divideva di questa città l’impero e la tutela.

Nella cittadella di Elide vi era un tem.pio di Minerva col titolo di Ergane, così detta perchè presiedeva all’arte della lana, della gloria della quale era gelosa, come lo indica la favola di Aracne mutata in ragno per aver voluto contrastare alla dea il primato nell’arte di tessere le tele. Il simulacro di lei era d’avorio e d’oro, ed opera di Fidia, per quello che si credeva. Sul casco della dea l’artefice avea rappresentato un gallo, o perchè degli uccelli è il più coraggioso, ovvero come simbolo della vigilanza necessaria per le fatiche.

In un villaggio dell’Arcadia nominato Teuti, Minerva ha una statua ove è rappresentata ferita in una coscia, che dice aver veduta Pausania con una legatura di purpureo colore. Spiega lo stesso il motivo di questo modo di rappresentarla, narrando che Teuti, il quale diede al luogo il suo nome, ferì in sì fatta maniera la dea mentre sotto mortali sembianze cercava distorlo da lanciare un dardo contro Agamennone. Ritornato in sua casa l’eroe ebbe una visione, in cui Pallade gli mostrava la ricevuta offesa: cadde atterrito in tal languore che ne perì; fu maladetta la terra ove abitava, e condannata a sterilità eterna. Col tempo i popoli consultarono l’oracolo di Dodona, che loro propose di placare coll’accennato simulacro Minerva.

« L’attitudine di questa figura (così il Visconti) che tien posato lo scudo a terra, gentilmente reggendolo colla manca, è tanto somigliante a quello della Minerva Pacifera delle medaglie imperiali che si può sospettare che nella destra piuttosto che l’asta, ristauro moderno, sostenesse il suo olivo, pianta diletta a Pallade, ed emblema del soprannome di Pacifera. Benché lo stile di questa statua non sia eccellente, pure ci presenta un bell’insieme, e una buona disposizione di panneggiamento sì nella tonaca che nel manto, ed in oltre ci offre le armi di Pallade in una maniera assai distinta. Chi osserva la sua celata vede in un colpo d’occhio la ragione perchè Omero tanto spesso la chiami (grec) Tryphaliam, nel triplicato cimiero, (grec), che ne adorna la sommità. L’ egida presenta così rilevati i serpenti che la guerniscono, cbe ci dà qualche idea come dovesse essere quella famosa di Desilao, ammirata in Atene col nome di Minerva Musica, i serpenti di bronzo della di cui armatura erano con tanta sottigliezza ed artifizio lavorati che risuonavano al sonar di una cetra. Lo scudo finalmente è rotondo, quale dagli antichi Latini appellavasi parma, e dai Greci scudo argolico, attribuito dai classici a questa dea. Così parla di questo Polibio: — La parma è forte per la sua struttura, e di sufficiente grandezza per la difesa, essendo di figura rotonda, ed avendo il suo diametro di tre piedi. — Non solo la forma, ma anche la grandezza dello scudo della nostra statua corrisponde colla riferita descrizione della parma. Che poi tale si fin gesse lo scudo di Pollade apparisce da Plinio, che lo chiama parma al libro xxvi. Gli scudi argolici dei Greci erano di questa maniera, secondo l’osservazione di Winkelmann (Monumenti antichi inediti, tomo II); quindi un simile scudo, che cadde dal tempio di Pallade in Argo, nello sposalizio delle figlie di Adrasto, è chiamato da Stazio orbe di bronzo. In quello della nostra statua è osservabile l’imbracciatura, detta dai Greci (grec), diversa dal (grec) o striscia di cuoio, per cui si porta van gli scudi in tempi più vetusti appesi al collo.

« La statua di Pallade che presentiamo è interessante pel movimento e per l’azione che ci esprime al vivo il carattere bellicoso e feroce della vergine guerriera, ed insieme l’etimologia del suo nome greco di Pallade e del latino di Minerva. Se il secondo ha avuto l’origine dal furor militare, o dal minaccioso aspetto della dea, niuna immagine ci può meglio rappresentare Minerva che impugna l’asta, colla quale rompe l’ intere squadre d’eroi, contro cui, al dire di Omero, si adira la figlia del forte padre. E se il primo l’è stato imposto dal vibrare e dallo scuotere questa lancia fatale, nessun’ altra statua ce l’offre in tale azione appunto scorrendo, come dice il poeta, per gli ordini delle battaglie, e in questa attitudine di combattente è rappresentata ancora nelle greche monete dei Mamertini. La dea ha le sue solite insegne, l’elmo, lo scudo argolieo, che a lei forse si dava perchè le armature fabbricate in Argo erano di pregio maggiore. Nel centro di questo è figurata, anzi è ripetuta l’egida che ha sul petto. L’egida usata da Giove per scudo sì vede in una gemma presso Winkelmann, e disposta a guisa d’ammanto si osserva nell’insigne cammeo della santa cappella di Parigi, rappresentante l’apoteosi di x\ugusto. È da notarsi che rari sono i simulacri degli Dei in un movimento straordinario. Nè s’incontra usata questa espressione quasi in altri soggetti fuorché nelle figure di Diana cacciatrice, di Minerva guerreggiante, e di Cupido che scocca il dardo. M’era caduto in pensiero se questi simulacri di una guerriera tanto espressivi non si avessero piuttosto ad attribuire ad Enio dea della guerra, anzi la furia stessa che presiede alla strage: ma l’attributo dell’egida mi ha fatto abbandonare tal congettura, tanto piiì che l’attitudine minacciosa, all’idea che avevano di Minerva i Gentili ed ai nomi che le dierono ben corrisponde. La statua di scalpello -infelice non ci conserva che il bel movimento dell’originale.

MINERVA PACIFERA.

« La clamide affibbiata sull’ omero destro, che distingue al primo sguardo questa maestosa figura, é stato motivo di attribuirla a Minerva, e di risarcirla con altri simboli proprii di questa dea del valore e del sapere. Non è già che non apprendiamo dagli antichi scrittori la clamide essere stata alcuna volta vestiario ancor femminile e costumato dalle fanciulle: ma quella onde é coperta la nostra figura. oltre il vedersi più grandiosa e ricca delle altre, che in qualche rara statua femminile si osservano, ed esser propriamente di quel genere che paludamento appellavasi ed insigniva i capitani, apparisce ancor doppia, quali appunto sono descritte dai poeti greci le clamidi virili, regie e militari, e quale appunto era quella di cui Minerva medesima volle adorno Giasone, poiché Tebbe compagno nel lavoro della nave d’Argo. Osservando attentamente le pieghe di questo nobile panneggiamento appariscono queste sulla parte manca del petto alquanto interrotte come in drappo che resti per qualche part^ aderente ad una superfìcie aspra sottopostagli, la quale aiteri quella caduta del panno, che sarebbe determinata naturalmente dalla sua gravità. Sembra che da tal circostanza, certamente non rappresentata a caso, voglia indicarsi l’egida onde il petto della dea si suppone armato, la quale coi rilievi dei suoi orli guerniti di serpi sospenda così il sovrapjosto paludamento: nè al certo altra cagione saprei immaginare per un tal getto di pieghe, forse vero, ma sicuramente non imitabile.

« Sono diverse negli antichi monumenti le immagini della dea di Atene coperta del paludamento della guisa stessa che la nostra è rappresentata: fra l’altre così vestita è l’effigie di lei nel vaso di argento di Zopiro esprimente il giudicio di Oreste, e nel bassorilievo simile del Palazzo Giustiniani, dopo Minerva aggiunge il suo voto, per assolvere Oreste, ai suffragi raccolti nell’urna, ed ugualmente divisi fra l’assoluzione e la condanna. Siccome poi in tali monumenti, ove Pallade si mostra paludata, non è in atto di guerra, non si è stimato improprio aggiungere alla nostra statua una testa antica non armata del suo consueto cimiero, che invece le si è fatto reggere colla destra, come lo regge nel bassorilievo di un’ ara Capitolina, ed in una mezza figura singolarissima ch’ò nella Villa Ludovisi. Nella sinistra le si è collocato il ramo di ulivo, nato, secondo la favola, presso la rocca di Atene per suo volere; è simbolo di Minerva quando ha il titolo di Pacifera, e viene considerata come dea tutelare delle Arti e della Sapienza. »

Solevano in un determinato giorno deli’ anno le vergini Argive con solenni cerimonie portare il simulacro di Pallade, ed unitamente collo scudo di Diomede bagnarlo nel fiume Inaco. Prende dalla solenne bas’natura occasione Callimaco nel sesruente Inno, in cui si propone di cantare le lodi della dea, alle quali dà principio esaltando la cura e l’amore che porta ai cavalli, la sua natia beltà, la nettezza e l’abbigliamento. Reca di poi la ragione perchè col di lei simulacro s’immerga ancora lo scudo di Diomede. Indi propone alcuni riti e precetti di cerimonie, affinchè lo fanciulle in tal giorno anniversario non tocchino l’acqua del fiume Inaco, e che gii uomini non riguardino Pallade nuda, proponendo loro per esempio la disavventura occorsa a Tiresia, nella cui storia molto si diffonde. Poi, ritornando a Minerva, molto la loda per la sua nascita prodigiosa, e per la sua divina bellezza, e termina col solito saluto e richiesta.

Uscite voi, che nell’Inachio fiume
Pallade laverete: e tutte uscite.
Delle sacre cavalle odo il nitrito:
Ecco la dea. Deh v’affrettate, o bionde
Pelasgie figlie. Non bagnò la diva
Le forti braccia se ai corsier la polve
Prima non tolse allo stancato fianco;
Nè allor che vinti della terra i figli
Tutte l’armi portò lorde di sangue:
Ma pria dal cocchio alle cavalle sciolse
Le fumanti cervici, e nella fonte
Dell’Ocean lavò il sudore, e terse
Dal morso fren l’irrigidita spuma.
Venite, Achive, e non recate unguenti,
Od alabastri (già dell’asse ascolto
Il cigolio); venite: a Palla cari
Non son composti unguenti; e non portate
Lo specchio, che alla dea regna nel volto
Decoro eterno. E allor che in Ida venne
Alla gran lite del pastor troiano,
Nell’Oricalco, o al trasparente gorgo
Non si specchiò del Simoenta: e Giuno
Di mirarsi obliò. Venere sola
Si consigliava col lucente bronzo:
Mutò due volte e ricompose un riccio.
Il doppio stadio due volte sessanta
Percorso aveva, qual di Leda i figli,
Che stelle or sono: allo spartano Eurota
Quindi si terse, e versò puro unguento,
Che a lei stillar del proprio orto le piante,
E le corse un color come di rosa
Mattutina sul volto, o quale è il frutto
Del melagrano. Il maschio olio soltanto
Però recate, con che s’unge Alcide
E Castore; togliete un pettin d’oro
Fatto, onde il crine e le disperse treccie
Unisca. Esci, o Minerva, ecco che grata
Schiera t’incontra d’Acestorie figlie.
Lo scudo a te di Diomede arreca,
Come in Argo è costume antico. Eumede
Lo insegnò allor che decretata morte
Oli preparava il popolar furore.
Sacerdote ramingo in man recava
La sacra effigie, e i fuggitivi piedi
Sul monte Creo fermando, ivi depose
Il sacro peso in dirupate balze.
Che Pallatìdi han nome. Esci, Minerva
Sterminatrice di città, che l’elmo
Dorato porti, della bionda testa
Ornamento e terrore. A te diletta
Col nitrir dei cavalli il suon confuso
Delli scudi percossi orribilmente.
Oggi, ondifere donne, i bagni usati
Lasciate, e solo beva Argo dai fonti
E non dai fiumi: e voi l’urne recate.
Ancelle ad Amimone, a Danao prole,
O a Fisadea, che, sparse d’oro e fiori
Inaco l’onde sue, verrà dai colli
Lieti per erba, e fia che rechi a Palla
Gentil lavacro: ma, Pelasgo, avverti
Che alla reina involontari i lumi
Tu non rivolga. Per l’estrema volta
Queste mura vedrà chi mira ignuda
Minerva di città custode. Ah vieni,
O veneranda diva: intese cose
Ridico intanto alle fanciulle. In Tebe
Una Ninfa già fu cara fra tutte
A Palla, e non potean divise un solo
Momento starsi. E quando a Tespia antica
O ad Aliarto, o a Coronea volgeva
Le frementi cavalle, e che scorrea
L’are e la selva del Coralio fìume,
E l’opre dei Beoti, un carro solo
Teneale entrambe, e delle ninfe a lei
Care non eran le scherzose fole
E le alternate danze ove non fosse
Cariclo seco. Ah molto pianto aspetta
Di Palla la fedel compagna: Un giorno
Avean deposto il peplo, e dentro il fonte
Eliconio tergean le membra ignude:
Cheta tranquillità teneva il monte,
E nel mezzo del cielo il sol regnava.
Nel sacro loco erra Tiresia solo,
Cui la lanugin prima il volto incerto
Adombra. Lo condusse al sacro fonte
Coi cani sete che ogni dire avanza,
E quivi ciò che ad un mortai non lice,
Misero: ei vide: a lui, benché sdegnata,
Disse Minerva: Qual destin ti trasse.
Figlio d’Everio, alla funesta via
Onde tu cieco tornerai? — Parlava,
Quando percosse un’improvvisa notte
Gli occhi al fanciullo: muto muto sta,
E le ginocchia gii configge il duolo;
Più non gli detta la confusa mente
Parole, e sembra effigiato sasso
Custode delle tombe. Acuto grido
Mise la madre, ed esclamò: Tremende,
Che festi? così siete, o dive amiche?
Toglieste gii occhi al mio fanciullo: o figlio,
Figlio infelice: di Minerva i fianchi
Scorgesti e il petto; ma di nuovo il sole
Non vedrai certo. me misera, o monte,
Elicona, dai miei lumi lontano
Siatevi sempre. Tu per lievi cose
Prendesti, o dea, terribil pegno: i lumi
Hai del mio figlio per corvette e damme? —
Sì Cariclo dicendo, al sen stringeva
Con entrambe le mani il caro figlio.
Così dell’usignol piange la madre
Quando divora i non pennuti figli
L’ascoso serpe: Ella tornando ammira
L’insolito silenzio, e l’albor caro
Mira sparso di sangue, ed errar vede
Le note piume per lo sparso nido.
Ma di Minerva il cor pietà percosse,
E all’amica dicea: Donna divina,
Ritratta i detti del furor; non feci
Io cieco il figlio tuo, che grato a Palla
Non è rapir gii occhi ai fanciulli; è questa
Legge di Giove: chi gli eterni mira.
Se non l’elegge Iddio, grave mercede
N’ottiene. I fusi delle dee sorelle
Prego mortale non richiama: il figlio
Questo fato sortì quando la luce
Vide, ed ora ha suo premio. Ahi quanto offerte
Autonoe n’arderà, quante Aristeo,
Pregando di veder cieco soltanto
Atteon giovinetto, il caro figlio:
Ah che a lui non varranno esser nel corso
A Diana compagno, e dei volanti
Dardi l’arte comune, allor che ai bagni
Cari a Diana involontario errore
Lo condurrà: ma dei suoi cani stessi
Sarà cena feral: la madre afflitta
Errerà per le selve, e l’ossa sole
Troverà del suo figlio; e tu felice,
Diva, sei stata, che dai monti avesti
Privo soltanto della vista il figlio.
Deh non piangere, o cara: il tuo fanciullo
Attendon doni che del nostro amore
Saranno eterna fede: illustre vate
Ai nipoti sarà, vate sovrano:
Nel muto volo dei presaghi augelli
Vedrà le sorti ascose a Cadmo, ai figli
Di Labdaco: udiran del sacro petto
L’avverate risposte. E gran sostegno
A lui darò, che l’orme e guidi e regga,
E spaziosa vita. Ancora a Dite
Onorato sarà savio fra l’ombre. —
Così dicendo il capo scosse, e fato
Diviene il cenno dell’eterna fronte.
Tutto ha Palla del padre, e solo a lei
Fra le figlie il concesse: o donne, alcuna
Madre non srenerò la dea di Giove.
Balzò nelle paterne armi sonante
Dalla testa immortal. Vieni, o Minerva,
E voi che Argo, o fanciulle, in cura avete,
Acclamate la dea con fauste voci.
Con preci e voti. Salve, o dea: proteggi
Tu l’Argiva cittade, e qua rivolgi
I destrieri di nuovo, e i Danai salva.

Lezione vigesimasettima.
Venere. §

Venere, eterna voluttà degli Dei, degli uomini, delle belve, favoleggiarono i più fra gli antichi che nascesse dal sangue della disonesta ferita, colla quale Saturno mutilò Celo padre di lui, e dalla spuma del mare. Appena nata, dai capelli e dal volto spremeva con ambe le mani l’onda dell’ Ocea no: e il principe degli antichi pittori, Apelle, così l’espresse in quella tela divina, maraviglia e delizia dell’universo. Antipatro Sidonio parlando di questa famosa pittura in tal maniera favella: Rimira Venere escita or ora dall’onda, nobile opera dell’illustre Apelle. Spreme dalle lunghe chiome la spuma che è nei crini. Pallade, avendola veduta, così parlò con Giunone: E giusto cedere a Venere nella bellezza. — Dicesi che concepita in una conchiglia ripiena di perle, navigò con questa a Cipro, onde Stazio facendo l’elogio di una bella donna fa dire alla dea: Questa sarebbe degna di sorgere meco dai flutti cerulei, e di sedere nella nostra conchiglia. — L’autore degli Inni Omerici al contrario narra l’aura rugiadosa di Zeffìro, che dolcemente spirando la porta sopra molle spuma in mezzo al mare risonante. L’Ore (e che bel quadro sarebbe mai questo:), l’Ore coi capelli in reti dorate accolti ricevono amabilmente la dea, la ricoprono di veste incorruttibile, e sopra il capo immortale pongono una vaga corona, e nell’orecchie traforate l’oro più fino, e l’oricalco; il collo, il bianco petto con monili dello stesso metallo adornarono. Così elleno stesse si abbigliano quando vanno alle amabili danze degli Dei nella casa paterna. Poiché ogni ornamento ebbero disposto intorno al corpo di Venere, la condussero dai numi che gareggiavauo per abbracciarla, ed ognuno chiedeva di prenderla in moglie, ammirando le forme della diva coronata di viole, e dalle nere palpebre.

Fin qui Omero: ma Cicerone lasciò scritto che più furono le Veneri adorate dagli antichi, nate da genitori diversi. La prima di queste, del Cielo e del Giorno figlia, ebbe tempio in Elide; la seconda, di cui abbiamo favellato, generata dalla spuma, diede con Mercurio la vita al secondo Cupido; la terza, da Giove e da Dionea creata, fu moglie di Vulcano. Platone vuole che vi siano due Veneri, la celeste e la popolare, distinte per origine e per attributi, quantunque Orfeo, o chi sia l’autore degli Inni, confonda la marina, o volgare, con la celeste. Epimenide Cretese, seguendo un parere del tutto op posto, pensa che di Saturno ed Evenirne Venere fosse figlia. L’opinione più comune si è quella che alla spuma del mare fecondata dal sangue di Celo ascrive il nascere di questa divinità, ed il nome stesso di Afrodite, col quale i Greci chiamavano Venere, non altro significa che spuma marina. Esiodo nella Teogonia vuole che appena nata andasse al monte Citerò, da cui di Citerea sortì il cognome, e quindi a Cipro, dove i fiori nascevano sotto i piedi divini.

Venere la prima mescolò gli Dei con donne mortali, e Giove per vendicarsi la fé’ soggiacere all’ istessa legge destandole nel seno amore per gli uomini fra i quali il primo (secondo l’Inno Omerico) fu Anchise. Simile nel volto agli eterni custodiva nei gioghi d’Ida l’armento. Lo vide Venere, e d’immenso ardore presa andò a Cipro, quindi in Pafo, ove le fuma l’altare ed il tempio. Qui entrata, le Grazie la lavarono ed unsero d’olio immortale, coll’odoroso peplo le coprirono le membra, e di ogni altra veste adornata andava ad Ilio velocemente dirigendosi a traverso le nubi. Giunse prestamente al monte Ida ripieno di belve, e mentre s’avviava verso Anchise. i lupi, i leoni, l’orse, i pardi veloci le si facevano incontro mansuetamente dimenando la coda, e la dea gli riempi tutti d’amore, onde accoppiati dormirono nelle loro caverne. Arrivata alla capanna dell’eroe Anchise lo vide, che in disparte dagli altri suonava la cetra. La figlia di Giove gli si fé’ innanzi simile ad indomita vergine nella grandezza e nella forma, affinchè mirandola apertamente dea non temesse. Ancliise la esaminava e stupiva ad un tempo della figura e delle vesti stupende, poiché era coperta di un peplo più risplendente di un raggio di fuoco; collane di vario ornamento cingevano il delicato collo; e il petto, simile alla crescente argentea luna, traspariva dal velo.

Salve, Regina, disse l’eroe, chiunque tu sia delle beate, o Diana, o Latona, o la bella Venere, Temi generosa, o Pallade dagli occhi glauchi, o forse una delle Grazie o delle Ninfe: salve; io ti farò un’ara ove in ogni tempo dell’anno vaghe ostie ti saranno immolate: e tu concedimi che fra i Troiani io mi distingua; dammi spaziosa e felice vita, florida prole, ed invidiata vecchiezza.

Dissimulò Venere la sua divinità dicendo di esser figlia di Otreo, che alla ben munita Frigia comandava, e rapita da Mercurio dal coro di Diana come destinata in sposa d’Anchise.

Crebbe l’amore nel petto del Troiano non contenuto dalla riverenza che come dea le inspirava, e condusse al talamo coperto da pelli d’orse e di leoni di propria mano uccisi la creduta fanciulla, che indietro si volgeva chinando a terra gli occhi verecondi. Qui sciolse il cinto di Venere, giacque fra le braccia immortali, e fu concepito Enea. Ma quando di nuovo i pastori riconducono alle stalle l’armento dalle fiorite pasture, stette Venere sul capo di Anchise a dolce sonno in preda, d’eterna bellezza ripiena, e vera dea nell’aspetto comparve dicendo: Sorgi, o Dardanide, vedi chi sono, e se nulla ritengo dell’ antica sembianza. — Sollevò la testa Anchise, ma allor che vide le divine forme di Citerea rivolse altrove gli occhi impauriti, si coperse colla veste il bel volto, e gridò: Tu m’ ingannasti, diva: ma pietà ti prenda di me che poco vivrò ed infermo fra i mortali, perchè questa è la pena di chi giace con le dee. —

Consolò Venere i timori dell’eroe; scusò il proprio errore coll’esempio di altri beati: illustre figlio ed ancor più famosi nipoti promise all’amante. Ma gli fé’ severo comando di tacere la vera madre del figlio che nascerebbe, e d’ imputarlo alla ninfa Calciopida; che se egli avesse manifestata la sua fortuna provato avrebbe il fulmine di Giove e l’ira degli altri numi.

Ma non fu Anchise il solo fortunato fra gli uomini pei favori di Venere. Adone aveva fama maggiore ed annual tributo di lacrime, come udirete nel fine della presente Lezione da Mosco in un bellissimo canto funebre sulla morte dell’ assirio giovinetto. Il Salvini volgarizzandolo con non ordinaria eleganza mi ha dissuaso da tentare la stessa fatica.

Gli altri amori e le altre imprese di Venere riserbo ad un’altra volta, per trattenervi sulle diverse maniere nelle quali vien rappresentata, argomento di tanto interesse per voi, e scopo principale dei miei studii.

Venere è stata rappresentata ancora presso gli Etruschi con una tortorella, perchè secondo Aristofane gli amanti amano gli uccelli. Così questa dea si trova suU’ altare della Villa Borghesi. Nel numero dei suoi attributi è ancora il ventaglio: il pomo, perchè questo frutto gettato dall’amante alla fanciulla era una dichiarazione di amore, come da molti antichi scrittori si rileva. Si trova più raramente come un fiore, che sembra essere il giglio ch’ella amava: ed in sì fatta maniera si vede solamente in due opere in marmo, una delle quali è il monumento circolare del Campidoglio, l’altro uno dei due bellissimi candelabri del Palazzo Barberini. La lepre gli era particolarmente consacrata per cognite ragioni. Alcune pietre incise del Museo Stosciano offrono Venere tenente un pomo e la lancia con la punta rivolta verso la terra, probabilmente per indicare che ella move querele, ma tali che esser non devono sansruinose. Una meda2:lia dell’isola di Citerà rappresenta Venere coU’arco nella mano sinistra, e con un pomo ed una freccia nella destra. Arduino vuole applicare questi simboli alla Venere armata. Saffo dipinge Venere sopra un carro tirato da dei passeri, immagine di cui l’arte non pare che abbia profittato, poiché ella non si trova sopra alcun monumento. La Venere celeste porta il diadema come Giunone, e questo attributo la distingue da Venere Afrodite.

Di simili teste isolate, che sono state scoperte divise dai loro busti, o statue, come si vede nella Villa Borghesi, se ne è fatte delle Giunoni, ma la voluttà e la forma degli occhi proprii di Venere vi fa conoscere questa dea piuttosto che Giunone, della quale gli occhi avevano un’ aria di maestà e di grandezza. Si crede di trovare ancora la Venere Celeste in una bella figura vestita delle pitture di Ercolano, che dalla mano diritta porta un ramo con due pomi, ed uno scettro dalla sinistra. Pietre incise offrono Venere a cavalcioni sopra un ariete: ma il soprannome di Epitragia che significa lo stesso, sembra appartenere a Venere eh’ è assisa sopra ariete marino; rappresentazione che si vede in molti bassi rilievi, e particolarmente in due piccole figure eguali e ben conservate nella Villa Albani.

A Sparta vi era una Venere eseguita in cedro, incatenata, per significare la fedeltà costante nell’amore. La Venere Celeste di Fidia posava un piede sopra una testuggine per indicare (secondo Plutarco) alle donne che il loro dovere era di custodire la casa come questo animale, e di occuparvisi delle domestiche fatiche. Come simbolo di un amore puro e spogliato di ogni desiderio sensuale, è stata rappresentata ancora con dell’ali. Famosa in Plinio è la statua di Venere composta di calamita col fine di attrarre quasi per grazie segrete un Marte di ferro. Udite da Winkelmann altre pregevoli cognizioni intorno a questa divinità.

« Venere, egli dice, occupar deve il primo luogo fra le dee, e come dea della bellezza, e perchè (tranne le Grazie, le Stagioni e l’Ore) è la sola che si rappresenti ignuda, e per essere stata più frequentemente delle altre in varie età effigiata. La Venere dei Medici a Firenze è simile alla rosa che esce fuor dalla boccia al primo apparir del sole dopo una bella aurora, e par che senta quell’ età in cui le membra prendono una più compiuta forma, e comincia il seno a sollevarsi. Io mi figuro di vedere in lei quella Laide che Apelle iniziava ai misteri di amore, e me la immagino appunto qual dovette per la prima volta ignuda esporsi al di lui sguardo. È nella stessa attitudine una Venere del Museo Capitolino serbatasi meglio che tutte le altre statue dì questa dea, poiché, eccetto qualche dito che le manca, non è punto guasta; tal pure è altra statua, la quale è copia fatta da Menofanto di una Venere che stava presso Troade, come scorgesi dall’epigrafe. Queste due statue la rappresentano in un’ età più matura, e più grandi sono che la Venere dei Medici. Le belle forme dell’ adolescenza femminile che in questa si scorgono, ammiransi pure nella Teti seminuda della Villa Albani rappresentata in quell’età in cui sposò Peleo.

« Venere Celeste, cioè quella che di Giove e d’Armonia è figlia, distinguesi per un diadema (ciò vi avvertii io pure di sopra) simile a quello eh’ è proprio a Giunone. Porta pure questo diadema Venere vittrice, di cui una statua che posa un piede su un elmo fu dissotterrata nel teatro dell’antica città di Capua, e sta ora in Caserta. Essa è bellissima, se non che le mancano le braccia. In alcuni bassi rilievi che rappresentano il rapimento di Proserpina, e singolarmente nella più bella delle due urne esistenti nel Palazzo Barberini, ha così cinto il capo di diadema una Venere vestita, la quale in compagnia di Pallade, di Diana e di Proserpina medesima, sta cogliendo fiori nei prati del l’Etna in Sicilia. Tal fregio di capo è stato pure attribuito a Teti nella pittura di un bel vaso di terra cotta esistente nella Biblioteca Vaticana. Sì questa Venere che la prima ha negli occhi dolcemente aperti un lusinghiero ed affettuoso che i Greci chiamavano (grec), cioè umidità. Un tal guardo però è ben lontano da quei tratti indicanti lascivia, coi quali alcuni moderni artisti hanno creduto di caratterizzare le loro Veneri. L’amore dagli antichi maestri, come dai pili ragionevoli filosofi di quei tempi, consideravasi, per valermi dell’espressione di Euripide, come il consigliere della saviezza.

« Quando io dissi poc’ anzi non trovarsi altre dee ignude fuori che Venere, le Grazie e l’Ore, non fu già mio pensiero asserire che Venere si rappresentasse costantemente ignuda. Vestita era la Venere di Prassitele a Coo, vestita è una bella statua di questa dea, che dianzi vedevasi nel Palazzo Spada in Roma, e fu poscia trasportata in Inghilterra.

Venere al bagno.

« Lo scultore che ha voluto (così il Visconti) rappresentare in questo marmo la dea della beltà in tutto quel maggior risalto che acquistano nelr uscir dal bagno le sue membra divine, non è restato inferiore nell’esecuzione alla bellezza sublime della sua idea, tanto è regolare nei lineamenti, vezzosa neir attitudine, molle nell’espressione questa singolarissima statua. Ha saputo così bene nell’aggruppamento delle membra darci l’idea dell’azione che fa di sorger dal bagno, che resta a prima vista evidente, benché non siavi rappresentato nè il putto collo sciugatoio, nè indicata l’attitudine di tergersi come in altre gemme e statue dello stesso soggetto. E ammirabile il giudizio con cui ha ancora impiegato per sostegno dell’ anca sinistra uno di quei vasi d’unguento senza manichi, che alabastri grecamente appellavansi, e che hanno dato il lor nome alla pietra che n’era comunemente la materia. Oltre l’additarsi vie maggiormente con questo vaso rovesciato l’azione del bagno, dove era stile degli antichi di ungersi, è ancora un utensile tutto proprio di Venere, che amava i preziosi unguenti a segno che il poeta Agatia in un epigramma dell’ A ntolos^ia non dubita di chiamare simili vasi arli alabastri della dea. Questo alabastro serve appunto per determinare meglio il soggetto del simulacro, perchè non converrebbe a Diana veduta nel bagno da Atteone, che in qualche antico marmo viene rappresentata nuda, ed anche in positura non molto diversa. Le mollezze dei balsami non convengono alla dea delle selve giacché nè Pallade, nè Giunone stessa, quantunque nè guerriera, nè cacciatrice, ne volle usare neppure il giorno del contrastato giudizio. L’amore degli ornamenti che distingue Criprigna si é voluto indicare dal giudizioso artefice anche in un braccialetto che adorna alla dea il solo braccio sinistro, e che è formato a guisa di un piccol serpe che se le sia avvolto. Questo costume di portare simili abbigliamenti a un solo braccio, e specialmente al sinistro, non è taciuto dagli antichi; anzi è illustrato da Festo, che lo appella spinther, e lo spiega: genere di braccialetto che le donne sogliono portare nella sommità del braccio sinistro. Questa sommità conviene per l’ appunto alla nostra statua, e la foggia stessa del serpe è rammentata da Polluce, che fra gli ornati muliebri che solean portarsi egualmente ai polsi che nella parte superiore del braccio al gomito, nomina espressamente le serpi. Fu rinvenuta questa bella scultura nella tenuta di Salone a destra della Via Prenestina in un sito ancor oggi detto Prato bagnato, forse dall’acque e dai bagni che lo rendevano anticamente delizioso. Presso della medesima fu disotterrata una base antica con lettere greche che significano: Bupalo lo fece. Per quanto però sia verisimile che questa base appartenesse alla nostra statua, non crederò mai che una scultura così elegante e gentile sia stata lavorata in un tempo tanto lontano e così presso all’infanzia della scultura come quello in cui visse questo rinomato artefice: prima cioè che le Grazie chiamate da Prassitele fossero discese ad animare il greco scalpello. Sarà stato dunque un nome che l’avarizia, o l’ignoranza del possessore avrà anticamente falsificato. Quanto fosse lecito di portare nelle tenebre di una tanta antichità la luce di qualche debole congettura, potremmo supporla una replica della Venere nel bagno di Policarmo ammirata in Roma e rammentata da Plinio. »

Canto funerale di Adone.

« Io piango, Adone: è morto il bello Adone.
È morto il bello Adon: piangon gli Amori,
Accompagnando il fiero mio lamento.
Che più in panni vermigli, o Vener, giaci?
Sorgi, infelice, in negra vesta, e batti
Il petto, e a tutti di’ eh’ è morto Adone.
Io piango Adone, e piangono gli Amori.
Giace ne’ monti il bello Adon ferito
Da bianco dente il bianco fianco, e poco
Spirto traendo ange Ciprigna; il sangue
Scorre vermiglio sulla bianca carne.
Languisce l’occhio sotto al morto ciglio;
Dal labbro fugge il bel color di rosa,
E intorno al labbro langue il moribondo
Bacio da Vener non lasciato mai;
Di lui morto anco il bacio a Vener piace;
Ma Adon non sa chi sia che morto il bacia.
Io piango Adone, ecc.
Crudel, crudel nel fianco ha piaga Adone,
Ma maggior Vener porta al cor la piaga.
Urlan sopra il garzon gli amici cani;
Piangon l’Oreadi Ninfe; e Citerèa
Scarmigliata pe’ boschi errando vanne,
Trista, discinta, scalza: i forti pruni
Sfioranle nel passare il sacro sangue.
Mettendo acute strida, ella si porta
Per lunghe valli il suo garzone e sposo,
L’Assirio sposo suo alto chiamando.
A lui sul corpo un rio di sangue andava,
E giù dal fianco rosseggiava il petto,
E il costato, che dianzi era di neve,
Di porpora era fatto al morto Adone.
Ahi ahi: Citérea piangon gli Amori.
Perde il vago consorte, e perde insieme
Il divino suo aspetto; avea Criprigna
Bello l’aspetto allor che Adon vivea.
Morì sua forma con Adone, ahi ahi!
Dicon le querce, e i monti: ahi lasso Adone!
Piangono di Ciprigna i fiumi il lutto,
Piangon sulle montagne Adon le fonti,
I fiori dal dolor fansi vermigli.
Venere la cittade e la campagna
Tutta riempie di doglioso canto.
Ahi ahi Criprigna: è morto il bello Adone!
L’Eco risuona: È morto il bello Adone.
Ahi l’amor di Ciprigna e chi non piagne?
Tosto che vide e che conobbe Adone,
E scorse in lui la mortai piaga impressa,
Tosto che vide il porporino sangue
Via via spicciar dal moribondo fianco,
Abbracciandol dicea: Aspetta, Adone,
Povero Adone aspetta, in questo estremo
Punto, ch’io ti ritrovi, e prenda, e stringa,
E mescoli le mie colle tue labbra.
Svegliati per un poco. Adone, e baciami;
Sia l’ultimo tuo bacio il mio congedo.
Baciami tu, fino a che il bacio vive.
Finché dall’alma tua nella mia bocca
E nel mio seno scorrerà il tuo spirto
E ch’io un dolce veleno avvalli, e fugga,
L’amor bevendo in tanto: io questo bacio
Guarderò, come fusse Adone istesso;
Giacché da me, sposo infelice, fuggi.
Tu lontan fuggi, Adone, e ad Acheronte
Ten vai, al crudo e disamabil rege.
Ed io vivo infelice, perchè dea
Sono, e di te seguir non m’è permesso.
Ricevi, Proserpina, il mio marito;
Che in ciò tu sei molto di me migliore;
E tutto il bello a te ne scende, e a Pluto.
Tutta misera son, tutta dolente.
Nè di doler mi veggio mai satolla.
Piango Adon, che m’è morto, e te pavento.
Tu muori, o mio diletto, e Tamor mio
Da me sparì qual sogno, e volò via.
Vedova è Citerea, e in sua magione
Stannosi indarno i pargoletti Amori.
Teco perì, nè più possiede incanto
Olà sì pieno di grazia il mio bel cinto.
Perchè, audace garzon, seguir la caccia.
Essendo tu sì bello? e colle fiere
Perchè serrarsi tanto in dura lotta? —
Vener così piangea; ed al suo pianto
Sospira, e piange il coro degli Amori.
Ahi ahi Ciprigna; è morto il bello Adone!
Tanto Venere sparge amaro pianto,
Quanto Adon versa sangue; il tutto in terra
Vien fiori; il sangue partorisce rose,
E le lagrime anemoli si fanno.
Io piango Adone, ecc.
Non sparger più per selve i tuoi lamenti,
Citerea; è bello e fatto il letto
Per ricevere Adon: funebre letto,
Il letto tuo, vi giace morto Adone,
. Ch’è bello ancorché morto, e par che dorma,
Ponlo in morbidi panni, qual solea
Teco con essi trarne i sacri sonni
Nel letto aurato, or corca il tristo Adone.
Gitta sopra di lui ghirlande e fiori;
E ogni cosa con lui tu gitta intanto,
Poich’egli è morto, e tutti i fior morirò.
Spargi il bel corpo con unguenti, spargi;
Peran gli unguenti tutti, poich’ Adone
Perlo, balsamo tuo pregiato e caro.
Corcato è Adon nelle purpuree vesti;
Piangonlo, e intorno gemono gli Amori,
Tosisi sovra Adon; va a prender l’uno
Le freccio; l’altro l’arco; e quei il turcasso.
Uno d’Adon scioglie i calzari, e l’altro
In ampi vasi d’oro acqua ne arreca.
Un altro i fianchi, e la ferita lava.
Un dietro a Adon col ventilar delle ali
Par che lui in vita richiamar procacci.
Gridando Citerea piangon gli Amori.
Spense Imeneo alle soglie ogni sua face;
La nuzial ghirlanda a terra sparse.
Non Imeneo, non più Imeneo si canta.
Ma l’ai, l’ai sol risonar si sente.
Ai ai Adone, ai Imeneo, ai.
Piangon le Grazie di Cinéra il figlio:
È morto il bello Adon, tra lor dicendo.
Queste di te maggiori alzan le strida,
Citerea; piangono Adon le Parche,
Ed incantano Adon; ma non l’ascolta;
Ch’ei pur non vuole, e Proserpina il tiene
Legato sì, che mai non lo discioglie.
Pon fine, o Citerea, al tuo lamento.
Lascia star questo dì conviti e feste.
Per ripigliarle poi per tutto l’anno,
Finché non riede l’annual funesto
Giorno, in cui dee rinnovellarsi il pianto.
Idillio, XXIII.

Lezione vigesimottava.
Cognomi più illustri di Venere. §

La presente Lezione è destinata a tesservi colla serie dei cognomi più illustri di Venere l’altre maniere di effigiarla che rilevar si possono dai monumenti e dagli scrittori, le quali la brevità prefissami mi vietò di comprendere nel passato ragionamento.

Il nome di Venere, come osserva Varrone in Macrobio, non fu molto antico presso i Latini. Vuol Cicerone che l’ etimologia rintracciar se ne debba nel provenire da lei tutte le cose. Lascerò ai grammatisi il disputare più a lungo, contentandomi dell’autorità di tant’ uomo. Non solo, come osservai, figurarono la diva sorgente sopra una conchiglia dal mare in forma di giovinetta, ma pure con sembianze di donna che teneva la stessa conchiglia ornata di rose, e ch’era circondata dalle Grazie e dagli Amori. Leggiamo che fosse sopra un carro or tratto dalle colombe or dai cigni, in Orazio, in Ovidio, in Apuleio.

Filostrato nelle Immagini l’addita con specchio d’argento, con sandali e con fibbie dorate. Canaco Sicionio fé’ l’immagine di Venere sedente col capo ornato di nimbo, che in una mano aveva un papavero, nell’altra un pomo.

Venere appellata Celeste v’ indicai nella passata Lezione come fosse da Fidia scolpita, e quali siano i fregi per riconoscerla nelle statue antiche. La Popolare, così detta, perchè alle volgari voluttà presiedea. Scopa fece sedente sopra un montone, onde fu detta ancora (grec), perchè (grec) in greco si chiama l’accennato animale. Venere Versicordia, lo stesso che (grec) dei Grccì, adoravano i creduli amanti antichi, stimando che in potere di lei fosse il dare, o togliere l’amore. Venere Astarte, cioè l’astro di Venere, fu adorato dai Bidoni, ed è opinione di alcuni che fosse lo stesso che la dea Siria, quantunque Luciano creda che sotto questa denominazione adorassero la luna. Amatusia fu chiamata la dea da Amatunta città di Cipro, ove veneravasi sommamente. Di Citerea è freqirente il cognome, che secondo Pausania deriva da Citerà, isola nell’estremità del golfo Beotico. Venere Armata ebbe dagli Spartani ad orazione in memoria dell’ amore improvviso, che nacque nel loro core, quando videro le donne svelare la loro nudità per difendersi dall’ impeto col quale assalivanle credendoli Messenii perchè erano armate. E grazioso l’epigramma che su questo simulacro si legge in Ausonio, che lo tradusse dal arreco. Eccone il senso: Pallade vide Venere armata in Sparta: ora, disse, pugniamo. ancor giudice Paride. Venere le rispose: Temeraria, tu disprezzi armata me che quando ti vinsi ero nuda? — Venere fu cognominata ancora Morfo dagli Spartani, ed il simulacro di lei era sedente col capo coperto, e coi piedi incatenati. Ericina dissero pure la diva gli antichi scrittori da Erice monte della Sicilia, sopra il quale Enea edificò un tempio alla madre. Cognominata fu pure Arginnide da Arginno fanciullo amato dal re Agamennone, che nuotando nel fiume Cefiso vi perì; onde dal re, in memoria dell’ infelice amore, fu eretto un tempio alla dea colr indicato cognome.

Aggiungo alla serie di questi cognomi tre descrizioni di statue di Venere del Visconti, dalle quali quante cognizioni per ritrarre questa divinità potete dedurre!

« Molte statue femminili tutte simili alla nostra, e nella sottil tunica discinta, stretta alla persona e in pieghe artificiose compresse, e nella sinistra in gentile atto sollevata a raccorre la sopravvesta ondeggiante, si conoscono in varie collezioni, ed ora il nome e le sembianze di Muse, ora di ninfe, ora di altre divinità hanno sortito dal capriccio dei ristauratori e degli antiquarii. Pure le medaglie di Sabina Augusta e di altre imperatrici ne mostrano la figura medesima nella stessa attitudine, e precisamente nell’abito stesso, col nome di Venere Genitrice: onde potersi accertare con buon fondamento qual fosse il vero soggetto delle accennate sculture.

« Le statue di Venere non ignudo non sono state abbastanza osservate e distinte dagli eruditi. Questa che conosciamo, con sicurezza ci fa strada a ravvisare questa dea in parecchie altre sculture. Il petto, in parte discoperto, lo abbiamo considerato come proprio dell’ effigie di Venere: ora mi sono avvenuto in un passo degli Argonautici di Apollonio Rodio che dà gran lume a siffatte immagini. Egli, nella descrizione delle figure travagliate da Minerva stessa nel paludamento di Giasone, non omette l’ immagine di Venere collo scudo in mano del dio Marte: l’affibbiatura della cui veste caduta dalFomero manco, sino verso il gomito, le lascia a discoperto il seno e la sinistra mammella.

« La circostanza non potea rilevarsi con maggiore opportunità pel nostro argomento. Inoltre giova osservare che le pieghe regolari ed artefatte della sua tunica, la quale ne contorna le membra e ne adombra l’ignudo, sono anch’esse da’ greci poeti alle, immagini di Venere attribuite. Apparisce evidentemente da un epigramma di Antipatro nella greca Antologia che la maniera più comune di rappresentare Venere era di vestirla di tuniche artificiosamente piegate. Anche dell’ eleganza dell’ atto di sollevarsi dietro all’omero il manto si è avuto luogo di ragionare per riconoscervi una leggiadria introdotta nelle arti greche assai di buon’ora, e almeno fin dai tempi di Polignoto. Per quel che riguarda le Veneri vestite non mi tratterrò a confutare l’opinione di Winkelmann sul preteso cesto di Venere, ch’egli ravvisa in un cinto intorno ai lombi di alcune figure femminili: mi ha prevenuto in ciò il celeberrimo signor Heyne: osserverò solamente che una Venere ignuda col cesto cinto sotto le mammelle si vede in un singolarissimo bassorilievo affìsso in un cortile del Palazzo Lancellotti.

« Non tanto l’aria del volto e le graziose fattezze convenienti alla più bella di tutte le dee; non tanto la gentil positura in cui è situata, reggendo colla manca un panno ornato di frange per asciugarsi, che cade aggruppato sopra di un’urna, rende singolare questo bel simulacro di Venere, quanto il presentarci una immagine della Venere di Guido, capo d’opera di Prassitele, anzi della scoltura, lavoro inclito nell’universo, secondo l’espressione di Plinio. Avea giudiziosamente riflettuto il cavalier Mengs, che la straordinaria bellezza della testa di questa statua, superiore al resto delle membra, benché non mai disgiunte, e più la simiglianza di un’altra testa meravigliosa nella reggia di Madrid, la dimostravano copia di qualche sorprendente originale. Ma come indovinarne l’autore? Quel che sembrava difficilissimo è reso facile, anzi è posto fuor di dubbio dalle medaglie, sicuro deposito delle più recondite erudizieni. Due medaglioni greci imperiali battuti in Guido, di Caracalla e Plautilla, uno dei quali è in Francia nel Real Gabinetto, e l’altro presso di me, rappresentano nel rovescio la famosa Venere di Prassitele. Nessuno vorrà dubitare che la Venere de’ medaglioni di Guido, replicata la stessa in diversi conii, non sia tratta dal loro mirabile originale.

« Or la figura di Venere in questi medaglioni è perfettamente simile, anzi la stessa colla presente statua: o si consideri la voltata del capo, o l’attitudine delle braccia, o l’andamento del corpo, il panno, l’urna, e fin l’acconciatura dei capelli, che non sono, come la maggior parte delle statue di Venere, raccolti in un nodo sopra la fronte. Questo rapporto dà un risalto notabile alla nostra statua; ed è sicuramente un gran piacere per l’amatore delle antichità e delle arti poter vedere così intiera e conservata una immagine di quel nobile simulacro, che i Gnidi per somme immense d’oro non voller cedere a Nicomede re di Bitinia, che ecclissava nel suo tempio i capi d’opera di Scopa e di Briasside; per cui tanti navigavano a bella posta in Asia, e per cui il fanatismo degli antichi giunse agli eccessi i. più stravaganti. La perfezione di quest’ opera avea impegnato l’artefice a replicarla in bronzo, e si ammirava il duplicato in Roma ai tempi di Claudio, dove perì nell’incendio Neroniano. Il fato di quella di marmo non ci è noto. Chi sa che la testa che è in Madrid non ne sia una parte, fortunatamente pervenuta sino a dì nostri? Il vaso è un idrio servito per l’acqua del bagno; la cura della beltà han cercato gli antichi di esprimere con questi accessorii nelle statue di Venere; così in quella di Troade, di cui esiste in Roma una copia antica di Menofanto, ha invece dell’urna una scatola d’abbigliamenti detta dai Greci (grec), da’ Latini pixis, e buxis dal bosso onde antichissimamente solca formarsi. Sebbene le acque, simbolo delle quali è l’idria, hanno a Venere una relazione anche più stretta, per esser ella nata dalle acque, cioè dalla spuma del mare, onde fu detta Afrodite. Era perciò venerata sui lidi, ed eran sacri a lei i porti e i promontori:: come consta fra gli altri del Circeo da una iscrizione vetustissima scolpita sul vivo sasso, da quella parte appunto ov’è stata scoperta una cava di nobilissimo alabastro. La presente statua di Venere era già in Vaticano, collocata probabilmente da Giulio II insieme col Laocoonte e l’Apollo, nel cortile detto perciò delle statue, allora giardino di agrumi.

Venere vincitrice.

« Dagli scavi d’Otricoli vide ancor la luce questa graziosa figura, così però mal concia, che difficilmente facea congetturare il soggetto. Due osservazioni mi persuadevano a crederla una Venere coll’armi, quale ha talvolta nelle medaglie imperiali il titolo di Vincitrice. La prima era che la presente statua avea la tunica dal petto con lasciva negligenza cadente, foggia usata dagli antichi bene spesso nelle figure di Venere vestita, e particolarmente in quella di Venere Vincitrice coli’ armi, al rovescio delle monete di Giulio Cesare. La seconda riguardava quel frammento di pilastro o di colonnetta, su cui ora tien posato un elmo che suole accompagnare parecchie di siffatte immagini di Venere, e nelle gemme e nelle medaglie non ad altro effetto che a sostenere alcun pezzo d’armatura di quelli che Venere ostenta. Fu dunque ristaurata su questa idea, e le fu aggiunta la palma allusiva al suo epiteto di Vincitrice, che in più monumenti si scorge. Se la favola di Virgilio, il quale introduce Venere che reca ad Enea suo figlio l’armi, opera di Vulcano, non fosse di sua invenzione, ma come parecchie altre del suo poema avesse preesistito all’Eneide, sarebbe da credersi che questa favola si fosse voluta volgere in un complimento a Giulio Cesare stesso, che discendente da Venere e vincitore, si paragonasse ad un nuovo Enea donato dalla madre delle armi celesti. Ma troppo è chiara in questo episodio virgiliano l’ imitazione di Omero per credere anteriore tal favola al latino poeta: sembra piuttosto che gloriandosi la famiglia Giulia di quell’origine, origine anche in certo modo di tutto il nome Romano, non abbia voluto rappresentar Venere come la dea della mollezza, ma in una guisa che convenisse ad una madre di Roma e di Enea. Siccome dunque non mancavano già nella Grecia antichi simulacri di Venere coll’armi, questi furono scelti per adombrare la Venere, annoverata fra gli autori del nome Romano. Cesare stesso, che nella pugna Farsalica avea dato Venere per segnale, non doveva in altra maniera farla rappresentare che come una dea vittoriosa. Infatti, Venere armata era il suo sigillo. A questo allude Properzio in quel verso: Portò Venere stessa ai suoi l’armi di Cesare — e a questo si riferiscono tutte le romane immagini di Venere colle armi. Non sono però queste giammai equivoche coi simulacri di Pallade. Venere tratta le armi, ma o per adornarne un trofeo come vincitrice, o per riporlo in tempo di pace, allorché accarezzando Marte sospende il furore della guerra, e fa sì che i feri uffici della milizia pei mari e per le terre tutte dormono sopiti. La colonia otriculana avrà venerato in questo simulacro l’origine di Roma e degli Augusti. Quantunque la figura sia composta con certa eleganza, che la dimostra proveniente dal buon secolo dell’arte, è poi trattata con molta trascuratezza. La novità dell’ invenzione e del soggetto è quella che le dà qualche pregio, e non la fa disconvenire ad una gran collezione. »

Lezione vigesimanona.
Vulcano. §

Alla moglie succede il poco avventurato marito Vulcano, che, secondo Esiodo, di Giunone e di Giove fu figlio, come ad altri piace, deve interamente il suo natale alla madre. A questo dio furono dati i vanti d’altri, che ebbero la sventura di aver seco lui il nome comune, giacché al dire di Cicerone, più furono i Vulcani oltre il mentovato. Il primo dal Cielo, il secondo dal Nilo nacque, ed Opa fu detto dagli Egiziani; il terzo daMenalio generato, che tenne l’ isole alla Sicilia vicine.

Vogliono che fosse educato dalle scimmie, e per la sua deformità tanto al padre dispiacesse da essere in Lenno precipitato, dove quei pietosi abitanti al grato nume prestarono soccorso. Omero però tanta sventura ascrive all’aver Vulcano tentato sciogliere le incudini, con le quali era Giunone legata, come la più litigiosa delle divinità, che mal soffrendo la novità del reirno maritale, turbava i silenzi della pace celeste. Ed altrove asserisce che dalla madre fu lanciato nel mare, ove l’educò Teti, antichissima fra le dee. A questa ingiuria dalla madre sofferta fu creduta dagli antichi, giacché Platone nel secondo libro della Republica e Pausania nelle Attiche narrano che il nume, memore dell’ingiuria, mandò una sedia d’oro a Giunone con alcuni lacci nascosi, che legarono tosto la dea quando fé’ prova del dono del figlio.

Portava questo dio, come piace ad Euripide, le fiaccole nelle nozze, ed in onore di lui celebravansi delle corse con le dette fiaccole nella mano. Si affaticavano di portarle accese fino alla meta prescritta: quello cui si estingueva era con infamia escluso dal corso. Se alcuno era superato da chi lo seguiva, per legge del giuoco era costretto a dargli la face ardente. Lucrezio con molta vaghezza paragona questa gara alla nostra vita, essendovi della morte bisogno perchè crescano i secoli avvenire.

Che primo Vulcano ritrovasse il fuoco non è fuori di questione. Questo utile ritrovato attribuiscono a Prometeo, più antico del dio, secondo lo Scoliaste di Sofocle, e ch’ebbe con esso ara comune. Ma delle arti che col fuoco si esercitano, per comune consenso autore è creduto, e divide, secondo l’Inno Omerico, l’onore con Minerva di avere insegnato agli uomini che abitavano nelle spelonche opere vantaggiose al viver civile.

Lipari e Sicilia sono le sedi, ove il nume fabbrica le armi degl’Immortah, e i fulmini stessi che resero Giove vincitore nella guerra dei Giganti. Chiese Vulcano in mercede per tanto ufficio Minerva, che virilmente la giurata castità difese. Dell’inutil tentativo fu figlio Erittonio. Il Sole gli svelò l’adulterio di Venere, che ottenne in moglie (quantunque alcuni gli diano Aglaia una delle Grazie), e fabbricò una rete con tanto artificio, che la consorte ed il drudo sorprese. Incauto: mostrò agii Dei l’altrui felicità, la propria vergogna; favola del Cielo divenne, e non vi fu alcuno deg’ Immortali, che non invidiasse la sorte di Marte.

La piromanzia, cioè la pretesa maniera d’ indovinare col mezzo del fuoco, ascrivono pure a Vulcano, di cui Virgilio così descrive la fucina:

« Giace tra la Sicilia da l’un canto
E Lipari da l’altro un’isoletta,
Ch’alpestra ed alta esce dall’onde e fuma.
Ha sotto una spelonca, e grotte intorno
Che de’ feri Ciclopi antri e fucine
Son da lor fuochi affumicati e rosi.
Il picchiar de l’incudi e de’ martelli
Ch’entro si sente, lo strider de’ ferri,
Il fremere e il bollir delle sue fiamme
E de le sue fornaci, d’Etna in guisa
Intonar s’ode, ed anelar si vede.
Questa è la casa ove qua giù s’adopra
Vulcano, onde da lui Vulcania è detta;
E qui per l’armi fabbricar discese
Del grand’Enea. Stavan nell’antro allora
Sterope e Brente e Piracmone ignudi
A rinfrescar l’aspre saette a Giove.
Ed una allor n’aveaii parte polita.
Parte abbozzata con tre raggi attorti
Di grandinoso nembo; tre di nube
Pregna di pioggia; tre d’acceso fuoco,
E tre di vento impetuoso e fiero.
I tuoni vi aggiungevano e i baleni,
E di fiamme e di furie e di spavento
Un cotal misto. Altrove erano intorno
Di Marte al carro, e le veloci rote
Accozzavano insieme, ond’egli armato
Le genti e le città scuote e commove. »
Eneide trad. dal Caro, lib. viii, v, 639 e segg.

Vulcano è stato rappresentato nelle pitture con un cappello di colore violetto per indicare il fuoco celeste, del quale era depositario. Questo cappello è ovale, o quasi conico, perchè quello dei fabbri antichi avea probabilmente questa forma. Una medaglia curiosissima è quella dell’iraperator Claudio il Gotico. Vulcano vi è rappresentato con l’incudine, le tanaglie e il martello, con l’iscrizione al Re dell’Arte; il che si riporta all’arte monetaria, di cui l’inspezione sembra qui essere attribuita a questo dio. Sopra un antico monumento della Villa Negroni, sopra un’ urna del Campidoglio, e sopra un basso rilievo della Villa Borghesi, si vede lavorar coi suoi compagni i Ciclopi, che qui hanno due occhi. I Fauni dai quali è accompagnato sopra un basso rilievo che apparteneva al cardinale Polignac, hanno fatto nascere con ragione dei dubbii sull’antichità di questo monumento.

I sacrifizii propri a questo dio erano le armi, i mobili presi ai nemici, ai quali si metteva fuoco, come fece Tarquinio Prisco dopo la vittoria riportata sopra i Sabini, e Marcello dopo la disfatta dei Cartaginesi verso Nola. Cabiro figlio di Vulcano è indicato col martello sulle medaglie di Tessalonica.

Vulcano fu l’artefice dell’infausta Pandora, del cane in bronzo di Procri, e di quel famoso scettro che, fatto per Giove, passò da esso a Mercurio, da Mercurio a Pelope, da Pelope ad Atreo, da Atreo a Tieste, e da Tieste ad Agamennone.

Era anche ai tempi di Pausania la principale divinità dei Cheronei.

Fra le tante opere che i poeti gli attribuiscono, ho scelto l’armi d’Achille descritteci da Omero, e mi prevalgo dell’insigne traduzione dell’ Abate Cesarotti:

« Lascia la diva, e torna
Alla fucina sua: dall’arca schiude
I mantici riposti, e già da venti
Ferrate bocche esce ad un tempo un soffio
Moltiforme, pieghevole, che a norma
Della man che lo regge o pieno, o parco,
Cresce, o s’allenta, e venti fochi accende
Diversamente: in più fornaci immerse
Di fulgid’oro e di forbito argento
E schietto stagno e rosseggiante bronzo
S’arroventan le masse, e dome e molli
Ne son poi tratte: allor l’incude il fabro
Ad un ceppo accomanda; ha nella manca
Salda tenaglia, e colla destra inalza
Pesante mole di martel, che cala
Con grossi colpi: il docile metallo
Cede alla man che lo governa, e ‘1 segna
D’orme diverse, e a suo piacer l’informa.
E pria le cure del gran mastro alletta
Non più visto lavor d’immenso scudo
Di tempra impenetrabile, e più d’arte
Che di materia prezioso: il cinge
D’oro fiammante un triplicato giro;
Cinque pur d’oro sovrapposte falde
Ne fanno il corpo; ma ‘1 più nobil fregio
È quel che tutto lo figura e veste
Di sculti gruppi e svariate forme
Sceltissimo vaghissimo contrasto,
Che il guardo inebria ed il pensiero arresta.
Qui terra e mare, e degli aerei campi
Vedi l’azzurra volta; il Sole eterno
Re della luce, e i candidetti rai
Della notturna amica diva, e gli astri
Del Cielo splendidissima ghirlanda,
L’Iadi piovose, e a’ naviganti amiche
Le vaghe Pleadi, ed Orióne armato,
L’Orsa che intorno a se lenta s’avvolge
E guarda al cacciator, l’Orsa che sola
Sdegna lavarsi d’Oceàn ne’ gorghi.
Poi due cittadi, che in sembianze opposte
Stavansi a fronte, effigiò: nell’una
Pace fiorisce, e doppio ofi’re allo sguardo
Di pace aspetto; ivi conviti e feste
Scorgi e letizia; leggiadretta sposa
Al bel chiaror delle notturne faci
Al desiato talamo si guida
Da uno stuol di congiunti, Imene, Imene!
Suona d’intorno: di garzoni un coro
Tesse liete carole, e bossi e cetre
Ne raddoppian la gioia, e su le soglie
Garrula frotta di donzelle e donne
Mesce domande e meraviglie e plausi.
Ma d’altra parte il popolo frequente
Corre al fóro in tumulto, ove s’alterca
Ai ministri di Temide dinanzi
Per impensata uccision: nel mezzo
Giace l’estinto; a lui daccanto stride
L’afflitta sposa; ma il canuto padre
Dell’uccisor chiede la pena; ei giura
Che assalito ferì: ciascuno ha seco
Chi ‘1 ravvalora, e sua ragion difende
Con dubbiosa tenzon; parteggia e grida
La mobil turba, e i buoni araldi a stento
Pon raifrenarla: ma d’etade e senno
Maturi padri entro il sacrato cerchio
Su lisce pietre chetamente assisi
Libran fatti e risposte: alfin sorgendo
Alzan lo scettro, e stendono a vicenda
La mano al voto: ognun sospeso, incerto
Guarda i lor atti, e la sentenza attende.
Mostra di guerra travaglioso aspetto
L’altra cittade. Ella d’assedio è cinta
Da squadra ostil, che nel suo cor già certa
È di pronta conquista, e sol consulta
Della sorte dei vinti e della preda.
Ma non per questo l’assediata gente
Perdea la speme; che un drappel de’ forti
Gli altri lasciando per età men fermi
Le mura a custodir, furtivo agguato
Avea teso ai nemici, e in folta macchia
Stava acquattato e tacito aspettando
Che pur giungesse pastoral masnada,
Che di cornuta e di lanuta torma
Traeva al campo nutritivo aiuto.
Gli spensierati villanzon trastullo
Lieti prendean di lor zampegne, e al varco
S’eran già tratti in ripa al fiume: allora
Sbucan d’agguato i giovini nascosti
E van lor sopra, e di pastori e mandre
Fanno preda e macello. All’improvviso
Romor d’arme e di grida il campo in fretta
I nemici abbandonano, e di botto
Corrono a quella volta: aspra battaglia
Qui sorge e dubbia: alle due schiere innanzi
Van Marte e Palla, e Dei li scorgi all’alto
Mao-oioreo’oriar della lor forma: in mezzo
È ‘1 rio Fracasso, e la Discordia insana
Lacera il manto, e l’inamabil Parca
Che un vivo abbatte, ed un ferito afferra,
Trae pel piede un estinto, e d’uman sangue
Tinge la veste, e se ne lorda il volto.
Vero e vivo spettacolo che immoto
Mobil ti sembra, e non pur atti e forme.
Ma figura i pensieri, e in ciò che appare
Quel che dianzi passò rappella e arresta.
Di rustisch’opre e di campestre vita
Grate vicende rappresenta altrove
L’atteggiato metallo. Ampio là vedi
Ricco di pingui rammollite zolle
Stendersi un campo, in cui tre volte il dente
Fisse l’aratro; di cultor callosi
Robusta turba l’aggiogate coppie
Drizza pel solco e le punzecchia; alcuni
Giunser del campo in sul confin: qui lieto
Il buon padron gli attende, e lor presenta
Ricolma tazza, guiderdon dell’opra
E ristoro di lena: essi d’un sorso
La si votan giocondi, e più giocondi
Ricomincian la gara: ognun s’affretta
Ugual mercede a meritar; divisa
La terra in lievi tumuli colmeggia
Sotto l’aratro, e per mirabil’ arte
Vivido in suo fulgor l’oro s’imbruna.
Dei tesori di Cerere poc’oltre
Altro campo biondeggia, e vi stan sopra
Più mietitori coll’adunche falci.
Ai spessi colpi le recise spighe
Sul solco si riversano: raccorle
Gode scherzoso fanciullesco stormo,
Ch’indi alla man di villanelle industri
Le trasmette a vicenda, e queste attente
Nodi formando delle vote paglie
Ne fan cataste di covoni e monti.
Cheto in disparte su d’un trono erboso
Siede il re del villaggio, e lieto ammira
Le rusticali suo dovizie, intanto
Che i fidi servi le spezzate membra
Di pingue toro allo schidione infitte
Rammollano col foco ad imbandirne
Largo convito signoril; nè lente
Dei polverosi mietitor le mogli
E le figlie sollecite di bianco
Fior di frumento triturato e d’erbe
Sapide e pingui e di rappreso latte,
Non senza i doni del licer celeste
Che l’uom rintegra, agli anelanti sposi
In cui fame non dorme apprestan mensa
Men lauta sì, ma più gioconda e cara.
Di là non lungi lussurreggia e brilla
Vigneto floridissimo e già carco
D’uve mature; verdeggiar le foglie
Credi nell’oro, i grappoli pendenti
Vagamente nereggiano, le viti
Regge un lungo filar d’olmi d’argento.
Siepe di stagno lo ripara, e fosca
Di ceruleo metal fossa lo cinge.
Guida colà solo un sentier, per quello
Vengono e van le gaie villanelle
E i vispi giovinetti, e motteggiando
Sulle viti s’aggrappano, ed a prova
In bei canestri d’intessuti vinchi
Portano il frutto più che mei soave:
Mentre in mezzo un garzon lieve toccando
L’arguta cetra, al tintinnìo gentile
Mesce la voce dilicata; e insieme
Gioconda coppia con vivaci salti
Percote il suolo alternamente, e i moti
Dell’agii piede al dotto suono accorda.
Erboso pasco di cornuti armenti
Colà si scorge; stagno ad òr frammisto
I buoi figura: a custodirli stanno
Quattro pastori in oro scolti e nove
Veloci veltri; la secura mandra
Pascea trescando appo un cannoso fiume,
Quando dal bosco due leoni ingordi
Sbucano, e al toro che alla torma è duce
Scagliansi al collo: il misero le corna
Ventila a voto, e s’arrabatta e scrolla.
Ma cade oppresso; i ‘suoi muggiti ascolti
Se credi al ofuardo: le voraci fere
Già la preda si sbranano, e nel sangue
Lordano il grifo; alle lor fauci indarno
Tenta ritorla con bastoni e grida
Quello e questo pastore, indarno attizza
De’ can la turba: essa ben corre, e addenta
L’aure vicine, ma se un passo avanza
Tre ne rincula, e pur latrando alterna
Alle fere, al pastor pavido il guardo.
Ma più vago spettacolo giocondo
Offre amena valletta, ove belando
D’agnelletti e di pecore saltella
Candida greggia: una selvetta, un fonte
Prestan rezzo e bevanda, e sparse intorno
Vedi capanne e pastorali tetti,
Tranquilli alberghi d’innocenza e gioia.
Per vaghezza maggior lo sporto artefice
Un coro figurò vario girevole
Simile a quel che l’ingegnoso Dedalo
In Creta ordì per Arianna amabile:
Qui giovinotti e graziose vergini
Palma a palma stringendo un ballo intessono.
Quelle in gonne di lin sottile e candido,
Che scosse all’aura vagamente ondeggiano,
Questi in farsetti assettatucci e liscii
Per tinta d’olio dilicato e splendido.
Vaghe ghirlande a quelle il crine infiorano,
Coltella a questi di dorato manico
In guaine d’argento a’ fianchi pendono.
Stretti uno all’altro a carolar poi mettonsi
Rapidamente in circolo volubile
Seguendosi, fuggendosi, qual fervida
Ruota che sopra sé corre e s’avvoltola.
Ecco poi d’improvviso il cerchio fendesi,
Ed in più gruppi il coro sblazzevole
S’aggira e mesce, e si congiunge e spartesi
Con giri alterni, e braccia a braccia intrecciansi:
Ma due nel mezzo saltatori agevoli
Or col capo, or col pie la terra appuntano
Con rapida vicenda; il canto inanima
E dà norma alla danza; applaude il popolo
Meravigliando, e fa tripudio e giolito.
Alfin dell’ampio scudo il lembo estremo
La vasta possa d’Oceàn corona
Con le curve spumose onde d’argento.
Compita è la grand’ opra, e non vi manca
La fiammante lorica, e i rilucenti
Schinieri, e l’elmo e’l gran cimier, che vibra
Dorati lampi, e in fulgid’oro ondeggia. »
Ilìade, Canto xviii, v. 526 e segg.

Lezione trentesima.
Marte. §

La maravigliosa maniera nella quale nacque Marte da Giunone col mezzo d’ un fiore indicatole dalla moglie di Zeftìro vi esposi allora che questa gelosa matrona del Tonante fu l’oggetto delle mie ricerche. Ma tal finzione appartiene alla Mitologia meno antica, ed Esiodo custode della prima semplicità delle favole non nega a Giove la gloria di esser padre del dio della guerra. Tero, che in greco suona lo stesso che la ferocia, gli fu nutrice, e presso barbare nazioni fu educato. 16

Coi principii della favolosa infanzia del nume vollero gli antichi significarci che dei meno culti popoli dovrebbe essere propria la guerra: ma la storia di tutte le età ha mostrato quanto all’intentenzione lodevole di coloro, che sotto il velo di strane immaginazioni nascosero profonde dottrine, sia contrarie l’esperienza. Non ebbe, secondo la più comune opinione, Marte alcuna legittima moglie, e visse ancora in questo, com’è costume dei soldati, di rapina: non ostante, alcuni gli hanno dato per compagna una certa Neriene, nome oscurissimo nella Mitologia. Molti sono i figli che la colpa gli diede: Enomao, Ascalafo, Testio, Jalmeno, Pilo, Parrassio, TerecMolo, Partaone, Cupido, Armonia, Calibe, Romolo e Remo ed altri si gloriarono di dovergli i natali.

Favoleggiano che sia tratto in un carro sul quale auriga, siede Bellona con sanguinoso flagello. I cavalli che lo trasportano, prendendo il nome dall’ effetto che producono, si chiamano Terrore e Paura.

Gli era sacro la pica fra gli uccelli, il lupo fra i quadrupedi, e la gramigna fra 1’ erbe. Anche il gallo consacrato era a Marte per questo motivo. Aveva il nume, per assicurare il segreto dei suoi furti amorosi con Venere, posto Alettrione a custode. Il giovinetto si abbandonò al sonno, e lasciò sorprendere da Vulcano i due amanti. Sdegnato il dio lo converse in un uccello del suo nome, giacché Alettrione in greco significa lo stesso che gallo, e porta ancora la pena della sua negligenza e del rossore di Marte, annunciando ai mortali il giorno col batter dell’ ali e col canto. Così la religione fantastica desrli antichi animava tutta la natura, spiegandone gli effetti con dei sogni cari all’umana debolezza.

Adoravasi Marte particolarmente dai Traci, ed in Lenno ostie umane gli erano sacrificate. L’urna nità abolì col tempo questa barbara usanza, e furono sostituite altre vittime nei verri, quantunque il cavallo per la simiglianza della ferocia fosse di lui propria offerta.

Si annovera fra i vanti del dio 1’ aver dato il nome a quel luogo celebre in Atene per la santità dei giudizi, che Areopago si disse. Dicesi che Marte accusato di avere ucciso Alirrozio figlio di Nettuno, perchè violar voleva Alcippe sua figlia, difese con successo la causa della sua vita alla presenza di dodici Dei, e ne fu per comun suffragio assoluto.

Omero narra varie cose intorno al nume, le quali è prezzo dell’opera il ridire, giacché della storia di esso sono gran parte. Oto ed Efialte figli di Aloeo con catene di bronzo legato lo tennero per tredici mesi, e perito forse sarebbe se di questa disavventura non fosse stato fatto accorto Mercurio, che con le arti usate lo tolse di furto.

Ascalafo figliuolo di Marte, che comandava ai Beoti, nell’assedio di Troia ucciso cagionò al nume tanto dolore che senza temere l’ ira di Giove, il quale avea vietato agli Dei il prender parte in favore, contro i Troiani, ordinò al Furore e alla Fuga di apprestare il suo carro e prendere le sue armi rilucenti. Era egli per accendere nell’animo di Giove terribile furore se la dea Minerva non lo avesse ra:?2:iunto. Gli trasse l’elmo, lo scudo e l’asta, ed in un tuono pieno di asprezza gli disse: Furioso ed insensato che sei, non conserverai piiì alcuna reverenza pel re degli Dei, e ti sei dimenticato il suo comando? Frena la collera che t’ inspira la morte del figliuolo. Anche dei più prodi di lui hanno già morsa la polvere, o la morderanno ben tosto: È forse possibile nei sanguinosi combattenti di salvare dalla morte tutti i figliuoli degl’Immortali? — Nel terminare queste parole ricondusse Marte.

Favoriva Marte i Troiani contro la parola che ne avea data a Minerva stessa, onde la dea suscitò Diomede a pugnare contro lo stesso dio della guerra. Appena lo ebbe Marte veduto che la lunga asta contro gli diresse, ma la dea ne fé’ andare il colpo a vuoto. Diomede, al contrario, coU’asta guidata da Minerva penetrò ben avanti al di sotto le coste, e ferì il corpo divino. Marte nel ritirarla gettò un grido spaventevole, quale è quello di un’intera armata che segue il nemico. In mezzo ad una nuvola di polvere s’inalzò verso l’Olimpo, e col core oppresso dal dolore mostrò a Giove il sangue immortale che scorreva dalla ferita, lagnandosi di Diomede e di Minerva, che tanto gli aveva fatto osare. Giove guardandolo con occhi pieni di collera: Incostante e perfido, gli disse, fra tutti gli Dei che abitano 1’ Olimpo tu mi sei il più odioso. Tu non provi altro piacere che quello della discordia e delle guerre. — Pure, essendo suo figlio, ordinò al medico degli Dei che lo sanasse. Peone pose sulla sua ferita un balsamo eccellente che lo risanò senza, fatica; che nulla è di mortale in un Dio.

Omero nell’Odissea racconta gli amori del nume con Venere. Tutti gli Dei, come vi esposi nella passata Lezione, risero dell’incauta trama di Vulcano. Nettuno, il più severo, pregò istantemente lo zoppo fabbro a slegare Marte promettendogli in suo nome un’intera soddisfazione. Vulcano alla parola dell’imperator dell’acque sciolse quei lacci maravigliosi. Liberati gli amanti, volò Venere in Pafo, e Marte nella Tracia. Palefato spiega questa favola dicendo che Sol figliuolo di Vulcano re di Egitto volendo far osservare con tutto il rigore la legge promulgata da suo padre contro gli adulteri, ed essendo stato informato che una dama della sua corte avea commercio impudico con un cortigiano, entrò di notte nella sua casa, ed avendola sorpresa coll’amante castigolla severamente, cosa che conciliò al principe tutta la benevolenza del popolo. L’equivoco del nome di Sol e Sole, dice questo autore, ha potuto dar motivo alla favola di Omero. Dare un senso istorico alle favole è impresa pericolosa, e dubito che Palefato troppo del suo sistema si compiacesse.

Varii cognomi sortì Marte dagli antichi. Dio comune fu detto; e fra i diversi motivi di questa appellazione il più probabile è quello di Servio, che lo vuole derivato perchè nelle guerre or l’ una or l’altra parte favorisce. Gradivo e Quirino presso i Latini furono i due principali nomi di Marte. Il primo gli davano quando era tranquillo; il secondo quando nelle armi infuriava. Leggiamo che avesse due templi: il primo nella città col titolo di Quirino, come della pubblica sicurezza custode; il secondo fuori della città vicino alla porta, quasi per allontanare i nemici. Fu detto Enialio da Enio, la quale è lo stesso che Bellona, ed è del nume sorella, come ad altri piace, genitrice. Il tempio di Marte Ultore, o Vendicatore, in Roma, fu dedicato da Augusto dopo la battaglia di Filippi, nella quale questo fortunato usurpatore vinse nelle pubbliche armi di Cassio e di Bruto la libertà dell’ universo.

L’osservazione di Vitruvio che ordinariamente i templi di Marte erano fuori delle mura, onde nel popolo dissensione non nascesse, è smentita dall’istoria, giacché dentro le mura di Alicarnasso e di Roma stessa vi erano templi consacrati al dio della guerra. I soli sacerdoti di Marte formavano in Roma un collegio detto dei Salii. Mi riserbo a favellarne nelle mie Lezioni sull’istoria di tanta nazione.

Conviene adesso indagare nei monumenti le maniere nelle quali fu Marte rappresentato. Marte armato di una sferza come vendicatore, si trova sopra delle medaglie; in alcune altre si vede colla lancia e col caduceo, come arbitro della guerra e della pace. Qualche volta egli è rappresentato sopra una biga condotta dai suoi figli il Terrore e la Fuga. Una sola figura del Palazzo Borghesi lo mostra con un anello alla gamba, alludendo forse alla favola accennatavi della prigionia fattagli soffrire dai figli di Aloeo, o alla maniera dei più antichi Greci che aveano costume di effigiarlo coi piedi incatenati. Gli Spartani adducevano in ragione di questo uso di figurarlo, il vano timore che gli abbandonasse.

Vedesi con un olivo in mano il Marte Pacifero in un rovescio di una medaglia dell’imperator Massimino. E così pretesero, come osserva il senator Buonarroti, di adulare questo imperatore nelle sue maggiori crudeltà, e in quella sua massima tirannica accennata da Capitolino, che senza crudeltà non si manteneva l’Impero.

Marte che va presso Rea Silvia, origine favolosa del potere di Roma, era rappresentato sugli elmi dei soldati romani.

« Marte vien generalmente rappresentato, dice Winkelmann, come un giovine eroe, e senza harba: del che pur ci fa fede un antico scrittore. Ma un Marte, qual lo vorrebbe il signor Vatelet, di cui ogni minima fibra esprimesse la forza, il coraggio, il fuoco che a lui conviene, non trovasi certamente fra tutti i lavori degli antichi. Le due più belle figure di questo dio. soqo una statua sedente coll’Amore ai piedi nella Yilla Ludovisi, ed un piccolo Marte su una delle basi dei due bei candelabri di marmo, che erano dianzi nel Palazzo Barberini: ambedue sono in età giovanile, e tranquilla n’è la positura e l’atteggiamento. Vedesi pur cosi efìSgiato sulle monete e sulle gemme. »

Da questa osservazione di Winkelmann forse il conte Rangiaschi nella Dissertazione sul Marte Ciprio ha pensato che dalla barba di Adriano, il quale nell’immagine del dio della guerra è rappresentato in una statua del Museo dementino, siano derivate le immagini di Marte barbato, una delle quali è il chiamato Pirro del Campidoglio. Ma Quirino Visconti ha osservato che non solo le monete greco-italiche, ma alcune d’oro della Repubblica romana offrono la testa barbata di Marte colla medesima fìsonomia.

Udite da Stazio la descrizione della reggia di Marte, alla quale Giove manda Mercurio per movere alla guerra gli abitanti d’Argo nella famosa impresa dei Sette a Tebe, della quale favellerò a lungo quando l’ordine delle mie Lezioni mi condurrà a trattare dell’ isterica mitologia. Io ho tradotto questo episodio della Tebaide, il quale è pieno di bellissime immagini, come lo concedono le mie forze.

Vide i principi: della Tiria guerra
Giove, e scotendo la divina testa
Onde treman le stelle e grida Atlante,
A Mercurio dicea: Va, vola, o figlio.
Nelle Tracie contrade, e se deposta
Ha Marte l’asta, o se le trombe e l’armi
Move, e nel sangue della cara gente
S’inebria, annunzia a lui l’ira paterna;
Precipiti le pugne, e d’Argo solo
Fra le tacite strade errin le madri, —
Disse, e l’alato messagger già stava
Sulle Tracie contrade, e mentre varca
L’Orsa gelata, con error diverso
Lo trae del loco la tempesta eterna.
Schiere di nubi contro il cielo opposte
E’I primo soffio d’Aquilon: per molta
Grandin risuona la dorata veste,
E mal protegge la difesa alata
Il divin capo: fra sterili boschi
Sorger vede di Marte il tempio, e trema
In rimirarlo. Opposta ad Euro giace
L’implacabile casa, e i suoi furori
Le fan corona. Son di ferro i muri,
E di ferro le soglie e le colonne.
Quivi i suoi raggi perde il sole, e fugge
L’atre sedi la luce inorridita:
Degna del loco è la custodia: al primo
Ingresso al forsennato Impeto balza,
La colpa cieca, con acceso volto
L’Ira, e il Timore con la faccia smorta.
Vi stan l’Insidie con i brandi ascosi,
E doppio ferro la Discordia vibra;
Per minaccio infinite urla ia reggia.
Mestissima Virtù siede nel mezzo;
Lieto è il Furor; con sanguinosa faccia
Siede la Morte armata, e sopra l’are
Fuma sangue di guerra, e sol vi splende
Un fuoco alle cittadi arse rapito.
Stan le spoglie del mondo intorno intorno,
E le cime del tempio ornan le genti
Debellate. Nel ferro eran scolpite
Spezzate porte, le guerriere navi,
I vóti cocchi, i calpestati volti
Dai cocchi stessi, e quasi odi le grida,
Le ferite, i lamenti; e Marte in mezzo
Urtar le file, e comandar le stragi:
Sì di Vulcan l’arte divina espresse,
Che a lui mostrato l’adulterio illustre
Anco il Sol non avea: cercava appena
Mercurio il re del tempio, allor ch’il suolo
Tremò repente, e ripercosse indietro
Tornaro le mugghianti onde dell’Ebro:
I cavalli nitrir sparsi nei prati:
Segno al nume vicin, stridon le porte
Di perenne adamante. Ecco ritorna,
^E le belle ire del valor guerriero
Ha nel volto; di sangue Ircano è lordo
II manto, ed il crudel spruzzo del carro
Cangia il color dei larghi campi; a tergo
Porta trofei rapiti e squadre in pianto:
Cedon le selve, e la profonda neve
Dà loco. Regge con la man sanguigna
L’atra Bellona i suoi cavalli, e stanca
A lor con l’asta il polveroso tergo.
Sol per la vista la Cillenia prole
Tremò: Terrebbe anche il terrore a Giove
Le minacele e i comandi. A lui diceva
Marte il primo: dal ciel che rechi? a questo
Cielo, alle nevi mie, certo non vieni
Volontario, o fratel: d’Arcadia i colli
Questi non sono per rugiada lieti,
Nè del Liceo l’aura clemente. — Il Nume
Gli fa risposta dei paterni cenni,
E Marte non dimora, e volge indietro
I volanti destrieri, ancor che fumi
Loro il sudor sull’anelante collo.
Odia dei Greci i tardi sdegni: il padre
Dall’alto il vede: ira minor dà loco
A tardo senno, e volge indietro il volto:
Come Euro, se le vinte onde abbandona.
Freme la stessa pace, e il mar spianato
Sempre commove la procella stanca,
Non han le navi ogni lor vela, ancora
Stringonsi al remo i naviganti, e rende
Contrastato pallor le guancie incerte.
Stazio, Tebaide, lib. 7.

Lezione trentesimaprima.
Cerere. §

Fra le figlie di Saturno e di Rea bellissima fu Cerere, onde Giove, che coi domestici stupri cercò diminuire le cure del regno, come è costume dei potenti, insidiò ancor questa fra le sorelle, e n’ebbe Proserpina, eterno dolore della madre, e regina delrinferno. Non vi è cosa più potente di un esempio illustre, onde la colpa ne’ grandi è maggiore perchè ne persuade infinite agli schiavi, che fanno lor gloria d’imitar il tiranno ancora negli errori. Prese ardire Nettuno dal delitto fraterno, violò anch’egli Cerere, e n’ebbe una figliuola che i Greci stimavano sacrilegio il nominare. Pausania lasciò scritto nel Viaggio in Arcadia che Here chiamavansi essa e la madre. Vi furono alcuni che dall’incesto di Cerere dissero nato un cavallo, onde favoleggiossi che fra vergogna ed ira divisa nere vesti prendesse, ed in oscurissima spelonca nascosa fuggisse la luce del cielo e l’aspetto degli Dei. Tutti i frutti della terra perivano, sterminava la peste gli uomini e gli animali, e i numi invano cercavano dove la dea dell’agricoltura si fosse celata. Pane errando per la caccia nell’Arcadia scoperse l’antro custode di tanto pegno, lo indicò a Giove che mandò le Parche a Cerere perchè la giusta sua collera deponesse. Alcuni attribuiscono questo evento al ratto di Proserpina, che infinita tristezza cagionò alla diva.

Cerere discendendo dagli Dei ai mortali amò Jasione figlio di Elettra e di Giove, come attesta Omero nel quinto libro dell’ Odissea17. Terra che tre volte avea sofferto le ferite dell’aratro fu letto agli amanti: ma il padre degli uomini, non soffrendo nel suo figlio un rivale, col fulmine l’uccise. Lo Scoliaste di Teocrito vuole che da questo amore infelice nascesse Pluto, il dio delle ricchezze, che cieco finsero gli antichi, volendo indicare che l’oro toglie la luce dell’intelletto a chi lo possiede, a chi lo cerca. Abitò Cerere in Corcira, o Corfù, la quale innanzi che la figlia di Asopo ivi sepolto le dasse il suo nome, si chiamò Drepano dalla falce di Saturno, come è la più comune opinione, o da quelle che Cerere fé’ fabbricare a Vulcano onde il modo di mietere agli uomini insegnasse. La Sicilia tutta pure le è sacra, e Cerere fidandole incautamente la figlia, la preferì al Cielo. Il diverso viaggio che fece per ritrovarla così descrisse l’ Ariosto in questi versi divini:

« Cerere, poi che della madre Idea
Lasciata in fretta la solinga valle
La figlia non trovò dove l’avea
Lasciata fuor d’ogni segnato calle,
Là dove calca la montagna Etnea
Al fulminato Encelado le spalle.
Fatto ch’ebbe alle guancie, al petto, ai crini.
Agli occhi danno, alfin svelse due pini.
E nel foco gli accese di Vulcano,
E die lor non potere esser mai spenti,
E portandosi questi uno per mano
Sul carro, che tiravan due serpenti.
Cercò le selve, i campi, il monte, il piano,
Le valli, i fiumi, gli stagni, i torrenti,
La terra, il mare; e poiché tutto il mondo
Cercò di sopra, andò al Tartareo fondo. »
Orlando Fur., Canto 12, St. 1, 2.

Andando in traccia della figlia pervenne ad un castello di cui era signore Eleusio, cui la moglie Jona avendo partorito Trittolemo cercava una nutrice. La dea si offerse per questo ufficio, ed il fanciullo nutrito di latte divino maravigliosamente cresceva. Ammiravano i genitori la robustezza del fanciullo, e loro cadde in pensiero di osservare gli andamenti della nutrice. Scorse il padre fra le tenebre in agguato, che la donna lo nascondeva fra le fiamme; gridò, e Cerere irata a lui tolse la vita, al figlio diede un carro tratto dai serpenti, perchè agli uomini insegnasse la maniera di seminare le biade.

Altri narrano la stessa avventura di Celeo, soggiungendo che fu padre di Trittolemo, e che amendoe furono da Cerere nella mentovata arte dottrinati. Ed ancora altre opinioni vi sono, che saranno da me accennate quando vi leggerò l’Inno su Cerere ad Omero attribuito, che fu scoperto dal Mattei, e dal Runchenio pubblicato. Potè coll’aiuto di questi versi il celebre Visconti dare la spiegazione del basso rilievo di una patera non ancora compreso. Tanto è vero che gli antichi artefici si formavano sui poeti, perciò con loro dividono la gloria di serbarci la religione e la storia delle nazioni.

L’Agricoltura e la Legislazione hanno avuta un’origine quasi comune, perchè l’invenzione dell’una necessitò lo stabilimento dell’altra. Quindi è che gli antichi attribuivano la gloria di tutte due a Cerere, che i Latini confusero da principio con Rea, la Terra. Distinta da questa, ella fu nonostante chiamata la regina di tutte le cose, la distributrice di tutte le ricchezze, la madre di tutte le piante e di tutti gli animali; finalmente ella ebbe una folla di epiteti consimili, che l’autore degl’Inni, falsamente attribuiti ad Orfeo, ha riuniti. In conseguenza i monumenti danno a Cerere tutti gli attributi relativi alle messi ed alla cultura della terra. Ora vi è coronata di spighe di grano; ora molte ne tiene nella mano; altre volte un fanciullo ne offre in un vaso alla dea assisa, che ha un velo sulla testa e tiene un’asta. Ella porta ancora la cornucopia, e dei piatti di frutti.

Giove avendo promesso a Cerere che Proserpina sua figlia starebbe seco sei mesi, ricomparve la tranquillità sul suo volto, intralciò con le spighe i capelli, e la raccolta fu sì abbondante che i granai non poterono contenerla. E facile d’immaginare dopo questa tradizione tutti gli epiteti, dei quali il nome di Cerere è accompagnato presso i poeti greci e latini. Son troppo conosciuti per fermarvisi, e servirà di notare che l’uso di rappresentare la dea con le spighe di grano le avea fatto consacrare il segno della Vergine, essendo la spiga un bell’astro di questa costellazione. Non solo i templi di Cerere erano ornati di fasci di spighe, ma degl’istrumenti ancora della mietitura. Si poneva la maggior parte di questi edifìzi fuori delle città, sia perchè la divinità alla quale erano sacri presiedeva ai lavori della campagna, sia, come pretende Vitruvio, che i costumi semplici e puri degli abitanti fossero analoghi alla loro situazione.

Cerere, soprannominata Nutrice, è stata rappresentata con due fanciulli che tengono il corno dell’abbondanza, e ciascuno è posto presso una delle sue mammelle. Questa attitudine le conveniva, supponendosi che avesse somministrato agli uomini il loro principal nutrimento, il pane stesso, divenuto suo simbolo sopra molti monumenti. Ovidio, Virgilio, e un gran numero di poeti latini si sono serviti del nome di Cerere per significare il pane. Si faceva onore di tutto ciò che si referisce all’agricoltura a questa divinità, e ai suoi primi allievi. Così lo staccio non poteva essere a meno che consacrato non le fosse; infatti lo porta sopra molti monumenti.

Differiva poco dalla forma del calato, col quale si è qualche volta confuso. Il primo rassomigliava a un cilindro, e si trovano di questa forma nelle vicinanze di Palestrina; il secondo oflriva la figura di un gran vaso, del quale l’ apertura è larga. Quando se ne servivano nelle feste di Minerva era ripieno di lana, perchè questa dea, come vi accennai, aveva insegnata l’arte di lavorarla. Al contrario in quelle di Cerere il calato, o canestro, rinchiudeva dei fiori, e così diventava il simbolo della Primavera, come quello dell’estate quando era ripieno di spighe. Una statua di Cerere trovata nelle rovine di Eleusi offre questa dea col calato sulla testa.

Il papavero era un simbolo della fecondità, ed è per questa ragione che sopra alcune medaglie si vede Cerere con delle spighe di grano, in mezzo delle quali si scorge una testa di papavero. Il serpente che è, per così dire, figlio della terra, doveva esser caro a Cerere, ancora che non si riguardasse con essa sotto relazioni misteriose: così si vede circondata da questi rettili tortuosi, e il suo carro n’è qualche volta attaccato, ed ordinariamente eglino hanno l’ali. Apuleio gli riguardò come i servi della dea, che si rappresentava ancora tirata da cavalli, o da buoi. La dea stava in piedi sul suo carro, teneva da una mano le redini, dall’altra una fiaccola, che in origine non era che un pezzo di pino. N’era rigorosamente prescritto l’uso nelle cerimonie del culto di Cerere. Le offrivano delle vitelle, e qualche volta è rappresentata con. una testa di toro. Quantunque tutto questo possa aver relazione ad Iside modello di Cerere, io non penso che questa maniera di rappresentare la dea greca sia tanto antica.

Noi vediamo ancora nei monumenti antichi Cerere tenente della mano diritta una testa di montone, animale che le sacrificavano. Ma il porco era l’offerta più comune, e comandata nei sacrifizii ordinarli, misteriosi. Però si vede nelle medaglie romane Cerere con una fiaccola da ambedue le mani, e con una troia ai piedi.

Degli altri simboli e maniere di rappresentare Cerere, e di tutte le altre cose interessano la storia ed il culto di questa divinità famosa, parlerò nelle seguenti Lezioni. Nè sarà per me omesso di trattare delle feste di lei e dei misteri Eleusini, i quali, sui teatri stessi rappresentati, non possono che interessare la vostra curiosità. Non perdonando alla fatica pel vostro vantaggio, ho tradotto il poemetto di Claudiano sul ratto di Proserpina, che può prestare tante immagini al pittore. Ne distribuirò la lettura nei diversi ragionamenti sopra Cerere, Udite intanto parte del primo libro:

Il ratto di Proserpina.

Lungi, profani: io piiì mortai non sono,
E di Febo il furor mi agita il petto.
Nelle sedi tremanti il tempio crolla;
Luce si sparge per l’aeree cime,
E annunzia il dio; freme la terra, e l’antro
Cecropio mugge: le sue faci inalza
Eleusi: già dall’ incurvato giogo
Di Triptolemo i serpi alzano il collo
Squammoso, e sibilando ai nostri carmi
Tranquillamente la rosata cresta
Ergono. La variata in tre figure
Ecate appar: con lei Bacco procede
Festante: l’edra gli circonda il crine:
La tigre il vela, e in un sol nodo accoglie
L’unghie dorate: col meonio tirso
Regge l’orma mal certa. Dei, cui serve
L’inerte volgo dell’immenso Averno,
Pei quai si dona alle ricchezze avare
Ciò che pere nel mondo, e che circonda
Livida Stige, sacramento ai numi.
Tre volte, e scorre coi suonanti flutti
Flegetonte, e anelar sembra nel corso,
I penetrali delle sacre cose
Apritemi, e del ciel vostro i secreti,
E narrate con qual face l’amore
Trionfò dell’inferno, onde rapita
Proserpina il dotai Caos possiede:
Dite l’error della delusa madre,
Alma inventrice delle bionde spighe,
Con che mutossi la Dodonia querce.
D’Erebo il re d’ira orgogliosa in petto
Arse, e ai celesti meditò la guerra.
Perchè, dannato a steril vita, ignora
Dolcezza di marito, e non ascolta
Nome di padre Dall’abisso in torma
Escono tutti dell’Averno i mostri.
Contro il Tonante congiurate stanno
Le Furie, e scossi i sibilanti serpi,
Tesifon vibra risonante pino
Acceso in Flegetonte, e l’ombre armate
Nelle pallide tende accampa. Un’altra
Volta avrian rotta gli elementi in guerra
L’antica fede del concorde mondo,
E della terra ai liberati figli
Sarebbe giunta la negata luce.
E contro il fulmin cento braccia opposte
Briareo sanguigno. Le custodi Parche
Le minacele vietar del re di Dite.
Avanti il soglio del severo capo
Sparsero la canizie, indi i ginocchi
Supplicanti abbracciar, non senza pianto,
Con quelle mani per cui trema il mondo
E serve; che dei fati il lungo stame
Filano e stanno sulle ferree rocche
I secoli ravvolti. Al re gridava
Lachesi la primiera, e orrore al volto
Crescean le sparse chiome: della notte
Arbitro, o sommo imperator dell’ombre.
Per cui corrono sempre i nostri fusi.
Che, di tutto principio e fin, compensa
Con le veci di vita alterna morte,
Per cui s’avviva la materia, ei corpi
Vestono l’alme che han principio in Lete,
Perchè tenti far forza e l’alte leggi
Che i nostri stami ordirò, ed i fraterni
Patti turbando, con civile tromba
Empie insegne sollevi, onde ai profani
Giganti sian del ciel le strade aperte?
Dimanda a Giove una consorte, e Giove
Non fia che a te la neghi. — Udì le preci
Il re di Dite, e n’arrossì: l’atroce
Indocil’alma illanguidiva, eguale
A Borea allor che di pruine armato
L’ispido mento e le sonanti penne
Innanzi al suo furor l’onde e le selve
Soffiar desia; ma se le ferree porte
Eolo gli oppone, si dilegua il vano
Impeto, e tornan ripercosse indietro
Le sonore procelle agli antri loro.
Quindi comanda che di Maja il figlio
Si faccia innanzi, onde gli ardenti detti
Riporti a Giove. La potente verga
Scotendo, fassi il messaggero alato
Innanzi al dio, che sopra il soglio assiso
Sta, per atroce maestà, tremendo.
Squallido scettro colla man sostiene,
E mesta nube la sublime testa
Aspreggia, e tutta la crudel sembianza
A cui cresce terrore il duol; la bocca
Solleva e tuona: al suon del lor tiranno
Taccion gli abissi impauriti, e frena
Cerbero nelle gole il suo latrato.
Delle lacrime chiuso il fonte stagna
Oocito, e muta d’Acheronte è l’onda.
Nè più coll’infìammate onde flagella
Flegetonte la riva. — O tu d’Atlante
Tegeo nipote, deità comune
A Dite e al ciel, che l’una e l’altra soglia
Puoi varcar solo, e che del doppio mondo
Formi il commercio: va, dividi i venti
Nell’agil corso, ed al superbo Giove
Reca i miei cenni. E chi ti die tal dritto,
dei fratelli il più crudel? Non tolse
La rea fortuna a me col ciel le forze
E l’armi? forse oppresso e vii mi stima
Perchè non stringo dei Ciclopi i dardi,
E col tuono le vane aure deludo?
Non ti basta che sola è mia la notte,
Ch’ ultimo nella sorte io sol possiedo
Informi spiaggie, e te di luce il cielo
Cinge, e calpesti con altero piede
Gli altri sosro’etti, che d’Imene ancora
Mi vieti i dritti? E pur nel glauco seno
Anfìtrite Nettuno accoglie, e posi
Tu dal fulmine stanco in grembo a Giuno.
Gli ascosi furti tacerò di Temi
E di Cerer gli amplessi, onde di figli
Beata turba ti corona. Io traggo
Oscuri giorni in solitaria reggia,
Nè verun pegno dell’eterne cure
Eia conforto? Soffersi assai per questa
Pace infernale: dell’antica notte
1 principi ne attesto, e te di Stige,
Pallor del cielo, inviolato flutto.
Se Giove non consente, a nuova guerra
Trarrò l’aperta Dite, e di Saturno
Fransfere io vosrlio le catene antiche:
Sarà disciolto l’universo: il cielo
Si unirà coll’abisso, e tìan confuse
Tenebre e luce. — Sì parlò lo dio.
Mercurio gli astri occupa già; l’ascolta
Giove, e rivolge nella sacra mente
Vari pareri: del richiesto nodo
Qual sarà il frutto? e chi col puro sole
L’ombre di Stige Gambiera? Piaceva
Alfin questo consiglio al senno eterno.
A Cerere fioriva unica e cara
Figlia (altra prole le negò Lucina)
Ma più d’ogni altra madre era superba:
Del numero così compensa il danno
Proserpina alla dea cura primiera.
Sì giovenca non ama il suo torello
Che calca appena la minuta arena
Col pie mal fermo, e non ha curvo ancora
Il nuovo onor della lunata fronte.
Già la matura giovinetta in core
Sente la fiamma d’Imeneo, che detta
Al tenero pudor timidi voti.
Suona la reggia pei rivali proci:
Chiedon le nozze a gara e Febo e Marte:
Rodope il primo, l’Amiclee contrade
Doma il secondo, e Delo e i Clari tetti.
Vuol Proserpina in nuora, emula Giuno
Dell’altera Latona: ambe le sprezza
Cerere bionda, e il suo pegno commenda,
Ahi: cieca del futuro, ai campì Etnei,
Infidi lari alla commessa figlia.

(Seguita nella Lezione vegniente).

Lezione trentesimaseconda.
Dei simboli coi quali vien rappresentata Cerere. §

Altri simboli sui monumenti ove Cerere vien rappresentata si scorgono ed è prezzo dell’opera l’annoverarli onde maggiormente si manifesti quanto i pensamenti dei poeti, primi teologi delle nazioni, abbiano degli artefici guidata la mano.

L’istinto che ha la formica di riunire il grano l’avrà fatta porre nell’opere a Cerere relative. Una rappresenta questo insetto ai suoi piedi, l’altra al suo carro lo aggiunge. I galli piacevano a Cerere, ed uno si mira sul modio, o moggio di lei, stringere nel becco un topo, considerato con ragione come il nemico della dea delle biade. Ecco la ragione per la quale si trova nel rovescio di molte medaglie che hanno una spiga di grano, sulla quale siede uno di questi animali. Le gru passavano ancora per fedeli interpreti di Cerere, e le erano con sacrate. L’immaginazione degli artisti, poco contenta dei simboli adottati nel principio dal popolo, ne ha creati grandissimo numero di altri, che ad altra divinità possono riferirsi. Eglino hanno dato a Cerere le hilancie, verisimilmente per l’invenzione delle leggi, e il timone perchè governa col loro soccorso l’Universo: quindi è ch’effigiata l’hanno sedente sul globo. Lo scettro ed il fulmine ch’ella tiene, sono segni di possanza, che comuni le sono con altri numi. Similmente la vittoria ch’ella ad Enna portava, e che si vede ancora sopra alcuni monumenti non è particolare attributo di lei; e non può essere che l’offerta di capitani che abbiano creduto doverle dell’armi loro la fortuna. La palma, la corona di lauro altra origine non hanno; ed il leone, che sulle ginocchia della dea si vede, parmi alludere alla sua identità con Cibele, o la terra, della quale era simbolo speciale. A Figalia città dell’Arcadia Cerere era vestita di nero, con un delfino in una mano, con una colomba nell’altra, lo che accennava i mal graditi abbracciamenti di Nettuno, e il dolore in cui l’immerse Plutone rapitore di Proserpina, eterna cura della dea.

La diversità delle opinioni mitologiche doveva necessariamente accrescere e variare dei simboli l’uso. Questo s’introdusse col tempo, e nella più remota antichità Cerere non ebbe tutti questi attributi: le statue di lei non furono che informi pietre, legni, come quelle di tutte le divinità più famose. Questa forma fu conservata a Cerere sotto il nome di Paria, o Egiziana, perchè poco da Iside differisce, o sia per accennare che deve lo stabilimento della sua religione alle colonie egiziane. I progressi dei Greci nelle arti fecero loro abbandonare rapidamente l’uso di quelle masse informi, di quelle figure mostruose, e di quelli atteggiamenti sforzati che caratterizzano l’antico stile egiziano. Cercarono nel principio d’imitare con fedeltà maggiore la natura: poi s’inalzarono fino all’idea del bello ideale. Ogni accessorio fu bandito, e non fu dato ai numi che il loro simbolo principale. Cangiò il gusto, l’unità fu in conseguenza trascurata, l’arcbitettura fu oppressa dagli ornamenti, la scultura dagli attributi simbolici. Innanzi questa epoca si vede Cerere espressa con un velo che cade sulla parte posteriore della veste di lei: porta un alto diadema, dal quale escono di sopra foglie e spighe. Quella parte di capelli, che non è nascosa, con felice disordine adombra la fronte. Qual variazione fatta non si era ai tempi di Albrico: Cerere dal dolore distinta viene indicata con l’abito di una vecchia contadina seduta sopra un bove: ella portava, ed aveva al braccio un canestro ripieno di sementa. Dai lati erano due agricoltori, dei quali uno arava, l’altro seminava. Yi si attribuisce pure a Cerere una falce, un flagello. Quante cose inutili: che grossolana maniera: era senza dubbio destinata tal pittura ad ornare qualche miserabil capanna.

Quando non si può esprimere con un sol tocco una grande idea, si ricorre agli accessorii, si moltiplica i simboli, e diviene tutto enimma e confusione. Tale è la statua di Cerere con ali, che hanno neir estremità un raggio coi sette pianeti. La dea tiene due cornucopie, delle quali escono due figure allegoriche. Stanno sulle braccia di lei Castore e Polluce: sta in piedi accanto ad un altare con una patera nella mano. Chi cercherà la spiegazione di questo monumento? E un poco meno difficile di penetrare il senso allegorico di un altro, che ofi’re la fisrura di Cerere fra due alberi carichi di frutta. Si vede a destra Giunone dea delle nuvole, che sparge la pioggia sulla terra arata; a sinistra Apollo, cioè il Soie, che secca il grano vicino alla mietitura. Importava egli riunire tre divinità per esprimere un’ idea tanto comune? Dei secoli barbari è tutta propria questa maniera. Spanemio crede che la Pace rappresentata sopra le medaglie con spighe nella mano, da Cerere non differisca.

Che che ne sia di questa congettura, egli è certo che grande amicizia regnava fra le dee. Perciò Cofìsidoro immaginò di fare una statua della Pace, che avesse in seno il giovine Pluto figlio di Cerere. L’allegoria divien sensibile pei racconti di Esiodo e di Omero.- Dicono essi che questo dio delle ricchezze fu il frutto degli amori di Cerere con Jasione. Gli scrittori seguenti hanno aggiunto a questa favola circostanze, che non la rendono nè più facile, nè più ingegnosa. Gli storici che dell’allegoria scrissero, hanno dato a questo racconto il senso il più semplice ed il più vero. Petellide di Cnosso assicurava che Pluto ebbe il fratello Filomelo, che in lite col maggiore ed al puro necessario ridotto. comprò con quel poco che gli restava dei bovi, inventò l’aratro, ed ebbe dalla fatica sussistenza migliore. Ammirando Cerere il ritrovato di lui, lo rapì, e lo pose nel cielo fra le costellazioni sotto il nome di Bifolco. Questa favola non mi sembra così antica come la precedente, ma l’allegoria rinchiude in sé un’eguale evidenza. La fatica è di compenso al povero per le ricchezze, e somministrandogli il modo di soddisfare alle necessità della vita, può fargli disprezzare, se è savio, i doni della Fortuna.

Questa dea era lo stesso che Cerere, secondo Dione Crisostomo. Infatti sopra alcuni monumenti ha le spighe ed altri simboli a Cerere convenienti. Forse questa parità fu immaginata per mostrarne l’incertezza delle raccolte, e per farci comprendere ohe tutte le ricchezze sono figlie della terra. Eschilo ];el principio della sua tragedia delle Eiimenidi fa comparire la Pitia che parla in questi termini: Offriamo i nostri oma^^sri innanzi alla Terra che la prima fra gli Dei qui rese i suoi oracoli; in seguito a Temi che a sua madre nel santuario profetico successe. Per la cessione libera e volontaria di lei, Febe sua sorella ne divenne la terza sovrana, ed ella alla nascita del suo nipote gliene fece un dono, e gli diede il cognome di Febo. —

Apollo fu dunque il quarto che rispose gli oracoli, i quali erano le sole leggi dei primi greci. In conseguenza non è maraviglia che Cerere sia stata presa per la Terra e per Temi, e tutte e tre dovevano necessariamente avere simboli comuni. E da notarsi che i Greci considerando Cerere come la terra chiamavano i cadaveri demetrii (grecsignifica Cerere) senza dubbio per la natura del corpo umano, e per la maniera nella quale è decomposto, piuttosto che distrutto dopo la morte. Ciò può aver dato luogo alla favola, la quale suppone che Cerere divori la spalla di Pelope, alla quale ne fu sostituita un’ altra di avorio. Non è difficile comprendere il senso dell’ allegoria, la quale indica la consumazione dalla terra del nostro corpo, che conserva più lungamente le ossa dall’avorio significfite.

Conviene adesso accennare brevemente il ratto di Proserpina, uno dei principali avvenimenti della storia di Cerere. Ai primi poeti, e fra gli altri Fante, che viveva innanzi Omero, fu argomento. I pili grandi artisti, specialmente il celebre Prassitele, rappresentarono questo fatto inciso ancora sulle medaglie di molti popoli della Sicilia e dell’Asia Minore. In un basso rilievo antico si vede Plutone che rapisce Proserpina malgrado le dissuasioni di Minerva. Mercurio, utile in questa intrapresa, precede il carro del rapitore, e sembra voler consolare la figlia di Cerere. Questa composizione allegorica può essere dei bei tempi della Grecia, perchè è semplice, e per intenderla non vi abbisounano iscrizioni, come in un monumento da Winkelmaun pubblicato. In quello si vede sopra una colonna la Persuasione; sotto i piedi di lei Venere seduta, che ha sulle ginocchia Paride che l’abbraccia: innanzi a questa sta Amore ohe guarda Paride, e gii pone la mano sulla spalla. Sarebbe stato impossibile l’intenderne il soggetto se l’artista non avesse distinti coir iscrizione i personaggi, ai quali non ha dato nè espressione, nè attributi che possano fargli conoscere.

Ritornando al ratto di Proserpina io non credo antichissima l’ idea di fare trasportare il carro di Plutone da dei cigni, o da cavalli guidati dall’Amore, come si vede in due gemme del Museo Stosciano. E mi si conceda di portare lo stesso giudizio sulla rappresentazione dello stesso soggetto sotto il quale si vedono i dodici segni dello Zodiaco, lo che si riferisce alle relazioni immaginate più tardi fra la favola di Proserpina ed il sistema astronomico.

Il ratto di Proserpina.
(continuazione).

Etna al Cielo anteponi tanto si fida
Nell’ingegno del loco: Un dì fu parte
L’Etnea contrada degli Ausonii campi:
Cangionne sito la tempesta e l’onda;
Ma Nereo vincitor ruppe il confine,
E passa in mezzo alli spezzati monti,
E breve spazio l’amistà disgiunge
Delle terre compagne. Or lei rapita
All’Italia, natura all’onde oppone
Con triplicati scogli. Indi Pachino
Ver l’Ionio furor sporge le rupi,
E quindi latra la getula Teti
E scote i lilibei bracci spumando;
Quinci sdegnosa di ripari scote
Peloro opposto la Tirrena rabbia.
In mezzo ad arsi scogli Etna s’inalza,
Che dirà sempre i gigantei trionfi
Ad Encelado tomba: ivi, le membra
Avvinte ognor, dall’anelante petto
Respira fiamme, e allor che il peso immenso
Di scoter tenta dal ribelle collo
E muta i fianchi, la Sicilia trema.
Le città dubbie con le mura ondeggiano,
E della vista sol d’Etna le cime
Conoscer lice: ne frondeggia parte:
Niun cultore ha la vetta. Or le native
Nuvole innalza; in improvisa notte
Splendon le fiamme che nel cielo avventa,
E con i danni suoi l’incendio nutre.
Ma benché bolla per soverchio ardore
Sa serbar fede alle Sicane nevi,
Che ne difende arcano gelo, e lambe
Con fedel fumo l’innocente fiamma
Le contigue pruine. A questa terra
La madre ora commette il pegno ascoso,
E volge il carro ver le Frigie sedi
Di Cibelle turrita. Onde le membra
Pieghevoli dirige ai suoi serpenti,
E l’aer fende, e tratta i nembi a volo.
E per placida spuma umido il freno,
Purpurea cresta le minacele scema
A gli occhi, e macchian verdi strisce il tergo,
Risplende l’oro fra k squamnie: or vince
Zeffiro il giro tortuoso, or lambe
Con minor volo li soggetti campi,
E si feconda la solcata terra
Per la polve che cade, e delle rote
Coprono Torma le sorgenti spighe,
E la messe la via segue ed adorna.
Etna innanzi ai fuggenti occhi decresce:
Ahi quante volte di presago pianto
Bagnò le gote: e volse indietro i lumi
Dicendo: Salve, o sospirata terra,
Più cara a me del cielo; io del mio sangue
La gioia ed il dolor, di questo petto
Caro dolor, ti raccomando. Avrai
Tu grati premii, e a te l’aratro il seno
Non aprirà; vedrà fiorire i campi
L’ozioso giovenco, e fia che ammiri
Il ricco abitator le messi offerte. —
Sì parla, e frena in Ida ai serpi il volo.

(Seguita nella Lezione vegnente).

Lezione trentesimaterza.
Ancora dei simboli coi quali vien rappresentata Cerere. §

L’agricoltura e le leggi affidate a Cerere, ricca la rendono di attributi e di simboli più di ogni altra dea. La presente Lezione è destinata ad arricchirne la serie già ordita, a favellarvi delle forme, colle quali gli antichi artefici effigiarono questa divinità celebrata.

Cerere, come vi accennai, ha qualche volta il medio, o cesta, sul capo, e Winkelmann in due belle figure della Villa Negroni, credute Cariatidi, dubita di ravvisarvi due simulacri di Cerere. Sopra una pietra incisa del Gabinetto di Stosch questa dea è in un carro tirato da due elefanti. In un’ altra si vede presso lei una formica, che trasporta una spiga di grano. Credesi trovare in una figura riportata dallo Spon la Cenere Nutrice; ma vi ha chi pretende che ciò che tiene inviluppato nelle sue vesti sia un piccolo leone. Alcuni hanno creduto riconoscere Trittolemo sulla bella coppa di Farnese, già nel Gabinetto del re di Napoli: quello che è tenuto da questa figura sembra essere una specie di sacco. Un’urna sepolcrale, pubblicata da Montfaucon, rappresenta Cerere in piedi sopra un carro tirato da due serpenti. Cerere è rappresentata sulle medaglie di Palermo come Giunone, cioè col capo coperto da una parte della sua veste. Osserva Winkelmann che non si vede mai con una chiave sulle spalle, come da Callimaco è dipinta.

Ma è difficile, come Lessing ha riflettuto nella sua famosa opera sul Laocoonte, di trovare nei monumenti delle arti le divinità con tutti gli attributi che loro danno i poeti; e d’altronde Callimaco nel luogo citato non dà la chiave a Cerere se non perchè aveva preso la figura della sacerdotessa Nicippe. Cerere in nessun luogo è stata effigiata con sì belle sembianze quanto in una moneta d’argento della città di Metaponto nella Magna Grecia, esistente nel Museo del Duca Caraffa Noya a Napoli. Nel rovescio vi sono, secondo il solito, impresse delle spiche di frumento, sulle cui foglie posa un sorcio. Essa ha qui, come sopra altre monete, il manto tirato di dietro sulla veste, e porta intrecciato fra le spighe e le foglie un diadema elevato alla marniera di Giunone, coperto in parte dai capelli che ha giudiziosamente sparsi e sciolti sulla fronte, il che forse n’ esprime il dolore per la rapita sua figlia Proserpina.

Le città della Ma^na Grecia e della Sicilia sem brano essersi molto studiate di dare sulle loro monete sì alla madre che alla figlia, delle due testé mentovate dee, la più sublime bellezza: e diffìcilmente si troveranno ancora pel conio monete più belle di alcune siracusane rappresentanti una testa di Proserpina, e nel rovescio un Vincitore con una quadriga. Queste monete avrebbon dovuto esser meglio disegnate ed incise nella collezione del signor Pellerin. Si vede in esse Proserpina coronata di frondi lunghe e appuntate, simile a quelle che ornano insieme alle spiche la testa di Cerere: e quindi le credo foglie dello stelo del grano anziché di canna palustre, quali furono giudicate da alcuni scrittori, che perciò si avvisarono di vedere in quelle monete l’effigie della ninfa Aretusa.

Quali siano le forme che a Cerere convengono, le potete rilevare da Visconti nelle seguenti descrizioni.

« Uno dei più bei monumenti delle arti degli antichi nelle drapperie è la presente statua. L’elegante e ragionevole disposizione delle pieghe, la finezza e la moltiplicità delle medesime senza interruzione delle forme principali del nudo e senza affettata ricercatezza di partiti, rendono questa scultura un esemplare nel suo genere quasi inimitabile, e a cui non si sono da lungi nemmeno saputi appressare i moderni. Quanto è certo però e riconoscibile da ogni intendente quel che esponiamo sulr artifizio del bellissimo simulacro, altrettanto è dubbio tutto ciò che può dirsi del soggetto rappresentato.

« Ha ottimamente riflettuto il chiarissimo signor Abate Amaduzzi che senza imbarazzarsi del ritratto, che è forse ideale, i papaveri e le spighe che ha nella manca sono le qualificazioni di Cerere: ma conviene avvertire ch’essendo la sinistra mano con quanto contiene, di moderno risarcimento, non siamo sicuri che siasi sempre in questo bel marmo ravvisata la dea dell’agricoltura. Stranissima era l’opinione del Venuti che la credeva una Giulia Pia: men strana quella di Paolo Alessandro Maffeì, che nel pub])licarla fra le più insigni statue di Roma, l’appellò Crispina, quantunque non simigli quell’Augusta che neir acconciatura della chioma, ben diversa nelle sembianze, le quali nella statua sono semplicissime e verisimilmente ideali. In questa oscurità non posso omettere di lodare l’avvedimento di chi l’ha fatta ristaurare per Cerere, però che la sopravvesta, o palla, che tutta la circonda e la copre, può con gran proprietà convenire alla gran dea dei misteri eleusini, l’arcana segretezza dei quali può essere stata espressa dallo scultore nell’effigiarla cosi ravvolta nel manto, come appunto la musa Tacita che abbiamo esposta. Gli antichi monetarii han forse voluto alludere alle medesime idee nel figurarla velata.

« Di altezza colossale e di nobile artifizio è ancor la presente statua, tolta, come la precedente, dal cortile della Cancelleria. La semplicità del disegno sembra che ne formi il carattere principale. Naturale n’è la situazione, poche e grandiose linee determinano la fisonomia, poca varietà è nei partiti del panneggiamento, e quella sola che vi regna nasce dalla diversità dei contorni del nudo che ne è coperto: hasta però contentare 1’ occhio egualmente che la riflessione, la quale non lascia di distinguervi la scelta e l’ideale. Si può dire che questo marmo sia trattato nella vera maniera in cui conviene lavorare figure colossali, restandone i dintorni tutti assai distinti ed osservabili ancor di lontano, e non offrendo neppure d’appresso punto di rozzo, di trascurato: ma essendo quelle linee parallele, che formano le pieghe del panneggiamento, con tale intelligenza disposte e variate di spazi che al tempo istesso che non cagionano veruna confusione in qualche distanza, anzi fanno emergere le forme principali del nudo; davvicino sembrano una esatta imitazione della natura. Insomma se il precedente fa mostra di maggior grazia e di maggiore eleganza, questo sembra eseguito con maggiore maestria.

« Questa figura femminile priva delle braccia, vestita di una semplice tunica talare stretta e alquanto ripresa dalla cintura, nè avente altra sopraveste che un peplo senza maniche che le copre il petto sino alla cintura medesima e che siegue tutto l’andamento della veste soprapostavi; priva ancora nel capo di ogni ornamento straordinario che simbolico potesse essere o caratteristico, sembrava non dar nessun lume nè allo scultore per convenientemente risarcirla, nè all’erudito per acconciamente denominarla. Pensai che qualche soccorso potea trarsi dall’abitudine e dal carattere della figura medesima, persuaso che gli antichi così conseguenti nelle loro pratiche, come altre forme davano alle membra di un dio che a quelle d’un eroe e d’un uomo, altre a quelle d’Apollo che a quelle di Bacco, o di Mercurio, di Marte, così di altre ragioni si servissero per una Venere, d’altre per una Giunone, o per una Minerva. Quindi osservando nella figura una certa proporzione meno svelta che in altre figure, una maggior larghezza di spalle, maggior rilievo di petto e di fianchi che Tordmario, ho creduto che siasi voluto rappresentar Cerere, a cui si compete una beltà alquanto rustica come alla dea dell’agricoltura, e una statura quadrata e robusta così bene espressa da Lucrezio con quei due epiteti di doppia e mammosa, che sembrano aver suggerito al nostro artefice il carattere generale di questa scultura destinata, come suppongo, per effigie di quella dea che fu propriamente cognominata Alma, e riconosciuta come la nudrice del genere umano.

« Il ristauro è stato eseguito su questa idea. La divinità nella destra ostenta le spighe, dono da lei fatto alla nostra specie, che pei suoi insegnamenti mutò la ghianda caonia con la pingue messe. Appoggia la sinistra allo scettro, ben conveniente ad una dea ch’era fra le dodici deità maggiori della religione delle genti.

« Siccome il suo culto fu uno dei più universali, e per le campagne, della cultura delle quali era preside, e per le città, delle leggi delle quali era la prima dispositrice, finalmente per ogni luogo a cagione dei suoi misteri che sembravano conciUare la filosofia colla religione, non farà specie che le si ergessero simulacri colossali, e che forse uno di questi fosse collocato nel teatro di Pompeo, essendo le rappresentazioni teatrali entrate anch’ esse per una parte non ultima del culto greco e romano, ed essendo particolarmente Cerere la compagna di Bacco, nume propriamente autore e preside del teatro. »

Udite il fine del primo libro di Claudiano sul ratto di Proserpina.

Il ratto di Proserpina.
(Continuazione).

E sede augusta Ida alla dea: del tempio
La rispettata pietra un pino adombra
Con dense frondi; non turbò procella
La pace delle selve, all’aura solo
Striduli carmi coi loquaci rami
Mormorar sembra: per concerto orrendo
Di timpani percossi il tempio freme;
Ida risuona d’ululati, e china
Gargare al suolo gli atterriti boschi.
Poiché Cerere apparve, il lor muggito
I timpani frenare, e tacque il coro;
II coribante non picchiò la spada,
E lo scudo ammutì. La chioma orrenda
I leoni chinar, balzò Cibelle
Dai recessi, e volgea le prone torri
Ai baci della dea. Dal ciel mirava

Giove gli eventi, e a Citerea rivela
Gli arcani della mente. A te, diceva,
Di mie cure il segreto affido: il fato
Vuol Proserpina unita al re di Dite.
Così Temi predisse: Atropo incalza
La preda, e compie il suo decreto il tempo.
Invadi la Sicilia, opra le frodi,
Armi di te; quando l’Aurora appare
Sul balzo d’Oriente, ai prati guida
Di Cerere la figlia. E che: staranno
Gli ultimi regni senza amore? immune
Terra alcuna non sia: tragga il tuo figlio
L’ombre stesse in trionfo: amin le triste
Furie: gli Acherontei petti severi
Mansuefaccia la saetta eterna. —
Vener si affretta, ed al paterno cenno
Obbediente la seguì Minerva:
Si fé’ terza la dea, terror di belve.
Splende la strada sotto i pie divini:
Dell’attonito mondo augurio scende
La Cometa cosi; splendon di sangue
I crini, e d’essi la minaccia accenna
Tempesta ai legni, alle città nemica.
Vennero a loco ove di Cerer splende
La sede, già sudor lungo ai Ciclopi:
Son di ferro le mura, e ferro sono
Le porte. Stanchi Piracmone e Brente
L’opra lasciò: gli atrii l’avorio cinge.
Bronzo è la cima, ed in colonne eccelse
Sorge l’elettro. Con tenero canto
Molce i silenzi dell’eterna casa
Proserpina, e tesseva inutil dono
Al ritorno materno, e qui coll’ago
L’ordin degli elementi e la paterna
Sede illustrava, e con qual legge avea
Vinta natura la discordia antica.
Il fuoco al ciel salì per sua natura,
E la terra piombò nel mezzo, il mare
Scorse. Nè un sol colore hanno le cose:
D’oro le stelle accende, e sparge l’onde
D’ostro, ed i lidi con le gemme inalza:
Mentiti flutti il filo asconde, e l’arte
Così l’increspa che tu l’alga credi
Frangersi negli scogli, e lambir l’onde
Con roco mormorio l’aride arene.
Finge dell’avo ancor gli arcani tetti,
L’ombre fatali: sul presago volto
Scorreva allora involontario pianto,
Augurio non inteso: e già nasceva
Fadre Oceano sull’estrema tela;
Ma lo stridor delle tenaci porte
Le dive le additò. Lascia imperfetta
La gradita fatica, e sopra il volto
A lei corse un color come di rose.
Cui l’opposto candor beltade accresce.
Era nell’Oceàn celato il sole
Spargeva i doni di quiete amica
L’umida notte, e la cerulea biga
Seguiano i languidi ozii e i sogni erranti.
La via prepara ver l’etnee contrade
Fiutone, accorto dal fraterno cenno:
Aletto lega i corridor tremendi,
Ch’erran d’Averno per li neri prati
A Oocito ghirlanda, e del tranquillo
Lete bevon gli stagni, onde lor spuma
D’oblio sicuro l’assopita lingua.
Orfneo che di crudel luce risplende,
Eton che indietro la saetta lascia,
E Nitteo gloria dello stigio armento,
Alastor che di Dite il fumo segna,
Si stanno innanzi alle alte soglie, e fumo
Mandano e fiamme dalle torve nari,
E nitrito crudel, quasi presaghi
Sian della preda che il signore attende.
(Fine del primo libro di Claudiano).

Lezione trentesimaquarta.
Feste Tesmoforie e misteri Eleusini. §

Le feste di Cerere dette Tesmoforie furono, secondo Demostene, Diodoro Siculo e Plutarco, trasferite dall’Egitto nella Grecia col mezzo di Orfeo, che le cerimonie sacre ad Osiride ed Iside ridusse al culto della dea ed a quello di Bacco. A Trittolemo, secondo altri, figlio di Celeo devesi delle mentovate feste l’instituzione. Il numero dei giorni nei quali, secondo Meursio, si celebravano, è incerto. Da Aristofane sembra dedursi che fossero sei; Esichio vuole che per quattro giorni la solennità durasse. Merita nx^^ggior fede il primo, perchè Esichio cristiano era meno a portata di conoscer le pratiche dell’idolatria.

Presedevano alle Tesmoforie due donne maritate, di legittimi natali, scelte da un’assemblea del loro sesso. La spesa della festa era, secondo il solito, a carico dei mariti, che, per così dire, vi si obbli gavano nella scritta, quando avevano ricevuti in dote tre talenti, che equivalgono a quasi tremila ducati veneti. Avevano un sacerdote in un uomo detto Stefaneforo, perchè coronato andava alle cerimonie, ed era eletto dal concilio delle sacerdotesse della Gran Dea chiamate Miste. Il signor D’Hancarville ha preteso di escludere questa opinione, ma il famoso Visconti ha combattute le ragioni del critico francese.

Si celebravano le Tesmoforie nell’undecimo giorno del mese detto dai Grecì pianepsione, ch’ equivale al nostro settembre. Ascendevano ad Eleusi, e per memoria delle leggi a Cerere dovute, portavano sul capo libri legali, come si ricava dallo Scoliaste di Teocrito. Si astenevano dall’opera di Venere per alcuni giorni, e gran rimedio alle voglie impudiche credevano il dormire sopra le foglie di vetrice. Mangiavano ancora l’aglio per studio di castità. Per togliere ancora il sospetto dell’impudicizia, le donne che ministravano alle cose sacre erano alimentate a spese pubbliche in un luogo, che perciò Tesmoforio era detto. Era sacrilegio l’usar corone di fiori, perchè a Cerere rammentavano le sventure della rapita figlia, e con eguale rigore proibivasi di mangiare il melagrano, giacché Proserpina, per aver mangiato questo frutto, non potè ritornare agli amplessi della madre e alla luce. Digiunavano per un giorno, sedendo presso il simulacro della dea, o per astenersi dai suoi doni, o per timore della carestia già da lei mandata sulla terra.

Alcuni, e fra questi Teodoreto e Cieraente, hanno confuso le Tesmoforie coi misteri eleusini. Sono queste due cose diverse, come vedrete, ed è certo che le Tesmoforie furono stabilite per la rimembranza delle ricevute leggi; ed al contrario i misteri eleusini ebbero per oggetto il diverso pellegrinaggio di Cerere per la rapita Proserpina, e i doni dell’agricoltura, dei quali fu la dea liberale in questa occasione al genere umano.

Solevano nell’ultimo giorno delle feste celebrare un sacrifizio detto ^V7f/t« coli’ oggetto di allontanare lo sdegno della dea, se per caso nelle cerimonie avessero violate le regole dal rito prescritte. Ai servi d’ambidue i sessi era vietato l’assistere a questa solennità tanto celebrata.

Le Tesmoforie si veggono rappresentate in molti bassi rilievi antichi. Yoi potrete scorgerle nel celebre vaso etrusco della Galleria, qualora l’opinione di Visconti sia vera.

E prezzo dell’opera il favellare adesso delle cerimonie eleusine dette per eccellenza Misteri. Per mostrarci in qual conto fossero presso gli antichi, basterà che tutta la Grecia vi concorreva, che i Romani istituirono a gara di quelli i celebri giuochi secolari, documento dell’ altezza di quel popolo signore del mondo, che fissò i limiti dell’umana natura, il quale solo nei vizi e non nella grandezza imitar potranno i moderni. Alcuni l’origine ne ascrivono a Eretteo, altri a Cadmo, ovvero ad Inaco, e v’ ha chi a Cerere stessa. Vien riferita ad Eamolpo per altri, che ne prendono motivo dal nome di Eumolpidi, che i sacerdoti dei Misteri avevano in Atene.

Mal si rintraccia chi fosse quest’ Eumolpo fra tanti ch’ebbero questo nome, nè conviene alla brevità proscrittami il riportare le opinioni diverse che regnano in questo particolare. Tertulliano nel suo Apologetico divide la gloria di questa impresa, dicendo che Orfeo in Pieria, Museo in Atene, Melampo in Argo, Trofonio in Beozia obbligarono gli uomini a queste iniziazioni.

Ma quale è la cagione di questi misteri? Scorrendo Cerere in traccia della figlia per tutta la terra, seppe finalmente dagli Erminionensi che Plutone glie l’avea rapita. Irata con gli Dei, lasciò il cielo, e simile fatta a donna mortale, pervenne ad Eleusi. Mestissima si assise sopra una pietra detta Agelasta, cioè sensa riso, presso il pozzo Callicoro. Poscia venuta nella sede di Celeo, che comandava agli Eleusini, rinacque dopo tanto tempo il riso sopra le sue labbra, mercè una vecchia detta Jambe. Quindi è che le donne Eleusine, istituito un coro, cantarono un inno alla dea.

Secondo Cicerone, niente di più divino diede Atene di questi misteri, pei quali dalla rozza e feroce vita furono gli uomini mitigati, e condotti alla civil perfezione. E perciò Teleti furono detti dai Greci, perchè compivano l’educazione e la disciplina dei costumi.

Si dividevano i misteri Eleusini in maggiori e minori. Dei primi ne ho accennata la causa: i secondi si devono al fatto seguente.

Doveva Ercole per comando di Euristeo trar Cerbero dall’ Inferno, e non volendovi discendere che iniziato, si diresse per questo oggetto ad Eumolpo. Vietava la legge che fosse ammesso uno straniero: non si ardiva con tutto ciò opporsi alla domanda d’Ercole amico e benemerito degli Ateniesi. Si trovò il modo di conciliare questa difficoltà. Piglio adottò Ercole, e così fu iniziato ai misteri minori, che facilmente potevano comunicarsi. I maggiori erano sacri a Cerere, i minori a Proserpina fìgha di lei. Differivano ancora nel luogo e nel tempo, giacché i primi si celebravano in Eleusi, i secondi in Agrea nell’Attica. I maggiori avevano luogo nel mese di (grec)Agosto; i minori nel Gennaio (grec). Nei misteri maggiori solevano iniziarsi, e nei minori si preparavano all’iniziazione colle lustrazioni. Queste facevansi ponendo le pelli di vittime immolate a Giove sotto i piedi di quelli che avevano dei sacrilegi commessi. D’uopo vi era ancora di corone e fiori; ed Idrano, dall’acqua, si chiamava colui che purificava gì’ iniziandi; che prima dovevano, osservando il silenzio, dar prova della taciturnità necessaria per mantenere il segreto dei misteri.

Fatte le cerimonie e i voti secondo il rito, osservata la castità, si rendevano degni dell’iniziazione, che altrimenti non produceva i vantaggi sperati. L’ostia che doveva immolare chi desiderava iniziarsi, era una troia gravida, che prima era lavata in Cantaro uno dei tre porti del Pireo. Nei primi tempi non v’ era spesa, ma Aristogitone pensò di trarre una ^rendita per l’erario di Atene fissando una mercede per coloro che volevano iniziarzi.

Convien però fissare che tutte queste cerimonie erano proprie dei misteri minori, e che nei maggiori si comprendevano gli arcani fondamenti della dottrina eleusina. Infatti quelli ammessi a’ primi chiamavansi Misti, o contemplanti, e quelli che giungevano ai secondi denominati erano Epopte, cioè Vescovi. Il luogo dei contemplati, o Misti, era nel vestibolo, quello degli Epopte, o Vescovi, nell’adito, cioè nella parte interiore del tempio. Dei veli pendenti assicuravano il segreto di ciò che si faceva nel sacrario. Che più? vi erano arcani, che dai Sacerdoti i più intimi erano solo conosciuti, e conveniva aspettare cinque anni avanti di essere ammesso all’iniziazione che si celebrava di notte.

Il ratto di Proserpina.
(Continuazione).

Gl’Ionii flutti col promesso lume
Percote il non ancor lucido giorno;
L’errante fiamma pel ceruleo piano
Scherza, e si vibra nelle tremul’ onde.
Già volge il piede nei fioriti prati
La Verginella dei materni detti
Immemore: cosi voUer le Parche
E di Vener l’inganno: il vicin fato
Con mesto cigolio disser le porte
Tre volte, ed altrettante Etna gemeva
Con flebile muggito: invan; non move
Proserpina prodigio alcuno, e seco
Volgon il piò le dee sorelle: è prima
Venere lieta di sua frode: in core,
Conscia di tanto furto, essa misura
Del rapitor l’inusitata gioia,
E già piega il crudel Caos, e vinto
Dite, le trionfate ombre conduce
Retro al suo carro. In molti giri il crine
Diviso dairidalio ago si volge:
Fibbia sudata dal marito industre
Sospende al fianco la purpurea veste.
Lei la Regina del Liceo seguiva,
E la potente, che dell’asta all’ombra
Sicure fa le Pandionie rocche;
Una ministra della guerra, e l’altra
Terror di belve: è nel cimiero aurato
Tifon scolpito, che nell’ima parte
Vivendo par che con la morte scherzi:
S’inalza al cielo con terribil giro
L’asta qual selva. Col splendido manto
Alla Gorgone adombra il crin fìschiante.
Dolce è r aspetto di Diana, e molto
Fratello era nel viso, e vedi i lumi
E le guance di Febo: il sesso solo
Gli distingue. Splendean le nude braccia;
Dell’indocile chiome all’aura lievi
L’error permette: il certo arco è disteso:
Ozii ha lo strale, e dietro al tergo suona
La pendente faretra: in doppio cinto
Tutta s’increspa la Gortinia veste,
Che scende sino alle ginocchia, ed erra
L’instabil Delo nel commosso stame.

(Seguita nella Lezione vegnente.)

Lezione trentesimaquinta.
Iniziazione nei misteri Eleusini. §

Nella notte, che fa maggiori le proprie ombre e i fantasmi della superstizione, s’ iniziavano i creduli volgari nei misteri Eleusini. Nei minori un piccolo tempietto era destinato per le cerimonie. Ma nei maggiori era sontuoso il mistico edifìcio, ove la sacerdotale impostura echeggiar faceva voci terribili, alternava le tenebre e la luce, e con mille altre apparizioni, spaventando le menti, le convinceva della santità de’ suoi prestigi.

Secondo Aristide, il tempio Eleusino accoglieva nel suo recinto maggior numero di persone che ogni città di Grecia nelle sue feste. Il sacrario, secondo Strabene e Vitruvio, fu edificato da Ittino nella foggia dorica senza colonne esteriori, quando n’accrebbe la maestà del tempio sotto Demetrio Falereo il celebre Filone, che vi aggiunse colonne nella fronte. Questa fabbrica però, secondo Plutarco, fu cominciata da Corebo; Fidia pose le colonne nel pavimento e le congiunse cogli epistilii; altri architetti decorarono di ben intesi ornamenti. Gl’iniziandi si coronavano di mirto, si tergevano le mani coiraccjua sacra avanti di entrar nel tempio, che senza un sacrifizio non s’apriva

Mani pure, mente pura, perizia della greca lingua era necessario per l’iniziazione. Quindi imponevasi il silenzio più religioso sul rito dei misteri che si leggevano in due libri, custoditi in due pietre fra loro unite.

Caratteri ignoti, figure d’animali, mille arcani segni impedivano al profano la lettura di questi libri, e n’assicuravano al sacerdote il secreto. Gli iniziandi descrivevano i riti che gli erano letti innanzi dal gran sacerdote detto Jerofante: eran composti di allegorie dirette ad incutere orrore e meraviglia.

Il sacerdote interrogava ciascuno se aveva mangiato. Rispondevano: Digiunai, e bevvi il ciceone, — ch’era una bevanda composta di molti liquori, che Cerere per le persuasioni di una donna chiamata Baubone, bevve nel suo dolore per la figlia rapita. Soggiungevano: Lo tolsi dalla cesta mistica, e lo trasferii nel calato, o paniere. Quindi lo bevvi in un piccolo bicchiere chiamato catulisco. — Allora si udivano gridi, lamenti: ora tenebre, ora luce, ora apparizione di fulmini, di mostri spaventavano, come ho notato di sopra, gl’iniziandi fra il canto e la danza.

Colle due voci (grec), (grec), si acclama agli iniziati, che davano allora luogo agli altri che volevano essere ammessi ai misteri. GÌ’ iniziati non deponevano la veste, onde erano coperti nel tempo della cerimonia, se non lacera per lungo uso, e allora la consecravano a Proserpina e a Cerere, e da alcuni era serbata per formar delle fasce ai fanciulli.

Il sacerdote, o maestro dei misteri, come di sopra per me vi fu detto, Jerofante si chiamava, ed era delitto per l’iniziato rivelare in nome di lui. Si ornava nelle sembianze di Creatore, ed era insigne per l’ammanto, per la chioma, per la benda, e per la voce e per l’età venerando,

Atene aveva il diritto di dare questi ministri, che dedicandosi ad una perpetua verginità, stimavano gran rimedio agl’impeti di amore il liquore della cicuta. Oltre l’Jerofante avevano la loro parte in questi misteri il daduco, il banditore. Daduco si diceva colui, che teneva la fiaccola, distinto anch’egli dalla capellatura e dallo strofìo, o cintura. Tutta la vita in questo uffizio consumava, ma non era obbligato a mantenere il voto, sovente spergiurato dalla natura. Egli rappresentava il Sole, il banditore Mercurio, e il ministro dell’ara la Luna. Presedeva poi ai misteri un prefetto col titolo di re, il quale comandava che ogni nemico dalle cerimonie si astenesse, e che dopo la solennità radunava il senato nell’Eleusinio per conoscere quelle cose che si fossero fatte contro il rito. Ad altri quattro col nome di Curatori, scelti dal popolo, per legge era commessa la religione dei misteri. E dieci sacrificatori dividevano con gli altri ministri le cure.

S’iniziavano in questi misteri i figliuoli degli Ateniesi ancor fanciulli, nè gli Ateniesi solo, ma i Greci tutti. Demonace e Socrate l’omisero. Quanto vaglia l’autorità di quest’ultimo lo sa chiunque ama la virtù, e non cerca di scemarle la fede del genere umano con insensati sofismi.

Nel numero degl’iniziati si annoverano molti illustri Romani, tra i quali giova il rammentare Siila, Attico, Augusto, Adriano, Marc’ Antonino il filosofo. Nè dimenticherò lo Scita Anacarsi, reso ancor più famoso dall’ opera di Barthélemy, che combina il gusto e l’erudizione. Le donne che a Cerere in tal maniera si consacravano furono chiamate Melissee. Uno dei vantaggi di questi misteri era che gl’iniziati obbligati si credevano all’ esercizio della virtù più severa.

Cicerone dice che non solo erano causa di vivere con allegrezza, ma pure di morire con buone speranze.

Era opinione che le dee Eleusine, Cerere e Proserpina, fossero liberali di buoni consigli. Il merito di questi prestigi seguiva ancora nell’Inferno l’ombre dei devoti, onde la morte era principio di un migliore avvenire.

I non iniziati erano allontanati dal tempio di Cerere; e ciò fu cagione di guerra fra Filippo e gli Ateniesi, che dell’antica fortuna non conservano che la superbia. Due giovani di Acarnia ignari di queste cerimonie entrarono nel tempio cogl’iniziati. L’assurdità delle loro dimande gli scoperse per profani, e condotti ai prefetti del tempio furono, come rei di grave colpa, uccisi.

I non iniziati erano dall’opinione puniti ancora dopo la "vita. Era credenza che fossero condannati nelI’Averno a riempire un vaso forato, come quello che i poeti diedero alle Danaidi ree del sangue dei loro sposi.

Era vietato iniziare i forestieri, e specialmente i Barbari. Erano esclusi gli omicidi ancora involontarii, i magi, i prestigiatori (forse per gelosia di mestiere), e finalmente quelli ch’erano macchiati di qualunque delitto. Era delitto divulgare i riti di Cerere ai profani, ed erano obbligati al segreto con giuramento. Quindi fu proscritto dagli Ateniesi Diagora Melio, e preposto un talento a chi lo uccidesse, due a chi vivo lo conduceva.

Ed Eschilo, padre della Tragedia, corse pericolo della vita perchè parve in alcune sue opere avere toccato con profana curiosità i misteri di Cerere. Orazio, forse il più filosofo dei poeti, dice in una sua Ode: Io vieterò che chi ha divulgato gli arcani Eleusini abiti sotto le stesse travi, e sciolga meco fragile legno pel mare. — E a tanto arrivava lo scrupolo del rigoroso silenzio, che cogli Dei stessi credevano delitto violarlo.

Compirò le altre notizie, che ho dedotte dal Meursio su questo soggetto, nella seguente Lezione. Udite parte del secondo libro di Claudiano.

Il ratto di Proserpina.
(Continuazione).

Di Cerere la prole è fra le dee,
Or gloria, ma dolor presto alla madre.
Pari per forme e per onor, potea
Con gli strali sembrar Diana, e Palla
Se lo scudo portasse: arte felice,
Emula di natura, a lei pingea
La veste, e qui l’Iperionia prole
Nascea con inegual sembianza: Teti
Dava la cuna agli anelanti figli,
E il sen ceruleo pei rosati alunni
Fiammeggia: il Sole nell’età primiera
È più clemente: alla sorella il capo
Segnan picciole corna: in tale ammanto
Proserpina pompeggia; a lei compagne
Le Naidi sono, e con simile schiera
Quelle ninfe le fan densa corona
Che danno fama ai tuoi fonti, Crimniso,
E a Pantagia che rota i sassi, e a Gela
Che dà suo nome alla cìttade, e quella
Che la marina irresoluta nutre
Nello stagno palustre, e il noto fonte
D’Aretusa, che con sicuro errore
Segue l’ospite Alfeo. Così la schiera
Amazonia, deposti i scudi eguali
Al cerchio della luna, esulta allora
Che dalla depredata Orsa ritorna
Ippolita, e che trae Tinti in battaglia
Gli abitatori delle nevi eterne:
tal tripudio le Meonie ninfe,
Che l’Ermo nutre, nel solenne rito
Fanno di Bacco, e le paterne ripe
Scorron con ebra gioia: lieto nell’antro
Già l’urna liberal dechina il fiume.
Dall’erbosa sua cima il sacro volgo
Etna mirò madre dei fiori, e dice
A Zeffiro che siede in curva valle:
Di primavera genitor soave,
Che pei miei prati con lascivo volo
Regni, e fai lieto di rugiada l’anno,
Mira le ninfe, e del signor del tuono
L’altera prole, che nei nostri campi
Degna scherzare; deh ti prego, adesso
Vieni, e col tuo favor tutto germogli:
Ibla fertil c’invidii, e a noi conceda
La gloria dei suoi vinti orti: dispergi
Nelle mie vene quel che spira Idaspe,
E Panchea nelle selve, e ciò che toglie
Da genti ignote la fenice eterna:
Così tocca sarò da man divina,
E saranno i miei fior serto dei numi. —
Disse, e Zeffir scotea tosto le penne
Umide di rugiada, e col fecondo
Umor marita le soggette glebe.
Segue il suo volo Primavera, e dona
All’erbe ogni color: sparge le rose
Di sanguigno splendore, e dolce tinge
Le violette di color ferrigno..
Non tanti nelle penne Iride accoglie
Variati color: vince del loco
L’aspetto i fiori, cresce in facil colle
Il curvo piano, e movon varii rivi
Lo strepitoso pie tra verdi sponde.
Del Sole con la fredda ombra dei rami
Tempra i raggi una selva, e il proprio inverno
Mantien. L’abete vincitor dell’onde
Evvi, e il frassin guerrier, la sacra a Giove
Querce e il cipresso con i mesti rami
Ombra ai sepolcri, e dei futuri eventi
Presago il lauro: con la densa cima
Il bossolo cresputo ondeggia, serpe
L’edra, e la vite si marita all’olmo.
Non lungi è un lago, che i Sicani Pergo
Chiamar: lo cinge colle frondi il bosco.
La vista ammette nella cima, e largo
Di limpid’ acqua fino al fondo estremo
Inviolata la conduce, e svela
Tutti i segreti dell’algoso letto.
La bella schiera pei fioriti campi
Qui scherzar gode, e i dolci studii avviva
Citerea colla voce e grida: Adesso
Gite, sorelle, che sul biondo suolo
L’astro più caro a me sparge dal crine
Le feconde rugiade: — e toglie al prato
Il fior memoria del suo pianto: invade
Il volgo delle ninfe i varii boschi.
La rapina così del timo Ibleo
Trae l’api allora che le ceree schiere
Movono i regi, e che per l’erbe elette
L’esercito gentil da cavo faggio
Venendo esulta: qua l’onor dei prati
Tutto si spoglia, alle viole intesse
Altra i candidi gigli, e chi le tempia
Coll’amaraco adorna, e va di rose
Coronata, e del bel ligustro adorna
Il sen, che tanto paragon non teme.

(Seguita nella Lezione vegnente).

Lezione trentesimasesta.
Ordine e riti dei misteri Eleusini. §

e mìe ricerche sopra Cerere avranno fine nella presente Lezione, che comprenderà quel che vi resta a sapere intorno ai misteri Eleusini, gran parte dell’antica religione.

Nel decimoquinto giorno del mese di Agosto, detto dai Greci Boedromione, aveva principio la solennità, come da Plutarco nella vita di Camillo e di Alessandro si rileva. È incerto per quanto tempo durasse, e Meursio che nell’oscurità dei misteri portò primo ]a luce dell’istorica congettura, non osa determinarne lo spazio, quantunque semhri propendere pei nove giorni.

Agirmo, cioè riunione, si chiamava il primo giorno, come Esichio ne fa chiara testimonianza, ed in questo aveva luogo l’iniziazione.

Nel secondo il banditore della cerimonia avvertiva i Misti iniziati, di portarsi al mare.

Nel terzo si facevano dei sacrifizii, s’immolava la triglia sacra a Cerere, la quale vietavasi di gustare agl’iniziati. Si aggiungeva alle libazioni l’orzo nato nel campo Rario, ed era sacrilegio il gettare niente fuora. Il sacerdote di Giunone non poteva gustare di veruna cosa, e quando si solennizava la festa di Cerere chiudevasi il tempio della dea, come quello di Cerere quando era la festività di Giunone.

Nel quarto giorno vi era la processione del calato, canestro, il quale si portava in un carro tratto dai bovi. Alludeva questo rito ai fiori colti da Proserpina nei prati siciliani, ed al ratto di lei, cagione di perpetuo dolore alla madre. Questo carro aveva le rote non coi raggi, ma timpanate, come spesso si veggono nei monumenti antichi, e fra gli altri in una pompa Bacchica espressa in un basso rilievo pubblicato recentemente dal celebre Zoega. Dopo questo, che lentamente procedeva, veniano le donne con le ceste mistiche di purpurea fascia circondate. Avean la forma di arca, e vi eran nascosi serpenti, piramidi, volumi di lane e melagrani, che vietarono a Proserpina di esser restituita a Cerere.

Nel quinto giorno andavano gl’iniziati di ambidue i sessi portando di notte con volto truce le fiaccole, intorno alla grandezza delle quali si gareggiava. Alludevano in ciò al lungo errar di Cerere dopo avere accese le faci al monte Etneo.

Nel sesto giorno vi era la processione di Bacco, coronato di mirto e non di edera, come con error manifesto lo rappresenta Claudiano. Questo Bacco non era il Tebano figlio di Giove e di Semele, ma un altro che dal re degli Dei e da Cerere, o Proserpina, era nato. Aveva un tempio proprio; si effigiava colla fiaccola nella mano, e traevasi tra il canto, le danze e il picchiar degli scudi. Sacra la porta, sacra la via che frequentavano gli Eleusini era detta.

Nel settimo giorno vi era una specie di caccia, certame, che giovani a piedi e a cavallo facevano coi tori. Una misura di orzo n’era il premio, perchè questo vegetabile era fama che per la prima volta fosse nato in Eleusi. Potete vedere questa gara rappresentata in un basso rilievo antico pubblicato dal Lami nell’opera del Meursio sul soggetto di cui si tratta.

L’ottavo giorno si diceva Epidaurio, perchè instituito dagli Ateniesi in onore di Esculapio, che venne da Epidauro dopo i celebrati misteri, per essere ammesso all’iniziazione. Questa si apriva allora per la seconda volta.

Nel nono giorno, l’ultimo dei misteri, empivano due vasi, detti plemochoe, ch’erano testacei, e che aveano un fondo non acuto ma stabile e piano. Uno ne ponevano all’Oriente, l’altro all’Occidente, quindi mormorando alcune misteriose parole, partivano, e davano termine alla festa.

In tutta la solennità erano i rei e i debitori sicuri. Era vietato alle donne di andare ad Eleusi colle bighe, e gli asini avean l’onore di portare tutto quello che era necessario pei misteri. Questi erano in tanta venerazione presso gli antichi, che sacro era per essi il giuramento. Tanto è l’impero della superstizione, che questi prestigi durarono fino agl’imperatori cristiani, e che Valentiniano, che proibir gli voleva, fu costretto di concederne alle preghiere di un uomo illustre la continuazione.

Teodosio il maggiore, benemerito della nostra Religione, abolì con molte altre ridicolezze del Paganesimo ancora i misteri Eleusini, che furono celebrati dagli Ateniesi, non solo, ma dai Filasi, dai Feniati, dagli Spartani e dai Cretesi. Claudio Cesare tentò di trasportarli presso i Romani, e la sua intenzione fu posta col tempo in effetto da Adriano.

Eccovi date, con quella brevità che si poteva, le notizie più importanti intorno ad un soggetto tanto rammentato dagli scrittori, e non di rado espresso nei monumenti. Voi ancora potete dire d’ essere iniziati.

Claudiano terminerà di raccontarvi di Proserpina le avventure.

Il ratto di Proserpina.
(Continuazione).

Ogni altra ninfa nel desio dei fiori
Di Cerere vincea l’unica speme:
Il ridente canestro empie di foglie
Agresti e i fiori accoppia, e sé corona
Fatale Augurio del sortito letto.
L’onnipotente dea la destra stessa
Onde scompiglia le falangi, abbatte
Le ferree porte, crolla i muri, in lievi
Studii ora stanca, depon l’asta, all’elmo
Ingentilir con nuovi serti insegna.
La ferrea cima lussureggia, e fugge
L’orror di Marte, e la placata cresta
Tien Primavera. Coi sagaci cani
Colei che scorre del Partenio i boschi
Or sprezza i cori, e di frenar con vago
Serto del crin la libertà non sdegna.
Ecco ch’in mezzo dei virginei scherzi
Mugge cupo fragor, le torri ondeggiano,
Crollano le città: cagione ascosa
Move il dubbio tumulto, e nota è solo
A Citerea che spaventata gode.
Cerca una strada fra l’opaca terra
Il re dell’ombre coi destrier pesanti:
Encelado gemente opprime, e solca
L’immense membra con le ferree rote.
Già nuovo peso alla cervice è Dite:
Moversi tenta, e cogli stanchi serpi
L’asse trattiene: lo zulfureo tergo
Segnano l’orme del fumante giro.
Come occulto guerrier cerca la strada
Dentro le fosse di scavato campo
Onde il sicuro oste sorprenda, e vinca
Le rocche dagli assalti invan difese.
Tal con erranti briglie il terzo erede
Di Saturno ricerca ove l’uscita
Sia del mondo fraterno: era ogni via
Chiusa, e duro contrasto eran le rupi.
Sdegnato, i sassi collo scettro immenso
Percote il nume con muggito orrendo.
Di Sicilia sonar gli antri: si scosse
La Liparea fucina, e lasciò l’opra
L’attonito Vulcan: cade al tremante
Ciclope il fulmin che prepara a Giove.
L’udì l’abitator dei ghiacci alpini,
Il Tebro di trionfi ancor non cinto.
Ma poiché vinta dalla man possente
I duri nodi la Trinacria sciolse,
E voragine immensa apriva in Cielo,
Appar subita tema, e mutan gli astri
L’antica strada: nel vietato flutto
L’Orsa si tinge, e la paura il carro
Precipita a Boote, inorridisce
Orione crudel, pallido Otranto
L’insolito nitrito ode; i cavalli,
Che caligine pasce, alzaro al Cielo
L’intente orecchie, e mordon fermi il freno;
Attoniti al miglior Cielo, l’obliquo
Timon volgeano nella patria notte,
Ma della sferza la percossa orrenda
Loro insegna a soffrire il Sole, e vanno
Rapidi più che rovinoso fiume;
Vincon del Parto la saetta, i venti,
II volo del pensier: spuma di sangue
Il freno, e tinge le fumanti arene.
Fuggon le ninfe, nel volante carro
Proserpina è rapita, e grida: O dee,
Aita; — e già la sua Gorgone svela
Pallade, e con il teso arco s’affretta
Diana: all’armi castità comune
Le move, e l’odio al rapitore accende;
Ei qual lione che giovenca afferra
Decoro dell’armento, e con gli artigli
Sbrana il petto, poiché nel tergo immenso
Il furor consumò, scote di sangue
I tinti velli, e dei pastor disprezza
I vili sdegni. Gli dicea Minerva:
Re di vigliacca plebe, o dei fratelli
Pessimo, con la face e col flagello
Qual delle furie qui ti spinse? ed osi
Profanar con la tua quadriga il mondo?
Per te di Lete è il pigro stagno, e sono
Spose degne di te le stigie ancelle.
Torna alla notte tua, lascia il fraterno
Retaggio; a che calpesti il nostro mondo,
Ospite infame? — E percotea gridando
Collo scudo i corsier; fischiano i serpi
Della Gorgone incontro al nero carro,
L’asta fiammeggia, e già saria vibrata,
Ma puro raggio di tranquilla luce
Giove ne torse, e con tonante nembo
Genero confessava il re dell’ombre.
Lor malgrado cedean le dive, e sciolse
Tali accenti Diana: Ah noi ricorda:
Addio per sempre: altro tentar ne vieta
Reverenza del Padre: in tua difesa
Non vagliam vinte da maggior impero;
In te congiura il genitor, al muto
Popol sei data, e non vedrai le tue
Desiose sorelle, e il coro eguale.
Qual fortuna ti tolse al mondo, e danna
A tanto lutto il nostro Cielo? I gioghi
Te piangeranno del Menalio monte,
E il mesto cinto, e tacerà di Delfo
Il fraterno delubro. — E tratta intanto
L’Etnea fanciulla sul volante carro,
Sparte all’aura ha le chiome, e palma a palma
Batte e vane preghiere al Cielo inalza:
Ah dai Ciclopi i fabbricati dardi,
Oh Padre in me che non torcesti? ali* ombre
Mi consegni, o crudel: da tutto il mondo
Discacciarmi ti piace, e nulla in core
Pietà ti grida? ove è l’amor d’un padre?
Qual delitto in me tanta ira commove?
Non io di Flegra nel fatai tumulto
Portai l’insegne contro il Ciel, nè sono
Conscia d’alcun delitto, eppur m’aspetta
Il baratro tremendo. voi felici
Donzelle, ch’altro rapitor toglieva:
Godete almen della comune luce.
Col pudore anche il sole a me si toglie,
Del Tartareo tiranno ultima schiava.
O male amati fiori, o della madre
Disprezzati consigli, o di Ciprigna
Arti tardi scoperte. madre naia,
Aita; al fero rapitor sorprendi
L’orride briglie, e al mio dolor soccorri. —
Da tai detti il feroce, e dalle belle
Lacrime è vinto, e del primiero amore
Sente i sospiri, e alla fanciulla il pianto
Ter2:e col ferruorineo ammanto, e il mesto
Dolor consola con placata voce.
Perchè tormenti con funeste cure
Proserpìna il tuo cor? scettro maggiore
Avrai, nè son di te consorte indegno.
Io pur son prole di Saturno, e serve
A me la mole delle cose: il giorno
Non stimar che ti sia rapito: abbiam
o Altre stelle, altro sol, luce più pura
Saravvi, e stupirai gli Elisi campi
Ed i beati abitatori, e prole,
Aurea dimora, e più felice etade.
Ciò che i numi mertaro una sol volta
Sempre tenghiamo, più fecondi prati
Con Zeffiro migliore educan fiori
Eterni, ch’Etna tua mai non produsse.
Albero ricco nell’opaco bosco
Sorge e gli curva i risplendenti rami
Verde metallo; a te fia sacro, e ricca
Sarai tu sempre degli aurati pomi.
Poco ti dico: ciò che il Ciel sereno
Contiene, quello che produce il suolo,
Abbraccia il mare, e traggon seco i fiumi
Scenderà tutto nel temuto regno.
La porpora deposta, ai piedi tuoi
Fra la plebe confusi i re verranno.
Tutto eguaglia la morte: e pene ai rei,
Riposo ai giusti tu darai. Le colpe,
Giudice te, le nuove ombre diranno.
Ricevi col Leteo fiume le Parche
Ancelle, e fato i tuoi detti saranno. —
Sì disse e i lieti corridori esorta,
E più mite all’averne entra. D’intorno

L’anime gli si fanno: Austro non scote
Cotante foglie dalle frondi: incontra
Inferno il proprio Re: sereno ei torna:
Con facil riso la mestizia eterna
Mansuefece. Flegetonte s’alza
Al venir del suo re, d’ardenti rivi
Spuma l’ispida barba, e tutto il volto
Scorron gì’ incendi:. Dalla plebe eletti
Ministri sciolgon dei destrieri il freno,
E gli guidan fumanti ai noti prati.
Parte tiene la reggia, orna di rami
Le soglie, e il letto con adorni vasi
Inalza. Cingon con pudica schiera
L’Elisie madri la regina, e fanno
Al tenero dolor frode soave
Con detti accorti; dell’errante crine
L’error si frena, e delle nozze il velo
Il timido pudor orna e difende,
La pallida region si allegra, e stanno
L’ombre de’ morti coronate a mensa.
Rompe il silenzio dell’antica notte
Un insolito canto, e son più rari
Li orrori eterni; non l’incerte sorti
Agita Fuma di Minòs, è muto
Ogni flagello, non urli, non pianti
Odi, e sospese son le pene inferne.
Il Tartaro respira, e più non alza
Issione la rota, e non si toglie
L’invido umore dai Tantalei labbri.
Tizio le membra spaziose inalza
E del pallido campo i nove giri
Tutti discopre. Tanto era: Si toglie
Dal stanco petto il vorator grifagno
E a lui non crescon le rapide fibre.
Oblian le colpe, ed il furor temuto
UEumenidi, e d’un nappo il vin spumante
Bevon col crin feroce; i serpi eterni
Son miti; accendon con diverso lume
La face, che nuzial teda diviene.
Lachesi alcun stame non ruppe, il sacro
Canto dei cori non turbò la morte.
Nè morte errò sopra la terra; i crini
Incolti vela dell’algose canne
Caronte, e sopra della nera barca
Scorrea cantando coll’inutil remo.
D’Inferno il Cielo il proprio Espero lascia.
Proserpina al nuzial letto è condotta,
Ed ornata di stelle il nero ammanto
Pronuba notte le sta presso, e tocca
Le piume e unisce con perpetua pace
Tutto il creato. Godon l’ombre pie,
E vigil canto nelle soglie echeggia: —
Giuno nostra madre, o del Tonante
E genero e fratel, sonni concordi
Traete: unite con l’alterne braccia
1 petti. Già nasce beata prole,
E nuovi numi la Natura aspetta:
Desiati nipoti a Cerer date.

(Seguita nella Lezione vegnente).

Lezione trentesimasettima.
Vesta. §

Non rimane che Vesta tra gli Dei maggiori, la quale debba essere argomento delle nostre ricerche. Intorno alle altre divinità ho cercato di esporvi le opinioni degli antichi, e d’illustrarle coi monumenti degli artisti, colle descrizioni dei poeti, per quanto lo concedeva la tenuità delle mie forze e la vastità del subietto.

È sentimento di alcuni che due Veste vi siano state: una, madre" di Saturno, che Pale ancora fu detta; e Y altra figlia di lui. La somiglianza del nome le fece confondere, ed alla seconda si attri"buiscono tutte le qualità della prima. Ad essa, secondo r autore degl’ Inni Omerici, si offrivano le primizie dei sacrifizii, e le case dedicate le erano: in queste effigiata vedovasi per attestare, secondo Posidonio, che a lei dovevasi l’arte di fabbricarle.

Narra Aristocrito che dopo la vittoria riportata sui Giganti, Giove diede a Vesta la scelta di ciò che più le piacesse, ed essa, oltre le prime libazioni, ottenne di castità perpetua il dono.

Reputavasi il fuoco etereo, di che simbolo è Vesta, perpetuo degli antichi, onde da Orazio etenra nel terzo libro delle Odi vien chiamata. Quindi l’autor dei frammenti attribuiti ad Orfeo disse che la dea abitava nel mezzo dell’eterea regione del fuoco. E questa opinione segue Ovidio nei Fasti, dicendo: Non intendere per Vesta altro che la viva fiamma, che non vede nascer da questa alcun corpo. — Infatti, in Corinto vi era un tempio di Vesta senza alcuna statua, e vi si vedeva solamente nel mezzo un altare pei sacrifizii che facevano alla dea, la quale presso i Greci ed i Romani non avea anticamente altro segno che il fuoco con solenne religione custodito.

Numa Pompilio fece fabbricare in Roma un tempio alla dea Vesta, e lo fece costruire quasi in forma di un globo, non già, dice Plutarco, per significare che questo fosse il globo della Terra, ma per additare con esso tutto l’universo, nel mezzo del quale stava quel fuoco che chiamavano di Vesta.

Pure lo stesso nei Problemi, indagando la ragione perchè le tavole rotonde degli antichi si chiamassero veste, afi’erma che tal nome loro fosse dato per la somiglianza che avevano colla Terra, reputata lo stesso che Vesta. Questa differenza rende maggiormente probabile il parere accennatovi sulla confusione tra Vesta madre di Saturno, e Vesta sorella di Giove.

Nel tempio accennato mantenevano i Romani il fuoco sacro con tanta superstizione, che veniva riguardato come pegno dell’impero del mondo. Prendevano sinistro augurio se si estingueva, se si espiava questa negligenza con cure e con inquietudini da non dirsi. Non potevano più accenderlo con altro fuoco: bisognava, dice Plutarco, farne di nuovo, esponendo qualche materia atta a prender fuoco nel centro di un vaso concavo presentato al Sole. Ciò forse potrebbe provare che fin d’ allora erano gli specchi concavi in uso. Pesto però pretende, che questo nuovo fuoco si facesse collo sfregamento di un legno, a ciò atto, forandolo. Lo rinnovavano ogni anno nel primo giorno di Marzo ancora che non si estinguesse. Il fuoco sacro di Vesta non conservavasi solamente nei templi, ma ancora alla porta di ogni casa particolare, da che la parola vestibolo è derivata.

Il tempio di Vesta in Roma era aperto a tutti nel giorno, ma non era permesso ad alcun uomo lo starvi di notte, e nel giorno stesso gli uomini non potevano entrare nell’interno. Vesta avea pure altari in molti templi della Grecia dedicati ad altri Dei, come in Delfo, in Atene, in Tenedo, in Argo, in Efeso, in Mileto.

Ecateo Milesio nelle Genealogie dice che Vesta si figura in una donna sedente circondata da delle piante, e da ogni genere di animali, che l’accarezza. È chiaro che confonde Vesta colla Terra. Sopra una lampade di bronzo del Museo Romano si vede la dea che tiene una fiaccola accesa in forma di lancia nella mano destra, ed una patera, simbolo comune a quasi tutte le divinità, nella sinistra. Ella è rappresentata nella stessa maniera sopra una medaglia dell’ imperator Vespasiano. In altre ella tiene comunemente una lampade per indicare il fuoco eterno. Sopra un monumento di forma circolare eh’ è, ovvero era, nel Campidoglio, inciso nei Monumenti inediti di Winkelmann, Vesta è la sola dea che abbia un lungo scettro. L’abito suo è di matrona; qualche volte invece della lampade ha una torcia, il Palladio o una piccola Vittoria. I titoli che ha nelle medaglie e nei monumenti sono di Santa, Felice, Eterna, Antica, Madre.

Sarebbe qui luogo di favellare delle sacerdotesse della dea dette Vestali, ma siccome elleno sono parte dell’ istoria e delle costumanze romane, opportunità migliore mi si presenterà di trattarne quando, dopo avere indagata nelle favole la religione degli antichi, vi narrerò gli usi e i magnanimi fatti di quel popolo signore dell’universo.

Il vostro cuore dimanda che avvenisse di Cerere quando si accorse che le era stata rapita la figlia. Soddisfarà a così giusto desiderio Claudiano:

Il ratto di Proserpina.
(Continuazione.)

Cerer spaventa nelle sacre rupi,
Ch’il suono degli scudi empie, sicuro
Simulacro di mal; notte ripete
I timori del giorno; in ogni sonno
Pere la figlia. Or da vibrato dardo
È trafitta, ora vede inorridita
Mutarsi in nero ammanto i panni allegri,
E nei lari fiorir gli orni infecondi.
Sorgea di tutto il bosco a lei più caro
Un lauro, ed eran le pudiche frondi
Ombra gradita del virgineo letto:
Questo, reciso fin dall’imo, trarre
Vede, e brutti di polve i rami incolti.
Cercò la colpa, e rispondean piangenti
Le Driadi, che abbattuto il sacro alloro
Avean le Furie con tartarea scure.
Nuncia dei proprii danni era la figlia,
Immagin prima del sopor materno:
Di carcere nel mesto orror vederla
Pareale, e da crudel catena avvinta,
Non qual fidolla ai siciliani campi,
Nè come d’Etna nelle liete valli
La miraron le dee. Squallido il crine
Emulo già dell’oro, occupa notte
Gli occhi, la gloria del superbo volto
É vinta dal pallor, le nivee membra
Caligin tinge dello stigio regno.
Poiché sorprese la notizia antica
Nel dubbio volto, le dicea la madre:
O di qual colpa sei punita, e donde
Questo pallore? A chi dei numi è dato
Questo dritto crudele, e questi ferri
Come merlar le delicate braccia?
Tu sei mia figlia, tu? forse m’inganna
Un’ombra vana? — Rispondea: Crudele
Madre, ed immemor dell’estinta figlia,
Tanto ti prese oblio di me? disprezzi
Così l’unica prole? e caro un giorno
Di Proserpina il nome era alla madre
Di lei, scolta in tormentoso abisso,
Mentre tu, cruda, tra le Frigie danze
Esulti, e di rumor vano riempi
L’Idea montagna: Se il materno affetto
Tutto dal core non scacciasti, e sei
Cerere santa, e che di tigre ircana
Il sen non ti nutrì, da questi lacci
Salva la figlia tua: rendimi il sole;
O se lo vieta il fato, ah vieni almeno
Vieni a vedere il mio dolor. — Sì disse,
E alzar tentava le tremanti palme.
Lo vieta il ferro: l’angosciosa madre
Grida, e la sveglia il suon delle catene.
S’alza sul letto palpitando, e muta
Gran tempo, gode che la vista orrenda
Sia sogno; eppur del lacrimato amplesso
Si duole che il piacer fugga col sonno.
Balza e grida a Cibele: I Frigi campi,
Veneranda, abbandono; or me richiama
Di tanto pegno la custodia, e gli anni
Esposti ad ogni frode. Io non mi affido
Assai nei tetti dei Ciclopi, e tremo
Che non sveli la fama il mio segreto.
Me la famosa nobiltà del loco
Spaventa: ancora con timor diverso
Mi avverton sogni infausti, ed ogni giorno
Tremendi auguri: al mio dolor minaccia.
Quante volte di spighe i biondi fasci
Cadon spontanei dalle chiome, e bagna
I fissi lumi involontario pianto!
Che più? dei bossi tuoi se tento il suono
Dan gemito ferale, e suonan pianto
I timpani percossi. Ahimè ch’io tremo
Di mie lunghe dimore. — A lei rispose
Cibele: I detti tuoi disperda il vento:
Non sì gli ozii del ciel Giove avviliro
Che alla difesa di cotanto pegno
II suo fulmin non vibri: Or vai, ma ratta,
E felice ritorna. — Esce dal tempio
Cerere, e i tardi corridori accusa,
E li percote non mertata sferza.
Cerca Sicilia, e d’Ida appena è scesa,
E paventa di tutto, e nulla spera.
Sì teme augel che non pennuta prole
Commise ad umil orno, allor che l’esca
Recando, pensa che il diletto nido
Scosso dal vento non sia furto all’uomo,
Preda ai serpi. Poiché mirò la dea
Negletto il cardin delle fide porte
E della flebil casa il muto aspetto,
Stupida dal dolor pianto e parole
Formar non puote: i tremuli ginocchi
Mancano, e scorre per le membra un gelo.
Ma geme al fine, e con il crin si strappa
Le spighe, ed erra per le vote sedi,
Per gli atrii desolati, e riconosce
La tela, suo lungo desio, confusa,
E del pettin le dotte arti interrotte.
Perì l’opra divina, il ragno audace
Con sacrilego fìl supplìa lo stame!
Non piange il danno, nella cara tela
Imprime baci, e con le mute fila
Ragiona, e tutti del lavoro illustre
Gristrumenti negletti al sen si stringe
Come la figlia: del pudico letto
I vestigi ricerca e gli percorre
Con lacrime a con baci: i voti campi
Interroga così mesta giovenca
Del suo torello dal desìo trafitta.
Del tetto alfin nella segreta parte
Elettra ritrovò, fida nutrice,
Figlia dell’Oceano: a Cerer pari
Nell’affetto, solea nel sen gradito
Portar la pargoletta al sommo Giove,
E locarla con dolce atto di madre
Nel ginocchio paterno, ed era a lei
Genitrice seconda. Allora avea
La canizie del suo capo tremante
Sparsa di polve, e gran pianto spargea
Sull’alunna divina. A lei rivolta
Cerer dopo i sospiri, al duolo il freno
Sciolse, gridando: Qual ruina io veggo!
Regna il marito, o il trionfato Cielo
Occupare i Giganti? e chi potea
Cotanto ardir, vivo il Tonante? i nostri
Penati forse, vincitor dell’Etna
Encelado invadea? dove la figlia,
Dove la figlia mia? Questa è la vostra
Fede? così gli altrui pegni serbate? —
La nutrice tremò, mestizia cede
Alla paura, e colla morte stessa
Fuggir vorrebbe il sostener l’aspetto
Della misera madre. In questi accenti
Dopo lungo tacer sciolse la voce.
Non il furore giganteo congiura
Alla nostra ruina: o dea tu vedi
Celesti insidie, ed han turbato i numi
La lunga pace dei tranquilli lari.
(Fine della traduzione del Poemetto di Claudiano).

Lezione trentesimottava.
Il Caos, la Terra e l’Amore. §

Per favellarvi delle altre divinità minori io terrò lo stesso ordine che Esiodo, il quale nella sua Teogonia, se crediamo ad Erodoto, divise con Omero la gloria di dare un sistema alle opinioni religiose, quantunque a me sembri eh’ eglino, non violata l’antica semplicità delle favole, le adornassero solamente di alcune circostanze.

Nel principio, dice Esiodo, era il Caos, quindi la larga Terra sede sicura di tutti gì’ immortali, i quali tengono i gioghi del nevoso Olimpo, e nei recessi di essa stava il Tartaro tenebroso. V’era ancora l’Amore bellissimo fra gli Dei, che scioglie le cure, e doma nel cuore degl’immortali e degli uomini la mente e il prudente consiglio.

Dal principio di Esiodo traendo l’argomento della mia Lezione, ragionerò del Caos, della Terra, e dell’Amore. Secondo Ovidio Caos fu detto l’unico aspetto di tutta la natura nell’universo, che consisteva in una rozza ed indigesta mole, in un inerte peso, ed in ammucchiati semi discordi di cose non ben congiunte. Il rintracciare altro negli antichi ci condurrebbe a delle dispute metafisiche, dalle quali aborre lo scopo delle mie ricerche.

Quali genitori dia la favola alla Terra non è facile il rintracciare. Alcuni la dissero nata dal litigio, altri da Demogorgone, non appoggiati però alle antiche testimonianze. Esiodo, come avete veduto, non descrive l’origine di lei, ma immediatamente dopo il Caos la pone.

V’è chi la fa moglie di Titano. L’autore delllnno Omerico la chiama gran madre degli Dei e consorte del Cielo stellato. Erodoto dice che presso gli Sciti, dai quali era sommamente onorata, reputa » vasi Giove il marito. Esiodo certamente non le dà per consorte, ma per figlio il Cielo. Che che ne sia, fu annoverata, come Eschilo lasciò scritto, fra gli Dei terrestri ed infernali, ed ebbe molti nomi come lo stesso scrittore nel Prometeo attesta.

Pausania narra che diede la prima gli oracoli, e che avendo ceduta la sede e il privilegio a Temide, quest’ultima ne fé’ dono ad Apollo.

Immolavano gli antichi a questa dea un’agnella nera, come rilevasi dal terzo libro dell’ Iliade di Omero. Orazio le assegna altra vittima nel porco, ed Eschilo scrive che usanza era d’offrirle gli stessi sacrifizii che agli Dei mfernali, chiamati inferie dai Latini. Quasi tutte le antiche pagane nazioni hanno venerata con sommo culto la Terra. Gli Egiziani, gli Sciti, i Liei, i Frigi, i Romani, la posero col Cielo e cogli astri, dai quali cominciò la idolatria.

Conviene adesso rintracciare nei monumenti antichi e nelle medaglie i modi diversi di rappresentare la Terra. In una pittura antica del sepolcro dei Nasoni, ov’è effigiata la pugna tra Ercole ed Anteo, la Terra è rappresentata nella figura di una donna assisa sopra una rupe. Ella avea luogo nella composizione di questa tavola come madre di Anteo, che rinnuovava le sue forze ogni volta che toccava la Terra. Sopra una pasta antica è indicata da uno scoglio sul quale Temide è assisa per indicare che questa dea era figlia della Terra. « Una medaglia dell’imperator Comodo, dice Addison, offre l’immagine del Sole che comincia il suo corso; il disegno n’è bello, e rammenta i celebri versi di Ovidio: La via è ripida, terribile, ma sono i quattro corsieri del Sole; eglino hanno divorato lo spazio, i loro piedi percotono l’aria, ed allontanano le nuvole. — Ma l’artista si allontana con sommo giudizio dal poeta. Tutti due rappresentano la Terra distesa sotto il passaggio dello dio, ma eccone la differenza. In Ovidio ella è spaventata dall’incendio. Consumata dall’ardore, egli dice, inalza la sua testa carica d’ innumerabili frutti. Oppone la mano alla fronte, e scotendo il suo vasto corpo si lagna col Cielo. —

Per allontanare questa funesta immagine, l’artista adotta quella, colla quale Lucano felicita Nerone della sua maestria nel guidare il carro, dicendogli che s’egli fosse salito sui fiammanti Coc chi di Febo, la Terra niente pel mutato auriga avrebbe temuto. Si vede dunque sulla medaglia la Terra, ma in un atteggiamento tranquillo e sicuro. Da una mano ella sostiene il corno dell’abbondanza; dall’altra ella sembra esprimere l’ammirazione, la riconoscenza, la gioia. Tale è questa composizione, ed io non so il perchè gli antiquarii siano stati discordi sul disegno e sul pensiero. Io credo veder chiaramente un’adulazione indirizzata a Comodo. Nerone era eccellente a guidare un cocchio di carriera. »

Fin qui Addison, del quale ho riportato le parole, perchè oltre l’additare come sia figurata la Terra, dimostra quanta utilità gli artefici possono trarre dalle combinazioni dei poeti.

In una medaglia di Giulia Augusta esposta dal Begero, siede la Terra ammantata posando la destra sopra un globo stellato, poiché del Cielo e delle Stelle fìngesi madre. Stassi adagiatamente sotto l’ombra di una palma per dinotare la sua continua fecondità, essendo questo albero simbolo della fertilità e della durata. Scorgonsi al di sopra del suddetto globo sorger le quattro stagioni dell’anno nel giro delle quali conduce la Terra a maturità ogni semenza.

Le stagioni sono figurate nei quattro fanciullini, tutti rivolti verso la Terra; ed il primo di essi, che rappresenta l’Inverno, ha un manto che gli pende dagli omeri: gli altri poi sono nudi, ed in tal guisa appunto sono rappresentati questi pargoletti, che figurano le stagioni, nel Museo Passeri al tomo I, ed ha pur ivi l’Inverno, ch’è solo abbigliato, ristesso luogo. Forse i Romani esprimevano con giovani uomini o fanciulli le stagioni, perchè presso di loro chiamavansi neutramente i tempi dell’anno, al contrario dei Greci, dai quali colla parola (grec) feminina erano significate.

In un’antichissima lucerna del già citato Museo Passeri vedesi la Terra in mezzo a sette pianeti, come appunto da Macrobio viene espressa. La Terra è turrita, ed ha al di sopra alla destra Mercurio, come si distingue dall’ali sul capo, ed alla sinistra è Saturno turbato in vista e severo. Marte col suo elmo, e Venere colle chiome annodate pongono in mezzo la Terra: sotto a Marte stassi la Luna, che ha di fronte Giove, ed in mezzo tutto raggiante mirasi il Sole. L’Olivieri suppone eruditamente che la Terra venga qui accompagnata dai sette pianeti perchè questi, come fu credenza degli antichi, esercitavano ciascheduno nel proprio giorno la loro efficacia e virtù sopra la Terra, e le tramandavano gl’influssi. Assai della Terra.

Amore re degli uomini e degli Dei merita le nostre ricerche. I Latini, come nota Servio, diedero ad Amore il nome di Cupido. Ma questa regola non è generale, come in Virgilio, in Properzio può vedersi; onde io mi servirò indistintamente dell’uno e dell’altro nome. Esiodo non gli attribuisce genitori, ma lo fa succedere al Caos ed alla Terra.

Secondo Cicerone vi furono tre Amori. Il primo, figlio di Mercurio e Diana: il secondo di Mercurio e Venere; il terzo nato dalla Venere terza e da Marte, ed Antero chiamato: lo Scoliaste di Teocrito lo favoleggia nato dal Caos e dalla Terra. Acusilao dalla Notte e dall’Etere, Alceo dalla Lite e da Zeffiro, Saffo da Venere e dal Cielo, e Simonide finalmente, secondo l’opinione più seguitata, da Venere e Marte. Platone definisce l’Amore figliuolo del dio delle ricchezze, ch’ei chiama Poro, e della Povertà.

Darò compimento nella presente Lezione a ciò che riguarda Cerere col leggervi il delitto e la pena di Eresittone. che da Ovidio ho tradotto:

Eresittone selva a Cerer sacra
Violò colla scure: immensa querce
Stava con tronco annoso, e sola è bosco:
Memori segni la cingean, corone
Varie, argomento di potente voto.
Le Driadi all’ombra dei sacrati rami
Fean festive carole; anco sovente
Colle destre in leggiadro ordin congiunte
Cinser del tronco la misura, e dieci
Braccia tre volte empiva: era del bosco
Maggior, quanto sovrasta all’erba il bosco
. Non di Triope pertanto il figlio astenne
Dall’arbor sacro il ferro, e allorché vide
La pia dimora di tremante servo.
Gli rapisce la scure, e in questi accenti
Scelerato prorompe: Ancor che fosse
La diva stessa, non che a lei diletta
Cotesta querce toccherà la terra
Colla frondosa testa. — In colpo obliquo,
Ciò detto libra la bipenne; trema,
E par che pianga di Dodona il legno,
E colle frondi impallidir le ghiande
Vedi e trarre il pallore i lunghi rami,
E dalla piaga della man profana
Scorrere il sangue, come allorché cade,
Vittima immensa innanzi all’ara, il toro:
Tutti stupirò, ed un fra tanti osava
Vietar la colpa e trattener la scure.
Il Tessalo lo mira e: prendi, esclama,
Premio della pietosa anima: il ferro
Dall’albero nell’uom converte, e tronca
Il capo, e poscia nella querce il colpo
Ripete, e allor da mezzo il tronco uscìa
Cotal voce: Dimora in questo legno
Ninfa a Cerere grata, e a te, morendo.
Pena, sollievo al mio morir, predico. —
Il delitto ei prosegue, e vinta alfine
Dagl’infiniti colpi, e al suol piegata
Per tese funi ruinò la querce,
E col suo peso molto bosco inchina.
Le Driadi sorelle, in vesti negre
Piangendo colla selva il proprio danno,
A Cerer giunte dimandar frementi
D’Eresitton la pena. A lor consente
La dea: col cenno del divino capo
Scosse i campi ove gran messe biondeggia,
E di tormento lacrimabil serto
Ordia; ma chi sopra Eresitton piange?
Lacerarlo tu devi, o Fame, (il Fato
Pon fra Cerere e te discordia invitta)
Onde parlò la diva a ninfa agreste
Così: Di Scizia negli estremi lidi
È steril luogo, e non ha frondi e biade:
Col pallore qui giace il freddo inerte,
E col Tremore la digiuna Fame.
A lei comanda che nel sen si celi
Di quel profano, nè alla copia ceda,
E con le forze mie combatta e vinca:
Nè te la lunga via sgomenti, e prendi
Il cocchio e i serpi miei col fren governa. —
Lo diede. Vola col concesso carro
La ninfa, giunge nella Scizia, il collo
Tende ai serpenti sopra l’aspro monte
Che Caucaso si noma: e qui la Fame
Cercata trova, che in sassoso campo
Strappa con l’unghie e con i radi denti
Le pallid’erbe: irto era il crine, i lumi
Cavi, pallido il volto e bianco il labbro:
Son scabri i denti rugginosi, e dura
La pelle accusa ogni segreta parte,
E l’arid’ossa dai curvati lombi
Spuntan pel ventre: evvi del ventre il loco.
La macie accresce le giunture, e l’orbe
Dal ginocchio rileva, e sorge acuto
Il tumido tallone. A lei da lungi
Narra la ninfa della diva i cenni,
E le parve sentir, benché lontana.
La Fame, e volse ver l’Emonie rupi
I rapidi serpenti. Il vento porta
La Fame ai lari comandati; invade
Del sacrilego il letto, in alto sonno
Lo trova immerso; e con le fredde bracia
Cingendolo s’inspira a lui nel volto;
Nelle fauci, nel sen gli soffia, e versa
I suoi digiuni nelle vuote vene:
Compita l’opra, la feconda terra
Lascia; ai poveri tetti, agli antri noti
Ritorna. Il sonno con placate penne
Eresitton lusinga, e già dei sogni
Nell’immagini i cibi ei cerca, e move
La vana bocca, ed i delusi denti
Stanca in loro, e le lievi aure divora.
Si sveglia, e regna la vorace fame
Nelle viscere immense, ond’egli chiede
Ciò che rinchiude e mare ed aria e terra,
E a mensa piena del digiun si lagna,
E quel eh’ un popolo empie a lui non basta.
Nella voragin dell’ ingordo ventre
Tutto alfine discende il censo avito,
E le sue membra a lacerar col morso
Necessità lo strinse, e col suo corpo
II misero la vita e scema e nutre.
Ovidio, Metamorf., lib. viii, v. 741 e segg.

Lezione tremesimanona.
Gli attributi e i simulacri di Amore. La Notte. §

Vi esposi nella passata Lezione la discordia dei mitologi nell’assegnare genitori dell’Amore. Riunirò adesso le altre notizie tramandateci da^li antichi intorno a questa divinità potente.

Nella famosa pittura di Zeusi in Atene vedevasi Amore coli’ ali e coronato di rose. Col tempo gli furono afirsriunti non solamente nomi, ma insesrne per significarne la forza e gli effetti. Oltre l’arco e la face, consueto ornamento, noi sappiamo da un antico poeta che sosteneva nelle mani un delfino e un fiore, per indicarci il doppio impero ch’esercitava sulla terra e sul mare.

Tanta audacia attribuirono allo dio sii antichi poeti, che finsero essere stati da lui spogliati tutti i numi delle loro armi. Esrli tolse il fulmine a Giove, gli strali ad Apollo, la clava ad Alcide, l’elmo a Marte, la face a Diana, il tirso a Bacco, il tridente a Nettuno.

Fanciullo fu detto e Cieco, e gli diedero per compagne l’Ebrietà, le Angoscie, le Inimicizie, la Contesa. Seguì l’idee degli antichi il Petrarca allora che disse di questo dio:

« Ei nacque d’ozio e di lascivia umana
Nutrito di pensier dolci e soavi,
Fatto signore e dio da gente vana. »

E Properzio, uno dei più grandi poeti antichi, spiegò con molta accortezza ed artifizio poetico gli attributi d’Amore:

« Chiunque fu che primo dipinse Amore fanciullo non lo giudichi maraviglioso artista:
« Egli primo conobbe viver gli amanti senza sentimento, e che per lievi cure gran beni periscono:
« E non invano gli diede Tali veloci, ed errar fece lo dio negli umani cuori: poiché or qua, or là siamo gettati, e la nostra volontà muta loco.
« Meritamente è armata la mano di saette formate a guisa di amo18, e la faretra pende dall’una all’altra spalla.
« Infatti ne ferisce prima che ce n’avvediamo, poiché da noi senza paura si mira un tanto nemico e niuno va esente dalle sue ferite.
« In me rimangono i dardi, e l’immagine fanciullesca: ma certamente egli ha perduto le sue penne, poiché dal mio cuore non è volato più mai. »

E prezzo dell’opera adesso il favellare dei monumenti dell’Amore veduti nella Grecia da Pausania, che non può mai esser letto abbastanza dagli artisti, poiché gran parte delle più celebri statue dell’antichità è nel viaggio è nel Yiaggio di lui rammentata.

Neir ingresso dell’Academia vi era 1’ altare dell’Amore con un’ iscrizione, la quale attestava che Carmo fu il primo Ateniese che consacrò un altare a questa divinità.

A Megara scorgevasi l’Amore scolpito da Scopa insieme col Desiderio e la Passione.

Fra le pitture di Pausia contemporaneo ed emulo di Apelle, che si ammiravano nel tempio di Esculapio in Epidauro, distinguevasi un Amore, che, gettato l’arco e la freccia, teneva una lira

Presso i Tespiesi popoli della Beozia era l’Amore singolarmente venerato. La sua statua, come nei tempi più antichi, era una pietra informe non mai adoprata. Successivamente Lisippo fece per essi un Cupido di bronzo, e Prassitele ne aveva per l’ innanzi scolpito uno per loro del bel marmo del Monte Pentelico. I Tespiesi narravano che loro fu tolto da Cajo imperatore dei Romani, che Claudio lo rimandò, ed ultimamente fu di nuovo rubato da Nerone e situato in Roma, ove fu consumato dal fuoco.

Il Cupido che vedovasi in Tespi ai tempi di Pausania era di Metrodoro Ateniese, che aveva imitata la statua di Prassitele, la quale aveva tanta celerità, che si faceva il viaggio di Tespi unicamente per vederla.

I tespiesi celebravano una festa in onore di Cupido, nella quale vi era il premio non solo pei musici, ma ancora per gli atleti.

L’Amore in Elide vedevasi sullo stesso piedistallo delle Grazie alla diritta di loro.

In Egira l’Amore alato stava in una piccola cappella accanto alla Fortuna, probabilmente per significare che in amore la fortuna giova più della bellezza.

L’Amore è stato rappresentato sotto forme varie all’infinito. Una delle sue immagini più dotte è quella del Gabinetto di Stosch, che l’offre tenente un gruppo di chiavi in mano, che egli è il padrone ed il guardiano del talamo di Venere, come Euripide si esprime. Rappresentato in questa maniera l’Amore era chiamato (grec) o chiavigero.

Si rappresentava ancora l’Amore con gli attributi di tutte le grandi divi^nità per denotare l’estensione e l’universalità del suo impero. Possiamo convincercene in un basso rilievo incognito del Palazzo Mattei, sul quale si veggono dodici piccoli Amori, dei quali il primo porta la clava di Ercole sulla spalla, e il secondo il martello di Vulcano, L’Amore sotto la figura di Giove è in piedi nel mezzo, appoggiato sopra un cippo, o colonnetta quadrata, secondo il costume degli eroi, e tiene il fulraine nella mano,

L’Amore, secondo l’espressione di Plutarco, è il compagno delle Muse, delle Grazie e di Venere. Una gemma del Museo Fiorentino ci offre Amore che naviga sopra un’anfora, e questa immagine sembra esser tolta dall’Ercole di Omero. Sopra una pietra conosciutissima, l’Amore è a cavallo sopra un leone, per indicare ch’egli doma ancora i cuori più feroci.

La lucertola ai pie d’Amore dormente è in un marmo della Villa Pinciana nella stanza del Sileno ed in un altro dei monumenti Peloponnesiaci. Questo rettile, come il ramarro, credevasi simbolo del predire l’avvenire, che gli antichi e i moderni hanno creduto essere proprietà del sonno, onde disse Dante

« ……………… il sonno, che sovente
Anzi che il fatto sia, sa la novella. »

Questo dio mi rammenta la Notte sua madre, che nacque dal Caos, e che Esiodo annovera dopo l’Amore. Quindi è che io seguitando il sistema che mi sono prefìsso, dirovvi ciò che intorno a questa dea pensavano gli antichi.

Regina del Caos era innanzi che Iddio togliesse la lite degli elementi, e leggi prescrivesse alla materia informe. Con ragione quindi l’autore degl’Inni, che vanno sotto il nome di Orfeo, la chiamò madre degli uomini e degli Dei.

Favoleggiarono i poeti che fosse tratta sopra un cocchio, avanti alle rote del quale cominciavano a risplender le stelle. Euripide disse: Coperta di nere vesti sale sul cocchio la Notte, e gli astri la seguono immantinente, — Le davano la biga, onde da Virgilio fu scritto: La Notte nera portata dalle bighe occupava il cielo. — Questa immagine però del carro sembra posteriore ad Omero, poiché gli scrittori innanzi figuravano alata la Notte. Virgilio seguitò ancora questa opinione, dicendo: Precipita la Notte, e con le nere ali abbraccia la Terra, — E nel libro secondo la fa sorgere dall’Oceano al cader del giorno. Sacrifìcavasi a questa dea il gallo come animale ai suoi silenzi: nemico.

Molti figli attribuisce la Mitologia alla Notte, senza contare il Sonno. La Rabbia, la Rissa, il Fato, le Parche, la Morte, i Sogni, l’Etere, il Giorno, l’Amore, l’Inganno, la Paura, la Fatica, l’Invidia, la Vecchiezza, le Tenebre, la Miseria, sono sua prole, per tacere di molti altri. Vogliono alcuni che senza marito la generasse, ed altri, coll’Èrebo congiunta.

La Notte tenente al di sopra della sua testa una vesr,e volante seminata di stelle si scorge in una gemma antica, ove il Maffei ha creduto vedere la dea dell’Ore. Monfaucon parla di una consimil figura dipinta in un antico manoscritto, della quale il drappo è blu, e che tiene una fiaccola rovesciata, con l’iscrizione: La Notte.

Sopra un basso rilievo del Palazzo Albani, che esprime la scoperta dell’ adulterio di Venere con Marte, questa dea assisa sopra un letto tiene al di sopra di essa un manto volante, per indicare probabilmente che questo delitto fu commesso di notte. Sopra un altro monumento, che rappresentava lo stesso soggetto, ma che non esiste più, la Notte era effigiata nella figura di una donna nuda con delle lunghe ali di pipistrello, e con una fiaccola nella mano.

Compirò il mio ragionamento colla descrizione di un simulacro di Arùore del Museo dementino, data dal celebre Visconti. Succederà a questa un’elegante Canzone di Lodovico Savioli sopra Amore e Psiche. Si presenterà l’occasione di ritornare col tempo su questa favola ingegnosa, con tanta venustà raccontata da L. Apuleio:

« Maggior sarebbe il pregio di questa bellissima mezza figura quando colla stessa probabilità che della precedente se ne potesse rintracciar l’autore.

« La grazia e la venustà sono le doti principali di questa scultura, che non manca nè di verità, nè di morbidezza. La celeste fisonomia ce lo farebbe ravvisare pel figlio di Venere compagno delle Grazie, anche senza riflettere che aveva in antico le ali, riportate forse di bronzo, rimanendovi sopra gli omeri i vani per inserirvele.

« In due repliche antiche di questo elegante simulacro, inferiori però al nostro frammento per la finezza dell’esecuzione, le ali sono di marmo. Una di queste assai conservata, coll’arco della destra e la sinistra posata sulla faretra, é nella galleria del Palazzo Farnese: un’altra fu dissotterrata nell’Orto Muti alle falde del Viminale, nel sito ove gli espositori della topografia marmorea di Roma antica leggono Bagno di Agrippina. Quantunque però non esista monumento antico a mia conoscenza che possa illustrare l’origine di questa graziosa figura, inclinerei molto ad attribuirla anch’essa a Prassitele. Sappiamo da Plinio ch’egli scolpì l’Amore a Tespi piccola città di Beozia, che per questo solo era visitata dai forestieri; che fu tolta ai Tespiesi da Caligola e portata a Roma, donde Claudio la rimosse per restituirla loro: che Nerone tornò a ritorla e la fece di hel nuovo trasportare nella metropoli, dove perì nell’incendio, come vuole Pausania, o si ammirava, come vuole Plinio, anche ai suoi giorni ne’ porticati di Ottavia. Asserisce questo autore che Prassitele scolpì un’ altra volta Cupido tutto nudo pel tempio di Parlo dove ebbe fama e avventure pari a quelle del simulacro materno di Guido. Quel che sicuro è, che la moltiplicità delle copie ce lo attesta per una delle più celebri statue di questo nume; ed io la crederei volentieri un’immagine dell’Amore scolpito da Prassitele a Parlo; e quell’altra in età più fanciullesca, che si ammira in Campidoglio, nel Palazzo Laute e altrove, potrebbe essere imitato da quello di Tespi. »

Amore e Psiche

« E tu, cura soave
Di tacite donzelle,
Cui mentre Ebe sorride, il giovi n seno
Penetri ardito, i nostri carmi avrai;
Nè la candida tua Psiche, e le belle
Forme, e la notte, e gli amorosi guai
Inonorati andranno.
Or ella è teco, e dell’antico affanno.
Che ricompensa un più propizio Fato,
Dolce memoria suona
Per l’Olimpo beato.
Vergine avventurata in mortai velo
Di bellezze immortali adorna apparve;
Stupì vedendo, e l’adorò la terra.
Venere al terzo Cielo
Tornò da’ freddi suoi vedovi altari
Te consigliando alla giurata guerra.
Ma la vendetta invano
Volgean gli occhi di Psiche.
Ardesti, e a te l’antiche
Arme cadeau di mano.
Vittima incerta entro a funereo letto
Tradotta al monte, abbandonata e pianta,
Giù per valli profonde in ricco tetto
Peso a un Zefiro amico ella scendea.
Là di se in forse i vuoti dì vivea
Fra tema e speme a sconosciuto amante;
E tu le usate prove,
Terribil Nume, esercitar solevi
Sovra Nettuno e Giove;
Poi col favor dell’ombre
Ti raccogliea nella segreta reggia
Talamo aurato d’immortal lavoro.
Ivi alle tue fatiche
Ofiria dolce ristoro
Il molle sen di Psiche Irrequieta Diva,
Che nelle gioie altrui t’angi e rattristi,
Tu dall’inferna riva
L’aure a infettar del lieto albergo uscisti;
La giovinetta intanto
Gli avidi orecchi a tue menzogne apriva;
Nè vide più nell’amator celato,
Che spoglie anguine ed omicida artiglio,
Fin che il terror poteo nel cor turbato
Strano eccitar d’atrocità consiglio.
E già un placido sonno
Gli occhi d’Amor chiudea,
Quando alle quete coltri
Perversa il pie volgea.
Apparia nella manca
La lucerna vietata;
Era l’infida e mal secura destra
D’ingiusto ferro armata.
Primi soffrirò ai desiosi sguardi
Sovra l’estrema sponda.
Amor, gli aurei tuoi dardi:
Psiche li tocca appena, e n’è ferita.
Scorge la chioma bionda.
Il volto e l’ali, Amor conosce ed ama;
E cade il ferro, e la lucerna mcauta
Coir ardente liquor l’omero impiaga.
Fuggiva il sonno; a lei vergogna e duolo
L’alma pungean. Tu rapido movevi
Per l’aure lievi a volo.
Te ritenne Citerà. Ivi t’accolse
La rosata di Psiche emula antica,
E medicava la pietosa mano
L’offese della tua dolce nimica,
Mentre la sconsolata
Te richiamava lagrimando invano.
Parlò a lungo il dolore,
Poscia il furor non tacque,
E invocò morte, e si lanciò nel fiume:
Cara un tempo ad Amore
La rispettaron l’acque.
Lei che raminga in traccia
Del perduto Signor scorrea la terra.
Incoraggi soave
La Dea, che al crin le bionde spiche allaccia;
A lei stendea le braccia
Racconsolando, e la compianse Giuno.
Sola Venere altera
Non calmò l’ire gravi, e su l’afflitta
Compier giurò la sua vendetta intera;
Chi dir potria l’oscura
Carcere, e i duri uffici:
Chi l’auree lane, e la difficil’onda:
Amor, dov’eri? a te che tutto sai,
Come furono ignoti
Della tua Psiche i guai!
Ella, come imponea la sua tiranna,
Osò d’entrar per la Tenaria porta,
E por vivendo il piede
Ne’ tristi regni della gente morta.
Allo splendor dell’auro
Lei l’avaro nocchier pronto raccolse,
E varcò la palude.
Latra Cerbero invano.
Le gole il cibo e gli occhi il sonno chiude.
Elia passa, e il soggiorno
Tenta di Pluto, e il fatai dono chiede:
Ricusa i cibi, e al giorno
Da Proserpina riede.
Deh qual ti mosse femminil disegno,
Psiche, ad aprir la chiusa urna fatale?
Là dell’ira immortale
Era il più orribil pegno:
Ed ecco un vapor nero
Uscia la cara a te luce togliendo,
E rendea l’alma al mal lasciato impero.
Ma vide Amor dall’alto,
Vide, e pietate il prese:
Sentì l’antica fiamma,
Ed obliò le offese,
E a più beata sorte
La conservò da morte.
E volgea ratto al sommo Olimpo l’ali,
E innanzi al Re, che i maggior Dii governa,
Narrò di Psiche e di se stesso i mali,
E chiedea modo a tanta ira materna.
Impietosiva il gran Tonante, e Imene,
Siccome piacque a Citerea placata,
Obblio versò sulle fraterne pene;
E l’ambrosia celeste Ebe ministra
Dolce a Psiche porgea.
Ella bevve e fu Dea. »
Savigli, Poesie.

Lezione quarantesima. Sonno. §

Il fratello della Morte, il figlio dell’ Èrebo e della Notte, il custode dei sepolcri antichi, il Sonno finalmente, merita, come dio del Paganesimo, la vostra attenzione e le mie ricerche. Non è disputata la sua origine, ma alcuni fra gli antichi estendono la sua parentela, dandogli per sorelle ancora le Speranze. Così forse vollero significare che spesso egli offre agli infelici dei sogni, coi quali l’immaginazione, stanca di vere sciagure, cerca un miglior avvenire. Certo è che i sogni sono la compagnia eterna di questa cara divinità, come appare da Tibullo, che dice: — E poi viene il sonno colle ali fulve, e i neri sogni con incerto piede. — Questa immagine da lui derivò il Casa nella prima terzina di questo famoso Sonetto, che voi udirete volentieri.

« Sonno, o de la queta, umida, ombrosa
Notte placido figlio, o de’ mortali
Egri conforto, oblio dolce dei mali
Sì gravi, ond’è la vita aspra e noiosa;
Soccorri al core ornai che langue, e posa
Non ave; e queste membra stanche e frali
Solleva: a me ten vola, o Sonno, e l’ali
Tue brune sopra me distendi e posa.
Ov’è il silenzio, che il di fugge e il lume?
E i lievi sogni, che con non secure
Vestigia di seguirti han per costume?
Lasso: che invan te chiamo; e queste oscure
E gelid’ ombre invan lusingo. piume
D’asprezza colme: o notti acerbe e dure! »

Alato, come avete udito, lo hanno figurato i poeti, perchè con prestezza tutto l’universo percorre, e chiude all’ improvviso gli occhi dei mortali. Solamente il suo volo manca qualche volta innanzi le case del dolore, e non sempre serpeggia fra le lacrime dell’infelice. Ma s’egli lo ricopre colle sue penne può disprezzare la servitù, il dolore, la miseria, e tutti gli altri mali che sono sulla terra perpetua eredità dell’uomo.

Questo Dio però coi suoi benefizii ci rapisce, quasi crudele esattore, la metà della vita, e fa, come dice il divino Dante:

« che seggendo in piuma
In fama non si vien, nè sotto coltre:
Sanza la qual chi sua vita consuma,
Cotal vestigio in terra di sé lascia,
Qual fumo in aere od in acqua la schiuma. »

Quindi è che fratello di Lete lo disse con ragione Orfeo, che chiamò pure quiete dell’universo, e re degli uomini e degli Dei.

In Omero tutti gli Dei cedono al Sonno: solo veglia Giove; con che quel principe dei poeti volle indicarci che coloro i quali presiedono al destino degli uomini dovrebbero essere continuamente vigilanti. In altro luogo dell’Iliade il Sonno risponde a Giunone ch’egli non avrebbe addormentato Giove, perchè, avendolo una volta ardito, fu da lui precipitato nel mare, dove sarebbe perito, se la Notte domatrice degli uomini e degli Dei non lo avesse salvato. Non vi è istoria nè favola veruna che mostri esenti mai sempre i grandi dalle umane debolezze.

Luciano descrive elegantemente nel secondo libro Vere istorie la favolosa città del Sonno. È situata, secondo quel faceto scrittore, in una vasta pianura circondata da una selva di papaveri grossi come alberi, e di mandragore: mille erbe che producono il sonno fioriscono sotto le frondi, fra le quali volano solamente pipistrelli, nottole ed altri uccelli amici della notte. Scorre in mezzo alla città il fiume della dimenticanza: il suo corso è cheto, e le sue acque sono simili all’odio. Nasce da due fonti, che sgorgano in sconosciuto loco. Uno di questi si chiama il Nero, l’altro Tutta-Notte. Nella città sono due porte: uno di corno lavorata con grande artifizio mostra espresse, come in basso rilievo, tutte le immagini che cadono nella fantasia di chi dorme. Nell’altra di avorio bianchissimo non sono i sogni espressi perfettamente, ma solo ne sono segnati i contorni.

Vi ha pure tre templi. Il primo sacro alla Notte, e degli altri più venerato. Nel secondo si adora l’Apatia. Nel terzo la Verità. Sono popolate le strade di Sogni, tutti di figura diversa. Alcuni sono gracili, piccoli, gobbi, con gambe torte. Altri di bella statura e non men leggiadri di volto e di portamento. Vi sono Sogni che alati minacciano, con tremendo aspetto, sciagure, e ve n’ha diversi che promettono felicità vestiti con pompa reale.

Se qualche uomo entra in questa città, tutti gli si fanno incontro nel loro vario aspetto: gli annunziano beni, mali, e rare volte dicono il vero.

Questa graziosa pittura può presentare molte idee al vostro criterio, come di non poco lume per l’arte vi possono essere le seguenti notizie, che intorno ai modi di figurare il Sonno derivo dagli antichi monumenti.

Questo dio è rappresentato per una figura addormentata nelle braccia di Morfeo suo figlio, secondo Ovidio.

Così in due urne cinerarie al Campidoglio si vede Endimione, l’amante di Diana, dormire sul monte Latmo.

Morfeo è ordinariamente rappresentato con due grandi ali alle spalle, e due piccole alla testa. Nella villa Albani si vede presso un piccolo altare, dormente colla testa appoggiata sopra le due mani poste sopra un cippo ed incrociate l’una sull’altra.

Il Sonno è pur rappresentato con un giovine genio che si appoggia sopra una fiaccola rovesciata, e sì trova colla parola Sonno sopra una pietra sepolcrale nella Villa Albani con sua sorella la Morte. Si vedon questi due genii nella stessa forma sopra un’ urna cineraria eh’ è al Collegio Clementine in Roma. Un’ urna della Villa Panfìli ci presenta lo stesso genio addormentato coli’ ali ripiegate, e con dei capi di papavero nella mano.

In un altare di Trezene si offrivan dei sacrifizi al Sonno, come l’amico delle Muse. Quindi nel Museo Clementine una statua di lui è posta dopo le figlie di Mnemosine dal Visconti, che illustra due altri simulacri dello stesso Nume, che erano parte di quella preziosa raccolta delle più belle statue del mondo. Io non voglio defraudarvi di tante cognizioni preziose per l’Arti e per la Mitologia; onde inserirò in questo mio ragionamente, come soglio, le illustrazioni di tanto antiquario.

« Non farà maraviglia che nel Museo Tiburtino di Cassio fosse stata unita la statua del Sonno a quella delle nove Dee a chiunque conosca l’opinione degli antichi, che nessuna deità stimarono tanto amica alle Muse quanto il Sonno, e che eressero in Trezene un’ara comune a questa divinità.

« Nè tal maniera di pensare deve sembrare affatto strana a chi rifletta, che se nessuna facoltà dello spirito umano debba essere cotanto accetta alle Muse quanto la fantasìa, convenìa pur che da loro si onorasse il Sonno, il quale, tenendo legati i sensi, lascia libero il nostro sensorio all’ immagi nazione, che è la madre dei sogni. E in sogno in fatti si credevano varii poeti antichi d’essere stati sensibilmente inspirati, come Esiodo, che vide nelle valli d’Ascra le Muse; e come Ennio, che si sentì qualche volta eccitato alla poesia dall’ immagine dello stesso Omero. questa, o altra sia stata però la ragione dell’alleanza delle Muse col Sonno, noi possiamo considerare in questo bel marmo l’unico simulacro che ce ne resti. (Notate che ancora non si erano scoperti gli altri due, di cui parla Visconti nel terzo tomo.

« Ha già avvertito Winkelmann che quello della Villa Borghesi scolpito in pietra di paragone, è opera moderna dell’ Algardi, come risulta ancor dalla vita, che ne ha scritta il Bellori, benché pubblicato per antico da Montfaucon. Con questo Nume sia effigiato nel bel monumento che ora esponiamo, non accade porlo in dubbio, giacché l’espressiva attitudine del dormire è segnata in tutte le sue membra, e particolarmente nelle palpebre mollemente chiuse, e nel capo, che pieno di grave sonnolenza pende sull’omero manco.

« Così presso a poco é figurato il Sonno eterno in una bell’ara del Palazzo Albani, dal quale è stata presa l’idea di porgli in mano una face rovesciata, simbolo dei seutimenti che per lui si estinguono. L’ara che è ai suoi piedi é forse quella di Trezene, ch’ebbe comune colle Muse, e la pianta è per avventura il fatidico alloro, simbolo dell’oracolo e dei vaticinii, che anticamente sul Parnaso si prendeano dormendo: al che può anche alludere avere unito la statua del Sonno con quella delle dee del Parnaso. Così appunto si vede in un bel basso rilievo del Palazzo Mattei, e in una statua del Museo Pio dementino, nella quale ha i papaveri nella sinistra. In ambedue questi monumenti troviamo effigiato il Sonno colle ali alle tempie, forse per simboleggiare i voti cbe fa dormendo l’immaginazione degli uomini: anzi nel monumento Matteiano non è figurato giovinetto, ma vecchio e barbato. Vecchio è barbato è scolpito ancora il Sonno negli antichi bassi rilievi che ci offrono Endimione dormiente. Quello del Museo Pio Clementine è senza ali; ha soltanto la barba aguzza e la chioma raccolta quasi all’uso donnesco; quello del Capitolino, oltre l’ali alle tempie, ha più agli omeri due altre ali di farfalla che lo adornano ancora nel Museo Matteiano.

« Queste minute osservazioni fatte sulle immagini del Sonno m’inducono ad attribuirne a questo Nume dell’altre, che niuno forse avrebbe pensato che lo rappresentassero.

«  La prima è la testa barbata con barba puntuta, capelli acconciati quasi all’uso femminile ed ali al capo, che vedesi nelle medaglie della famiglia Tizia. Chi riflette che in altre vi è la testa di Bacco, nume anch’esso del Parnaso, e che al rovescio di tutte è il Pegaseo, che diede origine al celebre Ippocrene, e che inoltre poeta rinomato fu ai tempi di Augusto uno di questa famiglia, il quale si suppone essere stato il Triumviro Monetale, che fece coniar tali medaglie, troverà tante probabilità per questa spiegazione che giungeranno a rendergliela verosimile. Cresceranno le probabilità quando consideri che la testa alata non può essere Perseo, perchè quell’eroe imberbe in ogni monumento s’incontra; non Bellerofonte, che avrebbe qualche rapporto col Pegeso, perchè la sua testa non si trova giammai alata; non finalmente Mercurio, il quale in qualche rara medaglia antica si osserva barbato, e perchè non ha col Pegaso relazione veruna, e perchè non gli può competere quell’acconciatura di capo, che pur ci offrono le più sicure immagini dell’Erebo e della Notte.

« Un’ altra effìgie del Sonno sarà quella che in varie gemme s’incontra, similissima a quella delle citate medaglie, eccetto nell’ali delle tempia, che sono di farfalla. È stata dagli antiquari attribuita a Platone, non ostante che gli smentissero i ricci della lunga chioma, poco a un uomo, e meno ad un filosofo convenienti, e il ritratto stesso di quel grand’ uomo conservatoci in alcune di quelle medaglie contornate, che cotroni comunemente si appellano, e finalmente il suo busto col nome greco pubblicato da Fulvio Orsino, che si custodisce a Firenze nella Galleria.

« Con più ragione l’attribuiamo ora a Morfeo, e per l’uniformità col tipo sopramentovato della famiglia Tizia, e per la chioma femminilmente raccolta come nel Sonno del sarcofago del nostro Museo, e nella nostra statua medesima, e finalmente per le ali di farfalla che adornano gli omeri di quel Nume in vari bassirilievi, e segnatamente nel sar cofago Capitolino. L’ingegnosa allegoria nell’ali di farfalla, come simbolo dell’immortalità dell’anima da Platone difesa, oltre le sovraccennate difficoltà, cade immediatamente, quando si rifletta che una testa simile alle monete della famiglia Tizia, ha le ali come fatte di piume, che non sostengono simile allusione, e che dall’altra parte non può in verun conto rappresentare quel filosofo.

« Fra le molte immagini di questo placido nume, colle quali spesso compiacevasi l’antichità di rallegrar la tristezza dei sepolcri, poche sono egualmente conservate, ninna è così ricca di simboli come la presente.

« Il Sonno rappresentato qui come un genio, o fanciullo alato, è in atto di tranquillo riposo, disteso tutto sul suolo, ed una delle ripiegate sue ali par che gli serva di morbido letto.

« I letei papaveri, parte ancora fiorenti, parte già formati in guscio di semi, pendono dalla sua lenta sinistra, e tre piccoli animali scherzangli intorno, postivi quasi altrettanti emblemi ad esprimere la sua possanza e i suoi pregi.

« Il primo, e il più raro, è il ghiro, animai sonnacchioso, e preso anche nell’ordinarie espressioni del linguaggio per simbolo del Sonno, le cui apparenze mentisce l’iemal torpore di questo piccolo quadrupede. Nè semplicemente del Sonno è simbolo, ma ancora della salubrità di quella ristorante interruzione dei sensi, poiché presso gli antichi naturalisti opinione era invalsa che più vegeto e pingue apparisse il gentile animale dopo il sonno e il digiuno di un’intera stagione.

« Presso al Sonno è scolpita ancor la farfalla, insetto leggiadro, le cui ali adornano qualche volta del Sonno istesso le tempie e gli omeri: o che l’accostarsi del Sonno quasi insensibile sia stato paragonato al leggier volo della farfalla, o che vi sia qual simbolo dell’anima umana, che per virtù del Sonno sembrò libera da’ lacci della materia, e più capace di conversar colle sostanze spirituali e divine.

« Ma qual sarà il significato del ramarro, che vedesi scolpito a’ piedi del putto? Forse lo stesso che quel del ghiro per l’apparente sua sonnolenza durante la fredda stagione.

« Tal replica di simboli, per così dire sinonimi, parrebbemi alquanto inelegante. Io congetturo che l’immagine di questo rettile vi sia aggiunta con più mistero.

« In Olimpia la statua dell’ indovino Trasibulo non avea altro simbolo della sacra sua professione che l’immagine di un ramarro, che parea strisciargli dall’omero verso l’orecchio. Era dunque il ramarro creduto emblema della divinazione. Scolpito in compagnia del Sonno potrà significare i presagi, che gli uomini di ogni secolo e di ogni nazione si sono lusingati poter ritrarre dai sogni. La congettura pur ora proposta mi è sembrata più verisimile dopo la considerazione d’altre antiche immagini accompagnate dalla rappresentanza dello stesso rettile. Si trova la lucertola aggiunta ad alcune immagini di Mercurio, a quelle dell’Amore dormente, a quelle finalmente di Apollo stesso. Mercurio è il dator de’ sogni: le storie degli antichi e moderni amori mancano di rado di una qualche avventura, che i sogni degli amanti non abbiano prevenuta; e Apollo è poi singolarmente il nume del vaticinio e degl’indovini. Che l’antivedìmento del futuro sia stato dalle rozze nazioni attribuito al alcune più che ad altre specie di viventi, dovrà attribuirsi a quei cangiamenti dell’atmosfera, che alcuni delicati animali sentono più facilmente dell’uomo, e perciò sembra che li presentano. Quindi la virtù profetica fu attribuita ai serpi, alle rane, agli uccelli.

« Così i segni fisici, quando furono preventivi o prognostici, sembrarono alla fantasia sitibonda dell’avvenire altrettanti presagi.

« Più comune della precedente è l’immagine del Sonno incisa in questo rame, come quello che nel capo reclinato e cascante, nelle gambe incrocicchiate, nella face rovesciata, quasi per estinguerla, somiglia le tante, che sogliono a coppia vedersi scolpite attorno ai sepolcri, alcune delle quali hanno ancora l’epigrafe, perchè non si dubiti della loro rappresentanza.

« Il celebre Lessing è stato di parere che sì fatti genii, giovinetti, o fanciulli quando vengono effigiati in due, debbano onnimamente interpretarsi uno per la Morte e l’altro pel Sonno, giacché simili di sembianza erano rappresentati nell’arca di Cipselo e simili; come gemelli par li supponga Omero. Meglio però il chiaro signor Herder è stato d’avviso che quantunque i genii colla face rovesciata veggansi certamente scolpiti attorno a’ mo numeriti sepolcrali per denotare la Morte, non siano però mai altra cosa se non che genii del Sonno, tratti a quel più tristo significato per un eufemismo del linguaggio e dell’arte, e quasi per un farmaco dell’immaginazione, come se il defunto dormisse, e non fosse altra cosa la morte che un placido sonno.

« In argomento già abbastanza esornato mi tratterrò solo a fare alcune riflessioni che possano servire a determinare le nostre idee su questo genere e sui luoghi degli scrittori, che vi han relazione. La prima sarà l’osservare, che non ostante la verità della surriferita riflessione del signor Herder, pure in qualche monumento una figura di questo genere, e simile in gran parte alle accennate, sicuramente è l’effigie della Morte. Tale è al certo il giovinetto coronato con una face rovesciata nella destra e i papaveri nella manca, il quale è scolpito nei bassi rilievi rappresentanti la tragedia di Medea, ed accompagna i doni avvelenati che i fanciulli figli di Giasone recano alla sposa, che dee divenir loro madrigna. Qui il significato non può essere equivoco: la figura vi sta solo per significare che in quei doni è la morte; e la natura della rappresentanza non sofire l’addolcimento di nessun eufemismo. La seconda riguarda l’interpretazione dello stesso Lessing al luogo di Pausania, ove dice che nell’arca di Cipselo la Morte e il Sonno erano due fanciulli con le gambe torte. Pretendere che la frase greca possa significare altra cosa, anzi voler indicare la positura di sovrappor una all’altra gamba, in cui sono espresse ordinariamente sì fatte immagini, mostra una assai scarsa lettura dei greci scrittori presso dei quali ha costantemente lo stesso significato.

« La terza osservazione riguarda l’abitudine pingue e complessa d’alcuna delle accennate figure, che a Lessing è sembrata impropria, ed è attribuita da lui, che non vedeva gli originali, all’ inesattezza dei disegnatori che han ricopiate le cose antiche. Questa corporatura più pingue e nutrita non è però tale oltre quelle che porta l’età infantile, in cui le figure si rappresentano; ed in fatti le lor forme son più rotonde a misura che i genii vengono avvicinati all’ infanzia. Del resto il rappresentare queste figure allegoriche in età cosi tenera si è costumato sovente anche nei genii dì altre classi, forse ad imitazione di Cupido.

« Le chiome del nostro Genio sono distinte in piccole treccie riunite sulla sommità del capo, ma le gambe non appariscono in queste immagini, come nella maggior parte, una all’ altra sovrapposte, nè tali sono in quelle del Sonno in età più adulta.»

Descrizione della Casa Del Sonno.

Si apre presso i Cimonerii in cavo monte
Antro del pigro Sonno albergo e tempio;
Di Febo ignoto ad ogni raggio il suolo,
E sola nebbia di caligin mista.
Con vigil canto non invoca il giorno
Chi soffre il danno del rossor di Marte:
Le frondi immote non lusinga il vento,
Abita muta quiete. Esce dagl’imi
Sassi ruscello di liquor Leteo:
Invita i sonni il mormorio dell’onde:
Di papaveri selva innanzi all’antro
Fiorisce e d’infinite erbe famiglia:
Notte dal loro umore i sonni accoglie
E gli diffonde per l’opaca terra.
Manca la porta, onde strider non renda:
Niun custode ba la soglia: in mezzo all’antro
Sorge di ebano un letto, e nero velo
Lo copre. Qui giace lo dio: le membra
Il languor gli discioglie: i vani sogni
Imitatori di diverse forme
Giacciongli intorno, e non ba tante spighe
La messe, o frondi il bosco. Appena entrava
Iride, e colla mano i sogni opposti
Fugò: splendeva la sacrata reggia
Per la fulgida vesta., Alfine il nume
Inalza gli occhi che il sopore aggrava:
Cade, ricade, col mento notante
Percote il seno, e sé da sé discaccia:
Sul gomito s’inalza, e a lei dimanda
Donde ne venga, e rispondea la Diva:
O Sonno, quiete del creato, o Sonno
Il miglior degli Dei, pace dell’alma,
Il dolore ti fugge, e tu lusinghi
Le membra in duri ministeri stanche,
E nel travaglio le ripari: i sogni
Che gareggian col ver vegga Alcione;
Giuno lo vuol. — Sì detto, Iride parte:
Più del sopore tollerar la forza Non potea:
pel segnato arco ritorna.
Ma fra la plebe dei suoi figli il padre
Chiama Morfeo che mente ogni figura,
Finge sembianze, portamento e voce,
E le note parole. Ei solo imita
Gli uomini. Ma serpenti, augelli, e tutti
I mostri Icelo imita. Arte diversa
Fantaso illustra: in onda, in legno, in sasso
Si muta; il loro aspetto ai regi, ai duci
Mostrano i tre fratelli, e l’altra schiera
Erra pel volgo con le incerte piume.
Ovidio, Metamorf. lib. XI. v. 592 e segg

Lezione quarantesimaprima.
Celo, Oceano, Mnemosine, Temi ec. §

Secondo Esiodo, Celo fu generato dalla Terra, come r Etere e il Giorno. Ma Cicerone nel libro terzo dà per genitori allo dio quelli che il poeta di Ascra gli assegna per fratelli.

Celo sposò col tempo la Terra, che lo fé’ padre d’insigne moltitudine di figli. Questi sono Ceo, Crio, Iperione, Giapeto, Tia, Rea, Temi, Mnemosine, Febe, Teti, Saturno, Brente, Sterope, Arge, Cotto, Briareo e Già, che tutti Esiodo commemora nella sua opera sugli Dei, come Apollodoro nella Biblioteca. La stessa Terra, col Tartaro congiunta, partorì quindi Tifeo.

Saturno, il minor dei figli, dopo avere incatenati i fratelli fece al padre con una falce adamantina quell’ingiuria, che in lui fu ripetuta da Giove, e nacquero dal sangue della parte recisa le furie Aletto, Tisifone e Megera.

Lattanzio lasciò scritto, Celo essere stato un re, il quale essendo reputato un dio per quella vile venerazione che gli uomini ebbero sempre pel potere, fu col tempo, per la simiglianza del nome, adorato come il Cielo. Saturno volendo nobilitare la propria origine accreditò il pregiudizio dei mortali, e si disse figlio del Cielo e della Terra. Non altra cosa del Cielo favoleggiarono gli antichi.

L’ Oceano, il primogenito dei figli della Terra e del Cielo, fu creduto dagli antichi genitore di tutti gli animali e di tutti gli Dei. Forse in questa opinione influì l’essere stati alcuni fra loro presso lui educati, come Omero attesta relativamente a Giunone. Fu credenza degli antichi che avesse il capo di toro, come attesta Euripide nell’Oreste. Io penso che ciò derivasse dal crederlo autore dei terremoti come reputavano i fiumi, i quali nelle medaglie sono indicati colle fòrme di toro.

L’ Oceano fu amico dell’ infelice Prometeo, ed oltre Teti ebbe due altre mogli, chiamate Partenope e Panfolige. Dalla prima ebbe l’Europa e la Tracia, dalla seconda l’Asia e la Libia. Figliuole dell’Oceano furono ancora Fillire, Calliroe, Perseide, Zante, Daira, Leucippe, Melofosi, Ociroe e moltissime altre che, secondo Esiodo, ascendono a tremila.

D’Iperione altro non è noto se non che fu padre del Sole, secondo Esiodo, come Tia ne fu madre, e Giapeto uno dei Titani, che contro Giove prese le armi illustrando l’ardimento e la pena di Promoteo suo figlio. Avanti la guerra dei Giganti ebbe una figlia chiamata Anchiale, che diede il suo nome ad una città della Cilicia.

Di Mnemosine non sappiamo se non che fu madre delle Muse ed amica di Giove, che per sedurla si trasformò in Pastore. L’unico simulacro di lei che ne resti è nel Museo Clementine, e così viene illustrato da Visconti.

«Uno dei pezzi più singolari per la rarità e per l’erudizione è la presente statua di Mnemosine, o sia la Memoria, figlia della Terra e del Cielo, madre delle Muse. Il nome greco (grec) che sta scritto in vetusti caratteri sulla sua base, non solo ci dà il significato di questo simulacro, che sarebbe restato oscurissimo, ma ci è servito per riconoscere con maggior chiarezza di quella che potevamo sperare l’immagine della sua figlia Polinnia. Il raccoglimento cotanto utile per richiamarsi al pensiero le impressioni degli oggetti provati altre volte, nel che consiste questa facoltà dell’umano intelletto, si è voluto simboleggiare nel panneggiamento della nostra Mnemosine, che tutta la racchiude, e le involge persino le mani. Quantunque il debole dell’Antiquaria sian le troppo sottili interpretazioni, pure questa maniera di portare la sopravvesta, che costantemente si osserva in quasi tutti i simulacri della Musa della Memoria eh’ è Polinnia, e in questo della stessa Mnemosine, sembra che basti a giustificare un simil divisamento.

«La dea eh’ è il soggetto di questa scultura abbastanza è nota pei carmi non meno degli antichi che dei moderni poeti; anzi l’hanno questi ultimi invocata espressamente nei lor poemi, il che non mi sovviene aver fatto gli antichi. A lei parla Dante allorché dice:

«Mente, che scrivesti ciò ch’io vidi ; »

lei chiama il Cantore della Gerusalemme:

«Mente degli anni e dell’oblio nemica,
Delle cose custode e dispensiera. »

E qui mi conviene osservare un grande avvedimento dell’antichità in supporre le Muse, dee dell’arti e delle scienze, figlie della Memoria e della forza dell’intelletto, adombrata in Giove, giacché non consistendo cotesto scienze che in combinazioni d’idee, il lor fondamento e la memoria che quelle conserva, e fornisce così la materia all’ingegno.

«Ma per tornare al nostro marmo dirò che é l’unica statua, e forse, più generalmente parlando, l’unica immagine di questa dea. Avea creduto il Cupero di vederla nel bassorilievo dell’Apoteosi di Omero in quella figura istessa che abbiamo riconosciuto per Calliope. Lo Scott peraltro 1’ esclude anche egli, e poiché sono dieci le figure femminili ritratte sul Parnaso in quel monumento, credo che la decima alla sinistra di Apollo sia piuttosto la Pizia. Piacemi estremamente questa suo congettura: aggiungo solamente per avvalorarla che non tiene già in mano, come apparisce dalle statue fìnor pubblicate, un volume, ma piuttosto un disco veduto di profilo per presentarvi sopra le offerte, una cassettina di profumi che i Latini chiamavano acerra.

« Se poi si chiedesse quale individualmente si voglia indicare fra le ministre d’Apollo, io risponderei che la credo Femonoe, prima di quel ministero, ed inventrice dei versi esametri, anzi reputata figlia, secondo alcuni, di Febo istesso.

« Lodevole è l’interpretazione che fa lo Scott sì della spelonca da lui riconosciuta per l’antro Concio, sì della statua appoggiata ad un tripode, ingegnosamente da lui spiegata per Biante Prieneo: lo che tanto più si rende verisimile quanto è certo dall’annessa epigrafe che il borgo di Priene, patria di questo savio, lo era altresì di Apollonio scultore di tal monumento. Osservo soltanto che il soggetto di quel simulacro potrebbe essere il Licio Oleno poeta vetustissimo, e profeta di Apollo, che secondo alcuni tenne l’oracolo di Delfo pria delle Pizie, e fu il primo a servirsi dei versi esametri. Il tripode indica il suo uffizio di Vate Apollineo e se la sua testa non è ornata di corona, o di benda, come a sacerdote si converrebbe, non dee ciò farci cangiar di pensiero poiché il capo è di moderno restauro, nè possiamo avere il piacere, o di verificare l’opinione dello Scott col confronto dell’immagine di Biante dissotterrata nella villa di Cassio a Tivoli, con questo stesso, di rigettarla.

« Debbo avvertire che in questo insigne bassorilievo abbiamo pure un’altra immagine che può riferirsi a Mnemosine poiché rappresenta la Memoria, col nome però non di (grec), Memoria, ma di (grec), cioè Ricordanza. E questa nel piano inferiore del bassorilievo dove i personaggi, eccetto quello di Omero, son tutti allegorici piuttosto che mitologici e storici. È una dell’ultime figure: e siccome sono queste situate una dietro l’altra, così ancora l’epigrafi corrispondono al piano di tutte e due: una però è scritta sotto dell’altra. Quindi è nata esitanza a quale delle due figure debba appropriarsi ciascuna iscrizione. Il Cupero e lo Scott credono la figura inferiore quella della Memoria, quantunque l’epigrafe (grec) sia nella linea di sopra. Sembra probabile la lor congettura all’atto e all’abito dell’immagine: è questa velata e involta nella sopravesta, anzi par che tenga la mano al mento come se volesse richiamare qualche idea alla mente; l’altra superiore, a cui applicano 1’ iscrizione Sofia, o la Sapienza, tiene la mano aperta come in atto di favellare. Quantunque queste figure corrispondano assai bene al significato che loro si dà, pure quando non si volesse far violenza all’ordine delle leggende, e si persistesse a credere che l’epigrafe superiore debba appartenere alla figura superiore, l’inferiore all’ incontro alla più bassa, secondo l’ ordine eh’ è evidente nelle restanti immagini, potrebbe dirsi che la Ricordanza è quella che, alzando la mano, sta come descrivendo e rammentando le azioni e i costumi dei tempi andati, e la Sapienza poi è la donna velata e quasi in abito di filosofessa immersa in profonde meditazioni, non tanto per ricordarsi le cose già state, quanto per rintracciare e scoprire novelle verità. Il velo sul capo che vedremo dato all’ immagine di Aspasia unica nel nostro Museo col suo nome greco, non rende improbabile che possa darsi questo abbigliamento a Sofia, come si è dato ad una filosofessa.

« Mi resta finalmente ad osservare che in una maniera, per la sua semplicità e nobiltà degna degli artefici antichi, è stata dal cavalier Mengs rappresentata Mnemosine nella bella pittura della volta della galleria nella Villa Albani. Tiene in quell’egregio fresco la madre delle Muse la mano all’orecchio quasi in atto di volersi eccitare qualche rammemoranza. E non è già la sola osservazione della natura che ha somministrata al pittore filosofo questa bella idea; l’ha egli appresa nel commercio degli eruditi, e ne ha avuto un esempio nelle antiche gemme servite, come si suol dire, di ricordino, nelle quali si vede incisa una mano in atto di stropicciare un orecchio col motto greco (grec) Ricordati. Infatti, secondo Servio, l’orecchio è sacro alla Memoria, come la fronte lo è al Genio: quindi elegantemente Virgilio: Apollo l’orecchio mi tirò, e mi avvertì.

« Giacché è caduta in questo luogo menzione di questa eccellente pittura, osservo con piacere che le Muse si veggono in quella distinte a seconda dei diversi attributi che siamo andati notando in queste esposizioni, e che egli avea dall’antico dedotti, di cui era oltre modo amatore e studioso.»

Temi figliuola anch’essa del Cielo e della Terra era sorella maggiore di Saturno e zia di Giove. Ella si distinse colla sua prudenza ed amore per la giustizia; ed è quella, dice Diodoro, che istituì la divinazione, i sacrifizii, le leggi della religione, e tutto quello che serve a mantener l’ordine e la pace fra gli uomini. Regnò nella Tessaglia, e si applicò con tanta saviezza a render giustizia ai suoi popoli che fu considerata sempre dopo come la dea della Giustizia, della quale se le fa portare il nome. Attese ancora all’astrologia e divenne peritissima nell’arte di predir l’avvenire, e dopo la sua morte ebbe dei templi dove si aveano degli oracoli. Pausania favella dì un tempio e di un oracolo che avea sul monte Parnaso insieme colla Terra, e ch’ella poi cedette ad Apollo.

Temi aveva ancora un altro tempio nella cittadella dì Atene, all’ingresso del quale era il sepolcro d’Ippolito.

Abbiamo dalla favola che Temi volea custodire la sua verginità, ma Giove la costrinse a sposarlo, e gli diede tre figliuole la Equità, la Legge e la Pace. Questo è un emblema della Giustizia, che produce le leggi e la pace dando a ciascheduno il suo.

Esiodo inoltre costituisce Temi madre dell’Ore e delle Parche. Temi, dice Feste, era quella che comandava agli uomini di chiedere agli Dei ciò che era giusto e ragionevole: presiedeva ai patti e convenzioni che si fanno fra gli uomini, e voleva che fossero osservati. Teraistiadi si dicevano le sacerdotesse del suo tempio in Atene.

Lezione quarantesimaseconda.
Rea, o Cibele. §

Rea, secondo, Esiodo, fu figliuola del Cielo e della Terra, ed il consenso dei più fra i Mitologi la fa madre dei primi fra gli Dei, come Giove, Giunone, Nettuno, Plutone ed altri, ch’ella generò da Saturno, e sottrasse alla crudeltà di così mostruoso padre.

Questa dea, come osserva il signor Zoega, è stata sovente confusa colla Terra, quantunque ambedue avessero santuarii diversi in Grecia e in Roma. Differisce pure il modo di rappresentarle: sono tanto distinte che spesse volte è rappresentata giacente sotto il carro di Rea la Terra, che spessissimo nei bassirilievi vien rappresentata coricata sul suolo e sopra un toro appoggiata.

Non così penso che Rea differisca da Cibele, come afferma il sopra lodato scrittore, e a ciò mi muove l’autorità di Luciano, cui veruno negherà la notizia perfetta delle antiche superstizioni, che con la potente arme del ridicolo ha combattute. Quindi io considero Cibele e Rea come la stessa divinità.

L’ introduzione del culto di Cibele, o Rea, si deve agli Ateniesi, che dopo aver bandito il Gallo (così chiamavansi i sacerdoti della dea) che apportò i misteri di lei, furono afflitti dalla fame. Quindi per consiglio della sacerdotessa di Apollo detta Pizia, placarono la dea ergendole un tempio detto Metroo cioè della gran madre, che così Cibele era chiamata.

Deve Tebe a Pindaro, il più grande fra i lirici poeti, i principii della religione; il quale avendo veduta con Olimpico, sonatore di flauto, la madre degli dei che con fragore e lampi scendeva dal cielo, eresse un santuario a lei e a Pane accanto alla sua casa. Nè in altro luogo la onorarono i Tebani, dopo che, colpiti dalla novità, interrogarono l’oracolo di Delfo, che rispose loro di alzare un tempio alla Dea.

Roma nella guerra di Annibale chiese ad Attalo re di Pessinunte nella Galazia il simulacro di Cil)ele, che si credeva caduto dal cielo in terra, il quale non era che una pietra grigia informe di mediocre grandezza. Fu incontrata la nave ricca di tanto dono da immensa folla verso l’imboccatura del Tevere. Narrano che non poteva essere spinta più innanzi, e che Quinta Claudia donna d’illustre famiglia, ma di contrastata onestà, chiedesse alla dea di poter dar pubblica testimonianza dell’inno cenza dei suoi costumi. Dopo la preghiera afferrò la fune in mezzo a una moltitudine, che invano si affaticava, e trasse con picciolo sforzo la nave nel porto.

L’idolo al suono di voci e strumenti fu lavato da sacerdoti Frigii dove l’Aimone si perde nel Tevere: collocato dopo la lustrazione sopra un carro da buoi, fece il suo ingresso in Roma per la porta Capena. Avea prescritto l’oracolo che il migliore dei Romani dovesse ricevere la dea. Il pubblico consenso scelse Scipione Nasica ancor giovinetto, ed egli la fece deporre nel tempio Palatino della Vittoria.

Quattordici anni dopo le fu dedicato un tempio in forma di Tolo, o cupoletta, e la pietra di Pessinunte che somigliava per la sua scabrosità una testa umana, videsi sopraposta a guisa di volto nella statua che ivi le fu eretta. Altro simulacro, nel modo che l’avea dipinta Nicomaco, seduta sopra un leone, miravasi fra i principali ornamenti della spina del Circo.

Celebravansi alla dea in Roma ogni anno solennità alla metà di Aprile, ed erano chiamate megalesie, cioè feste della gran madre. Quando la Repubblica stava, verun romano prese parte nel culto di Cibele figlio della frigia mollezza. Col tempo i patrizii e le matrone si associarono a così turpe ministero.

La dea fu probabilmente scolpita da Fidia con timpani in mano e con leoni a basso del trono, poiché nelle medaglie di genere così viene effigiata. ed è verisimile che la statua di tanto scultore servisse di modello a tutti gli altri simulacri esposti alla pubblica ad orazione. Diffìcilmente si trova senza l’accompagnamento di uno o più leoni, emblema favorito della sovranità presso i monarchi dell’Asia.

E in Cibele tanto solenne lo stare a sedere che nelle monete, le quali come protettrice di Smirne la rappresentano in unione con altri numi, questi, e fra essi Giove stesso, restano in piedi avanti a lei sedente. In piedi troviamo la dea appoggiata ad una colonna in una medaglia pubblicata dall’Eckel; ed in diverse medaglie vedesi ella stante senza verun appoggio.

Un basso rilievo conservato nella libreria di San Marco in Venezia ci offre Cibele che ha sul capo un modio, in parte coperto dal peplo; sul petto delle lunghe treccie attorcigliate. Resta in piedi tenendo nella destra un’asta, nella sinistra un timpano di insolita grandezza. Ella è volta alla sinistra verso Ati, di cui narreremo le avventure, il quale abbigliato alla Frigia rimane parimenti in piedi veduto di prospetto, la sinistra appoggiata sopra un grosso bastone, la destra oziosa. Accanto di questo vedesi una punta di fabbrica, avanti cui stanno due figure muliebri di statura molto minore, matronalmente vestite, la prima col capo velato, la destra alzata verso le due deità, la seconda, che è ancora piu piccola, portando fra le mani uno schifo.

Ma gli attributi piiì costanti di Cibele sono la torre che il capo le fregia, e il timpano che usa tenere nella sinistra ed appoggiarvi sopra il braccio. Suole essere velata in modo che il peplo dall’occipite cadente sulle spalle e sulla schiena, copra parte della sua corona murale.

Nei monumenti figurati la dea ora regge colla sinistra il timpano, mentre lo percote colla destra armata di un plettro a più sferze, che invece di nodi hanno di quegli ossi, che tali si dicono: ora il timpano le rimane appoggiato sul ginocchio, e la mano sinistra riposata sul cerchio, la destra sulla coscia, ovvero sul bracciale del trono. Questo ultimo modo è il più frequente, come il più dignitoso, e probabilmente da Fidia prescelto.

In un’ara riprodotta dal Muratori la figura della dea si trova seduta sopra uno scoglio appiè d’un pino. Rade volte tiene nella sinistra un’asta, attributo di risorsa per non lasciare la mano oziosa. Vi è ancora qualche monumento dove non altro porta sul braccio sinistro che un cornucopie, il timpano accostato al trono, e dove in luogo del timpano sostiene sulla sinistra un globo come padrona dell’universo. I leoni sogliono sedere per terra a guisa di satelliti, uno a destra, uno a sinistra del trono. Altre volte tirano il carro sul quale è collocata la dea. Comunemente allora sono due, e camminano a lento passo, senza briglie come nell’ara pubblicata da Zoega; talvolta corrono con velocità, la dea stessa governandone le redini.

Havvi delle medaglie ove quattro leoni attaccati al suo cocchio or lentamente lo tirano, ora a pieno salto si sollevano. Vi è ancora ove la dea rimane assisa sulla schiena di un leone, come nel quadro da Plinio celebrato Nicomaco la dipinse. Tale è l’unione tra Cibele e il leone, che talvolta la sola figura di questo in medaglie, ed anche la sola testa, simbolo comparisca del suo culto.

Il compagno di Cibele suo ministro e favorito, è il frigio eunuco Ati, il quale nel marmo pubblicato da Zoega scorgesi incontro il cocchio della dea quasi all’ombra di un pino, al cui tronco egli si appoggia. L’abbigliamento di esso da quello degli altri Frigii si distingue per quel sottabito angusto, che in un formando tunica e calzari, tutta la persona dai polsi delle mani ricopre sino alle noci dei piedi, e sino dentro le scarpe, e che di taglio aperto a riprese, con bottoncini astretto alle membra, fa travedere interrottamente il nudo delle gambe, delle cosce e parte ancora del ventre. Non è però costante siffatto costume; vi sono dei monumenti ove veste al consueto dei Frigii una tunica con maniche succinta, talvolta ancora con doppia cintura e dei calzari lunghi. La clamide ora la porta, ora n’è senza.

Nel marmo, dice Zoega, sembra che siasi voluto alludere all’ occultazione di Ati, e che Cibele ne vada in cerca risuonar facendo le selve del fragore del timpano: il giovine ritirato sotto il pino porta la destra mano alla guancia come chi finge di nascondersi, nella sinistra tenendo il timpano sollevato quasi per indicare che col tempo farà ritorno alla servitù dell’antica padrona. Fra i rami dell’all’albero siede un gallo destinato forse a palesare il nascondiglio del fuggitivo. Il pedo, cioè un bastone ricurvo come un pastorale, gli giace accanto. La siringa, ed unita ad essa due tibie, una diritta, l’altra curva, consuete ad accompagnare i riti di Cibele, erano scolpite, dice Zoega, in una delle fiancate dell’ara, ed essendo rimaste invisibili per es’ sere stata la medesima segata in due pezzi, egli le ha fatte incidere secondo gl’indizi: di Grutero. Nell’altra delle fiancate contigue all’angolo ove è il carro della dea erano due faci rovesciate ed un paio di cembali, cose relative alla cerca dello smarrito giovinetto.

La favola di Ati è in diversi modi narrata. Ovidio narra che Ati scelto dalla dea per custode dei suoi santuari gli promise castità eterna. Innamoratosi della ninfa Sangaride ruppe il voto, e perciò da Cibele accesa di furore si privò di quelle parti che mancano ai soprani. I ministri della dea imitavano questo costume. Tanto è il potere della superstizione: In altro luogo Ovidio lo canta converso in pino.

Pretendono altri che Cibele innamorata punisse in lui l’infedeltà e non lo spergiuro. Che che ne sia, Ati è celebre nella Mitologia, e noi abbiamo un poemetto di Catullo ove descrive il pentimento che successe dopo la dolorosa operazione. Non starò a indagare se l’Eunuco di cui parla questo poeta sia per l’appunto il Frigio, che ciò poco importa, ma vi leggerò la traduzione dei mentovati versi che ha fatta con impareggiabile felicità uno dei più grandi letterati d’Italia, il dottissimo abate Lanzi, tanto benemerito delle Belle Arti per la sua Storia Pittorica, quanto lo è dell’ Antiquaria pel suo Saggio sulla lingua etrusca.

« Entro veloce legno,
Tenuto già per alto mar viaggio,
Pien di caldo desire il giovin Ati
Rapidamente corse al frigio bosco,
E al loco giunse tenebroso e fosco
Sacro alla frigia Dea,
Di spesse, annose piante intorno cinto,
U’ da rabbioso alto furor sospinto,
Tratto fuor di sua mente.
Con selce si sanò dura e tagliente.
Dunque come piuttosto ella s’accorse
Della cangiata sua forma nativa
(E già di fresco sangue, ovunque corse.
Tingendo il suolo e imporporando giva)
Tosto le bianche man di neve porse
Al tuo lieve timballo, o frigia Diva,
Che di tromba ti tien luogo, e con cui
Consacri, o madre, i sacerdoti tui:
E le terga del tauro
Piegate in cavo timpano
Coi schietti diti teneri
Percotendo a gran furia,
In voce ebrifestante
Alle compagne prese a dir tremante:
Per l’erto calle Gitene, o Galle
Tutte di schiera,
Tutte alla nera
Alta foresta,
Di lei che al Dindimo
Monte si venera:
Su, greggia tenera,
Su, di Cibelle
Erranti Ancelle:
Voi che vaghe di terra straniera.
Della patria, com’ esuli, usciste;
Voi che me duce già della schiera
A tal’ opra, a tal vita seguiste;
Voi, che il rapido ponto, e la fera
Rabbia meco del mare soffriste,
E in grand’ odio alla dea di Citerà
L’aspro taglio di fare patiste:
Su, vagando,
Carolando,
Vostra mente torbid’egra
Serenate,
Ricreate,
E la fate gioiosa ed allegra.
Via, via; dall’animo
Ogni indugievole
Lentezza sgombrisi:
Di schiera gitene
Tutte seguendo me,
Colà vi scorgo, ov’è
L’ostello frigio,
La selva frigia
Della Dea Cibele.
La ‘ve di cembalo
Squilli risuonano,
Là ‘ve di timpano
Mugghi rintuonano;
Dove fa il barbaro
Sonator frigio
Con culvo calamo
Severa musica:
Dove l’edrigere
Festose menadi
Il corimbifero
Capo dimenano:
Dove le mistiche
Lor cerimonie
Con urli e stridule
Voci celebrano,
Dove quella Della Diva
Vaga turba snella snella
Or qua scorrendo, or là
Saltabellando va.
Colà, dunque colà
Fra’ tripudi e carole
Si vada, anzi si vole.
Poiché alle sue compagne in questi termini
Ati parlò, la tralignante femina,
Repente in voci tremolanti e trepide.
La saltatrice torma esclama ed ulula.
Agitato rimugghia il lieve timpano,
E risquillan percossi i gravi cembali.
Tale sen va con frettolose piante
Ratta al verd’Ida la danzante schiera,
E trasognata, furibonda, ansante
Col timballo fra man corre primiera
Ati fra’ boschi bui; qual ‘ve ‘1 pesante
Giogo declina una giovenca fera
Non doma ancor. La pieveloce guida
Sieguon le Galle rattamente in Ida.
Giunte al tempio di Cibelle Spossatene
Pel soverchio ronzare,
Senza cibo gustare
Dannosi a riposare.
Per lo languore
Onde vacilla il pie
Pigro sopore
Ad esse i rai premè,
E nel placido riposo
Si dilegua e fugge via
La rabbiosa frenesia.
Ma tosto che coi chiari occhi raggianti.
Il facciaurato sol mirò dal cielo
L’aer bianco, il suol duro, i mar spumanti,
E ‘1 fosco dileguò notturno velo
Coi robusti corsier piedisonanti,
Veloce il sonno dalle luci de lo Svegliato
Ati sen va. La diva moglie
Pasitea frettoloso in sen l’accoglie.
Tal senza sua rabbia
Rabbiosissima
Dal placido riposo Ati riscossa
Rimembrando con fresca memoria
Dei suoi casi la flebile storia,
E veggendo chiaramente
Qual’ ei fosse, e fra che gente,
Piena il cor di tempesta
Alle sponde del mar si ricondusse:
Ivi del mar con lacrimose luci
Il vasto pian guatando,
Così dolente sempre
Parlò alla patria in angosciose tempre.
Ahi cara patria, ohimè:
Mia facitrice,
Mia genitrice,
Mia cara patria ohimè:
Ed io, lasso: da te
Lungi portando il pie.
Quale i padronfuggenti
Schiavi involar si sogliono,
Venni frai boschi
D’Ida solinghi e foschi:
Dove a nevi, meschinella,
E di fere ad antri gelidi
Sempre accanto vivrò:
Ed ora in questa, ed ora in quella
Loro tana, ohimè, farnetica
A entrar m’ abbatterò.
Ove, in che parte,
Amata patria mia,
Crederò che tu sia?
Vorrian pur questi occhi miei
Mirar fiso là ‘ve tu sei
Nella brev’ora,
Che resta ancora
Del suo furore
Libero il core.
Dunque io n’andrò per queste chiostre algenti
Poste si lungi al tetto mio paterno?
Dalla patria, dai ben, d’ambo i parenti,
Dagli amici starò lungi in eterno?
Lungi allo stadio, alla palestra, al foro,
Ed alle scuole, e alle buon’arti loco?
Lasso, ahi lasso mio cuori ben giusto è adesso
Alto piangendo risuonar tuoi guai:
Perocché qual si trova, o stato, o sesso,
O forma umana in ch’io non mi trovai?
Io putto, io garzonetto, io giovincello,
Io giovin fui, anzi testé pur era,
Io delle scuole il fior, io fui il più bello
Onor della lottante agile schiera.
Io concorso alle porte
E alla soglia tepor mai sempre avea.
Quand’io dovea
Venirne fuori
Dalla camera mia, già sorto il giorno,
Tutto vedea
Di varii fiori
Il caro albergo inghirlandato e adorno.
Io, io dei numi ancella?
Io ministra di Rea m’appellerò?
Io una delle menadi.
Io di me parte, io steril uom sarò?
Io del verd’Ida i luoghi
Per fredda neve algenti abiterò?
Io di Frigia i gran gioghi
Di stanza in luogo eternamente avrò,
Ov’ è la selvabitatrice cerva,
Ov’è il torvo cignal boschivagante?
Or sì dolore
Porto di ciò che fai;
Or sì l’errore
Poter mutar vorrei.
Come la voce alle rosate labbia
D’Ati men venne, e fu dal duol dispersa,
Cibele, che l’udìo, scompagna e scioglie
I duo lion, che al carro avea congiunti,
E fa che lor nuovo comando e avviso
Suoni alle orecchie: e quel ch’era a sinistra
Delle greggio nimico e degli armenti
Contra gli aizza, e in questa guisa parla:
Su, gli dice, su, fera belva,
Vanne, e quinci ritrarsi alla selva
Per marcia forza
Di furor, di follìa
Costui ne sforza,
Che baldanzoso
Troppo e riottoso
Dal mio domino sottrarsi vorria.
Su, la coda ti scuoti,
E con essa le terga percoti,
E con sì fatta sferza
Per te stesso ti sferza:
Fa che dei tuoi ruggiti
Suonin le selve e i liti:
Del velloso, muscoloso
Capo altero
L’inanellata chioma dorata
Squassa in atto terribile e fero.
Così torva parlò
Cibele, e il giogo di sua man lento.
Va la belva orribile ed aspera.
S’avvalora, s’ infuria, s’ inaspera,
Corre, sbuffa, e col piede vagante
Preme, infrange le tenere piante.
Alfìn colà venuto ove confina
Colle sals’ acque il biancheggiante lito,
E appo la marmorata onda marina
Visto quel meschinello sbigottito,
A lui si stringe addosso,
Ond’egli a più non posso
Fugge, già fuor di mente, e si rinselva,
E nella fera selva
Sempre d’esser seguìo
Ministra a Rea finché di vita uscio.
O dea, magna dea, diva Dindimea,
Cibelle, o signora.
Lungi, lungi di casa mia
Stiesi affatto la tua frenesia.
Altri pur, altri si abbia.
Le tue furie, e la tua rabbia.»
Catullo, Carm. 44.

Lezione quarantesmaterza.
Feste d’Ati. — Saturno §

Nella passata Lezione tralasciai di dirvi che Ati. l’amante o il sacerdote di Cibele, era con annue feste onorato. La solennità celebravasi al principio della primavera, e durava sei giorni. Il primo giorno tagliavasi dalla selva un albero di pino e portavasi in processione al santuario della dea per essere ivi erettto. Il secondo impiegavasi per cercare a suon di trombe lo smarrito Ati. Il terzo rappresentava la consacrata mutilazione di esso all’ombra del venerato pino: tutto era in questi giorni lutto e astinenza. Il quarto si passava in gioia e scherzi festivi, placato lo sdegno della dea, ed assunto Ati fra gl’immortali. Il quinto era giorno di riposo. Il sesto terminava la solennità colla purificazione della dea, il cui simulacro, unitamente ai sacri arredi per la celebrazione dei misteri adoprati, portavasi in coperta lettiga, ovvero sotto carro coperto ad uso di carpento, tirato da buoi, per essere con segreti riti lavato in un vicino ruscello a Pessinunte senza dubbio nel Gallo, a Roma nell’Aimone, ed indi con licenziosa pompa riconducevasi al tempio. Il significato di questa favola fu indagato da quelli che nel decadimento del Paganesimo si armarono di platoniche sottigliezze per difendere l’assurdità contro i maestri dell’Evangelo. Ati, secondo essi, è il sole: più probabile, ma non certo è che questa invenzione significasse le diverse fasi o apparenze della luna considerata dai Frigi e Lidii come maschio.

Nella iscrizione della facciata dell’ara, relativa ad Ati e Cibele, pubblicata dal signor Zoega, si fa menzione di un sacrifizio di toro ed ariete chiamato Taurobolo e Criobolo, ed a questo è allusivo il figurato della facciata opposta. In questa si vedono effigiati i mentovati animali, che colle bende pei sacrifizj stanno all’ombra di un pino. Questo, dice il prelodato scrittore, è carico di arnesi delle cerimonie frigie, cimbali, zampogna a sette canne, secchia, cista e scodella, un gallo vittima usata nei riti sabazii, e parecchi minori uccelli, fra i quali suppor si può il falcone, scherzo della madre Idea. I cembali hanno ciò di particolare, che nel centro della concavità apparisce un quasi campanello, che l’illustratore dei bassi rilievi di Roma non si ricorda di avere altrove in simili monumenti osservato.

Conviene adesso dirvi qualche cosa sul Taurobolo inscritto nell’ara e spesso mentovato nei mar mi antichi. Cavavasi per questo oggetto una profonda fossa coperta di un intavolato fornito di una quantità di pertugj a modo di crivello: occultavasi sotto questo la persona che ricever dovea il taurobolo, ornata di ricca veste, corona d’oro e sacre bende, e sopra il tavolato conducevasi il toro, e altra vittima se v’era annessa (e per lo più un montone, delle volte ancora un caprone) ed ivi si scannavano in modo che il lor sangue per quei fori piombasse come pioggia addosso al devoto, e da capo a piedi lo tingesse. Rimosso indi il cadavere dissanguato della vittima, ascendeva sul paleo tutto di sangue grondante il tauroboliato, che mediante tal bagno, si credeva purgato d’ogni delitto, rinato a miglior vita, e la moltitudine l’adorava in distanza qual persona sacra ed amica degli Dei.

Assai di Rea, o Cibele. Saturno marito di lei si presenta alle nostre ricerche.

Ora di Celo, or dell’Oceano, or della Terra, ora di Teti figlio lo fanno gli antichi. L’opinione più comune è quella di Esiodo che ne attribuisce l’origine a Celo ed alla Terra.

Giunto questo dio all’adolescenza udì dalla madre che il genitore avea nel Tartaro precipitati i Ciclopi, e ciò non sopportando, ordì pei consigli materni insidie contro Celo, lo incatenò, gli fece quell’oltraggio ch’egli poi sofierse da Giove, ed avendo liberato i fratelli, ottenne facilmente da loro di succeder nel regno del padre.

Oltre i Ciclopi, per fratelli egli aveva i Centimani, l’Oceano, Ceo, Orio, Iperione, Teti, Tebe, Mnemosine, Tia, Dione, Titano e Giapeto. È fama che questi due ultimi dividessero Y impero con Saturno nel priijcipio, e che quindi, essendo ogni re intollerante di compagno, la madre Vesta, o la Terra, le sorelle Opi e Cerere impetrassero che Saturno solo regnasse a condizione che educasse i tigli maschi che da lui nascessero, onde in uno di esso pervenisse per diritto ereditario il dominio dell’ universo.

Saturno scelse allora per moglie Opi, o Rea, sorella; ed avendo udito che un figlio lo avrebbe cacciato dal trono, stabilì di uccidergli tutti. Incresceva al core di Rea tanta crudeltà, onde fuggì in Creta per partorire Giove, come vi esposi allora che favellai di questo dio. Si crede per alcuni che sì mostruosa colpa patteggiasse Saturno coi Titani, e che la sua pietà facendolo spergiuro, fosse colla moglie da essi incatenato.

Giove volò per liberare il padre, e col soccorso di soldati Cretesi vìnse i Giganti, e restituì il trono ai Genitori. Ma col tempo il timore, eterno compagno dei potenti, persuase Saturno a tramare insidie al proprio figlio, che accortosene, col soccorso di Prometeo nel Tartaro incatenò l’ingrato genitore.

Saturno fuggitosi dalla sua carcere giunse con una flotta da Giano in Italia, che gli fu ospite cortese. Lo dio in ricompensa gì’ insegnò l’agricoltura, e fu tanta la gratitudine del re per questa inestimabile cognizione, che gli cede la metà del suo regno. La grata posterità, dice Ovidio, impresse nelle monete da una parte una nave, e dall’altra un’effigie con due fronti, per denotare che due re, ma un solo consiglio governava quei popoli fortunati. Perciò in Italia come autore di un miglior modo di vivere fu Saturno onorato con Rea, e Virgilio fé’ dire ad Evandro.

« Saturno il primo fu che in queste parti
Venne, dal ciel cacciato, e vi si ascose;
E quelle rozze genti, che disperse
Eran per questi monti, insieme accolse
E die lor leggi; onde il paese poi
Dalle latebre sue Lazio nomossi.
Dicon che sotto il suo placido impero
Con giustizia, con pace e con amore
Si visse un secol d’oro, infin che poscia
L’età degenerando, a poco a poco
Si fé’ d’altro colore e d’altra lega.
Quinci di guerreggiar venne il furore;
L’ingordigia, l’avere, e le mischianze
Dell’altre genti. L’assalir gli Ausonii,
L’inondaro i Sicanii, onde più volte
Questa che pria Saturnia era nomata,
Ha con la signoria cangiato il nome.»
Eneide, trad. del Caro, libro viii, verso 488 e segg.

E l’antica osservanza delle leggi non era incisa usi bronzi, ma impressa nell’animo degli uomini e con loro invecchiava.

Pensano alcuni, fra i quali Platone, che Saturno non fuggisse, e che legge eterna lo tenesse con Oiapeto fratello di lui, come piace ad Omero, nel l’Èrebo incatenato. Ma Luciano lasciò scritto che a Saturno non furono posti ceppi, nè tolto il regno, ma volontariamente renunziò, come vecchio, il regno a Giove.

A Saturno attribuivano gli antichi l’invenzione della falce, o sia perchè insegnasse la maniera di mietere, ovvero perchè si servi di quest’arme, ancora per lui fatale, per mutilare il genitore.

Saturno, benché padre di tre Dei principali, non ebbe però fra i poeti il titolo di Padre degli Dei, forse per la crudeltà ch’esercitò contro i suoi figliuoli. Forse ancora l’idea della sua atroce natura indusse molti popoli a prestare a questo dio un culto orribile collo spargimento del sangue umano.

Presso i Cartaginesi veniva in questa maniera più particolarmente onorato, e questo culto empio e barbaro è stato sempre quello su cui è fondato il maggior rimprovero, che la posterità abbia fatto a questa Nazione. Diodoro di Sicilia riferisce che essendo i Cartaginesi stati vinti da Agatocle, attribuirono la loro sconfìtta all’avere irritato Saturno col sostituire altri fanciulli invece dei proprii, che doveano essere sacrificati: e per riparare questo fallo, secondo Plutarco, elessero fra la prima nobiltà dugento giovani per essere sacrificati, e ve ne furono più di trecento altri, i quali, sentendosi colpevoli, si ofi’rirono volontarii per lo sacrifizio. A questo, scrive Plutarco, che il suono dei flauti e dei timpani faceva un remore così grande che non potevano udirsi le grida del fanciullo sacrificato.

I Cartaginesi però non furono soli colpevoli di questa odiosa superstizione: anche gli antichi Galli, e molti popoli dell’Italia prima dei Romani, sacrificavano pure a Saturno vittime umane.

Narra Dionigi di Alicarnasso che Ercole, volendo abolire in Italia l’uso di questi sacrifizii, eresse un altare sul colle Saturnio, vi sacrificò vittime senza macchia perchè venissero consumate dal fuoco sacro. Ma per conservare nel tempo stesso la religione dei popoli, acciò non si potessero rimproverare di aver abbandonati i loro antichi usi, insegnò agli abitanti la maniera di placare l’ira di Saturno col sostituire, invece degli uomini, che, legati piedi e mani, gettavano nel Tevere, delle figure loro rassomiglianti, e con ciò levò lo scrupolo che poteva nascere da questo cangiamento.

Roma e molte altre città dell’Italia dedicarono templi a Saturno. Tulio Ostilio istituì, secondo Macrobio, i saturnali in onore di lui. L’oggetto di queste feste era di conservare la memoria del secol d’oro, nel quali tutti gli uomini erano eguali; perciò i padroni servivano a tavola i loro servitori, li regalavano generosamente.

Cominciava questa solennità tumultuosa i 16 di dicembre, e durava tre giorni, e qualche volta quattro cinque. Siccome è parte delle costumanze romane, ne parlerò più a lungo nell’esporvi l’istoria di quella nazione.

A Saturno si sacrificava colla testa scoperta, laddove sempre si coprivano, dice Plutarco, sacrificando agli Dei celesti. Secondo esso, dunque, Saturno era tra gli infernali.

Questo dio si rappresenta comunemente come un vecchio incurvato sotto il peso degli anni, con una falce in mano per indicare che presiede al tempo e all’agricoltura.

Sopra una base quadrata, antico monumento, unico della sua specie, si vede Saturno, al quale Rea dà una pietra inviluppata in un drappo. Si mettevano dei legami alla statua di Saturno che rappresentava il Tempo, e questi consistevano in fascie di lana, che si toglievano il giorno della sua festa.

Una statua di Saturno, riportato da Montfaucon ha delle piccole ali ai piedi, forse per indicare non il tempo in generale, ma solamente una piccola parte di questo.

Lezione quarantesimaquarta.
Dei Ciclopi e dei Dattili. §

Il signor Fréret uno dei più dotti uomini della Francia ha raccolte sui Ciclopi delle notizie dai Classici, delle quali mi prevarrò nella presente Lezione. Egli riflette in primo luogo che tutti gli autori non annettevano a questo nome Fistessa idea.

I Ciclopi di Esiodo sono figliuoli del Cielo e della Terra, simili agli altri immortali, se non che eglino non avevano che un occhio tondo e posto in mezzo della fronte. Esiodo ne distingue tre, che egli nomina Arge, Bronte e Sterope, cioè il lampo, il tuono, il fulmine.

Secondo Omero i Ciclopi sono Giganti Antropofagi, cioè mangia-uomini, stabiliti nella Sicilia, unicamente occupati della vita pastorale, senza alcuna cognizione nè delle leggi della società, nè dell’arti più necessarie. Polifemo figlio di Nettuno è loro capo, e porta lo stesso nome che uno degli eroi dell’Iliade. Non vi ha alcuna cosa che meno si rassomigli di queste due sorta di Ciclopi.

Quelli di Esiodo sono esseri allegorici, meteore personificate, come l’iride o l’arcobaleno, le arpie i venti tempestosi e nocevoli. Quelli di Omero sono personaggi poetici e di pura immaginazione, simili a quelli delle nostre novelle.

Se ne conosce una terza specie, di cui la memoria si era conservata nell’Argolide, e che avevano tempio e sacrifizii a Corinto. Questi sono i Ciclopi ai quali un’antica tradizione, riportata da Strabene, attribuiva la costruzione delle fortezze di Tirinto e di Nauplia, fabbricate da Acrisie avo di Perseo. Eglino erano sette, tutti originari di Licia. Mostravansi ai tempi, di Strabene le reliquie della loro opera, e questi avanzi, che sussistono ancora, danno l’idea dei primi tentativi dell’architettura nascente.

Il signor Desmaiseaux gli vide nel 1688, e ne fa la descrizione nel suo viaggio manoscritto: la sua testimonianza è confermata dai particolari somministrati dal signor Fourmont dopo il suo ritorno dal viaggio di Levante. Egli ne parlava come di massi inalzati a forza di braccia, e posti gli uni sopra gli altri; i frammenti di altre pietre vi sono mescolati per riempire i vuoti; vi si scorge delle specie di volte, o grotte, con volte in forma di arcata. Acrisie e Prete, pei quali i Ciclopi lavorarono, devono aver vissuto dugento anni avanti la presa di Troia.

Callimaco e i poeti posteriori, come Virgilio e Ovidio, hanno immaginato una quarta specie di Ciclopi, dei quali fanno dei fabbri che lavorano nell’Isola di Lipari. Euripide nella sua tragedia di Alceste fa uccidere i Ciclopi da Apollo per aver fabbricato il fulmine col quale Giove uccise Esculapio figlio di lui.

Questi Ciclopi di Euripide sono quelli di Esiodo, figli del Cielo e fratelli di Saturno, ma il poeta tragico dimenticava che eglino erano immortali. Così lo Scoliaste osserva che secondo Ferecidè, Apollo non uccise i Ciclopi, ma i loro figli.

I Ciclopi fabbri, e dati a Vulcano per aiuti, erano una finzione nuova immaginata dopo Omero. Il Vulcano dell’Iliade ha la sua fucina in cielo: vi lavora solo, servito da statue d’oro, che sono il capolavoro della sua arte.

I Ciclopi di Callimaco sono probabilmente quelli che portano il nome di Cabiri su molte medaglie, nelle quali li vediamo rappresentati con attributi relativi all’ arte di fabbro. L’isola di Lenno era consacrata a Vulcano: vi aveva dei templi; una città portava il suo nome. Ma non vediamo negli antichi poeti citati in questa isola una fabbrica, quantunque Ellanico pretenda che fabbricate vi fossero le prime armature.

Lenno ebbe già un Vulcano, che le fece dare il nome di Etalia, ma di cui non resta alcun vestigio. Questa circostanza fisica determinò senza dubbio gli antichi a consacrare questa isola al dio del fuoco. I suoi sacerdoti avevano la reputazione di guarire le morsicature dei serpenti: lo che eglino facevano probabilmente applicandovi l’argilla, della quale le proprietà eran conosciute fin d’ allora, e che pure ‘adesso conserva la sua celebrità nel Levante.

Fin qui il signor Fréret, le si cui dotte osservazioni mi faro lecito di rettificare e di supplire.

Non può asserirsi che i Ciclopi d’ Euripide siano figliuoli del Cielo e della Terra come quelli di Esiopò, giacche egli nella tragedia, che porta il loro titolo, ne fa padre Nettuno. Polifemo il piu potenti e il piu famoso di essi, che furono cento, nacque, secondo Apollonio, dal nominato dio del mare e da Europa di Tizio figliuola. Omero nel primo libro dell’Odissea gli da per madre Toosa. Lo stesso autore, nel nono libro, cosi descrive la felicità e le costumanze dei Ciclopi. — Affidati alla bontà degli Dei non piantano, ne arano. Tutti i frutti loro produce spontanea la terra. La vite stessa si arrichisce di grappoli, che Giove accresce colla pioggria. Ignote lor sono le liti, ignoti i fòri, ignoti i consiglieri: ciascuno dà legge alla propria moglie, ai propri figli. — Natale Conti ha male interpretato questo passo d’ Omero, dicendo che di cose importanti dava sentenza la moglie, il figliuolo.

Abbastanza dei Ciclopi, giacche mi hi presenterà occasione di parlarrjedi nuovr^ rjuando l’ordine delle mie Lezioni ne condurra al viaggio rti [jli.sse, che scampo alla crudeltà di [-"olifemo lasciandogli doloroso ricordo. Nel firjc dei mio ra^onamento udirete quanto que;,to mo.struo.so ardesse di Oalatea, da 7’eocrito, di cui l’Idillio, detto il CìcIojjC, ho tradotto, ‘;,~;[jero che ofjTiurj di voi ^’onv.-rra con Quiri tiliano che questo poeta è nel suo genere maraviglioso. Mi prevarrò intanto dell’altre notizie che intorno ai Dattili, simiglianti per loro uftlcio ai Ciclopi, ha raccolte il prelodato critico della Francia. Nè Omero, nò Esiodo parlano dei Dattili, almeno sotto questo nome. Nonostante, eglino figurano con distinzione nella Mitologia, e sovente presi pei Coribanti, pei Cureti e ancora pei Cabiri, somministrano maggiore varietà dei Ciclopi. Così conviene considerarli sotto difierenti punti di vista. Come inventori dell’arte di fabbricare il ferro e di lavorare i metalli relativamente ai Greci, perchè quest’arte era molto più antica nell’Oriente: come una specie di medici e d’ incantatori, che univano all’ applicazione dei rimedi naturali certe formule magiche, alle quali si attribuiva la virtù di sopire i dolori, e ancora di dissiparli: come quelli che stabilirono nella Grecia il nuovo culto di Giove: finalmente come i custodi, i nutritori di questo dio e Genii addetti al servizio di Rea, qualità che loro si dà, confondendoli coi Cureti e coi Coribanti.

11 tempo di questi Dattili, considerati come inventori dell’arte di fabbricare il ferro, risale molto alto nell’Istoria Greca. L’epoca di questa scoperta è del terzo secolo avanti la presa di Troia, ma posteriore alla spedizione di Sesostri nell’Asia minore e nella Tracia. Questo avvenimento, uno dei più considerabili dell’antica istoria, influì molto sul destino delle nazioni orientali. Ne nacquero rivoluzioni e mutamenti, che mescolarono i popoli fra loro, e contribuirono con <|uesta confusione a urna nizzare paesi fin allora abitati da selvaggi. Questa difi’usione di cognizioni e di lumi portò l’arte di lavorare i metalli nella Frigia, e dalla Frigia passò nella Grecia, perchè i Dattili che la portarono erano Frigi, secondo l’opinione più comune.

Egli è vero che alcuni autori li facevano venire da Creta, ma la maggior parte suppongono che eglino aveano passato dalla Frigia in questa isola e lo sbaglio di quelli che s’allontanano in questo punto dal sentimento ordinario veniva da un equivoco cagionato dal soprannome dato comunemente ai Dattili. Si chiamavano Idei: ora il nome d’Ida era comune a due montagne situate una in Creta, in Frigia l’altra.

Il frammento di Foronide nomina tre Dattili: Ohelmi, Damnaneo ed Acmone ministri di Adrastia o di Cibelle, dice il poeta, scoprirono il ferro nelle valli del monte Ida, e formati da Vulcano eglino istruirono gli uomini a lavorare questo metallo col fuoco. I nomi che loro dà l’autore della Foronide non sono che epiteti relativi alle differenti pratiche della lor arte, fonditore, domatore, spezzatore.

Il restante nella seguente Lezione.

Il Ciclope.

Contro amore verun rimedio è nato,
Nicia, e certo non v’ha farmaco o polve
Siccome i versi: e ciò soave e grato
È fra i mortali. Ma trovarlo è pena,
Tu il sai, lo penso, delle medich’arti
Perito, e caro delle muse al coro.
Polifemo traea sì facil vita,
Odio di Galatea, Ciclope illustre.
Ed ardea per la ninfa allor ch’ai mento
Ombra faceva la lanugin prima.
Nè rose, o pomi, o frondi era l’affetto,
Ma furore, e ponea tutto in non cale.
Senza pastor le pecorelle al chiuso
Tornavan spesso dalle verdi erbette,
Ed ei cantando Galatea, sul lido
Sedea fin dall’aurora: in lui lo strale
Della potente che su Cipro impera
Fisso si sta: trovò rimedio alfine.
Guatando verso l’Oceàn sedea
Sopra alta rupe e alla crudel cantava:
O Galatea, perchè chi ti ama aborri?
O nel sembiante più bianca del latte,
Più morbida di agnella, e più lasciva
Di vitelletta, ma dell’uva acerba
Aspra di più, ten vieni allor eh’ un sonno
Dolce mi prende, e con lui fuggi, e fuggi
Qual pecorella che canuto lupo
Rimiri. Io m’invaghii di te, fanciulla.
Allorché a corre di Giacinto i fiori
Sul mio monte venisti, e scorta io t’era
Per quella via. Gran tempo è ch’io ti vidi,
Ma t’amo ancora, e tu di me non curi.
Donzella vaga, io so perché mi fuggi:
Perché sopra la fronte irsuto ciglio
Unico da un orecchio all’altro arriva,
E sotto d’esso é un occhio solo, e sopra
Alle mie labbra pende uu largo naso.
Ma come son, pecore mille io pasco,
L’ottimo umore che da lor si munge
Mi bevo, e copia di rappreso latte
Ho nell’estate, ho nell’autunno, e sempre
Le mie fiscelle ne son curve. Io canto
Meglio di ogni Ciclope, e di te canto.
Mio dolce pomo, e di me, spesso a molte
Ore di notte. Per te sola allevo
Undici cavrioli e quattro orsacchi;
Or vieni a me, quel che prometto avrai;
Lascia che il mare col ceruleo flutto
Flagelli il lido, che più lieta notte
Avrai nell’antro mio. Lauri vi sono,
Alti cipressi, negra edera e viti
Cariche d’uva, e vi è la gelid’onda
Che dalle bianche nevi Etna selvosa
Ministra a me, nettare mio. Tu brami
Vivere ancora in formidabil’onde,
E se io ti sembro troppo irsuto, io tengo
Legno di querce, e inestinguibil foco
Sotto il cerere mio vive. Io potrei
Soffrir che l’alma ancor tu mi bruciassi
E l’unico occhio mio di te men caro.
O madre mia, perchè non farmi l’ali
Con che guizzano i pesci: allor per l’onde
A te verrei, ti bacerei le mani
Se non volessi il viso, il bianco giglio
A te recando ed il papaver molle:
Quei fiorisce lo estate, e questi il verno,
Perchè tutto portare io non ti posso,
O donzella, a notar fra poco imparo;
Se navigando col suo legno arriva
Qualche straniero in questo lido, allora
Saprò qual sia piacer starsi nel mare:
Vieni fuor, Galatea, tornar ti scorda
A casa, come io fo su questo duro
Sasso assiso: paschiam l’agnello insieme,
Meco mungi, o rappiglia il latte. madre.
Tu sol m’iugiurii, di te sol mi dolgo:
Punto bene di me ti disse, e magro,
Sottil mi vede ogni dì più. Se dico
Che capo e piedi gran pena mi cruccia
Onde si dolga al mio dolor, risponde:
Ciclope, Ciclope, ove. volasti
Colla tua testa? se tesser canestri
Tu volessi e cercar tenere frondi
Per r agnelletto, assai più senno avresti:
Mungi agnella presente: e perchè segui
Chi ti fugge? altra Galatea potrai
Trovarti, e forse d’essa ancor più bella.
Nella notte scherzar molte fanciulle
Chiedono meco, e ridon tutte allora
Che compiacere a lor desìo m’infìngo.
Anch’io su terra fo la mia figura. —
Colle Muse così l’amor pasceva
Polifemo, e miglior vita traea
Che se dato invidioso oro gli avesse.
Teocrito, Idillii.

Lezione quarantesimaquinta.
Dattili, Telchini, Gureti, Gabiri, Plutone. §

Ai tre Dattili nomiDativi nella passata Lezione Strabene ne aggiunge un quarto, ch’egli nomina Ercole. Sofocle secondo esso ne contava cinque, e dipende, come sembra al nominato poeta, dal numero indicato il loro nome, che in greco significa diti. Ferecide gli accresceva fino a cinquantadue. Si dividevano in due classi, cioè incantatori e medici. I primi appartenevano alla sinistra, i secondi alla destra. Era ufficio degli uni il nuocere, degli altri il riparare ai danni degl’incatesimi.

I Dattili Idei portarono nella Grecia il culto di Giove e lo stabilirono, secondo Pausania, in Olimpia: costruirono per onorare questo dio un’ara egualmente singolare per la materia e per la forma. Avea ventidue piedi di elevazione, e trentadue di larghezza. Era composto l’altare di ceneri sulle quali si manteneva un fuoco eterno. E perchè l’ardorè del sole e il fuoco dei sacrifizii dovea seccare questo altare e ridurlo insensibilmente in polvere, si riparava tutti gli anni nell’equinozio di primavera, che cadeva dell’anno Olimpico nell’ultimo mese.

Abbastanza dei Dattili. Seguitiamo adesso il signor Fréret nell’altre sue ricerche sui Telchini. Noi dobbiamo, egli dice, rigettare egualmente le due tradizioni opposte che facevano i Telchini padri o figli dei Dattili Idei. Questi nomi, come quelli di Coribanti e di Cureti, non erano nomi di popoli o di famiglie, ma semplici epiteti.

Dalla più leggera attenzione su ciò che significava la parola di Telchini sarebbero stati i critici disingannati. Questo nome significa guarire, raddolcire il dolore. Non ostante col tempo questo nome divenne ingiurioso, e sinonimo di demonio, d’incantatore. I Telchini con tutto ciò avevano partigiani, che consideravano queste imputazioni come conseguenze dell’invidia prodotta dal merito delle loro scoperte.

Secondo Diodoro fu loro affidata l’educazione di Nettuno, e chiamati furono figli del mare: lo che mostra la loro perizia nella navigazione. Nè minor vanto aveva la loro abilità nella metallurgia: èglino (era fama) avevano fabbricata la falce di cui Rea armò Saturno, e il tridente di Nettuno.

Probabilmente eglino impararono nell’isola di Cipro celebrata per le sue miniere, l’arte di lavorare il ferro e il rame dagli abitanti, che seppero i primi mettere in opera questo secondo metallo. Benché i Cureti ed i Coribanti (prosegue il nominato critico) siano stati personaggi realmente distinti, sono stati quasi sempre dagli antichi confusi.

Omero indica con questo nome un popolo presso Calidone, che sono gli Etoli situati all’ oriente del fiume Acheloo. La parola Cureti presa nel più semplice significato suona uomini nel fiore degli anni. In terzo luogo si dissero Cureti i ministri di Giove nell’Isola di Creta, e quelli di Rea nella Frigia, perlochè sotto questo ultimo significato si trovano sovente confusi coi Coribanti.

I Cureti erano, dice Strabone, gl’inventori della danza armata: e così erano chiamati perchè erano i più giovani fra i sacerdoti incumbenzati di questo ufficio nelle processioni di Giove e di Rea. I Salii in Roma camminavano facendo ogni tanto piccoli salti, e percotevano i loro scudi con ferri come baionette. La danza dei Coribanti era per lo contrario accompagnata da movimenti quasi convulsivi di tutto il corpo e di tutta la testa. Eccovi quel che importa sapere dei Coribanti.

Tutte le altre ricerche del signor Fréret si aggirano sulla differenza che passa fra Cibele e Rea, e fra questa ultima e la Terra: ed io credo inutile il darvene conto, perchè vi accennai la discordia dei mitologi su questo particolare, ragionando della madre degli Dei.

Quanto ai Cabiri, sui quali si estendevano le fiflessioni del critico sopra lodato, tralasciando ogni discussione per voi noiosa, vi dirò che i Cabiri erano presso gli antichi considerati come i sacerdoti di alcune divinità. Come Dei subalterni, Erodoto chiama Cabiri alcuni Dei Egiziani che dicevansi figli di Vulcano, la più antica divinità dell’Egitto. Nella Grecia si dava questo nome ai figli dello stesso dio onorato in Lenno, dei quali il culto si era sparso non solo nell’isole vicine, ma ancora nella Macedonia e nell’Asia Minore. I Cabiri adorati nell’isola di Samotracia erano considerati come divinità di primo ordine, giacché si chiamavano Dei grandi. Dei potenti.

Come figli di Vulcano Tessalonica li onorava di un culto singolare, e sulle medaglie di questa città si vedono col berretto del dio, di forma conica, tenenti da una mano un martello, dall’altra una tanaglia.

Dopo i Ciclopi, ai quali la somiglianza delle loro arti e dei loro ritrovati mi ha obbligato di unire i Dattili, i Cureti, i Coribanti, i Cabiri, Esiodo pone le Furie primogenite del sangue che esci dalla ferita di Celo.

Ma io credo necessario ragionare innanzi del loro re, cioè di Plutone, e quindi di tutta la corte infernale: onde discendete meco col pensiero nell’Inferno degli Idolatri, che prestò all’ immaginazione di Polignoto una pittura tanto celebre fra i Greci, quanto lo è quella di Michelangiolo fra noi. Nella seguente Lezione Pausania vi descriverà questo quadro con tanta esattezza che potreste rifarlo.

Plutone, che dio dell’Inferno fu reputato dagli antichi nacque da Rea e da Saturno, militò con Giove i contro Titani, ed ebbe dalla sorte il terzo regno, cioè l’ Inferno: lasciò scritto il mentovato Pausania nel suo Viaggio nell’Attica, esservi stata presso gli Ateniesi una statua di questo dio fanciullo con la Pace per nutrice, forse per significare che questa dea regna solo fra i morti.

È opinione di alcuni che la favola dell’Inferno assegnatogli in dominio riconosca per origine dell’aver egli avuto soggetti al suo impero i paesi occidentali, che sino all’Oceano si estendevano. Altri dicono che Plutone fu il primo a far lavorare le miniere d’oro e d’argento eh’ erano nella Spagna, e siccome coloro che sono destinati ad un tal lavoro sono costretti a scavare bene addentro la terra, e per così dire, fin nell’inferno, fu detto che Plutone abitava nel centro della terra. La corta vita di coloro che si applicano a questo lavoro può avere accreditata la volgare superstizione.

Le geste di questo dio si limitano al suo ratto di Proserpina, che Claudiano da me tradotto vi ha descritto nelle passate Lezioni. Converrà dunque favellare delle diverse maniere di rappresen tarlo.

Plutone, secondo Winkelmann, non si trova in alcuna parte con uno scettro a due denti come ì moderni lo rappresentano, ma con uno scettro, che Pindaro chiama verga, colla quale questo dio assegna all’ anime il luogo eh’ elleno devono abitare nel suo impero. Conferma 1’ opinione del principe degli antiquarii la seguente descrizione di una statua di Plutone del Museo dementino data da Quirino Visconti.

«Alle deità del cielo, del mare e della terra riportate nel primo volume, aggiungiamo quella dell’Inferno, cioè il Giove Stigio, il Giove Sotterraneo, il Giove Dite, conosciuto comunemente col nome di Plutone, o Dio Ricco, nome che al latino dite si riferisce. L’ orrenda maestà nel fiero aspetto lo manifesta pel re dell’ombre, e più lo distingue il Cerbero che gli posa ai piedi, portinaio dell’Orco. Non fo motto del biforcuto scettro che ha nella sinistra, essendo questo riportato dal ristauratore, e non osservandosi in mano a Plutone in verun monumento. Conviene bensì al suo capo il medio, o calato, emblema di ricchezze e d’abbondanza, come a quel nume cui le dovizie diedero il nome, e che l’arbitro ne fu reputato, confuso perciò sovente con Pluto dio della ricchezza, divinità allegorica e immaginata piuttosto dai filosofi e dai poeti che venerata dai popoli. Le miniere dei preziosi metalli che nelle viscere della terra si ascondono, furono motivo che se ne ascrivesse la signoria al nume dei regni sotterranei, o infernali, che vale lo stesso. Forse per una simile ragione fu creduto Plutone il nume dei morti, essendo stato costume antichissimo quello di servirsi delle spelonche e di altri luoghi sotterra per seppellire i cadaveri, e così nascondere quelle memorie della nostra caducità, che offendono i sensi e contristano la fantasia.

« Il Cerbero che sta ai piedi del nume è rappresentato in figura di un cane tricipite, come in tutti i monumenti ancora esistenti, quantunque assai varie fossero le immagini sotto le quali gli antichi poeti e mitologi sei figurarono. Gli angui che gli avvincono il triplice collo non sono omessi nelle più eleganti descrizioni che a noi sono pervenute.

« Quello che nel nostro simulacro interessa più di ogni altra cosa lo sguardo del sagace conoscitore, è la perfetta somiglianza che ha con le immagini di Serapide. Sì osservi, fra 1’ altre quella riportata dal Fabbretti, e poi dal Cupero, che in tutto confronta colla presente, ed è a basso rilievo su un’ara a Serapide dedicata. La Storia antica e la Mitologia rendono conto di tal somiglianza.

« Sappiamo dalla teologia pagana che il dio dei morti si chiamava Serapide presse gli Egizii, e dalla Storia apprendiamo eh’ ebbe un tempio in Menfi antichissimo, un altro in Racòti, luogo ove fu edificata Alessandria; che incominciò appunto da questa epoca ad essere più conosciuto Serapide, e che il suo culto divenne più divulgato da che il primo dei Tolomei fece, a motivo d’un suo sogno, trasportare in Alessandria un vetusto simulacro di Giove Dite, o Infernale, venerato con antichissima religione in Sinope, città non ignobile del Ponto. Questo simulacro giunto poi in Egitto, e riconosciuto per Plutone dal Cerbero e dal Serpente, ebbe il nome di Serapide, o Sarapide, divinità indigena ed analoga al greco Plutone, col quale amarono di confonderla. Esigeva ciò il genio dei Greci, e ben conveniva alle circostanze degli Egiziani. Godevano i primi di ritrovare nel culto delle nazioni la lor teologia; desideravano questi di uniformarsi alle opinioni religiose della nazione dominante senza abbandonare del tutto i lor riti, e ritenendo almeno i vocaboli già consecrati nelle loro teogonie. D’allora in poi tutti i popoli seguirono l’esempio d’Alessandria, e il Plutone, o Giove Dite, dei Sinopiti, fu venerato dal Paganesimo sotto il nome di Serapide. Così ebbe fama una divinità dell’Egitto, oscura fino ai tempi di Alessandro Magno, e fu ritratta in figura, attributi e ornamenti affatto inusitati alla religione egiziana. Tali sono la barba, il calato e l’abito affatto greco, cose tutte che non dovevano far dubitare i moderni dell’origine pontica delle sue immagini. Difatti Dionisio il geografo, ch’era Alessandrino, lo riconosce pel gran Giove di Sinope ; e nelle monete di questa città, che divenne poi colonia romana, s’incontra frequentemente l’effigie di questo nume. Osserva ancora che il calato, modio, si vede sul capo di quasi tutte le antichissime divinità asiatiche, come del Giove Labradeo di Milaso, della Giunone di Samo, della Nemesi di Smirne, delle Diane di Perga ed Efeso: e vogliasi questo attributo spiegare per un vestigio delle colonne adorate nei prischi tempi invece dei simulacri secondo il parere del Buonarroti, o secondo quello degli antichi, voglia interpretarsi per simbolo dell’abbondanza e della dovizia, di cui si riguardarono questi numi come dispensatori, simbolo tanto più conveniente al Giove Plutone, Giove Dite, Giove Ricco dei Sinopiti: qualunque sia, dico, il significato che voglia darsi a quel modio, sempre dovrà riconoscersi per uno di quei fregi chiamati da Giovenale: « antichi ornamenti degli Dei di Asia. »

« Infatti per quanto cariche di pompose dec orazioni sian le teste delle figure egiziane, nulla vi si distingue che al modio delle prische divinità asiatiche si assomigli. Quindi comparisce in verisimile l’opinione di alcuni Padri, i quali supponendo al modio di Serapide un’origine egizia, han pensato alludersi con questo simbolo all’abbondanza procurata da Giuseppe all’Egitto, e han traveduto quel patriarca nell’immagine di Serapide.

« Quantunque la scultura del nostro Plutone accusi l’epoca della decadenza dell’arti, epoca nella quale il culto di Serapide riuniva quasi in un solo oggetto la moltiplico religione del Politeismo, pure è stimabile per la sua integrità e per rappresentarci forse l’immagine stessa di Plutone da Sinope trasportata in Alessandria. Certo che il vedere sulle monete di tante città greco-asiatiche impressa la stessa effige sedente col Cerbero ai piedi, 1’ osservarla replicata non solo in bassi rilievi, ma ancora in statue, come in quella del tempio di Pozzuolo, ora a Portici, ed in un’altra in Villa Borghese alla quale è stata innestata una testa imberbe e non sua fa congetturare che celebre per la devozione dei popoli ne fosse divenuto l’originale. Il nostro marmo non lascia di esprimere nell’aria del volto quel non so che di torvo e di feroce notato da Winkelmann come caratteristico di Plutone, cui sovente è apposto dai Greci l’epiteto di (grec), che vale odioso. L’amor della vita avea destato quel sentimento di avversione che si ebbe pel dio della morte: quindi come deità nocente fu talvolta considerato, e con fuso dai Greci coir Arimanio dei Persiani, eh ‘era il principio del male presso quegli antichi Dualisti.»

Tornando al simulacro è da notarsi che le mani sono di moderno ristauro, che la destra doveva reggere la patera, o stare stesa verso il Cerbero; la sinistra stringere un’asta, o uno scettro, quale suol vedersi in mano di Serapide nei monumenti: scettro che ben conviene a Plutone non solo come a re dell’Èrebo, ma bene anche come a condottiero dei popoli, scettro che vien sovente interpretato dagli antichi pel Nilometro, o la Misura dell’ escrescenze del Nilo, solita depositarsi nel tempio del dio Serapide. Rimangono ad osservarsi alcune piante scolpite all’intorno del calato, le quali per non essere abbastanza distinte sono state omesse dal disegnatore. Quantunque peraltro non sieno che accennate, ci additano alberi glandiferi, la relazione dei quali a Plutone non è molto chiara. Ciò non ostante il vedere costantemente replicata l’immagine di tali piante e sul calato d’un piccol Plutone presso il rinomato scultore signor Bartolommeo Cavaceppi, e su quello che adorna il fine del capitolo primo, libro sesto, della Storia dell’Arti, mi fece pensare all’elee, albero funereo e glandifero. L’elee era, come il cipresso, una pianta sepolcrale e di tristo augurio: quindi può riputarsi consacrata a Plutone, e come al nume dei morti, e come a deità nocente e funesta. Non tanto il color nero delle sue foglie, quanto il non rallegrarsi con nessun fiore, e mostrarsi insensibile alla letizia dell’ anno, fecero tener l’elee presso gli antichi per arbore tristo e lugubre. Il raro basso rilievo che adorna nel rame il piedistallo del nostro Plutone, si conserva pure nel Museo, e fu dissotterrato ad Ostia, dove " Winkelmann l’avea veduto. Rappresenta Amore e Psiche presso al trono di Plutone e di Proserpina, favola narrata con tanto vezzo da L. Apuleio. Il Plutone è molto simile alla statua nella positura, nell’abito e negli attributi, tranne il calato che non ha sul capo, benché sembrasse a Winkelmann, forse per dimenticanza, di avervelo osservato. L’ abito, come nella statua, mostra pochissimo nudo, ed è allusivo all’oscurità tutta propria del nume del tartaro, espresso perciò in qualche antica pittura col capo velato: onde presso i Greci avea sortito il nome di (grec), il cui senso vale oscuro, invisibile

Lezione quarantesimasesta.
L’Inferno di Polignoto. §

Pausania nel suo Viaggio nella Grecia parla incessantemente delle belle opere delle quali era ripiena, ma egli conosceva più 1’ antiquaria che le arti, e il celebre conte Caylus, disegnatore valente ed erudito, ne dà per prova la descrizione di due pitture di Polignoto fatta da questo autore. Vi regna una confusione che oscura la distribuzione delle parti pittoriche. Il prelodato Caylus cercò di rimediarvi; e, pose tanta chiarezza nella descrizione, che il signor Lorrain potè eseguire ad acqua forte il dipinto di Polignoto.

Vi esporrò il secondo perchè riguarda l’Inferno, ove Ulisse discende per consultare 1’ anima di Tiresia sui mezzi di ritornare felicemente ne’ suoi stati. Si vede subito un fiume ch’è l’Acheronte: le sue rive sono ripiene di giunchi. Vi si distinguono dei pesci, ma leggerissimi come ombre. Sopra questo fiume vi è Caronte che rema, ed è rappresen tato molto vecchio. Vi sono nella barca uomini e donne, la maggior parte sconosciuti. Vi si distingue Telli ancora giovine, e Cleobea pure fanciulla. Telli fu il bisavolo del poeta Archilo co. Cleobea tiene sulle sue ginocchia una cista, eguale a quelle che sono in uso nelle feste di Cerere: ella fu la prima che trasportò dall’isola di Paro in quella di Taso il culto di questa dea.

La composizione comincia in questo fiume: cosi dice il conte di Caylus: bisogna tagliarlo pel terreno, e non mostrare che la riva ove la barca approda. Riguardo all’ombre, il loro colore deve altrettanto partecipar del bianco ch’egli sarà possibile col giorno, che si usa di spargere per illuminare gli oggetti dei quali l’Inferno è ripieno. La figura di quest’ombre deve essere molto allungata: questo è uno dei gran mezzi per farne sentire la leggerezza. Quanto all’ombre dei pesci, dei quali parla Pausania, Caylus sospetta che questo autore abbia creduto di vedervi un artifizio, al quale Polignoto non avrà nemmeno pensato. Sarebbe infatti d’un’utilità mediocre, e generalmente un pesce comune come quelli che qui son descritti, è poco distinto dalla forma, dal colore, e la sua realità confina coll’ombra in piena aria prodotta dai corpi.

Sulla ripa del fiume vi ha cosa degna d’osservazione, e che è al di sotto della barca di Caronte; un figlio snaturato è strozzato da suo padre. Accanto vi è un empio che ha saccheggiati i tempi degli Dei: egli è punito del suo sacrilegio da una donna perita nella composizione dei veleni, e so prattutto di quelli che sono stati ritrovati pel supplizio dei mortali.

Gli antichi non hanno mai trascurata la morale: eglino r hanno riconosciuta come essenziale alla pittura. Qui il delitto è punito da altri delitti.

Siccome l’azione del padre in se stessa è inumana, bisogna diminuirne l’orrore per non scancellare ridea di giustizia. Egli era impossibile di far capire che queste bevande erano veleni preparati per l’empio: ora Pausania indovina che lo scritto suppliva all’ espressione della pittura: ma ciò sa rebbe contrario allo spirito dell’arte.

Al di sopra di questi due gruppi si vede Eurinome, che ha un color nero che al blu si avvicina, ed è assiso sopra una pelle di avoltoio. Quelli che spiegano questa pittura a Delfo dicono che Eurinome è una divinità dell’Inferno che mangia la carne dei morti, e loro non lascia che le ossa. I poeti non parlano di questa Eurinome. Per servire al testo conviene rappresentare circondato di scheletri questo dio d’altronde sconosciuto. Si vede, immediadiatamente dopo, Augea l’Arcadica, e Ifidemea.

Augea passò in Misia presso il re Teutra, e fra tutte le donne ch’ebbero commercio con Ercole fu quella che partorì un figlio il più somigliante al padre. Ifidemea ebbe grandi onori dai Carli della città di Milasso. Più alto due compagni di Ulisse, Peremede ed Euriloco, conducono dei montoni neri pel sacrifizio.

Da presso si vede un uomo seduto, che fa una corda col giunco: è Ocno, come lo mostra l’iscrizione; vicino ad esso è un’asina che mangia la corda. Ocno era un uomo faticante. ma la sua moglie dissipava i frutti delle fatiche del marito; ciò ha rappresentato Polignoto sotto questo emblema. Fare la corda d’Ocno era un proverbio in Ionia per indicare fatica inutile.

Tizio non è rappresentato nei tormenti, ma col corpo arido dai patimenti; non è che un’ombra appena visibile.

Quindi è Arianna seduta sopra uno scoglio, e guarda la sorella di lei Fedra sospesa ad una corda che tiene con due mani. Questa disposizione presenta con orror minore la funesta avventura di Fedra.

Questo esempio dato dagli antichi ne insegna ad evitare nelle pitture gli spettacoli dispiacenti, ed a rammentarli allo spirito con delle cose che equivalgono. Un tal compenso, dice Caylus, mi sorprende dalla parte di un artista così antico.

Al di sopra di Fedra, Glori è giacente sulle ginocchia di Tia. Elleno si erano vicendevolmente amate in vita. Glori era di Orcomene in Beozia, e sposò Neleo figlio di Nettuno. Tia ebbe commercio con Nettuno stesso. Accanto a Tia si vede Procri figlia di Eretteo, e dopo essa Glimene che le volge le spalle. L’istoria rende ragione di questa attitudine. L’avventura di Procri è nota. Dopo la sua morte Gefalo sposò Glimene figlia di Minia e n’ebbe Ifìclo. In un piano più da lungi si vede Megara tebana. Ercole privato dei figli che da essa aveva avuti, la repudiò come una sposa disgraziata. Al di sopra delle donne delle quali abbiamo parlato è la figlia di Salmoneo seduta sopra una pietra, ed accanto a lei Erifìle in piedi, che fa passar la sua mano al di sotto della sua tunica, come per nascondere il monile così famoso.

Al di sopra di Erifìle Polignoto ha rappresentato Elpenore, ed Ulisse inginocchiato. Egli pende in avanti e tiene la sua spada stesa sopra la fossa. L’indovino Tiresia arriva al di là della fossa. Dietro lui si vede Anticlea madre di Ulisse seduta sopra una pietra. Elpenore è vestito da marinaro con una tunica corta tessuta di giunchi o di corda. Più basso, al di sotto di Ulisse, Teseo e Piritoo stanno assisi su delle sedie. Teseo tiene con ambe le mani la spada di Piritoo e la sua: Piritoo fìssa gli occhi su queste due spade, e sembra afflitto ch’elleno sieno state inutili per eseguire la loro ardita intrapresa.

Questo momento è bello polla qualità ed il numero dei circostanti: egli presenta un oggetto che colpisce in se stesso: le posizioni delle fìgure son variate con arte. Benché l’azione di Ulisse sia l’oggetto principale di questa composizione, Polignoto non l’ha distinta con alcuna affettazione, e concorre con le altre per l’effetto di un ricco e magnifico insieme.

Si veggono in seguito le due figlie di Pandaro, Camiro e Clitia: elleno sono coronate di fiori, e giocano ai dadi. Pausania racconta qui l’istoria di queste fanciulle com’è narrata nell’Odissea. Egli continua poscia dicendo: Vicino a loro si vede Antilo co: egli ha i piedi sopra una pietra ed appoggia il suo viso e la sua testa sopra ambe le mani. Agamennone è accanto, l’ascella sinistra appoggiata sul suo scettro; egli tiene una bacchetta nella mano.

Il gioco delle figlie di Pandaro sparge una varietà grata. L’ attitudine di Antiloco, che posa il piede sopra una pietra, si riscontra sovente nei monumenti. Gli antichi se ne servivano per variare la posizione delle gambe, e per dare un appoggio più solido alle loro statue. Questa bacchetta nella mano diritta di Agamennone è diffìcile a spiegarsi. Il pittore avrebbe egli dato a questo principe questo bastone di comando, perchè lo scettro, che ne era il segno naturale, qui perdeva il suo uso: Protesilao seduto riguarda Achille, e Patroclo è in piedi al disopra di Achille: sono tutti senza barba, Agamennone eccettuato. Più alto è il giovin Foco: le sue forme hanno un’aria di nobiltà, egli ha un anello in uno dei diti della mano sinistra. lasco che gli è accanto, e che dalla sua barba sembra più avanzato, tira questo anello dal dito di Foco: quest’ultimo, figlio di Aiace, passò in Egina in un paese che si chiamò dopo la Focide: essendosene impadronito legò forte amicizia con lasco, che fra gli altri regali gli diede un anello. Foco essendo ritornato ad Egina fu fatto uccidere da Peleo. lasco vuol veder questo anello, e Foco lo lascia prendere come pegno dell’amicizia antica.

Al di sopra di queste due figure è Mera seduta sopra una pietra: ella era figlia di Prete e proni potè di Sisifo: morì fanciulla. Sullo stesso piano è Atteone figlio di Arìsteo. La sua madre gli accanto; eglino tengono un cerbiatto, e sono seduti sopra una pelle di cervo. Un cane da caccia è seduto ai loro piedi. Il Conte Caylus ha fatto uso dell’anello di Foco per provare l’ antichità degli anelli. Si vede che dai tempi più remoti le pietre erano incise, o portavano almeno caratteri e segni.

Nel basso del dipinto voi vedete Orfeo seduto sopra un’eminenza e appoggiato ad un albero; egli tiene la sua lira dalla mano sinistra, e nella diritta dei rami di salcio: gli alberi accanto ai quali siede, sembrano pioppi neri e salci, che secondo Omero, sono a Proserpina consacrati. Egli è vestito alla greca, e non porta l’abito e il beretto dei Traci. Promedonte è appoggiato dall’altra parte dell’albero. Alcuni credono che sia un personaggio inventato da Polignoto: altri dicono che era un Greco amante della musica e sopra tutto dei canti di Orfeo. Schedio che comandava i Focei all’assedio di Troia ha una corona d’erbe campestri sulla testa, e tiene un pugnale. Presso lui è Pelia assiso sopra una sedia; egli ha la barba e i capelli bianchi, e tien gli occhi fìssi sopra Orfeo. Tamiri è seduto accanto a Pelia: si vede che è divenuto cieco: la sua aria è melanconica ed abbattuta, la sua barba ed i suoi capelli sono incanutiti per la vecchiaia: egli ha gettata ai piedi la sua lira, eh’ è fracassata, e ne sono rotto le corde.

Tutte queste rappresentazioni, composte di re, di regine, di guerrieri, di poeti, e d’uomini celebri nel l’istoria e nella religione, avevano nell’antichità un effetto che più non sussiste.

Al di sopra di Tamiri è Marsia seduto sopra una pietra, ed accanto a lui Olimpo, rappresentato nelle sembianze di un giovine che impara a suonare la tibia.

Se voi rivolgete gli occhi alla sommità della tavola, voi scorgete, sullo stesso piano di Atteone, di Aiace di Salamina, Palamede e Tersite, che giuocano agli scacchi inventati dal primo. Aiace figlio di Oileo guarda il loro giuoco. Si vede che ha naufragato dalla spuma che lo copre: Polignoto ha qui riuniti tutti i nemici di Ulisse.

Pausania avrebbe dovuto notare che l’artista aveva avuto cura di allontanare il re d’ Itaca da questo gruppo. L’osservazione che fa sulla schiuma, della quale Aiace è coperto, cade nel numero di quei minuti particolari, dai quali il genio dell’arte deve allontanare il pittore: ma conviene rammentarsi che gli antichi reputavano questo genere di morte la maggior disgrazia, perchè gli privava della sepoltura. I più grandi artisti sono stati e saranno sempre costretti dalle costumanze civili e religiose ad espressioni mediocri: questa stessa considerazione giustifica Virgilio, che fa gemere Enea all’aspetto di una violenta tempesta.

Un poco al di sopra d’ Aiace figlio di Oileo si vede Meleagro figlio di Eneo, che guarda questo eroe. Fra questi personaggi Palamede è il solo che non abbia barba. In basso della tavola, dopo Tamiri, vi è Ettore seduto: egli tiene il suo ginoc chio sinistro con due mani, e sembra oppresso dalle tristezza. Presso lui è Memnone seduto sopra una pietra. Accanto a Memnone è Sarpedone, che appoggia la testa sulle mani. Memnone tiene una delle sue sulle spalle di Sarpedone. Il pittore ha rappresentato degli uccelli sul manto di Memnone; questi uccelli si chiamano Memnonidi. Accanto a lui si vede uno schiavo etiope per indicare che era re di quella nazione.

Sopra Sarpedone e Memnone si vede Paride giovine e senza barba: egli batte le mani come fa la gente di campagna, e sembra invitare Pentesilea ad avvicinarsegli. Questa lo guarda, ma dal suo volto si vede che lo disprezza: è ritratta nelle sembianze di una giovine che tiene un arco scitico, e che ha le spalle coperte da una pelle di leopardo.

Più in alto vi sono due donne che portano dell’acqua in idrie rotte, onde questa si versa. Una è giovine, l’altra è vecchia: non hanno iscrizione in particolare, ma una sola comune ad ambedue, la quale nota che queste donne sono fra le non iniziate.

Più alto si vede Callisto figlia di Licaone, la ninfa Nomia, e Pero figlia di Neleo. Una pelle d’ orso serve di tappeto a Callisto, che ha i piedi sulle ginocchia di Nomia. Gli Arcadi dicono che Nomia era una ninfa del loro paese, ed i poeti c’insegnano che le ninfe vivono per molto tempo, ma non sono immortali.

Questa abbondanza di Polignoto può somministrare alla pittura moderna un numero infinito di bellissimi soggetti, dei quali Tesecuzione riescirebbe tanto più gradevole, quanto per la maggior parte non sono stati trattati.

Dopo Callisto e l’altre donne che la circondano si vede una balza dirupata. Sisifo figlio d’Eolo si sforza di spingere in su una grossa pietra. Se vede nello stesso luogo un doglio, e un gruppo di figure composto di un vecchio, di un fanciullo e di molte donne poste sopra uno scoglio: una di queste è accanto a un vecchio, ed è molto vecchia: l’altre portano l’acqua: la vecchia tiene un’idria fracassata, e versa nel doglio il poco d’acqua che può contenere. Io congetturo, aggiunge Pausania, che questo gruppo rappresenti quelli che disprezzano i imsteri di Cerere, perchè gli antichi Greci ponevano questi misteri tanto al disopra delle pratiche di Religione, quanto gli dei sono maggiori degli eroi.

Un poco più basso vedesi Tantalo in mezzo ai tormenti descritti da Omero. Di più vi ha uno scoglio che minaccia schiacciarlo, e lo tiene in continuo spavento. Omero non dà altri tormenti a Tantalo che una sete ardente, e una fame che lo divora. Ma Pausania osserva che Polignoto ha seguito il racconto di Archiloco, che ha parlato di questo scoglio.

Tale è la descrizione che dà Pausania di uno dei più celebri dipinti, stupore della Grecia intera; ma questo autore stimabile pel lato dell’erudizione mancava, come osserva Caylus, delle doti necessarie per porre sugli occhi le opere dei grandi maestri. Conviene non ostante sapergli buon grado dei suoi viaggi, dei quali vi consiglio la letttura, onde possiate arricchire il vostro intelletto di cognizioni, che possono guidarvi nei vostri studii.

L’avventura di Orfeo, che coli’ armonia del suo canto potè riavere dall’Inferno la moglie, che da subitanea follia occupato perde, violando la legge impostagli da Proserpina, è con tanta maestà di stile descritta nella Georgica di Virgilio, che io ho tentata la traduzione di quei versi, benché persuaso dell’impossibilità di esprimere, non che di pareggiare la bellezza di quei versi immortali.

Te fuggendo: Aristeo, pel patrio fiume
Crudo serpe nell’alta erba non vide
Innanzi ai piedi custodir la ripa
La giovinetta, e ne periva. Il grido
Del coro eguale empì gli ultimi monti:
La rocca Rodopea ti pianse, e l’alto
Pangeo, di Reso la Mavorzia terra
Con Orizia d’Atene, e Geti e l’Ebro.
Cercò conforto all’infelice amore
Sopra la cava cetra Orfeo; cantava
Te dolce sposa nel solingo lido.
Te quando nasce e quando muore il giorno.
E le Tenarie foci, e le profonde
Porte di Dite, e per paura cieco
Il nero bosco ei vide; al re tremendo
S’appresentava, e dell’Averno all’Ombre,
Ch’a mortai pregio impietosir non sanno.
Mossi dal canto, simulacri lievi
Ed ombre vane fuor che nell’aspetto,
Lascian d’abisso le profonde sedi,
E non tanti nasconde augelli il bosco
Quando la sera, o la montana pioggia
Nell’inverno gli caccia. Uomini e donne
E magnanimi Eroi che morte spense.
Pargoletti, fanciulle ai cari sposi
Rapite, e figli ai genitori in faccia
Posti sul rogo: di Oocito il nero
Fango gli lega e le deformi canne,
Coll’onde pigre l’inamabil stagno,
E Stige sparsa nove volte intorno
Gli frena. E che? stupir le case istesse
E i regni della morte, e avvinto il crine
Le stigie suore di cerulei serpi;
Cessò il latrato nell’aperte gole
Di Cerbero, nè più moveva il vento
La rota Issionea. Vinto ogni caso,
Tornava il vate a riveder le stelle:
Retro Euridice lo seguia. La rese
Proserpina a tal patto. Incauto amante,
Qual subito furor ti prese? e degno
Eia dì perdon, se perdonasser l’Ombre!
Il piò ritenne, e già presso alla luce,
Immemore, ed, aimè: nel cor già vinto.
Mirò Euridice sua. Qui, sparsa al vento
Ogni fatica, del crudel tiranno
Fu rotto il patto, e dallo stagno Averno
Un fragore si udì tre volte, ed ella:
Misera me: deh qual furore, Orfeo,
Ci perse: un’altra volta il crudo fato
Me chiama indietro, ed i notanti lumi
Nasconde il sonno. Addio, rimanti in pace,
Immensa notte mi circonda, io vado
Ed a te tendo, ahi non più tua, le palme: —
Vacillante sì disse, e sparve, eguale
A fumo che si mesca in aure lievi,
E lui fra l’ombre brancolante invano,
E che molto volea dir, più non vide.
E gli vietava traghettar Caronte
L’opposto stagno: e come mai poteva
Seguir di nuovo la rapita moglie,
O piegar con qual canto i numi e l’Ombre?
Ella già fredda sulla stigia barca
Naviga. È fama che per sette mesi
Dello Strimon nella deserta riva
Piangesse sotto d’un’aerea rupe.
Un’armonia nei freddi antri sonava
Che le tigri placò, trasse le querci.
Tal mesto all’ombra di frondoso pioppo
Piange usignolo li smarriti figli,
Che tolse al nido, non pennuti ancora,
Insidiando l’arator villano,
Onde la notte sopra i rami assiso
Piange, e rinnova miserabil carme,
E largamente la nativa selva
Di querele riempie. Amor non diede.
Non imeneo conforto all’egra mente.
Solo scorreva gl’Iperborei geli
Ed il Tanai nevoso, e da Rifee
Pruine i mai non vedovati campi:
E la rapita sposa, e degli Dei
Piangeva i vani doni, onde sprezzate
Dal fedele dolor le Tracie donne,
Fra le feste dei numi e le notturne
Orgie di Bacco disperdean pei larghi
Campi infamati lacerato Orfeo.
Ed anche allora, dal marmoreo collo
Diviso il capo, mentre l’onda il porta
Del Tracio Ebro, dicea la voce istessa,
Euridice, la già gelida lingua;
Chiama Euridice il fuggittivo spirto;
Ahi misera Euridice: ambo le sponde
Euridice, ripetono, Euridice.
VirgilioGeorgica. lib. IV, v. 457.

Lezione quarantesimasettima.
Plutone, Furie, Parche, Danaidi. §

Riunirò nel presente ragionamento altre notizie sulla maniera nella quale il Dio delle Ombre effigiato si vede negli antichi monumenti; quindi si estenderanno le ricerche sulle Furie e sulle Parche. Voi potrete difficilmente rintracciare queste notizie nei libri comuni di Mitologia, che spesse volte ingannano più di quello che illuminino gli artisti, onde vi esorto a sentire maggiormente l’importanza di questi studii.

La figura di Plutone ha in ogni riguardo il carattere di Giove, ma di. Giove truce ed iracondo, quale Seneca tragico ce lo accenna. Winkelmann attribuisce a Plutone la chioma calante giù sopra la fronte, al contrario di quella di Giove che si solleva: ma non è in ciò d’accordo con gli antichi monumenti, che il vero Plutone rappresentano, del quale la chioma ed anche il vestiario si conformano all’uso di Giove.

Il basso rilievo Ostiense, ora al Museo Pio dementino, è il solo marmo, come osserva Zoega, ove sotto il pallio quel dio porti la tunica: in ciò da Giove diverso, ed accostantesi al costume di Serapide, di cui però non ha in testa il medio, come per inavvertenza, già da Visconti notata, asserisce Winkelmann; ma ha la chioma legata con benda ad uso di Giove,

Col capo velato lo veggiamo in una delle pitture del sepolcro dei Nasoni illustrate dal Bellori, ove Visconti ha creduto di riconoscere Saturno, quantunque il velo, come distintivo, niun antico scultore gli assegni. Assai di Plutone.

Nessun reo è assoluto davanti al tribunale interno della Coscienza: onde col ferro, o coli’ oro poterono gli empii comprare il silenzio delle leggi e non quello dei rimorsi. Gli antichi, che erigevano in divinità le fantasie della mente ed i sentimenti del core, fecero dei rimorsi altrettante dee che i Latini dissero Furie, ed i Greci Erinni per lo stesso motivo, giacché loro si attribuiva il furore che agitava gli scellerati. Eumenidi furono chiamate da Oreste, perchè col consiglio di Pallade potè in Argo placarle. Licofrone ed Eschilo fanno le Furie figlie della Notte. Orfeo loro dà per genitori Proserpina e Plutone; Esiodo nella Teogonia le vuol nate dal sangue di Saturno, quantunque nel suo libro intitolato L’opera ed i Giorni dia loro per madre la Rissa. Abitano, secondo Virgilio, nel vestibolo dell’Inferno con altra compagnia di loro ben degna.

« Nel primo entrar del doloroso regno
Stanno il Pianto, l’Angoscia, e le voraci
Cure e i pallidi Morbi e il duro Affanno
Con la debil Vecchiezza; evvi la Tema,
Evvi la Fame, una ch’ è freno al bene,
L’altra stimolo al male. Orrendi tutti
E spaventosi aspetti. Avvi il Disagio,
La Povertà, la Morte, e della Morte
Parente il Sonno. Avvi de’ cuor non sani
Le non sincere gioie. Avvi la Guerra
De le genti omicida, e de le Furie
I ferrati covili: il Furor folle.
L’empia Discordia, che di serpi ha il crine
E di sangue mai sempre il volto intriso.»

Così tradusse il Caro (libro 6 verso 402 e segg.); E nel duodecimo libro le fa assistere al soglio di Giove.

Siccome il rimorso segue nel momento la colpa i poeti le figuravano alate, e questa idea dei poeti ha guidata la mano degli artisti antichi. Infatti sopra un basso rilievo pubblicato da Zoega, rappresentante Oreste in Delfo, sono fornite di grandi ali alle spalle, che gli Etruschi, e senza dubbio ancora i primi Greci, dar loro usavano in luogo delle alette, che nell’opere del solito stile sovente portano alle tempie. Altre sono senz’ali, contro quel che più comunemente veder fanno le opere etrusche nelle quali sempre alate comparir le Furie afferma Winkelmann con troppa franchezza. Di più, ad un’altra osservazione del medesimo fa guerra, come riflette Zoega, la presente scultura, cioè che quel cinto incrociato sul petto, ovvio nelle figure Etrusche, serva per sostener le ali legate alle spalle, mentre qui una delle figure alate n’è priva, e l’altra senz’ali lo porta.

Sarà piuttosto una specie di legami destinati a reggere l’abito succinto a foggia di grembiule, che generalmente vestono le figure che tal cintura hanno, usata ancora dalle figure egizie di solo grembiule vestite. Gli stivaletti che in questo basso rilievo portavano tutte e cinque le Furie, conforme generalmente usa nei monumenti etruschi, forse accennano la velocità, con cui, a guisa di cacciatori inseguono i rei, quantunque sembrerebbero come fatti piuttosto ad ingombrare che a facilitar la corsa: e se non fosse che ancora in qualche greco monumento si veggono con endromidi, cioè vesti pesanti da inverno, si crederebbero dagli Etruschi per solo capriccio di tal foggia calzate, usitata da loro in molte altre figure, e con qualche predilezione dai Romani in varie immagini allegoriche.

Succinte sono le Furie avendo intorno i fianchi un largo cinto, che in alcune è fregiato di perle. Una di essa tiene nella destra un pugnale, nella sinistra un serpente del quale è perduta la testa: un’altra porta una torcia ardente, e sembra che le tre restanti, che molto hanno sofferto dal tempo, parimente di torcie fossero armate. Le teste conservate sono tutte nude; d’ una manca la testa, e quella della prossima è moderna.

Nel basso rilievo le Furie sono cinque, ed il nu mero di tre, che vien loro assegnato, non altro denota che pluralità, onde sul più antico teatro greco comparivano cori di Furie fino al numero di cinquanta.

1 nomi delle tre Furie così sono espressi da Orfeo: Udite queste cose, Dee tremende e venerande, Tisifone, Aletto e divina Megera, notturne, arcane, che abitate nell’antro ombroso, all’onde sacre del nero fiume Stige, sempre ministre della giustizia e del retto. — Quindi è che essendo considerate come vendicatrici dei delitti, furono grandemente temute dalle Nazioni. Il terrore andava tanto innanzi che non osavano proferirne il nome. Quindi Elettra dice nell’Oreste di Euripide: Le Furie, che io non ardisco nominare, spaventano il mio fratello. —

Edipo, fuggito da Tebe nell’Attica, si rifugiò nel loro bosco, e solenne meraviglia prese quei popoli, come Sofocle attesta, che egli si fosse rifugiato in un luogo che eglino appena osavano guardare, e non senza terrore. Ed era fama che se alcuno macchiato di delitto fosse entrato nel tempio, che Oreste loro avea consacrato in Corina villaggio dell’Achea, fosse nell’istante da furori e paure agitato.

Gli antichi di nere vesti credevano che fossero ammantate, poiché gli uomini hanno dato sempre il colore della notte a tutte le cose temute.

In Tilfusa città dell’Arcadia erano con istraordinaria religione venerate, ed immolavan loro una agnella gravida e nera. Questi sacrifizi si facevano nel maggior silenzio, e in tempo di notte, ed era vietato ai nobili l’intervenirvi.

Esichidi, dalla quiete, si chiamavano i sacerdoti, che si astenevano dal libare a queste Dee il vino. Infatti Edipo giunto nella loro selva fu ammaestrato dao^li Ateniesi di portar acqua di fonte perenne, e di versarla in vasi preparati a quest’uso, dei quali dovea cingere di pelle d’agnello nero gli orli ed i manichi. Quindi volgendosi all’Oriente, spargere del miele, e dopo questa libazione piegare a terra con ambe le mani nove rami di ulivo.

Le corone che si ponevano quelli che si sacrificavano alle Furie erano di narciso e di croco.

Furnuto ed Eustazio allegano una ragione ridicola relativamente al primo fiore. Questi autori pretendono che la derivazione di questo nome provenga da (grec) sbalordimento, ed era sacro alle Furie, perchè sileno ispirano terrore ai rei.

Relativamente alle Furie dice Pausania, che andando da Megalopoli in Messenia non si è fatto sette stadi che si trova a sinistra della via maestra un tempio dedicato a Dee, che le genti di quel luogo chiamano Manie, e tutto il cantone d’ intorno ne porta il nome. Qui dicono che Oreste, avendo ucciso sua madre, divenne furioso. Molto d’appresso al tempio si vede un piccolo terreno coperto di una specie di tomba, sulla quale è incisa la figura di un dito. Eglino chiamano questo luogo sepoltura del dito, e dicono che Oreste, divenuto furioso, ivi tadìò coi denti uno dei diti della sua mano. In vicinanza vi è un luogo chiamato Acè, cioè medicina, perchè Oreste fu guarito dai suoi furori, ed eglino vi hanno edificato un tempio all’ Eumenidi.

Raccontano che alla prima apparizione di queste Dee, quando elleno levaron di cervello Oreste, egli le vide tutte nere, che alla seconda apparizione, dopo che egli si fu tagliato il dito, le vide tutte bianche, ed allora ricuperò la ragione, e che perciò onde placarle, egli onorò le prime, come si usa coll’ombre de’ morti, ma che sacrificò alle seconde. Ed ancora ai tempi di Pausania in memoria del narrato avvenimento credono di poter sacrificare a queste Dee, ed alle Grazie ad un tempo. Dante cosi descrive le Furie.

«Ove in un punto vidi dritte ratto
Tre furie infernal di sangue tinte,
Che membra femminili aveano ed atto,
E con idre verdissime eran cinte:
Serpentelli e ceraste avean per crine,
Onde le fiere tempie eran avvinte.
E quei, che ben conobbe le meschine
Della regina dell’eterno pianto.
Guarda, mi disse, le feroci Erine.
Questa è Megera dal sinistro canto:
Quella, che piange dal destro, è Aletto:
Tesifone è nel mezzo: e tacque a tanto.
Coir unghie si fendea ciascuna il petto;
Batteansi a palme, e gridavan sì alto,
Ch’i mi strinsi al Poeta per sospetto.»
Inferno, canto IX, v. 37 e segg.

Le Parche furono tre sorelle così concordi che mai fra loro vi fu lite. Esiodo lasciò scritto nella Teogonia che Giove e Temide n’erano i genitori. Non ostante in un altro luogo dell’opera stessa dissente, facendole figlie della Notte, qualora per Parche in quel caso non abbia voluto accennar gli umani destini. Altri ascrivono la loro origine alla necessità, o all’informe materia che generò Pane con gli altri Dei. Licofrone finalmente ne fa genitore il mare.

I nomi delle Parche furono varii, come scrìve Pausania nel suo Viaggio nell’Attica. Venere Celeste, secondo esso, è la più antica, e la Fortuna è la più potente. Ma comunemente i loro nomi sono Atropo, Lachesi e Cleto. Questa divisione loro dà il tempo, secondo Aristotile, che si divide in passato, presente, avvenire. Atropo, che vuol dire immutabile, riguarda il passato; Lachesi, che significa sorte, riguarda l’avvenire; Cloto che vien da (grec), filare, pensa al presente. Quindi Cloto, ch’era la più giovane delle sorelle, avea cura di presedere al punto nel quale si nasce, e di tener la conocchia: Lachesi filava tutti gli avvenimenti della nostra vita; ed Atropo, la più matura di tutte, tagliava colle forbici il filo.

I Mitologi loro assegnano ancora dell’altre funzioni. Ministre del Fato, dettano una le nostre sorti, l’altra le scrive, l’ultima le eseguisce. Altri fanno scrivere le Parche sotto la dettatura di Plutone. L’opinione più comune è che il Fato, il quale comandava a Giove, ed agli altri Dei, sia pure di esse il padrone.

Platone fa vedere queste tre dee nel mezzo delle sfere celesti con abiti bianchi coperti di stelle, coronate il capo, ed assise sopra troni risplendenti di luce, dove accordano la loro voce col canto delle sirene. Ivi, die’ egli, Lachesi canta le cose passate, Cleto quelle che avvengono alla giornata, ed Atropo quelle che avverranno un giorno,

Pausania ci ragiona di alcuni templi, che avevano nella Grecia: i Lacedemoni ne avevano eretto uno in una loro città vicino al sepolcro di Oreste, ed i Sicionii gliene aveano dedicato un altro in un bosco sacro, dove onoravano le Parche collo stesso culto delle Furie, vale a dire che loro sacrificavano pecore nere.

Nella città di Olimpia vi era un altare consacrato a Giove conduttore delle Parche, vicino al quale ne avevano un altro queste dee.

In una statua di Teocosmo, nella quale lavorò ancora Fidia, le Parche, insieme coli’ Ore, erano nella testa del nominato Dio.

Vicino al ‘sepolcro di Eteocle e Polinice stava scolpita una delle tre Parche, cui Pausania assegna un’aria feroce, gran denti, mani adunche; insomma sembianze più terribili di una fiera, per additare il terribile destino di quei due fratelli nati al delitto.

Ma generalmente però, osserva Winkelmann, che le Parche, le quali da Catullo vengonci descritte quali vecchie e schifose, con membra tremanti, grinze nel volto e truci nello sguardo, sono tutto all’opposto negli antichi monumenti. Esse trovansi generalmente espresse nella morte di Meleagro, e son belle fanciulle, ora con l’ali al capo, or senza, distinguendosi fra loro pei singolari attributi. Una di esse viene costantemente effigiata in atto di scrivere su un rotolo. Talora non vi sono cbe due Parche, e in due sole statue appunto erano rappresentate neir atrio del tempio d’Apollo a Delfo. Anche le Furie, soggiunge il prelodato autore, vengono rappresentate quali avvenenti fanciulle, chiamate da Sofocle sempre vergini, e talora hanno dei serpenti intorno al capo. Si vedono le furie anguicrinite, e con faci accese nelle mani, e con braccia ignudo contro di Oreste armate, su un vaso di terra cotta della Collezione Porcinari, pubblicato nella seconda parte dei Vasi di Hamilton. Così giovani e belle vengono rappresentate queste vindici dee su varii bassi rilievi in Roma, ove la stessa vicenda di Oreste si figura.

Fra la gente tormentata nell’Inferno sono le Danaidi, che con eterna fatica versano nel Tartaro l’acqua in un’urna forata. Eccovene brevemente r istoria. Queste erano cinquanta figliuole di Danao re d’Argo, che negava di sposarle ad altrettanti figli di Egitto suo fratello, perchè l’oracolo gli aveva predetto che un suo genero lo avrebbe ucciso. Costretto dalla fortuna della guerra a sacrificare il proprio timore alla pubbUca salute, cercò di evitare la minaccia del fato, ordinando alle figlie il pili atroce delitto. Doveano, dopo aver giurata fedeltà innanzi all’ara ai loro sposi e cugini, ucciderli la prima notte, dopo averli con vino artefatto assopiti. Tutte eseguirono il comando paterno, fuori che Ipermestra, la quale salvò Linceo suo sposo. Udirete in Ovidio, tradotto da Remigio, la pittura di quella orribile notte, narrata al fuggito sposo dalla stessa Ipermestra, e la vostra fantasia potrà forse da questa descrizione ricavare il soggetto di una pittura.

Già spargeva la notte il fosco e l’ombra
Sopra la terra, e s’ascondeva il giorno,
Quando noi felle e scelerate spose
Entrammo dentro al funerale albergo
Del gran Pelasgo, e nostro padre iniquo.
Ove il socero nostro, e nostro zio,
Non men nel cor che nella fronte allegro,
Per man ne prese, e ne baciò le guance,
Non sapend’ ei che noi sue nuore acerbe
Avessi m sotto a nostre gonne ascoso
L’ignudo ferro; e già lucean d’intorno
Le dorate lucerne, e il tristo incenso
Già si spargea dentro a’ sacrati fuochi,
Che del nefando e sanguinoso effetto
Quasi presaghi, a gran fatica al Cielo
Mandavan gli empi ed odiosi fumi,
E la turba gentil con liete voci
Chiamavano Imeneo: ed ei fuggiva
L’oscena stanza, e la consorte stessa
Del Tonator del Ciel lasciò quel giorno
Argo sua bella, e se n’andò da lunge
Per non veder le scelerate nozze.
Quand’ ecco entrar nel doloroso albergo
I mal felici e mal graditi sposi
Ebri dal vin, che mal bevuto a mensa
Miseri aveano, e dall’ignaro vulgo
Compressi intorno, e di novelli fiori
Cinti i capei, che preziosi unguenti
Facevan molli, e di letizia pieni
Da lor fato crudel portati furo
Entro agli alberghi; ahi sfortunati amanti!
Anzi dentro ai sepolcri, e sopra i letti,
Anzi bare funebri, eran distesi
I lor miseri corpi. E già dal sonno
E dal cibo e dal vin ciascun oppresso
Sicur giaceva alla sua donna in braccio;
E profonda quiete intorno aveva
Argo occupata, e si dormiva ognuno
So’ombrato il cor delle diurne cure:
Quando mi parve udir le voci afflitte,
Ed i gemiti tristi, e i tristi omei
Di quei, che fuor de’ gl’impiagati petti
Versavan l’alme, e l’innocente sangue;
Anzi gli udiva: onde il vital calore
Tutto s’ascose, e impallidita e fredda
Mi giacqui sopra al genial mio letto.
Ma, come trema allo spirar dell’aure
Debile spiga, o come volve e scuote
II gelato Aquilon frondosa chioma
D’arbore antico, o di frondoso pioppo,
Tal io tremava, o se tremar più puossi,
E tu senza sospetto ebro dormivi,
Perchè quel vin che tu bevuto avevi
Era liquor d’addormentar altrui.
Ma mi sgombrar dal genitor mio crudo
1 precetti superbi empi e nefandi
Dell’alma ogni paura: onde io sul letto
Mi levo alquanto, e con tremante mano
Prendo il pugnale (e non t’ascondo il vero)
E ben tre volte io lo ripresi, ed egli
Dalla man feminil tre volte cadde.
Ma spinta pur dalle minaccie altere
Del padre mio, lo scelerato ferro
Di novo prendo, ed arditetta il feci
Molto vicino all’innocente gola:
Ma la pietà, ma la paura femmi
Tenere il colpo, e ritardar l’impresa.
Nè potette seguir mia casta mano
Opra sì brutta: onde io coli’ unghie il volto
E il seno offesi, e mi squarciai le chiome,
E con sospiri, e con sommessa voce
Dissi queste parole: Ahi trista amante,
Ahi dolente Ipermestra, a che ti spinge
L’empio tuo padre? a che ti sforza il crudo
Precetto e fero? ahimè: debb’ io giammai
Toglier la vita a chi mi brama vita?
A chi mi giace addormentato in grembo?
Ma segui ardita il desiderio ardente
E la voglia paterna, onde egli sia
Compagno agli altri suoi malnati amanti.
Io son pur, lassa me: vergine e donna
Per gli anni umile, per natura pia,
Nè son conformi al dispietato ferro
Le mani inferme e il feminil valore:
Anzi mentre ch’ei giace ardisci, e segui
L’animose tue suore audaci e forti,
Ch’ornai creder si può che d’esse ognuna
Abbia già tolto al suo cugin la vita.
Ma se questa mia destra ardito avesse
Di trar di vita alcun, non sarebb’ella
Prima del sangue mio bagnata e lorda?
Perchè debbon morir questi infelici
Giovini, ohimè, sol per avere in dote
I regni del lor zio? Or non si deve
Dargli ad altrui? or non gli avranno un giorno
Generi strani e peregrini amanti?
Ma presuppongo, e lo confermo vero.
Che fosser degni di morir: che abbiamo
Misere noi commesso? or per qual colpa.
Per qual cagion non mi lice esser pia?
Che deggio io far del ferro? in che conviensì
Coll’arme una donzella? io piiì conformi
Ho le braccia e le man, la forza e il core
A l’ago, a l’aspo, alla conocchia e al fuso
Che all’armi crude e bellicosi ferri. —
Questo io diceva; e mentre in voce umile
Mi lamentava, alle parole meste
Seguiva il pianto, e de’ miei lumi l’onde
Cadeano sopra le tue belle membra;
E tu d’ogni pensier leggiero e scarco
Mi cercavi abbracciar, e quinci e quindi
Le tue movendo addormentate braccia
Più volte fosti per ferirle al ferro.
Che tra pietà e timor dubbiosa ancora
Aveva in mano. E già temea del giorno
Ch’era vicino, e paventava il crudo
Mio genitor. Già le parole e il pianto
Dalle luci t’avean cacciato il sonno.
Quand’io ti dissi: Misero Linceo,
Che sol tra tanti sei restato in vita,
Levati e fuggi, ed al tuo scampo attendi:
E se a fuggir tu non t’affretti, questa
Agli occhi tuoi sarà l’ultima notte.
Onde d’orrore e di spavento pieno
Sorgesti presto, o ti fuggìa dagli occhi
La gravezza del sonno, e rimirando
Quel ferro eh’ io nella tremante destra
Teneva ancor, m’addomandavi quale
Fosse cagion ch’io ti esortassi tanto
Alla veloce inaspettata fuga.
Ed io ti dissi: Eh mentre ancor l’oscura
Notte noi vieta, oh Linceo troppo amato,
Fuggi veloce. Tu fra pietà e tema,
Tra spavento ed amor, tra dubbio e speme
D’indi partisti, ed io rimasi sola
Mesta nel mesto e doloroso albergo.
Già fuor dell’ Oceàn levato aveva
La fronte Apollo, e n’ arrecava il giorno,
Quando mio padre in minacciosa e fera
Vista s’entrò nei funerali alberghi
Per numerar gli esanimati corpi
Dei miseri fratei generi suoi.
Che si giacean nei mal bramati letti,
Nel sangue loro orribilmente involti.
Tu sol mancavi alla gran strage, ed egli
Non potendo soffrir la vita in uno.
Si lamentava e si dolea che poco
Sangue s’era versato: ond’ei mi prese
Per le ancor sciolte chiome (e queste sono
Di mia pietà le meritate spoglie)
E mi trasse per forza a quest’oscura
Prigion, dov’ io d’ogni stagion rimiro
Spaventi e morti, ov’io dogliosa seggio
Cinta di ferro i pie, le braccia e il collo.»
Ovidio, Eroidi, Epist. 14.

Lezione quarantesimaottava.
Proserpina, Caronte, Minosse, Radamanto, Eaco. §

Proserpina, Caronte, Minosse, Eaco, Radamanto, sono nomi che rammentano a chiunqne l’Inferno degli antichi. Di Proserpina vi ragionai in parte quando le mie ricerche ebbero per soggetto Cerere madre di lei: ma l’ampiezza dell’istoria e degli attributi di questa dea non mi permise d’ inserirvi le altre notizie più adattate all’opportunità del presente argomento.

Non tutti opinarono che Proserpina fosse figliuola di Cerere, e quelli che con Ecate la confusero le diedero la stessa madre, cioè la Notte. Con tutto ciò Esiodo, che non violò l’antica semplicità delle Favole, le dà Cerere per genitrice, contro l’opinione di Apollodoro, che figliuola la dice di Stige e di Giove. È inutile il ridirvi come fu rapita in Sicilia; solamente aggiungerò che di questa credenza erano tanto persuasi gli abitanti di quell’Isola, che usavano di giurar sempre per |Proserpina. Ora cani, ora nere ed infeconde vittime immolavano a questa dea gli antichi, e Virgilio narra che Enea le sacrificò una sterile giovenca.

Ma passando a cognizioni per voi più importanti, vi ripeterò con Winkelmann che le città della Magna Grecia e della Sicilia sembrano essersi molto studiate di dare sulle loro monete, sia a Cerere che a Proserpina, la più sublime bellezza: e difficilmente si troveranno ancora pel conio, monete più belle di alcune siracusane, rappresentanti una testa di Proserpina, e nel rovescio un vincitore su di una quadriga.

Queste monete avrebbero dovuto esser meglio disegnate e incise nella Collezione del Museo di Pellerin. Si vede in esse Proserpina coronata di frondi lunghe e appuntate simili a quelle che ornano insieme alle spighe la testa di Cerere, e quindi Winkelmann le crede foglie dello stelo del grano, anziché di canna palustre, quali furono giudicate da alcuni scrittori, che perciò si avvisarono di vedere in quelle monete l’effigie della Ninfa Aretusa.

I più grandi artisti, sopra tutto il celebre Prassitele, rappresentarono il ratto di Proserpina, inciso ancora su molte medaglie della Sicilia e dell’Asia Minore.

In un basso rilievo antico si vede Plutone, che rapisce Proserpina non ostante le ragioni della severa Minerva. Mercurio, di cui l’intervento non è inutile in questo genere di avvenimenti, precede il carro del rapitore, e sembra di Cerere voler consolare la figlia.

Questa composizione allegorica, che potrete riscontrar nel primo tomo dell’Antichità spiegata di Montfaucon, può essere dei bei tempi della Grecia, perchè è semplice, e per intenderla non vi ha bisogno d’iscrizioni, come in un monumento da Winkelmann pubblicato. Non credo però molto antica l’idea di attaccare al carro del suo rapitore due cigni, due cavalli condotti dall’Amore, come si vede in due gemme incise del Museo Stosciano.

Che mi si permetta di portare simil giudizio sulla rappresentazione dello stesso soggetto, che si trova pure nel primo tomo dell’opera mentovata di Montfaucon, ove in fondo del basso rilievo sono espressi i dodici segni dello Zodiaco, lo che fa allusione alle relazioni, immaginate più tardi, tra la favola di Proserpina e il sistema astronomico.

Sopra un basso rilievo del Palazzo Albani, pubblicato recentemente dal celebre Zoega, è accanto a Plutone effigiata una figura, che colla destra raccoglie il peplo, e che la sinistra forse appoggiava ad un’asce insieme colla mano perita. Il prelodato scrittore pensa che sia Proserpinà senza la quale non si vede Plutone in alcun monumento rappresentato, e dà peso alla sua congettura un certo che di mesto e di riserbato che si vede nella figura di lei, come se ancora si ricordasse della madre, e della mal gustata melagrana.

Caronte fu figliuolo dell’Èrebo e della Notte, secondo Esiodo, il quale nella sua Teogonia afferma che da questi due nacquero la maggior parte dei mostri dell’inferno.

Virgilio così n’esprime le sembianze e l’ufficio

«…………………… E guardiano
E passeggiero a questa riva imposto
Caron, demonio spaventoso e sozzo,
A cui lunga dal mento, inculta ed irta
Pende canuta barba. Ha gli occhi accesi
Come di bragia. Ha con un groppo al collo
Appeso un lordo ammanto, e con un palo
Che gli fa remo, e con la vela, regge
L’affumicato legno, onde tragitta
Sull’altra riva ogrior la gente morta:
Vecchio è d’aspetto e d’anni, ma di forze
Come dio vigoroso e verde è sempre.»
Eneide, lib. IV, v. 441 e segg.

Annibal Caro, che così tradusse Virgilio, ebbe per certo in mente questi versi di Dante, che così introduce Caronte nel suo Inferno:

« Ed ecco verso noi venir per nave
Un vecchio bianco per antico pelo.
Gridando: Guai a voi, anime prave:
Non isperate mai veder lo cielo:
l’ vegno per menarvi all’altra riva,
Nelle tenebre eterne, in caldo e in gelo:
E tu che se’ costì, anima viva,
Partiti da cotesti che son morti.
Ma poi ch’ei vide ch’io non mi partiva,
Disse: Per altre vie, per altri porti
Verrai a piaggia, non qui: per passare,
Più lieve legno convien che ti porti.
E il Duca a lui: Caron, non ti crucciare;
Vuoisi cosi colà, dove si puote
Ciò che si vuole, e più non dimandare.
Quinci fur quete le lanose gote
Al nocchier della livida palude,
Che’ntorno agli occhi avea di fiamme rote.
Ma quell’anime ch’eran lasse e nude,
Cangiar colore e dibatterò i denti.
Ratto che inteser le parole crude.
Bestemmiavano Iddio e i lor parenti,
L’umana specie, il luogo, il tempo, e il seme
Di lor semenza e di lor nascimenti.
Poi sì ritrasser tutte quante insieme.
Forte piangendo, alla riva malvagia,
Ch’attende ciascun uom che Dio non teme.
Caron dimenio, con occhi di bragia.
Loro accennando, tutte le raccoglie;
Batte col remo qualunque s’ adagia.»
Inferno, Canto III, v. 82 e segg.

Polignoto pure fra i pittori antichi, come udiste da Pausania nella descrizione del quadro di lui, vecchio lo ritrasse. Questo dio stimavasi crudele; e davanti a lui, come dice un antico poeta, tanto era Achille che Tersite. E con ragione ai Numi infernali questa idea d’eguaglianza diedero gli antichi, perchè tutti noi nudi scendiamo nel sepolcro. Plutone per sollevare il dolore di Proserpina l’idea della sua nuova grandezza, così le dice in Claudiano, il dì cui Poemetto vi tradussi:

La porpora deposta, ai piedi tuoi,
Fra la plebe confusi, i re verranno:
Tutto eguaglia la morte.

Ella solo infatti confessa quanto piccola cosa sia l’uomo di cui ristabilisce i diritti e fa sicure vendette battendo, come dice Orazio, con egual piede la capanna del povero e la reggia dei tiranni.

Ma ritornando a Caronte, attesta Luciano essere stata costumanza degli antichi il porre nella bocca dei morti un obolo, ch’era una piccola moneta, per pagare il nolo della barca al traghettatore dei morti. Questo prezzo fu accresciuto fino a tre dai potenti^ che si sono sempre voluti distinguere dal povero ancora nell’ultima superbia dei funerali. Tanta opinione ha avuto sempre il genere umano del danaro da crederlo necessario fino nell’Inferno. Gli Ermioniensi solo fra tutti gli uomini si credevano esenti dal tributo per esser vicini più d’ogni altro popolo al regno dell’ombre.

Tre, come vi ho accennato di sopra, sono i giudici dell’Inferno secondo i Mitologi: Minosse, Radamanto ed Eaco.

Minosse nacque da Giove e da Europa, figliuola, secondo alcuni, di Fenice, secondo altri, di Agenore^ e che dal furto di Giove partorì pure Sarpedonte e Radamanto. Nato da padre furtivo, dopo la morte di Giove Asterie, i Cretesi non volevano ch’egli salisse sul trono paterno. Egli volendo loro persuadere la sua origine divina, disse che avrebbe a Nettuno sacrificato un toro qualora un propizio augurio gli fosse comparso. Nell’ istante comparve un toro dal mare, ed i Cretesi maravigliati gli permisero di regnare. Non sono d’accordo sulla sua patria gli antichi. Chi lo vuole forestiero, chi nativo di Creta, e non figlio di Giove.

Omero, fra gli altri, nell’Odissea, lo vuole discepolo di Giove, e dice che in quest’isola regnò per nove anni, quantunque Eusebio ed altri scrittori molto da lui dissentano su questo particolare.

E fama che fosse tanto potente per mare da imporre tributo agli Ateniesi per la morte di Andro geo, come dichiarerò a suo luogo parlandovi di Teseo. Nacquero da lui (non contando Androgeo) Glauco, Deucalione, Fedra ed Arianna. Vogliono che inseguendo Dedalo autore del laberinto venisse in Sicilia da Cocalo, che gli fu ospite liberale. Ma le di lui figlie ingannate da Dedalo, lo uccisero gettando all’improvviso acqua bollente nel bagno.

Ma quello che è fuori di dubbio si è che per la fama della sua giustizia meritò di esser creduto figliuolo di Giove e giudice all’Inferno. L’avventura di Niso giustissimo lo dimostra.

Regnava questi in Nisa città vicina ad Atene, allorché Minosse pertossi a devastare l’Attica, e ad assediare quella città. Scilla figliuola del re vedendo Minosse dalle mura della città assediata se ne innamorò, e recise al padre il capello fatale, da cui dipendeva la sorte della patria. Minosse inorridì al tradimento, e respinse dal suo cospetto l’infame principessa, e lasciò Nisa. Scilla volendolo pur seguire si gettò nel mare, e fu cangiata dagli Dei in allodola, e suo padre in isparviere, che piombò subito sopra la figlia per lacerarla. Coloro che vogliono spiegar coli’ istoria la favola, dicono che nel purpureo capello di Niso sono significate le chiavi della città consegnate da Scilla a Minosse.

Nell’Inferno egli era, secondo gli antichi, il presidente della Corte infernale, e a lui spettava di giudicare delle cose che erano dubbie.

Omero ce lo presenta con uno scettro alla mano, sedente in mezzo all’ ombre, dalle quali si trattan le cause alla sua presenza.

Virgilio dice che agita l’urna fatale, nella quale stanno chiuse le sorti umane; cita l’Ombre al suo tribunale; esamina la loro vita; indaga tutti i loro delitti.

Radamanto, cui la Mitologia assegna gli stessi genitori, fu anch’esso per la sua prudenza ed amore del giusto stimato degno di tanto uffizio.

Focilide lo celebra come l’uomo il più temperante: certamente giustissimi furono sempre riputati gli antichi reggitori di Creta, e le leggi di quelr isola famosa servirono di norma al divino Licurgo.

Nell’Inferno gli attributi del fratello di Minos così da Virgilio sono esposti:

« Questo è di Radamanto il tristo regno,
Là dove egli ode, esamina, condanna,
E discuopre i peccati, che di sopra
Son dalle genti o vanamente ascosi
In vita, o non purgati anzi la morte.
Nè pria di Radamanto esce il precetto
Che Tesifone è presta ad eseguirlo.
Ella con l’una man la sferza impugna,
Nell’altra ha i serpi, ed ambe intorno arrosta
E grida e fere, e de le sue sorelle
Le mostruose ed empie schiere tutte
Al ministerio dei tormenti invita. »
Eneide, lib. VI, v. 844 e segg.

L’istoria però ci fa molto dubitare della giustizia di Radamanto, narrandoci che fuggì da Creta per aver ucciso il fratello, e rifugiatosi in Ocalea città della Beozia prese Alcmena per moglie.

Eaco la favola aggiunge agli altri due giudici dell’inferno, e fu anch’esso figliuolo di Giove. Al Tonante lo partorì Egina figlia di Asopo, dopo essere stata ingannata dal dio nelle sembianze di fuoco. Ella diede il suo nome a un’Isola dove, suo figlio regnando, accade che dalla peste consunti perirono tutti gli abitanti. Eaco solo avanzò a tanta strage, ed odiando la solitudine della sua patria fé prego agli Dei perchè riparassero questo danno. Mosso Giove dalle preghiere del suo figlio convertì in uomini delle formiche che erravano in una querce vuota ed antica. Questi nuovi mortali furono chiamati Mirmidoni, e ninno di voi ignorerà che di essi fu condottiero Achille, che ad Eaco fu nipote.

Egli ebbe tre figli da due donne. Foco da Sam mete figlia di Nereo, Telamone e Peleo padre dell’eroe d’ Omero da Endaide figlia di Chirone.

Del resto Eaco fu in tanta riputazione, che essendo tutta la Grecia travagliata dalla siccità, l’oracolo di Delfo rispose, che se volevano placare Giove si servissero di Eaco per intercessore.

Egli giudicava i morti europei come Radamanto quelli dell’Asia.

Lezione quarantesimanona.
Fiumi infernali, e Nemesi. §

I fiumi dell’Inferno sono Acheronte, Stige, Cocito e Flegetonte. Tutte l’anime per passar nell’Inferno varcano sulla barca di Caronte questo fiume torbo e fangoso, pieno di voragini, che bolle e si frange, e che col suo nero loto si perde in Cocito.

Alcuni fanno figliuolo questo fiume di Titano e della Terra, e dicono che discese fino nell’Inferno per sottrarsi al furore dei fratelli. Favoleggiano altri che fu da Giove precipitato nell’Inferno, perchè le sue acque servirono ad estinguere la sete dei Titani. Secondo l’opinione riportata dal Boccaccio, nacque da Oerere nell’Isola di Oreta, e non potendo sostenere la luce, si ritirò nell’Inferno, e fiume ne divenne.

L’Acheronte era un fiume della Tesprozia, che avea le sue sorgenti dalle paludi di Acherusa, e scaricavasi accanto Ambracia nel golfo Adriatico: le sue acque erano amare e nocevoli: ciò unito alla sua lunga dimora sotto la terra servì per far credere che fosse un fiume infernale, nè poco vi contribuì lo stesso nome, che significa soffocazione, urlamento.

È parere d’altri che abbia dato origine alla favola, Acherusa, lago dell’Egitto presso Menfi, circondato da campagne ripiene di tombe. E il giudizio che si esercitava in questo luogo sui morti può avere sull’altre finzioni degli antichi contribuito.

Stige nell’inferno dei Pagani si offre dopo Acheronte. Esiodo vuole che questa fiumana sia nata dall’Oceano: altri figlia la dicono della Terra. Vogliono che si sposasse a Fallante, a cui generò l’Idra: ebbe da Acheronte la Vittoria, la Forza, lo Zelo, che militarono con Giove contro i Titani, onde egli in premio le concesse che il giuramento pel nume e l’acque di lei sarebbe stato formidabile e tremendo agli stessi numi.

Quelli che fra loro nel di lei nome spergiuravano erano per del tempo allontanati dalla mensa celeste, e da ogni conversazione cogli Dei.

Iride messaggiera del Cielo portava ai numi mentitori un vaso pieno dell’acqua stigia, che sospendeva per nove anni la loro divinità.

Gli Dei che giuravano per Stige dovevano tenere una mano sulla terra e l’altra sul mare.

E dubbio dove fosse il fiume divenuto favoloso. Opinano alcuni che fosse nel seno di Baia vicino al lago Averno, e che i Sacerdoti avari avvalorassero quest’opinione, per godere dell’amenità e dei frutti di quel clima beato; secondo altri è un fonie dell’Arcadia vicino al monte Cilleno, che cadendo da una rupe altissima dopo poco cammino fra i macigni, cadeva nel fiume Crati.

L’acqua ne era mortale, secondo Pausania, agli animali ed all’uomo, ed aveva la proprietà di spezzare i vasi di ogni terra e di qualunque metallo. L’unghie sole del cavallo resistevano alla sua forza. Credono che Alessandro fosse con quest’acqua avvelenato. Questa proprietà può senza dubbio aver dato causa alle menzogne dei poeti; come all’uso che ne facevano per provar la reità, o l’innocenza degli accusati, ascriver conviene tutto ciò che fu immaginato intorno al giuramento degl’Immortali.

Cocito ancora varcar si dovea dal popolo dell’ombre. Questo fiume riscontra, secondo Platone, Flegetonte nella palude Acherusia, ma non mescola con esso le sue onde. Favoleggiarono che Plutone ruppe la fedeltà giurata a Proserpina con una figlia di questo fiume, chiamata Minta, che fu dalla regina dell’ombre convertita in un’ erba cui diede il nome. Omero lasciò scrìtto nell’Odissea che questo fiume si perde con Flegetonte nell’Acheronte, e che non è che un rivo di Stige. Il nome di esso deriva dalle querele e dai pianti onde riempiono le sue rive 1’ ombre dei malvagi. Di Flegetonte sappiamo solo che vi sgorgavano torrenti di fiamme, e che gli erano corona le carceri dei condannati da Radamanto.

Dirò adesso di Nemesi, che vendicava gli oppressi in vita, dai superbi. Così se ne parla in un inno antico. — Nemesi alata, motrice della vita, dea dagli occhi neri, figlia della Giustizia, che i lievi fremiti dei mortali contieni con freno di adamante, odiando la perniciosa superbia degli uomini, discacci la nera invidia. Sopra la tua ruota instabile, non calcata, serena si volge la fortuna umana: celata, con tacito piede cammini, e degl’insuperbiti inchini la cervice. Sotto il cubito misuri sempre la vita, dirigi nel seno sempre agi’ iniqui il ciglio con nn giogo nella mano imperando. Placati, beata legislatrice, Nemesi alata, motrice della vita. Veneriamo Nemesi dea immortale, verace, e la Giustizia che presso le siede, la Giustizia che stende le sue ali immense, che la superbia dei mortali toglie da Nemesi e dal Tartaro. —

Da questi versi non dissentono gli artisti che Nemesi hanno rappresentata. Infatti questa dea della retribuzione delle opere buone e cattive è comunemente rappresentata con una ruota ai suoi piedi, e tenente un freno nella mano, che da Buonarroti e da Winkelmann è stato preso per una fionda, quantunque del freno, e non della fionda, parlino gli antichi.

Ella ha la ruota come dea della fortuna sotto un altro nome, e il freno per indicare la moderazione nelle parole e in questa guisa si scorge sulle medaglie. Sopra delle pietre incise si vede colla testa pendente in avanti, ed un ramo nella mano dritta: colla sinistra ella solleva la sua veste, che ella tiene un poco allontanata dal suo seno. Questo braccio, piegato dal gomito sino alla prima falange dei diti, significa la misura che i Greci chiamavano (grec), simbolo di una retribuzione giusta ed equa di tutte le azioni.

Lo sguardo che ella volge nel suo seno per la parte del suo vestiario, ch’ella ne tiene lontano e tirato verso il viso, dà un’idea delle ricerche scrupolose, delle quali questa dea si occupa per discoprire i segreti più nascosi; ed è sotto questo punto di vista eh’ Esiodo la chiama figlia della Notte. Però una medaglia dell’imperatore Adriano la rappresenta con un dito sulla bocca. Il ramo eh’ ella tiene è di melo selvaggio per mostrare la durezza e l’inflessibilità de’ suoi decreti. Una figura di marmo alla Villa Albani è stata creduta da Winkelmann Nemesi, ma da lui con ragione dissente, come udirete, Visconti.

La figura di una donna alata, che in un quadro dell’ Ercolano sembra consolare Arianna da Teseo abbandonata, mostrandole col braccio teso la nave che si allontana, e che non è stata determinata nella spiegazione di quella pittura, è Nemesi probabilmente, ed hanno creduto per isbaglio un elmo i suoi capelli annodati sulla cima della testa.

L’allegoria degli Etiopi rappresentati sulla coppa che teneva nella mano la Nemesi di Fidia, della quale Pausania non ha spiegato il significato, si riferisce forse all’epiteto d’ irreprensibile dato da Omero a questa nazione. Quindi Fidia può avere avuto intenzione di rappresentare i favoriti di Nemesi, i quali per una condotta virtuosa dei beneficii di lei si rendono degni.

Visconti così illustra una statua di Nemesi del Museo Pio dementino.

« Quando la penna di un antiquario ha da versare sull’esposizione di un argomento interessante e sicuro, acquista egli allora una più viva confidenza nella sua facoltà, e si dimentica delle taccie di frivolo, immaginario, che sogliono darsi da’ belli spiriti a questo genere di letteratura.

« La bella statuetta della dea Nemesi, che presentiamo in questo rame, ha certamente i surriferiti caratteri per incoraggirne l’espositore. Le figure di Nemesi sono assai note nelle greche medaglie, specialmente di Smirne, ove erano venerate due Nemesi in un tempio, che gareggiava in magnificenza ed in ricchezza coli’ Efesino.

« Queste immagini ne’medaglioni così ben si distinguono, che vi si ravvisano tutti quei simboli che gli antichi attribuiscono a questa nemica dei superbi, avuta per la persona allegorica della divina indignazione, e della giustizia distributiva dei Numi, che perseguitava i delinquenti sin anche nella quiete del sepolcro.

« La misura del cubito era il primo e il più caratteristico dei suoi simboli, col quale non solamente la giustezza indicava della restituzione, ma accennava a’ felici la giusta misura, onde non abusare de’lor beni e del loro potere. Il freno le pendeva dalla manca, simbolo di moderazione, specialmente nelle parole: alle volte stringeva un ramo di frassino, inteso pel flagello onde percuotere i delinquenti. Tutti questi distintivi s’ incontrano in va rie medaglie; ma la situazione del braccio destro, col quale espone appunto la lunghezza del cubito, è il simbolo più costante, onde argomentò Spanhemio, che a questo gesto si riferisse ciò che dissero gli antichi del cubito di Nemesi, dalla maggior parte spiegato per una verga, che il simulacro della dea stringesse in mano. Il dubbio di Spanhemio parve a ragione a Winkelmann una certezza, o egli stesso senza riflettere alla congettura di Spanhemio così pensò e scrisse: lodevole in questo, ma non egualmente nell’applicare la sua osservazione ad una statuetta di Villa Albani, la quale solleva, è vero, il manto colla sinistra, ma forse per accogliervi nel grembo alcuna cosa, ma non già per presentare la consueta attitudine di Nemesi cognita dalle medaglie, dalle gemme e dai bassi rilievi. Quest’attitudine caratteristica è quella appunto che nella statua osserviamo, la quale combina coir indubitate figure di Nemesi, e fra le altre colle più certe che sono in un medaglione del re di Francia, ove si rappresenta Y apparizione delle Nemesi Smirne ad Alessandro, mentre il conquistatore sotto di un platano prendea riposo: apparizione, a meglio dire, sogno, a cui dovette Smirne la sua nuova edificazione e la sua grandezza. Lo scultore, qualunque fosse, di quei vetusti simulacri, inventò quel gesto, onde il destro braccio rimane -sporto in maniera ad ofi’rire allo sguardo l’intera misura del cubito. Sembra però che il braccio delle Nemesi di Smirnee restasse afi’atto isolato, nè reggesse alcun poco il peplo o l’orlo della soprave sta, come nelle immagini di Nemesi ne’ bassi rilievi e nelle gemme osserviamo.

« Gran cose hanno detto i filologi su questo sollevar del manto che fa Nemesi, tutte ingegnose, ma che non hanno nell’antica tradizione verun appoggio.

« Se ardissi avanzar su di ciò la mia opinione direi che invano si cerca il mistero in un ripiego dello scultore, che non contento di questo braccio isolato delle Nemesi di Smirne, come di un’attitudine secca e forzata, ha pensato ingegnosamente di dare al braccio stesso un’ azione che lo fissasse nella positura caratteristica, nel tempo stesso che lo facesse apparir verisimile. Più naturale azione e più adattata per quella necessaria mossa del braccio non poteva pensarsi della presente, nella quale sembra che la dea si racconci il peplo sul petto.

« Quindi, appena ideata, ebbe una folla d’imitatori, che la replicarono in varii generi di lavoro, ed in varii tempi. Così è rappresentata Nemesi nel bel vaso del Palazzo Chigi, così in un raro cippo riportato dal Begero, ove assai stranamente viene scambiata coli’ Aurora. Così in moltissime gemme antiche. Questo bel simulacro fu trovato nella Villa Adriana, mancante però di un braccio, il quale è stato ristaurato con in mano un ramo di frassino, simbolo di cui danno esempio i monumenti, e che ci accennano gli scrittori. Un’altra simile fu parimente trovata nello scavo medesimo, dai tempo men rispettata, che combinava nell’attitudine essenziale d’un braccio, ma che parimente era mancante dell’altro. A quest’altro sarebbesi dovuto porre in mano il freno per imitare le due Nemesi di Smirne, una delle quali nella mano sinistra ha il freno, l’altra il ramo di frassino. La perdita però dei simboli secondari non ci si rende molto sensibile, attesa la conservazione di quel gesto che esprime il cubito e la misura. Questo è l’indubitato distintivo di Nemesi, che ce la fa riconoscere in questo unico simulacro certificato a tal denominazione dagli autori, dalle medaglie, dalla combinazione di tutti i monumenti che ci rimangono. Più non chiederebbesi ad una tal quale esposizione di questo nobilissimo marmo, se non domandasse qualche periodo la descrizione lasciataci da Pausania della famosa Nemesi di Ramnunte borgo dell’Attica, simulacro per la divozione e per l’arte memorando, che da Varrone venia preposto a quanto sino da’ suoi tempi aveva saputo effigiare la greca scultura, salita dal più bello della natura umana all’ideale della divina, tempi che aveva già preceduti il secol d’oro dell’arte. Agoracrito Parlo discepolo di Fidia n’era stato l’artefice, e tanta eccellenza rilucea nel lavoro, che spesso gli scrittori l’anno attribuito al maestro: o ebbe egli la disgrazia comune ad altri discepoli d’uomini insigni, che se qualche opera grande producono, l’invidia non vuole darne loro tutto il merito.

« Il marmo in cui fu scolpita la superba statua era stato destinato dal re Dario a lavorarvi un trofeo della vinta Grecia. Disfatti però i Persiani dal valore Ateniese a Maratona, venne quel marmo in mano dello scultore Agoracrito, che lo prescelse ad efiSgiare una Venere, soggetto che volea rappresentare in concorrenza di Alcamene suo condiscepolo.

« Il favore e la passione di Fidia per questo secondo gli procurarono il soccorso della mano maestra. Non avrebbe perciò soccombuto al paragone l’opera di Agoracrito, se il pubblico d’Atene parziale pel suo concittadino, per un male inteso patriottismo, non ne avesse preposto l’opera a quella del forestiero. Sdegnato l’artefice Parlo dell’ingiusta preferenza, cangiò il nome della dea del piacere in quello della dea dell’ indegnazione, che sperava ultrice dei suoi torti, e tale infatti la rese la perfezione, colla quale aveva condotto questo inimitabile lavoro. Non fu strano il cangiamento, nè assai difficile, non avendo ancora lo scalpello di Prassitele osato di rappresentar nuda la dea della beltà, e di mischiare la lascivia alla religione. Ebbeperò il simulacro di Nemesi Ramnusia simboli tali, che poco felicemente alla dea si appropriavano, e che a Pausania stesso, non informato della precedente narrazione, parvero inesplicabili. Il confronto degli antichi scrittori ci pone ora in istato di rischiarare i dubbi, che non seppero dileguare in Pausania i più colti Attici di quel borgo: tanto la servitù dei Romani aveva già degradata la Grecia!

« Il simulacro avea in mano un ramo di pomi,, che alludeva alla vittoria d’Ida, e che poi fu confuso col frassino di Nemesi. Dall’altra reggeva un’ampolla, sul cui corpo erano rappresentate le figure degli Etiopi. Qui è la maggior esitanza di Pausania: ma non è questa ampolla che una fiala di preziosi unguenti tutta propria di Venere, su cui sono scolpiti gli Etiopi, non per la loro giustizia, come vanno ideando i commentatori di quel classico, ma per indicare o la Libia, o l’Arabia, confusa spesso coU’Etiopia, patria dei più ricchi balsami, e dei più ambiti dall’antico lusso muliebre. La corona d’oro che cingeva il capo della dea si conveniva pure a Venere, che presso i poeti è talora denominata (grec), dalla bella corona. Le vittorie incise sono quelle riportate sulle dee rivali, e i cervi che le framezzano indicano abbastanza che non sono le vittorie dei forti. »

Questa illustrazione di Visconti non è esente da molti sbagli, come ha rilevato un mio dottissimo amico, l’ Abate Zannoni, in un bella dissertazione su questa dea, che non ha veduto ancora la pubblica luce. Egli osserva fra le altre cose, che la fiala non è un vaso per unguenti, come pretende il Visconti, ma che gli antichi se ne servivano per bere e per giuramenti.

Ma io non voglio con altre riflessioni, che la bontà dell’amico mi ha suggerite, stancar la vostra attenzione, onde udite da Ovidio, che ho tradotto, come Dedalo, il più antico degli Artisti, fuggisse con Icaro suo mal avventurato figlio a Minosse, di cui vi favellai nella passata Lezione.

Dedal, che Creta odiava, e il lungo esiglio.
Tocca la carità del suol natio.
Il mar si oppone. Ancor che il suolo 1’ onda
Sia chiuso, ei disse, aperto è il Cielo, andremo
Per esso: tutto posseder Minosse
Può, ma non l’aria. — Sì parlava, e piega
L’ingegno ad arti ignote, onde natura
Rinnovi, e vinca: in ordine dispone,
E adatta in prima le minori penne;
Segue alla lunga la più hreve, e credi
Che quasi colle cresca; in questa guisa
Sorge zampogna con dispari canne.
Quelle che in mezzo sono aggiunge all’ime
Con cera e lino, e le disposte piume
Con piccol giro piega, ond’è ch’imiti
Ali vivaci. Stava accanto al padre
Icaro, e tratta con ridente volto
I suoi perigli, ignaro, ed or le piume
Serra, che mosse son dall’aura errante
Ed ammollisce la docile cera
Con la destra scherzosa, onde ritarda
La meraviglia della man paterna.
Poiché l’ultima man fu posta all’opra,
Sulle ali doppie il facitor librava
II suo corpo, e nel mosso aer sospeso
Anche il figlio ammaestra. Ed io ten prego,
Icaro, ei disse, corri in mezzo al Cielo.
Se basso voli aggraverà le penne
L’onda, e in alto saranno arse dal foco:
Fra l’uno e l’altra vola: io tei comando.
Non mirar l’Orsa ed Orione armato;
Me nella nuova via segui. — Gli adatta
Fra i precetti del voi le penne ignote
Agli omeri: tremò nell’opra ardita
La patria man; fra i ripetuti avvisi
Bagnava il pianto la mutata guancia;
Sulla bocca del suo figlio trattiene
Baci che non ripeterà: s’inalza
Sulle penne, e precede il suo compagno.
Timido sol di lui: così dall’alto
Nido tenera prole al cielo avvezza
Augello; il nuovo volo esorta, e l’arti
Dannose insegna, e mentre l’ali ei move
Guata quelle del figlio. Ambi gli vide
Stupido il pescator ch’insidia l’onde;
Con la tremula canna alla sua stiva
11 bifolco s’appoggia; ambe le mani
Pone al bastone, e rimirando ammuta
11 pastorello, e soli ai Numi stima
La libertà del Ciel concessa. A manca
Già stava a Giuno la diletta Samo,
E Delo e Paro erano lunge a destra,
E Lebinto e Calimna in mei feconda,
Quando baldanza dell’audace volo
Il giovinetto invoglia, e l’ali inalza
Preso del Cielo dal desire: il Sole
Vicino scioglie all’odorata cera
I nodi, e già s’è liquefatta; i nudi
Bracci scote, nè piii l’aere aduna
Perchè gli manca il remeggiar dell’ale.
Già la bocca, che grida il patrio nome,
Occupa l’acqua che da lui si chiama.
Ma il padre, ahi non più padre I alto gridava:
Icaro, dove sei; Icaro, in quale
Terra ti cercherò? — Sempre diceva
Icaro, allor che rimirò nell’onde
Le penne, e maledì l’arti novelle
E sue: die tomba al corpo, e il nome ancora
La fida terra al peregrin rammenta.
Ovidio, Metamorf., lib. VIII, v. 183.

Lezione cinquantesima.
Fortuna, Vittoria. §

La Fortuna, quella dominatrice del genere umano così spesso invocata, o maledetta da tutti, sarà l’argomento della presente Lezione, nella quale favellerò pure della Vittoria all’ arbitrio di lei soggetta. L’autore di un inno su Cerere, attribuito ad Omero, figlia la chiama dell’Oceano, e questa origine vien pure da Pausania attestata, che 1’ annovera fra l’altre ninfe oceanine, compagne dei malaugurati studii di Proserpina sui prati siciliani. Dal sangue nata la vuole il preteso Orfeo: e certamente molti fortunati divennero spargendolo; ed il trono, la più splendida, ma la men vera fra le sorti umane, fu quasi sempre prezzo di sangue o cittadino o straniero. Prova infatti l’Istoria e l’esperienza dei secoli, che i primi re furono tutti soldati. Euripide fu tanto invaso dal potere della fortuna, da affermare che non Giove, ma essa tutte le cose mortali governava. Ed altro antico scrittore disse a ragione, non esser la nostra vita che un continuo scherzo della fortuna, una perpetua vicissitudine fra i beni e i mali, fra la povertà e le ricchezze.

Non è del mio istituto il decidere se la pigrizia e r imprudenza degli uomini abbiano collocato la Fortuna fra le Dee, come parve a Giovenale, e se molto ella possa negli avvenimenti di quaggiù, e se qualche volta, più che al coraggio ed al sapere, a lei debbano i potenti l’esito felice delle loro imprese.

Dante stimò che il potere di quest’ Essere morale combinarsi potesse coi principii della nostra religione, e fede ne fanno i seguenti versi:

«Colui, lo cui saver tutto trascende.
Fece li cieli, e die lor chi conduce.
Sì che ogni parte ad ogni parte splende,
Distribuendo ugualmente la luce:
Similemente agli splendor mondani
Ordinò general ministra e duce,
Che permutasse a tempo li ben vani
Di gente in gente e d’uno in altro sangue.
Oltre la difension de’ senni umani:
Perchè una gente impera, e l’altra langue.
Seguendo lo giudicio di costei,
Che è occulto come in erba l’angue.
Vostro saver non ha contrasto a lei:
Ella provvede, giudica, e persegue
Suo regno, come il loro gli altri Dei.
Le sue permutazion non hanno triegue:
Necessità la fa esser veloce;
Sì spesso vien chi vicenda consegue.
Questa è colei, ch’è tanto posta in croce
Pur da color che le dovrian dar lode,
Dandole biasmo a torto e mala voce.
Ma ella s’è beata, e ciò non ode:
Con l’altre prime creature lieta
Volve sua spera, e beata si gode.»
Inferno, Canto VII, v. 73 e segg.

Ma passando a ricerche relative alla Mitologia dirò che Omero non parla della Fortuna, non perchè, com’è pensiero di alcuni, commettesse il governo delle cose a Dio solo, ma perchè nell’antica Teologia le Parche ne adempivano gli ufficii. Quindi quell’inno sopra Cerere, in cui Pausania scrive avere Omero nominato (grec), o Fortuna, sarà stato come si crede di quegli altri che ci restano, a lui falsamente attribuito.

La Fortuna ebbe attributi in parte simili a Nemesi, e con lei fu sovente confusa. In fatti in un rovescio di una medaglia pubblicata dal senator Buonarroti, Nemesi ha il timone e la carnucopia della Fortuna, ed in altri monumenti ha le torri per la stessa ragione.

Dione così spiega i simboli della Fortuna: Il timone significa che governa la vita degli uomini, e il corno d’Amaltea indica il dono dei beni e della felicità.

Le ali d’oro sono date da Eschilo alla Fortuna, ed a proposito delle Nemesi con essa identificata, scrive Pausania che nè quella di Raamunte, nè altra, che antica fosse, ne aveva; ma che poi aveva osservato che la Nemesi, che noi nelle medaglie vediamo senz’ali, le aveva: perchè, secondo ch’egli crede, invocandosi questa dea dagli amanti le davano le ali di Cupido. Ma forse sarà stata un’invenzione degli artefici, dopo che il padre di Bupalo aggiunse il primo le ali a Cupido e alla Vittoria: nel che fu seguito dal figliuolo, che facendo la statua della Fortuna agli Smirnei le mise in capo il cielo, e in mano la cornucopia. Una Nemesi pur coir ali si vede in una iscrizione appresso il Grutero, che venne presa da alcuni per l’Aurora.

Nessuna cosa fu però più particolare alla Fortuna della ruota, essendo questa, come osserva il prelodato Buonarroti, un simbolo proprio a significare l’inalzarsi vicendevolmente alla prosperità degli uni, e il deprimersi alle miserie degli altri, ch’era creduto da questa Dea farsi con tanta velocità quanto si volge una ruota.

Costantino, dice lo stesso Buonarroti, compose di molti simboli la sua statua della Fortuna, ch’eresse della sua nuova città nella fondazione: le diede la corona murale, le ali, la cornucopia, la nave, il ramo di ulivo; bisogna più lodarne la buona intenzione ed i voti che concepiva per l’impero che il buon gusto. Per escludere ogni sospetto di gentilesimo le pose col tempo in testa una croce per mostrare la sua dipendenza da Dio. Ciò diede motivo a Giuliano Apostata di levare questa statua, e di nasconderla sotto terra.

Il simulacro però posto nel senato fu occasione di scandalo, posciachè lo stesso imperatore, dandogli il significato della Gentilità, gli fece sacrifizii. Da questo fatto di Costantino forse ne venne che molti imperatori cristiani in avvenire credendo la Vittoria un simbolo non più superstizioso, durarono un pezzo a effigiarla nelle medaglie, perchè, secondo credono gli eruditi, questa Fortuna si assomigliava principalmente a una Vittoria. L’unirono per lo più però con la Croce, o altri segni, per levarle ogni superstizione, e distinguerla dalla Vittoria, che i Gentili in Roma e con tanta cura conservavano nel Senato, avendola, dopo la morte di Costanzo, che l’avea fatta levare, rimessa, e ritenendola ancora sotto Valentiniano il Giovine, come si vede dalla relazione di Simmaco, e da Sant’Ambrogio, e da Prudenzio che ne scrissero contro.

La Fortuna felice in una medaglia di Giulia Pia è fatta con un putto avanti, con il cornucopio, con un timone e un globo.

Fortuna si chiamavano tutti i Genii delle città.

La Fortuna, dice Winkelmann tiene un timone in una mano, e nell’altra il corno dell’abbondanza. Il timone indica le ricchezze che dà il commercio marittimo. E noto che gli antichi staccavano il timone dai loro navigli, e lo sospendevano al fumo nell’avvicinarsi dell’autunno, quando il mare cominciava a minacciare burrasca: il rimettere il timone alla nave annunziava primavera. Però Esiodo dice: Se Pandora non fosse venuta, il timone sarebbe rimasto al fumo, la fatica dei bovi sarebbe perduta: — vale a dire non fiorirebbero nè il commercio, nè l’agricoltura, cho sono le due sorgenti della ricchezza.

Nel Museo dementino una statua della Fortuna così viene illustrata da Visconti:

« l simulacro inciso nella tavola che osserviamo ottiene dall’integrità quella considerazione che non può meritare per l’arte. Comunissimo sono l’immagini in bronzo di questa deità, com’anche in gemme e in medaglie: non così però in marmo, e col corredo conservato dei suoi attributi. La nostra, dissotterrata nello scavo aperto pochi anni sono sulla piazza di San Marco non lungi dall’ antico Foro Trajano, ci presenta tutti quei simboli, dei quali la vetusta superstizione caricò questo nume ignoto alla teologia di Omero e di Esiodo. Molti indagatori delle cose antiche hanno attribuito il silenzio di quei padri della Mitologia su tal proposito ad idee più giuste di quelle che si ebbero nell’età susseguenti, come altra Fortuna non avessero ravvisata che la volontà e il decreto di Giove. Io però sospetto che si voglia con tal divisamento far onore a quei due Poeti di una filosofia che non hanno mai immaginata. Esiodo dà alle Parche tutti quegli ufnzii, di che i posteriori mitologi hanno investita la Fortuna.

« E presso Omero quel Fato più forte della volontà di Giove non é molto consentaneo all’ esattezza delle nozioni che in questo particolare se gli vuole ascrivere. Sembra anzi che il suo fato abbia molta relazione a quella necessità, colla quale ì filosofi pagani circonscrivevano la possanza del loro Dio, e con cui si lusingavano di spiegare l’origine del male: necessità che i Poeti dell’età posteriori non han saputo disgiungere dalla Fortuna.»

« Comunque ciò sia, riserbato alle Parche il dominio della vita e della morte, tutto il resto delle cose umane fu permesso all’arbitrio della Fortuna. Quindi è nominata in alcune lapidi prima di Giove; quindi il suo simulacro Prenestino sosteneva fra le braccia, in forma di due bambini, il re e la regina degli Dei. Questo dominio è indicato nel timone, simbolo di governo, e nel globo. La ruota, altro suo distintivo, conosciuto come i precedenti, ci ricorda che

Le sue permutazion non hanno tregue.

« Il cornucopio che ha nella manca ci dà l’idea dell’abbondanza, che scende ad un suo volere a beare le nazioni, le città, le famiglie. Bupalo fu il primo a fregiare la Fortuna Smirnea di questo attributo: altri, prima di lui, le avevano collocato in braccio Pluto bambino.

« Anche di un altro simbolo adornò Bupalo questo suo simulacro, e fu il polo che le pose sul capo.

« Alcuni si contentano d’ intendere per questa voce il Cielo senza curarsi di sapere sotto che forma, e in qual guisa posava sul capo della Fortuna.

« Gli altri spiegano questo polo pel modio, o calato, fregio consueto di molte antiche divinità.

« A me sembra che la parola (grec) mal si tragga ad un simile significato. Questa voce non ci dà altra idea presso gli scrittori, se non di qualche cosa di concavo, quindi fu tratta a denotare il cielo, che solido e concavo si figuravano gli antichi, il cranio dell’uomo, e fino l’orologio solare, il quale da una concava superficie di segmento sferico venia formato, e vien perciò comparato da Polluce ad una specie di scodella o di conca. Come dunque si vuol questa volta appropriare ad un corpo, che piuttosto somiglia un cono troncato, o cilindro? E seppure questo valore della voce (grec) è ragionevole, perchè non se ne sono serviti gli antichi per denotare il calato della Diana Efesina, quello di Serapide, quello della Diana Pergea, e tante altre, che simili al modio della Fortuna torreggiano sulla testa venerata di tanti dii?

« Io per me non credo dovermi allontanare dal senso più naturale e più certo di quel vocabolo, quando vedo che i monumenti non mei contrastano. Intendo per polo una specie di celata, pìleo, quale appunto osservo sul capo a molte immagini della Fortuna. La nostra n’|è fornita, le Fortune Anziatine ne sono coperte, e sembra un elmo; in altre immagini somiglia quasi ad un berretto frigio. Ecco adunque quella specie di callotta che copriva la testa della Fortuua Smirnea, forse per indicare l’oscurità delle risoluzioni di lei, quella della sua origine, per imitazione dei vetusti simulacri adorati in Anzio, non dissimili per avventura da altri consacrati nei Greco-Italici santuario Questo apice, se così vogliamo chiamarlo, divenuto simbolo proprio della Fortuna, ci darà una chiara spiegazione di quelle espressioni di Orazio: — Di qui l’apice la rapace fortuna inalzò con stridore acuto, qui gode di averlo deposto: — espressioni, le quali non ci offrono altrimenti che un’ immagine assai fredda e indeterminata, non degna però di quel sommo lirico fra quanti ci sono restati.

« Finalmente il solito ornamento del calato non manca alla nostra statua, ma è però di una figura molto comune, e che somiglia quasi alle torri dalle quali si vede coronata la Fortuna in più monumenti, e che gli ottenero forse da Pindaro il magnifico titolo di(grec); cioè portatrice, o ancora sostenitrice delle città. »

La Vittoria, secondo Esiodo, è figliuola di Stige e di Fallante. Aveva molti tempii in Roma e nella Grecia, e Siila in onore di questa divinità istituì pubblici giuochi dopo aver vinti i suoi nemici.

Generalmente la Vittoria è rappresentata coll’ali; ma Pausania scrive che gli Ateniesi effigiare la fecero senza esse, acciò non potesse volare, e con loro mai sempre restasse.

Gli Egiziani simboleggiavano questa dea nella forma dell’aquila, alla quale Giove, al dire di Orazio, diede il dominio sugli erranti uccelli, poiché fedele la provò nel rapire il biondo Ganimede.

Sulle medaglie della città, la Vittoria è rappresentata, come per l’ordinario, sotto la figura di una donna seduta, mezza vestita, che tiene il caduceo nella destra. In una pittura di Ercolano questa dea tiene nella mano destra una corona di foglie di. querce, ed uno scudo dalla sinistra. Una Vittoria dormente si vede sopra una medaglia dell’imperatore Filippo. Indica una Vittoria certa immagine, che ci rammenta l’idea di quel quadro, col quale si rimproverò a Timoteo capitano Ateniese la cieca fortuna ch’ebbe alla guerra, figurandolo addormentato, mentre la Fortuna prendeva delle città colle reti. Una vittoria splendida e gloriosa che sia stata celebrata, o che meriti d’esserlo, sembra essere stata indicata con una Vittoria alata, che fa libazione ad una Musa: vale a dire, che con un vaso ella versa acqua o vino in una coppa, che la Musa, caratterizzata colla lira, sostiene. Questa immagine è stata rappresentata sopra alcune opere antiche che si vedono nella Villa Albani, e Winkelmann ha data la stampa di uno di questi monumenti nella sua Storia dell’Arte.

Nel Museo Clementine vi ha pure un’altra statua della Vittoria, così dal prelodato Visconti descritta:

«Questa divinità allegorica propagatrice e tutelare per undici secoli dell’Impero romano, fu quella altresì che riscosse più lungo culto fra le deità del Paganesimo, non essendo cessati i suoi pubblici sacrifìzii che verso la fine del quarto secolo con tanta resistenza e indegnazione del Senato, quanto la Storia e gli scritti di Simmaco ci rammentano.

« Rari ciò non ostante sono i simulacri d’una certa grandezza, o perchè fossero per maggior parte di bronzo, distrutti perciò dal bisogno e dall’ ava rizia, perchè, perduti i simboli distintivi, che la dea suole avere nelle mani e sugli omeri, sieno stati ad altro significato addetti, o perchè la persecuzione degl’Imperatori Cristiani si accendesse alla resistenza del Senato romano, ad abolire ogni monumento di questa idolatria.

« Fra i pochi che ne restano in marmo, se piccolo per mole, assai stimabile per l’invenzione, assai elegante per la maniera è il nostro.

« Esprime una vittoria navale coll’appoggiare il piede su di un rostro di nave, ad esempio di quella che si vede nelle medaglie. Non perciò è priva del suo trofeo, quantunque da alcuni possa credersi più adattato alla Vittoria terrestre, come inventato appunto a segnar il luogo della fuga dei nemici. Forse la vittoria, alla quale spettava il nostro monumento, fu riportata per terra e per mare, o forse ancora il trofeo non indica uno di quelli che si ergevano sul campo di battaglia, ma uno di quegli altri, dei quali i templi, i portici, gli archi, i palagi si decoravano. E tanto proprio della Vittoria il trofeo, che un greco autore non l’ha altrimenti definita che per l’ottenimento del trofeo medesimo (grec), la Vittoria e la possessione del trofeo.

« Bene a proposito l’artefice del nostro marmo ha dunque preso il partito di farla riposare sul trofeo, per indicare la sicurezza prodotta dall’aver volto in fuga e disarmato i nemici. A questa espressione di sicurezza parebbe che possa alludere la situazione del braccio sinistro sul capo, se una statuetta simile, trovata posteriormente e in questa parte più intera, non ci apprendesse che la sua vera attitudine era di coprirsi il capo, quasi per gioco, dell’elmo sospeso alla sommità del trofeo.

« La nostra Vittoria non è, qual la descrive Prudenzio, vestita le tumide mammelle di pieghe ondeggianti, ma quasi nuda: così ce l’offrono qualche volta le antiche monete, cosi suole osservarsi in quei bassi rilievi e in quelle gemme, nelle quali la Vittoria sacrifica un toro, o presso all’antro di Mitra, per denotare vittime de’ trionfi. La corona moderna, che ha nella destra, è imitata dai vetusti esemplari.

« Questa statuetta era forse destinata all’ ornamento di qualche architettura con altre simili. L’occasione non è facile a congetturarsi. Dopo la vittoria Aziaca non offre la storia altro combattimento navale nei tempi in che fiorirono le arti in Roma. Pur nelle monete di Vespasiano e di Tito, si vede la Vittoria col rostro di nave. Chi sa che non fosse una semplice imitazione di quelle tante immagini, che nell’auge dell’impero d’Augusto avranno rappresentato la Vittoria Aziaca.

La Canzone del celebre Alessandro Guidi sulla Fortuna ridonda di bellissime immagini, onde io credo che vi sarà utile udirla.

« Una donna superba al par di Giuno
Con le trecce dorate a l’aura sparse,
E co’ begli occhi di cerulea luce,
Ne la capanna mia poc’anzi apparse:
E come suole ornarse
In su l’Eufrate barbara reina,
Di bisso e d’ostro si copria le membra:
Nè verde lauro, o fiori,
Ma d’indico smeraldo alti splendori
Le fean ghirlanda al crine:
In sì rigido fasto ed uso altero
Di bellezza e d’impero
Dolci lusinghe scintillare alfine,
E da l’interno seno
Uscirò allor maravigliosi accenti,
Che tutti erano intenti
A torsi in mano di mia mente il freno.
Ponmi, disse, la destra entro la chioma,
E vedrai d’ogni intorno
Liete e belle venture
Venir con aureo piede al tuo soggiorno:
Allor vedrai ch’io sono
Figlia di Giove: e che germana al Fato,
Sovra il trono immortale
A lui mi siedo a lato:
A le mie voglie l’oceàn commise
Il gran Nettuno, e indarno
Tentan lindo e il Britanno
Di doppie ancore e vele armar le navi.
S’io non governo le volanti antenne,
Sedendo in su le penne
De’ miei spirti soavi. Io mando a la lor sede
Le sonanti procelle,
E lor sto sopra col sereno piede:
Entro l’eolie rupi
Lego l’ali de’ venti,
E soglio di mia mano
De’ turbini spezzar le rote ardenti,
E dentro i propri fonti
Spegno le fiamme orribili, inquiete,
Avvezze in cielo a colorir comete.
Questa è la man che fabbricò sul Gange
I regni a gl’Indi, e su l’Oronte avvolse
Le resrie bende de l’Assiria ai crini:
Pose le gemme a Babilonia in fronte,
R,ecò sul Tigri le corone al Perso,
Espose al pie di Macedonia i troni:
Del mio poter fur doni
I trionfali gridi
Che al giovane Pelleo s’alzaro intorno.
Quando de l’Asia ei corse,
Qual fero turbo, i lidi;
E corse meco vincitor sin dove
Stende gli sguardi il sole:
Allor dinanzi a lui tacque la terra,
E fé l’alto monarca
Fede a gli uomini allor d’esser celeste,
E con eccelse ed ammirabil prove
S’aggiunse ai Numi, e si fé gloria a Giove.
Circondare più volte
I miei genj reali
Di Roma i gran natali;
E l’aquile superbe
Sola in prima avvezzai di Marte al lume,
Ond’alto in su le piume
Cominciaro a sprezzar l’aure vicine,
E le palme sabine:
Io senato di regi
Su i sette colli apersi:
Me ne gli alti perigli
Ebbero scorta e duce
I romani consigli:
Io coronai d’allori
Di Fabio le dimore
E di Marcello i violenti ardori:
Africa trassi in sul Tarpeo cattiva,
E per me corse il Nil sotto le leggi
Del gran fiume latino:
Nè si schermirò i Parti Di fabbricar trofei
Di lor faretre ed archi:
In su le ferree porte infransi i Dacì,
Al Caucaso ed al Tauro il giogo imposi:
Alfin tutte de’ venti
Le patrie vinsi: e quando
Ebbi sotto a’ miei piedi
Tutta la terra doma,
Del vinto mondo fei gran dono a Roma.
So che ne’ tuoi pensieri
Altre figlie di Giove
Ragionano d’imperi,
E de le voglie tue fansi reine.
Da lor speri venture alte e divine:
Speran per loro i tuoi superbi carmi
Arbitrio eterno in su l’età lontane;
E già dal loro ardore
Infìammata tua mente
Si crede esser possente
Di destrieri e dì vele
Sovra la terra e l’onde,
Quando tu giaci in pastorale albergo
Dentro l’inopia, e sotto pelli irsute
: Nè v’è chi a tua salute
Porga soccorso: io sola
Te chiamo a novo e glorioso stato.
Seguimi dunque, e l’alma
Col pensier non contrasti a tanto invito;
Che neghittoso e lento
Già non può star su l’ale il gran momento. —
Una felice donna ed immortale,
Che da la mente è nata de gli Dei,
(Allor risposi a lei)
Il sommo impero del mio cuor si tiene,
E questa i miei pensieri alto sostiene,
E gli avvolge per entro il suo gran lume.
Che tutti i tuoi splendori adombra e preme:
E se ben non presume
Meritare il mio crin le tue corone,
Pur su l’alma i’ mi sento
Per lei doni maggiori
Di tutti i regni tuoi,
Nè tu recarli, nè rapirli puoi,
E come non comprende il mio pensiero
Le splendide venture.
Così il pallido aspetto ancor non scorge
De le misere cure:
L’orror di queste spoglie
E di questo capanna ancor non vede:
Vive fra l’auree Muse:
E i favoriti tuoi figli superbi
Allor sarian felici,
Se avesser merto d’ascoltarsi un giorno
L’eterno suono de’ miei versi intorno. —
Arse a’ miei detti, e fiammeggiò, siccome
Suole stella crudel ch’abbia disciolte
Le sanguinose chiome:
Indi proruppe in minacevol suono:
Me teme il Daco, e me l’errante Scita,
Me de’ barbari regi
Paventan l’aspre madri:
E stanno in mezzo a l’aste
Per me in timidi affanni
I purpurei tiranni:
E negletto pastor d’Arcadia tenta
Fare insin de’ miei doni anco rifiuto?
II mio furor non è da lui temuto?
Son forse l’opre de’ mìei sdegni ignote?
Nè ancor sì sa che l’Oriente corsi
Co’ piedi irati, e a le provincie impressi
Il petto di profonde orme di morte?
Squarciai le bende imperiali e il crine
A tre gran donne in fronte,
E le commisi a le stagion funeste:
Ben mi sovvien che il temerario Serse
Cercò de l’Asia con la destra armata
Sul formidabil ponte
De l’Europa afferrar la man tremante:
Ma sul gran dì de le battaglie il giunsi
E con le stragi de le turbe perse
Tingendo al mar di Salamina il volto,
Che ancor s’ammira sanguinoso e bruno.
Io vendicai l’insulto
Fatto su l’Ellesponto al gran Nettuno.
Corsi sul Nilo, e de l’egizia donna
Al bel collo appressai l’aspre ritorte,
E gemino veleno Implacabile porsi
Al bel candido seno:
E pria ne l’antro avea
Combattuta e confusa
L’aifricana virtute,
E al Punico feroce
Recate di mia man l’atre cicute.
Per me Roma avventò le fiamme in grembo
A l’emula Cartago,
Ch’andò errando per Libia ombra sdegnata.
Sinché per me poi vide
Trasformata l’immago
De la sua gran nemica:
E allor placò i desiri
De la feroce sua vendetta antica:
E trasse anco i sospiri
Sovra l’empia ruina
De l’odiata maestà latina.
Rammentar non vogl’io l’orrida spada
Con cui fui sopra al cavalier tradito
Sul menfitico lito:
Nò la crudel che il duro Cato uccise.
Nè il ferro che de’ Cesari le membra
Cominciò a violar per man di Bruto.
Teco non tratterò l’alto furore
Sterminator de’ regni:
Che capace non sei de’ miei gran sdegni,
Come non fosti de le gran venture:
Avrai de Tira mìa piccioli segni:
Farò che il suono altero
De’ tuoi fervidi carmi
Lento e roco rimbombo,
E che l’umil siringhe
Or sembrino uguagliare anco le trombe. —
Indi levossi furiosa a volo,
E chiamati da lei
Su la capanna mia vennero i nembi:
Venner turbini e tuoni,
E con ciglio sereno
Da le grandini irate allora i’ vidi
Infra baleni e lampi
Divorarsi la speme
De’ miei poveri campi. »

Lezione cinquantesimaprima.
Clio, Euterpe, Talìa. §

Le Muse così sovente invocate dai poeti, secondo la più antica Mitologia, erano figlie di Celo, come Saturno e i primi degli Dei. Ma l’opinione meno inveterata e più seguita è che fossero figlie di Mnemosine e di Giove.

Dagli antichi, non solamente del canto, ma di ogni sapienza moderatrici furono stimate queste divine fanciulle nate sul Pierio monte. I loro attributi e le varie parti dell’umane cognizioni alle quali presiedono, hanno data materia di contrasto a diversi scrittori; ma ogni querela ha sopito il Visconti, che combinando la tradizione degli scrittori coi monumenti, ha indicato agli artisti i mezzi sicuri di rappresentarle distintamente. Io non posso prevalermi che delle sue stesse parole, e seguire l’ordine ch’egli si è prefisso nell’annoverarle.

« Non è certamente l’ultimo fra i pregi del Museo dementino l’essere il solo a possedere le statue delle nove Muse co’ loro distintivi antichi, e per la maggior parte trovate insieme nella Villa Tiburtina di Cassio. Dappoiché la rinomata Collezione delle Muse fatta dalla regina Cristina perì nel mare, non si lusingavano gli amatori dell’antichità di rivederne una più completa e più conservata qual è la presente.

Clio. §

« Nell’incominciarne la descrizione non mi allontanerò dall’ordine di Esiodo e di Erodoto, esponendo per la prima la statua di Clio.

« La distinguo per tale dal volume che ha in seno, quasi svolgendolo e recitandolo, come fece Erodoto nelle feste Panatenaiche. Il volume è attribuito a Clio anche dalle belle pitture dell’Ercolano, ove si leggono inoltre i nomi e i dipartimenti di ciascuna Musa. Vero è che il volume è ancora in mano di Calliope musa dell’Epopea nelle stesse pitture: ma questa uniformità che darebbe delFimbarazzo negli intonachi Ercolanensi, se non vi fossero l’epigrafi, non può darne alcuno nelle nostre statue, ove una sola Musa ha il volume, e Calliope ha all’incontro i pugillari, o le tavolette incerate, ove collo stilo scrivevano gli antichi.

« E troppo chiaro che convengono assai bene queste ultime a chi scrive dei versi come Calliope, e che ha spesso d’uopo di cancellare o di riformare dove all’incontro sarebbe assai improprio darli per simbolo di Clio musa deiristoria, che siccome rammenta i secoli addietro in prosa, da una parte può scrivere con piiì franchezza, e dall’altra suol tanto diffondersi nei suoi scritti, che male a proposito cercherebbe di registrarli nei pugillari. Perciò l’altrove lodato sarcofago Capitolino, monumento il più bello fra quanti prima delle nostre statue ci presentassero le Muse, e nel quale meglio che in qualunque altro se ne scorgono i differenti attributi, dà il volume a una sola Musa, che perciò deve interpretarsi per quella dell’Istoria, rappresentando la musa dell’Epopea colle solite tavolette.

« Non dubito punto di assegnar francamente l’Istoria a Clio, ed in ciò, oltre le lodate pitture che danno a Clio la Storia, mi è d’ autorità il citato verso d’ Afranio, l’Idillio xx d’ Apuleio, e la testimonianza finalmente del dotto scoliaste di Apollonio, che dice la storia invenzione di Clio. Una prova dell’impiego di questa Musa è il suo nome medesimo. Diodoro e Plutarco, che le attribuiscono gli elogi e la poesia eroica, lo derivano da (grec) che dicon significare gloria e’ lode. Non vi ha dubbio che non trovisi la parola (grec) in questo senso, e che convenga pure all’Istoria che rammenta i fasti dei tempi passati, ed è la depositaria delle grandi azioni. Ma il senso più antico e più genuino di questa voce, in che è con preferenza adoprata da Omero, è quello di esprimere piuttosto che gloria, fama soltanto e rinoìnanza. A meraviglia può dirsi dunque Clio la musa della fama, poiché essa la registra in iscritti e la rende durevole, e perchè ancora trasmette tutte indistintamente alla memoria dei posteri le memorabili azioni, o sieno esse reputate degne di lode, ovvero di biasimo. Il sasso su cui siede la Musa può simboleggiare le rocche di Parnaso, dell’Elicona, e ci fa sovvenire il nome delle Ninfe che dà Virgilio alle Muse. Il suo vestire consiste in una tunica con mezze maniche, strette e allacciate con diversi davi o bottoncini, chiamata dagli antichi tunica axillaris, e in una sopraveste che le si avvolge intorno dal mezzo in giù. Meritano osservazione le scarpe che sono fatte a sandali, come quelle della maggior parte delle statue mitologiche, ma sembrano di cuoio, che coprono il piede nè mostrano allacciatura. Simili calcei detti dai Latini alutɶ, perchè forse apparivano senza lacci, erano anche proprie delle persone teatrali, ed è ben noto quanta parte avessero le Muse negli spettacoli.

« Non mi trattengo sull’alloro che le circonda i capelli, e perchè tutti sanno come convenga a queste Dee la pianta sacra ad Apollo, e perchè la testa, antica bensì, ma probabilmente di una Musa, non è la propria di questa statua che ne fu trovata mancante. Merita osservazione il volume che ha in seno. Quello che vi rimane di antico è bastante a dimostrare non esser di membrana, ma di papiro, tanto comparisce arrendevole nelle pieghe e mancante d’elasticità. Infatti fu questa pianta la materia più comune dei volumi ancora presso i Greci, dacché la reser nota le conquiste di Alessandro, prima specialmente che la gelosia di Tolomeo Fi ladelfo negandole l’estrazione di Egitto facesse inventare nella biblioteca di Pergamo le cartepecore dette perciò pergamene. Se queste statue delle Muse fossero copie di quelle celebri di Filisco, che abbellivano i portici di Ottavia, questo volume potrebbe servire di una congettura per fissare 1’età incerta di quell’artefice, e crederlo posteriore ad Alessandro ed anteriore ad Attalo.

« Non posso tralasciare un bel monumento appartenente a Clio dissotterrato fra le ruine di Castro Nuovo sul lido del mare Tirreno in vicinanza di Civitavecchia. È questo un Termine, o erma, mancante di capo, coir iscrizione latina che significa: A Giunone Istoria, Telefo e Prisco dedicarono.

« Che gli antichi chiamassero Giunoni i Geni femminili è abbastanza certo fra gli antiquarii. Anzi ne’ monumenti se ne incontra qualche rara immagine, come presso il Winkelmann. Ciò che è veramente singolare è il vedere la musa della Storia, che non è altro che il Genio o la Divinità tutelare di essa, onorata sotto questo nome. — Telefo e Prisco eran forse due sofisti amici dell’Istoria, che eressero questo monumento a Clio, musa del genere lor prediletto.

« Mi resta finalmente a notare che la Musa Clio, nel celebre monumento dell’Apoteosi di Omero è a mio credere la seconda figura nel piano superiore del basso rilievo, distinta dal volume che ha nella mano, e che si vede in piedi presso Calliope che ha i pugillari. La Storia nel piano più basso in atto di sacrificare ha un simile distintivo. Dissento in ciò dallo Schott, che dà questo nome alla Musa colla lira del piano di mezzo. Così nel sarcofago del Campidoglio sarà Clio la prima Musa che ha il volume, piuttosto che la settima che ha la cetra. Così parimente tra quelle della Yilla Mattei sarà più verisimilmente Clio la musa col volume scolpita in una delle fiancate, che quella della cetra che è la prima sulla facciata. Stimo a proposito di rammentare questi monumenti delle Muse, che sono i più cogniti, perchè ne restino sempre più confermati e costanti gli uffìcii, gli attributi e le rappresentazioni.

Euterpe. §

« Questa graziosa figura rappresenta certamente una delle Muse. Il sasso ove siede come la precedente, è un argomento per crederla o una Ninfa o una Musa, e la decenza del vestimento ci determina a questa seconda opinione, giacché di rado le Ninfe in altra guisa s’incontrano che seminude. Le mani sono antiche: la destra appoggiata alla rupe non ha sostenuto mai verun simbolo; non così la sinistra, che per altro non poteva altra cosa reggere per la sua disposizione che una bacchetta o una tibia. La prima l’avrebbe dimostrata Urania, la seconda, che vi è stata supplita, la distingue per Euterpe, Musa che ha specialmente sortito il suono dei flauti.

« Di simile ufficio, tutto proprio di Euterpe, fa fede l’antico scoliaste dell’Antologia, e l’Epigramma antico delle Muse con questi versi:

Infonde Euterpe alle forate canne
Il fiato, ch’è forier di melodia.

« E consentono a’ Greci i Latini Orazio, Ausonio, Petronio, Afranio: quantunque lo scoliaste di Apollonio le attribuisca le Matematiche, e Plutarco la contemplazione delle verità fisiche. Non però a caso se l’è dato piuttosto l’attributo di Euterpe che quelle di Urania, perchè nell’abito di questa Musa vi è qualche cosa ove fondare una maggiore probabilità pel soggetto prescelto, oltre non esservi vestigio alcuno del globo, principale distintivo di Urania, a cui corrisponde il radio, o bacchetta, che suole avere in mano per additare i segni.

La Musa rappresentata in questo bel marmo è ornata di una gemma sull’orlo superiore della tunica in mezzo al petto. Simili ornamenti più sono proprii di una musa teatrale qual’era Euterpe, che della severa Urania, tutta fissa nelle osservazioni astronomiche. Infatti, che il suono dei flauti fosse inseparabile dagli spettacoli ci viene attestato dai Classici, e può bastarne per una prova l’iscrizione delle Commedie di Terenzio in molti antichi testi che hanno: — rappresentate colle tibie destre e sinistre, pari o impari. —

« Quindi è che nel sarcofago Capitolino Euterpe coi flauti è rappresentata vestita di un abito simile a quello delle muse teatrali della Tragedia e della Lira. Il genio che ebber gli antichi per simili istrumenti si comprende dall’ uso tanto esteso che ne fiicevano, adoperandolo, oltre il teatro, nelle nozze. nei sacrifizii, nei funerali, e fin nella guerra. Gli appropriano perciò ad Euterpe, il cui nome significa dilettevole.

« Come nelle pitture Ercolanensi delle Muse, così anche fra le statue Tiburtine mancava Euterpe: vi è perciò sostituita la presente, che si è ammirata lungo tempo per le scale del Palazzo Lancillotti a Coronari insieme con un’altra perfettamente simile che vi è rimasta. Queste repliche servono sempre più ad avvalorare il sospetto che fosser copie d’insigni originali, e forse delle lodate Muse di Filisco; al qual proposito giova riflettere che nello stesso palazzo si conserva una Polinnia del tutto simile alla nostra, mancante però del capo, e che nell’altro palazzo a Velletri era la statua di Urania, che ora compisce il numero delle nostre Muse: onde può nascere il sospetto che siano state le Muse trovate insieme, e che fossero anticamente tutta una collezione.

« Mi resta a soggiungere che nel basso rilievo dell’Apoteosi d’ Omero, Euterpe è quella Musa che regge colla destra due flauti, presi dal Kirkero per fiaccole, ed è nel piano superiore. Il Cupero e lo Schott la ravvisano per tale: quello soltanto che rilevo dall’ osservazione del marmo si è che la cetra posata in terra resta presso di questa Musa, e non è, come nelle copie in rame, vicina piuttosto all’altra danzante. In ciò questo greco monumento differisce da^-li scrittori che ci rimangono. Nel sarcofago della Villa Mattei, Euterpe è nel mezzo, ed ha il solito distintivo delle tibie, al quale la rico noscono lo Spon e gli altri espositori di quel monumento,

Talia. §

« La musa della Commedia facilmente si ravvisa in questa leggiadra figura della maschera comica e caricata, principalmente, come dal baston pastorale e dalla corona di edera di cui ha fregiata la chioma. Questa corona è sacra a Bacco, deità tutelare degli spettacoli teatrali, e conviene perciò alla sagace Talia, inventrice di quel ramo dell’arte scenica, che se non è il più utile, è di sicuro il più generalmente gustato.

Talia i comici scherzi e i bei costumi,

abbiamo in un epigramma dell’Antologia; e in un altro si fa parlare in questi termini la stessa Musa:

Io dei comici numeri maestra
Son la Musa Talia, che dalle scene
Festive il vizio uman scherzando punge.

« II bastone ricurvo è proprio degli attori antichi, e più conviene a Talia, ch’è ancora presidente agli studii campestri e all’agricoltura. Il suo nome come vuol dir Florida, è adattato al suo doppio uffìzio, sì ai piaceri e ai divertimenti, che sono i fiori di cui si sparge il disastroso sentiero della vita, sì alla cura dei vegetabili, dei quali è strettamente proprio il fiorire. E per ciò la divinità ancora della poesia pastorale e georgica, alla quale può alludere la sua verga. Siccome però la Commedia è il suo più rinomato esercizio, così il suo più distinto attributo è la maschera comica, dalla quale si riconosce nel sarcofago Matteiano. Questi stessi attributi la caratterizzano nelle pitture di Erodano ugualmente che nel lodato bassorilievo Capitolino, dove anzi è abbigliata di un manto, che dall’omero sinistro le scende sotto al destro, nella stessa guisa che in quelle antiche pitture. I calzari che ha ai piedi in quel monumento son ben diversi dai coturni tragici, dei quali nello stesso marmo è calzata Melpomene: quantunque la poca esattezza del disegno di questo insigne sarcofago abbia data occasione di equivoco al dotto illustratore dei bassirilievi Capitolini.

« Nel nobil marmo dell’Apoteosi di Omero nessuna Musa ha la maschera, e Talia non può essere se non la terza musa del piano superiore, che ha la cetra nella sinistra, e sta colla destra in atto di gestire e recitare. Questo gesto simile a molti delle fi<?ure comiche che sono nelle miniature del Terenzio Vaticano, allude alla Commedia, con la cetra allegorica dei conviti, i quali avevano presso i Greci lo stesso nome colla nostra Musa, e che perciò dovevano esserle sacri. Fi vestita di una tunica colle maniche sino a mezzo braccio strette con borchie, fra le quali le due prime, che restano su gli omeri, sono più grandi. Ha una sopraveste bizzarramente involta, i sandali ai piedi, e il timpano moderno nella sinistra, istrumento, che allude, come l’edera, all’origine Bacchica degli spettacoli teatra li. È stato supplito sull’indizio di un vestigio circolare, che altro non poteva indicare che un timpano appunto, un troco, o altro simile strumento rotondo.»

Voi dimandate spesso dei soggetti, e le descrizioni che per vostro vantaggio traduco dai poeti non sono sempre suscettibili di esser rappresentate nella pittura. Per soddisfare a questo vostro desiderio ho trovato un mezzo migliore, ed è di tradurvi in ogni Lezione, finché non saremo giunti alla Mitologia Bacchica, una delle Immagini di Filostrato. Queste non sono che descrizioni di quadri antichi, ma fatte con quell’ eleganza che è tutta propria di questo scrittore. Ve ne sia d’esempio la seguente, ove è descritta Tebe assediata, e Meneceo che per la patria offre la vita.

— Questa è Tebe, perchè vi sono sette porte nelle mura, e l’armata di Pohnice, figlio di Edipo, divisa in altrettante schiere. Fra queste Anfìarao si avvicina con meste sembianze prevedendo la sciagura che gli sovrasta. Gli altri duci temono anch’essi, ed inalzano le loro mani al cielo: non vi è che il solo Capaneo che misuri con occhi arditi le mura, delle quali si ride perchè è facile di scalarle. Pure non 1’ hanno offeso ancora coi sassi i Tebani, che paventano di dare principio alla battaglia. E qui si manifesta una bella e gentile invenzione del pittore, il quale avendo circondato la tela d’ armati, ne mostra alcuni fino al ginocchio, altri a mezzo, ad altri si veggono le teste, o i petti o gli elmi, e dopo questi niente si scorge che la punte dell’aste. Ma tutto questo è prospettiva: perchè bisogna ingannar gli occhi per certi serpeggiamenti, che s’allontanano e vanno quanto la vista. Inoltre Tebe non è priva di predizioni, perchè Tiresia, il profeta, dà un oracolo, che riguarda Meneceo figlio di Creonte.

Tebe, egli dice, sarà liberata dal pericolo imminente se egli vuole immolarsi nella grotta del serpente. Però Meneceo va a morire senza saputa di suo padre: degno certamente di grandissima compassione per la sua tenera giovinezza, ma felice dall’altra parte pel suo generoso coraggio.

Volgete adesso il vostro occhio su quello che dipende dall’artista: egli non ha dipinto un giovine bianco e delicato, ma animoso, capace della palestra come sono quei brunastri di pelle olivastra che Platone loda tanto. E l’ha munito di stomaco e di lianchi rilevati, con cosce muscolose, largo e robusto nelle spalle, di collo fermo ed indomabile, senza lunaa chioma e senza apparenza ch’egli la nutrisca. Tenendo la sua spada in pugno si pianta all’entrata della caverna; egli già si è trafìtto nel petto: riceviamo nel nostro vaso il sangue che esce dalla piaga, poiché scorre in abbondanza. E l’anima presto fuggirà: voi la vedrete ben tosto volteggiare sull’esangue, perchè 1’ anime sono innamorate dei bei corpi ove stanno, e con dispiacere gli abbandonano. Il sangue che scorre a poco a poco fa sì che ei traballi, e con un’occhiata dolce e graziosa, che sembra chiamare il sonno, egli saluta ed abbraccia la morte che viene ad impadronirsene. —

Lezione cinquantesimseconda.
Melpomene, Tersicore, Erato. §

Melpomene. §

« Questa bella statua di Melpomene ci manifesta al primo sguardo la musa della Tragedia. La maschera tragica, anzi erculea, che ha nella destr-a la bellézza del volto nobilmente austero, la fronte ingombra di capelli, la corona bacchica di pampini e grappoli, la positura eroica di appoggiare sopra un sasso il pie sinistro: sono tanti distintivi del genere di poesia a cui generalmente presiede.

« Infatti nulla di piìi proprio per denotare la Tragedia che la maschera di Ercole, la cui clava suole esser il suo simbolo più comune nella maggior parte dei monumenti. Qui però è da osservarsi che la capigliera di queste maschere detta dai Greci ò’/xo;, dai Latini Superficies, è coperta della pelle di leone, che secondo Polluce formava una parte del l’apparato tragico. Sembra che ì simboli di questo eroe siano stati prescelti per adombrare la tragedia perchè si comprendesse qual genere di personaggi e d’azioni formasse il suo più opportuno argomento. Le chiome sparse rappresentano la sua tristezza, affetto seguace della compassione e del terrore, che sono i due poli dell’arte tragica, onde Ausonio rilevò la mestizia come caratteristica della Tragedia: — Melpomene esclama mesta tragicamente spalancando la bocca. —

« La corona bacchica rappresenta la prima origine della Tragedia, giacché le vendemmie videro nascere in questo spettacolo una delle invenzioni più nobili dello spirito umano, e i rustici furono i primi attori che le recitarono, tinto il volto di mosto. Il suo nome stesso Tragedia, che vale canto del capro, mostra che simili divertimenti non erano che una sequela del sacrificio, che facevasi al nume inventore del vino, di questo quadrupede danneggiatore delle viti. Perciò la scena fu attribuita a Bacco, ed egli stesso per la sua sovrintendenza alla Tragedia fu venerato in Atene col titolo di Melpomeno. Non a caso ho annoverato fra i distintivi della Tragedia anche la positura di questa Musa, poiché con somma giustezza aveva riflettuto il senator Buonarroti, uno dei primi luminari dell’Antiquaria, essere stata usata dagli antichi artefici nelle immagini degli eroi. Agli esempi che adduce può aggiungersi la bella statua Capitolina, che non dovrebbe perciò riguardarsi come quella di un semplice Pancraziaste.

« Che Melpomene sia la musa della Tragedia l’ho finora supposto come indubitato: ed in fatti, sono d’accordo su ciò la maggior parte degli antichi. Pure lo scoliaste d’Apollonio e quello dell’lntologia le attribuiscono l’ode; e il più volte lodato epigramma dà la Tragedia ad Euterpe, a Melpomene il barbito. L’etimologia del suo nome, che vai Cantante, è stato forse il principio d’ascriverle la poesia cantabile dell’odi, qnando conviene viemaggiormente alla musica usata dagli antichi nel teatro tragico, la quale, quantunque non ci fosse rammentata dagli scrittori, potremmo pure argomentare dai metri stessi dei drammi greci.

« L’abito di questa Musa è una tonaca talare e lunghe maniche con sopra un peplo, o tonaca pili corta, e di piiì il sirma teatrale bizzarramente aggruppato. Il pugnale che ha nella manca, benché moderno, non è posto a capriccio. Oltre l’essere cosi rapprentata Melpomene in varie antiche immagini se ne vede un’orma in una simile statua frammentata già in Villa Madama, ora nel Palazzo Farnese alla Lungara, la qual replica serve a provar sempre più la celebrità degli originali di queste Muse. La nostra era in antico stata ristaurata, e il ristauratore avea cangiato la spada in una clava di cui rimanevano le vestigia in alcuni perni rugginosi riportati sul braccio manco: ora l’è stato riposto sulla sinistra il più antico suo simbolo. Non è calzata di coturno, ma di una semplice aluta, calcare già da noi in altre statue delle Muse osservato.

« Per continuare nell’intrapreso metodo di distinguere nei celebri monumenti ciascuna Musa, dirò che nell’Apoteosi di Omero Melpomene è la figura muliebre velata, più vicina a Giove a cui rivolge il volto: la contrassegna il coturno altissimo che porta al piede, come ò chiaro nel marmo, e il velo che le copre la testa come nella stessa scultura: è rappresentata la Tragedia nel piano più basso della composizione dove è 1’ epigrafe greca (grec), Tragedia. Lo Schott Tavea creduta Polinnia, il Cupero Calliope o Mnemosine madre delle Muse. Il non esprimersi nel rame il coturno non avea data occasione a questi eruditi di poter giungere alla vera idea dell’artefice, a cui non poteva condurre che la diligente osservazione del marmo originale.

« Graziosa e bizzarra oltremodo è la Melpomene del sarcofago Capitolino: ha la maschera tragica alzata dal volto, che le serve come di cuffia ed ornamento del capo, ed altissimi coturni alle piante. Quello che più fa al nostro proposito è che appoggia il piede sovra un sasso nella stessa guisa della nostra statua, lo che sempre più ci assicura che r artefice non ha usata di questa situazione senza mistero. Nel sarcofago di Villa Mattei Meipomene è la seconda Musa della facciata, come l’accusa la maschera tragica nella manca, e l’abito cinto di gran fascia di cui è adorna.

Tersicore. §

« Due sono, secondo la più comune opinione, le Muse della lirica poesia, il distintivo delle quali suole essere assai attamente la cetra: una cioè quella della lirica sacra ed eroica, l’altra quella della lirica molle e amorosa.

« Quale dunque delle due Muse liriche sarà la nostra, che sedendo come le altre sulla rupe del Parnaso, vestita della tunica a mezze maniche, coronata di alloro, calzata di quel genere di scarpe che abbiamo ravvisate per le antiche alute, col plettro che ha nella destra, va destando i concenti dell’armoniosa sua lira? La credo Tersicore per la somiglianza appunto di questo musicale istrumento con quello che ha la Tersicore dei begli intonachi Ercolanensi, dove è sotto scritta la Epigrafe Tersicore la Lira.

« A dir vero si vede in questa Lira la testuggine che ne forma il corpo, secondo l’ invenzione di Mercurio, descritta diffusamente nell’Inno Omerico; e due corna di capra ne formano le braccia, che perciò si trovano spesso appellate corna della cetra. Tale appunto è la Lira di Tersicore nell’accennate pitture.

« Il nome di Tersicore, che vale dilettante della danza, non sembra avere un immediato rapporto alla lirica, quando non si rifletta che le canzoni liriche furono primitivamente composte per essere cantate danzando, particolarmente intorno all’ are dei numi. L’impronta di questa origine si trova ancora nelle greche canzoni, e singolarmente in quelle di Pindaro divise in strofe, antistrofe ed epodo. Le due prime parole derivano dal Greco(grec), volgere, ed allude alla maniera di girare da destra a sinistria e da sinistra a destra, nel condurre la danza intorno all’altare. Sì stretta connessione degl’inni e delle danze sacre, che poi si accompagnavano indispensabilmente colla lira, hanno indotti gli antichi artefici, consentaneamente agli scrittori, a distinguerla con tal simbolo.

« La grazia dell’attitudine di questo simulacro la rende pregevolissima da osservarsi, ed avvene un’altra copia antica in piccolo nel Museo del cardinal Pallotta; e simile alla nostra era ancor questa Musa nella Collezione della Regina di Svezia. Il rincontro dei monumenti è una prova della stima in cui si avevano anticamente gli originali di queste figure delle Muse, che eran forse, come abbiamo più volte notato, quelle scolpite da Filisco, ed ammirate dall’antica Roma e da Plinio nei portici di Ottavia. Questa statua era mancante del capo: ma quello che l’è stato supplito è antico, ed abbastanza conveniente al soggetto.

« La Lira distingue Tersicore nel singolare bassorilievo dell’Apoteosi di Omero, ed è la prima che siede sul secondo piano col plettro nella destra e nella manca la cetra. Lo Schott, indotto in errore da una stampa, ha preso il plettro per un volume, ed ha dato alla Musa il nome di Clio. Con tal nome è distinta ancora la nostra Musa dal dotto espositore dei bassi rilievi Capitolini, che si è contentato di seguire l’epigramma di Callimaco, già da noi osservato come il più lontano dalle comuni opinioni. Noi però dalla Lira che sta sonando la nomineremo Tersicore, avendo già ravvisata Clio nella Musa col volume, da luì chiamata Calliope. È da notarsi quanto questo epigramma abbia confuso gli antiquarii nel riconoscere nelle figure di Tersicore piuttosto la Musa Clio contro la testimonianza di Ausonio, di Petronio Afranio e delle pitture di Ercolano.

« Così nel sarcofago Matteiano, Tersicore che è la prima della facciata, è parimente descritta per Clio, ma noi dalla singolare insegna, ch’è la Lira, vi ravvisiamo Tersicore, Musa della Lirica eziandio secondo Pindaro, la cui assertiva, anche sola, e per l’antichità e pel merto del poeta, dovrebbe essere d’un sommo peso. Nelle monete romane della famiglia Pomponia si riconosce la testa di questa Musa dal plettro ch’è nell’area del dritto, come dalla cetra ch’è nel rovescio della sua figura.

Erato. §

Le poesie amorose, la danza accompagnata dal suono, le allegrie delle nozze, ecco gli ufficii di Erato secondo la maggior parte degli antichi, che dall’amore ne derivarono l’amabile denominazione. Ovidio non invoca altra Musa nella sua Arte, assegnandone la ragione appunto dal nome. Apollonio nel terzo libro dove incomincia la narrazione degli amori di Medea con Giasone, chiama Erato con questi bei versi:

Erato, or tu mi assisti, or tu mi narra
Donde e in qual guisa il desiato vello
Giason condusse alla sua lolco. Amore
Tanto in Medea potè. Vezzosa Musa,
Tu le parti di Venere sortisti,
Induci tu le rigide fanciulle
Ad amar, donde avesti il caro nome.

« Le pitture di Ercolano hanno Erato la saltria, che regola cioè l’arte della danza e del suono, come hanno a maraviglia provato i dottissimi spositori di quei monumenti: onde Ausonio nell’Idillio xx disse: — Portando Erato il plettro salta coi piedi, coi carmi, col volto. — Finalmente i due scoliasti di Apollonio e dell’Antologia attribuiscono ad Erato le nozze e le danze.

« Queste autorità sono sufficienti a spiegare la nostra statua, nella quale si vede Erato similissima a quella della pittura di Ercolano nella situazione, nel movimento, nell’abito, che sta suonando la cetra per dar il tempo di qualche lieta danza nuziale. E vestita, come la maggior parte delle Muse, di una tonaca a mezze maniche, fermata con piccole borchie sul braccio, e con un manto che le scende dagli omeri vezzosamente negletto.

« Se però questi studii d’ Erato bastano a spiegar la maggior parte dei monumenti che ce la rappresentano, come r insigne bassorilievo Colonna, dove si vede danzante per le pendici di Elicona, ravvisata ancor dallo Schott, e l’altro della Villa Mattei, dove è la quinta o l’ultima della facciata, in attitudine diversa dall’Erato Ercolanense e dalla nostra, non bastano però a farcela distinguere nel mi sarcofago Capitolino, dove una sola ha la cetra, e l’abbiamo sull’autorità degli antichi appellata Tersicore; altre sei hanno i loro attributi che le distinguono abbastanza; Clio ha il Yolume per la storia, Euterpe le tibie, Talìa la maschera comica e il bastone pastorale. Melpomene la maschera tragica e il coturno, Calliope i pugillari, come vedremo in appresso. Restano due Muse senza simboli, una delle quali sarà Erato, l’altra Polinnia. Recheremo appresso le ragioni che abbiamo per credere quest’ultima la Musa ravvolta nel manto e appoggiata al sasso, onde Erato non potrà esser che la terza figura, che posando la sinistra su di una base, sta pensierosa ed ha il capo coperto di una specie di velo stretto a guisa di rete che (grec) dai Greci appellavasi. Nel rame che la rappresenta è stato trascurato questo abbigliamento del capo, assai chiaro e visibile nell’originale.

« Quest’attitudine non si confà ad Erato saltria, ballerina, ma bensì ad Erato amante o filosofessa; giacché la Filosofia era, secondo gli antichi, lo studio favorito di Erato, onde alcuni han dedotto il suo nome dalla presentazione della verità. Oltre questa dottrina mi giova a ravvisar Erato in quella figura l’acconciatura della testa, ch’è la stessa colla quale si rappresenta Safi’o nelle monete di Lesbo. Infatti, non sotto altre sembianze che sotto quelle di Erato dovea rappresentarsi la decima musa di Mitilene, la più celebrata maestra delle nostre canzoni.»

Udite da Filostrato di altre due pitture la descrizione, che ho tradotta, mosso dal gradimento che aveste per questo animato scrittore nella passata Lezione.

Anfiarao.

— Le bighe (che ancora le quadrighe non solevano guidare gli eroi, eccettuato Ettore audacissimo fra loro) trasportano Anfìarao che ritorna da Tebe, nel qual tempo si dice che la terra per lui sprofondasse, onde nell’Attica rendesse gli oracoli, e dasse vera risposta sapiente fra gente illustre per sapienza. Fra questi sette che a Polinice Tebano tentavano di restituire V impero, nessuno ritornò fuori che Adrasto ed Anfìarao; gli altri ha la città di Cadmo: perirono per l’aste, pei sassi e per le scuri.

Ma è fama che Capaneo fosse ferito dal fulmine, avendo il primo arrogantemente ferito Giove. Ma di questi convien dire altrove. La pittura ci comanda di guardare al solo Anfìarao colle stesse corone e col lauro fuggente sotto terra. I cavalli sono bianchi, le rote con impeto si aggirano: di spuma è sparsa la terra, i crini si riversano ad esso bagnati di sudore-, si è sparsa intorno una lieve polvere, che gli mostra meno belli, ma più veri. Anfìarao, armato tutta la persona, ha lasciato il solo elmo alzando la testa sacra ad Apollo, nelle sembianze sacro e vaticinante. È ancora Oropo rappresentato giovine in mezzo a donne di color glauco: esse denotano il mare. È dipinto ancora l’ora colo di Anfìarao nell’antro e divino. Ivi è la verità in bianca veste, ivi la porta dei sogni, poiché di sonno hanno bisogno quelli che interrogano l’oracolo, e lo stesso sonno è dipinto con faccia tranquilla, ed ha una veste bianca sopra una nera, poiché è di suo dominio la notte e il giorno. Tiene ancora un corno nelle mani, come quello che è solito di condurci i sogni per la vera porta. —

Agamennone.

— Questi sparsi in qua e in là per la stanza del convito, il sangue mescolato col vino, questi che spirano sulla mensa, questo nappo rovesciato dal calcio di un uomo che gli palpita accanto, questa fanciulla profetessa vestita colla stola, che riguarda la scure che cadrà sopra lei, tutto ciò rappresenta il modo, nel quale, ritornando da Troia, fu ricevuto da Clitennestra Agamennone, cosi ebro, che lo stesso Egisto non ha temuto di osare tanto delitto. Clitennestra poi, coir insidia del peplo chiuso circondando Agamennone, lo percosse con questa doppia scure, colla quale gli alberi più grandi si taglierebbero.

Se noi riguardassimo ciò come un atto di tragedia, grandi cose in poco spazio di tempo sarebbero state con gran compassione rappresentate; ma in questa pittura ancor più ne vedrete. Guardate dunque: le fiaccole sono ministre della luce, perchè ciò successe di notte: i nappi ove il vino spumava risplendono più che il fuoco, essendo d’oro: le tavole erano tutte coperte delle vivande, delle quali si nutrivano i principi eroi. Ma tutto è scompigliato, poiché da quelli che banchettando spirano, parte è rovesciato dai calci, parte rotto, parte versato sopra loro: e alcune coppe ripiene di sangue cadono dalle tremule mani perchè nell’ubriachezza sono uccisi. Quanto all’aspetto degli estinti, vi è chi ha il collo tagliato, cercando d’inghiottire un boccone di vivanda o un sorso di vino, questo ha la testa recisa di sotto le spalle nella stessa attitudine che si abbassava sul nappo, quello ha tagliato il pugno coi quale solleva la tazza.

Chi cadendo dal suo letto trae dietro a sé la tavola, un altro si rovescia prono sulla testa e sulle spalle. Vi é alcuno che cerca di evitare la morte, un altro vorrebbe fuggire, ma l’ubriachezza glielo impedisce come se avesse ai piedi catene. E fra tutti questi che sono per terra non ve n’è uno che sia pallido, poiché, spirando fra il vino, il colore non così presto gli abbandona.

Ma il punto principale di tutto questo mistero é Ao’amennone, ucciso non nei campi di Troia, nò sulle rive dello Scamandro, ma tra fanciulli e donnicciole come un bove nel presepio. Ecco ciò che gli è accaduto dopo tanta gloria e tante fatiche nel mezzo dell’infausta cena!

Ma pietà maggiore ancora merita ciò che accade a Cassandra, poiché Clitennestra si affretta di alzare tutta la scure sopra lei con uno sguardo furioso, crollando la testa scapigliata, con un braccio reso più fermo e più terribile dal furore: dove la misera, tutta delicata e divina, si sforza di andare a cadere sopra Agamennone, strappandosi le sue ghirlande dalla chioma per porle sulla testa di lui. Finalmente la scure è alzata: ella vi rivolge gli occhi paurosi, ed esclama un non so che di compassionevole, affinchè Agamennone, udendola in quel poco che gli rimane di vita, ne sia commosso: egli racconterà tutto questo ad Ulisse all’inferno nell’adunanza dei morti. —

Lezione cinquantesimaterza.
Polinnia, Urania. §

Polinnia. §

« Non vi ha dubbio che questa statua, una delle più eleganti e conservate della collezione, e che non ha nelle mani simbolo alcuno che la distingua, non appartenga alla Musa Polinnia. Anche nelle Pitture Ercolanensi è effigiata questa Musa senza veruno attributo, e la sola situazione, o piuttosto il solo gesto è quello che la determina. Non sembrerà strana questa maniera di rappresentarla quando veniamo in un’esatta cognizione de’ suoi studii prediletti e delle sue varie incombenze. In primo luogo, quantunque il suo nome, in diverse maniere scritto, ci offra differenti etimologie, vi ha pure chi lo deriva dal molto ricordarsi delle passate cose, cioè dalla facoltà della memoria. Questo attributo materno è restato, fra le altre germane, più particolarmente appropriato alla nostra Musa, come ne fan fede gli antichi che l’hanno espressamente chiamata la Musa della Memoria. Siccome questa facoltà molto si fortifica nell’uomo per mezzo del raccoglimento, l’hanno però scolpita i Greci maestri tutta ravvolta nel proprio manto, e quasi cogitahonda. Nè si creda ciò una capricciosa congettura, poiché resta perfettamente dimostrato dalla statua della Memoria del nostro Museo, indubitata per la greca iscrizione che ha nella base (grec), Rimembranza, la quale statua non esprime in altra guisa la qualità della dea, che rappresentandocela tutta involta nel manto, e persino le mani, come il simulacro che stiamo esponendo. Questo raccoglimento necessario alla reminiscenza ha fatto dagli antichi attritribuire a Polinnia anche la taciturnità ed il silenzio. Col dito al labbro l’esprimono le lodate pitture di Ercolano, il quale atto resta a maraviglia illustrato da un greco epigramma sfuggito all’immensa erudizione degli espositori di quei monumenti. Eccolo:

Taccio, ma parla in grazioso gesto
Mossa la mano, e taciturna in atto

Un loquace silenzio a tutti accenno.

« Dopo di ciò non sembrerà punto dubbio qual Musa onorasse Numa sotto il nome di Musa Tacita Silenziosa. Siccome però la ricordanza delle passate cose ha fatto attribuire a Polinnia la cognizione della favola, come ne fa fede l’Epigrafe della Polinnia Ercolanense, che ha Polinnia le favole, così la sua taciturnità e la cognizione della favola fecero presiedere questa Musa all’ arte dei Pantomimi, che a forza di gesti sapevano rendere facondo il loro silenzio, e rappresentare di tutto il cielo poetico le avventure più dilettevoli. Che questa sorta di danze fosse diretta dalla Musa Polinnia, è consenso universale degli antichi scrittori.

« Ma, per tornare alla considerazione del nostro marmo, chi sa che quel manto in cui la veggiamo involta non voglia indicare le tenebre dell’antiche istorie e dei tempi mitici e favolosi, delle quali sono sempre oscurate queste remote avventure? Inoltre, anche secondo quel sistema che vuol le Muse non altro che i Genii delle sfere planetarie, che tessono intorno al sole danza armoniosa e perpetua, conviene a Polinnia il ravvolgersi nei vestimenti, essendoché ella presiede alla fredda ed estrema sfera del tardo Saturno. La nostra Polinnia è coronata di rose, corona che attribuiscono alle Muse i greci poeti, e fra gli altri Teocrito. La sua testa, e pei lineamenti e pel serto, è del tutto simile alla bella statua detta la Flora Capitolina. Siccome i simboli che la distinguono per Flora sono aggiunti modernamente, così non esiterei molto a crederla una Polinnia, giacché, oltre la somiglianza del capo colla nostra, favorisce questo sospetto la somiglianza ancora dell’abito con quello della Polinnia Ercolanense.

« Del rimanente, per non dubitare della reputazione che godeva questa figura presso gli antichi, basta riflettere che una similissima, ma senza capo, è in Roma nel Palazzo Lancellotti, che un’altra è nel giardino Quirinale, e che nel nostro Museo è una statua, la cui testa è il ritratto di una matrona romana, tal quale anch’ essa alla Polinnia, sì nella composizione della figura che nel panneggiamento. Questo panneggiamento appunto è nella nostra statua con tal’ eleganza trattato, che può servire di esemplare, vedendosi trasparire al di sotto la mano della Musa come da un velo.

« Consideriamo ora la nostra Musa ne’ restanti monumenti più accreditati che ci offrono queste Dee dell’Arti; nel sarcofago Capitolino ninna più convenientemente potrà dirsi Polinnia che la quinta, la quale sta appoggiata col gomito ad una rupe, e così colla destra si sostiene il mento che non le sarebbe possibile di favellare. Simile situazione ben conviene alla Musa Silenziosa di Numa, eh’ era la nostra Polinnia, giacché non seguiremo in ciò l’erudito espositore di quel monumento che la chiama Erato, e dà il nome di Polinnia alla Musa dei pugillari da noi creduta Calliope, come abbiamo altrove accennato, e confermeremo in appresso.

« È da notarsi che la stessa Musa, nella situazione medesima, ‘ s’ incontra nel bassorilievo dell’Apoteosi di Omero, ed è la terza del secondo piano presso Apollo. Lo Schott, che 1’ ha creduta Calliope, non avea bene considerata la combinazione di questi dae bassirilievi, essendo, come abbiamo detto, Calliope assai riconoscibile dalle tavolette che ha nella mano in quello del Campidoglio. La particolarità di esser involta nel manto è ancor più chiaramente indicata nel bassorilievo Colonna.

« Che più? in simile attitudine esistono ancora due statue, una minore del naturale nel palazzo Lancellotti a Velletri, mancante però del capo; l’altra eguale al vero, moderna per altro dal mezzo in su, ma di eccellente scalpello, nella Villa Pinciana.

« Nel bel bassorilievo cilindrico rappresentante Paride ed Elena illustrato dall’Orlandi, sono tre Muse, assistenti all’azione, una delle quali è precisamente la stessa figura da noi determinata per Polinnia nel sarcofago Capitolino. Le altre due, una delle quali ha le tibie, T altra la lira, sono a mio credere Euterpe ed Erato. Queste Muse sono qui collocate come simboli delle attrattive, colle quali Paride s’ insinuò nell’animo della sposa di Menelao. Polinnia, eh’ è la Musa del Gesto e dell’Azione, è qui posta per le belle maniere di Paride, come in altri simili monumenti si vede Pito, ovvero la Dea della persuasione: le altre due indicano la sua perizia nella musica e nel suono di varii istrumenti, che possedeva egli in un grado così elevato, eh’ era in lui riguardata come un dono degl’Iddii.

« Della cetra poi parlano espressamente i Classici: fra gli altri Omero mette in bocca di Ettore questo rimprovero al germano:

Non varratti la cetra, e non i doni
Di Vener, non la chioma e il bello aspetto.
Quando con lui tu scenderai nel campo.

« E Nereo così minaccia Paride presso Orazio: — Invano feroce della protezione di Venere pettinerai la chioma, e dividerai sull’imbelle cetra versi grati alle donne. — Quell’epiteto grati alle donne, mostra con quanta ragione abbia lo scultore di quel bel bassorilievo rappresentata Erato colla cetra, come ministra della seduzione della bella Spartana.

« Questa figura di Polinnia in atto di sostenersi il mento colla mano, e tanto replicata, la stimo di molto antica invenzione, appunto per trovarsi nel bassorilievo dell’Apoteosi di Omero, nel quale tutte le altre Muse sono rappresentate assai diversamente dal consueto, non essendovene, come già notammo, alcuna colla maschera. L’ altra poi dalla quale è stata tratta la nostra, quella del Giardino Quirinale, quella del Palazzo Lancellotti, e una figura di Matrona del Museo Pio-Clementino, sarà forse stata opera di Filisco, dalle cui Muse sospetto copiata la nostra collezione.

« Nel sarcofago della Villa Mattei Polinnia è ancor simile a quella del Campidoglio, benché nell’esposizione venga determinata per Erato. Ma ciò che comprova mirabilmente la nostra opinione d’interpetrar sempre per Polinnia quella Musa così appoggiata al gomito, è una doppia sua immagine nel bassorilievo della Villa Mattei, dove alla sua figura, simile alla sovra descritta, si aggiunge una maschera ai piedi per simbolo delle pantomime teatrali, proprie di Polinnia. Siccome questo attributo disconverrebbe affatto a Calliope e ad Erato, darà sempre una maggior probabilità al nostro divisamente.

Urania. §

« Questa bella statua maggiore del naturale ed egregiamente panneggiata ci rappresenta la Musa celeste detta Urania, appunto dalla contemplazione del cielo, alla quale appartengono 1’ astronomia e r astrologia e tutte generalmente le matematiche. Il globo e il radio, o sia la bacchetta con cui i matematici indicavano nelle scuole loro le figure, sono i suoi distintivi, tanto conosciuti e tanto costanti, che il dipintore delle Muse Ercolanensi, che avea aggiunto a ciascheduna il nome e 1’ ufficio, stimò superfluo di sottoporre epigrafe alcuna a questa Musa come abbastanza palese dai suoi attributi.

« E vero che nella nostra statua cotesti simboli sono di moderno ristauro, ma altri non potevano essere quando fosse stata pur questa la figura di Urania: e che la statua a questa Musa si appartenesse, resta evidentemente provato da un’altra statua antica, precisamente la stessa colla nostra, la quale si ammira nel ripiano delle scale del Palazzo de’ Conservatori in Campidoglio. Ha questa sul ripiano, eh’ è tutto d’ un pezzo col simulacro, inciso a caratteri antichi Urania, che ne determinano il soggetto, e colla certezza medesima determinano la nostra, eh’ è precisamente un duplicato dell’altra in tutte quelle parli che nella Capitolina son genuine e non riportate.

« È stata una fortuna pel Museo dementino di poter possedere con tutta sicurezza la statua di Urania, la quale nella Collezione Tiburtina avevan l’ingiurie del tempo separata dalle compagne: conservavasi questo pregevol marmo a Velletri nel Palazzo Ginnetti dove, trasformato in quello della Fortuna, appena si potea riconoscere. Il Commissario dell’Antichità la ravvisò e fu presentata a Pio VI. Abbattuto perciò quanto vi era di modernosi rese alla statua la sua vera espressione, aggiungendovi un’ elegantissima ed antichissima testa proveniente dalla Villa Adriana.

« Non si dura fatica a riconoscere questa Musa negli antichi bassirilievi. Il globo e il radio la contrassegnano dappertutto: è perciò nell’Apoteosi di Omero la seconda nel secondo piano; nel sarcofago della Villa Mattei la prima in una fiancata, 1’ ottava in quello del Campidoglio. Se però la sua immagine non è stata in simili monumenti equivocata, non così è accaduto della sua statua colossale, che si vede nel portico del Palazzo Farnese verso strada Giulia, la quale o è stata lasciata dagli antiquarii indecisa, o si è traveduto in essa la Fortuna Reduce.

« Chiunque però l’esamini con riflessione la riconoscerà per la Musa dell’Astronomia, e perchè sul globo sono tracciati dei circoli che rappresentano quelli che gli astronomi hanno segnati in cielo, quali appunto si veggono sul globo di Urania nella medaglia della famiglia Pomponia, e in un’altra pittura dell’Ercolano; e perchè l’abbiglia mento di tal figura conviene perfettamente a una Musa. È coronata di fiori come la nostra Polinnia, ed è vestita di un abito teatrale a lunghe maniche, che abbiamo osservato esser la palla citaredica l’ortostadio, cinto di una gran fascia quale appunto veggiamo e nel protagonista tragico della Villa Panfili, e nella Melpomene del sarcofago Capitolino, e quel che è più decisivo, nella Musa colossale eh’ era già nel cortile della Cancelleria da me creduta parimente Melpomene.

« Rilevo con maggior forza quest’ ultima conformità perchè dalla somiglianza di queste due statue colossali neir abito e nella mole mi sembra facile a congetturare che sieno due delle nove Muse che adornavano forse l’antico teatro di Pompeo, nelle cui ruine si suppone trovata quella della Cancelleria, e dove facilmente si rinvenne anche la Farnesiana, come la vicinanza del sito ne può essere di qualche indizio. La fabbrica al cui abbellimento erano queste statue destinate fu forse la ragione perchè si vestisse anche Urania di un abbigliamento teatrale.»

Eccovi altre descrizioni che traggo da Filostrato.

Antigone.

— Gli Ateniesi avendo intrapresa la guerra pei corpi di quelli che caddero davanti Tebe, daranno qui sepoltura a Tideo, a Capaneo, ed ancora ad Ippomedonte e a Partenopeo.

Ma a Polinice figlio di Edipo sarà reso questo ufficio dalla sorella Antigone, essendo per questa effetto uscita di notte fuori del recinto delle mura, contro l’editto fatto da Creonte, che nessuno osasse di seppellirlo nella terra che egli avea tentato di render serva. Ecco ciò eh’ è nel piano. Morti sopra morti, cavalli accanto ai loro signori, e fango irabevuto di sangue e sudore, del quale la crudele Bellona tanto si compiace. Sotto la muraglia giacciono distesi i corpi dei capitani, grandi invero e membruti più che il comune degli uomini: ma Capaneo è pari a un gigante. Quanto a Polinice, ananch’ esso è di grande statura, ed in ciò a loro eguale. Antigone ne ha inalzato il corpo, il quale ella seppellisce aggiungendolo alla tomba di Eteocle, cercando con questo di riconciliare i due fratelli.

Ma che diremo noi dell’artifizio di questa pittura? Poiché la luna sparge non so qual debol luce non ancora abbastanza fedele alla vista; e l’infelice principessa, piena di orrore e di spavento, vorrebbe lamentarsi s’ella ardisse, abbracciando il caro fratello colle sue forti e robuste braccia. Ella rattiene non ostante le sue lacrime avendo paura di quelli che sono in sentinella. E quantunque ella desideri di guardare in qua e in là all’ intorno, tien pur l’occhio attentamente fisso su Polinice piegando il ginocchio in terra.

Ecco un tronco di melagrano nato nell’istante da se, il quale si dice esser stato piantato dalle Furie sul loro sepolcro, e se voi ne strappate il frutto scorrerà il sangue. Nè minore. meraviglia desta il fuoco della pira, il quale essendo acceso onde rendere le dovute esequie ai due corpi, non vuole essere di accordo nè mescolare le sue fiamme, ma le allontana l’una dall’altra, attestando la guerra e la querela che dura ancora in questa tomba. —

Andromeda.

— Questo non è il Mar Rosso, nè questi gl’Indiani: ma gli Etiopi, e un Greco nell’Etiopia, e il combattimento di questo che di buona voglia ha intrapreso per amore. Io penso che avrete udito parlare di Perseo, che dicesi avere ucciso nell’Etiopia un gran mostro del mare Atlantico, che si gettava sulla terra per divorare gli uomini e gli animali. Perlochè il pittore facendo caso di questo, ed avendo compassione di Andromeda per esser stata esposta a questa bestia crudele, il combattimento é qui terminato, la balena uccisa versa gran sangue, dal quale il mare é divenuto rosso. Amore slega Andromeda, dipìnto secondo l’uso coll’ali, ma più robusto ch’esser non suole. Egli è dipinto quasi senza possa per essersi molto adoprato, perché Perseo innanzi d’ intraprendere la pugna gli avea indirizzate le sue preghiere perchè egli volasse a combattere seco lui con l ‘orribile animale. Fu il Greco esaudito, ed arrivò per soccorrerlo.

Quanto alla giovinetta, ella é piacevole e gentile per esser di una tal bianchezza in Etiopia, ma più ancora per la sua beltà. Perchè di delicatezza ella vincerebbe una Lidia, di maestà un’Ateniese, di costanza, di grandezza, di coraggio tutte le Spar tane. È dipinta in un gesto conforme a ciò che succede, perchè ella sembra essere in dubbio, e godere con spavento e terrore. Ella riguarda di un lato dell’occhio Perseo, al quale ella invia di già un sorrìso, un’imbasciata. Egli giace sulla tenera erba spargendo gran stille di sudore, ed ha messo da parte la sua spaventevole Gorgone onde non converta in pietre il popolo che viene a visitarlo: ecco già dei pastori che gli presentano latte e vino eh’ egli riceve, e di cui si compiace. Certo questi Etiopi sono piacevoli a vedersi, benché di un colore diverso: ridono smodatamente, e sono in grand’ allegrezza, e quasi tutti si somigliano.

Perseo riceve cortesemente i loro doni appoggiato sul gomito sinistro, per distendersi a suo bell’agio e risposare il suo petto anelante. Egli guarda nel tempo stesso la giovinetta, lasciando ondeggiare al vento la sua clamide di porpora tutta sparsa di stille di sangue, che la bestia nel combattimento ha spruzzato contro lui. Vadano a nascondersi i Pelopidi in paragone delle spalle di Perseo, perchè essendo belle per sé stesse e di un vivo color sanguigno, la fatica le tinge ancora, le vene si gonfiano mentre egli anela. La vista di Andromeda ne accresce il moto. —

Lezione cinquantesimaquarta.
Urania sedente, Calliope. §

Dopo la illustrazione di queste altre due statue Yoi avrete avuto da Visconti tutte le notizie che sono necessarie a sapersi intorno alle muse; e fra poco, esaurita la Mitologia teologica, mi sarà grato il potervi trattenere sull’imprese onde l’ isterica è composta, e che formano la parte più amena e più interessante dei nostri studii.

Urania sedente. §

« Se minore dell’ altre Muse è questa eleganti:.^sima statua, le supera forse tutte in finitezza di lavoro ed in maestria di scalpello. Fu trovata nel fondo Cassiano di Tivoli dove le altre, e quantunque vi siano indizi per crederla ancor essa una Musa, comecché mancante delle braccia e del capo, pure non giudicherei che fosse stata destinata colle altre alla medesima collezione, e per la notabile diversità di grandezza, e per essere di un’altra ma niera di artifizio. Le altre Muse, bellissime nella invenzione e composizione del tutto insieme, aveano le teste incassate e amovibili, di lavoro più elegante e gentile, come apparisce dalle tre che si sono conservate: nel resto l’artifizio, quantunque maestrevole, non è perfezionato con egual diligenza. Son tali insomma quali possiamo figurarci delle belle copie di bellissimi originali. Questa all’incontro, il cui capo era in antico d’un pezzo stesso col rimanente, e tanto delicata nell’esecuzione, capricciosa e gentile nel paneggiamento, perfetta in ogni più piccola e men significante sua parte, che non possiamo far a meno di crederla un elegante originale. »

È stata ristorata per Urania e perchè mancava appunto l’Urania fra le muse Tiburtine, e perchè non mostra vestigio di aver avuto la cetra, o i pugillari, il volume, e perchè finalmente non avea segno che per Musa la caratterizzasse, determinandola al tempo stesso per una delle muse di Pindo lo star seduta come le altre sovra un sasso. Quello che è singolare in questa eccellente scoltura è il panneggiamento, sì per la maniera nobile e leggiadra in cui è trattato, sì per la qualità dell’abito che si è voluto rappresentare. È questa una tunica pieghettata, (grec) detta dai Greci come abbiamo altrove notato: ma ciò eh’ è veramente unico nel nostro marmo si è che circa la metà della vita varia il panno di essa, vedendovisi diligentemente segnata la cucitura, e che il drappo della metà inferiore è notabilmente più grosso della superiore, essendo quest’ultimo rappresentato finissimo e traspa rente. Di simil costume non trovo vestigio nè in autori nè in monumenti. Abbiamo, è vero, in Polluce una tonaca detta catonace perchè appunto avea le parti inferiori di pelle: abbiamo in Senofonte menzione di un’altra, ch’era soltanto pieghettata dal mezzo in giù. Questi esempi possono farci sembrare cosa strana simil varietà di drappo nello stesso pezzo del vestimento, ma non ci mostrano cosa dobbiamo pensare di quel che abbiamo sott’ occhi. Io vado pensando che siccome la tonaca dal mezzo in su è trasparente, sia fatta dal mezzo in giù di più grosso drappo non per altra ragione che per quella della decenza, osservata sempre dagli antichi nelle immagini delle vergini dee d’Elicona, come altrove abbiamo avvertito, onde sfuggire le taccio che incontravano presso i moralisti di quei tempi simili abiti trasparenti, che Coe, vesti di vetro, o lucide dai Latini eran dette.

« Notabili sono ancora i calzari della nostra Urania. Son questi del genere dei sandali, essendo stretti dai lacci sopra il nudo piede, che tengon ferma al di sotto la suola, la quale é di un’altezza non comune, e pari quasi a quella dei coturni tragici dei più lodati monumenti. Benché possa perciò competere ad essi il nome di coturni, mi sembra di riconoscervi piuttosto i sandali Tirrenici, così appunto descritti da Polluce quali li veggiamo scolpiti. Aggiunge il mentovato autore che di questi era calzata la Pallade di Fidia, onde non debbonsi avere per abbigliamento improprio di una Musa, che ol’ tre r essere come tale amica di Pallade, lo è maggiormente perchè presiede alle Scienze; ed è però congiunta con lei in una bella pittura dell’Ercolano. Merita però osservazione anche la testa riportata per essere antica. Si vede adorna sulla fronte di una penna, fregio non insolito delle Muse come trofeo della vittoria da loro ottenuta sulle Sirene, o come memoria del punito orgoglio delle sorelle Pieridi trasformate in piche per avere con loro voluto competere nella perizia del canto. Qualunque si abbracci di questi motivi, si escluderà sempre quello arrecato dall’Aldovrandi, che crede le penne poste sul capo delle Muse perchè fan volare i nomi degli eroi e le fantasie dei poeti. Queste e simili fredde allegorie non son più degne di presentarsi alla buona critica del secol nostro.

Calliope. §

« La Musa che in aspetto serio è immersa in profonda meditazione, appoggia sulle ginocchia le tavolette incerate, dette da’ Latini pugillares e pinacides dai Greci, e sta colla destra alzata, che reggeva anticamente lo stilo, non so se disposta a segnare sulla cera le note dei suoi pensieri, o disposta a rivolgerlo per cancellare il già scritto, è senza dubbio la musa della Poesia. In questa attitudine appunto Laide incontrò nei giardini di Corinto il tenero Euripide, che stava componendo dei versi: e così forse il più privilegiato allievo di Calliope reggendo i pugillari sulle ginocchia, come canta egli stesso, sulle rive del paterno Mela scriveva quei carmi, che dovevano esser l’incanto di tutte le generazioni avvenire. Se dunque da Omero fin a Orazio i poeti han costumato di registrare i loro versi su di simili tavolette, che, colla facilità che offrivano di cancellare lo scritto, animavan l’autore a quei miglioramenti e a quelle mutazioni, senza le quali non avvien quasi mai che possa scriversi cosa la qual meriti di esser letta, nessun simbolo più adattato di questo potrà darsi a Calliope, che è la musa propriamente della Poesia, e particolarmente della poesia Epica, ende fu riputata la compagna dei re e la nudrice di Omero. Questo genere di poesia si è dovuto esprimere cui pugillarì, e perchè appunto Omero, eh’ è il maestro dei versi eroici, dice di averli scritti sulle tavolette, e perchè la lirica e la drammatica, come quelle che debbono cantarli o rappresentarli, possono distinguersi con altri segni che più decisamente le determinino, come la lira, la cetra, la maschera: alla musa della poesia Epica cui convien solo l’esser recitata, non poteano darsi che i pugillari sui quali si compone, o il volume su cui si registra o si legge. Il volume le hanno assegnato anche i pittori di Ercolano, e hanno avuto perciò il bisogno dell’epigrafe: Calliope, il poema, per distinguerla da Clio, che ha pure in quelli intonachi lo stesso attributo. Più avvedutamente r artefice delle nostre Muse, o secondo l’uso che osserviamo più comune nei monumenti, per non confondere colla musa della Storia quella dell’epica poesia, ha dato il volume a Clio, a Calliope le tavolette incerate. Così oltre il determinare le sue figure senza iscrizione, ufficio proprio delle arti del disegno, ha dato un utile insegnamento ai giovani poeti, mostrando loro quanto più di riflessione e di ponderazione richiegga lo scrivere ciò che in versi si vuole esporre che ciò che in prosa.

« Nè solo ha espresso ciò nel dare alla sua Calliope i pugillari e lo stilo, ma l’ ha indicato nell’aria attenta e pensierosa che ha saputo dare a questa figura, per la quale merita di essere con meraviglia considerata da chiunque ama le belle arti: essendo questo il lor più sublime grado di scolpire l’anima e di rappresentare il pensiero.

« Il simbolo dei pugillari è stato attribuito a Calliope in tutti i bassirilievi più nobili delle Muse: li ha la seconda Musa del primo piano dell’Apoteosi di Omero, non osservati però dagli illustratori di quel celebre marmo: li ha la Calliope scolpita nelle fiancate del sarcofago Matteiano, come ve gli ha ravvisati il chiarissimo signor Abate Amaduzzi espositore di quel monumento, e con scelta erudizione, tratta da vetuste lapidi, gli ha recentemente illustrati: li ha nel superbo bassorilievo Capitolino la settima Musa, che per Polinnia è stata descritta senza considerargli i pugillari che ha nella manca: in una pittura di Ercolano è questa Musa così parimente rappresentata; e il quadro stesso, per torre ogni dubbio, ci offre la figura di un Poeta coronato di edera e col volume fra le mani.

« Questo bel simulacro è conforme a quello della Calliope ch’era nella Collezione della regina Cristina, e che non è già perita come sopra abbiamo avanzato, ma sì conserva tuttora nella deliziosa Villa d’Aranjuez. I simboli che sono in quelle sono moderni, e perciò diversi dai simboli della nostra statua. Nel resto, simile è la positura della Musa, e simile l’elegantissimo panneggiamento.

« Siccome però nello spiegar queste statue abbiamo fatto talvolta menzione delle Muse che veggonsi nelle medaglie della famiglia Pomponia, giova qui riassumerle tutte, e distinguere in ciascuna le diverse Muse.

« Il Begero lo ha tentato, ma non ha seguito altra scorta che quell’epigramma dell’ Antologia, riportato da noi nella Clio, che abbiamo già notato aver confusi gli antiquarii, e che dissente dalle più ricevute opinioni.

« Per farmi meglio comprendere, seguito lo stesso ordine in cui sono disposte nel rame del Tesoro Brandeburgico. La prima moneta offre la testa d’ Apolline da una parte, dall’ altra 1’ Ercole Musagete coli’ epigrafe Ercole delle Muse, e su questa non cade alcun dubbio. La seconda presenta al dritto la testa di una musa coronata, come tutte le seguenti, di alloro, e che ha nell’area un volume coi suoi lacci svolazzanti: al rovescio si vede una figura in piedi collo stesso volume. Questa, secondo eh’ io credo, è Clio; secondo il Begero, è Calliope. Potrebbe anche in questa figura esprimersi l’una e l’altra, giacché il volume è simbolo, ed anche comune, nelle pitture Ercolanensi, e nelle medaglie della gente Pomponia otto Muse soltanto veggonsi impresse. La terza ha nell’area dietro la testa il plettro, come ha osservato l’Havercampo, e al rovescio una Musa che suona la cetra retta da una colonna, ed è prohabilmente Erato; secondo il Begero però è Clio. La quarta è la Musa Urania: ha un astro presso il capo nell’area del dritto, e nel rovescio accenna col radio i circoli segnati su del globo che vien sostentato da una specie di tripode. La quinta moneta rappresenta una Musa senza verun simbolo, colla destra involta nel manto, e dalla parte del dritto è una corona d’alloro nell’area. Questa, secondo me, è Polinnia; Erato, secondo il Begero. La laurea, propria di tutte le Muse, è qui data a Polinnia, perchè appunto senza particolar distintivo suole negli antichi monumenti effigiarsi. La sesta moneta ci dà evidentemente Talia, e lo dimostra l’aratro eh’ è nell’area, emblema dell’Agricoltura a cui presiede, dagli eruditi non osservato, egualmente che la maschera comica che ella sostiene. La clava e la maschera tragica fanno ravvisare nel settimo tipo Melpomene, Euterpe detta dal Begero, la quale ha lo scettro dietro la testa nell’area del dritto, che troppo ben si compete alla musa della Tragedia, e che si dà agli attori tragici dallo stesso Polluce. L’ottava moneta ci presenta Tersicore musa della Lira, propriamente detta, la cui origine si vede indicata nella testuggine espressa nell’area del dritto, mentre al rovescio è rappresentata questa dea della Lirica in atto di suonare il suo favorito istrumento. È detta dal Begero Melpomene, ovvero Polinnia. L’ultima è la musa Euterpe, chiamata Tersicore dal Begero, con due tibie decussate nell’area del dritto, e con una sola in mano nel tipo del rovescio.

« Le ragioni di queste denominazioni sono le medesime da noi accennate nello spiegare ciascuna Musa, e fondate sul confronto degli scrittori e dei monumenti, e principalmente nelle immagini delle Muse fornite di una greca epigrafe, le quali si ammirano fra le tante erudite reliquie dell’antica Ercolano, che il Vesuvio sotto le sue eruzioni ha conservate per tanti secoli, per farne poi all’ età nostra ed al sovrano di quella bella parte d’ Italia un dono splendido e inaspettato. »

Ed ora udite altre descrizioni di antiche pitture che io traggo da Filostrato.

Arianna.

— Che Teseo ingratissimo contro Arianna l’abbandonasse in Dia, isola, quantunque ciò non per ingratitudine di lui, ma per volontà di Bacco pensino alcuni che sia avvenuto, avrai forse udito ancora dalla nutrice. Poiché esse esercitate in tal genere di favole, le accompagnano, quando vogliono, ancora col pianto.

Non avrò dunque bisogno di dirti che Teseo è quello che è nella nave, Bacco quello eh’ è in terra, nè a te come ignaro dirò di riguardare la fanciulla come giaccia sui sassi in dolce sonno sepolta. Non è abbastanza lodare un pittore in quelle cose, nelle quali ancora un altro possa essere commendato. Infatti dipingere Arianna bella, bello Teseo non è difficile a veruno: di Bacco ancora vi sono innumerabili forme in che può esser ritratto, delle quali se alcuno arriva alla minima, ha fatto lo dio, poiché i corimbi tessuti in serto sono indizio di Bacco, ancora che l’opera sia inetta, e il corno nato nelle tempie accusa Bacco, e pure la pardalide, o pelle di pantera, è manifesto segno dello dio. Ma qui Bacco non è dipinto con altro simbolo che con quello dell’Amore. Poiché la florida veste, i tirsi e la nebride, come inopportuni in questa circostanza, son rigettati.

Nè le Baccanti si servono di cimbali, nè i Satiri di tibie presentemente che lo stesso Pane frena il suo saltare perchè non turbi il sonno della fanciulla.

Bacco vestito di porpora, coronato di rose, si accosta ad Arianna, ebro di Amore, come dice Anacreonte di quelli che amano smisuratamente.

Teseo poi ama, ma il fumo di Atene, e può dirsi che Arianna non abbia conosciuta, nè innanzi, nè dopo, e che si sia dimenticato del Laberinto e del motivo per cui navigò in Creta: tanto egli riguarda quelle cose che sono innanzi la prora.

Rimira anche Arianna, o piuttosto il sonno di lei. Il petto è nudo fino al bellico: supino il collo e delicata la gola: il fianco destro é tutto scoperto, l’altra mano giace nella veste perché il vento non sveli niente onde si vergogni. Che soave respiro, o.Bacco: tu baciandola, ne dirai se sappia di pomi o di vite. —

Antiloco.

— Che Achille amasse Antiloco voi potete averlo rilevato da Omero, quando lo vedete il più giovane di tutti i Greci, e pensate a quel mezzo talento d’oro di cui gli fece dono nei giuochi.

Da lui pure gli fu annunziata la morte di Patroclo, e gli fu impedito di uccidersi sul corpo del diletto amico.

Queste sono le pitture di Omero, ma il soggetto di questa è Mennone, che venuto di Etiopia uccide Antiloco che difendeva Nestore suo padre, ed il terrore che spaventa i Greci, perchè avanti all’arrivo di Mennone stimavano una favola i Negri.

Ora avendo i Greci ricevuto il corpo, i due Atridi si mettono a piangere Antiloco; con essi il re d’ Itaca, il figlio di Tideo e tutti gli altri parenti ed amici. Ulisse è ben facile a conoscersi dalla sua fìsonomia severa e sveglia; Menelao dalla dolcezza del suo viso; Agamennone dalla sua divina presenza: quanto al figlio di Tideo una libertà generosa lo esprime.

Voi ben discernerete ancora Aiace di Telamone alla sua terribil fierezza, e quello di Locri alla sua agile velocità. I soldati poi che gli sono tutti intorno piangono il giovinetto appoggiandosi coll’uno coll’altro piede sopra l’aste fissate in terra. Ma non crediate di distinguere Achille dalla sua lunga chioma perchè egli se l’è recisa dopo la morte di Patroclo; non ostante la sua bellezza ve lo mostrerà, la sua grande ‘ statura e i suoi rasi capelli. Presentemente egli piange prostrato sul petto di Antiloco promettendogli, come io credo, magnifiche esequie, e forse l’armi e la testa di Mennone, ed egual vendetta finalmente alla memoranda che fece sull’uccisore di Patroclo.

Mennone è non ostante in piedi fra i suoi Etiopi schierati in battaglia: aspro e terribile, la lancia in pugno, vestito di una pelle di leone, con un volto lieto e risoluto getta un sorriso fellone contro Achille.

Contempliamo dunque Antiloco, al quale il primo pelo vano della barba comincia a spargersi sul volto in qua in là, ed a distendersi la bionda chioma. Le gambe sono svelte e leggiere, e tutto il corpo ben proporzionato a una gran facilità nel corso. Il sangue dall’altra parte mostra una vivacità quale ha il colore sparso sull’avorio in quella parte ove il ferro si è immerso nel petto. Ecco giace qui il misero giovinetto niente tristo e somigliante a un morto: al contrario par che sorrida e porta nella sua faccia impresso il contento di aver salvata la vita a suo padre. Egli è morto di un colpo d’asta: l’anima ha abbandonato il viso, nel quale il dolore della natura è stato vinto dal piacere d’un’ azione sì bella. —

Lezione cinquantesimaquinta.
Le Grazie. §

Quali dee hanno maggior diritto di succedere alle Muse che le Grazie, ch’ebbero fra gli antichi comune il tempio con loro, e che dispensatrici sono anch’esse di tanti doni agli uomini, ed alle quali ninno è in obbligo di sacrificare più che l’artista?

Disputata è pure l’origine di queste amabili divinità. Esiodo nella sua Teogonia le vuol nate da Eurinome figlia dell’Oceano e da Giove. L’ autore degl’Inni che si attribuiscono ad Orfeo non Eurinome, ma Eunomia dà loro in madre. Antimaco antichissimo poeta loro dà in genitori Egle ed il Sole: r opinione più comune le vuol nate da Venere e da Bacco.

Discordia vi è pure nel numero: la maggior parte dei poeti le ha fissate a tre, e furono dette Egle, Talia ed Eufrosine. Gli Spartani però n’ adoravano due sole col nome di Olita e di Penna: gli Ateniesi combinavano con essi nel numero e non nel nome, poiché le chiamavano Auxo ed Egemona, Pito, sia la dea della Persuasione, fu annoverata da Pausania fra le Grazie, ed Egle la più giovine di tutte fu data in moglie a Vulcano. Consentono tutti gli scrittori nel farle compagne indivisibili di Venere.

Secondo Pausania erano in antico rappresentate vestite; e tali solevano, secondo esso, presso gli Eliani vedersi. Il loro abito, continua egli, era dorato: la faccia, le mani ed i piedi di marmo bianco: una teneva una rosa, l’altra un dardo, la terza un ramo di mirto. Bupalo pure le fé’ vestite a Smirne, e quel che è più, furono nell’Odea così dipinte dal primo pittore dell’antichità, da Apelle. Pitagora in Pergamo, e Socrate figliuolo di Sofronisco, nelle statue che fece in Atene, praticarono la stessa maniera.

Noi vedremo fra poco come si trovano nei monumenti che ne sono rimasti. Giova intanto di sapere che sino dai tempi di Pausania vi era 1’ uso di dipingerle ignude, forse perchè essendosi negli ultimi tempi piegata la favola all’allegorie volevano significare che queste amabili divinità non abbisognano di alcuno ornamento, e che a coloro ai quali elleno sono state liberali dei loro doni basta la sola natura per piacere.

Certo è che gli antichi moralizzavano su queste divinità, come fra l’altre cose lo mostra l’uso singolare di collocare le Grazie in mezzo ai Satiri più sozzi, dei quali i simulacri, qualche volta voti, contenevano queste divinità senza le quali la bellezza perde le sue attrattive, la saviezza il mezzo di giovare, e la scienza allontana dal suo santuario coloro che potrebbero innamorarsi del vero.

A così care dee non doveano per certo mancar templi. Eteocle re d’Orcomene fu il primo ad erigerne ed istituire loro un culto particolare: e la fama grata sparse che fosse suo padre. Elide, Delfo, Perga, Perinto, Bisanzio, Paros una delle Cicladi, vantano, secondo Pausania, templi alle Grazie consacrati.

Narra Apollodoro che Minosse sacrificando alle Grazie nell’ultimo dei luoghi mentovati udì la morte del tìglio, ed incontanente gettò la corona e fé’ cessare del flauto il suono. Quest’ avventura stabilì in Paros 1’ uso di sacrificare senza flauto nè corona.

Generalmente i templi sacri- a Venere e ad Amore, e quelli pure di Mercurio, erano ancora alle Grazie dedicati, per indicarci che da esse deve essere accompagnato 1’ amore, la bellezza e 1’ eloquenza. La Primavera era la stagione consacrata a queste dee, onde Orazio disse: La Grazia con le Ninfe e con le due sorelle ardisce adesso nuda danzare. — S’invocavano nei conviti, e con tre brindisi era costume di onorarle.

Mille belle allegorie possono da queste divinità rilevarsi. Avendo gli Ateniesi prestato soccorso agli abitanti del Chersoneso, questi ultimi vollero eternare la memoria del benefizio erigendo un altare, nel quale era scritto: Consacrato a quella fra le Grazie che presiede alla riconoscenza. E certamente per niun altro attributo meritarono dagli antichi maggior venerazione.

Osserva Macrobio che le statue di Apollo portano nella destra le Grazie, nella sinistra l’arco e le freccie, perchè la sinistra che fa il male è più lenta, e la benefattrice che dà la sanità è più pronta dell’altra. Crisippo così ragiona nel libro di Seneca sui benefìzii; «Ora dirò perchè le Grazie sono tre, perchè sorelle, perchè colle mani unite, perchè ridenti, giovani, vergini, con veste sciolta e trasparente. Vogliono alcuni che una dia il benefìzio, l’altra lo riceva, la terza lo renda. Pensano altri che vi siano tre generi di benefizi: di quelli che gli meritano, di quelli che gli rendono, di quelli che gli ricevono e gli rendono. Ma in qualunque maniera si giudichi di queste cose, che n’ importa di questa scienza? Perchè quelle mani unite fra loro come se danzassero? Perchè un benefìzio passando per diverse mani ritorna sempre a chi lo dà, e perchè tutta la sua bontà se ne perde se è interrotto. Sono ridenti i volti delle Grazie, perchè così sono quelli che fanno il bene e quelli che lo ricevono. Giovani, perchè non deve invecchiare mai la memoria dei benefìzii. Vergini, perchè devono essere incorrotti, sinceri e santi in tutto. Coir abito sciolto e trasparente, perchè il bene perde il merito quando uno vi è costretto, e perchè bisogna che il benefizio si vegga.»

Ma lasciando questo vasto campo delle illusioni, che può trarre la morale da queste dee, ragionerò di quello che più v’ interessa, cioè degli antichi monumenti nei quali sono rappresentate.

Le Grazie compagne di Venere non si trovano vestite che sull’ altare etrusco così spesso citato, che è nella Villa Borghese. Sono effigiate di tutto rilievo, ma le teste ne sono moderne. Un marmo pure di tutto rilievo, ma di mediocre scultura. come pensa Visconti, in Siena le rappresenta. Ma il gruppo più bello e più conservato delle Grazie è quello del Palazzo Ruspoli.

Sopra una pietra incisa, rammentata da Winkelmann nei suoi Monumenti inediti, si vedono due Grazie che a Venere accomodano la chioma. Può essere illustrata da questa delicata immagine di Claudiano, che ho espressa in questi versi:

Cosi d’intorno a Venere
Stan l’Idalie sorelle:
Una di largo nettare
Le bionde chiome asperge;
L’ altra alle treccie erranti
Dà legge, e le divide;
Le compone la terza
In lunghe anella e ride.

Al gruppo del Palazzo Ruspoli servono di sostegno due vasi collocati alle due estremità, simili a quelli che sogliono accompagnare le statue di Venere. A ciò mirava, come è stato osservato dal prelodato Visconti, 1’ autore dell’epigramma sulle Grazie, che leggesi nell’Antologia, quando finse che Amore rubasse loro le vesti mentre che si lavavano.

Tre donzelle nude che adornano il piede di un vaso nella Villa Borghese sono forse le immagini delle Grazie. Nelle medaglie greche vedonsi comunemente vestite, e in quelle dei Germani presso Vaillant sono tutte volte di fronte.

Quando si cominciò a rappresentare le Grazie nude non vi ebbe sovente fra esse e le tre Parche (che come le tre Grazie si tengono per le mani su qualche medaglia) altra differenza che il vestito di queste ultime. In un vetro riportato dal Fabbretti sono rappresentate in forma delle tre Grazie, tre donzelle coi loro nomi scritti, e pensano gli antiquari: che le teste pure delle tre Grazie del Palazzo Ruspoli siano ritratti fondati sulla particolare acconciatura di capelli. Non è nuovo il rappresentare i mortali negli Dei, e sapete che il più scellerato fra gì’ imperatori romani fu ritratto nelle sembianze di Apollo.

In un bel cammeo del cavalier Wortley l’ultima Grazia a destra ha un berretto simile a quello di Vulcano. Questa è probabilmente Aglaia o Egle, la più giovine delle Grazie, che, come vi ho accennato, i mitologi fanno moglie di Vulcano. Simil berretto sospetta il Visconti che fosse in una gemma pubblicata dall’Agostini, ed osserva che nel caso che fosse un elmo, come appare dal disegno, non disconviene dare a una Grazia l’attributo della dea della Sapienza, giacché da loro proviene, secondo Pindaro, se un uomo è saggio, se leggiadro, se dovizioso.

In un bassorilievo del Museo Pio dementino pubblicato da Visconti si veggono le Grazie con Esculapio e Mercurio. Mercurio, egli dice, scorge mi ad Esculapio un uomo barbato vestito di pallio, che rende grazie al Nume con un ginocchio a terra e le mani alzate. I due Numi si riconoscono ai loro simboli; lo scultore, perchè non sembrasse preghiera ciò eh’ è ringraziamento, ha introdotte appresso Esculapio le Grazie, una rivolta di schiena, e l’altre due di fronte, e tutte nude, in quella guisa appunto che tante statue, bassirilievi, gemme e pitture ce le rappresentano. I loro capelli sono leggiadramente rannodati e stretti da nastri, nè altro ornamento hanno sul capo. Le mani delle due estreme sono corrose dal tempo, nè conservano i consueti attributi del ramoscello e delle spiche di grano. Pensa a ragione Visconti che sia una tavola votiva offerta da un convalescente al dio della Medicina, fondato sull’analogia che colla gratitudine hanno le dee. E a questa, soggiunge, alludono le tre Grazie scolpite in un bassorilievo Capitolino, •l’unione delle quali coi fonti e colle Naiadi, al cui onore è dedicato il monumento, non era stato finora dilucidato. Nè altra relazione hanno le tre Grazie posate sulla patera, che ha in mano Gi anone in una medaglia inedita di Faustina minore della Collezione Albani, offerta forse alla dea per ringraziamento della fecondità di quell’Augusta.

Eccovi due altre pitture antiche da Filostrato descritte.

Aiace Locrense.

— Questi scogli che s’avanzano sopra il mare, che loro intorno spuma, questo guerriero magnanimo che riguarda fieramente e con una certa audacia contro le onde, è Aiace Locrense, di cui la nave dal fulmine è già stata colpita. Egli essendosene slanciato disperatamente mentre tutto ardeva si mise a combattere coi flutti percotendoli, fendendoli coll’intrepido petto. Finalmente avendo guadagnato le Gire, (scogli che s’inalzano sul mare Egeo) vomitava arroganti bestemmie contro gli stessi numi. Però Nettuno terribile ed irritato sopraggiunge, pieno di tempeste e di procelle gli irti capelli. Già soleva combattere in compagnia di Aiace contro 1 Troiani (perchè savio e modesto risparmiava allora gli Dei, e lo incorraggiva allora col suo scettro) ma adesso ch’egli è oltraggiato, impugna il suo tridente, e lo scoglio che Aiace sostiene sarà scosso onde cada col bestemmiatore.

Ecco quello che vuol dir la pittura. Ma ciò che è evidente si è questo mare spumante e le rupi cavernose che ne sono bagnate incessantemente. Quindi una larga fiamma accresciuta dal vento, onde il foco serve di vela al naviglio fuggente. Aiace ritornando in se, come uscito dalla ubriachezza, contempla il mare qua e là senza guardare nè al legno, nè verso la terra; e meno teme l’animoso Nettuno che viene contro lui, ma persiste sempre nelle ardimentose minacele. Il vigore non ha ancora abbandonate le sue forti braccia: alza la testa come soleva contro Ettore e contro i Troia » ni. Ma Nettuno 6ol suo tridente abbatterà con lui gran parte dello scoglio; il resto delle Gire, finché vi sia mare, starà immobile contro tutti gli urti dello Dio. —

Mennone.

— I soldati che voi vedete qui sono di Mennone: ma non hanno armi perchè si propongono di fare l’esequie del più grande fra loro, che ha ricevuto un colpo d’asta nel petto. Vedendo qui questo largo e spazioso piano tutto coperto di tende e di padiglioni, munito a guisa di accampamento, e una città ben cinta di mura, io non so perchè non sarebbero questi gli Etiopi e quella Troia.

Certamente colui che si piange è Mennone figlio dell’Aurora, il quale essendo arrivato por soccorrere i Troiani fu ucciso da Achille, benché fosse di statura niente a lui minore. Infatti guardate quali immense membra sono stese per terra: che folta chioma nutriva per sacrificarla al Nilo, perchè questo fiume, quantunque scorra nell’Egitto, ha nell’Etiopia i suoi fonti. Ah quanta forza e vigore mostrano i suoi occhi benché spenti dalla morte I Mirate la lanugine della sua barba che appena gli fa ombra al volto; ben ciò conviene all’età in cui fu ucciso. Voi non direte che Mennone fosse nero perchè questa pura e nativa nerezza eh e in lui ha un così grato colore. Gli Dei nonostante sono tutti mesti e pensosi; l’Aurora che piange a calde lacrime il suo caro figlio contrista il Sole, e prega la Notte che si affretti di venire più presto del solito per arrestare l’esercito, onde ella possa togliersi il corpo col consenso di Giove.

Ecco lo trasporta già: essendo la premura che si dà espressa nell’estremità del quadro. La sepoltura di Mennone non si trova. Solo si vede in Etiopia trasformato in una pietra nera nelle sembianze di un uomo seduto: ma quando il raggio del sole ne percoterà la bocca, quasi cetra da plettro percossa manderà una voce, che consolerà il giorno coll’artifìcioso linguaggio. —

Lezione cinquantesimasesta.
Esculapio. §

Esculapìo, secondo la più comune opinione, fu figliuolo di Apollo e di Coronide, come attesta l’autore degli Inni ed Omero attribuiti. Lasciò scritto Pausania che Flegia padre della Ninfa, andando nel Peloponneso, seco la conducesse, non consapevole dell’amore del nume. Ella nei confini di Epidauro partorì Esculapio, il quale fu esposto in un monte, che da questo evento fu chiamato Tittione, quantunque altri rammentino che ciò nei campi Telpusi avvenisse. Ivi è fama ohe il fanciullo fosse nutrito dal latte di una capra custodita dal cane d’una greggia. Il pastore si avvide della mancanza; ed andando in traccia dello smarrito guardiano trovò il cane, la capra, il fanciullo. Divina luce -vide scintillare dal volto di lui, e il grido di questo prodigio si sparse per quelle regioni. Si vuole che questo aio di Esculapio fosse un bastardo di Arcade, e che presto pure si diffondesse l’opinione che il nume di poco nato guariva da ogni malat tia. Trigone fu la nutrice dello dio, ed il centauro Chìrone lo educò nelle arti mediche, per le quali tanto celebrato divenne. Credesi che il primo a risentire gli effetti della sua scienza salutare fosse un certo Asole di Epidauro tiranno, e che in memoria del benefìzio fosse aggiunto il nome di lui al dio, che prima Apio era detto. Io penso che il nome di Esculapio derivi dagli effetti che produceva la medicina semplice degli antichi, cioè di acquietare i dolori, non riducendosi allora questa parte delle umane cognizioni, divenuta col tempo così vasta, che alla cura delle ferite.

Quantunque Esculapio sia il dio della Medicina, non perciò il primo esercizio ne fu a lui attribuito. Abbiamo osservato che fu istruito, secondo Pindaro, da Chirone l’inventore dei rimedi, quantunque questo vanto sia da alcuni ascritto ad Apollo: ed Eschilo ne dia la gloria a Prometeo, Omero a Peone. Ebbe Esculapio in moglie Epione, e n’ebbe Podalirio rinomato per la medicina, e Macaone, che militò con gli altri Greci a Troia.

Igia, dea della Salute, che con lui si trova sempre unita nei monumenti, secondo alcuni ne fu figlia, e secondo altri moglie.

L’eccellenza nell’arte costò, secondo la favola, la vita ad Esculapio, sol dopo morte divinizzato, poiché nasceva da madre mortale. Ippolito essendo ritornato in vita per la perizia di lui, Giove si sdegnò tanto che gli uomini potessero trionfare della morte, che uccise Esculapio, da Apollo suo padre vendicato e pianto.

Si celebravano nell’Arcadia in un bosco, ove eredevasi il sepolcro di Esculapio, i giuochi ogni cinque anni, ma i templi più famosi del nume erano in Pergamo e in Tetrapoli. Narra Strabone che in questa ultima città, situata fra i Carii e gl’Ionii, era il mentovato edifizio sempre ripieno di ammalati, e le pareti coprivano innumerabili tavolette, ove erano scritte le malattie e i nomi di quei creduli, che stimavano essere stati coll’aiuto del nume guariti.

Il culto di Esculapio fu portato in Asia da Epidauro, secondo riferisce Pausania nelle Corintiache, dove poco prima, in Titano, descrive la statua di questo dio velata di un gran panno (di modo che si vedeva solamente la faccia, le mani, i piedi) che pare però differente dal solito pallio, che si vede nel rovescio del medaglione di Vero pubblicato dal Buonarotti, e che vien descritto da Tertulliano, per ornamento delle statue di Esculapio.

In quanto al bastone col serpente avviticchiato, racconta Igino che Esculapio se ne servisse per ammazzare il serpente, e vien così descritto da Apuleio: — Diresti che del dio medico nel bastone, che porta nodoso per rami mezzo potati, fosse attaccato un serpente generoso, con lubrico ravvolgimento. — Ciò veniva preso per simbolo degli aiuti che alla natura umana deve dare la medicina, particolarmente con i preservativi, onde si vede solo nelle monete di Coo città a lui consacrata; e Pausania dal serpente avviticchiato allo scettro, in mano a due statue del bosco di Trofonio, dice che da quello avrebbe qualcheduno congetturato che fossero di Esculapio e della Salute.

Era sovente questa dea unita insieme con Esculapio, come si vedeva in Atene nella via per andare alla fortezza, in Corinto vicino al ginnasio, in Titane medesimo, in Argo, in Beea, in Olimpia, in Egio, in Megalopoli, come si può vedere da Pausania, e in Roma nel tempio della Concordia, come viene da Plinio riferito. E la ragione si era, perchè, secondo l’opinione dei Fenicii e dei Greci, Esculapio altro non era che l’aria, dalla quale proviene Igia, sia la buona salute: onde Apollo era fatto padre di Esculapio, perchè il Sole con i suoi annuali giri comunica la salubrità all’aria. Alla Salute era ancor dato il serpente per l’attenenza con Esculapio: e lo facevano in atto di dargli da mangiare, per alludere ai serpenti in varii templi di Esculapio nutriti, ai quali coloro che sacrificavano alla Salute avranno portati i cibi e le mole dei sacrifizii (le quali eran forse per questo chiamate generalmente Igia) per dar loro da mangiare; e secondo Macrobio, riferendosi questi due numi al sole e alla luna, che conferiscono alla salute dei corpi, sono forse i serpenti fatti per simbolo di quei due principali pianeti, il moto dei quali, siccome delle stelle tutte, veniva, al riferire di San Clemente Alessandrino, espresso dagli Egizi col ieroglifico della serpe. Ma in quella maniera che veniva attribuita la Salute per figliuola ad Esculapio, per la connessione del nome con gli effetti e cause della medicina, così tutto il parentado e discendenti por tano nel nome la stessa allegoria: onde gli diedero per nutrice Trigone, forse per essere il cibo del grano più salubre di tutti; e per moglie Epione, che secondo altri gl’insegnò la medicina, per significare i medicamenti lenitivi; sicché dall’autore che va sotto il nome di Orfeo, viene invocato Epiodoro, cioè che dà le cose lenitive: e tra i figliuoli vi furono Podalirio, Macaone, laso, Panacea, e la Salute stessa, i quali tutti, secondo scrive lo scoliaste di Aristofane, son presi dal sanare; a’ quali Snida aggiunge Acesio Sanatare, di cui fa menzione Pausania insieme con Evamerione, che significa esser di buona salute e complessione, e dice essere una medesima cosa con Telesforo e Alexanore che vuol dire Scacciatore dei mali.

Plinio annovera per figliuola di Esculapio anche Egle, cioè risplendente per il sano colore delle carni; e Marino poeta de’ Lupercali dà per figliuola di Esculapio anche Roma, che significa forza, che i Romani chiamarono valetudine.

Era tutta questa comitiva di Dei fatta molte volte insieme, quando in più, quando in minor numero, secondo la superstizione dei particolari e il sentimento degli artefici, come dai precitati luoghi di Pausania e Plinio si conosce: ma con verun altro non fu fatto così spesso Esculapio che con la Salute, e moltissime volte ancora con quel piccolo Telesforo, che Pausania dice esser così chiamato da’ Pergameni, Acesio da quei di Epidauro, e Evamerione in Titano: onde si legge a tutti e tre un iscrizione in Verona; e Aristide dedicò un tripode a Giove Esculapio, a ciascun piede del quale vi era un’immagine di questi tre Dei.

Telesforo in una medaglia dei Nicei vedesi con la penula cuculiata, suo abito particolare, e così si scorge nel medeglione pubblicato dal Buonarroti. Pare che gli antichi abbiano voluto esprimere in lui un dio tutelare della convalescenza, poiché quanto al suo nome, significa condurre a fine i mali. E perchè in questa si ringiovanisce, e nel tempo stesso siamo più deboli, gli antichi hanno dato a questo nume l’abito mentovato, proprio presso loro dei più teneri giovinetti, ed atto a difenderli dal rigore dell’aria.

Infatti, in un bassorilievo pubblicato dallo Sponio si vede un fanciullo colla penula cuculiata, di cui è rivestita la figura del mese di Dicembre in un antico calendario: questo abito per una devota allegoria fu dai monaci adottato.

In molte statue vedesi esser chiuso da per tutto; in quella di Telesforo è fatto in forma di un piccolo piviale da potersi serrare, e accostare affatto davanti.

Nel medaglione del Buonarroti è aperto dalle parti solamente, a foggia di un certo mantello portato ancora dai navicellai.

Una statua del nume così illustra il celebre Visconti:

« D’Esculapio dio della Medicina e d’ Igia sua figlia dea della Salute parlano tanto i mitologi e gli antiquarii che non occorre qui ricopiarli, nè aggiunger nulla sulla patera, sul bastone, e sul serpe, lor simboli, nè sulla giustizia di quest’ allegorica figliazione. Raro è bensì questo gruppo trovato nell’antico fòro di Preneste, per esser l’unico in marmo di tutto rilievo che ci offra unite queste divinità assai spesso congiunte in gemme, in iscrizioni, in medaglie e in bassirilievi.

« Dico l’unico, perchè di quello di Firenze nella Galleria non resta che la statua di Esculapio e una sola mano della Salute. In quello ambedue le figure erano stanti: nel nostro la figlia è in piedi, il padre siede: questa diversità rende il nostro assai più pregevole, poiché lo possiamo credere una copia di quello descrittoci da Pausania, come il più illustre fra tutti i simulacri di Esculapio. Dice egli: — Il più celebre fino ai miei tempi dei simulacri di Esculapio, secondo gli Argivi, rappresenta in candido marmo il nume assiso, e presso lui sta in piedi la figlia. —

« La grazia della composizione tanto superiore alla mediocre esecuzione del gruppo, nel tempo stesso che lo dimostra una copia, ne persuade sempre più la provenienza accennata. Le teste sono antiche, ma adattatevi dal restauratore, conservano però le fisonomie e i caratteri conosciuti propri: di queste divinità.

« Ad Esculapio è stata adattata una testa con barba essendo per lo più barbato questo nume nei monumenti, cominciando dalla stupenda gemma del Museo Stosch, col nome di Aulo. Non è però che di Esculapii imberbi non facciano menzione gli antichi, e non ne abbiano rinvenuto alcuno i moderni. È degno di memoria quello ultimamente trovato nel giardino delle Monache Barberine sul Quirinale maggior del naturale, nel cui viso imberbe sospetto il ritratto di qualche Medico illustre. È ottimamente conservato, ed ha la cortina ai piedi, simbolo degli oracoli che solca dare Esculàpio, qual si vede nella bella statua degli Orti Farnesiani, che si crede la stessa di quella dell’Isola Tiberina, e si osserva ancora indicata nell’Esculapio colossale presso l’altre volte lodato signor Pacetti, e in altre figure. È da notarsi che la cortina dell’Esculapio Farnesiano è chiamata nel primo volume delle Gemme del signor Bracci Cista, Mistica. »

Eccovi da Filostrato un altro soggetto di pittura antica.

Ercole furioso.

— Assalite arditamente Ercole, o forti, e mettetevigli davanti, poiché egli non si asterrà da questo infelice fanciullo che resta, mentre i due altri giacciono per terra: egli ha ancora la mano in atto di ferire, poiché crede di essere in Argo, e di uccidere i figli di Euristeo. Voi avete udito in Euripide che affrettava colla sferza i cavalli uniti alla biga terribile per saccheggiar la casa del vile fratello. Il furore lo inganna: è difficile di persuaderlo con gli oggetti presenti. Che ciò vi basti. Contemplate adesso la pittura: la stanza ov’egli infuria contiene Megara co’ suoi figli; i vasi, le mole per le vittime, le legna destinate al sacrifizio per Giove Erceo, tutto è rovesciato. Il toro vi è: ma le al tre vittime sono sparse qua e là per l’altare insieme alla pelle del Leone: di questi due miseri fanciulletti, ad uno la freccia è passata a traverso il collo; all’altro riesce dalle spalle la punta del dardo entrata pel petto: le loro gote sono sparse di lagrime e di sangue. I servi circondano il forsennato padre come si farebbe di un toro arrabbiato. Unocerca di legarlo d’agguato, l’altro di prenderlo nel corpo: chi grida, chi è sospeso alle sue mani, chi gli prende le gambe, chi gli salta al collo. Ercole non conosce nulla: spinge ferocemente chi cerca di avvicinarsegli, gli calpesta, mentre dalla bocca gli esce la spuma, ed ha gli occhi fìssati orribilmente negli oggetti dai quali è ingannato. Il collo gli si è ingrossato, le vene tutte gli si gonfiano, il furore regna nel suo volto. Voi avete sovente udito dire nelle tragedie che le Furie sono causa di tutto questo, ma adesso non le vedete perchè dentro Ercole sono celate. —

Lezione cinquantesimasettima.
Bacco. §

Argomento di sogni eruditi e di ardimentose congetture è la divinità ed il culto di Bacco. Famoso al pari di Ercole per le conquiste: l’Oriente e l’Occidente è pieno della sua fama: nè poca gloria è per lui di essere stato causa d’ invidia e di conquiste ad Alessandro. Non è fuor d’ogni dubbio di chi fosse figlio e dove nascesse. Diodoro Siculo riferisce, dagli Egiziani asserirsi che tutto quello che narrasi di Semele e Giove, genitori di lui secondo la volgare opinione, era menzogna tessuta da Orfeo iniziato ai misteri di Osiride, coli’ oggetto di lusingare la greca ambizione. Cadmo, ripiglia lo storico, profittando della simiglianza che un fanciullo nato da Semele sua figlia non unita in matrimonio, aveva con Osiride, e della circostanza della pronta morte di questo, istituì in suo onore dei sacrifizii, insinuando nell’ingannato volgo la credenza che figlio fosse d’Osiride, giacché gran scusa a questi falli era il fare un dio autore della colpa. Ma perchè l’umana mente si diletta più del maraviglioso che del vero, la storia cede alla favola abbellita da Orfeo, e perdonar si deve all’antichità questo errore, poiché lo deve ai versi di tanto poeta. Ed il sentimento dei sacerdoti egiziani avvalorato viene da Erodoto, che paragonando le feste di Bacco e di Osiride, sorprende la rassomiglianza di queste due divinità, e crede trasportato in Grecia da Melampo il culto di Osiride, sotto il nome di Bacco.

Nisa in Arabia era la patria del dio, e passava almeno per essere il luogo ove fu deposto dopo la sua nascita: ciò viene attestato ancora dal nome di Dionisio, vale a dire dio di Niso. Giova osservare che di Osiride qui era la famosa colonna. Le imprese del Nume sono consegnate al poema di Nonno, da cui estrarrò quello che per voi vi ha di più interessante.

Non vi è nulla di più necessario per voi che il sapere quale idea gli antichi artefici, guidati sempre dagli scrittori, avessero sulle forme che conveniva dare a Bacco. Ed a questa importante ricerca ninno può meglio soddisfare che Visconti nella seguente illustrazione di una delle più belle statue che rappresentino il dio del Vino.

« La sorprendente bellezza di questa scultura non può rappresentarsi abbastanza nò colle parole, nè col disegno: le prime non la dipingeran mai così bene alla fantasia, che una giusta immagine se ne faccia: il secondo, per quanto vaglia a ritrarre la grazia dei contorni generali, non giungerà mai ad esprimere quella morbidezza e quella carnosità a cui è ridotta la pietra, nè quella delicatezza di lineamenti, che serpeggiando quasi insensibilmente su quel bellissimo corpo, fan sembrare come per una certa magia cedente il marmo, e spirante.

« Questo superbo monumento delle arti greche fu trovato mancante di tutte l’estremità: del capo, cioè, delle braccia e delle gambe. Così mutilato com’era, ne fu ricercato il gesso per molte Collezioni, ed uno fra gli altri formò la delizia del cavalier Mengs negli ultimi periodi della sua vita.

« Quantunque l’essere stato risarcito per Bacco abbia incontrato qualche disapprovazione, principalmente nelle persone dell’arte, pure questo restauro e questa denominazione mi sembrano fondatissime, e quasi certe: i lunghi e bei capelli cadenti sul petto e sugli omeri ne sono una prova; il carattere dei lineamenti quasi feminili è la seconda.

« Non occorre qui ricopiare dai mitologi nè tutti gli epiteti, nè tutte le lodi della chioma di Bacco, come cose troppo note e comuni: basta il riflettere che questo forse è il più costante degli attributi bacchici, poiché il figlio di Semele si trova talvolta rappresentato con lunga barba, nonostante il soprannome di fanciullo eterno; si trova tutto vestito, non ostante la nudità dai mitologi attribuitagh, ma sempre con lunghe treccie, e per lo più così sparse intorno al collo, agli omeri, al petto. Coi ricci pendenti di qua e di là lo descrive Luciano.

« L’analogia di teste sicuramente bacchiche, colle chiome nella stessa guisa disposte che quelle che rimanevano attaccate al torso del simulacro, compisce la dimostrazione: una testa, fra le altre, merita esser particolarmente rammentata: è quella che si ammira nella Galleria di Firenze sul corpo di un Bacco appoggiato ad un Fauno. La testa, benché propria del soggetto, non apparteneva a quel gruppo, come lo indica il differente lavoro dei capelli che pendono dal capo, e di quelli rimasti congiunti alle spalle. Presentato il gesso della testa sul gesso del nostro torso corrispondono cosi bene lo stile, gì’ incisi delle treccie, le proporzioni, e quasi le commissure, che pare indubitato esser stata quella, o simile, la testa antica della nostra statua. Or quella testa è certamente di Bacco, come la corona di pampini, e la fascia che stringe la fronte, lo provano. Ma un’altra prova non meno certa del soggetto di questa statua è quello appunto dove si fonda la contraria opinione, cioè il carattere feminile di tutti i contorni, e particolarmente la situazione, il rilievo, e la rotondità dei fianchi. Non vi ha nulla di più proprio di Bacco: o provenisse ciò dall’uso e dal capriccio degli scultori, che in tal foggia abbiano voluto rappresentare il dio dei piaceri e della mollezza, il compagno di Venere e delle ninfe, o da dogmi di un’antica teologia rediviva nei tempi che precedettero la caduta del culto pagano, o da un genio di moralizzare, che fosse dai poeti passato agli artefici, giacché tutte e tre le opinioni han fondamento sulle gre che e latine autorità: da qualunque principio, ho detto, ciò provenisse, certo è che uno dei caratteri di Bacco fu quello di essere rappresentato di forme feminili. Quindi un latino epigramma così lo descrive:

« E trae il tenero Bacco la forma di una vergine. »

Quindi Momo, presso Luciano, rileva tra i difetti di Bacco la sua complessione feminile e donnesca; quindi finalmente fu creduto esser maschio e femina, o per dir meglio con Aristide, avea così miste le qualità dei due sessi, da sembrare fra le fanciulle un giovinetto, fra i garzoncelli una fanciulla. Se queste espressioni non dipingono la nostra statua, non saprei immaginare un più evidente rapporto.

« Vero è però che come differenti qualità diedero i mitologi a Bacco, come differenti virtù i fisici al vino: così ancora diverse immagini gli artefici ne ritrassero, or figurandolo armato e vincitore, ora cornuto per emblema dell’ebrietà, ora barbato come in aria di maestro e di legislatore. Da ciò dee ripetersi tanta varietà di rappresentarlo, tanto più che gli statuarii han voluto esprimere in un sol simulacro i suoi diversi attributi, altre volte non ne han considerato che un solo. Non tutti, per « sempio, hanno esagerato, come il nostro, la mollezza del nume della Voluttà, ma vi hanno misto o una sveltezza o una robustezza maggiore secondo le idee che aveano in mente, secondo i siti dove i simulacri li destinavano, secondo i poeti, le cui descrizioni seguivano, i sacerdoti a’ cui misteri alludevano, le varie persone alle cui spese operavano. Questo appunto aggiunge a tanti pregi del nostro marmo quello ancora della rarità, non ravvisando noi in altro monumento così bene espresso queir epiteto feminiforme, che lo scrittore della Natura degli Dei credeva essere un attributo essenziale del dio del Vino. Il presente simulacro è un modello impareggiabile per un corpo maschile bellissimo di una bellezza effeminata; questa espressione è portata fino air ideale: volendo indicarci in certo modo i due sessi di questo nume, i contorni ne sono mirabili e fuggenti quasi all’occhio e alla mano.

« Taluno ha creduto rilevarvi il difetto che una coscia sia più sottile dell’altra: se si fossero conservate le gambe antiche del simulacro, forse nella situazione ne troveremmo il motivo: giacché sappiamo che le parti del corpo su cui si fa forza e si preme, acquistano in grossezza ciò che perdono in estensione. »

Ma prima che v’ inoltriate in questo mare di Mitologia adempirò alla mia promessa ritornando all’ uso di leggervi la descrizione dei poeti, dopo aver quasi esaurite le Immagini di Filostrato. Ho scelta la viva pittura fatta da Valerio Fiacco della strage di Lenno, che vi accennai parlando di Vulcano, a cui la riconoscenza rendeva cara quest’isola.

Sarà colpa di me che ho tentato tradurre questa parte del poema di lui, nella quale gareggia con Stazio, se non sentite con quanta ragione, piangendo r immatura morte del poeta, esclamasse Quintiliano: «Molto abbiamo perduto in Valerio Fiacco: »

Sorgi fra l’acque, per diverso affanno
da Vulcano lacrimata Lenno:
Nè a te le Furie e le materne colpe
Consigliano l’oblio del morto antico.
Dei Celesti mirò sorger le ascose
Risse il Tonante, e per lo nuovo regno
Scosse il silenzio dell’eterea pace.
Prima sospese dal fugace Olimpo
Giunone: il Caos le mostrava immenso,
E le pene d’Averno: ancor dal Cielo
Vulcano egli lanciò, che torre osava
1 certi lacci alla tremante madre.
Precipita qual turbo e notte e giorno
Lo Dio; su Lenno minando suona:
Un grido scosse la città: lo trova
Prono sopra uno scoglio; aiuto e pianto
Offerse al Nume, che col fianco infermo
Tarda l’alterno passo. Alfine al figlio
Giove permise le celesti Rocche.
Pure sempre allo dio cura fu Lenno,
E non ha maggior fama Etna, ove muta
Encelado mal vinto il fianco immenso.
Qui dopo la sudata egida e l’ali
Del fulmine divino, i lieti templi
Visita il Nume. Di Ciprigna è sempre
Freddo l’altare da che i lacci ascosi
Svelare al Ciel l’invidiata colpa.
La Diva irata macchinò nefanda
Trama, e danno furiale a Lenno appresta.
Nè lega il crin con artifìcio illustre
Sparsa il manto stellato: alta, tremenda,
D’acheronteo pallor sparsa le guancie,
Alle Vergini Stigie eguale, un pino
Sonante vibra con ferale ammanto.
Già presso è il dì che, vincitor nell’armi.
Disperso i Traci avea di Lenno il Duce,
Che tesser navi osò di fragil canna:
Lieto pel mar move i vessilli, e pieni
D’armenti e donne i trionfali legni,
Di barbariche vesti hanno collane
Del loco insegna: in mezzo ai flutti un grido
Risuona: patria, o per diverse cure
Affannose consorti, eccovi ancelle
Premio di lunga guerra. — In cupo nembo
La Diva avvolta, pel sereno cielo
Precipita, e la Fama in mezzo all’ombre
Errante cerca: il Padre onnipotente
Nega dell’Eter le tranquille sedi
A lei, che degne e turpi cose grida,
E sparge le paure, onde fremente
Sta fra l’orror delle più basse nubi
Non Dea del Ciel nè dell’Averno: i primi
La disprezzan, l’abbraccian: quindi tutti
Trae seco, e scote colle cento bocche
Le tremanti città. Questa la Dea
Ministra vuole all’ ingannevol colpa.
Avida la cercò. Vide Ciprigna
Prima la Fama; impaziente vola:
Con tai detti viepiù Vener l’infiamma:
Va, vola, o vergin, sull’ondoso Lenno,
Mi scompiglia le case, e sii qual suoli
Quando le guerre tu precorri, e mille
Trombe figuri, e dalle armate squadre
I campi ascosi, e dei corsier volanti
E la polve e il nitrito. Annunzia a Lenno
La novità del vergognoso amore.
Ch’arde i mariti, e che nei freddi letti
Dolce preda verran le Tracie donne:
Di qui il principio a te: dolore accenda
Le furibonde madri: anch’io fra poco
Verrò: trarrolle preparate. — Appena
Tacque la Dea, che alla cittade in mezzo
Vola lieta la Fama. Era di Codro
Eurinome pudica ai lari accanto,
Che dalle cure attrita il casto letto
Conserva, e sempre il suo marito attende,
E nel lido stancò le ancelle: ognora
Contano il tempo della lunga guerra.
Ed al talamo presso, in lunghe tele
Sanno ingannar la spaziosa notte.
Questa, col pianto e colla nota veste
Di Neera incontrò la Diva, e disse:
Sorella mia, volesse il Ciel che tale
A te nuncia non fossi, e in mar sommerso
Fosse il nostro dolor: Colui che cerchi
E coi voti e col pianto, arde l’indegno
Dell’amor di una schiava: arde, e ritorna
Coll’adultera sua, che al casto letto
Già s’avvicina: Non per fama eguale
E non per lode di pudore e d’arte
A te, gran prole Doriclea: gli piace
Sol per le pinte mani, e l’arso mento.
Ma con fato miglior fìa che tu scelga
Altri Penati: pei tuoi figli io tremo:
Privi di madre, odio alla druda: io veggo
Già la torva matrigna, e dentro il nappo
Ai fanciulli spumar l’atro veneno.
Sai che simili siamo: all’ire aggiungi
La ferocia nativa: il gel le indura,
Ferino latte le nutrisce: accenna
Esul me pure dal diletto albergo
La Fama, e sopra i carri errante donna
Sta sulle piume mie. — Sì dice, e tronca
Le querele, e lasciò la mesta donna
In lacrime e timor. Le furie istesse
D’Ifinoe e d’Amiton desta nei lari,
Risuona tutta la città: raminghe
Par che da Lenno debban gire, e sorge
Ira, dolore: a gara ascolta e dice
Le intese voci ognuna, e fede al danno
Non v’ha chi neghi: di querele e gridi
Empiono i templi, e sulle soglie i baci
E sopra i letti raddoppiare, e fìsse
Yi stan col pianto e colla vista. Alfine
Lascian le case, e i talami infelici
Non riveggono più: nel cielo aperto
Stanno ammassate, e di dolore han gara,
E d’orribili voti. A loro in mezzo
Di Driope piange nell’immagin mesta
Venere, e batte palma a palma, e grida:
Le Sarmatiche case e i geli eterni
Perchè negarci, o Sorte, e in mezzo al foco
Della patria mirar fulmini e strage,
Strage dei Numi? poiché gli altri danni
Soffriam di guerra: Me schiava destina
Il furioso? Me, perchè raminga
Lasci i figli, la patria? Ah: pria di spade,
E di foco, rapito all’are istesse,
Non armerem le destre? Ah: mentre tace
La notte, e traggon colle schiave spose
I nuovi sonni, un non so che di grande
Amor c’ispirerà. — Disse, e rivolse
Gli occhi di foco in giro, e sulla terra
Lanciò dal seno gli strappati figli.
II cor materno e l’infiammate menti
Il gemer sacro di Ciprigna vince.
Riguardan tutte il mare e fingon danze:
Ornano i templi di festive frondi,
E ai reduci mariti ostentan gioia.
Ai Lari vanno: preparar le mense
Negli atrii ornati: a ognun s’asside accanto,
Rapida in suo furor, l’iniqua moglie,
Qual nella notte del baratro eterno
All’attonito Flegia e a Teseo appresso
Sta Tisifone, e liba i crudi cibi
Ed i nappi ferali, e, di tormento
Novità, con i neri angui l’abbraccia.
Scote l’irate formidabil’onde
Vener con la procella, e l’ombre ammassa,
E in Lenno scende alla tremenda pena
Accinta: l’accompagna il ciel coi nembi
E con luce sonora: accresce il Padre
Col tuono a lei la maestà crudele;
E per l’aure tremanti odi una voce
Replicarsi: il mar suona, Ato crollò,
Nei talami tremar le madri, al seno
Strinsero i figli inorriditi: Affretta
I su(^ passi il Terrore, e dai recinti
Gotici irrompe la Discordia pazza,
E col pallido volto Ire feroci,
E la Rabbia e l’Inganno: alza di Morte
L’imaorine maggior le truci mani
Quando di Marte la chiamò tonando
La moglie, e alzò la sanguinosa insegna.
Ma delitto maggior Venere imprende:
Gemiti di chi cade e di chi spira
Finge, scorre le case, e nella destra
Porta le teste singhiozzanti: ha sparso
Di caldo sangue il seno, e gronda sangue
Lo stretto crine, e grida: Ecco, ritorno
Prima dai letti vendicati: Il giorno
N’ incalza ! — Indi un fiagel vibra, e le guida
Ai talami, e alle dubbie un ferro trova.
Ahi: come di delitti io tanti aspetti,
E tanti fati di diverse morti
Seguirò? fra quai mostri, ordin crudele,
II poeta conduci? Oh: qual di colpe
Serie orrenda si svela: Oh, chi mi ferma
Mentre il vero ridico? Oh, le mie notti
Da questa imago liberate: Invadono
Gli aditi, e le de’ suoi membra già care,
Fra le mense ed il vino in preda al sonno,
Parte ha la spada, o la tremenda face
Nella mano a pugnar pronta: la fuga
V è chi tentar vorrebbe, e veglia e spira
Tutto: vieta il terrore impugnar l’armi.
Terribili sembrar la dea nemica
Fa le perfide donne: odono voce
Della nota maggior: gli occhi soltanto
Tien chiusi a tutti la paura, come
Mirin squadre di furie, e sopra il ferro
Di Bellona fiammeggi: Altri la moglie
E la sorella, altri la figlia uccide,
E vai pure la madre a tanto eccesso!
Trucida, e strappa dagl’infausti letti
La razza femminil quei che gl’immensi
Bessi e la Scizia congiurata e l’onde
Non vinsero: pei letti il sangue scorre.
Fumano ognora nell’ignudo petto
Le anelanti ferite, e guizza il tronco
Con orribile sforzo al suol reciso.
Gettan le faci sui sublimi tetti.
Ardori le case, e dalla nera vampa
Il marito s’invola: ahi, sulla soglia
Gli assedia la crudel consorte, e torna,
Visto il ferro, all’incendio. Altre le donne
Tracie, causa al furor, sbranano. Ascolti
Misto al pianto sonar barbaro grido,
E mille ignote voci empiono il cielo
. Chi mi darà parole all’alto ardire
Eguali, della tua patria cadente,
Issipile, sostegno? Unica lode
Non fia chi te dai versi miei cancelli
Fin che ai fasti Latini il tempo serva,
E staran d’Ilio i lari, e l’alta sede
Di tanto regno. Eran consorti e figlie
Contaminate, e sol piene di mostri
E l’isola crudel. La man pietosa
Armata, al padre suo disse: Deh: fuggi,
Fuggi la patria e me: non han gli offesi
Nemici la cittade: è nostra colpa
Questa: l’autor, deh: non cercarne: ah! fuggi:
Rapisci un dono della mente incerta.
Padre, trattieni alla tua figlia il brando!
Disse, e di Bacco al consapevol tempio
Guidò piangendo il genitor tremante.
Valerio Flacco, Argon. lib. II, v. 78.

Udite adesso la fine infelice di Penteo, che dal Poema di Nonno ho tradotto.

Vide dell’ arbor sulla cima assiso
La madre, qual lion tremendo, il figlio
Che con lo dio combatte, e lui mostrava
Alle Baccanti del furor compagne.
Fera, il savio chiamò con voce insana!
Quasi corona a lui circola intorno
La turba feminil; di foglie ornato
Laccio l’arbore stringe, e in un col ramo
Penteo brama atterrar: l’unite mani
Scotono il tronco, la commossa terra
Già si solleva, liberate sono
Le radici dal suol, parte dell’ombre
Il Citerone perde, e prono al suolo
Penteo per l’aer rotolando cade.
L’antico senno allor racquista, e scioglie
Già la querula voce in questi accenti:
Ninfe Amadriadi mi ascondete: Agave
Ama i suoi figli: e saran ree le mani?
Ah madre mia, madre crudel, raffrena
Il tuo furori perchè belva mi chiami?
10 son tuo figlio: ov’è l’irsuto petto,
Ove il ruggito? non ravvisi ancora
Me che educasti? Ah non mi vedi? i lumi,
11 senno, ahimè, chi t’ha rapito? Addio,
Citerone, addio monti di Tebe,
Arbori male ascesi: madre, addio,
Cara Agave, che il tuo fanciullo uccidi.
Mira le guance di lanugin prima
Vestite appena, e ogni sembianza umana.
Io leone non son, fiera non vedi:
Crudel, perdona al parto tuo: quel sangue
Che versi è sangue del tuo figlio: io sono
Penteo: tu mi nutristi. — inutil voce,
Cessa da tuoi discorsi: è sorda Agave!—
Se di Bacco mi vuoi vittima, uccidi
Sola il tuo figlio, madre, e piangi.
E lasci Così tua prole nelle mani infami
Delle Baccanti? — Così parla e prega
Penteo, ma non l’udiva Agave. Intorno
Turba d’atroci donne ondeggia, ed alza
Ver lui le mani nel furor concordi;
Ed una i piedi a lui, che nella polve
Si rivolge, traeva: altra gli svelle
La destra in atto di pregar: lo tira
Per l’altra mano Autouoe a se, la madre
Errando intorno, col suo piede opprime
Il petto al figlio, e la cervice inchina
Trofeo diviene dell’audace tirso.
E con la gioia del furor volgeva
Al mal non ebro Cadmo il pie veloce,
E per la preda del lion mendace
Ne vomitò dalla rabbiosa gola
Queste parole: già felice Cadmo,
Beato or chiamo te: Cintia l’inermi
Mani d’Agave superar le belve
Vide sopra le rupi. A questa mia
Fatica s’ammutir le Driadi. Il Padre
D’Armonia nostra, il ferreo Marte, armato
Di lancia, ebbe stupor; mirò la figlia,
Che senza ferro già vibrava il tirso
Uccisor dei leoni. Cadmo, appella
Penteo compagno del tuo soglio, e miri
L’opre di Bacco con gelosi lumi.
Affrettatevi, o servi, e alla Cadmea
Soglia fìggete il sanguinoso capo,
Dono di mia vittoria. Ahi che tal belva
Mai non uccise Ino cognata. Mira,
Autonoe, disse, e con tranquillo braccio
Il caro peso inalza. — Udìa la stolta
Minaccia Cadmo della lieta figlia,
E questi detti confondea col pianto.
Ahi qual fera domasti. Agave? il figlio
Savio, del seno tuo peso diletto!
Echione fu padre a questa belva:
Mira il lion eh’ io riconosco; ah spesso
Sulle ginocchia mie lieta lo pose
Armonia, e quindi le porgeva il petto.
Spettator di tue glorie il figlio cerchi,
Misero: e come il chiamerò se l’alzi
Con le tue mani? il tuo lion rimira,
Riconosci il tuo figlio. Il premio è questo
Che rendi, o Bacco, a chi nutriati?
Illustri Doni mi diede alle divine nozze
D’Armonia Giove, e degni eran di Marte
E di Vener Celeste: Il mar nasconde
Ino, e la chiesta maestà del tuono
Arse Semele: piange Autonoe il figlio
Cervo. Di loro, ahi più misera: uccise
L’unico figlio Agave. Esul d’Atene
Erra il mio Polidoro. Ed io non solo
E a chi fugga non so, che Penteo è morto,
Polidoro smarrito. A qual m’accolga
Peregrina città? Montagna infame
Del Citerone, tu togliesti a Cadmo
I due conforti della sua vecchiezza:
Hai Penteo morto, ed Atteon nascondi. —
Sì diceva, e di lacrime un torrente
Di Citerone la canuta fronte
Bagnò: le ninfe dier flebile grido,
E non senza rossor venera Bacco
La maestà dell’infelice volto.
Onde col riso si confonda il duolo.
Ad Agave cangiò la mente, e saggia
La fé perchè piangesse. Ella rivolse
Gli occhi increduli, e sta muta gran tempo.
Misera madre: rimirando il capo
Di Penteo ucciso. Sull’arena alfine
Disperata si getta, e le sue chiome
Rotolando deturpa. A) seno toglie
L’irsute pelli, ne rovescia i vasi
A Bacco sacri, e sul materno seno
Il sangue scorre. Bacia gli occhi al figlio,
E della fronte illividita i giri.
Le belle chiome del sanguigno capo,
E gridando mandò tal voce: Bacco,
Bacco crudel, che mai non sazia il sangue
Della tua stirpe. A me la rabbia antica
Rendi: che di furor specie più cruda
Ho, la saviezza. Fa che un’altra volta
Forsennata divenga, e Penteo fiera
Chiami: una fiera io misera credea
Svenare: or del mio figlio inalzo il capo,
Non quello d’un leone. te felice
Autonoe, che Atteon morto piangesti;
Ma tu fosti innocente: io fra le madri,
Io sola, il figlio uccisi. Esule i figli
Ino mia non uccise: il padre solo
Fu reo. Misera me: con Semel Giove
Giacque, onde Penteo io mi piangessi, e Giove
Salvava il figlio dal materno scempio
Tutta la stirpe ad abolir di Cadmo.
Or sii pietoso: al sangue mio fa guerra
Un dio. D’Armonia appo i nuziali letti
Celebrati dai numi, e i doni eterni
Di tanta sposa, se l’antica cetra
Apollo ripercote, unico pianto
Suoneranno le corde: Autonoe, Agave,
E dei lor figli l’immatura morte.
Ma qual è intanto al mio dolor conforto.
Caro fanciullo? al tuo talamo ancora
Io non alzate avea le tede ardenti,
Ornamento agli sposi, e non udia
Cantar Imene i tuoi pudichi amori,
Nè in un tuo figlio io ti rividi.
Almeno Altra Baccante a te troncato il capo
Avesse, e non la sventurata Agave!
Penteo non accusar la madre insana,
Penteo, infelice: il reo fu Bacco: Agave
E innocente. Che dico? ancor di sano’ue
Grondano le mie mani, e pel reciso
Capo rosseggia la materna veste!
Certo ch’io libo a Bacco: olà! Rendete
I vasi a me: prenditi o Bacco: è sangue
Del figlio mio: Pel mio delitto io vissi
Più di lui: ma fedele a questo pianto
Gl’inalzerò la tomba, e l’infamata
Mano ricoprirà l’amata testa
Di polvere, e sarà scritto sull’urna!
Son Penteo, o jpellegrin, mi diede Agave
La vita, e Agave me fanciullo uccise. —
Nonno, Dionisiache, lib. XLVI.

Lezione cinquantesimottava.
Generazione di Bacco. §

Le avventure di Bacco cominciano nel settimo Canto del poema di Nonno; onde da questo io dò principio all’estratto che ho promesso di darvi di questo poema.

Ci presenta il poeta Amore occupato a riparare le rovine del mondo. La specie umana era in preda alle cure, e il vino che le dissipa non era ancora stato concesso ai mortali. Solo dopo il diluvio nacque Bacco, ovvero il dio padre della libera allegrezza prodotta dal vino. Eone, o il Tempo in mille forme, tenendo in mano la chiave delle generazioni va a trovare Giove per rappresentargli l’infelicità dell’uomo. Egli ricusa di governare da qui innanzi un mondo destinato a tanti mali, ed uomini, la vita dei quali è così breve e piena di pene. Invano, egli dice, si è inventata la lira: i di lei suoni armoniosi non dissipano tutti i dolori. Accusa Pandora di aver aperto il vaso fatale, da cui sono escite tutte le sciagure, e non riconosce la prudenza di Prometeo, che per rimediarvi non ha pensato dì togliere agli Dei il loro nettare, piuttosto che il fuoco sacro. Giove dopo averlo udito, cerca di assicurarlo, svelandogli i segreti del destino, e gli rivela il mistero della nascita futura di Bacco suo figlio, che deve portare agli uomini un liquore dolce quanto il nettare.

Cerere, egli dice, ha coperti recentemente di spighe i solchi, e presto mio figlio farà scorrere dei ruscelli di vino che spremerà dai frutti dell’autunno. Tutta la terra canterà la sua presenza. Vincitore dei Giganti e degi’ Indiani, egli verrà sulla volta eterea a percorrere la via degli astri, e a tenere il fulmine di Giove suo padre. Egli risplenderà delle grazie della gioventù, e una mitra in forma di serpenti attortigliati coronerà la sua testa. Egli dividerà gli onori degl’immortali. Così parlò Giove, e gli applaudirono le Parche e le Ore. Il dio del Tempo ritornò presso Armonia, e Giove al palazzo di Giunone.

Non ostante l’Amore, quel nume accorto, che non prende lezioni che da se stesso, e che governa il tempo, dopo avere scosse le porte tenebrose del Caos, si avanzava col suo turcasso che rinchiudeva i dodici dardi di fuoco destinati a trapassare il core di Giove nelle sue metamorfosi diverse. Ogni dardo aveva la sua iscrizione. Egli scelse il quinto, che renderlo doveva amante di Semole: lo allacciò di edera, lo intinse nel nettare, afiinchè Bacco facesse salire l’umore che ci dona l’autunno. Qui il poeta ci dipinge Semele giovine, che nel mattino, vigilante al par dell’Aurora, sferzava i muli attaccati a un carro, in conseguenza di un sogno, che aveva avuto, e del quale il poeta racconta i particolari. Vi si distingueva sopra tutto un presagio che annunziava il fulmine da cui sarebbe colpita, e la cura che prese Giove del suo figlio, che nascose nella sua coscia, finché avesse condotto al termine un fanciullo armato di corna di toro, e che sembrava essere della natura di questo animale.

Cadmo suo padre consulta Tiresia ed Europa sua figlia nel tempio di Minerva per sacrificare a Giove dio del Fulmine un toro, che rappresenta l’immagine di Bacco, ed un capro nemico dei frutti autunnali. Quindi Semele passò sulle rive dell’Asopo ove scese per bagnarsi. Amore vibrò la sua freccia nel cuore di Giove, che per meglio osservare la sua amante si cangiò in aquila volteggiando sul fiume ov’ ella si bagnava.

Qui il poeta descrive la maraviglia del re degli Dei nel mirare le grazie della bella Semele, che a Venere paragona. Lo splendore del giorno nuoce ai suoi amori: egli sollecita il sole a finire il suo corso, e chiama la notte troppo lenta a coprire col suo velo il mistero dei suoi piaceri. Finalmente giunge la notte: il cielo non è illuminato che dalle stelle.

Giove discende sopra Semele, e gli prodiga i suoi favori, prendendo presso lei tutte le forme che r antichità attribuisce a Bacco. Finalmente si fa conoscere dalla sua amante. che divien madre in mezzo ai fiori, e tra il fragore dei fulmini del nume, che solo fra gì’ immortali li vibra. Egli la consola, e le promette di situarla un giorno nei campi dell’Olimpo, ove splendono le stelle.

Dopo avere consolata Semele col paragone ch’egli fa del suo destino con quello delle altre amanti, Giove risale al cielo, e lascia la figlia di Cadmo incinta nel palazzo di suo padre. Già le sue forme, che diventano rotondeggianti, accusano la sua colpa. Ella già prende gusto per 1’ edera, di cui ella intralcia la corona ornamento della sua testa. Se ascolta il suono di qualche strumento già si prepara a danzare, e a imitare i cori delle Baccanti, e il figlio che s’ agita nel suo seno sembra accompagnare la madre. Ben presto l’Invidia sotto le forme di Marte le suscita per nemiche Minerva e Giunone. Ella rammenta a quest’ ultima le infedeltà del suo sposo, delle quali il cielo conserva ancora tutta l’istoria, da che egli vi ha trasportate tutte le sue amanti, e i figli che ha avuti da donne mortali. Callisto occupa le vicinanze del polo. Le sette Pleiadi formano in cielo il loro coro: Elettra infatti vi mescola il suo splendore con quello della luna: Apollo è figlio di Latona: Ganimede nato mortale abiterà dunque i cieli? vi si vedrà giungere un giorno Semele e Bacco, e brillare Arianna colla sua corona? No, dice Marte, o piuttosto l’Invidia sotto la sua forma, io non posso restar più in cielo per vedervi trasportata tutta la razza dei mortali. Io vado a ritirarmi in Tracia, piuttosto che esser testimonio di questa profanazione del tempio degli Dei, e vedere Andromeda, Perseo, la sua testa di Medusa e la sua scimitarra, e le forme orribili della balena. — Così parlava l’ Invidia gelosa dei destini di Semele, che la chiamavano al cielo col suo fiolio. Giunone medita nell’istante uno stratagemma per vendicarsi di questa nuova amante. Ella s’indirizza alla dea della Furberia, che errava sulle montagne di Creta sua casa: le racconta i suoi dispiaceri e i suoi timori: ella le dice di temer che Giove non finisca per bandirla dal cielo, e ne faccia Semele la regina. Ella la prega di prestarle il suo magico cinto affinchè ella possa con questo richiamare nell’Olimpo Marte suo figlio, che se n’ è esiliato. La dea della Furberia, ingannata ella stessa da Giunone, le accorda la dimanda. Armata di questo cinto, Giunone va nelle stanze di Semele nelle sembianze della vecchia nutrice dì Europa e di Cadmo. Finge d’intenerirsi sulla sorte della giovine principessa, il di cui onore è pubblicamente attaccato. La interroga qual è il mortale, o il dio che ha avuto i suoi primi favori. Dopo molte dimando la persuade che, se lo crede Giove, lo inviti a venire da lei in tutto lo splendore della sua gloria, ed armato del suo fulmine; questo è il solo mezzo di assicurarsene. La giovine principessa accecata dall’ambizione, dimanda al suo amante questo contrassegno distinto della sua tenerezza. Ella vuole che si mostri a lei come a Giunone quando con essa il letto divide. Io non vi ho ancora veduto, le dice, nelle forme maestose di un Dio. Giove si affligge di questa dimanda in discreta, ed accusa le Parche nemiche della sua amante. Siccome prevede le conseguenze, e vuol salvar Bacco, incarica Mercurio di togliere il fanciullo ai fuochi. terribili che consumeranno la madre. Fa rivelare all’ amante i pericoli ai quali si espone: termina finalmente coli’ accordarle ciò che richiede. Semele s’ insuperbisce di questo favor singolare, che la pone infinitamente al di sopra delle sue sorelle. La sciagurata, ebra di orgoglio e di gioia, vuol toccare il fulmine terribile, e ne perisce in mezzo al fuoco. Il suo figlio per mezzo delle cure di Mercurio fugge all’incendio che consuma sua madre. Giove sensibile all’infelicità della sua amante la trasporta in cielo, ove ha per compagni Mercurio, Marte, Venere e la Luna.

Voi vedete dalla sciagura di Semele quanto fosse terribile l’ira di Giunone. Il caso di Atamante e d’ Ino che ho tradotto da Ovidio n’ è un esempio ancor più tremendo.

Innanzi di passare alla descrizione del poeta vi espongo la favola brevemente.

Irritata Giunone, che dopo la morte di Semele Ino sua sorella si fosse adossata la cura di allevare Bacco, giurò di vendicarsene. Mandò ad Atamante Tisifone, la quale turbògli in tal maniera la mente, che prese il proprio palazzo per un bosco, la moglie e i figliuoli per fiere. Schiacciò Learco fanciuUetto: ed Ino a un tale spettacolo sorpresa da un trasporto furibondo di terrore, fuggì, tenendo nelle braccia, l’altro figliuolo, e andò con esso a precipitarsi nel mare. Venere impietosita della sua nipote pregò Nettuno ad averne compassione; e questi la ricevette col figlio fra le divinità del suo impero, e Leucotea fu detta la madre, Palemone il figlio.

Con torva faccia rimirò d’Averno
Giuno i tormenti. D’Ission la ruota,
Di Sisifo la rupe; E perchè, disse,
Ei solo tra i fratelli eterne pene
Soffre? Ed esulta nella ricca reggia
Atamante superbo, a me nemico
Quanto la moglie? — Si dicendo espone
La causa della via, dell’odio, ed apre
Suo feroce volere, onde di Cadmo
Non stia la reggia, ed il furor conduca
Atamante al delitto: in un confonde
Preghi, impero, promesse, onde commova
Le dive. Appena di parlar Giunone
Cessò, che scosse l’arruffata chioma
Tisifone, e divise i serpi opposti
Dalla pallida fronte. Uopo di detti,
Dicea, non avvi, che fatto figura
Quello che imponi: l’inamabil regno,
O diva, lascia, e torna all’aura antica
Di miglior cielo. — Già la face impugna
Grave di sangue, e la purpurea vesta,
Sparsa di stragi, con ritorte serpi
Ricinge, e lascia la tremenda casa.
L’accompagna il Terror, l’Angoscia, il Pianto,
E la Stoltezza con tremante volto.
Si fermò sulla soglia, e ne fremeva
L’Eolia casa: impaurito il sole
Nuovo cammino ai suoi destrieri insegna
Ino tremò: mesto terrore invade
Atamante: fuggir cercano entrambi,
Ma la Furia le soglie assedia, e stende
Le braccia cinte di viperei nodi:
Scote le chiome, e sibilar del capo
L’idre commosse: sulle spalle giace
Parte, ed altre cadute intorno al petto
Fischiando vomitar rabbia, e lampeggia
La lingua: alfine della fronte al mezzo
Svelle due serpi, e con la man, di morte
Apportatrice, lor dà via: percorrono
Il seno d’Ino e d’Atamante, e gravi
Sdegni inspirare: nè percosse apporta
Alle membra; il furor l’anima sente.
Di liquido venen recati avea
Seco i predigli, la Cerberea spuma
E gli errori vaganti, e della cieca
Mente l’oblio, colpe, furori e pianto.
Amor di strage, con recente sangue
In cavo bronzo la feral cicuta:
Tutto unito n’avea. Mentre paventa
L’alta prole di Cadmo, in sen le vibra
Il composto furor, che le percorre
L’intime fibre. Allor, scagliata in alto
La face, scorre per l’istesso giro,
E il suo loco raggiunge. Alfìn ritorna
Vincitrice d’Averne ai vasti regni,
E le frena la veste il serpe istesso.
Già d’Eolo il figlio all’apia reggia in mezzo
Esclama: Olà, tendete in queste selve,
O compagni, le reti: or qui m’apparve
Di doppia prole lionessa altera. —
Come di belva, della moglie insegue
L’orme, e rapisce dal materno seno
Learco, che ridendo a lui tendeva
Le pargolette braccia, e ben sei volte
Per l’aer suso, quasi fionda, il rota:
Spargersi vedi contro il duro sasso
Quelle tenere membra. Alfìn la madre
Commossa, o sia dolore, o sia veleno,
Ulula e fugge con le sparse chiome
Furiosa, e te porta in mezzo al mare,
Melicerta, con le nude braccia.
Evoè Bacco, suona: e rise Giuno
Sotto il nome di Bacco, e disse: Questi
Usi ti doni il tuo beato alunno. —
Una rupe sovrasta al mare, incava
L’ime sue parti lo spumante flutto:
Nell’aperto Ocean sorge la fronte,
Che sfida il cielo e le tempeste. Siede
Ino già sopra l’occupata cima:
Le die forza l’insania, e già si slancia
In mare, e non la tarda alcun timore:
Spuma dal peso suo l’onda percossa.
Della nipote Venere piangeva
Il non mertato caso, e così esclama
Con utile lusinga: Dio dell’onde,
Dell’universo imperator secondo,
Vicino a Giove nel poter, ti chieggo
Alte cose: pietà dei miei, che vedi
Neir Ionio per vasta onda sonante
Sbalzati. Ai numi tuoi gli aggiungi: il mare
Alcun poco mi deve: ebbero vita
Per me le spume, e da lor tengo il nome
Grato. — Nettuno ai suoi preghi acconsente:
Scioglie da tutta qualità mortale
Ed Ino, e Melicerta; a loro impone
Maestade tremenda, e con l’antiche
Sembianze ancor perdono il nome. Adora
Leucotoe in Ino, e Palemon nel figlio
Travagliato nocchier che il lido afferra.
Ovidio, Metamorf., lib. IV, v. 463 e seg.

Lezione cinquantesimanona.
Nascita ed educazione di Bacco. Origine della vite. §

Dopo la morte di Semele, il re degli Dei depose nella sua coscia il giovine Bacco, finché il parto arrivasse al suo termine, e non ve lo tolse che per darlo alla luce. Nell’istante di questa nuova nascita di Bacco l’Ore si trovano pronte per riceverlo, e pongono sulla sua testa una corona d’edera. Intralciano ì suoi capelli di un serpente tortuoso, di cui la fronte è armata di corna, coll’oggetto di ritrarre la doppia natura di Bacco, cioè di toro e di serpente. Quindi il poeta ci dipinge Mercurio, che lo porta a traverso dell’aria per confidarlo alle ninfe dell’Acque, chiamate ladi. Queste erano sette sorelle figliuole di Atlante e di Etra, chiamate Ambrosia, Eudora, Coronide, Pesile, Pito, Poliso, e Tiona. Giunone avendole rese furiose, Mercurio fu obbligato di levar loro Bacco per confidarlo ad Ino figliuola di Cadmo e sorella di Semele, dea marina, madre di Palemone. Ma Giunone avendo minacciata della sua collera questa nuova nutrice, Mercurio ritira il nume bambino dalle mani d’Ino per darlo in deposito a Rea, a Cibele, che ne prende cura.

Dalla sua più tenera giovinezza la dea gì’ insegna a montar sopra un carro tirato da leoni, animali consacrati al Sole. Così Bacco cresceva, e diveniva forte ogni giorno sotto la tutela di Rea.

Nonno dipinge i Pani che danzano intorno al giovine Bacco, e compongono il corteggio del dio, che ha le forme di toro. Celebrano queste danze, ripetendo il nome del dio, intanto che Semole ancora ardente nei cieli s’ insuperbisce della fortuna del suo figlio, e delle cure particolari che ne prendono Cibele e Giove. Nonostante Giunone irritata contro Ino che aveva osato di nutrire, Bacco si dichiara contro essa, e riempie la sua casa di quelle infelicità, che Ovidio vi descrisse in parte nella passata Lezione.

Dopo questo episodio, il poeta ci conduce in Lidia, ove Bacco era allevato scherzando coi Satiri, e bagnandosi nelle acque del Fattolo. Qui scherzando sulle coste della Frigia fece conoscenza di un giovine Satiro chiamato Ampelo, o la Vigna. Il poeta ci dipinge questo bel fanciullo, e le sue grazie nascenti, che a Bacco inspirano affetto. Il dio si volge verso lui, e gli dice le cose più lusinghiere: lo interroga sulla sua nascita, e finisce per dire, che lo conosce e sa che è figlio del Sole e della Luna. Bacco se ne innamora: non è contento che con lui, e si affligge della sua assenza. L’amore di Ampelo gli tien luogo di tutto: finisce per chiederlo a Giove, e sollecita questa grazia colle più vive istanze. Qui il poeta ci fa la descrizione dei loro giuochi. Si vede Bacco che prende piacere a lasciarsi superare da quello che ama. Ampelo è sempre vincitore alla lotta e alla corsa.

È facile di avvedersi che tutto ciò non è che un’ allegoria sull’ amore di Bacco per la vigna. Diodoro espone ciò semplicemente, narrando che Bacco allevato in Nisa scoperse in mezzo ai giuochi della fanciullezza la vite, e che imparò a spremerne l’umore.

Il Canto seguente continua la descrizione dei giuochi e degli esercizi differenti dei due amici. Ampelo è vincitore ancora nel nuoto; ma ha l’imprudenza di voler scherzare con gii animali delle foreste, e si espone a ricevere dei teneri rimproveri da Bacco, che tutti i pericoli gli dimostra: lo avverte sopratutto di guardarsi dalle corna del toro. Ma questo avvertimento fu inutile ad Ampelo, quantunque Bacco avesse sempre cura di accompagnarlo. La dea del Male gli persuade di montar sopra un toro, come Bellerofonte sul Pegaso, e con altrettanta sicurezza di Europa che non ebbe bisogno di freno per condur quello che la rapì. Il caso conduce precisamente un toro disceso dalle montagne per bere: il giovine audace osa salirvi, e tenta di condurlo: toglie dei giunchi del fiume per farne una frusta, e cinge di fiori lo corna dell’animale. In questa positura sfida la Luna, della quale il carro è dai bovi condotto. Que sta dea lo punisce della sua insolenza, mandando un assillo che punge il toro. L’animale furioso rovescia il giovine Ampelo che muore della caduta. Un Satiro testimonio di questa sventura l’annunzia a Bacco, che inconsolabile diviene. Egli bagna di lacrime il corpo del suo amico steso sulla polvere, e lo copre di rose e di gigli. Versa nelle piaghe l’ambrosia donatagli da Rea, che dopo la metamorfosi di Ampelo in vite, bastò per dare al suo frutto un odore delizioso. I Sileni dividono il dolore del dio. Ampelo, quantunque morto, era tanto bello come quando viveva. Bacco lo contempla, ed esprime il suo dolore: minaccia della sua vendetta il toro crudele nello stesso tempo che pasce i suoi occhi nel veder le grazie del suo misero amante. Egli accusa l’ Inferno inesorabile che non rende le sue prede. Scongiura Giove di voler rendere la vita al suo amico per qualche istante. L’Amore sotto la forma di Sileno, portando in mano il tirso, viene a consolar Bacco, e gli consiglia di formare dei nuovi amori onde dimenticare il perduto giovinetto. Gli racconta per questo oggetto una graziosa favoletta, che contiene un’ allegoria fisica sulla spiga e sul gambo che la sostiene, nei nomi di Calamo e Carpo. Ma nulla può mitigare il dolore di Bacco. Le Stagioni intanto, delle quali il poeta fa la descrizione, vanno alla reggia del Sole, e ognuna di loro ha ornamenti che la caratterizzano.

Il Canto duodecimo ci rappresenta le Stagioni stesse che arrivano sulle rive dell’Oceano nel pa lazzo del Sole loro padre, ove riscontrano Espero e la Luna crescente, il di cui carro è tirato dai bovi. Vi si legge la descrizione del tramontare del sole, e della sera, nella quale si distingue la pittura dei quattro cavalli che traggono il carro del Sole, e quella delle dodici Ore che gii danzano intorno formando un coro circolare.

Qui è la preghiera che indirizza a Giove una delle Stagioni, quella dell’Autunno, che gli dimanda di non restar sola senza funzioni, e di affidarle la cura di maturare i nuovi frutti che produrrà la vigna. Giove le dà lusinghiere speranze, e le addita le tavole di Armonia nelle quali sono scritti i destini dell’ universo dalla mano dell’ indovino Fanes, il primogenito dei mortali: le dice che sulla terza tavola, ove sono scolpite le figure del Lione e della Vergine ella vi troverà il frutto prodotto dalla vigna; che nella quarta vi distinguerà certo re che presiede al nettare delizioso che si spreme dalla vite, e la figura di Ganimede cht; inalza la sua coppa.

Uditi questi detti, la giovine ninfa volge i suoi sguardi sul muro, ove dell’universo il fato sta scritto. Vi scorge una Tavola antica quanto esso, che conteneva tutto ciò che aveano fatto Ofione e il vecchio Saturno.

Sulla seconda Tavola erano gli avvenimenti dell’altra età, e il diluvio che gli compisce. Nella terza l’avventura dTo, d’Argo, quella di Filomela, e molte altre. La ninfa delle Stagioni passa rapidamente su questi quadri differenti per giungere a quello ove sono scolpiti i caratteri del Lione che segue la Vergine, la quale tiene il frutto dell’Autunno.

Finalmente la giovine ninfa cerca cogli occhi la quarta Tavola, che offre l’immagine della coppa di Ganimede dalla quale il nettare scorre, e vede che il destino accordava a Bacco la vite, come concesso aveva a Febo il lauro, a Minerva l’ulivo, a Cerere le spighe. È rapita di gioia a questa vista, va a raggiungere le sue sorelle, e ritorna verso il mare d’oriente, da cui esce il Sole.

Bacco però era sempre inconsolabile per la perdita del suo amico, e la natura intera sembrava dividere il suo dolore. La Parca gli annunzia che il suo caro Ampelo non è morto del tutto; che non passerà l’Acheronte, e diverrà per i mortali la sorgente di un liquore delizioso, che sarà la consolazione del genere umano e ritrarrà sulla terra r immagine del nettare, bevanda degi’ immortah. Bacco, gli dice, non piangere, onde le lacrime dei mortali siano asciugate. Appena ebbe terminate queste parole, che un prodigio colpì gli occhi del dio. Il corpo del suo amico si cangia in un istante, s’inalza sotto le forme d’un arbusto che produce l’uva, e forma una vite. Il nuovo albero prende il nome di Ampelo, come il suo amico, e divien carico di un frutto nero, mentre il giovin Cisso, cangiato anch’egli in un arbusto, s’inalza tortuosamente intorno alla vite, ed agli alberi i quali protegge colla sua ombra.

Bacco prende il nuovo frutto, lo spreme fra le sue dita, e ne fa scorrere l’umore in un corno di bove che gli serve di coppa. Lo gusta, e s’applaudisce della sua scoperta. Apostrofa l’ombra del suo amico, la di cui morte ha preparata la felicità dei mortali. Dà gli elogi più pomposi all’eccellenza del nuovo arbusto e a quella del suo frutto, sopra tutte le produzioni della terra. Il vino, egli dice, sarà un rimedio contro tutti i dolori.

Ecco r origine poetica che Nonno dà a questo liquore.

A questa prima tradizione ne aggiunge pure un’ altra. Supponete che la vite, pianta selvaggia, crescesse sulle rupi, quando un serpente volle mangiare del frutto di lei, e raccoglierne il liquore. La sua bocca divenne rossa per questo umore, e Bacco •ch’errava per le montagne se n’ avvide, e si rammentò di un antico oracolo di Rea. In conseguenza fece un foro in questa rupe per procurarsi una specie di strettoio in cui mettere l’ uve. Egli le preme coi Satiri, che ben presto divengono ubriachi per la forza del nuovo liquore. Vien descritta la vendemmia e le danze che 1’ accompagnano, e questo episodio termina il duodecimo Canto.

La spedizione di Bacco nelle Indie cantata in tutte le istorie del nume, raccontata da Diodoro Siculo, comincia nell’altro Libro, e comincieremo a narrarla nella seguente Lezione.

Udite da Filostrato la descrizione di due pitture antiche relative alla storia di Bacco.

Semele.

— Questo fulmine, in apparenza così terribile ed impetuoso, e il baleno che così scintilla alla vista, il fuoco che si sprigiona dalla sede degli Dei, tutto ciò si riferisce a quest’ avventura. Una grossa nuvola di fiamme inviluppando la città, di Tebe si dirige furiosamente contro il palazzo di Cadmo. Giove va a visitare Semole, la quale è già spirata, e Bacco nasce in mezzo al fuoco, mentre che la madre nelle sembianze di un’ ombra sale nel cielo, dove le Muse la celebreranno. Ma Bacco esce dal seno materno più rilucente di una stella, mentre che la fiamma, separandosi, gli forma una grotta più piacevole di quelle di Lidia e di Siria. L’edere coi loro grappoli le corrono intorno, e le viti e gli alberi dei tirsi nascono volontariamente dalla terra, e si veggono in mezzo al fuoco. Mirate Pane come si rallegra sulle cime del monte Citerone saltando, danzando, con Evoè nella bocca. Ma Citerone in umane sembianze piangerà ben tosto i lacrimevoli casi che vi avverranno. Ha per ora una corona di edera che gli pende con negligenza sulla testa, e sembra pronta a cadere, perchè gli duole di dovere essere ornato per la nascita di Bacco. Ecco l’arrabbiata Megera che pianta dei salci accanto a lui, e fa sorgere una fontana d’ acqua viva pel sangue di Atteone e di Penteo che sparger vi si deve. —

Penteo.

— Qui sono dipinte le cose che avvennero sul Monte Citerone: le danze, i cori delle Baccanti, e le rupi dalle quali scorre il vino, nettare dei mortali. Vedete l’edera che s’arrampica, i serpenti che strisciano sul monte, o annodano i tirsi, gli alberi che stillano, miele. Ecco là un grosso salcio rovesciato, forza maravigliosa per donne che non siano invase da Bacco. Le scellerate hanno gettato a terra il misero Penteo, smembrandolo sotto l’apparenza di un leone, e adesso lacerano la preda, e sono la propria madre e le sorelle della madre. Queste gli troncano le mani, l’altra tira il proprio figlio pe’ capelli. Voi direste di vederle veramente, e che gridino dalla gioia: tanto i loro spiriti dal furore del vino sono alterati!

Bacco guarda tutto questo da una rupe con le gote gonfie pel corruccio, e punge le donne coi suoi sdegni violenti. Elleno non s’ avveggono di quello che fanno, nè come Penteo loro gridi misericordia: non odono che il ruggito di un leone. Ecco le cose che passano sopra la montagna. Quanto a quello che dopo vedete, è Tebe, la reggia di Cadmo, e un gran pianto nel Fòro. I parenti, gli amici, che riuniscono il corpo onde porlo sulla pira. La testa di Penteo è talmente sfigurata che Bacco stesso n’ha compassione: è nel primo fiore della sua età, ha la faccia tenera, delicata; i capelli biondi non mai cinti dall’edera e dalla vite. Non danzò mai al suono delle tibie: tutto questo lo poneva ad ira. Ah fu ben stoltezza il non avere infuriato con Bacco: Ma ciò che accade alle donne è degno di gran compassione: quel che non conobbero nel Citerone, qui è loro tutto manifesto. Non solamente il furore le ha stancate, ma ancora la forza che le rese forsennate. Sulla montagna piene di ardore di combattere facevano risuonare le valli dei loro gridi: qui mute si stanno, rammentando il loro delitto. Sono sedute in terra: una appoggia la sua testa su le ginocchia; 1’ altra la piega sulle spalle. Agave vorrebbe abbracciare il suo figlio, ma non ardisce toccarlo: che ha le mani, il seno, le gote tinte del di lui sangue. Vi sono ancora Armonia e Cadmo, ma non come solevano. Le Parche gli hanno trasformati in serpenti; le scaglie cominciano a guadagnare il loro corpo; le gambe, le cosce sono sparite; il cangiamento della loro figura si estende alla parte superiore: eglino n’ arrossiscono e si abbracciano come se volessero impedire la metamorfosi del rimanente. —

Lezione sessantesima.
Avventure di Bacco. §

Decretata dal fato la conquista dell’Indie, Giove invia Iride al palazzo di Rea per comandare a Bacco che vada a combattere gl’Indiani, cacci dall’Asia questi ingiusti, uccida il principe Deriade, che significa Bissa, loro re, che sotto forma di Cerasta nata dall’acqua dei fiumi, si era reso terribile per le sue navi, e comunichi quindi a questi popoli le sue orgie e i doni della vite. E noto che i misteri di Bacco e l’invenzione del vino si celebravano come le cerimonie Eleusine, perchè consideravano ambidue questi vegetabili come il ritrovato più utile pel genere umano. Iride dunque vola da Rea, beve il nuovo liquore, intima a Bacco gli ordini di Giove, che gli comanda di sterminare una nazione che non sa rispettare gli Dei. Gli annunzia che solo a questo patto le Ore gli apriranno un giorno le porte del cielo, che non si acquista senza gloriose fatiche. Lo stesso re degli Dei non vi è giunto che dopo aver vinti ed incatenati i Giganti.

Adempiuta l’imbasciata, Iride risale al cielo. Nelristante Cibele invia il capo dei suoi cori e delle sue danze per riunire un’armata, che deve esser comandata da Bacco. Si legge il lungo cataloga di tutti quelli che si riuniscono sotto gli stendardi del nume. Vi si distinguono Eroi eh’ erano stati cogli Argonauti, nè vi manca l’ordinario corteggio di Cibele, che rassomiglia molto quello dei misteri di Bacco. Vi è pure Aristeo inventore del miele, al quale la Cosmogonia dei popoli della Libia affida l’educazione di Bacco.

Tutte le genti dell’Attica hanno parte in somma nella spedizione del pari che gl’Italiani da Fauno comandati. Emazione conduce i suoi guerrieri di Samotracia: e già tutte le schiere erano riunite sotto il vessillo di Bacco, quando la Pleiade Elettra brillando nel cielo e formando la settima stella delle Pleiadi, dà colla sua apparizione a Bacco il segnale felice del combattimento e della vittoria. Il resto di questo Canto comprende l’enumerazione dei differenti popoli dell’Asia Minore che si riuniscono a Bacco.

Nel Canto seguente il poeta ci dipinge Cibele che arma in favore di Bacco i suoi Genii e i suoi Dei. Ella chiama al suo soccorso i due Cabiri figli di Vulcano, i Dattili, i Coribanti, i Telcbinii, i Centauri, i Ciclopi, i dodici figli di Pane, Sileno, tutta la truppa dei Satiri, i figli delle ladi, le figlie di Lamo che aveano nutrito Bacco.

Le ninfe Oreadi, le Baccanti fanno parte dell’armata, alla testa della quale Bacco si move. Il poeta ne descrive la sua armatura, i suoi vestiti, che rappresentavano il cielo e le stelle. Con questo treno lo dio lascia il soggiorno di Cibele, e s’ incammina verso i luoghi occupati dagl’Indiani.

L’eroe del poema comincia ad entrare in azione: il fulmine fa rimbombare le montagne, e annunzia la sua vittoria a Bacco. Dipinge quindi il poeta l’insolenza del generale indiano Astraide, che accampa il suo esercito sulle rive dell’Astaco, di cui vuole a Bacco contrastare il passaggio. Ne rappresenta pure il contegno delle due armate nemiche trincierate sulle rive del fiume, di cui le acque son cangiate in vino da Bacco dopo la disfatta di una parte degl’Indiani.

Quelli che avanzano, maravigliati della loro perdita, bevono 1’ onda del fiume, che prendono per nettare, e di cui non possono mai saziarsi.

Il nume si approfitta della loro ebrezza, della quale sono descritti gli eff’etti; ne sorprende gran parte, e gì’ incatena.

Bacco dopo aver passato il fiume Astaco si appressa alla vicina foresta abitata da una ninfa detta Nice, Vittoria. Questa era una giovine cacciatrice, che stava sopra una rupe scoscesa avendo ai suoi piedi un leone terribile, che abbassava davanti a lei la sua terribile criniera.

In vicinanza abitava un bifolco chiamato Imno, che si era innamorato della ninfa. E espressa la passione di lui, con l’ostinazione di Nice, che ribelle a’ suoi voti respinge le sue preghiere, e scocca una freccia sul misero amante. Le ninfe lo piangono, ed Amore giura di vendicarlo, sottomettendo questa bellezza feroce a Bacco. Tutta la natura piange la morte del giovinetto infelice.

La morte d’ Imno non fu impunita. L’ amore scocca una freccia contro Bacco, che scorge la fanciulla in un bagno, e ne diviene amante. Yien dal poeta descritta la passione dello dio, e l’umiltà delle preghiere alle quali discende. La segue per tutto: ma la crudele nega soddisfare i suoi desiderii, lo minaccia, e s’ invola alla sua persecuzione.

Bacco ne sesrue l’orme, e la cerca in mezzo alle selve coir aiuto del suo cane fedele donatogli da Pane, al quale promette di collocarlo nel cielo accanto a Sirio ed a Procione, onde, unendo il suo foco a quello dì questi astri, concorra a maturare le viti. La donzella stancata dal correre, riscaldata dall’ardore del Sole, e ignorando la mutazione successa nelle acque del fiume, va per togliersi la sete, si ubriaca e dorme. L’amore avverte Bacco, che coglie la favorevole occasione per commettere così caro furto, di cui Pane stesso è geloso. La Ninfa si sveglia, e prorompe in rimproveri contro Venere e Bacco. Si lamenta della perdita della sua verginità, vuole uccidersi e cerca il rapitore per trapassarlo coi suoi dardi. E costretta ad esiliarsi dalle selve a lei così care per timore di riscontrarvi Diana, di soffrirne i rimproveri: linalmente si avvede di esser madre. Dà alla luce una figlia chiamata Telete, e Bacco edifica in questo luogo la città della Vittoria dopo la disfatta degl’Indiani, contro i quali riprende le armi di nuovo.

Il diciassettesimo Canto ci rappresenta Bacco, che di nuovo marcia contro gl’Indiani, prosegue le sue conquiste in Oriente coli’ apparecchio meno di un guerriero che del capo di una festa Bacchica.

Arriva sulla terra fertile di Alibe, che il tranquillo Eudi bagna colle sue acque. Quivi un pastore nominato Brongo riceve Bacco ospitalmente. Vi è la descrizione della capanna e del convito frugale offerto allo dio, che all’ospite dà in ricompensa a gustare del suo nuovo liquore, e gli dà pur una pianta di vite da coltivare. Bacco continua il suo cammino, e marcia contro Oronte capo degl’Indiani, al quale Astraide avea di già partecipata la furberia impiegata da Bacco contro gl’Indiani, che avea sulle rive dell’Astaco disfatti. Oronte era genero del bellicoso Deriade, col quale Bacco combattere doveva. Qui il poeta ci pone davanti agli occhi i preparativi delle due armate animate alla battaglia dai loro generali.

Oronte dà esempi di valore ai proprii soldati, e nulla resiste ai suoi sforzi: egli si misura collo stesso Bacco. Il nume lo respinge vigorosamente, e Oronte dopo essersi trafitto colla sua spada cade nel fiume al quale dà il suo nome. Le ninfe piangono questo figlio sventurato dell’ Idaspe. Succede un orribile macello degl’Indiani. Pane canta la vittoria dello dio, e Blemi, capo degl’ Indiani, si presenta con un ramo di ulivo per domandargli la pace.

Il seguente Libro ci rappresenta la Fama, che pubblica in tutta l’Assiria le maravigliose imprese del dio del Vino. Stafilo regnava su queste con ro’o trade: Botri era suo figlio e Meti sua moglie, ed aveva Pito per capitano. Questi eroi non sono che allegorici: Stafilo significa uva, Botri grappolo, Meti ubriachezza, Pito botte.

Il poeta ci rappresenta Stafilo e Botri che sopra un carro vanno davanti a Bacco, e lo invitano ad accettare l’ospitalità, ed è dipinta la magnifica accoglienza fatta allo dio. L’autore ci dà pure la descrizione del palazzo del re di Assiria, delle ricchezze delle quali fa pompa, e del convito che prepara. Vi si distingue sopra tutto la principessa Meti, che per la prima volta che beve il liquore che Bacco le versa, diviene ebra, come il suo sposo Stafilo, il loro figlio Botri e il loro vecchio confidente Pito. Tutti si pongono a danzare. Questo fu il primo efi’etto della loro ebrezza: in seguito vanno a dormire come Bacco. Lo dio ha un sogno che lo sveglia, s’arma, chiama i suoi Satiri: Stafilo e Botri si svegliano con Pito: Meti continua a dormire. Stafilo accompagna Bacco, gli dona una tazza esortandolo a seguitare le sue vittorie, e gli rammenta quella di Giove sul serpente Campe e sopra i Giganti: quella di Marte sul mostro figlio di Echidna: quella di Perseo sulla belva marina, alla quale Andromeda era esposta. Il figlio di Danae, dic’egli. liberò lei, e voi salverete la vergine celeste Astrea, oltraggiata dai delitti degl’Indiani. Dopo questa esortazione di Stafilo, Bacco invia un araldo al capo degl’Indiani, a Deriade per proporgli di accettare i suoi doni, o di prepararsi al combattimento, ed aspettare il destino di Oronte.

Perisce Stafilo, e la morte di lui move il dolore di tutta la sua famiglia e della sua casa.

Il Canto diciannovesimo comincia dallo spettacolo della principessa di Assiria desolata per la perdita del suo sposo. Ella ha perduto il suo caro Stafilo, e il dio del Vino 1’ ha abbandonata: ella dimanda il suo liquore per consolarsi. Serve, dic’ella, eh’ io vegga una tazza di questa deliziosa bevanda, ed io non piangerò più. Questo passo non si accorda con la dignità degli altri Canti. Meti dichiara di esser pronta a sacrificar tutto per unirsi a Bacco, al quale ella raccomanda il giovine Botri e Pito. Bacco l’assicura e promette di associare alle sue feste Meti, Stafilo e Botri.

Converte questi ultimi, il primo nei grani dell’uva, nel grappolo il secondo. Il resto di questo Canto contiene la descrizione dei giuochi che fa celebrare Bacco accanto al sepolcro di Stafilo. Eagro di Tracia ed Eretteo di Atene si disputano il premio del canto. La vittoria è ottenuta dal primo. A questo esercizio succede quello del Pantomimo. Sileno e Marone danzano: il primo si converte in un fiume, e Marone riceve il premio destinato al vincitore.

Avete udito nella presente Lezione proporsi a Bacco in esempio Perseo di Andromeda liberatore: vi sarà caro l’udire da Manilio poeta latino la descrizione di questo avvenimento, che ho tradotta. Il fatto è troppo noto per aver bisogno di spiegazione: dirò solo che Andromeda era figliuola di Cefeo re di Etiopia, e di Cassiopea che aveva avuto r ardire di credersi più bella di Giunone. Nettuno per vendicar la sorella mandò un mostro che desolava il paese, e al quale, onde por fine al pubblico danno, fa esposta Andromeda, secondo la risposta dell’oracolo di Giove Ammone.

Soffria la pena dell’error materno
Andromeda, e le sue tenere membra,
Eran mercede al mare e preda al mostro.
È questo l’imeneo? pubblici danni
Privato pianto già consola, e l’orna
Vittima per la pena un’ aurea veste
Non preparata a questi voti. Appena
Giunsero al lito del nemico mare,
Le molli braccia per le dure rupi
Aprono, e son fissi agli scogli i piedi.
La fa bella il supplicio, e mollemente
China si sta sulla cervice bianca.
Sola custode della sua figura
Scorre la veste dalle spalle, e fugge
Le braccia ancora, e per gli omeri vedi
All’ aura sventolar le nere chiome.
1 volanti alcion percosser l’ali
Alla vergine intorno, e in flebil carme
I suoi casi piangendo, ombra le fanno
Delle conteste piume: il mar contenne
I flutti, e non bagnò le note ripe.
Con lieve soffio le pendenti membra
L’aura riscalda, e per l’estrema rupe
Flebilmente risuona. Alfin quel giorno
Felice Perseo conduceva al lido
Già vincitore del Gorgoneo mostro.
E quando pender la fanciulla vide
Dalle rupi, stupìa quel volto istesso
Intrepido ai nemici. Il suo trofeo
Sostenne appena colla mano, e vinto
In Andromeda fu. Le rupi istesse
Già invidia, e chiama fortunati i lacci
Che le avvincon le membra; e poiché seppe
Da lei la causa della pena, ha fermo
Per la guerra del mar gire alle nozze,
Ancor che venga altra Medusa. Affretta
L’aereo corso, e i genitori in pianto
Ei già ricrea con la promessa vita,
E patteggia le nozze, e torna al lito.
Turgido rOcean s’ innalza, e Tonde
Fuggono accavallate in lunghe schiere
L’urto del mostro che s’ inalza: il mare
Scorre e suona nei denti, ed al diviso
Flutto sovrasta la terribil testa.
Qual, donzella infelice, era il tuo volto
Benché vindice tanto abbi: Si sparse
Il pallor sulle membra allorché vide
Dalla concava rupe il proprio fato,
E verso lei nuotar la pena, e trarre
Il mare, onde sarà misera preda.
Ma vola in alto Perseo, e, sulle penne
Librato, incontra il suo nemico, e vibra
La spada tinta del Gorgoneo sangue:
Converte il mostro in lui la fronte e l’ ira:
S’inalza, e sopra i tortuosi giri
Fisso si scaglia con le membra in alto.
Ma quanto ei s’ erge dal profondo flutto,
Tanto in su Perseo vola, onde lo stanco
Mostro per lo sicuro eter delude,
E gii percote la contraria faccia;
Pur non cede all’eroe, nell’aria il morso
Incrudelisce, e suona il vano dente
Senza ferita: contro il cielo sbuffa
L’onda sanguigna, e le volanti penne
Quasi sommerge, e al cielo il mare oppone.
Della fatai tenzone il dubbio evento.
L’innocente cagion mirava, e teme
Del suo liberator di sé scordata:
Sospira, e il cor più che le membra pende:
Ruina alfin col lacerato corpo
Il mostro, e pien del flutto in su ritorna,
E copre il mare con le vaste membra
Tremendo ancora, ed il virgineo volto
Pure in mirarlo impallidisce: il sangue
Perseo tergeva nel vicino fonte.
Indi volò maggiore all’ alto scoglio,
E alla fanciulla di rossor dipinta
Le catene togliendo, i primi baci
Cogliea, mentre Imeneo la face accende.
Manilio, Astronomicon, lib. V, v. 543 e segg.

Lezione sessantesimaprima.
Continuano le avventure di Bacco. §

Bacco nel ventesimo Canto è occupato a consolar Mete e tutta la casa di Stafilo. La notte invita tutti al sonno, ed Eupetale, o la bella foglia, nutrice di Bacco, prepara gli appartamenti per dormire. Vi è la descrizione di un sogno che ha lo dio, nel quale la Discordia, colle sembianze di Cibele, viene a rimproverargli i suoi ozii, e 1’ esorta a combattere contro Deriade.

Bacco si sveglia fieramente, e move l’esercito. Botri e Pito si uniscono ai Satiri e alle Baccanti, che compongono l’armata di Bacco. Lo dio dirige le sue schiere per Tiro e per Biblo sulle rive del fiume Adone presso il Libano e le coste di Nisa in Arabia.

In questi luoghi regnava Licurgo figliuolo di Marte, principe feroce, del quale il poeta fa un ritratto così terribile, come quello che Y antichità ha fatto di Enomao, col quale Licurgo era stato allevato. Ornava le porte del suo palazzo colle teste degl’ infelici che aveva uccisi, come Polifemo in Virgilio. Questo principe avea per padre Dria, la querce, ed era re dell’Arabia.

Giunone invia Iride verso questo principe per irritarlo contro Bacco. Iride, per adempire al desiderio della dea, prende le forme di Marte, e gli tiene un lungo discorso. Di già il re prevede di esser vincitore. La dea va in seguito a trovar Bacco, e prende per ingannarlo la forma di Mercurio: lo impegna a trattar con riguardi di amicizia Licurgo ed a presentarsegli inerme. Bacco persuaso arriva senz’ armi al palazzo del re feroce, che sorride con aria sdegnosa del suo corteggio: minaccia il dio, armandosi della sferza del bifolco, perseguita le ladi nutrici di Bacco, e tutta la turba delle Baccanti. Il nume stesso intimorito è obbligato a fuggire e a precipitarsi nel mare, ove è ricevuto da Teti, e da Nereo consolato. Licurgo minaccia con un discorso insolente il mare che ha ricevuto Bacco.

Il Canto seguente comincia col combattimento di Ambrosia contro Licurgo, che la fa prigioniera. La Terra soccorre Ambrosia e la converte in vite. In questa nuova figura ella incatena il suo vincitore coi suoi giri tortuosi. Invano tenta di liberarsi. Le ladi, Poliso, Tiona e Fesile corrono onde percoterlo.

Nettuno solleva il mare, scatena le tempeste, scuote la terra: ma nulla spaventa Licurgo, che sfida le Baccanti e il potere degli Dei che proteggono il dio del Vino. Comanda che si taghno le vigne per tutto, e minaccia Nereo e Bacco.

L’Arabia soccorre Licurgo e lo libera onde porlo fra gì’ immortali, e sacrificargli come ad un dio: ma Giove, onde togliere questo esempio, acceca il re feroce, che non può riconoscere il suo cammino.

Intanto le Nereidi, o le ninfe del Mar Rosso, si occupavano di Bacco fra le loro acque, e gareggiavano neir accarezzarlo. Melicerta ed Ino suoi parenti, divinità marine, gli sono liberali d’ ogni cura, mentre che i Satiri lo cercano e lo piangono sopra la terra. Scolmo finalmente viene a consolarli, e gli annunzia il ritorno del loro capo.

Questo inviato avea corna a guisa di luna, e una veste di pelle di becco. Deriade disprezza l’armata di Bacco, e si prepara a combattere. Rinnuova contro il nume le prime minacele, e rimanda il suo araldo. Gli dice che se vuol rivolgere i suoi passi verso la Battriana vi troverà il dio Mitra, e in Persia Tassino Fetonte. Quanto a lui ricusa i suoi doni e il suo vino, e non vuol bere che le acque dell’Idaspe. L’Acqua e la Terra, queste sono, egli dice, le mie sole divinità. Porta queste risposte a Bacco, dice Deriade, ed annunziagli che io l’aspetto.

Intanto la gioia pel ritorno di Bacco occupava i Satiri e le Baccanti.

Proteo gli aveva già manifestato ciò ch’era successo nella sua assenza: l’ accecamento di Licurgo e la metamorfosi di Ambrosia già collocata fra le stelle. L’araldo ritorna, e gli arreca la risposta di Deriade, onde lo dio rivolge il suo carro verso l’Oriente.

Deriade dalla sua parte arma gl’Indiani, e si accampa vicino ad una oscura boscaglia. L’armata di Bacco giunge sulle rive dell’ Idaspe, e la presenza di questo dio sparge il coraggio e la gioia in tutte le sue schiere. Tutta la natura si rallegra.

Mentre i soldati sono fra gli scherzi e le vivande, gl’Indiani si dispongono alla pugna. Ma un Amadriade scopre il loro disegno ai soldati di Bacco, che s’ armano segretamente.

Gl’Indiani schierati assalgono l’armata di Bacco, che fugge con inganno per condurli neUa pianura. Incontanente la presenza del nume li spaventa, e si fa di loro orribil macello. Le acque dell’ Idaspe si tingono del sangue degl’Indiani. Baco ed Erette© si distinguono fra i combattenti di Bacco.

Il vigesimo terzo Libro contiene il seguito della battaglia data sulle rive dell’ Idaspe, nelle di cui acque sono precipitati gl’Indiani fuggenti innanzi ad Baco e a Bacco. I miseri si uccidono tra loro, e Bacco non risparmia che il solo Turco, perchè sia testimonio della sua vittoria. Giunone sempre nemica dello dio invita l’Idaspe a dichiarar la guerra al vincitore, che si prepara a traversarlo.

Appena si è inoltrato nel fiume che l’Idaspe impegna Eolo a sollevar le sue onde sprigionando i venti. È descritta la confusione che questo avvenimento pone neir esercito di Bacco. Lo dio minaccia il fiume, che diviene più furioso. Bacco gli arde il suo letto. L’Oceano se ne sdegna, e minaccia Bacco e il Cielo.

Nel seguente Canto Giove pone d’accordo l’Oceano e Bacco, al quale l’idaspe è costretto di dimandar grazia. Lo dio del Vino si placa, e nelr istante il vento settentrionale rende al fiume le sue acque.

Deriade arma gl’Indiani contro Bacco, e con lui vengono in soccorso altri Dei dell’ Olimpo. Apollo vuol proteggere Aristeo, Mercurio prende cura di Pane figlio di Penelope, e Vulcano dei suoi Cabiri.

Bacco s’inoltra alla testa della sua armata; e Giove nelle forme di un’ aquila gli serve di guida portando nell’aria Eaco suo figlio.

Intanto Turco annunzia a Deriade la gran strage che Bacco ha fatta degl’ Indiani sulle rive dell’Idaspe. È descritto il dolore che sparse la nuova nel campo di Deriade, e la gioia che regnava in quello di Bacco.

I vincitori, fra i piaceri della mensa, cantano le antiche Cosmogonìe, la guerra dei Giganti, l’imprigionamento di Saturno, che negli abissi del Tartaro impiega vanamente le armi dell’Inferno per difendersi, e Venere che lavora l’opera di Minerva. Quindi i soldati si abbandonano al sonno.

II poeta comincia il venticinquesimo Canto, o la seconda parte del poema, con un’ invocazione alla Musa per invitarla a cantare la guerra delle Indie, e si protesta che, seguendo l’esempio di Omero, non canterà che gli ultimi anni.

Pone Bacco al di sopra di Perseo, di Ercole, e degli eroi che pugnarono sotto le mura di Troia. Quindi descrive il timore e la desolazione degli abitanti sulle rive del Gange, e la disperazione di Deriade, che avea saputo che le acque dell’Idaspe si erano cangiate in vino, e presagivano le vittorie di Bacco.

Il nume vergognandosi del riposo in cui languiva, si duole degli ostacoli che Giunone ai suoi trionfi frappone. Ati l’amante di Cibele, di cui il poeta ci rammenta la famosa castrazione, viene per parte della dea a consolar Bacco, e gli dà un’ armatura fabbricata da Vulcano. Lo scudo vien descritto: nel mezzo vi erano rappresentati la terra, il mare: intorno si vedeva il cielo, la sfera delle stelle, il sole, la luna, i pianeti, le zone e le differenti costellazioni. Vi era inoltre espresso Anfione e Zeto, eh’ edificarono col suono della lira Tebe dalle sette porte; l’aquila che rapisce Ganimede, e il combattimento di Damasene contro un orribile serpente. Nè trionfa: ma poco tempo dopo il serpente è risuscitato per virtù d’ una certa pianta chiamata fior di Giove, che applicata richiama pure in vita Tilo vittima infelice di questo animale.

Si vedeva pur Rea che aveva partorito di poco; e Saturno che divora le pietre che prende pei suoi figli. Tali erano a un dipresso i soggetti mitologici scolpiti sul magnifico scudo inviato da Rea a Bacco, e che attraeva la vista di tutte le schiere. Giunge la notte, e stendendo sulla terra il velo delle sue tenebre richiama al sonno i mortali.

Nel Canto seguente Minerva sotto le forme di Oronte appare in sogno a Deriade, e lo muove a combattere con Bacco. — Tu dormi, Deriade, gli dice. Un re che deve esser vegliante per difendere il suo popolo numeroso, deve egli dormire quando il nemico è alle porte? L’uccisore di Oronte tuo genero vive ancora, ed egli non è vendicato. Mira questo seno che porta l’orma della larga ferita che vi ha fatto il tirso del tuo nemico. Perchè Licurgo figlio di Marte non è qui? tu vedresti fuggire Bacco subito, e nascondersi nelle onde. Era egli un dio quando un mortale lo pose in fuga?—  Terminate queste parole, Minerva ritorna in cielo e riprende le antiche sembianze. Deriade unisce incontanente i suoi guerrieri, che chiama da tutte le parti dell’Oriente. Agreo e Flogio si presentano i primi per comandar le sue squadre.

Entrano nella lega tutti gli abitanti delle rive dell’Indo; mandre di elefanti compaiono. Comanda questo esercito numeroso Deriade, che si gloria di discendere dall’Idaspe e da Astraide una delle figlie del Sole, e secondo altri da Ceto e da una Naiade.

Questo Canto contiene notizie curiose sui costumi, gli usi e l’istoria naturale di questo paese. Di già l’Aurora aveva aperte le porte dorate dell’ 0riente (dice il poeta) e la nascente luce del Sole era riflessa dalle acque del Gange; i raggi di quest’ astro avevano scacciate le ombre dalla terra quando una pioggia di sangue venne a predire agl’Indiani la loro sicura disfatta.

Non ostante Deriade pieno di un’orgogliosa fiducia dispone i suoi Indiani contro lo dio, e loro rivolge un discorso pieno di disprezzo per nemici e per Bacco, nel quale il barbaro rammenta molti fatti di Mitologia Greca. L’armata degl’Indiani, la loro veste, la loro armatura è descritta del pari che l’armata di Bacco, la quale si distribuisce in quattro corpi. Bacco arringa le sue schiere: Giove raduna gì’ immortali, e invita molte divinità a interessarsi per la difesa di Bacco, mostrando loro le diverse ragioni che esigono da esse questo interesse. Gli Dei si dividono: Pallade, Apollo, Vulcano, Minerva secondano i voti di Giove, mentre che Giunone riunisce contro Bacco Marte, l’Idaspe e la gelosa Cerere, che devono opporsi alle imprese del dio.

Ora udite da Flostrato, che traduco, la descrizione di antiche pitture.

Pelope ed Ippodamia.

— La maraviglia, che qui vedete, deriva da Enomao arcade, e di Arcadia sono pure quelli che gridando incontro gli si fanno, perchè la quadriga di lui si è spezzata per l’artifìcio di Mirtillo.

Nelle imprese della guerra non vi era ancor l’uso dei carri a quattro ruote: erano solamente adoprati nei solenni combattimenti. I Lidii, benché esperti nell’arte di guidare, usavano bighe ai tempi di Pelope: ma col tempo divennero così valenti da accoppiar insieme otto cavalli. Guardate ora come sono terribili quelli di Enomao, ed impetuosi al corso. Spinti dal furore, tutti coperti di spuma e quanto cupamente neri, come sogliono essere di Arcadia tutti i cavalli.

Quelli di Pelope al contrario sono tutti bianchi. agili, obbedienti al freno, e nitriscono in modo sì benigno, che la vittoria promette.

Considerate Enomao rovesciato, fiero ed orribile, e simigliante a Diomede di Tracia, che il suo destriero pasceva di sangue.

Riconoscerete alla bellezza Pelope, che giovine ministrava il vino agli Dei sul monte Sipilo, onde Nettuno talmente s’ invaghì di lui che gli fé’ dono di questo cocchio, col quale potrebbe traversare il mare come la terra.

Pelope dunque ed Ippodamia hanno guadagnato il premio del corso: stanno ambedue assisi sul cocchio, e sono trasportati da un ardente desiderio di abbracciarsi. Pelope è vestito molto delicatamente secondo il costume lidio. Ippodamia è in abito nuziale, ma colla faccia scoperta, onde nulla le contrasti la vista del marito.

Il fiume Alfeo si alza dalle sue acque profonde onde presentare una corona di ulivo selvaggio al vincitore che passa lungo le sue rive. Quelli che cercavano le nozze d’Ippodamia sono sepolti nei monumenti che vedete, e sono nel numero di tredici: la terra ha prodotti dei fiori intorno ai loro sepolcri, onde sembra che si rallegrino della vittoria ottenuta sul loro crudele nemico. —

Evadne.

— Il rogo acceso, gli animali scannati all’ intorno, e questo corpo morto in mezzo alle fiamme, più grande dell’ordinario, questa donna che si getta disperatamente nel fuoco, tutto ciò è stato dipinto con questo oggetto.

I parenti e gli amici di Capaneo lo seppelliscono in Argo, essendo stato ucciso da Giove davanti a Tebe mentre n’aveva già superate le mura. Voi avrete sentito dai poeti, ch’egli fu fulminato per avere con arroganti parole ingiuriato Giove. Poiché dunque i duci e tutti gli altri perirono davanti alla città di Cadmo, gli Ateniesi ottennero a forza per essi l’onore della sepoltura. Capaneo fu quindi portato cogli altri alla patria, ed ebbe gli stessi onori ed uffici che Tideo, Ippomedonte e gli altri. Di più la sua moglie Evadne deliberò di morire sopra il suo rogo. Mirate: ella si dirige verso le fiamme riccamente vestita, onde il sacrifìcio sia più caro agli Dei. Non rivolge indietro lo sguardo, ma sembra in atto di chiamare il suo marito. Intanto dei piccoli amorini danno fuoco al rogo colle loro fiaccole. Ed è ben giusto che la loro fiamma sia destinata a così nobile uso, poiché qual vittima più degna di una moglie che s’ immola per amor del marito: —

Lezione sessantesimaseconda.
Continuano le avventure di Bacco. §

Fauno, Aristeo ed Eaco più di tutti s’inoltrano contro gl’Indiani. Il poeta nel Canto xviii ne descrive l’ordinanza dell’esercito, egualmente che il primo assalto.

Faleno si misura con Deriade, e cade morto. Corimbaso, uno dei più valenti guerrieri degl’Indiani, si distingue sopra tutti pel numero delle vittime ch’egli immola, e muore trafitto da mille dardi. Un guerriero ateniese, dopo aver perduto un braccio, combatte ancora con valore fino all’estremo momento.

Dopo il combattimento della fanteria, il poeta ne rappresenta quello dei cavalieri. Argilippo combatte armato di torcie infiammate, uccide molti Indiani, e ferisce con un colpo di pietra Deriade stesso. Il resto del canto passa in combattimenti, nei quali si distinguono Ali mede, i Ciclopi, e i Coribanti, Damnaneo, Ocitoo e Acmone educatori di Bacco.

Giunone avvertita della disfatta degrindiani viene per rianimare il coraggio e il furore di Deriade loro capo, che unisce le sue truppe, e con nuovo impeto rinnova la battaglia. Morreo rompe la linea dei Satiri, Imeneo favorito di Bacco sostiene l’urto dell’esercito, animato dall’esortazione dello dio, che investe con nuovo vigore i nemici. Melaneo, il nero abile arciero, vuol ferire Bacco, ma il dardo colpisce Imeneo nella coscia. Bacco n’ è vivamente afflitto, e ha gran cura di sanare il suo favorito. Incontanente il giovine Imeneo guarito saetta Melaneo, e non lascia più Bacco.

Vi è pur la descrizione della zuffa eccitata fra Aristeo, i Càbiri figli di Vulcano, e le Baccanti. Calice pugna al fianco del Nume. Bacco provoca Deriade; la notte sopravveniente separa i combattenti.

Marte dorme, e la sua quiete è da un sogno agitata. Si alza quando 1’ aurora appena comincia a dar luce dalla cima dei monti. Il terrore e la paura preparano il suo carro; vola a Pafo, a Lenno, e quindi al cielo ritorna.

Bacco profitta dell’assenza di Marte per assalire gl’Indiani, e per far guerra al popolo nero. Aristeo combatte all’ala sinistra. Morreo manifesta la sua meraviglia perchè i soldati di Bacco armati del solo tirso battono gì’ Indiani. Deriade lo riprende vivamente, e n’accusa la vile paura. Morreo ferisce Eurimedonte, al di cui soccorso vola Alcone suo fratello. Eurimedonte invoca Vulcano loro padre, che copre Morreo colle sue fiamme. Ma l’I daspe padre di Deriade l’ estingue: uccide Flogio, ed insulta alla sua disfatta. Il famoso Tettafo che la sua figlia avea nutrito col proprio latte nella prigione, armato della sua terribile spada sconvolge l’armata dei Satiri, e perisce sotto i colpi di Eurimedonte.

Qui il poeta descrive il dolore di Meroe sua figlia, numera le altre vittime di Morreo, Alcimachia ed altre Menadi, che hanno i nomi coll’Iadi comune.

Giunone sostiene Deriade, e terribile lo rende agli occhi di Bacco che prende la fuga: Minerva lo richiama al combattimento, e gii rimprovera la sue codardia. Lo dio riprende coraggio, ritorna all’assalto, fa strage di gran quantità d’Indiani, e ferisce Melanione il nero, che nascoso sopra un albero avea molti uccisi.

Ma Giunone sempre costante nel suo odio contro Bacco cerca nuovi mezzi di nuocergli. Discende all’ Inferno per trovarvi Proserpina, onde prenda parte alla sua vendetta, e sollevi le furie contro Bacco. Proserpina persuasa acconsente alla sua domanda, e le concede Megera. Giunone parte con lei, fa tre passi, e al quarto arriva sulle sponde del Gange. Quivi mostra alla Furia mucchi di morti, reliquie infelici dell’ armata indiana. La tremenda s’irrita delle fortune di Bacco più della stessa Giunone, che a lei si rivolge con un sorriso disdegnoso e con insolente discorso ripieno d’ingiurie a Giove e minacce a Bacco. Compito il suo parlare, s’ innalza verso il cielo, mentre la Furia si ritira in un antro, ove si spoglia della figura di serpente, e prende quella di gufo, aspettando che Giunone le annunzi il sonno di Giove, secondo gli avvertimenti a lei dati dalla diva.

Iride va a trovar Morfeo, e nelle sembianze della Notte lo persuade a vincere colla sua quiete gli occhi del re degli Dei, onde servire al furore di Giunone. Lo dio del Sonno obbedisce, ed Iride va nell’Olimpo a render conto della sua imbasciata a Giunone, che prepara altri artifizi per sedurre Giove. Va a trovar Venere sul Libano per chiederle il suo cinto: questa vedendola afflitta ne domanda la ragione: Giunone le espone i suoi timori sulle conseguenze dell’afi’etto che Giove ha per Semole e per Bacco, al quala dà sede nell’Olimpo. Ella teme che non giunga a piantare nell’Olimpo la vigna e sostituisca questo liquore al nettare delizioso. Prevede i disordini, che l’ubriachezza porterà fra gli Dei, e l’esiglio al quale sarà condannata.

Datemi, Giunone dice, questo cinto potente, onde io prevenga questi mali, risvegli l’amore di Giove per me, e possa aiutar gl’Indiani, mentre il re degl’Immortali è dal sonno dell’amore domato.

Venere aderisce alle dimando di Giunone, che tosto dirige il suo volo verso l’Olimpo, ove ella nuovi ornamenti aggiunge alla sua bellezza. Quindi s’avvicina a Giove, che dell’antica fiamma i segni risente. Il suo amore si accresce per le carezze insidiose della sua sposa, alla quale confessa il suo violento afietto per lei. Mentre che gustano il piacere pei desiderati abbracciamenti, e quindi dal sonno sono presi, la Furia si arma contro Bacco, e già fischiano i suoi serpenti. Nella figura di un leone infuriato si precipita sopra Bacco, e gli comunica i suoi furori. Ne sono descritti i terribili effetti nello dio, e Deriade profittando del disordine assale le Baccanti.

Marte nelle sembianze di Morreo accende la battaglia, e fa prodezze dalla parte degl’Indiani. Molti dei compagni di Bacco prendono la fuga e si nascondono nei boschi e nelle caverne. Eretteo, Aristeo e tutti i Ciclopi sono disfatti. Eaco solo combatte ancora. Le Naiadi si nascondono nella sorgente dei loro fonti, e le Amadriadi negli alberi delle foreste.

Mentre che Bacco come un toro ferito dall’ assillo si precipitava negli accessi della sua rabbia, Cari, la Grazia figlia di Bacco e di Venere, spettatrice del furore di suo padre, si afiliggeva sulla misera sorte di lui. Ella era occupata a formare una corona di fiori per Venere, e sale al cielo, onde veder la dea, la quale accorgendosi del suo dolore ne domanda la cagione. Non la tace, e la prega ad interessarsi per la sorte di suo padre. Venere commossa, invia Aglae a Cupido, ed essa lo trova sulle sommità dell’Olimpo. Aveva accanto il giovine Imeneo suo compagno di giuochi: ambidue avevano scommesso trastulli fanciulleschi onde fossero premio al più bravo, ed il poeta ne fa una piacevole descrizione di que’ giuochi innocenti.

Il giovine Ganimede era il giudice. Aglae chiama Amore col pretesto di una menzogna, ed il fan cìullo vola verso la reggia di sua madre, che teneramente lo abbraccia. Gli espone il motivo dei suoi timori per Bacco, e lo persuade a prender parte nella sua causa dello dio. Gli parla della leggiadra Calcomedia, vergine saggia che presentemente è neir armata delle Baccanti, e lo invita a innamorare di essa Morreo tremendo. Amore si arma contro l’eroe indiano, scocca contro esso un dardo potente, che lo accende dell’amore il più ardente per la bella Calcomedia, che finge di amarlo. L’insensato credeva di potere, benché nero, ispirar questa passione, e Calcomedia compisce l’inganno coi suoi discorsi. Intanto ella profitta del silenzio della notte per andare in traccia di Bacco fra le selve. Il fiero Morreo più non pensa alla guerra. Sosroùoo’ato dall’ amore acconsente di essere incatenato da Bacco.

Il poeta dopo averci descritto i teneri sospiri che Morreo manda dal petto affannoso, ci pone davanti agli occhi lo spettacolo che offre il cielo nella notte. Yi si distingue il toro di Europa posto fra le costellazioni, Calisto cangiata in orsa, Mirtillo in cocchiere celeste, ed accanto a Cassiopea l’Aquila di Egìna.

Morreo pure desidererebbe di mutar figura, e di prendere le sembianze di Giove nei suoi amori con Antiope, onde goder potesse, nella forma di Satiro, dei favori della sua amante. La ninfa terribile lo fugge, e vuole precipitarsi nel mare piuttosto che sposarlo. Ma Teti, sotto l’aspetto di una Baccante, la distoglie da questa disperata risolu zione: le dice eh’ ella pure ha custodita la sua verginità contro gli assalti di Giove che l’ha perseguitata: le consiglia d’ingannare il fiero Indiano con apparente condiscendenza: questo è il solo mezzo di salvare l’armata delle Baccanti. Aggiunge che se l’Indiano volesse costringerla, ella ha in sua difesa il serpente che orna l’acconciatura della sua testa. Bacco la porrà in cielo come un testimonio perpetuo della sua virtù accanto alla corona d’Arianna, e splenderà con Ofiuco. Disse, e una densa nuvola inviluppando la giovine ninfa la tolse dagli sguardi dei mortali, e da ogni insulto la difese.

Dallo stesso poeta, del quale vi dò l’estratto, ho tradotto in versi la descrizione della morte d’Erigone dopo che le fu noto il destino del padre, che in sogno le apparve. Credo utile innanzi di esporvi brevemente la favola.

Essendo stato Bacco ricevuto ospitalmente da Icaro volle ricompensarlo, facendogli gustare il nuovo liquore, ed insegnandogli il modo di coltivare la vite che lo produce. Icaro fece parte del segreto e del liquore ad altri contadini che divenuti ubriachi uccisero il donatore. L’ombra di lui apparve in sogno alla figlia, che disperata andò in traccia del padre: lo trovò alfine, e disperata s’impiccò all’albero vicino alla fossa paterna. Il cane suo fedele compagno, dopo aver custodito il corpo della fanciulla, e mostratolo a dei pellegrini che lo seppeUirono, morì sul sepolcro della padrona. Giove impietosito pose Icaro, Erigone e il cane nel cielo.

Morte di Erigone.

D’Icaro l’alma le sembianze antiche
Prese, ed entrava nella nota casa.
Avea la veste, che l’ incerta strage
Dicea, rossa di sangue, e per la polve
Squallida, e aperta dagli alterni ferri;
Ed alla figlia le tremanti palme
Tendendo, disse: Non ravvisi il padre?
Anelar mira nel canuto petto
Queste ferite. — Mise acuto grido
Erigono: nei suoi sonni di pianto
Desiava abbracciarlo, e le parea
Che contro a lei dalla paterna gola
Escisse il sangue, mentre Icaro grida:
Infelice, ti sveglia, e cerca il padre,
Il padre tuo, che nel furor di Bacco
I barbari villani han colle scuri
Ucciso. figlia, te beata io chiamo:
Tu dell’ucciso genitor sul capo
Cigolar non udisti il crudo ferro,
E non mirare gli occhi tuoi fra queste
Canute chiome rosseggiare il sangue,
Nè palpitar sopra la polve il corpo.
Un dio ti tolse questa vista, e gli occhi
Violati non ha strage paterna.
Questa veste rimira: a me d’intorno
S’aggiravano gli ebrii: era fra loro
Gara di crudeltà; gridai: Pastori,
Aita: e non mi udiano. Eco pietosa.
Delle mie grida ripetendo il suono,
Sola piangeva il tuo misero padre.
Non più togliendo dall’ombrosa selva
La verga pastoral verrai nei prati
Fioriti, figlia, il tuo gregge pascendo
Col tuo consorte. Sian vedove l’acque,
Sterile Torto, e più la vite aborri,
Cagion di morte al genitore, e piangi. —
Sì dicendo fuggì l’immago alata
Del sonno lacrimato. Erigon sveglia
Il suo dolore: le rosate guance
Lacera, strappa dalla lunga chioma
L’imprigionata vite, e ver la pietra
Menando i bovi, la querula voce
In questi accenti scioglie: care rupi.
Dove s’ asconde il mio padre mi dite;
Narrate a me del genitor la morte
O noti tori: chi l’uccise: e dove,
Dove, mio dolce padre, a me sei morto?
Forse sta tra i cultori, e ad essi insegna
1 nuovi rami della bella vite
Porre nei campi, o col bifolco a mensa
Cura il ritiene del comune armento?
Ditelo a me che piango: io soffrir posso
Finch’ ei non giunge: se pur vive il mio
Genitore, con lui voglio dell’orto
Irrigar ritornando i primi fiori,
Ma s’egli è morto, e più viti non pianta.
Io morir voglio al par di lui. — Sì disse,
E sopra il dorso del vicino bosco
Corse veloce ricercando l’orme
Del trucidato padre. Errava invano
La misera: il pastor tacque e il bifolco
Innanzi alla dimanda: alfin le addita
Del lacerato genitor la tomba
Il pietoso cultore. Allora al petto
Ingiuria fece coli’ avversa mano,
E discinta ponea gli svelti crini
Sopra il caro sepolcro. Il pianto corse
Sulla divisa veste; e chiude il labro,
Ov’ è il pallor della futura morte,
Disperato silenzio. Ulula accanto,
Indiviso compagno, il mesto cane,
E al suo doler si duole. Ahi l’arbor stesso
Che sorge accanto alla paterna tomba
La furiosa ascese: al più robusto
Ramo il cinto stringeva, indi circonda
La pallida cervice il braccio incerto;
In giù si slancia, e già l’uccide il peso.
Così sceglieva volontaria morte
Erigone infelice. Intorno intorno
Con ambo i piedi saltellando il cane
Ululava, e spargea lacrime umane
Da’ lumi esperti in caccia. Ognor protesse
La custodia fedele il caro corpo
Dalle voraci belve, e all’ombra fiso
Suso ognora coi mesti occhi guatava:
Ai peregrini alfin coi muti cenni
La misera additò. Tolgono al ramo
La pendente donzella; indi la fossa
Le scavar con le marre; il fido cane
Coll’ unghia esperta sollevò la terra.
E la fatica dei pietosi uffici
Divideva con essi. Alfìn compita
L’opra, partiano i pellegrini, e solo
Rimase il cane, e sulla cara tomba
Fisso scelse morir. Vide dall’alto
Giove eh’ è padre le sublimi prove
Della pietà mortale, onde nel cielo
Pose l’Icario vecchio, e a lui compagna
La fanciulla faceva: ardente stella
Rese il fido animai, eh’ ora risplende
Accanto agli astri della prima nave.
Nonno, Diosiniache, lib. xlvii.

Lezione sessantesimaterza.
Maniere nelle quali Bacco è effigiato. §

Dopo avervi in gran parte narrata l’ istoria di Bacco, per accrescere la vostra attenzione io passo a più importante argomento, cioè alle maniere nelle quali effigiato si vede nei monumenti avanzati all’ ignoranza ed al tempo. Quindi vi parlerò dei suoi seguaci, cioè dei Satiri, dei Fauni, dei Centauri ed altri. I Baccanali compiranno le nostre ricerche su questa divinità e ad un tempo la Teologica Mitologia.

Nel quadro di Filo strato che rappresenta Bacco ed Arianna, questo dio porta un vestito di porpora, egualmente che in due pitture scoperte ad Ercolano. Un’ iscrizione pubblicata poco dopo gli dà lo stesso abito per indicare il colore del vino. La Base della Villa Albani lo rappresenta completamente armato com’ egli era nella sua spedizione contro gl’Indiani, e porta ancora una corona di alloro in segno della vittoria eh’ egli riportò; e questa corona è conosciuta sotto il nome di Grande.

Una singolar foggia di rappresentarlo è quella che si scorge in un piccolo Bacco di bronzo con un Genio alato, di cui la testa è adornata del lungo collo di un’ oca, che tenendosi in ginocchio sopra le sue spalle, gli versa da un vaso il liquore nella bocca.

Il Gori pensa che il collo d’oca indichi l’elemento liquido, perchè quest’ animale è acquatico; e pretende con Buonarroti che questa figura rappresenti Bacco, quando, temendo lo sdegno di Licurgo, si nascose nel mare presso Teti, come avete udito nel darvi l’estratto del poema di Nonno sopra lo dio.

In una medaglia dell’isola di Samo si vede la rappresentazione unica di Bacco vincitore d’un’Amazone: e Plutarco è il solo autore che n’abbia data la spiegazione, conservandoci la tradizione della fuga d’un’Amazone dalle vicinanze d’Efeso fino a Samo, finché Bacco la raggiunse.

Il carro di questo dio è condotto da tigri e pantere perchè questi animali amano il vino.

Nei primi tempi si rappresentava Bacco con una testa di toro; e si congettura da un Inno degli abitanti di Elide, commemorato da Plutarco, le sue statue pure devono avere avuti i piedi di questo animale.

Omero dà a Bacco la capellatura di color blu, che ad Ettore pure assegna: Winkelmann intende capelli biondi, che interiormente e nei luoghi ove sono ombreggiati mostrano una tinta di questo colore. Con tutta la venerazione che aver si debbe al maestro dell’antiquaria, io non sono contento di questa spiegazione, e reputo che Omero abbia dato un colore alle chiome di Bacco simile a quello dell’uva, che sovente è blu.

Una statua di Bacco nell’isola di Nasso era stata fatta con un ceppo di vite, ed un’altra rappresentante lo stesso dio col soprannome di dolce, era di legno di fico per allusione alla dolcezza dei frutti di questo albero.

Fra le maniere rare di rappresentare Bacco, delle quali veruna è giunta fino a noi, è quella nella quale teneva una fiaccola in mano per far lume a Cerere che cerca Proserpina. Ma lo dio si effigiava con essa nella mano, come si rileva da Euripide che dice: Di più lo vedrai sulle delfiche rupi saltante con le faci. — E in Atene, secondo quello che racconta Pausania, si vedeva una statua di Jacco, il quale era lo stesso che Bacco, con la face. E Libanio, descrivendo Alcibiade come vestito da Bacco in atto di celebrare gli Orgii, mostra che aveva una face.

Si adopravano queste, non tanto perchè lo credessero una medesima cosa che il sole, come vi accennai nel principio delle mie Lezioni sullo dio, quanto perchè le sue feste si celebravano la notte, come si vede in Pausania dove parla delle Baccanti di Sidone, della festa del Padre Libero, cioè Bacco, vicino a Lerna, e dell’altra in Pellene, in cui per questo chiamavansi Lamptera, cioè festa delle fiaccole, e da molti luoghi di San Clemente Alessandrino nell Ammonizione ai Gentili: e appresso Euripide interrogato Penteo se gli Orgii si celebrassero di dì o di notte, risponde di notte per lo più, perchè le tenebre portano venerazione.

In un cammeo riportato dal Buonarroti, e che rappresenta Bacco, il nume porta per bicchiere un corno, che finisce in una testa di capro: siccome sono fatti quei due grandi di marmo tutti rabescati duellerà o di vite nella Villa Borghese, che hanno per fondo un capo di vitella; e nella Pompa Bacchica di Tolomeo vi era condotto su un carro uno di questi corni d’oro di trenta cubiti: e dei Centauri medesimi, dei quali parleremo, scrive Pindaro che si servivano dei corni per bere.

Conviene adesso favellarvi del tirso, che voi vedete tante volte espresso nei bassirilievi, ed è uno degli attributi di Bacco. Io mi prevarrò delle notizie che intorno a quest’oggetto ha raccolte il senator Filippo Buonarroti, il primo a veder luce nell’antichità figurata.

Vogliono che Bacco e i suoi seguaci si servissero delle aste armate, come si vede, fra gli altri, aver il nume in una medaglia dei Nisei: ordinariamente però in memoria dello stratagemma usato cogl’ Indiani, portavano la punta coperta di ellera, al che allude San Giustino dicendo: Come le Baccanti con abito pacifico portano sotto i tirsi coperte le punte: — i quali luoghi fanno al Buonarroti congetturare che quella pannocchia che si suol vedere in cima all’aste di Bacco rappresenti l’istesso ferro coperto di ellera, tessuto insieme a scaglie di pesce, la quale forse per la similitudine fu chiamata e creduta esser veramente una pina, con de nominarne anche il medesimo tirso; sicché il Bochart trova che in Fenicia il tirso significasse il pino. Poteva ancora nella Fenicia aver preso quel nome dalla similitudine che ne rappresentava la cima.

È noto per altro che il pino era consacrato anche a Bacco per l’amicizia eh’ egli ebbe con Cibele, come vi ho già esposto; ed in un Baccanale osservato dal Buonarroti vi era un Centauro che ne portava un ramo. Poteva inoltre la pina essere adoprata in altro modo, come sarebbe per uno dei segni sacri della cesta mistica, senza che noi siamo costretti a dire che la portassero sui tirsi: quando per altro le scaglie di quella pannocchia nei marmi sono basse assai senza risalto conveniente ad una pina, e sovente di proporzione maggiore di quelle che sieno le cortecce di fuori di quel frutto, come si potrà osservare nel bel cammeo riportato dal mentovato Buonarroti. Tanto più che come si cava dall’ osservare alcuni passi d’ autori, propriamente chiamavano tirso quel capo in cima dell’ asta: e facendosi dagli scrittori infinite volte menzione dell’ellera del tirso, onde sovente con figura lo chiamavano ellera: se noi vogliamo che la sia quella in cima, di rado e forse non mai potremo ritrovare in tanti antichi monumenti i tirsi, non osservandosi in loro l’ellera in altra forma che in questa, eccetto che alcune volte si vede un’asta circondata di tralci e di foglie bensì, ma che sono piuttosto di vite, secondo quello d’ Ovidio: Agita l’asta velata di fronde di pampano. — Le quali aste erano co mimemente dai pittori dei tempi del Buonarroti fatte per tirso nei Baccanali: quando ne’ veri le foglie dovevano esser cucite ad una per una, non attaccate ai rami. Poiché per lo più, senza che vi fosse altro ferro di sotto e dentro, dovevano fare quelle pannocchie tutte di foglie d’ellera cucite insieme per semplice e sola mostra per non far male: siccome scrive Diodoro che per il medesimo fine Bacco levò alla sua gente l’asta, dando loro in quella vece la ferula assai leggiera e debole: su queste, come prima facevano sull’aste, ci mettevano quel tirso, onde Euripide chiama la ferula bene ornata di tirso.

Che poi quest’aste, le quali si veggono nei marmi, e in altre anticaglie con quel capo grosso e pannocchia in cima, fossero veramente i tirsi sacri a Bacco, par che si cavi dagli autori botanici, i quali assomigliano ai tirsi molte erbe, che chiamano capitate, fatte nel loro fusto in quella maniera, e dalla benda con la quale, come istrumenti sacri, si sogliono vedere adornati: onde nella Pompa di Bacco di Tolomeo, da citarsi sovente, vi era la statua che rappresentava la città di Nisa, la quale aveva nella sinistra un tirso circondato di mitre.

Ma siccome dall’ aste col ferro coperto di ellera ebbero origine i tirsi, così è molto probabile che alcune aste col ferro in cima tondo e grosso fossero, per la similitudine che avevano coi tirsi, chiamate aste tirssi; e forse furono di tal sorte quelle dette da Appiano di capo largo, ch’erano adoprate anche dai cacciatori, e si veggono in mano del centauro celeste fatto in forma di cacciatore.

A questa necessaria digressione sul tirso aggiungo la descrizione d’una mezza figura di Bacco datane da Visconti. Voi ci troverete rammentati i caratteri distintivi che gli antichi artefici davano alle statue del nume, e quali vi furono esposti dal medesimo autore nel primo ragionamento che vi tenni su questa divinità.

« Un altro carattere, e quasi un’eguale bellezza si ammira in questa mezza statua di Bacco, trovata nel cavamente degli Orti Carpensi presso il Tempio. Per comodo dei trasporti si facevano le statue di più pezzi, e comunemente di due, quelle (cred’io) che lungi dal luogo della loro destinazione si lavoravano per uso, o per ornamento dei palazzi e di ville particolari, per potersi a loro piacimento con più facilità trasferire. Si crede comunemente che tal costume di lavorare sia stato usato dagli Egizii. A questo però dobbiamo ascrivere la perdita della metà inferiore del nostro Bacco, come di tre belle statue feminili del Museo Capitolino, e d’un Adriano col torace del Palazzo Ruspoli. Quel che si è conservato ci fa desiderare il rimanente: con tanta sublimità di contorni, con tanta maestria di scalpello è stato scolpito.

« La testa antica ha un’idea bella divinamente, e ben conviene a quel nume, di cui si potea dire: Tu bellissimo sei riguardato nell’alto cielo. —

« Lo scultore non gli ha dato quella feminile e molle corporatura, che ha ritratta l’artefice del marmo precedente, ma sembra essersi rammentato, senza tradire l’avvenenza del dio Tebano, che questo nume a un tempo voluttuoso e guerriero era di mezzo alla pace e alla guerra. Vi ammiriamo quella beltà che incantò i Tirreni non disgiunta dalla robustezza del più antico dei conquistatori. La testa è coronata di pampani, e la fronte è fasciata della benda bacchica chiamata propriamente (grec), come appresso Winkelmann abbiamo rilevato altra volta. »

Filostrato da me tradotto vi porrà davanti agli occhi due antiche pitture.

Narciso.

— Il fonte rappresenta Narciso, e la pittura il fonte, e tutte le cose di Narciso. Un giovinetto tornato di poco dalla caccia vi sta sopra: trae amore da lui, e s’innamora della propria bellezza. Nell’acqua poi, come vedi, quasi folgora. L’antro è di Acheloo e delle Ninfe. La pittura segue il verisimile: le statue sono rappresentate con poca arte lavorate, e di pietra qui nata; e altre sono rose dal tempo: parte ancora ne hanno deformate i fanciulli dei pastori e dei bifolchi ignari del rispetto dovuto alla divinità.

Nè del nume bacchico è privo il fonte, come quello che lo dio apparir fece in grazia delle Baccanti. Così abbonda di viti, di edera, di bei pampini, e vi sono ancora dei tirsi.

Si rallegrano intorno al fonte degli uccelli, e candidi fiori vi sono sul margine non ancora perfetti, onde pare che siano nati in grazia del giovinetto. Il dipinto seguendo la natura finge che distilli dai fiori la rugiada: vi sta un’ape che potrebbe essere stata ingannata dal pittore. Ma sia: te, o giovinetto, ninna tela o statua ingannò, ma l’acqua che ti rappresenta; e gli vai incontro come ad un amico e pare che aspetti qualche cosa da lui.

Noi lo descriveremo col discorso come è dipinto. — Riposa ritto co’ piedi incrocicchiati appoggiato sopra una piccola asta dalla sinistra: la destra giace sui lombi, i quali s’inalzano e fanno alzare la parte posteriore perchè cede la parte sinistra: mostra la mano l’aria ove si curva il cubito, le rughe poi dove alla giuntura si piega, e l’ombra ancora ch’è nella palma della mano, e sono obliqui i raggi dell’ombra pei diti rovesciati. L’anelito ch’è nel petto non so se sia di cacciatore, o di amante: gli occhi sono sicuramente d’ innamorato; poiché essendo per natura loro glauchi e feroci sono mitigati dall’amore che vi siede. Egli crede di esser amato, perchè l’ombra lo riguarda nello stesso modo nel quale è guardata.

Molte cose avrebbero potuto dirsi della chioma, se lo avessimo incontrato quando era a caccia, poiché in maniere infinite la move il vento. Ma non tralasceremo nemmen ora di narlarne. E densa, e di color d’oro: parte è sul collo, parte dividono gli orecchi, parte è agitata sulla fronte, parte è sul mento a guisa di barba. Vi sono due Narcisi di uguale bellezza: uno è in aria, l’altro è immerso nell’acqua. Il fanciullo si avvicina all’onde, ed esse sono ferme ed innamorate quasi della sua bellezza. —

Giacinto.

— Leggete in questo fiore Giacinto, perchè vi è scritto, ed attesta di essere stato procreato dalla terra per amore di un bel giovinetto che piange quando è primavera. Ma non vi arrestate a questo prato ove la pianta è nata in quella guisa che il suolo l’ha prodotta.

Infatti questa pittura ne dice che il colore dei capelli del giovinetto somiglia al giacinto, e che il sangue ancor pieno dì vita, inondando il terreno, tinse il fiore con qualche rassomiglianza, poiché comincia a scorrere dalla testa incontanente che il disco vi piombò. Errore ben grave, e da dubitarsi che da Apollo sia stato commesso.

Ma siccome qui venuti non siamo coli’ intenzione di riprender la favola, nè disposti all’incredulità, spettatori solamente del dipinto, esamineremo un poco il quadro. E prima ci faremo a considerare il poggio su che il disco vien mandato via. Certo, il poggio è piccolo, e da bastare ad uno che sta in piedi. Quest’ altura sostenendo le parti di dietro e la gamba destra, fa oblique le parti dinanzi, e mostra elevata una delle gambe, perché deve insieme saltare e seguire la mano destra. E questa è l’attitudine di uno che sostiene il disco: conviene che abbassando la testa tanto la pieghi fino alla parte destra, che guardi i suoi fianchi, e che lo lanci come levandosi da terra, appoggiato tutto sul piede destro. Così Apolline lanciò il disco: e non così tosto il disco cadde sul giovinetto, eh’ egli giacque al suolo prostrato. L’infelice giovine spartano giace là rovesciato sopra la terra: le sue forme sono belle, ed esercitate alla corsa. Apollo abbassa i suoi occhi al suolo fra la maraviglia e il dolore. Ahi, Zeffiro crudele, perchè hai rivolto ildisco contro il giovinetto:

Ma tu ridi del dolore di Apollo: e colle ali alle tempia con insultante fìsonomia ti prepari ad ornare i tuoi crini con questo fiore, eterna pena del dio del canto. —

Lezione sessantesimaquarta.
Altre maniere di rappresentar Bacco. I Sileni, i Satiri, e i Fauni. §

Vi esporrò altre maniere nelle quali Bacco è rappresentato; quindi ai Pani, ai Satiri, ai Fauni, argomento di molte questioni, si estenderà il mio ragionamento.

Qualche volta il nume incontrasi con breve pelle di fiera, o spesso con lunga vesta, che Tibullo e Stazio vogliono gialla, detta Bassaride, o sia dal luogo ov’ era in uso, che Polluce crede la Lidia, Snida la Tracia. Ma le più volte è ornato di un panno, o di una nebride, che è quanto dire di una pelle di cerbiatto, in memoria della metamorfosi che di lui in questo animale fece Giove per salvarlo, quando era infante, dalla madrigna Giunone.

Non solo l’alloro, ma ancora la querce e la smilace furono fregio di lui e delle Baccanti. L’ornamento più frequente di lui e di tutto il coro ò l’ellera e le sue coccole, perchè fra quelle foglie l’occultarono le Ninfe, dalle quali fu educato, e inol tre la benda, che copre parte del capo, e la mitra che vela tutto.

Luciano lo deride, quasi la cuffia fosse nel guerreggiare il suo elmo; ma la Grecia credette che questo fosse un rimedio da lui inventato contro l’ubriachezza.

Tiene in mano tazza o larga o alta per esser latore del vino; spesso asta o tirso, qualche volta un ramo di ferula, che come simbolo d’iniziazione ai suoi misteri si dà pure ai suoi ministri e alle sacerdotesse.

Diodoro la vuol dedicata a lui, perchè avendo ogli introdotto l’uso del vino, accadeva spesso che i conviti, anche sacri, finissero in percotersi scambievolmente con bastoni, ai quali sostituì egli le ferule; talché, cangiate in percosse non pericolose le ferite o le morti, si conseerasse questo benefizio col darne a Bacco il soprannome di porta ferule.

Alle gambe per lo più ha coturni, calzatura dei tragici, essendo egli il dio della Tragedia, per cui il giudizio fra le tragedie di Eschilo presso Aristofane nelle Rane è devoluto a lui. Che più? sul sepolcro di Sofocle fu posta la statua di Bacco.

I Pani, come rileva il dottissimo Lanzi, furono più compagni di Bacco in guerra che compagni deirOrgie e dei Baccanali. Tanto dai Greci quanto dai Latini questi si rappresentano simili all’arcadico Pan, che aveva volto e corna caprigne, e dal mezzo in giù era pur simile ad irco: così, testimone Erodoto, si vedea figurato dai pittori e dagli scultori in Grecia e in E’2ritto, così è descritto dai poeti. Che se gli Arcadi ingentilirono il loro Pan in qualche medaglia, facendolo di coscie e gambe e piedi d’uomo, non par che fossero molto seguitati.

Rimangono dunque esclusi dai Baccanali, soggiunge il chiarissimo autore, si mostruose deità, e non restano che i Satiri e i Sileni, e con questa compagnia nell’Isola di Nasso è dipinto Bacco dal dottissimo Catullo.

Ma come erano i Satiri, come i Sileni? Io non voglio guidarvi a traverso d’erudite ricerche inutili per voi, e mi limito solo a darvene il resultato reso evidente dal criterio del mentovato Lanzi, uno dei più grandi antiquarii dei nostri tempi. I Satiri erano di figura umana, somiglianti al cavallo solo nella coda e nelle orecchie acute, alle quali, se alcuna cosa si aggiunge d’ircino, par fosse per fantasia di artefice e di poeta. Nonno attesta l’opinione esposta con questi versi, così elegantemente dal Lanzi tradotti:

« Doppia punta di corna in cima acute,
Sopra le tempie in fronte a ognan sorgea:
Raro capello la sopposta cute
Mirato obliquamente distinguea,
E tese orecchie sulle gote irsute
Quando moveano il pie l’aura sbattea;
E dal dorso e dai fianchi, avvolta ad uso
Di cavalli, scorrea la coda in giuso. »

I Sileni, secondo il più comune sistema greco, non sono di una genia diversa dai Satiri. Tutta questa famiglia si credette derivata da un antichissimo Sileno, che avendo avuto coda a’ lombi, tutta la sua posterità ebbe lo stesso segno. Col tempo si disser Sileni i vecchi Satiri, e vi consentono a maraviglia le pitture dei vasi, nei quali si distinguono dai Satiri non nella figura ma nell’età, come potete vedere nell’opera sui vasi antichi dipinti, chiamati volgarmente Etruschi, nella quale il Lanzi ha riunite notizie pellegrine. Fuor dei vasi è raro vederli moltiplicati; e i più moderni artefici pare che non conoscessero se non il Sileno educatore di Bacco, che ritraggono simo, calvo, basso, panciuto.

I Sileni in Roma antica ci si rappresentano vestiti di pelose tuniche con pallio fiorato: in Grecia pure con vesti villose, che nella Pompa di Tolomeo erano rosse o di porpora: talora aveano pallio rosso e calzari di color bianco, e si fa pur menzione di cappello. Si rileva da ciò l’enorme difi’erenza che correva fra i Satiri e i Pani; i quali se dovevano rappresentarsi, la prima cosa era il contraffare le loro sottili gambe e i piedi caprigni: il che facevasi con certi trampani detti grallae, dei quali servivansi i pantomimi.

Solenni difficoltà hanno i Fauni, divinità anch’essi di Bacco. Cosa potremo dirne noi se il pontefice latino Tulliano Cotta ignora cosa sia il Fauno? Ripeterò col Lanzi quello che ha provato Heine. La Mitologia dei Latini è diversa molto da quella dei Greci: questa spira soavità ed eleganza: in tutto vi è l’originalità di un popolo pieno d’ingegno per inventare, pieno di fantasia per abbellire, pieno di scrittori per conservare ciò che gli antichi aveano creduto e detto.

L’ Italia manteneva le sue rozze tradizioni, come specialmente si vede in Ovidio, in Fulgenzio; le innestava colle greche favole, finché i Poeti ancora fra noi diedero tardi uniformità a certe cose mitologiche, lasciandone assai altre incerte e discordi: fra le quali è questa dei Fauni.

Fauno non fu conosciuto dai Greci: con diversità, ne parlarono i Latini: fa confuso con Pan; ora guerriero, ora protettore dell’ armento fu creduto. I suoi figli sono creduti deità fatidiche, sino ad Augusto. Sotto di lui perdono la profezia, e sono mescolati coi Satiri, cangiamento probabilmente venuto dalla scena. Finalmente Ausonio e Libanio distinguono i Fauni così dai Satiri come dai Pani.

Da tutto ciò ne deriva che i giovani caudati che s’ incontrano nei Baccanali, fin qui chiamati Fauni, non possono comunemente riputarsi per tali, perchè i Greci, di cui sono opera i vasi, non conobbero Fauni, ma Satiri giovani: e perchè gl’Italiani che ne fecero, ne dipinsero, e in barbaro latino in alquanti di essi scrissero, furono più antichi che non la favola di questi numi uniti al coro di Bacco.

Sebbene le forme d’uomo siano pari nel Fauno e nel Satiro, per distinguere quelli lavorati ai tempi degl’imperatori il Lanzi ne dà gl’indizi dicendo: Nel Fauno l’artista diretto dal poeta dovea mettere più del capro, nel Satiro più del cavallo, e la coda cavallina è più piena molto e sfilata della caprigna. Il volto nel Satiro è d’incerta e varia iisonomia. Quello del Fauno parmi più uniforme: lo distingue un non so che di lieto e di semplice, come nei villanelli un riso innocente, qual piacque più volte a Correggio d’imitare nelle sue pitture: due tubercoli talvolta sotto il mento, quali nascono nel genere caprigno, e spesso simboli adattati alla professione di campagna. Invéce di spoglie di lince a lui conviensi pelle di capra o di pecora; in luogo di tirsi e di flauti il ricurvo baston pastorale detto pedo, e la sampogna; e dove il Satiro è ornato di ellera, egli ha spesso corona e rami di pino: si aggiunge talora un carico di frutte e di spighe.

Tra i libri degli antiquarii il Lanzi non ha trovato alcuno che il vero ed antico sistema greco rischiari prima del Museo Clementino, onde io credo farvi cosa grata inserendo nel mio discorso la descrizione, che di un Fauno del Museo dementino ha data Visconti. Nell’ altre Lezioni unirò tutti i monumenti Bacchici, onde io spero che raddoppierete la vostra attenzione, perchè in tal guisa la maggior parte dei bassirilievi antichi, che alle solennità dello dio sono relativi, sarà da voi intesa e gustata. Nulla senza l’istoria e la mitologia dicono le figure: e voi non potete portare alcun giudizio sulla composizione, sulla convenienza, sulle attitudini delle figure, se vi accostate all’antico digiuni di queste cognizioni, delle quali vi scongiuro a sentir finalmente l’importanza. L’anima delle pitture, delle statue dipende dalla cultura dell’Artefice. Voi dovete dai poeti, dagli antichi monumenti togliere, come Prometeo, quel fuoco che deve dar vita alle vostre tele, ai vostri marmi.

« Si è ricevuta comunemente presso gli antiquari: una distinzione, che molto serve a classificare le tanto variate immagini dei numi agresti, seguaci e compagni di Bacco. Osservandoli ora colle membra inferiori caprine, ora colle orecchie soltanto, e talvòlta colla coda e colle corna; or in senile, or in giovenile età, si è dato il nome di Satiro a quelli che nell’aria del volto, nelle corna, nelle anche e gambe di capro somigliavano le antiche rappresentanze del dio Pan; il nome di Fauni a quelli che coll’orecchie sole e colla coda e qualche volta con un principio di corna si veggono, ma le gambe e coscie dei quali sono tutte umane: che se questi, non in giovanile e virile età, ma solo in matura o senile si rappresentassero, non più Fauni, ma Sileni voglionsi nominare. Alcuni per maggior precisione hanno pur voluto distinguere con differenti nomi le diverse maniere di Fauni, lasciando questa appellazione a quelli che in forma umana han di capra gli orecchi, le corna, la coda, e chiamando Titiri quelle rare figure di Baccanti che nulla tengono del caprino. — Merita sicuramente qualche lode l’accuratezza di tali scrittori, giacché si studiano di far corrispondere a diversi nomi diverse idee; lo che alla chiarezza di queste molto contribuisce. Sembra però che troppo siansi inoltrati, quando tal divisione, che non può avere altro oggetto fuori del comodo degli artisti e della nomenclatura antiquaria, vogliono derivata dall’ idee degli antichi, e censurano con poca esattezza quei Classici che non l’hanno osservata. Per far cadere affatto simile opinione hasta riflettere che si trovano immagini di lavoro greco e di remota antichità di tutti i divisati generi di Baccanti: eppur sappiamo che i Greci non conobbero giammai i Fauni, ma col nome di Satiri e di Sileni chiamarono promiscuamente i seguaci di Bacco. Non è però che talvolta non distinguessero ancora i Greci i caratteri individuali di vari numi di simil genere, e forse niuna più solenne distinzione conobbero di quella di Pane e di Sileno. Il primo in sembianze semicaprine fu comunemente effigiato: diedero al secondo una fronte calva, un naso schiacciato, una lunga barba, un petto irsuto, una statura bassa e corpulenta. Riconoscevano in Pane una delle più antiche divinità d’Arcadia e dei pastori, in Sileno l’aio, il compagno, il duce di Bacco. Tutti i Classici sono conformi ne’ due accennati caratteri, e niuna descrizione è più viva di quella che fa di loro Luciano, additandoceli alla testa delle armate conquistatrici dell’Indie con queste parole: Due comandavano l’esercito sotto del nume: un basso, vecchio, grassotto, panciuto, con naso simo a con grandi orecchie, tutto tremante; un altro, uomo mostruoso, dal mezzo in giù simile a capro, di gambe peloso, con corna, barba lunga, e stizzoso. Questi due ritratti di Sileno o di Pan servono per farceli rico noscere nei monumenti: ma riguardo a Sileno troviamo nelle sue immagini scolpita quella varietà medesima, che scorgiamo negli autori che ne discorrono. E dove alcuni di questi ultimi ce lo danno per un vecchio ubbriaco e ridicolo, altri ce lo descrivono per un savio così lontano dall’impostura che si lascia confondere nel volgo dei voluttuosi, ma che conosce le cagioni ed i fini delle cose, ed ha pieno il petto d’una sincera filosofìa. Questa idea ci dà di Sileno la sesta Egloga di Virgilio, e una simile ne dovette avere il Greco artefice della bella statua della Villa Pinciana, dove questo semideo sostiene fra le braccia l’infante Bacco, e nelle forme nobili del volto e delle membra si ravvisa per un personaggio assennato, a cui potea confidarsi l’educazione del nume. Lo scultore del nostro marmo ha presa un’altra idea, e ci ha rappresentato Sileno come il personaggio allegorico dell’ ubriachezza: nelle fattezze del volto e nella costituzione delle membra non si è partito dalla comica descrizione che ne fa Luciano, eccettuate le orecchie, che nel simulacro non sono caprine; e quantunque sia moderno restauro ciò che ha nelle mani, pure non è dubbia l’azione di aver premuto il grappolo dell’uva nel nappo; in quel nappo istesso che gli si vedeva propinato dall’Ebrietà in un bel gruppo da Pausania osservato e descritto. La perfezione colla quale il valente artefice ha espresso il suo concetto non può abbastanza comprendersi da chi non ha sotto gli occhi il marmo stesso: la testa coronata di frondi d’ellera e di corimbi è d’un carattere sor prendente; e la naturalezza, la carnosità del torso pingue ed irsuto è tutto quello a che può giungere la scultura. Se ne osservi la fìsonomia, e se ne vedrà la somiglianza con Socrate; la quale, non solo ne’ tempi antichi fu rilevata da Aristofane maligno, ma che ha indotto i moderni a dar la hella denominazione di Socrate e d’Alcibiade ad alcuni gruppi lascivi, che rappresentano la licenza de’ Baccanali. Questa statua di Sileno è assai stimabile, ed è affatto diversa da quelle che si conoscono, come dalla famosa Borghesiana, che vedesi ripetuta due volte in antico nel Palazzo Ruspoli, dall’altra giacente nella Villa Ludovisi, ove l’artefice l’ha rappresentato secondo Virgilio: Enfiato le vene come sempre dal vino di ieri — e finalmente da quella curiosissima del Palazzo Gentili, ove Sileno vedesi vestito di un abito teatrale lavorato a maglia, che si poneano indosso gli attori per meglio rappresentare le membra pingui ed irsute |del nutritore di Bacco, abito che finora è stato cagione di molti equivoci a chi si è accinto a dar l’esposizione di quel marmo. »

Lezione sessantesimaquima.
I Centauri. §

Fra i seguaci di Bacco furono i Centauri, di cui vi esporrò l’origine, i nomi, le imprese, quindi i loro attributi, e gli antichi monumenti nei quali vengono rappresentati.

Issione figliuolo di Flegia, e secondo altri di Marte e di Pisidice, prese in moglie Dia figlia di Eineo, promettendo di dare al suocero molti doni come era costume degli antichi. Dimandava questi istantemente l’adempimento della promessa, la quale lo sleale Issione non volendo mantenere, invitò il genitore della propria moglie ad un convito con finta amicizia, asserendo di volersi dal suo obbligo liberare. Trovò Eineo la morte nella casa del perfido genero, che cader lo fece in una fossa di carboni accesi, alla quale avea fragili tavole sopraposte.

L’infelice fu vendicato dai rimorsi, che tanto poterono in Issione che furibondo ne divenne, e non sapea a quale degli Dei e degli uomini rivolgersi per essere del suo atroce misfatto espiato.

Giove mosso dal suo pentimento lo espiò, raccolse liberalmente nel cielo, lo mise a parte dei suoi segreti. Issione divenuto felice ritornò scellerato; e sconoscente ai benefizii dello dio, tentava di sedurne la moglie. Rivelò questa al consorte gl’infami tentativi dell’ ospiste scellerato; ma il re degli Dei volendo accertarsi della verità di quello che asserito gli veniva, diede ad una nuvola le sembianze di Giunone. Strinse il credulo adultero fra le sue braccia l’ ingannevole simulacro, e del suo vano delitto furono frutto i Centauri. Vantavasi quindi di avere del Tonante violata la moglie; ma questi stanco di esser clemente, lo precipitò nell’Inferno, dove fu legato ad una ruota di ferro circondata di serpenti.

Eccovi esposta 1’ origine dei Centauri. Le loro imprese si riducono alla pugna coi Lapiti nella circostanza delle nozze di Piritoo con Deidamia o Ippodamia. Vinti dal vino e dall’amore volevano fare ingiuria alla sposa di Piritoo e alle altre mogli dei Lapiti; ma furono superati con l’aiuto di Teseo nella pugna, in cui da principio volavano le mense e i bicchieri. Superati, cercarono nuove sedi nelle regioni dei Perrebi dopo averne scacciati gli abitanti. I nomi più illustri dei Centauri sono: Chirone, Menico, Polo, Ifinoo, Nesso, Lieo, Ippaso, Stifelo. Gli altri sarebbe lungo nominare.

Furono i Centauri dati a varii Dei, come al Sole, ad Ercole, ad Esculapio, con far condurre ancora i loro carri sacri: più frequentemente però nelle medaglie, nelle gioie e nei bassirilievi antichi si veggono attribuiti a Bacco fra gli altri animali favolosi, grifi e sfingi, in segno forse delle sue conquiste fatte ne’ paesi orientali, dove credevansi nascere simili mostri: o pure perchè fossero creduti amici assai del vino come erano tutti gli animali, che gli sono stati dati dalle favole; onde Virgilio scrisse: Bacco diede motivo ancora alla colpa; egli domò i furiosi Centauri Reto, Folo, e Ileo minacciante i Lapiti col gran vaso; — intendendo della guerra che per soverchio vino intrapresero coi Lapiti. Per questo. Nonno al principio del Libro XIV delle Dionisiache, o imprese di Bacco, delle quali vi ho dato r estratto, gli annovera nell’esercito che radunò al nume la madre degli Dei, e introduce un Centauro che s’ off’re a portare lo stesso Bacco: E il Centauro, che ha l’ispida ed orrida barba, spontaneamente porgendo la fronte volontaria al giogo, ed avendo più assai dei Satiri desiderio del dolce vino, mezzo perfetto, l’uomo misto di cavallo nitriva, bramando alzare con le sue spalle Bacco: — quindi è che spesso negli antichi bassirilievi si veggono i Centauri tirare il carro di Bacco. In questa guisa sono scolpiti in un bel cammeo di cinque strati di diverso colore riportato dal Buonarroti, e che rappresenta la pompa e trionfo del dio del Vino. Nè con diverso modo si vesrcfono in co altro cammeo d’agata sardonica inserito dallo stesso nella sua opera sui medaglioni antichi. In questo si rappresenta forse Bacco, che dall’isola di Nasso conduce in cielo Arianna: guida il carro Imeneo, o sia Genio, con una face; ed Amore re<^i:>‘e la veste ad Arianna che, secondo favoleggia Nonno, era con Bacco quando andò a Nasso. Giù basso in terra accosto all’ onde del mare vi è la Ninfa, o Genio di quell’isola, con una vela che le svolazza sulla testa per indicare il suo sito sul mare; e sarà forse la Naiade stessa, che il medesimo poeta fìnge applaudisse a queste nozze. Le siede accanto un fiume, che potrebbe essere il Biblino, a cui pare che Zeffìro, portandosi placidamente per aria, gli versi nel cornucopie la buccina che si suol dare ai venti, quasi che per festeggiare ancor egli le nozze di Bacco, le rive e il paese intorno a quel fiume rendesse più fertili e feconde dei nobilissimi vini detti Biblini, pei quali fu celebre quell’isola, e che diedero occasione alla favola che vi fosse un fonte di vino.

Ma per tornare al nostro proposito principale, il Sarisberiense, il quale porta molte cose prese dai libri antichi non ancora a tempo suo perduti, adduce una più stretta attenenza dei Centauri con Bacco: poiché paragonando a quegli i cacciatori, scrive che fosse questo dio educato da Chirone: quindi è che si vedono negli antichi intagli Centauri col bastone pastorale e col tirso, e uniti alle Baccanti, siccome si vedevano in quello scifo, fattura di Acragante, il quale, secondo riferisce Plinio, si conserva in Rodi nel tempio di Bacco.

In molti monumenti antichi, particolarmente nel medaglione di Giulia Augusta di Nicea stampato dal Sequino, si vede un Centauro e una Centauressa: nel primo dei citati cammei sono quattro, due maschi e due femmine, le quali come più deboli, secondo la regola dei Circensi avrebbono dovuto star nel mezzo: ma in un trionfo non sarà stata necessaria questa regola. Alcuni considerando in questi Centauri come un poco tozza la parte della bestia, vorranno credere che siano onocentauri, cioè mezzi uomini e mezzi asini, animale puranco amico di Bacco, e destinato a portare il vecchio e corpulento suo balio Sileno.

Il Centauro a mancina, non conoscendosi quello si potesse aver nella destra per essere rotto, tiene coll’altra una lampade, o face accesa, che soleva portarsi nelle feste di Bacco, come vi ho accennato nella passata Lezione.

Il corno che ha nella sinistra 1’ altro Centauro fu costumato dagli antichi, in quella loro semplicità di vivere, per bicchiere, come a lungo fa vedere Ateneo, e lo testifica Plinio dei popoli settentrionali: e incominciatosi poscia ad arricchirgli e poi a fargli di metalli anche preziosi, ne fu sovente in molti bicchieri ritenuta quella figura, come si può vedere dal medesimo Ateneo, dove parla dell’olmo e del rito che fu ordinato la prima volta da Tolomeo Filadelfo per adornarne la statua di Arsinoe: onde si può credere che fosse simile a quei due cornucopi che si veggono nelle medaglie di quella regina.

Le Centauresse si trovano ancora coi cembali, che erano fatti come i nostri d’un cerchio, al quale era tesa una pelle. Vi attaccavano qualche volta dei sonagli, come si vede in quello portato dal Bartoli, che ha il fondo dipinto, come si usa ancor oggi, d’una tigre; talora, come si fa altresì adesso, nel cerchio, in certi buchi o tagli Vi mettevano alcune piccole e sottili lamine di rame infilate eoa un fìl di ferro, di modo che battendo colle mani il cembalo, venivano a risonare.

In un cammeo antico di vetro riportato dal Buonarroti, in cui Bacco sta a giacere su una rupe in seno ad una delle sue nutrici con una tigre consacrata accanto e fra due Fauni, vedesi fra due tirsi questo cembalo stesso che, ripetuto infinite volte, avrete veduto negli intonachi Ercolanensi. L’Agostini vuole che gli antichi chiamassero questi strumenti crepitacoli, dei quali fa menzione Ateneo; ma sembra piuttosto che fossero detti timpani onde Catullo scrisse: Percotevano l’altre i timpani colle vigorose palme — ed erano perciò leggieri e semplicemente composti di un cerchio e d’ una pelle tiratavi sopra, secondo quello del coro delle Baccanti presso Earipide: Questo cerchio con la pelle ben tirata me l’hanno trovato i Coribanti, —

Dal medesimo poeta poco dopo si vede che le tibie, le quali sono sonate dall’ altra Centauressa del mentovato cammeo, erano in uso nelle feste di Bacco, come quelle che furono prese da’ Misteri della madre degli Dei.

Ancora la Centauressa nel medaglione di Giulia di Nicea riferito di sopra, suona le tibie, siccome quella nel sarcofago ch’è nel Palazzo Farnese, dove il Centauro suona la lira.

Furnuto rende ragione perchè le tibie fossero ado prate da’ Baccanti, dicendo che in molti luoghi è usanza di sonarle mentre si vendemmia; al che allude quel di Euripide: Rallegrarsi colla tibia, posar le cure quando verrà l’uva. —

E nella Pompa di Tolomeo vi era un carro carico di uve, ch’erano pigiate da sessanta Satiri, i quali a suon di tibie cantavano versi della vendemmia. Hanno finalmente le Centauresse sulle spalle alcune pelli consuete a’ Baccanti, che per lo più erano le nebridi, le quali propriamente erano quelle prese da cervi giovani, che il primo anno si chiamavano (grec) poi dai Greci. E Lattanzio commentatore di Stazio pretende che si chiamassero pure nebridi le pelli di daino.

Polluce fra le vesti dei Satiri, e per conseguenza di Bacco, annovera ancora le pelli di capra e quella della pantera, imitata per lo più però e tessuta, perchè, come nota il Salmasio, le vere non si trovavano così facilmente. Le Centauresse si veggono in un bassorilievo del Museo dementino così descritto da Visconti.

« Che Zeusi sia stato il primo ad immaginar le Centauresse par che Luciano l’ insinui. E da una pittura di lui, crede Winkelmann, imitata una gemma eh’ egli riporta nei Monumenti inediti, e che rappresenta una Centauressa in atto di allattare un piccolo Centauro. Rare ciò non ostante pur sono le loro rappresentanze nei monumenti, e per lo più fan di se mostra, come nel nostro marmo, in compagnia di Bacco e dei suoi seguaci.

« Le tredici figure componenti il bassorilievo, per la grazia, l’originalità, la varietà dei movimenti son degne dell’ aureo secolo delle arti. Rappresentano Bacco inebriato dal ritorno di un banchetto. Preceduto da un Fauno barbato e cinto d’una pelle ai lombi che si fa scorta con face in ambe le mani, s’avanza il nume oppresso dalla crapula, e vacillante, a cui più che il tirso che gli crolla nella destra, è sostegno un Fauno fanciullo che l’abbraccia, e quasi lo trae. Involto dagli omeri al piede in una palla, che gli scopre il lato e il braccio destro, ha il capo inchinato sugli omeri e coronato di edera. Una Centauressa lo segue, e i crotali, istrumento sonoro composto di due verghette rotonde di metallo da una parte più sottili che dall’altra dove terminano come in un capo di chiodo mal difende dalla petulanza di un giovin Baccante, che salito in ginocchio sulla sua groppa si adopera con ambe le mani per torli ad essa. Un altro giovin Baccante porta anch’egli accesa la face, che un Fauno barbato e fornito di tirso tenta involargli. Due fanciulli coi tirsi gli recan dietro una sottocoppa a tre piedi, su cui si scorge una piccola ara dove ardono incensi. Un vecchio Fauno coturnato e cinto intorno a’ fianchi di breve pallio gli segue colla sua face; e il gruppo di un’ altra Centauressa, la quale insieme con un Faunetto si sforza scotere dal suo dorso il Fauno insolente che vi è salito, chiude il bassorilievo.

Centauro.

« È stato questo bel simulacro di marmo bianco statuario recentemente scavato presso al Laterano, ed è una prova novella del merito del suo originale, che è il più giovane dei due famosi Centauri del Museo Capitolino, conosciuti già sotto il nome di Centauri di Furietti, nobili avanzi della Villa Adriana: la copia simile dell’ altro barbato fu nel passato secolo disotterrata nella Villa Fonseca contigua all’orto dove si è trovata la presente statua, ed ora si conserva nella Villa Pinciana. Quantunque non giungano queste due copie ad eguagliare la bellezza degli originali, che furono scolpiti da Aristeo e Pappo Afrodisio in un bellissimo bigio morato, pure oltre la rarità del soggetto hanno un grandissimo merito di lavoro, e per alcune parti, che si sono in questo mantenute, schiariscono l’azione e l’espressione dei Capitolini. Son sembrati a taluno scolpiti con maggior morbidezza degli originali medesimi, non riflettendo che il color nero del marmo, in cui han lavorato i due artefici di Cipro, esigeva qualche maggior risentimento di forme e certe decisioni di contorni più segnate perchè potessero distinguersi nell’oscurità della pietra. Quel che si è conservato nelle copie è il Cupidino, che è tanto sulla groppa del nostro Centauro quanto del Borghesiano, e che manca affatto nei Centauri del Campidoglio, nei quali non mancava però l’orma del piccolo cavaliere.

« L’Amorino, che è sul secondo, è cinto di una fascia per sospendervi la faretra. Queste figurine danno, per così dire, tutta l’anima alle presenti sculture. Si vede nel Borghesiano un Centauro adulto di robusta corporatura e di fiera indole, che domato dal nume infante ha perduto la naturai fortezza del suo ferino carattere, idea espressa colle mani avvinte dietro la schiena, positura propria dei prigionieri, e non già attribuita dallo scultore al Centauro, quasi volesse far pompa delle robuste muscolature del petto, come taluno ha supposto. Nel nostro mancava il destro braccio come nell’originale, e poiché rimaneva nel torso un attacco, che additava aver sostenuto qualche cosa di massiccio, non si è seguito in ciò l’esempio del ristauro Capitolino: ma riflettendo che ha nella sinistra il pedo detto (grec) dalla caccia delle lepri in cui s’adoprava, e sull’esempio d’una bell’ara della Villa Borghese, se gli è posta in mano una lepre, preda riportata nella sua caccia, di cui dimostra la gioia negli occhi e nel volto: ma intanto l’amore che ha fatto la preda del cacciator feroce, ride del suo riso e siede vincitore sul suo dorso. Non è molto differente questo concetto da quello del secondo Idilio di Bione, dov’è descritto un giovine cacciatore, che vedendo Cupido per la foresta volea farne sua preda; ma fu avvertito da un vecchio che lasciasse l’inutil caccia, e che anzi a suo tempo Amore avrebbe fatto preda di lui, e si sarebbe seduto vincitore sul suo capo: — Sul capo tuo s’assiderà renente. Oltreché simile azione di cacciatore data al Centauro ne nobilita ed abbellisce l’espressione: ed è poi tutta propria di questi selvaggi misti di uomo e cavallo. Sappiamo anche coll’analogia della storia moderna che i primi a cavalcare sembrarono ai rozzi uomini tutto un animale’, essi e il destriero. Comprendiamo da Omero che molto tempo prima che si cavalcasse si usava di attaccare i cavalli a’ carri, e altri cavalieri non s’incontrano nell’Iliade e nell’Odissea che combattenti sui cocchi. La favola però di Fedro, del cavallo e del cinghiale, ci fa conoscere che l’occasione della caccia fu quella che introdusse la prima 1’ uso di sedere sul dorso del destriero. Non furono dunque i Centauri che i primi cacciatori equestri, quantunque l’etimologia del nome che sembra indicare feritori di tori abbia fatto inventare un’altra origine storica di questo mostro, da Palefato diffusamente descritta. Ma ciò basti per dar ragione del ristauro del braccio destro: nel sinistro si è copiato il pedo, che si osserva antico nel Capitolino, a norma di cui si è supplita ogni altra parte mancante. Con somma accuratezza se ne è specialmente copiata la testa, dove l’abile artefice ha saputo indicare nelle narici quasi mosse al nitrito, e nella forma dell’orecchio un certo che di cavallino, che si mesce colle sembianze umane, e forma dell’uomo e del cavallo un tutto, per quanto può immaginarsi, uniforme. Si è situata questa rarissima statua nel seguito di Bacco, essendo noto il trasporto di tali mostri pel vino, che servì ad Ercole per cavarli dalle loro tane e domarli, e vedendosi perciò in molti antichi bassirilievi e cam mei accompagnare, o ancor trarre i carri di Bacco. Nel tronco che sostiene il ventre del Centauro simile al Capitolino, si vede scolpita una siringa con alcuni rami di pino, arnesi proprii dei seguaci di Bacco. »

Lezione sessantesimasesta.
Le seguaci di Bacco. §

Vi ho parlato dei Satiri, dei Sileni, dei Fauni e dei Centauri. L’ordine prefissomi mi conduce a favellarvi delle donne compagne di Bacco, che si distinguono tra loro col mezzo delle diverse denominazioni: di Baccanti, di Lene, di Tie, di Mimallonidi, di Naiadi.

Il nome di Baccanti deriva dalla greca parola (grec), che significa ululare smodatamente, come quello di Menadi ha sua origine da (grec) che equivale ad infuriare. Ma il furore non era in esse perpetuo, anzi ordinariamente comparivano malinconiche e taciturne fino a dar occasione a quel proverbio verso le persone ipocondriache: Sta come una Baccante. Ma deponevano tale esteriore negli onori del nume, ove affettavano e mentivano il furore bacchico solito a trarre di se chiunque n’era inspirato: sicché Agave sbranò Penteo suo figlio, Licurgo imperversò col ferro contro se stesso. Le femmine di Lemno spensero tutto il sesso virile che aveano nella città loro. Questo era l’uffìzio delle Menadi: sciorsi le bende crinali, sparger la chioma ai venti, come Virgilio canta di Amata, levar alto le fiaccole e il grido, urlando Evoe, ovvero Viva Bacco.

Alle voci congiungevano strepitoso suono dei timpani, dei cimbali, dei flauti, dei corni, che accompagnavano con movimenti della persona violenti e fanatici, non misurati con legge alcuna: scotimenti di capo, stralunamenti di occhi, vibramenti di tutto il corpo, quali si veggono negli uccelli detti coditremole sacri a Bacco, e dipinti nei vasi. Ci scorgerete ancora preparate al nutrimento crude carni, serpenti attorti intorno alla vita, o cinti al capo. Questi eccessi però di furore, per cui sappiamo che i serpenti si facean mansuefare, non sono ovvii nei vasi d’Italia, ove tra i cori di più trasporto la stessa scompigliatura dei cappelli di rado si vede nelle Baccanti.

Le Tie sono introdotte furibonde a par delle Menadi presso Virgilio nel iv dell’Eneide, e Stazio nel iv della Tebaide: ma le Baccanti non credo che tutte fossero egualmente Tie, tenute solo, se non erro, nel grado di sacerdotesse.

Catullo par distinguere i Baccanti dagli Orgeusti, poiché dopo aver descritti i primi, dicendo, scorrevano in qua e in là con mente -furiosa, più particolarmente dice dei secondi, celebravano oscure Orgie, misteri di Bacco nelle cave ciste. Quelli che considerar vogliono le Tiadi come Baccanti ne deducono il nome da (grec), infurio: altri che la riguardano come sacerdotesse, prendono l’etimologia da (grec), sacrifico, o da Tuia sacerdotessa di Bacco, la prima che istituì le Orgie. Pausania tiene la seconda sentenza, e da Tuia dice derivato quel coro di donne attiche, che insieme con le delfiche donne andavano ogni anno in Parnaso, e quivi a Bacco celebravano F Orgie. Il dotto Catullo non ignorò questo rito, e scrisse: Spesso l’errante Bacco nella sommità di Parnaso spinse le Tiadi gridanti Evoe con le sparse chiome. —

Non può dunque negarsi che stando all’etimologia e alla storia, questo nome non convenga specialmente a quelle che veggiamo nelle pitture dei vasi occupate intorno a ciste da Orgie, e a tanti simboli che in esse si racchiudevano, e che per la più parte sappiamo da Clemente Alessandrino. Tali erano il talo, la palla, il troco, la pigna, lo specchio, i pomi, la trottola, le lane, a cui s’aggiungano le scale, le maschere, le piramidi, i falli, i piccoli animali, le focaccie, i cuori, le ferule, Tellere, i papaveri, il sale, le melagrane, e se vi è altra cosa che spettasse a quella superstizione. Le Tiadi ritiratesi fra loro, giacché ai profani non era lecito saperne, l’estraevano dalla cista, e ritti alcuni altari, su quegli le deponevano. In Atene, e forse altrove, era un collegio quasi di Tiadi, e diceansi Gerare; eran quattordici di numero, e dovean fare l’arcano sacrificio per la città, e queste ancora destinate erano a Bacco, e sacrificando, doveano aver seco un’altra sacerdotessa.

Le Mimallonidi, lasciando coloro che derivano il loro nome da Mima città dell’Asia, hanno il nome da (grec), imito, e sono propriamente le Baccanti che imitavano le prodezze virili guerreggiando, e nei tirsi sotto foglie coprendo la punta dell’asta, colla quale uccidevano i malcauti, sebbene a queste ancora Pausania dà il nome di Menadi. Ad esse andavano miste l’Amazzoni, nell’esercito almeno del vecchio Bacco, al cui aiuto, secondo Diodoro, le condusse Minerva. Costoro par che possano riconoscersi al vestito corto che s’incontra nei vasi.

Lene eran tenute dagli antichi le ninfe degli strettoi, dice il Costantini, come le Naiadi dei fonti. L’etimologia è da (grec), torcolare, onde pure e Bacco leneo, e le feste lenee. Le ministre, che Strabene chiama così, non erano punto ninfe, ma dovettero avere partìcolar cura dell’ uso del nuovo vino e delle feste fatte in quell’occasione: il resto han comune colle Baccanti trovandosi per titolo dell’ Idilio di Teocrito Lene, o le Baccanti, e tenendo lo stesso rito delle pelli, del tirso, dei capelli sparsi, come par si raccolga in Tacito nel libro XI degli Annali. Egli descrive Agrippina mentre celebra i Vinali, nei quali vedeasi la principessa col suo coro scorrere per la reggia nel modo che Euripide descrive Agave nel Citerone.

Non è dunque da dubitarsi che quelle nei vasi dipinti dispensan vino, o siano di questa classe o ne imitino il ministero: potrian talora sopporsi fra coloro che mescon liquore ancora le Naiadi, che alcuno ha detto aver temprato coli’ acqua il vino alla compagnia di Bacco, perchè non nocesse, ma vi è altra più plausibile ragione per inserirvele.

Le Naiadi sono di un ordine superiore all’ altre seguaci di Bacco finora descritte; sono semidee, sono ninfe. Il creduto Orfeo sembra chiaramente insinuarlo nell’Inno di Sileno, ove lui saluta come condottiero di Naiadi e di Baccanti. E Ovidio nel fine del iv libro De Ponto, nomina una poesia, ove elle si descrivevano come amate sempre dai Satiri, quasi non convenisse al lor grado altri amanti che semidei. Cinquanta ne conta Igino, cento Virgilio, e tutte paiono addette a Bacco, da che generalmente trovo in Tibullo: Bacco, ama le Naiadi. —

Dopo queste notizie chiamerei Naiadi le ninfe che nei vasi antichi vengono attruppate con Bacco coi Satiri: se non che avendo creduto gli antichi che queste divinità onorassero ancora l’Orgie delle Menadi, non sarà facile discernere le une dalle altre. Con qualche verisimiglianza si rincontreranno le Naiadi nutrici di Bacco, dette anco Nereidi, e più comunemente Nisee.

Secondo i creduti Omero, Orfeo, Apollodoro, Igino, furono educatrici di Bacco negli antri di Nisa in Arabia, anzi l’accompagnarono nei suoi viaggi, come alcuno aggiunge, e furono cangiate nella costellazione deiriadi. Insegnarono le prime l’uso del vino ed a cantare gli onori del dio che soccorsero contro Licurgo: quindi possono considerarsi come la norma di tutte l’altre Baccanti. Non è inverisimile che si riscontrino nei vasi al vestito seminato di stelle, quale nella cista Kircheriana lo ha Bacco Nictelio, e in oltre alla ferula, insegna di chi presiede alle sue orgie, e qualche particolar distinzione, giacché Bacco l’onorò molto.

Tale è la donna che dà a bere a Bacco presso Tischbein: e quella, che assisa in un toro, che vuol credersi Bacco con corno potorio in mano, levasi di terra dipinta in un vaso della Galleria. Le più celebri fra loro sono Ippa, Nisa e Bacca. Udite da Visconti l’illustrazione di un bassorilievo Bacchico esposto continuamente alla vostra vista.

Bacco barbato con Fauni.

« Questo curioso marmo per la scultura, pel genere, e per la conservazione ugualmente stimabile ed interessante, quando si consideri la sua forma non lascia dubbio alcuno di aver servito per ara sepolcrale, comecché la sua figura e le sue proporzioni siano fra l’are antiche assai rare.

« Il masso è quasi un parallelepipedo lungo una volta e mezzo la sua larghezza e circa due l’altezza; rastremato alcun poco verso la sommità. E ornato di cornici e di membri intagliati sì nella superiore che nell’estremità iuferiore, e si regge sospeso su quattro piedi cavati dal pezzo medesimo, che han forma di quattro alate chimere. La sua superfìcie superiore è affatto piana.

« Dell’are sospese su piedi agli angoli abbiamo esempio in antiche memorie, e taluna ancora se ne conserva. Are basse le sentiamo ricordate da vetusti scrittori e alcuna pur ne sussiste. Più raro è l’esempio di are bislunghe, ma non è unico: poiché tale appunto sappiamo essere stata quella delle Parche nell’Alti d’Olimpia.

« I bassirilievi che adornano le quattro facce del monumento cel fanno ravvisare o come sacro agli Dei Inferi, e come dedicato a Bacco, nume annoverato fra gli Dei terrestri. A questa sorta di divinità era costume ordinario ergere are, che poco si sollevassero dal suolo, e alle quali perciò non convenisse il nome d’altare tratto dalla loro elevatezza. Porfirio chiama escharas, o focolari l’are degli Dei terrestri, e forse la nostra ara serviva a sostenere una braciera d’altra materia, come esempli non mancano in monumenti.

« Passando ora a considerare i bassirilievi: in quello della principal facciata è ripetuta una composizione così famosa e frequente negli antichi marmi che sicuramente ne rappresenta alcuna delle più ammirate ne’ secoli dell’arte greca. La sua bellezza n’è una prova ulteriore. Un uomo corpulento con lunga e ben colta barba e chioma rannodata, coronato il capo e involto in grandioso pallio le membra, s’appresta a coricarsi sopra un letto convivale. Un Fauno per molle comodità il sostiene sotto il sinistro cubito, un altro s’inchina a trargli i calzari. Il Bacco indico e barbato, quale Diodoro il descrive, è quello cui servono i Fauni con tanto rispetto.

« Fulvio Orsino, che lo chiamò Sileno, non avrebbe potuto addur prova a confermare il suo sentimento abbastanza valido al confronto di tanti monumenti, i quali cimostran Bacco espresso più volte in una simil figura. Il Bellori che lo chiamò Trimalcione, trascurò al suo solito di osservare che i ministri della mensa eran Fauni.

« Posate su d’un altro letto d’incontro Bacco, scorgonsi due figure, una di giovin seminudo, l’altro di donna, involte ambedue nella sintesi, e fìsse ambedue collo sguardo alla principal figura, cui sembra al gesto della man destra che il giovinetto diriga una dell’acclamazioni solite costumarsi negli antichi banchetti.

« La mensa rotonda a tre piedi caprini è senza tovaglia, e collocata fra due letti e coperta di vasi destinati alla bevanda.

« Cinque figure seguono il Dio, che s’affretta a godere di quel licore di cui ha beato i mortali. Due sembrano preparargli un divertimento musicale, col quale gli antichi solevano rallegrare le mense, il primo accompagnando la danza al canto, il secondo unendovi il suono di un doppio flauto. Il primo è un giovine Baccante ignudo, col pedo nella sinistra: il secondo è un vecchio Fauno avvolk) in un brevissimo pallio e coturnato.

« Fin qui si estendono le tappezzerie, dette aulei peripetasmi, che separano ed abbelliscono il luogo destinato al convito. Seguono all’ aperto un terzo Fauno, sembra portare un’otre sull’omero manco, una Baccante ubriaca, che sostien lentamente colla sinistra un timpano o tamburello, e vien sorretta da un altro Fauno. La statua di Priapo in profilo, che termina dal mezzo in giù a guisa d’erma, ed è posata sopra d’un’ara, è egualmente propria per adornare un luogo riservato ai piaceri del suo genitore, come per indicare il luogo agreste della scena, quale appunto amavasi da quel nume pei suoi diporti non meno che per gli arcani riti.

« I bassirilievi laterali proseguono l’ indicazione della campagna. Qua, presso un albero, sorge la statua della Speranza: ella che solo può far durare nell’uomo le anticipate fatiche deiragricoltura, e vicino a quella un vecchio rustico munge una capra, alla quale una giovine pastorella sta vellicando il mento perchè non sia ritrosa all’opera del capraio.

« Là sovra un’ara alquanto più alta vedesi eretto il simulacro d’Ercole altro nume rurale, denominato perciò Ercole Silvano. Un’ altra pastorella studiasi di sottrarre il capretto dalle poppe della madre, presso a cui appoggiato graziosamente col mento al bastone sta in piedi un giovin capraio.

« La quarta faccia, continuando il soggetto, ha due Centauri, mostri mansuefatti dal dio di Nisa, al quale gli abbiamo veduti prestar servigio in più monumenti: uno col tirso e l’altro colla ferula e diademati ambedue, perchè il diadema fu invenzione di Bacco. Sostengo il primo una piccola Menade cinta piuttosto che vestita di nebride, l’altra un fanciullo citaredo. Ma nel mezzo un focolare di assai vaga forma, ove sono appoggiate due faci ardenti, al lume delle quali due genii della Morte bruciano una farfalla, simbolo della vita, e rivolgono intanto piangenti la faccia altrove, ci muove a credere che funebre fosse la destinazione e l’oggetto del monumento abbellito con bacchiche rappresentazioni, o per indicare che il defunto iniziato anch’egli a quei venerati misteri sperava distinguersi in grazia di ciò dal volgo dei trapassati, o ancora che pur cotento sull’esempio del dio del Vino di una vita lieta e voluttuosa, cedeva poi alla sorte comune d’ogni vivente, non altrimenti d’un convitato che sì levi pago e satollo da ricca mensa. »

Il Visconti ha presa questa idea del verso di Lucrezio.

Cur non ut plenus vita conviva recedis?

Lezione sessantesimasettima.
Monumenti più celebri rappresentanti di Bacco. §

Vi ho esposto nelle passate Lezioni tutte le gesta di Bacco; e sui compagni che gli dava la religione pagana ho cercato di portare la luce delle congetture aiutata dai monumenti. Non mi resta adesso che a darvi le altre illustrazioni delle statue più commendate, e dei bassirilievi più celebri, onde quando i vostri studii ve li presenteranno agli occhi, ne ravvisiate il soggetto, gli attribuiti e le idee che vi univano gli antichi, e tutte le cose, insomma, che sono l’anima dei monumenti, e che distinguono l’artista erudito dal volgo degl’ignoranti.

Dopo questa serie di memorie avanzate agli sdeigni di colui che muta i regni, nell’interpetrazione delle quali ci saranno scorta i lumi del lodato Visconti, voi potrete dire: Noi conosciamo gran parte delle divinità; i simulacri ci parlano un nuovo linguaggio mercè le opere dei sommi scrittori dell’antichità, che dettarono agli artefici antichi i più sublimi concetti.

Interrogato Fidia, dopo aver fatto la statua di Giove Olimpico, se lo dio stesso si fosse degnato di manifestarsegli, additò il maestro di tanto miracolo dell’arte, recitando questi divini versi di Omero, nei quali il nume è ritratto:

Disse, ed i neri sopracigli il figlio
Di Saturno inchinò: sull’immortale
Capo del Sire le divine chiome
S’agitare, e tremonne il vasto Olimpo.

Comincerò dalla famosa statua creduta, prima Visconti, Sardanapalo: quindi di due bassirilievi Bacchici si darà l’illustrazione.

Bacco barbato.

« Questo singolare, anzi unico monumento, non è stato considerato dagli eruditi con critica sufficiente. Winkelmann, che lo ha pubblicato il primo, non ha bastantemente, a mio credere, schiarite le nostre idee sul vero soggetto del simulacro. Il mio parere è molto diverso sì da quello di Winkelmann, sì dal comune. Lo sottopongo al giudizio dei leggitori, dopo aver fatto considerar loro la statua con tutte le sue circostanze. È effigiato nel marmo un uomo, il di cui volto maestoso e sereno è decorato da una lunga e coltissima barba che gli cade sul petto, artificiosamente sparsa e disposta. I lineamenti della sua fìsonomia sono puramente ideali: naso greco e quadrato, sopraciglio rilevato e tagliente. Insomma è il ritratto stesso assai ovvio nell’antica scultura, che a Platone dai nostri maggiori solea attribuirsi, e che vedesi ripetuto su di tanti ermi. I capelli più della barba acconciamente distribuiti gli cadono in parte su d’ambe le spalle divisi in due lunghe e ben pettinate ciocche; la maggior parte rimane femìnilmente raccolta sul collo e stretta da un’alta benda che gli circonda la testa. La molezza e la grandiosità dell’abito corrisponde al lusso della sua capigliera. È vestito di una larga tunica sovrabbondante ancora in lunghezza a foggia delle teatrali, composta di sotti: drappo, forse di bisso pieghettato minutamente: è poi avvolto in un pallio del pari ampio e magnifico, che tutta la figura circonda e copre, lasciando fuori soltanto il destro braccio, che, da quel che rimane d’ antico apparisce sollevato in alto. Il manco è posato sul fianco, e resta avvolto affatto nel manto istesso, il quale forma sul petto un doppio ravvolgimento, ed ha nelle sue falde segnato in greche lettere Sardanapalo. Tanto è bastato perchè da alcuni si riconoscesse nel simulacro il lussurioso re di Nini ve: e ben sembrava conveniente al soggetto e il maestoso portamento e il grandioso vestiario e la coltura della chioma quasi donnesca. Cresceva nel volgo l’evidenza dell’opinione, perchè la statua trovata nei ruderi d’una Villa Tosculana, era situata in una nicchia che veniva da quattro feminili statue sorretta, le quali a guisa di Cariatidi facevan le veci di colonne, e tal compagnia era ben conveniente al costume di quel voluttuosissimo re. Feriva ad alcuni la fantasia la somiglianza del volto della statua principale coi volgarmente creduti ritratti di Platone, e siccome quel filosofo da qualche taccia di mollezza non andò esente, sospettavan diretta in quel monumento un’assai dispendiosa satira al divino filos’ofo. Winkelmann che non die retta a questo parere, dottissimo com’egli era, non si nascose alcune incongruenze della comune opinione, e tra le altre rilevò quella della barba che il decantato Sardanapalo solea radersi ogni giorno, come solito abbigliarsi donnescamente: la quale per altro apparisce nel personaggio rappresentato nutrita con gran cura e disposta. Immaginò per tal motivo che spettasse il simulacro ad un più antico e sobrio Sardanapalo rammentatoci da Snida. Nessuna di tali opinioni mi sembra tanto fondata da poter reggere ad un ragionato esame della scultura. Il molle e celebre Sardanapalo non può esservi scolpito, e perchè la lunga barba alla sua storia non corrisponde, e perchè di fatti le greche medaglie ce ne rappresentano l’immagine qual era in Anchialo sul suo sepolcro, nella quale ben si discerne il mento sbarbato. Nè può abbracciarsi il sentimento di chi lo volle un ritratto di Platone. Oltre le ragioni rilevate in contrario da Winkelmann, l’unico fondamento della somiglianza coi ritratti di quel filosofo riman distrutto dalla cognizione del sincero e genuino ritratto di Platone, assolutamente diverso da’creduti volgaramente, e che si vede nella Galleria di Firenze. L’opinione poi di Winkelmann non è affatto probabile, poiché non verisimile che tanti ritratti e simulacri ci sien pervenuti di un principe, la cui storia rimaneva isolata da quella dei Greci e dei Romani, e le cui memorie quasi ignote ai vetusti annali, si ricavano a gran pena ed assai dubbiamente da qualche notizia indiretta. Io penso che prima di dar nome alla statua, secondo l’epigrafe che porta incisa, dovesse considerarsi se la figura stessa ha caratteri tali che possano determinarla ad un argomento incompatibile coli’ iscrizione, nel qual caso dovremo aver quel nome Sardanapalo o per un antico errore, o per un’antica impostura. Ora il soggetto del simulacro è per se notissimo, e può dimostrarsi altro non essere che Bacco vecchio e barbato assai familiare nell’antica mitologia. La stessa figura precisamente scorgiamo nei bassirilievi detti volgarmente Cene di Trimalcione, dove un corteggio di Sileni e di Fauni la contradistingue per Bacco. La stessa coi simboli dionisiaci del nappo e del tirso ammiriamo nel superbo intaglio in topazio del Vaticano; la stessa appoggiata ad un Fauno è in un bel vaso etrusco riportato dall’Hancarville; la stessa su d’un incomparabile cammeo presso il signor Jenkins, rappresenta il simulacro di Bacco fra le offerte dei dei suoi seguaci; la stessa è scolpita in un vaso e in un sarcofago del Palazzo Farnese in mezzo a Baccanti; la stessa, finalmente, su cento altri monumenti Bacchici è frequentissima. Nè solo è la figura per se determinata a rappresentarci un Bacco barbato, ma per tale confermanla quelle circostanze che più debbono rilevarsi nel simulacro proposto. La sua nicchia era sostenuta da quattro statue muliebri, e un simile accompagnamento avea il Bacco vestito di Sicione. Il numero di quattro corrisponde alla tradizione dell’anonimo, che assegna quattro donne al Nume tebano. La sola circostanza contraria sarebbe l’epigrafe. Ma qual peso potrà avere quando contrasta coll’evidenza del soggetto? Il Nettuno equestre in Atene avea un’iscrizione che gli dava un altro nome, ma che non trattenne Pausania dal riconoscerlo per Nettuno; le iscrizioni erano fallaci ai simulacri delle Pretidi in Sicione, e a quelli stessi di Temistocle e di Milziade in Atene. La statua di Oreste nell’Ereo, se si leggeva l’epigrafe, dovea dirsi rappresentare Ottaviano Augusto. E non trovansi delle immagini simili con iscrizioni contradditorie? La stessa testa che nel Campidoglio ha il nome greco di Pindaro, nel Museo Clementine ha quello di Sofocle. Il bassorilievo di tre figure, che in Villa Pinciana ha i nomi antichi di Anfione, di Zeto, di Antiope, in una replica a Napoli ha quello di Orfeo, di Euridice, di Mercurio. Se dunque le false epigrafi non impedivano i Greci antiquarii di decidere sui migHori indizii del vero soggetto delle immagini, non devon essere d’ostacolo neppure a noi per determinarci contro l’epigrafe, quantunque antica, sui più forti ed evidenti. E se il soggetto della nostra statua è certamente un Bacco barbato, come lo provano tanti simili e non equivoci monumenti, l’iscrizione che lo vuol Sardanapalo, quantunque antica non sarà genuina. Difatti sembra posteriore di molto alla scultura: la duplicità del a non è conforme alla più esatta ortografia, e le forme della C, dell’A, del A, del a se hanno qualche esempio in monumenti prima dell’Era Cristiana, ne hanno infinitamente più dopo i tempi degli Antonini. Quindi la buona critica c’insegna che se non debbono avvicinarci l’epoca di un monumento che abbia tutti i segni dell’anteriorità, servono però a confermarci neiropinione della posteriorità di un’altro, che già ne somministri non leggieri sospetti. Che se mi si chiedesse qual può esser stata l’origine di questa falsa denominazione, e se l’impostura, o l’ignoranza r abbia segnata, non esiterei d’ indovinar i motivi che abbiano indotto in errore gli antichi espositori delle più antiche rappresentanze. Sembra che tal sorta di gente si moltiplicasse verso il tempo degli Antonini a misura che andavano ad offuscarsi le antiche tradizioni. Allora fu probabilmente che i possessori gradirono avere scritti i nomi delle statue loro. Colui che die alla nostra il nome di Sardanapalo cadde in un errore conforme a quello dei moderni antiquarii, che hanno dato ad una figura simile il nome di Trimalcione: leggendo esagerate in Petronio la crapula e la delicatezza di questo soggetto, gli hanno attribuito quelle immagini che rappresentano un uom barbato, immerso nei piaceri e nelle gozzoviglie, senza badare all’orecchie faunine e alle code delle figure del suo corteggio, che facilmente l’ avrebbero contrasegnato per Bacco. Gli antichi presso i quali erano in proverbio le cene, e il lusso di Sardanapalo, con simile oscitanza l’avranno riconosciuto in quelle rappresentanze, e quindi nella nostra statua, che alla figura di quei tanti bassirilievi perfettamente somiglia. Tanto più facile era 1’ equivoco, quanto la statua di Sardanapalo in Anchialo dalle statue Bacchiche negli attributi forse non differiva. Può congetturarsi che l’errore avesse un ulterior motivo, del che ci avrebbe fatti certi la conservazione del destro braccio. La statua di Sardanapalo alzava la destra colle dita disposte in guisa da fare uno scoppio, col che s’ indicava ciò che schiarivasi dalla sottoposta iscrizione, che tutto fra gli uomini è vanità fuori dei sensuali piaceri; quasi volesse dire che quel rimanente neppur valea quel nulla che indicava il gesto. Ora una simile attitudine ed espressione si dava dagli antichi ancora alle figure Bacchiche, come la bella statua di bronzo d’ un Baccante ubriaco lo comprova. E siccome in espressione per lo più voluttuosa solcano esser tali figure di Bacco: la nostra, per avventura, avea la mano, che certamente era levata in alto, appunto in quel gesto. Facil cosa adunque fu allora il confonderla coir immagine dì Sardanapalo, che per quel gesto era nota, e lo scriverne il nome sull’orlo del pallio allontanandosi dall’usanza ordinaria. Per quel che riguarda l’arte, il nostro Bacco barbato è un pezzo degno di qualche studio. La voluttà, la mollezza nell’età adulta non possono esprimersi con maggior sentimento, nè con maggior dignità. Il corpo non solo è delicatamente pasciuto, vestito e colto, ma l’anima stessa mostra quella stupida contentezza di una persona abbandonata a’ piaceri, e che non sente rimorsi. L’aria del volto è però grandiosa e nobile, qual si conviene ad un dio, e la fìsonomia lo mostra capace di grandi idee. Può dirsi veramente un dio d’Epicuro inebriato ai piaceri, che però non giungono ad alterarlo, e spogliato di tutte le cure. I capelli sembrano stillanti di preziosi balsami, e l’abito è eseguito con una somma verità d’ imitazione, e composto con ottimo gusto. È da notarsi la manica del braccio destro, il cui principio è antico ed è ben diversa dalle consuete: non saprei assomigliarla che a quella di un Bacco barbato, o di un sacerdote sotto le sembianze del nume dipinto su d’un bellissimo vaso.

« Le statue feminili che accompagnavano la figura del nostro nume sono alla Villa Albani ove servono di Cariatidi. Mancavano del capo e delle braccia, ma sono state risarcite in attitudine di Canefore, seguendo l’indicazione delle braccia medesime. La scultura di Bacco è però di gran lunga superiore a quella delle figure accessorie.

Bacco nascente.

« Il soggetto singolare di questo grandioso bassorilievo, la sua conservazione, il suo stile possono farlo considerare, come uno dei più rari monumenti di simil genere che ne’ Musei si conservino. La nascita di Bacco dalla coscia di Giove è un avvenimento che abbiamo sovente udito ricordare dai mitologi e dai poeti, ma di cui non avevamo finora incontrato negli avanzi dell’arti antiche memoria alcuna. Ctesiloco discepolo di Apelle scelse questo argomento per soggetto di una poco religiosa pittura, nella quale avea rappresentato Giove femminilmente acconciato e femminilmente gemente, che partoriva Bacco in mezzo alle dee levatrici. Ma questa pittura convien dire che fosse una specie di parodia d’ altre composizioni esprimenti il fatto medesimo con tutta la dignità che esigevano la religione, la vetustà del racconto, e forse il senso arcano che i misteri vi aveano congiunto.

« Due monumenti di questo genere sono il presente bassorilievo, e la patera del Museo Borgiano in Velletri. ambedue inediti e singolari, che comunichiamo al pubblico per la prima volta.

« Cominciando dalla sinistra. Giove siede coperto del suo manto dal mezzo in giù, secondo il costume, e col femore sinistro snudato. Si appoggia colla manca allo scettro, colla destra alla rocca, che colle del puerperio quindi fu detta. Egli è certamente in attitudine di un qualche sforzo, ma senza pregiudicare alla sua tranquillità. Dinanzi a lui s’ inchina alcun poco Mercurio, che ha fatto seno del gomito, e lo ha coperto di una pelle di capriolo detta nebride e sacra alla nascente deità, per riceverlo fra le sue braccia, e condurlo alle Ninfe che l’educheranno. Il pargoletto nume si scioglie dalle membra paterne, ed è in atto di lanciarsi in braccio al germano. I suoi capelli sono cinti già di diadema come a re si conviene, e come a istitutore di religione.

« Il petaso di Mercurio angoloso, la sua clamide, i suoi calzari somigliano estremamente a quelli coi quali è stato rappresentato da Salpione nel bel vaso di Gaeta, il cui soggetto è quasi la seconda scena del nostro, cioè la consegna di Bacco infante fatta da Mercurio a Leucotea. Nè mancano al nostro bassorilievo ciò che Plinio chiamò Dee levatrici: anche qui tre dee assistono al parto di Giove, alla nascita di quel nume, che fu detto l’allegria de’ mortali. Ha il primo luogo Lucina o Illitia dea del Puerperio: essa è simboleggiata colla man destra aperta, gesto relativo alla facilità de’ parti, e gesto perciò, dal quale veniva caratterizzata la statua di questa dea nel suo tempio d’Egio in Acaja. Ha dall’altra mano lo scettro, ed è tutta involta in un elegante panneggiamento.

« Egualmente graziosa e composta è la seconda dea, che non avendo nessun particolar distintivo, sendo lo scettro che regge colla sinistra fregio comune d’ogni deità, pur non dubito denominar Proserpina o Libera, e ciò sì per le sue relazioni col nume che nasce, sì per l’altre più cognite colle deità seguenti, che abbastanza vien contrassegnata per Cerere. Aggiungo che quella specie di rete che le raccoglie le chiome è la solita acconciatura di Proserpina nelle medaglie di Sicilia, e serve nel bassorilievo ad accrescer segnali per ravvisarla, e probabilità alla mia congettura.

« L’ultima è la dea Cerere gentilmente anch’essa avvolta nella sua palla, o peplo, colle spighe, dono da lei fatto ai mortali, nella destra, e collo scettro nella sinistra.

« Cerere, Proserpina e Bacco, i quali due ultimi dai Latini si dissero Libero e Libera, ebbero una stretta ed evidente unione nel culto del paganesimo. L’ amistà di Cerere con Bacco sembra esser nata dall’affinità delle loro invenzioni, poiché l’ una di miglior cibo, l’altro provvede i mortali di miglior bevanda, ed amendue un genere di alimenti introdussero da procurarsi difficilmente nell’antico selvaggio viver degli uomini: onde rese necessarie le proprietà e le società regolate. Furono questi numi detti con verità Tesmofori, o legislatori, e riguardati come la vera origine della perfezione dell’uomo civile. Quindi Cerere si unisce con Bacco non solo da Euripide e da Virgilio, ma nel gran cammeo già del Museo Carpegna, ora del Vaticano, e in molti altri monumenti.

« L’unione di Bacco e di Proserpina ha motivi meno evidenti, come quelli che nei Misteri soltanto si rilevavano, ma certo è che il culto di queste tre divinità fu congiunto, sì nei gran misteri Eleusini i primi della Grecia e della religion delle genti, come nelle feste, nei templi, e negli altri pubblici riti e ceremonie del Paganesimo. A Pirea non lungi da Sicione erano insieme le statue di Cerere, di Proserpina e di Bacco: tre simulacri di bronzo alle stesse divinità s’eressero in Roma col denaro delle multe l’anno 565. Un tempio presso il Circo Massimo era comune ai tre mentovati numi. I Romani insomma non men dei Greci onorarono con Cerere, Libero e Libera: e monumento di questo culto è anche il presente bassorilievo, il quale, comecché di stile soltanto accennato e poco finito, mostra un lavoro di molta antichità, e forse degli ultimi tempi della Repubblica; e alla semplicità e bellezza delle figure può giudicarsi copia di greco nobilissimo originale.

Bacco e Baccanti.

« Niun genere di soggetti nei monumenti di antiche arti più sovente s’ incontra di quello che le favole, le feste, i simboli, i riti bacchici ne rappresenta. sia ch’essendo stato riputato quel nume protettore di tutte le arti teatrali, la pittura e la scultura gareggiassero ad adornare di simile rappresentazione i luoghi dei pubblici divertimenti; o sia che preside delle vendemmie ed inventore del vino, fosser le sue immagini egualmente opportune alle religioni agresti e ai rustici templi, come alla gioia dei conviti e all’abbellimento dei cenacoli; o sia finalmente ohe quale istitutore e corifeo di misteri riputati allor sacrosanti, le allusioni alle sue cerimonie si riguardassero come la più conveniente dec orazione dei sepolcri, e quasi un sicuro segno e della santità della vita e della felicità dopo la morte degli estinti iniziati: certo è che la metà presso degli avanzi delle arti vetuste son memorie ancora del culto di questo nume. Il presente bassorilievo staccato da un sarcofago la cui fronte adornava, ci offre Bacco nel mezzo dei suoi seguaci. Le nove figure che io compongono sono distribuite sul campo con buona economia; felicemente inventate, e forse da egregi maestri Greci: hanno, è vero, il minor pregio nell’esecuzione, che non manca però di quella forza e sicurezza di stile necessaria a >far distinguere ancor da lontano tutte le parti essenziali di un lavoro.

« Il principal gruppo ch’è nel mezzo del bassorilievo ci mostra Bacco vinto dalla sua bevanda, e vacillante qual Momo il dipinge, retto dal giovinetto Aerato, o Ampelo, sotto la spalla sinistra, e tenuto pel destro braccio da una Baccante, ch’è forse Mete dea dell’Ubriachezza. Il manto che dalle spalle gli cade sulla destra coscia infino ai piedi, mostra con un gentil serpeggiare l’ondeggiamento della mal ferma persona. Il suo capo è coronato di edera, la sua fronte di una fascia, o credemno, il suo petto di un serto d’ alloro che dal sinistro omero scende a traverso insino al destro fianco. D’ un simil serto è cinto il giovin Baccante, che lo sostiene, e Mete dall’altra parte scuote un timpano, simbolo di quell’ insana compiacenza che accompagna il delirio dell’ebrietà.

« Vicino al gruppo, alla manca dei riguardanti, è scolpito l’educatore di Bacco, Sileno, che rattempra al suono della cetra gli affetti del Nume: e poeta e filosofo qual ce lo additava Virgilio, adopra la musicale armonia per ricomporre la sconcertata immaginazione. Pane è poco appresso col suo bastone pastorale: si rivolge indietro verso una Beccante cinta di nebride, la quale sembra invitarlo alla danza: quindi sorgono due are, una con fiamma accesa e face rovesciata appresso, 1’ altra con delle offerte di frutta soprappostevi. Le tre figure a sinistra non sono nè meno espressive, nè meno graziose nella invenzione. Un vecchio rustico tiene un piccolo capro sotto l’ascella sinistra, come descrìve Euripide alcuna delle Baccanti: i serpenti Bacchici sono stretti nella destra, la sua tunica è cinta di campanelli adoperati forse nei misteri e nei riti dei Baccanali per allontanare i profani col suono, e i male augurati oggetti con quella forza, che dava allo strepito dei bronzi l’antica superstizione.

« Il nome di Titiri é particolarmente appropriato a siff’atti seguaci di Bacco addetti alla vita di pastori e caprai.

« Un giovine quasi nudo, se non quanto ha gettata sull’omero sinistro una pelle di pardo, suona con forza un istrumento da fiato, tien le gambe incrocicchiate, e non avendo caprino orecchie, può dirsi un dei Mimalloni rustici Asiani, ai quali attribuisce siffatti suoni l’antica poesia. Un’altra ara coronata ed accesa è presso questa figura, la quale è poi seguita da quella di una Menade, o Baccante furiosa, che può sembrare invasa da quella religiosa mania, dalla quale credeasi comprendere chi toccava, scuoteva i misteriosi arredi dei Baccanali. Delle linci o pantere con canestri di frutti, e teschi di capro, maschera di bocca chiusa, e un Fauno con una capra empiono il basso del quadro. Que st’ ultimo gruppo è di minor proporzione che non esige il resto delle figure, ed è piuttosto prova della diligenza e della laboriosità che del gusto dell’artefice, il quale dee aver tratto questa composizione tanto superiore al suo genio da egregio, ma ora incognito originale. »

Lezione sessantesimottava.
Altri monumenti bacchici. §

Un’ altra immagine di Bacco barbato, una statua di un Fauno ed un’ altra ninfa Bacchica, e diversi bassirilievi all’istoria, alle pompe del dio del Vino allusivi, saranno argomento della presente Lezione. Confido che le illustrazioni di questi monumenti saranno utili per l’ intelligenza dell’ antico, e per la notizia dei costumi.

Bacco indiano barbato.

« Che le immagini simili al presente, rare al ^erto in simulacri di tutto rilievo, in altro genere d’antico assai comuni, debbano ascriversi a Bacco Indiano e barbato, si è già con luoghi di scrittori, con osservazioni di monumenti posto in sufficiente chiarezza. A tali immagini appunto di Bacco alludeva Plinio, e più apertamente Solino quando paragonavano all’ arredo di questo nume, l’ abito del re di Taprobana. Simile per avventura al pallio che avvolge questa statua, o l’altra conosciuta prima per Sardanapalo, era il grandioso ammanto di cui una statuetta di Bacco sostenuta in mano da un Fauno vedovasi coperta, ed al quale ha dato Plinio stesso il nome di Palla, nome equivalente a quello di peplo, che grecamente qualunque ampio mantello o coltre era proprio a significare, come che avessero poi strettamente lo stesso nome due diversi generi di abbigliamenti donneschi.

« La testa del simulacro di nobile e serena fìsonomia ha la sua lunga e ben acconcia chioma avvinta dal diadema, dec orazione inventata da questo figlio di Giove: onde ne ha il capo cinto persino in quel bassorilievo, che rappresenta il suo nascimento.

« E credibile che in antico si vedessero nelle mani di questa statua il tirso e la fiala, insegne proprie del nume, come si osservano in varii monumenti che ci presentano immagini di Bacco barbato. Queste immagini appunto provano ancora che a Bacco stesso, piuttosto che ai suoi seguaci e ministri, debbono attribuirsi statue sì fatte. È però vero che in altri monumenti possono supporsi in tal foggia ritratti i ministri del culto Bacchico, secondo il costume accennato altrove dei sacerdoti di mentir l’abito e le sembianze delle divinità a cui si consacravano: e immagini di numi agresti e del corteggio Bacchico saran quelle, che a guisa di erme e di termini adornarono gli antichi giardini.

« La scultura di questo marmo è diligente, e tratta da buono esemplare, che vi è stato reso con fedeltà ma con una certa durezza.

Fauno.

« I festosi compagni di Bacco, divinità sempre liete e scherzevoli, ora occupati nella musica, nella caccia, nella vendemmia, ora intesi alle mistiche ceremonie del nume lor condottiero, ora vinti dall’ubriachezza e dal sonno ci vengono rappresentati nelle antiche arti. Ma l’espressione al loro vivace e lascivo carattere conveniente è quella senza dubbio delle rozze e concitate danze, onde saltanti furono cognominati dai poeti, e più mobili di tutti gli animali, quasi da senno furon detti da un commentatore.

« Quindi i cori dei Satiri danzanti introdotti nella tragedia ne spiegarono il sopracciglio, e seppero senza indegnità eccitare il riso in mezzo alle famose avventure degli dii e degli eroi. Il nostro Fauno, secondo il precetto o il costume dei balli più vetusti, non salta con le mani vuote, ma reca delle frutta, primizie dei campi e oblazione propria di Bacco, nella sua nebride, che pendente dall’omero e raccolta colla manca fa seno. Un tal costume dal rito dei sacrifizi ebbe origine, ove i movimenti usati nelle sacre cerimonie, che presso i Greci eran la più parte liete e ridenti, dierono principio all’arte del ballo.

« Coronata è la sua testa come proprio è dei sacrificanti, e la corona è di pino, arbore onde questi silvestri semidei circondano frequentemente la chioma; nè più molle serto si conveniva all’irta lor fronte però gli denominavano (grec) e frontem comatos.

« La nostra statua è commendabile per la sua integrità, non avendo restauro che nelle braccia, e per la grazia e la vivezza dell’atteggiamento e della mossa. Altri poco diversi in altra Collezione non sono egualmente conservati.

« La somiglianza che accenno è argomento della provenienza di figure sì fatte da nobile originale, di cui però nelle scarse notizie che ci sono pervenute non trovo memoria,

Ninfa bacchica.

« Gli scrittori delle cose Bacchiche fanno sovente menzione del serpente Orgio, rettile venerato in quei famosi misteri della Gentilità, che perciò nell’argento asiatico si avvolge attorno alla cista mistica; e spesso nei monumenti ri cinge alle Baccanti la testa e il seno. Sopra tutto però conviene il serpe alle Ninfe, che oltr’ essere le amiche e le madri dei Satiri e dei Sileni, le nutrici e le compagne di Bacco, sono anche le divinità locali dei fiumi, dei ruscelli, dei fonti, e perciò ben s’uniscono coir immagine del serpe, eh’ è simbolo di quelle oscure divinità dei luoghi dette Genii, dei quali sembrava agli antichi Etnici popolata tutta la terra. Il grato mormorio delle acque che persuade sì dolcemente i sonni, sarà stato forse il motivo che avrà indotto gli antichi, intesi ognora a rilevare e condire tutte le piacevoli sensazioni che la natura fornisce a decorar le scaturigini delle sacre acque colle immagini delle Ninfe dormenti: quindi cotanti simulacri di siffatte semidee tutti giacenti, e in atto di reclinar suU’ urne le addormentate cervici. A queste eran talvolta soscritti dei gentili epigrammi, che raccomandavano silenzio e quiete per non destarle.

« Gli accennati simulacri non sogliono vedersi col serpe: ho perciò distinto la presente figura col nome di ninfa Bacchica per esser fornita di questo simbolo Dionisiaco. Dorme però ed è cinta di un gran serpe la ninfa di un fonte in un bassorilievo del Palazzo Giustiniani, ove è rappresentata la punizione di Penteo per aver tentato di proscrivere i Baccanali. Un angue striscia pure sul petto di una piccola ninfa, che dorme appoggiata all’urna, simile in atto alla pretesa Cleopatra di questa Collezione, e di un’ altra che è ancor senz’ urna come la nostra, edita fra le statue di Dresda. Tutto ciò prova la ragionevolezza della proposta denominazione, e nello stesso tempo dimostra quanto andassero errati coloro che per nobilitare con qualche celebrata avventura la rappresentanza di questo marmo, pretendevano ravvisarvi Olimpiade, la madre del gran Macedone, col serpe in cui si pretese trasformato per amor di lei Giove Ammone.

« Più al caso parrebbemi di far ricerca perchè la nostra statua sia senz* urna, consueto attributo delle Ninfe, e perchè più vestita dell’altre statue giacenti. Quantunque le ninfe in piiì monumenti "vestite appaiano, pure dalla mancanza dell’urna mi sembra verisimile che il soggetto del nostro marmo sia piuttosto r immagine di una defunta rappresentata sul coperchio del suo monumento in foggia di ninfa Bacchica, come, al dir di Properzio, stanca dall’assidue danze cade sull’erboso Apidano.

« E notabile in molti lavori antichi la maggior modestia che si è usata nel vestiario delle figure, quando sotto le spoglie di un soggetto mitologico dovea rappresentarsi qualche ritratto. Più decisivo al mio credere per confermar questa opinione è il partito, onde lo scultore ha condotto il rilievo della figura, la quale, come suol vedersi in molte di si fatte immagini sepolcrali, non può dirsi assolutamente eseguita di tutto rilievo; ma tranne le estremità e le parti che risaltano e sono quasi isolate, il resto del corpo è più basso che non sarebbe nel vero, e trattato quasi di mezzo rilievo. Una tal pratica mai da me non osservata in immagini che non possono credersi appartenenti a sepolcro, mi persuade che tal fosse il destino della presente scultura: il sito campestre, la bellezza e la gioventù della donna estinta avran dato luogo a rappresentarla quasi una ninfa della contrada; e le insegne Bacchiche sì ben convenienti alle Ninfe, avranno anche avuto relazione alla superstiziosa credenza, che molto quei misteri e quelle cerimonie avessero di valore per conciliare all’anime dei defunti riposo e felicità.

« La scultura del simulacro quasi intatto, la quale non oltrepassa la mediocrità, è ancora una conferma alla congettura proposta.

Sileno.

« Nel grazioso bassorilievo rappresentante Sileno tutto ravvolto in una pelle di pantera e calzato i pie di coturno son degne di qualche attenzione la vivacità della mossa, la naturalezza deirespressione, la facilità e l’eleganza dello scalpello. Gli orecchi umani distinguono il nutritore di Bacco dalla torma dei Fauni, e le striscie di cuoio che stringe nella manca trattengono alcun poco lo sguardo dell’ osservatore. Nelle feste licee del dio Pan si usavano simili striscie, colle quali nelle licenze di quei giuochi percuotevano quelli che incontravano, specialmente le donne che speravano riportarne fecondità. Quindi Silio Italico descrive con, questa sferza il nume d’Arcadia.

« La destra scherza lascivamente movendo i tagliati velli Tegeatici delle capre nei giuochi festivi per le strade. Dal costume greco furono imitate dai Romani le solennità lupercali istituite da Evandro. La connessione di Sileno con Pan non ha bisogno di esser provata: il nome stesso di Fauno è corrotto dal greco Pan, e quel di Sileno competeva, secondo Pausania, a tutti i Satiri, o Fauni, di età senile. Altri monumenti bacchici rappresentano quindi Satiri, Fauni e Sileni forniti di questa specie di sferza.

Bacco sul carro tirato da Centauri.

« I Tiasi, le feste Baccanali, danno ancora argomento al presente bassorilievo, come il dierono ai precedenti, ma tanto li supera nell’integrità e nella conservazione, quanto cede a quelli o nella eleganza delle immagini, o nella maestria dello scalpello.

« Bacco vien tratto in un carro a cui sono aggiunti invece delle pantere i centauri, uno dei quali dà fiato al corno, l’altro suona la cetra. Ambi in età giovanile hanno orecchie simili a quelle dei Fauni, come appunto descrive Luciano i dipinti da Zeusi. Un genio intanto si regge in piedi sul dorso del centauro a destra, e tiene nelle mani un vessillo simile ai romani, e di quella figura ch’ebbe poi il labaro degl’imperatori cristiani, cioè un drappo quasi quadrato, che pende da ambe le parti di un bastone incrociato nella sommità d’ un’ asta. Questo può forse da un passo di Plinio rilevarsi come invenzione di Bacco.

« Acrato, che vuol dire vin puro, è, come io penso, rappresentato in questo fanciullo, e sì le altre sue immagini, sì lo stato di ubbriachezza in cui Bacco si presenta me lo fanno congetturare. Il nume è coricato su d’un carro a quattro ruote su cui è steso un origliere a guisa di letto. Egli sembra ubriaco, e sostiene in ambe le mani corone di fiori secondo il costume de’ banchetti. La donna che presso al cocchio par che lo guardi con af fetto, è forse Nisa, la sua nutrice: la turba degli altri Baccanti il precede. Una Menade ed un Satiro battono i timpani. Un’altra Baccante danza e suona i cembali. Presso è posata la cista mistica dond’ esce il serpente Orgio, e vicino sorge un rustico altare. Innanzi un Fauno ed una Canefora, cioè una di quelle donne che portavano nei canestri le primizie delle frutta consacrate al nume, sono accompagnate da una pantera e da un leone, sul cui dorso, giusta la descrizione di Nonno, siede senza freno il fanciullo Ampelo.

Vittoria di Bacco.

« Che nelle favole Bacchiche siansi trasfuse le imprese di Sesostri, o d’ altro antichissimo conquistatore, che l’Oriente fosse la patria di quell’uomo singolare che insegnò ai Greci tante arti ignote, ed introdusse tra loro sì nuovi costumi, i Greci dipingonci la sua venuta da quelle contrade come il ritorno trionfale di un capitano sì prode, che non trovò altri emuli delle sue gesta, se non che, molti secoli dopo, Alessandro e Pompeo.

« Il soggetto del presente bassorilievo è relativo appunto alle vittorie del nume di Nisa. Vedesi la sua comitiva uscir lieta e carica di prede dalle porte di vinta città. L’abito barbarico dei prigionieri, e pili l’elefante, ci additano che l’azione è nell’Indie, famosa conquista di Bacco.

« Son tre Fauni e due Baccanti che conducon via un elefante, su cui è avvinto un prigioniere indiano, appunto come si descrive nelle Dionisiache, in questi versi

D’altri di Bacco la vagante schiera
Lega al tergo le mani, e avvinti e chini
Gli trae sopra inflessibili elefanti.

« L’ Indiano, oltre aver le calze barbariche usate dagli antichi artefici nell’abito particolarmente degli Orientali, è distinto dalla lunga inanellata chioma che, secondo il costume indico, non dovea mai recidersi. Un Genio siede fra le orecchie della vinta belva. L’ elefante non è rappresentato si grande come la sua naturai proporzione il richiederebbe: ma simili innavvertenze non sono rare in mediocri bassirilievi. Sappiamo altronde aver conosciuto gli antichi naturalisti anche un genere di minori elefanti, che dicevano avvezzi nell’India a trarre l’aratro, e che spurii appellavansi.

« Segue una coppia d’altri prigionieri: una donna acconciata nel capo come l’Indiano sull’elefante, ed un giovine seminudo. Una Baccante lo stimola col suo tirso. Altri portano canestri di frutta forse esotiche, ed accompagnano una pantera già mansuefatta.

« Lo stile del bassorilievo è del più ordinario, l’invenzione per altro delle figure vien dal buono, come la composizione, la quale, benché semplicissima, empie il campo con naturalezza e senza confusione.

Pompa nuziale di Bacco e di Arianna.

« L’argomento di questo bassorilievo è dei men comuni fra i ‘soggetti Bacchici. Non esprime quel che la maggior parte, i tiasi cioè le orgie, i trieterici, feste che si facevano ogni tre anni in onore di Bacco, altre solennità Dionisiache, ma una delle più famose favole fra quelle che alla storia appartengono di questo nume. ch’egli s’invaghisse di Arianna abbandonata già da Teseo, o che a forza e con naval certame gliela togliesse, tutti consentono Dell’attribuire a Bacco per sua sposa la figlia di Minosse e di Pasifae. Parecchie sono le antiche sculture che ci presentano il domatore delle Indie nel sorprendere la tradita Cretense, poche però, o nessuna, che ci ofirano, come il presente bassorilievo, la pompa nuziale di Bacco e di Arianna.

« La schiera dei Baccanti precede i cocchi degli sposi; due Fauni sostengono con fatica 1’ ebro Sileno, i cui cembali caduti al suolo sono il primo oggetto, che nel marmo ci si presenti. Un altro Fauno segue saltando ad onta del non lieve peso del gran cratere che sostiene con ambedue le mani sugli omeri in assai bella attitudine.

« Sul carro tirato dalle pantere segue la sposa involta da quel gran peplo, o velo, che poi dai Latini si disse flammeo. Un giovinetto Baccante sotto l’omero destro 1’ appoggia, e serve all’ufficio di Paraninfo. Imeneo sta sul carro medesimo, e solleva la teda maritale. Amore è mezzo seduto sulla groppa d’una delle pantere, e sembra che la governi,

« I pettorali, o phalerɶ delle fiere, sono di fiori e di pampani. Una Baccante lì presso dà fiato ad una specie di buccina, o tromba, e così accenna la musica non trascurata mai nella letizia degli Imenei. Più curioso e singolare è il carro di Bacco: è tratto da cavalli, come in nessun altro monumento, ed è a quattro ruote, come altrove nelle pompe Bacchiche abbiamo osservato. Il fanciullo Aerato è sul suo cocchio medesimo, e il nume colla ferula nella manca, e la destra in atto di riposo ripiegata sul capo, giace in seno di una dea seminuda, velata anch’essa come la sposa, e che serve di pronuba a queste nozze. Se costei sia Venere, i di cui amori con Bacco non sono ignoti, e dai quali nacque Priapo, se alcuna delle sue nutrici, o Nisa Leucotea, alla prima delle quali come ninfa, alla seconda come deità del mare, giusta il costume greco non disdice la nudità; se finalmente Giunone dea delle Nozze, che ad onta dell’antica gelosia e del primiero odio contro il figlio di Semele, condiscese pure a porgere a lui adulto il proprio petto per guarirlo da una furiosa mania, non saprei deciderlo. La prima supposizione però è la più verisimile, come fondata sulla favola stessa, che fa intervenir Ciprigna a queste nozze, e donò alla sposa quella corona che fu poi riposta fra le stelle. Un Fauno veduto quasi di schiena sostiene sulla spalla sinistra un’otre, e chiude la composizione e il bassorilievo.

« Le invenzioni delle figure sono tutte elegantissime: si distinguono però fra le altre quelle di Arianna e di Venere sì per la grandiosità dei panneggiamenti, sì per la grazia delle situazioni. Merita per la sua semplicità di essere ancora osservata la figura del Fauno coli’ otre. L’ artefice per altro che ha eseguito nello stile solito dei sarcofagi sì bella composizione tratta o da greca pittura, o da greco bassorilievo, ha reso alcuni oggetti con sì poca esattezza o correzione che non s’intendono abbastanza.

« La positura di Cupido, che parte siede sulla pantera, parte striscia i pie sul suolo e cammina, dovea esser una delle più vaghe e bizzarre nell’originale; ma nella copia non è a suo luogo, nè corrisponde appieno all’intenzione dell’artefice. Non è figura, ciò non ostante, in questo bassorilievo, che studiata e corretta non possa divenir degna di qualunque nome più grande che illustrasse a quegli aurei secoli le Belle Arti. »

Lezione sessantesimanona.
Altri monumenti bacchici. §

Questa Lezione é l’ultima di quelle che trattano della teologia mitologica, ed altri monumenti Bacchici vi sono illustrati. La strada che dobbiamo calcare diviene adesso più dilettevole. Il primo soggetto della Mitologia storica è Giasone, che col fior della Grecia ardisce violar l’onde non tentate dai mortali per conquistare sulle sponde dell’estremo Fasi il vello d’oro. Il viaggio degli Eroi offre mille soggetti al pittore, e più ne presentano l’amore, gl’incantesimi, i delitti di Medea. Seguendo il mio costume vi esporrò quelli fra gli antichi monumenti che riguardano questa famosa impresa. Vi prego di accrescere la vostra attenzione.

Bacco ed Ercole sul carro tirato dai Centauri.

« Il raro argomento di questo bassorilievo compensa largamente il difetto del suo artifizio. E il più evidente monumento della stretta unione che riconosceva la pagana mitologia fra questi due figli di Giove, Ercole e Bacco. L’antichità che gli considerava come Dei soci, o secendo la frase propria assessori, ravvisava in questi eroi divinizzati molte maniere di rassembrarsi. Sono accennate presso che tutte in questo greco epigramma:

Ambo Tehani, ambo guerrieri, ed ambo
Prole di Giove: un tratta il tirso, ed uno
Della possente clava arma la destra.
Peregrini ambedue termini al mondo
Posar colonne: e l’abito han sembiante.
La maculata nebride, e la spoglia
Del lion fero; ed i trastulli eguali,
I crotali, ed i cembali sonanti.
Giuno ad entrambi avversa fu: l’Olimpo
Fra celesti immortali entrambe accolse
In terra nati e dalle fiamme usciti.

« I crotali d’Ercole mentovati nell’epigramma sono quegli stessi coi quali fugò quell’eroe gli uccelli Stinfalidi. Il comune loro culto fu ravvivato da una superstiziosa adulazione quando Settimio Severo li fé’ riconoscere come divinità tutelari della sua persona e della sua famiglia, e li fé’ congiungere nei conii delle monete romane coli’ epigrafe: Agli Bei Auspici. Le medaglie provano che questa venerazione indivisa ad Ercole e Bacco perseverò nell’impero romano anche nel regno di Caracalla.

« Mi sembra assai verisimile che il nostro bas sorilievo eziandio ne sia un monumento, e ciò non tanto per la bassezza dell’arte, che si sostenne ancora a quei tempi con qualche decoro, quanto perchè vi osservo prodigamente impiegato il lavoro del trapano, che appunto vedesi usato con sì poco risparmio nell’antica scultura fin dall’impero di Severo stesso da quel di Comodo.

« Il bassorilievo rappresenta un carro tratto da due Centauri, uno dei quali solleva il tirso, l’altro sostiene sugli omeri un cratere: le redini del cocchio sono in mano del Genio di Bacco, il quale appressandosi colla destra alle labbra la siringa settemplice, si regge in pie sulla groppa del Centauro a destra. Un Fauno che suona un simile istrumento e una Vittoria che solleva un trofeo scorgono tra le are coronate fra le maschere e gli animali bacchici il carro a quattro ruote, su cui sono assisi i due numi. Ercole nudo interamente siede sulla spoglia del leone, e alzando colla destra la clava che appoggia all’ omero, abbraccia colla sinistra Bacco. Questi ha nella destra il suo cantaro, il tirso, o la ferula nella manca. Ercole siede alla destra di Bacco quantunque nume inferiore, perchè lo scultore, seguendo l’esempio dei vetusti Greci reputasse men degna la destra, o perchè Alcide è qui l’ospite cui Bacco ha ricevuto nel suo cocchio. Infatti l’estremità del timone guernita di una testa di pantera, gl’intagli del giogo rappresentanti delfìni, mostrano ad evidenza che il cocchio a Bacco appartiene, quantunque ì Centauri in alcuna immagine vedansi aggiunti ancora al carro d’Alcide.

Di questa alleanza di Bacco e di Ercole è ancora un monumento il famoso bassorilievo di stucco arricchito di greche epigrafi, già Farnesiano, ora Albano, che ha per soggetto l’apoteosi di quest’ultimo. Egli giace sulle spoglie del leone abbracciando una gran tazza da bere in m’ezzo a Satiri e Fauni, che gli recano in grembo, quasi traendola a forza, giusta la pratica dei vetusti riti nuziali, Ebe la dea della giovinezza destinata in cielo sua sposa.

« La bibacità d’Ercole celebrata dai poeti era un altro motivo per unirlo a Bacco, per le cui cerimonie mostrò, mentre visse, non ordinaria venerazione. Quindi è che si adornin sovente della sua effige le pompe dei Baccanali.

Sileno ubriaco sostenuto dai Fauni.

« Il quadretto a bassorilievo, il cui disegno osserviamo, ci mostra un gruppo la cui composizione ò così felice, la cui espressione sì vera, le cui parti sì belle che può estimarsi uno dei più eccellenti ohe sian mai stati eseguiti in tal genere di lavoro. La festività del soggetto e la caricatura di alcune l’orme sono combinate così bene con quella nobiltà d’idee, eh’ è pur l’anima delle antiche arti, che poco ha in ciò di comparabile, forse nulla di superiore.

« Sileno evidentemente contrassegnato dalla sua fìsonomia, dalla sua calvizie, dall’attitudine del suo corpo, dall’abbigliamento rusticano e disordinato, è quello che nel bassorilievo sembra muovere scompostamente, benché sostenuto ubriaco, le membra titubanti.

« Incavalca egli quasi vacillante i pie coturnati,19 e abbandonandosi con tutta la persona piegata al dinanzi fra le braccia di un giovinetto Fauno veduto di schiena, leva la destra in atto di acclamazione e di accompagnare col gesto i clamorosi Evoè. Il tirso che gli dovea servir di sostegno, non è più in suo potere, ma gli ricade sull’omero, ed accresce l’imbarazzo della sua situazione: mentre un altro Faunetto che il segue, veduto di profilo, cerca distrigarlo dall’avvolgimento delle vesti mal indossate, nelle quali è sul punto d’ inciampare. Son queste una tunica manuleata, in cui soltanto ha il destro braccio inserito, ed un palliolo che tien ravvolto al sinistro.

« Il tirso, sfuggito dalla sua destra scorre nei seni della tunica, e la solleva: e così compisce con bella ed artificiosa invenzione la piramidal forma del gruppo intero. L’otre già lento e quasi vuoto che scende colla bocca sossopra dall’omero manco del secondo Faunetto, serve a caratterizzar meglio la rappresentanza, e ad indicar chiaramente la cagione di tanto disordine.

Baccanale.

« I bassirilievi scolpiti attorno a questa grande e nobil vasca di greco marmo dissotterrata nei fondamenti del sontuoso edifizio della Sagrestia Vaticana, come son lieti nell’argomento, cosi felici e vaghi appaiono nell’invenzione, eseguita con diligente e risoluto scalpello. Il soggetto dei Baccanali ripetuto in tante urne o arche marmoree destinate ai sepolcri, vediamo qui più attamente adoperato alla condizione di uno di quei gran tini appellati dai Romani lacus, e anche labra dai Greci, che servivano alla vendemmia. L’ orlo superiore adorno di bellissimi ovoli, che sembrano averlo terminato senza coperchio: le due teste di leone poste ad abbellimento di due fori pei quali potea scorrere il premuto licore dei grappoli: la forma stessa elittica e le misure vaste e capaci sembrano richiamarlo ad uso campestre e Bacchico piuttosto che al sepolcrale, e caratterizzarlo per monumento del lusso dei predii rustici e delle antiche ville, che contrastavano colle fabbriche più grandiose delle città.

« Le dieci figure maggiori rappresentano cinque Fauni con cinque Baccanti, che intrecciano insieme quella danza ebra e scomposta propria dei Satiri e dei Sileni sotto il nome di Cordace conosciuta dai Greci. Sì varie, sì eleganti, sì ben composte sono le figure dei danzatori che possiamo ravvisarvi con sicurezza copie ed imitazioni dei più ammirati un tempo ed or perduti originali. I cinque Fauni hanno chiome irte, corna appena nascenti e brevi code. Due glandule prominenti pendono loro sotto le mascelle, anche queste ideate a seconda della lor natura caprina e non infrequente in immagini di Fauni. La positura dell’ultimo, verso la destra dei riguardanti, è la medesima che di un’elegantissima statuetta in bronzo dell’Ercolano, Gli altri però non gli cedono nè in bellezza de’ movimenti, nè in naturalezza di situazioni. Son tutti e cinque coronati la testa di pino, egualmente dalle sue capillate frondi che dalle piccole pine o coni contrassegnato.

« Era quest’albero diletto a Pan duce dei Satiri e dei Fauni, quindi nelle cerimonie di Pan introdotto, ed usato al par delle viti e dell’edera per le sue corone. Cinquecento fanciulle comparvero nella pompa Bacchica del Filadelfo recinte il crine di corone d’oro imitanti le foglie di pino. Le spoglie di fiere che hanno intorno alle membra non son già nebridi, ma pardalidi o pelli di pantere e di tigri.

« I loro tirsi, come quei delle lor compagne, non sono del tutto coperti d’ edera, ma pelesano dalla sommità il ferro ignudo come nelle guerre Indiche ci vengono descritti, e quali ebbero il nome di aste-tirsi.

« Le duplici tibie, le verghe pastorizie, i prefericoli, cioè vasi di bronzo senza manichi, aperti come catini, sono i restanti attributi noti abbastanza, e comuni delle cinque figure.

« Quattro delle Baccanti sollevansì sulle punte dei piedi in movimento di danza concitata e violenta, che al gettar la testa indietro in alcuna, in tutte all’ondeggiamento delle vesti, si fa più sensibile. La prima i cimbali, la terza i timpani accompagna col rumor del ballo, mentre la seconda in leggiadrissimo atto solleva soltanto le falde di un breve ammanto che le s’inarca dietro le spalle. La tunica spartana della terza senza cintura ai fianchi nella violenza del moto raggruppandosi in un lato, la lascia con bizzarra idea quasi del tutto ignuda nel rimanente; la quarta sembra eseguir quella danza, che diceasi cernophoros sostenendo il vaglio mistico nella sinistra, dentro il quale apparisce il Fallo velato.

« L’ultima fìgura che sembra la corifea del Triaso, è forse Nisa nudrice di Bacco, il cui simulacro colossale e mobile da per se stesso in virtù delle segrete macchine, compariva nella pompa Alessandrina su d’un carro nell’abito medesimo che qui vediamo, e si rizzava in piedi spargendo latte dalla fiala eh’ era nella sua destra e tornava di tempo in tempo a sedersi. Se non che la nostra figura invece del tirso ha una gran face nella manca, arnese ugualmente proprio delle feste di Bacco che di quelle di Cerere.

« I teschi dei capri scolpiti nel terrazzo alludono ai sacrifizi costumati nelle vendemmie: i Genii che cavalcano le pantere son genii Bacchici, e le due gran teste di leone ci ricordano i rapporti Dionisiaci di questa fiera che, sacra alla madre degli Dei, passò nelle solennità di Bacco a quelle di Cibele confuse, e ci danno argomento di quel furore da cui comprese le Menadi rendeansi più forti delle più forti belve, onde sì vantarono in un epigramma greco di ritornar dalla caccia colla testa di uccisi leoni.

Le Baccanti.

« Quantunque Euripide noti nella sua tragedia intitolata Le Baccanti la modestia e la decenza che queste seguaci di Bacco sapevano conservare nel furore stesso dell’ orgie e nel disordine dell’ebrietà, le antiche arti ci ritraggono ben sovente Baccanti seminude e lascive, o perchè gli artefici preferissero, per dare alla loro opera un vezzo maggiore, di rappresentare piuttosto ciò che accadeva talvolta ne’ Baccanali contro l’intenzione degl’istitutori, che il men licenzioso e più ordinario costume: perchè in diversi tempi e in luoghi diversi diversamente solennizzati, prestassero più libero campo alla lor fantasia; o perchè finalmente le figure effigiate nei monumenti non rappresentino le Baccanti ordinarie, ma le ninfe dei monti, dei boschi e delle fontane, come la compagnia di veri Satiri e Fauni lo fa arguire.

« La Baccante di questo bel bassorilievo è quasi del tutto ignuda, se non che ha rigettato con neghgenza un ammanto sull’omero manco: è invasa dall’estro del nume, e sembra accoppiare i clamori, gli ululati Bacchici col batter del timpano inventato dai Corjbanti, ch’ella ha nelle mani, e colla tibia che ispirano i suoi compagni. Un flauto è alla bocca del Fauno abbigliato della spoglia di una pantera, e il Satiretto, che viene appresso, è ancora in atto di dar fiato a un’altra tibia. L’altro Satiro fanciullo, che la precede, sembra intento anch’ esso a trar suono da una specie di piva conosciuta presso gli antichi sotto il nome di tibia otricularia, cioè tibia coll’otre.

« Il suolo sassoso, che serve di terrazzo alla composizione, ci richiama alla mente i Baccanali del Citerone, del Tmolo, deirElicona e del Taigeto, e r epiteto di frequentatore di montagne, dato a Bacco dai Poeti per dimostrare che le solennità delle sue rumorose orgie sui monti per sacro costume si celebravano.

Fauno Bambino.

« Uno dei più bei putti che abbia saputo l’arte ritrarre, è certamente il pargoletto Fauno coronato di edera, che seduto a terra con espressione maravigiiosa di avidità si tracanna il vino da una tazza da lui con ambe le mani sostenuta. Tutte le parti sono segnate con mollezza e con intelligenza; le membra sono rotonde, quanto in soggetto simile debbono esserlo, senza che perciò sien gonfie ed esagerate, le forme tutte sono decise e contornate senza magrezza e senza caricatura. Le scie arti antiche sanno combinare così i pregi opportì, perchè non perdono mai di vista il prototipo della più scelta natura. L’ azione del putto è tutta pròpria del suo carattere, giacché la piccola coda, che se gli attorce sotto le reni, ce lo indica un Fauno fanciullo.

« Sembrerà strano, cred’io, a chi non ha idea della negligenza di molti espositori di cose antiche, essere ancora un Fauno il famoso Giove bambino scolpito a bassorilievo nel Palazzo Giustiniani: eppure non solo il dimostra tale la sua perfetta simiglianza col nostro putto, ma ne toglie ogni dubbio la coda faunina, che appare senza equivoco nell’originale, quantunque omessa nelle stampe che ne sono state pubblicate finora.

Darò fine all’istoria, ai monumenti di Bacco, e nel tempo stesso alla Mitologia Teologica con queste tre ottave del Poliziano, che la dolente Arianna e il corteggio del dio del Vino descrivono:

« Dall’altra parte la bella Arianna
Con le sorde acque di Teseo si dole,
E dell’aura e del sonno che la inganna.
Di paura tremando, come suole
Per piccol ventolin palustre canna.
Par che in atto abbia impresso tai parole:
Ogni fiera di te meno è crudele;
Ognun di te più mi saria fedele.
Vien sopra un carro d’ellera e di pampino
Coperto Bacco, il qual duo tigri guidano,
E con lui par che l’alta rena stampino
Satiri e Bacchi, e con voci alle gridano;
Quel si vede ondeggiar, quei par che inciampino,
Quel con un cembal bee, quei par che ridano,
Qual fa d’un corno e qual della man ciotola,
Qual ha preso una ninfa, e qual si rotola.
Sopra l’asin Silen di ber sempre avido
Con vene grosse, nere, e di mosto umide,
Marcido sembra, sonnacchioso e gravido.
Le luci ha di vin rosse, enfiate e fumide.
L’ardite Ninfe l’asinel suo pavido
Punsron col tirso; ed ei con le man tumide
A’ crin s’appiglia; e mentre sì l’attizzano.
Casca nel collo, e i Satiri lo rizzano.

FINE DEL VOLUME OTTAVO.