Francesco Soave

1836

Mitologia o Esposizione delle favole

2017
Soave, Francesco (1743-1806), Mitologia o Esposizione delle favole e Descrizione dei riti religiosi dei Gentili, delle loro feste, e dei loro giuochi; opera postuma di Francesco Soave, Napoli, Raffaello di Napoli, 1836, 217 p. Source: Internet Archive.
Ont participé à cette édition électronique : Nejla Midassi (OCR, Stylage sémantique) et Diego Pellizzari (Encodage TEI).

Alla gioventù studiosa. §

Moltissimi sono, è vero, i Dizionarii delle favole eruditamente compilati per servire ai giovani, che si applicano alla intelligenza della Mitologia, di cui vanno ripieni i libri classici e massime i poeti, ma oltrechè non ve ne ha quasi alcuno che convenga alla gioventù, un altro inconveniente pure in essi si ritrova, ed è che obbligato lo studente a leggere queste favole per salti, come lo richiede un dizionario alfabetico, egli o per noiosa stanchezza finalmente si distoglie dallo studio incominciato, o non si forma nella mente, che un confuso e mutilato ammasso di mitologiche idee. Pare quindi molto più adattato all’ intendimento, ed al profitto degli scolari, per quanto la Mitologia il comporta, un metodo isterico; siccome quello, che collegando le idee di luogo, di tempo, e di soggetti, oltre che riesce alla mobile fantasia loro più facile a ritenersi, ne eccita e sostiene la curiosità per modo, che vi si applicano più seriamente. Ora questo è quel metodo appunto, che adottò il eh. Professore Francesco Soave, fatto, come ognun sa, della natura per insinuare destramente alla gioventù, gli elementi delle scienze, e dell’ amena letteratura. La sua opera rimasta inedita fu dopo la sua morte pubblicata a Vigevano nell’ anno 1810. Noi crediamo far cosa, gratissima alla nostra studiosa gioventù rendendo qui noto un libro ad essa sì utile, e che riunisce tanti pregi, che invano si cercherebbero negli altri trattati di Mitologia.

Introduzione. §

La Mitologia è l’ esposizione delle favole, che intorno a’ loro Dii ed Eroi hanno gli antichi immaginato.

La cognizione di questo è troppo necessaria per bene intendere gli scrittori, e singolarmente i poeti, che ad esse alludono sì di frequente.

Nè men necessaria è a tutti gli studiosi delle belle arti, giacche le favole tanti soggetti hanno fornito, e forniscono di continuo alla pittura, alla scultura, alla musica, alla danza.

Noi ne daremo un breve compendio, sufficiente però all’ uso cui è diretto, ed il divideremo in due parti, nella prima delle quali parleremo degl’ Iddii, nella seconda degli Eroi, aggiungendo un transunto delle metamorfosi o trasformazioni di Ovidio, in cui quelle favole riporteremo, che nelle dette due parti non avran potuto acconciamente aver luogo.

Parte prima. Degli Dei. §

Molti furono gli Dei presso i Greci, ma assai più presso i Romani, che oltre ad avere adottali tutti gli Dei della Grecia, e molti pur dell’ Egitto, e delle altre nazioni, assai numero ne contavano di loro proprii, e particolari.

Dodici anticamente erano gli Dei maggiori, detti Dii maiorum gentium, e Consentes, espressi ne’ due seguenti versi di Ennio:

Iuno, Vesta, Minerva, Ceres, Diana, Venus, Mars,
Mercurius, Iovis; Neptunus, Vulcanus, Apollo.

Il loro numero fu indi portato a venti, che detti vennero Dii selecti o scelti, ed erano Giano, Saturno, Giove, Nettuno, l’ Orco o Plutone, Vulcano, Marte, Apollo, Mercurio, Libero o Bacco, il Sole, il Dio Genio, la Dea Tellure, Giunone, Cerere, la Luna, Diana, Minerva, Venere e Vesta.

Altri in appresso ne vennero aggiunti che detti furono Dii minorum gentium, e Semones, quasi Semihomines, ed erano gli Dei campestri, e quelli, che presedevano alle varie vicende dell’ umani vita, al nascere, alle nozze, ai parti, ec.

Molti uomini, che per illustri azioni si erano resi celebri, furon anch’ essi annoverati fra gl’ lddii sotto il nome di Indigetes, tra’ quali Enea, Quirino e Romolo, ed altri.

Finalmente divinizzati vennero ancora parecchi esseri puramente intellettuali, e morali, come la Fortuna, la Mente, l’ Onore, la Virtù, la Fede, la Pudicizia, la Pietà, la Concordia, la Salute, e finanche la Febbre, la discordia, l’ invidia, la Frode, il Furore, ed altri siffatti.

La più generale divisione che facevasi degl’ Iddii era in celesti, terrestri, marini, e infernali, secondo il luogo, in cui supponevasi riseder principalmente: e tenendo dietro a questa divisione noi verremo qui accennando le principali particolarità che ad essi riguardano, incominciando dalla loro stessa genealogia.

Capo I. Della Genealogia degli Dei fino a Saturno. §

Secondo Esiodo nella sua Teogonia o Generazione degli Dei, i primi fra tutti furono il Caos, Gea o la Terra, ed Amore.

Dal Caos nacque l’ Erebo o la Notte; da questi l’ Etere, e la Giornata la Dea del giorno.

La Notte partorì poi inoltre il Fato, la Morte, il Sonno e il Sogni, Momo derisore, le Esperidi, di cui era il giardino de’ pomi d’ oro, le tre Parche Cloto, Lachesi ed Atropo, e Nemesi punitrice delle colpe.

Gea o la Terra pria generò da se sola Erano o il Cielo e Ponto o il Mare.

Poi unita ad Urano partorì il fiume Oceano padre di tutti gli altri, indi Ceo, Orco, Iperione, Giapeto, Tea, Rea, Temi, Teti, Febe Crono o Saturno.

In seguito partorì i Ciclopi, Sterope, ed Arge, così detti dal solo occhio circolare, che avevano in mezzo alla fronte, poi Coito, Gige, e Briareo, ciascun de’ quali aveva cinquanta teste, e cento braccia.

Ponto o il mare pria da se solo generò Nereo, poi congiunto alla Terra ebbe Taumante, Forco, Ceto, ed Euribia.

Da Nereo, e Dori, figlia del fiume Oceano, nacquero le Nereidi o Ninfe del mare.

Da Taumante ed Elettra, figlia parimanti dell’ Oceano venne prima e poi le Arpie Aello ed Ocipete.

Da Forco e Ceto nacquer Pefredo, ed Emo, dette Cree, perchè canute a guisa di vecchie fino dal loro nascere; le Gorgoni Steno, Euriale, e Medusa, il Drago custode del giardino delle Esperidi, la mostruosa Echidna mezzo donna e mezzo serpente, che unita al procelloso Tifone partorì Orto cane di Gerione, Cerbero cane di Plutone, l’ Idra di Lerna, la Chimera, la Sfinge, e il Leone Nemeo.

L’ Oceano congiunto a Teti generò il Pilo, l’ Alfeo, l’ Eridano con tutti gli altri’ fiumi, e le Naiadi Ninfe dei fonti e de’ fiumi tra le quali Stige decimo ramo del fiume Oceano, che scorre giù nell’ Inferno, mentre l’ Oceano cogli altri nove scorre sopra la terra.

Iperione con Tea generò il Sole, la Luna e l’ Aurora.

Creo con Euribia fu padre di Pallante di Terse, e di Astreo, che un ito all’ Aurora generò i Venti e le Stelle.

Ceo con Febe produsse Latona ed Asteria, la quale congiunta con Perse fu di madre di Ecate.

Giapeto da Climete, figlia dell’ Oceano, ebbe Atlante, Menezio, Prometeo, ed Epimeteo.

Finalmente Crono o Saturno unito a Rea ebbe per figlia Vesta, Cerere, Giunone, Plutone, Nettuno, e Giove.

Capo II. Saturno, e di Giano. §

Urano o il Cielo, giusta il medesimo Esiodo, nascondeva sotterra tutti i figli, che Gea o la Terra gli partoriva, e loro non permettea di uscire alla luce.

Gea, di ciò sdegnata, poichè ebbe prodotto il ferro, nè formò una falce dentata, ed istigò i figli a vendicarsi del padre.

Crono o Saturno assunse l’ impresa, e posto dalla madre in agguato, allorchè Urano a lei accostossi, gli recise le parti virili, e dietro se le gittò.

Dalle goccie di sangue, che indi caddero sulla terra, nacquero le Erinni o Furie, i Giganti, e le ninfe Melie; dalla spuma che formossi attorno alle parti recise cadute in mare nacque Venere, cui i Greci da afros spuma chiamarono Afrodite.

Urano da titainein affrettarsi appellò Titani i suoi figli, perchè affrettati si erano ad opra iniqua di cui predisse che portata avrebbero la pena.

Nè questa lardò lungamente. Perciocchè avendo Saturno inteso da Urano, e da Gea, che doveva esser soggiogato da uno de’ proprii figli, fatto più crudele di suo padre, prese il partito d’ inghiottire di mano in mano tutti i maschi, che gli nascevan da Rea.

Questa di ciò oltremodo dolente, allorchè ebbe a dar Giove suo ultimo maschio alla luce, ricorse ai genitori suoi Urano e Gea per consiglio ed aiuto, onde occultarlo a Saturno.

Essi la spedirono a Litto in Greta: e poichè quivi ebbe partorito Giove, Gea lo raccolse, e il fece nutrire nascostamente in un profondo antro del monte Argeo: ed a Saturno in vece fu presentato un sasso avvolto in fasce, cui avidamente Saturno si trangugiò senza accorgersi dell’ inganno.

Giove cresciuto in breve tempo vinse coll’ arte e colla forza, giusta le predizioni di Urano e di Gea, suo padre Saturno, e lo costrinse a rivomitare i figli, che aveva inghiottito, e quei sasso medesimo, che si è dello poc’ anzi, cui Giove per eterna memoria infisse a Pilo o Delfo sotto del monte Parnasso. Fin qui Esiodo.

Altri Mitologi han detto in vece, che ì figli di Urano eran Titano e Saturno; che il primo a richiesta della madre cedette il regno del cielo al secondo, colla condizione però, che non allevasse niun figlio maschio; che quindi Saturno li divorava; ma che avendo Bea dato alla luce in un sol parto Giove e Giunone, mostro a Saturno Giunone soltanto, ed occultò Giove; che Titano, ciò risaputo, mosse guerra a Saturno, e avendolo vinto, l’ imprigionò; che questi fu poi liberato, e rimesso nel regno da Giove, il quale vinse Titano coi fi gli; che avendo però Saturno compreso dover un giorno esser da Giove privato nuovamente del regno, armossi contro di lui, ma vinto fu discacciato dai cielo; che allora ei venne a nascondersi in quella parte d’ Italia, che era abitata dagli Aborigeni, e che poscia fu detta Lazio da latere, perch’ ei vi stette nascosto; che cortesemente vi fu accolto da Giano, che ivi regnava, e messo a parte del governo; che Saturno in ricompensa a lui diede il poter vedere il passato e il futuro, onde suole effigiarsi con due facce: finalmente che sotto Saturno fiorì l’ età dell’ oro, nella quale, favoleggiarono i poeti che la terra tutto produsse abbondantemente senza essere coltivatale che i popoli vivessero in una perfetta innocenza, e tranquillità.

A Saturno in Roma sacrificavasi col capo scoperto, laddove agli altri Iddii col capo velato.

I Saturnali ossia le feste in onor di Saturno cominciavano ai 17 dicembre, e duravano tre giorni, in cui i servi erano da’ padroni trattati a lauta mensa, e serviti da loro medesimi.

Essendo nella greca lingua Saturno chiamato Cronos, che significa Tempo era perciò riguardato come il Dio del tempo, e di piugevasi colla falce, e in atto di divorare i figli, tanto per alludere alle anzidette favole, quanto per esprimere come il Tempo miete e divora ogni cosa. A questo aggiungevansi anche le ali, per indicare la celerità con cui vola.

Giano, antichissimo re degli Aborigeni, chiamati poscia Latini perla ragione detta poc’ anzi, fu da essi tenuto sempre in grandissima venerazione.

Rappresentavasi col bastone in mano come preside delle strade, e colle chiavi, perchè n’ era creduto l’ inventore, e perchè egli apriva l’ anno nel mese di Gennaio, che da lui tratto aveva il suo nome.

Gli si ponevano dodici altari secondo il numero de’ mesi dell’ anno; e come quattro sono le stagioni, cosi talor figuravasi con quattro faccie.

Il primo di Gennaio era singolarmente a lui dedicato, e in esso i Cittadini mandavansi scambievolmente dei doni, che erano chiamati strene.

Il tempio di Giano in Roma stava aperto in tempo di guerra, e chiuso in tempo di pace.

Capo III. Di Giove. §

Presso i Greci ed i Romani Giove riguardavasi come la principale Divinità, ed era caratterizzato col titolo dì Padre degli Dei, e Re degli uomini.

Tre Giovi però secondo Cicerone si distinguevano: il primo e il secondo nati in Arcadia, l’ uno figlio dell’ Etere, e padre di Proserpina e di Libero o Bacco, l’ altro figlio del Cielo, e padre di Minerva, il terzo nato in Creta, e figlio di Saturno. Ma come quest’ ultimo fu il più rinomato, così a lui solo venne attribuito anche quello, che non gli apparteneva.

Nato egli dunque in Creta da Rea, che altri hanno chiamato Opi o Cibele, fu ivi nascosto in un antro del monte Argeo o Ditte dalle Ninfe, e dai Cureti sacerdoti di Cibele, che collo strepito de’ loro cembali ne occultavano a Saturno i Vagiti; e vi fu nutrito col mele, che le api corsero a formarvi, e col latte della capra Amaltea, cui dopo morto Giove trasportò in cielo nella costellazione della Capra, ed egli della pelle di lei si valse per coprirsene il petto, e lo scudo, che quindi da aix aigos (capra) fu detto egida, e stabili che di tutto abbondasse chi di lei avesse le corna, dette perciò le corna dell’ abbondanza.

Caccialo dal regno Saturno suo padre, ci diviselo co’ fratelli, ritenendo per se il regno del cielo e dell’ aria, e lasciando a Nettuno il Regno del mare, ed a Plutone quello dell’ inferno.

Ma fierissime guerre per conservare il regno del cielo ebbe egli a sostenere.

La prima, secondo Esiodo, fu contro i Titani, nella quale ci venne soccorso da Collo, Gige, e Briareo; cui per consiglio di Gea sciolse da’ lacci, in cui tirano gli aveva avvolti. I Titani vennero soggiogati e profondati nel Tartaro, che tanto, dic’ egli, s’ innabissa di sotto alla terra, quanto sopra di quella s’ innalza il cielo.

La seconda, giusta il medesimo Esiodo, fu contro Tifeo ultimo figlio della Terra congiunta col Tartaro. Costui era un mostro con cento teste di dragò; dalle quali tulle vomitava fuoco. Ei mosse guerra a Giove; ma’ percosso dal fulmine fu anch’ egli, secondo Esiodo, profondalo nel Tartaro; secondo Virgilio, sepolto sotto all’ isola d’ Ischia, e secondo Ovidio sepolto in Sicilia colla destra mano sotto a Peloro, la sinistra sotto a Bachino, le gambe sotto a Lilibeo, e le teste sotto dell’ Etna, da cui tuttavia vomita il fuoco.

La terza fu contro i Giganti, che comunemente confondonsi co’ Titani, ma che Esiodo da essi distingue, dichiarandoli prodotti dalle gocce di sangue cadute sopra la terra dalle recise membra di Urano. Questi pur tentarono di cacciar Giove dal cielo, e per salirvi Sovrapposero ne’ campi di Flegra l’ un al l’ altro i monti Olimpo, Pelio, ed Ossa (il che però dice Omero essersi fallo invece da Oto ed Efialte, figli di Nettuno e d’ Ifimedia moglie di Aloco, che anch’ essi vollero far guerra a Giove). A tal vista, per quel che accennano alcuni Mitologi, armaronsi non solamente gli Dei, ma ancora le Dee, e per quello che dicono altri, tutti gl’ Iddii fuggirono spaventati in Egitto, e si nascosero sotto le forme di varii animali, onde poi sotto queste adorati furono dagli Egizii. Bacco soltanto in sembianza di Itone si oppose coraggiosamente a Reto uno de’ giganti più forni debili, e come Giove animavaio gridando ev yie (coraggio o figlio), da ciò ebbe il nome di Evio.

Una tal fuga però è metamorfosi, e da Ovidio si dice in cambio avvenuta nella guerra contro Tifeo, e che Giove siasi allora cangiato in ariete, onde vengon le corna di Giove Ammone, Apollo in corvo, Bacco in capro, Diana in gatta, Giunone in vacca, Tenere in pesce, Mercurio in ibi). Alla fine avendo Vulcano a Giove forniti i fulmini, con questi rovesciò egli i giganti, e sotto de’ loro monti li seppellì.

Assicurato il regno del Cielo, Giove secondo Esiodo menò per prima moglie Meli Dea del Consiglio, ma allorchè que sta ebbe conceputa Minerva, Giove avendo inteso da Urano, e da Gea, che nascere da lei doveva un figlio, il quale sarebbe stato re degli uomini, e degli Dei, tolse con inganno la prole al ventre di Meti, e nel suo l’ ascose, ed egli stesso la diede poscia alla luce. Altri dissero, che Giove concepì da se stesso Minerva nel proprio capo, e per metterla fuori fecesi spaccare il cranio da Vulcano.

La seconda moglie di Giove fu Temi Dea della giustizia, da cui ebbe le Ore Eunomia, Dice, ed Irene, e le Parche Cloto, Lachesi ed Atropo; sebben queste dal medesimo Esiodo sieno state prima dichiarate figlie della Notte.

La terza moglie fu Eurinome figlia dell’ Oceano, che partorì le tre Grazie Aglaia, Eufrosine, e Talia.

La quarta fu Cerere, che divenne madre di Proserpina.

La quinta Mnernosine o la Dea della memoria, da cui nacquero le nove Muse.

La sesta Latona, che partorì Apollo e Diana.

L’ ultima moglie di Giove, secondo Esiodo, fu Giunone di lui sorella; da cui nacque Ebe, Marte, Ilitia e Vulcano.

Da molte altre e donne e ninfe, secondo gli altri Mitologi, ebbe egli poscia altri figli.

Da Maio figlia di Atlante ebbe curio; da Dione figlia dell’ Oceano ebbe Venere; da Semole figlia di Cadmo ebbe Bacco; da Alcmena moglie d’ Anfitrione, la quale egli ingannò assumendo la sembianza dello stesso Anfitrione, ebbe Ercole.

Oltracciò s’ unì egli sotto alla forma di Satiro ad Antiopa moglie di Lieo, e ne vennero Anfione e Zeto; penetrò convertito in pioggia d’ oro la torre, ov’ era chiusa Danae figlia di Acrisio, e ne ebbe Perseo; cangiato in cigno sedusse Leda moglie di Tindaro, che partorì due uova, dall’ uno de’ quali nacque Polluce ed Elena, dall’ altro Castore e Cliemnestra.

Rapì Europa figlia di Agenore sotto la sembianza di toro, e portolla in Creta, ove da essa nacquero Minosse e Radamanto; si accostò ad Egina figlia di Asopo in forma di fuoco, e n’ ebbe Eaco; ingannò Calisto figlia di Licaone e seguace di Diana assumendo l’ aspetto di Diana medesima, e n’ ebbe Arcadi.

Tramutossi ancora in formica per Clitoride figlia di Mirmidone ch’ era di estrema piccolezza; in serpente per Doreida, in aquila per Asteria sorella di Latona, la quale però da esso fuggì trasformata in quaglia.

Finalmente in aquila pur cangiossi per rapir Ganimede figlio di Troe re di Troia, e portatolo in cielo il fè suo coppiere in luogo di Ebe.

Quelli che sotto il velo delle favole cercano i nascosti semi delle antiche storie, dicono che Saturno fu re di Creta, che come egli spogliato aveva del regno suo padre, cosi ne fu privato da’ propini figli; che nella divisione essendo toccata a Giove la parte orientale, a Plutone l’ occidentale, a Nettuno le coste marittime, perciò il primo fu detto re del cielo, il secondo dell’ inferno, il terzo del mare; che avendo molti avuto il nome di Giove, e avendo essi abusato di molte donne con varii stratagemmi, e ornati colie favole delle trasformazioni, ma che realmente per la pioggia d’ oro intendersi deve l’ oro quale Giove corruppe i custodi di Danae, pel toro la nave avente l’ insegna del toro, colla quale rapì Europa, per l’ aquila un’ egual nave portante l’ aquila con cui rapì Ganimede ec.

Rappresentavasi Giove in aspetto maestoso, con folta chioma (la quale agitando facea, secondo Omero, tremar l’ Olimpo), coi fulmini in mano, e coll’ aquila a’ piedi, che i fulmini gli ministrava, è che quindi chiamavasi l’ augel ministro del fulmine, o l’ augel ministro di Giove.

Fra le piante a lui dedicate era il faggio e la quercia, e dicevasi che in Epiro nel bosco di Dodona a lui sacro, le querce stesse rendesser gli oracoli.

La vittima, che a Giove offerivasi nei sacrificii, era un bianco bue.

Molti tempii aveva egli in Roma, e con varii nomi. Il più sontuoso era quello di Giove Capitolino fondato nel Campidoglio dal re Tarquinio Prisco, e più volte in seguito riedificato. Un altro nel Campidoglio medesimo ne aveva posto Romolo da principio a Giove Feretrio cosi detto da ferre, perchè ivi portate aveva e a lui consacratele prime spoglie tolte a’ nemici. Lo stesso Romolo un altro ne aveva già eretto sul Palatino a Giove Statore per aver da esso ottenuto che arrestasse la fuga, in cui i Romani posti erano da’ Sabini, venuti a vendicare il rapimento da essi fatto delle loro donne. Altri templi innalzaronsi poscia a Giove Vincitore, a Giove Tonante, a Giove Conservatore ec.

Capo IV. Di Giunone. §

Sorella e principal moglie di Giove, e perciò regina degli Dei, era tenuta Giunone. Fu ella però da principio a queste nozze ritrosa, e per vincerla dovette Giove ricorrere all’ inganno. Cangiossi, dicon le favole, in corvo, e fatta sorgere una tempesta, quasi da essa fuggendo, ricoverossi in grembo a Giunone, da cui accolto, e manifestatosi, a lei marito divenne.

Ma gelosissima fu ella poscia di lui, ne certamente senza ragione; e la sua gelosia principalmente esercitò contro di Io figliuola d’ Inaco re di Argo. Standosi Giove con questa si accorse dell’ appressar di Giunone, e per nasconderla la cangiò in vacca. Sospettando Giunone di quel che era, la chiese in dono, e la mise sotto alla guardia del pastore Argo che aveva cento occhi. Questi per ordine di Giove fu da Mercurio addormentato col suono della zampogna e col tocco del caduceo, e poscia ucciso. Giunone allora pose gli occhi di Argo nella coda del pavone uccello a lei sacro, e tormentò lo, secondo Virgilio, coll’ estro o assillo insetto alle vacche infestissimo, e secondo altri per mezzo delle Furie, fintantochè ella fuggi disperata in Egitto, dove poi ottenuta da Giove l’ antica forma, fu dagli Egizi adorata sotto il nome di Iside, e partorì Epafo od Api, che da’ medesimi veneravasi sotto la forma di bue. Inaco, di lei padre la perdita deplorandone, fu secondo le favole cangiato in fiume.

In una congiura degli Dei contro di Giove, avendo Giunone ancora pigliata parte, Giove la fè dà Vulcano legar con una catena d’ oro le mani dietro le spalle, ed attaccare un’ incudine d’ oro a’ piedi, e per tal modo in aria la sospese. Ella ne fu poi disciolta dallo stesso Vulcano.

A Giunone insieme con Giove altribuivasi il regno dell’ aria.

Sotto il nome di Lucina ella era in vocata dalle partorienti, sebbene alcuni per essa intendan Diana, altri Ilitia figlia di Giunone.

Sua messaggiera e ministra era Iride figlia di Taumante.

Giunone rappresentavasi in abito di regina sopra di un trono col pavone ai piedi, o sopra di un cocchio tirato dai pavoni. Il principale suo culto era in Samo, e Cartagine.

Sacre a lei erano in Roma le calende di ogni mese, e sacro particolarmente il mese di Giugno, che preso ne aveva il nome, sebbene opinino alcuni che Romolo questo nome traesse da giuniori, come quello di maggio da’ maggiori con cui intitolar volle que’ due mesi.

A Giunone Februale o purgatrice era pur consacrato spezialmente il mese di Febbrajo, e a’ 15 di esso celebravansi i Lupercali, in cui de’ giovani detti Luperci, coperti soltanto alle parti, che il pudore nasconde, e nudi nel resto, correvano la città percotendo con flagelli di pelle di capra tutti quelli, che incontravano, a titolo di purgarli o espiarli, nè le giovini donne queste percosse fuggivano, persuase che utili fossero al concepimento, ed al parto.

In tal occasione a Giunone Februale immolavasi un cane; negli altri sacrificii l’ ordinaria vittima, che a Giunone offerivasi, era un’ agnella,

Capo V. Di Pallade o Minerva. §

Cinque Minerve da Cicerone si accennano: la prima che fu detta moglie di vulcano; e madre del più antico Apollo; la seconda figlia del Nilo, ed adorata in Egitto particolarmente da’ Saiti; la terza nata dal cervello di Giove di Corise, figlia dell’ Oceano, venerata dagli Arcadi sotto il nome di Corifasia; e detta inventrice delle quadrighe; la quinta figlia di Pallante, che dicesi aver ucciso il padre, perchè tentato avea di violarla. Ma la terza soltanto fu in onore presso de’ Greci e de’ Romani.

Nata dal capo di Giove, e tutta armata, fu essa adorata come’ Dea della guerra sotto il nome di Pallade, e come Dea delle arti e delle scienze sotto quello di Minerva; benchè l’ un nome si cambii frequentemente coll’ altro, ed Omero soglia assai spesso chiamarla con tutti e due Palla Minerva.

Fabbricando Cecrope la citta di Atene, Minerva e Nettuno contesero chi avesse a darle il nome. Fu deciso che dato l’ avrebbe chi avesse fatto uscir di terra la cosa più utile alla città; Nettuno percossoli terreno col tridente, ne fece sorgere un cavallo; Minerva percolandola coll’ asta ne fè spuntare un ulivo; ed essendosi questo giudicato più utile, Minerva diede alla città il proprio nome, che in greco appunto Atene.

Aracne figlia d’ Idmone Colofonio osò sfidare Minerva nell’ arte del tessere.

Minerva, secondo Ovidio, in mezzo alla sua tela rappresentò l’ anzidetta gara avuta da lei con Nettuno; in uno de’ quattro canti effigiò Emo re di Tracia e Rodope sua moglie cangiati in monti, perchè scambievolmente s’ intitolavano Giove e Giunone; nell’ altro Pigmea cangiata in grue per essersi a Giunone anteposta in bellezza, nel terzo Antigone figlia di Laomedonte mutata in cicogna per avere essa pure arditamente sprezzata la beltà di Giunone; nel quarto le figlie di Cinira per lo stesso motivo trasformale da Giunone de gradi del suo tempio.

Aracne rappresentò Giove per Europa cangiato in toro, per Asteria in Aquila, per Leda in cigno, per Antiopia in Satira, per Alcmena in Anfitrione, per Danae in pioggia d’ oro, per Egina in fuoco, per Mnemosine in pastore, per Deoida in serpente: indi Nettuno per Canace figlia di Eolo trasformato in giovenco, per Ifimedia nel fiume, Enipeo, per Bisaltide in ariete, per Cerere e Medusa, in cavalla, per Melanto in delfino; poscia Apolline mutato in pastore, per Issa figlia di Macareo, Bacco in uva per Erigane, Saturno in cavallo per Fillira: e il tutto con tal maestria, che Minerva rimase vinta.

Indispettita però di questo e della superba iattanza di Aracne le ferì essa colla spola replicatamente la fronde, sicchè Aracne per dolore e per ira di non poter farne vendetta andò ad appiccarsi, e fu poi da Minerva cangiata in ragno.

Avendo Vulcano chiesta Minerva in isposa, venne da lei rifiutato. Ma nell’ atto che pur tentò, sebbene inutilmente, di fare a lei violenza, nacque Erittonio mezz’ uomo, e mezzo serpente. Minerva per occultar questo mostro il consegnò chiuso in una cesta alle tre figlie di Cecrope, Pandroso., Erse ed Aglauro tratta dalla curiosità volle vedere ciò che conteneva, e Minerva avvisatane dalla cornacchia in cui era stata prima da essa cangiata Coronide figlia di Coroneo per sottrarla alla violenza di Nettuno, vendicossi di Aglauro col farla rivale della sorella Erse, come vedrassi nel Capo XII. parlando di Mercurici. Erittonio frattanto malgrado la sua deformità crebbe a segno, che diventò Re di Atene, e non potento caminar colle gambe, che non aveva, perchè dal mezio giù era serpente, inventò l’ uso de’ cocchi, e dopo morto fu trasportato in cielo nella costellazione di Boote.

Figuravasi Minerva ossia Pallade armata da capo a piedi coli’ asta, e coll’ egida, per a cui intendesi egualmente e l’ usbergo di pelle, di capra e lo scudo coperto di simil pelle, che prima era proprio di Giove solo, ond’ egli da Greci ebbe il titolo di egioce, e di cui sola Pallade fu indi aggiunto il teschio di Medusa, dappoichè Perseo col mezzo di quello riuscì ad ucciderla, come appresso vedremo.

A Pallade o Minerva tra le piante era dedicato l’ ulivo, tra gli animali la civetta; a proposito di che narra Ovidio nelle Metamorfosi, che in tutela di Minerva era pria la cornacchia, in cui da essa era stata cangiata Coronide figlia di Coroneo per sottrarla alla violenza di Nettuno; ma che avendo Minerva congegnata a Pandroso, Erse, ed Aglauro figlie di Gecrope, chiuso, in una cesta il bambino Erittonio mezz’ uomo e mezzo serpente, nato da Vulcano nell’ atto che a lei tentando far forza ne venne respinto, e avendo loro ordinato severamente di non aprirla, la cornacchia le riportò, che Aglauro l’ aveva aperta e temendo Minerva da quest’ esempio il pericolo della troppa loquacità della cornacchia, la discacciò, e si prese in vece di lei la civetta, di cui era stata trasformata Nittimene sorpresa in incesto col padre Pitteo.

Sacre a Minerva in Roma eran le feste Quinquatrie, in cui vacavan le scuole, e che vennero così dette, perchè duravano cinque giorni cominciando dai 19 di Marzo. Sua vittima ne’ sacrificii era una capra.

Capo VI. Di Marte, di Bellona, e della Vittoria. §

Figlio di Giove e di Giunone era Marte, secondo Esiodo ed Omero. Altri il dissero figlio di Giove e di Enio o Bellona, onde fu pur da’ Greci chiamato talio. Finalmente altri pretesero che fosse Figlio sol di Giunone, dicendo che questa indispettita perchè Giove da se solo prodotto avesse Minerva, cercò di fare altrettanto, e che mentre andava per consultarne l’ Oceano, fermatasi nel giardino di Flora, questa le mostrò un fiore, al tocco e all’ odore di cui da se sola concepì Marte.

Sposò egli Nerio o Nerione, che nel sabino linguaggio significa forza; e da questa pretendevano i Neroni di trarre la loro origine.

Oltrecciò egli ebbe da Venere Antero ed Ermione, o Armonia; dalla ninfa stonide ebbe Tereo; da Ilia, o Rea Silvia ebbe Romolo e Remo.

Per nascondere i suoi amori con Venere tenea di guardia Alettrione, ma essendosi questi addormentato sul mattino, il Sole penetrò nella camera e li scoperse; ed avendone dato avviso a Vulcano marito di Venere, questi formò di fili sottilissimi di metallo una rete invisibile, nella quale colse i due amanti, e gli espose alla derisione di tutti i Dei: di che Marte adirato cangiò Alettrione in gallo, che or sempre col canto previene il nascer del Sole.

Tereo fu re di Tracia, e marito di Progne figlia di Pandione re di Atene. Desiderando essa di rivedere Filomela sua sorella, Tereo s’ incaricò di condorgliela, ma per viaggio la violò, ed acciocchè il fatto restasse occulto, le recise la lingua, e la chiuse in una prigione, dicendo a Progne ch’ ella era morta per via. Filomela in un candido velo con fili purpurei descrisse la sua sciagura, e spedì il velo a Progne per uno de’ custodi. Questa, colta l’ occasione delle orgie di Bacco, vestitasi da Baccante, andò colle compagne a liberar Filomela, e nella reggia l’ ascose. Uccise poi il figlio Iti, e ne diede a Tereo a mangiare le carni. Sulla fine del convito chiedendo Tereo che il figlio Iti gli fosse condotto, uscì Filomela improvvisa dalle vicine stanze, e presentò ad esso la testai Allora Tereo infuriato prese la spada per uccidere le due sorelle; ma egli fu tramutalo in upapa, Filomela in rossignolo, Progne in rondine, ed Ili secondo alcuni in faggiano, e secondo altri in cardellino.

Ilia o Rea Silvia madre di Romolo e Remo era figlia di Numitore già re di Alba. Amulio, che privato l’ avea del Regno, fè esporre appena nati i due gemelli in un bosco, ove furono allattati da una lupa. Raccolti dal pastore Faustolo furon poi essi nutriti da Acca Laurenzia, e cresciuti rimisero l’ avo lor Numitore nel regno scacciandone Amulio. Fondarono quindi la città di Roma, di cui fu Romolo il primo re, e dopo avervi regnato molti anni, fu egli secondo la favole portato in cielo, e annoverato fra gli Dei Indigeti sotto al nome di Quirino.

Figlio di Marte, secondo Esiodo, fu anche Cigno, il quale fu poi ucciso da Ercole nella Focide in occasione che nel bosco Pagaseo volle insolentemente attraversargli la strada.

Avendo Allirozio figlio di Nettuno violata Alcippe figlia di Marte, questi in vendetta l’ uccise. Sdegnato di ciò Nettuno lo citò innanzi all’ Areopago di Atene ove giudici furono dodici Iddii, ma dai loro suffragii Marte venne assoluto.

Marte riguardavasi come Dio principale della guerra, e suoi ministri, secondo Esiodo, erano il Terrore e il Timore.

Il suo principal culto era nella Tracia ed anche in Roma, ove in somma venerazione tenevasi, come padre di Romolo.

Sacre a Marte erano in Roma le feste Equirie istituite da Romolo, che celebravansi a’ 27 di Febbraio colle corse de’ Cavalli nel campo Marzio.

A lui dedicati eran pure le feste Scaliari istituite da Numa Pompilio successore di Romolo, e che celebravansi alle calende di Marzo. L’ occasione di questa istituzione si fu, che avendo Numa per consiglio della ninfa Egeria chiesto a Giove un pegno della perpetuità dell’ impero romano, egli mandò dal cielo uno scudo rotondo, che fu detto ancile. Numa il diede in custodia a’ sacerdoti di Marte; e perchè non potesse agevolmente involarsi, ne fece da Mamurio costruire altri simili, da cui restasse confuso. Or questi ancili dai Sacerdoti predetti venivano nelle calende di Marzo (mese a lui consecrato da Romolo) recati per la città con canti in lode di Marte (sul fine de’ quali pur nominavasi Mamurio, com’ egli a Numa aveva chiesto in compenso dell’ opera sua) e con salti, per cui a’ medesimi sacerdoti fu dato il nome di Salii.

In onor di Marte altresì celebri eran nel circo i giuochi Marziali ai 12 di Maggio, ed al primo di Agosto.

Come Dio della guerra ci dipingevasi tutto armato; e ne’ sacrificii a lui offerivasi il toro, il verre e l’ ariete, e qualche volta il cavallo.

Dea della guerra teneasi pur Bellona chiamata Enio da’ Greci, e supposta da chi madre, da chi sorella, e da chi moglie di Marte.

E tra le divinità riponevasi ancor la Vittoria, cui Ercole disse figlia di Pallante e di Stige, e che rappresentavasi alata, e con una corona di alloro o una palma nelle mani.

Capo VII. Di Vulcano. §

Quattro Vulcani sì annoverano da Cicerone; il primo figlio del Cielo e sposo di Minerva; il secondo figlio del Nilo, e dagli Egizi chiamato Opa; il terzo figlio di Giove e di Giunone, il quarto figlio di Menalio, che tenne le Isole dette Vulcanie, ora di Lipari. Al terzo però soltanto, cioè al figlio di Giove e di Giunone, alluder sogliono i poeti, e vi ebbe pure chi della sola Giunone lo volle figlio, come altri dissero di Marte.

Nasque egli così deforme, che da’ medesimi genitori venne precipitato dal cielo: e cadendo nell’ isola di Lenno si ruppe la coscia, onde zoppo da ambi i lati rimase perpetuamente.

Fu ivi nutrito da Eurinome figlia dell’ Oceano, che ne prese compassione, e cresciuto si diede unitamente ai Cicopli Sterope, Brente, ed Arge, secondo Esiodo, o Piracmone secondo gli altri, a fabbricare nelle fornaci di Lenno, nell’ Etna, e nelle isole Vulcanie opere maravigliose; per cui venne chiamato Dio del fuoco, e dei fabbri.

Celebri presso Omero sono i tripodi; che camminavano per se stessi, le donne d’ oro che aiutavanlo ne’ suoi lavori, i cani d’ argento e d’ oro, che stavan a guardia della reggia d’ Alcinoo, le arme impenetrabili fatte per Achille a richiesta di Tetide, tra le quali spezialmente distinguevasi lo storiato scudo, su cui mille cose erano maestrevolmente effigiate.

Eguali armi, e scudi egualmente maravigliosi fece egli, secondo Esiodo, per Ercole ad istanza di Giove, e secondo Virgilio, per Enea alle preghiere di Venere.

Oltrecciò opera di Vulcano erano il palazzo del Sole, la corona di Arianna, il monile di Erminione, ec.

Ma sua primaria occupazione era quello di fabbricare i fulmini a Giove: e tanta grazia si acquistò egli con ciò presso il padre, singolarmente allor quando fornigli i fulmini contro i Giganti, che osò domandargli Minerva in isposa, e da lei rifiutato ottenne Venere.

Ebbe però sovente a pentirsi di queste nozze, tormentato da perpetue gelosie, spezialmente contro di Marte. Nondimeno ebbe da lei Cupidine, sebbene altri dieno a questo diversa origine.

Effigiavasi Vulcano, in sembianza di fabbro col martello in mano, e zoppo da ambi i piedi. Aveva egli in Lenno il principal culto.

Le feste Vulcanali ad onor di lui celebravansi in Roma il dì 23 di Agosto.

Capo VIII. Di Venere, Cupidine, ed Imene. §

Quattro Venere pur si trovono nominate da Cicerone: la prima figlia del Cielo, e della Giornata o Dea del giorno, che ebbe un tempio in Elide; la seconda nata dalla spuma del mare, che unita a Mercurio partorì Cupidine, la terza figlia di Giove e di Dione, che fu moglie di Vulcano, e da Marte ebbe Antero; la quarta figlia di Siro e di Siria, che fu venerata da’ Fenici sotto il nome di Astarte. Tutte però comunemente confondonsi in una, vale a dire nella seconda.

Nelle nozze di Peleo, e di Tetide figlia dell’ Oceano alle quali furono invitati tutti gli Dei, eccetto la Discordia, avendo questa gettato sulla mensa un pomo di oro colla iscrizione: Diasi alla più bella, nacque contesa fra Giunone, Pallade, e Venere chi averlo dovesse. Ma essendosi tutte e tre riportate al giudizio di Paride figlio di Priamo re di Troia, che era allora pastore sul monte Ida, questi diè il pomo a Venere, che fu quindi tenuta come Dea della bellezza.

Ma come tale, e neppur come Dea vollero riconoscerla la Propetidi native di Amatunta città di Cipro, e furori quindi da Venere pria condannate a mostrarsi ignude, e poscia cangiate in pietra.

De’ suoi amori con Marte già si è detto Ma oltre a questo amò ella Anchise Troiano: del quale concepì Enea, e soprattutto amò perdutamente il giovane Adone figlio di Mirra e di Cinira re di Cipro.

Intorno all’ origine di Adone racconta Ovidio, che Mirra figlia di Cinira e di Cencreide innamoratasi furiosamente del padre, e disperata di poter soddisfare a questo amore incestuoso, erasi determinata ad appiccarsi; ma che la nutrice nè la distolse, e scelleratamente le brame di lei secondando fra le tenebre della notte la guidò al letto del padre come un’ ignota amante. Stato con lei più notti, mentre Cencreide occupata nelle feste di Cerere vivea secondo il rito da lui divisa, alla fine desideroso di vedere chi fosse, Cinira fè recarsi un lume, e riconosciuta la figlia * presel inorridito la spada per trucidarla. Riuscì ella a sottrarsi; ma errando miseramente per nove mesi di terra in terra alla fine giunse nella Sabea, ove fu trasformata nell’ albero della mirra, e dal tronco, di questo per se apertosi uscì Adone.

Crebbe egli leggiadrissimo giovane, e Venere al primo incontro tosto di lui ardentemente si accese. Ma poco tempo potè godere dell’ amor suo; perciocchè egli appassionatissimo della caccia, un giorno che malgrado le contrarie preghiere di lei volle andarvi ad ogni patto, vi fu ucciso da un cignale, sotto alle sembianze di cui dissero alcuni che fosse ascoso lo stesso Marte; e Venere dopo averlo cangiato in anemone, per lunga pezza amaramente lo pianse.

Andava ella frequentemente accompagnata dalle tre grazie Aglaia, Eufrosine, e Talia, che Esiodo disse figlie di Giove, e di Eurinome e che alcuni vollero figlie di Bacco e di Venere stessa, altri di Giunone.

Fra le piante a lei dedicato era il mirto, tra i fiori la rosa, che di bianca, qual era prima, si disse cangiata in rossa, allor quando fu bagnata dal sangue di Adone puntosi con una spina, e tra gli uccelli il cigno; il passero, e specialmente la colomba, in cui si disse cangiata da Cupido la ninfa Peristera, perchè in una sfida ch’ egli ebbe con Venere a chi sapesse coglier più fiori, Peristera aiutando Venere la rese vittoriosa.

Rappresentavasi or sopra una conchiglia tirata da due Tritoni, o da due Cavalli marini, or sopra un cocchio tirato da due cigni, o da due colombe.

Adorata era Venere principalmente nell’ isola di Citerà, ed in Gnido, Pafo, Amatunta città dell’ isola di Cipro, Ebbe quindi i nomi di Citerà, e di Cipri o Ciprigna, come pur quelli d’ Idalia dal monte Ida in Cipro, e di Alcidalia dal fonte Alcidalio in Beozia, ove dicevasi che colle grazie ella usasse frequentemente lavarsi.

Una colomba a lei offrivasi ne’ sacrificii; e avendo in Cipro i Cerasti osato sacrificarle umane vittime, furon da essa cangiati in lori.

In Roma alle calende di aprile sacrificavansi a Venere Verticordia, perchè i cuori allontanasse dagl’ illeciti amori: e a lei spezialmente dedicato era il mese di aprile, così detto secondo alcuni aphros spuma, alludendo alla spuma da cui nacque Venere, secondo altri da perire, perchè allora la terra apre il seno alla produzione de’ vegetabili.

Amore da Esiodo è posto fra i primi Iddìi, contemporaneo al Caos, e alla terra, e distinto da Cupidine. Gli altri poeti comunemente contondono Cupidine con Amore, e gli danno per madre Venere, e per padre chi il Cielo, chi Giove, chi Vulcano, chi Marte e chi Mercurio, nè manca pure chi il dice figliodi Venere solamente. Dipingesi nudo, e alato, cogli occhi bendali, e coll’ arco e la faretra; e grandissima si suppone la sua possanza su gl’ immortali egualmente che sopra i mortali.

Apuleio descrive a lungo la favola di Amore e Psiche, il cui ristretto si è che essendo Psiche bellissima, Venere di lei gelosa spedì Amore, perchè le spirasse passione per qualche oggetto di lei indegno. Amore in cambio di lei si accese, e la fece trasportare da Zefiro in un palagio rimoto, ov’ ella era di tutto lautamente fornita da ninfe invisibili, ed ei medesimo veniva da lei la notte senza lasciarsi veder giammai.

Bramando Psiche di rivedere due sorelle che avea Amore permise che fosser anch’ esse da Zefiro colà portate, e queste udendo la felicità ch’ ella godeva, ma che non vedea giammai lo sposo, punte da invidia le fecer credere eh’ ei fosse un mostro, il quale alla fine avrebbela divorata. Psiche per accertarsene, alla notte, mentr’ era addormentato, accese una lucerna, e prese un coltello con animo di ammazzarlo, se fosse un mostro. Al vedere ch’ egli era tutt’ altro, rimase attonita, il coltello le cadde a terra, e una scintilla del fuoco della lucerna caduta sopra una spalla’ di Amore il ferì. Egli destatosi al dolore fuggi sdegnato, seco a volo traendo Psiche, la quale presolo per un piede cercava in vano di trattenerlo. Caduta al fine, e rimasta sola per disperazione gettossi in un fiume, che però salva la portò in riva. Pane l’ esortò a gire in traccia di Amore, promettendole che lo avrebbe placato; e nei lunghi viaggi che a tal fine intraprese, avvenutasi nelle sorelle raccontò loro la sua sciagura, ed aggiunse che per maggiore vendetta Amore le avea dichiarato che una di loro volea prendersi in isposa. Avide di questo le sorelle una dopo l’ altra salirono lo scoglio, da cui Zefiro le avea portate al palagio di Amore, ed una dopo l’ altra da esso precipitarono. Intanto Venere informata di quanto era avvenuto, si fece condurre Psiche davanti e fieramente la maltrattò. Le impose quindi di separare da un grosso mucchio di frumento, di orzo di miglio, di semi di papavero, di ceci, e di lenti tutti questi grani, nel che fu aiutata dalle formiche; poi di recarle un fiocco di lana d’ oro di certi montoni, che pasceano di là di un fiume in luoghi inaccessibili, e una canna del fiume le insegnò la maniera di averlo; in seguito di portarle una brocca piena di un acqua nera custodita da due dragoni e un’ aquila, presa la brocca, andò a riempirla; finalmente di scendere all’ Inferno, e recarle un vasetto pieno di grazie e di vezzi, che dato sarebbele da Proserpina; e scesa per la via del Tenaro ottenne da Proserpina il vaso, ma al ritorno ebbe curiosità d’ aprirlo, e ne uscì un vapor soporifico, per cui ella cadde in letargo. Da questo però Amore la risvegliò, e salilo al cielo ottenne da Giove di averla in isposa, e placata Venere in cielo si fecero con lieta pompa le nozze, dalle quali nacque la Voluttà. Psiche suol essere effigiata qual leggiadrissima giovane colle ali di farfalla.

Imene Dio delle nozze da alcuni vien detto figlio di Bacco e di Venere, da altri figlio di Apolline, e di una delle muse, che alcuni vogliono esser Urania, altri Calliope, ed altri Clio. Ei presedeva alle nozze, rappresentavasi avente in mano una fiaccola accesa.

Capo IX. Dell’ Aurora, del Sole, e della Luna. §

Figli d’ Iperione e di Tea son detti da Esiodo l’ Aurora, il Sole, e la Luna.

L’ Aurora, rapito avendo Tifone figlio di Laomedonte re di Troia, in matrimonio a lui si strinse, e n’ ebbe Mennone, che poi venuto in soccorso di Troia, fu ucciso da Achille.

Ottenne essa a Titone l’ immortalità, ma non la perpetua giovinezza sicchè fatto decrepito, e de’ mali della vecchiezza continuamente lagnandosi, fu convertito in cicala.

Rapì anche Cefalo figlio di Eolo, e marito di Procri; ma ritroso veggendolo all’ amor suo, perchè costante verso di Procri, ad essa lo rimandò, dicendogli che se ne sarebbe pentito. Cefalo a tai parole entrato in sospetto della fede di Procri, ne volle far prova, e presentandosi a lei travestito cercò di sedurla con doni. Per molto tempo ella resistette; ma accrescendo Cefalo i doni, alla fine si diede vinta.

Allora Cefalo si scoperse, ed ella vergognandosi fuggi ne’ boschi, ove si fece seguace di Diana, da cui ricevette in dono un cane di mirabile velocità, ed un dardo, che sempre sicuramente colpiva. Richiamala in fine da Cefalo, a lui donò quel cane, e quel dardo. Ma un dì che stanco dalla caccia sopra alla riva di un fonte egli chiamava l’ aura a ristorarlo, uno che da lungi l’ udì, credette ch’ egli chiamasse una Ninfa di questo nome, e riferillo a Procri. Questa ingelosita andò per sorprenderlo, e non lungi dal fonte in una densa macchia si ascose. Di là udì Cefalo chiamar aura, e agitandosi per dolore e per ira fece tale strepito fra le fronde, che Cefalo credendo nascosta ivi una fiera lanciò il dardo, da cui la misera Procri rimase estinta. Si disse poscia che accusato innanzi all’ Areopago di Atene di questa uccisione fu condannato a perpetuo esiglio.

Rappresentavasi l’ Aurora sopra di un carro a due cavalli, preceduta da Fosforo o Lucifero sotto la forma di un Genio avente una stella in fronte, e una fiaccola in mano ed accompagnata da altri Geni quali in atto di versar la rugiada, e quali di sparger gigli e rose.

Il Sole, che molti poeti confusero con Apollo, ma che Omero ed Esiodo sempre da lui distinsero, ebbe da Climene figlia dell’ Oceano Faetonte, Lampezia, Faesosa, e Febe o Lampetusa; e da Ferse, o Perseide Eeta, Pasifae e Circe.

Factente, secondo Ovidio, in una contesa con Epafo figlio di Io; sentendosi da lui negare di esser figlio del Sole, andò per consiglio della madre nella regia del Sole stesso, e per prova di essergli figlio richiese di poter reggerne il carro. Questi che già gli aveva promesso con giuramento qualunque cosa gli avesse chiesto, dopo aver cercato per ogni modo di dissuaderlo, fu suo malgrado costretto ad accordarglielo. Ma non sapendo Factente guidarlo, tanto alla terra sì accostò che ne arse essa, ed il mare. Alle preghiere della terra allor Giove fulminò il mal consigliato giovane, e lo precipitò nell’ Eridano, alle rive di cui le sorelle piangendone la morte furon convertite in pioppi, e dalle loro lagrime nacque l’ ambra; e Cigno, figliò di Stenelo e di una sorella di Climene, piangendo anch’ egli la sciagura del suo cugino ed amico, fu tramutato in cigno.

Eeta fu re di Coleo e possessore del vello, d’ oro, che poi conquistato fu da Giasone per opera di Medea, siccome appresso vedremo.

Pasifae moglie di Minosse innamorata di un toro, per cui altri intendono un principe detto Tauro’ partorì il Minotauro mostro mezz’ uomo, e mezzo toro, che poi fu ucciso da Teseo nel labirinto di Creta.

Circe maritatasi al re de’ Sarmati l’ avvelenò, quindi scacciata venne in Italia, e si stabilì nel promontorio Circeo ora Monte Circello, ove non corrisposta da Glauco amante di Scilla, per vendetta avvelenò la fonte ove Scilla lavavasi onde questa cangiossi in mostro marino; rifiutata parimente da Pico re del Lazio lui trasformò in picchio, cangiò in fiere i compagni di esso, che’ contro lei si avventarono, e Canento moglie di lui piangendone la perdita fu disciolta in aura; finalmente con una bevanda incantata, e col tocco della Sua verga mutò ella in porci i compagni di Ulisse, che poscia per le preghiere di lui restituì alla pristina forma, e lui seco tenendo un anno n’ ebbe secondo Esiodo, Agrio, e Latino, e secondo gli altri poeti Telegono.

Come portatore del giorno il Sole figuravasi sopra; di un carro luminosissimo circondato dalle Ore, che le dauzavano intorno, e tirato da quattro focosi cavalli Eto, Piroo, Eoo, e Flegone.

In gran venerazione fu il sole presso di tutti i Gentili, e spezialmente presso gli Orientali.

In Roma ne’ sacrifici a lui immolavasi il cavallo.

La Luna, che comunemente confondesi con Diana, fu anch’ essa dai più antichi poeti interamente da lei distinta.

Dicon le favole, che innamorata di Endimione pastor di Caria, scendea la notte dal cielo a star seco sul monte Latino; ed aggiungono pure, che fu da Pane Dio de’ pastori allettata con un presente di bianca lana a venirne a lui ne’ boschi di Arcadia.

Rappresentavasi con un arco lunato in fronte sopra di un cocchio a due cavalli; e nei sacrifici a lei offerivasi il toro.

Capo X. Di Apollo, di Esculapio, e delle Muse. §

Quattro Apollini si distinguevano al dire di Cicerone: il primo figlio di Vulcano, e di Minerva; il secondo figlio di Coribante e nato in Creta, intorno al dominio di cui ebbe poscia contesa con Giove; il terzo figlio di Giove e di Latona, venuto secondo alcuni dagli Iperborei, ma secondo i più nato in Delo; il quarto nato in Arcadia, e soprannomato dagl’ Arcadi Nomione, perchè da esso dicevano di aver avuto le leggi. Il più celebre presso i poeti fu il terzo, a cui pur venne ascritto quanto poteva agli altri appartenere.

Allorchè Latona n’ era incinta, Giunone pregò la Terra a negarle ricovero ove poter partorire, e suscitò pure contro di essa il serpente Pitone. Ma Nettuno l’ accolse nell’ Isola Ortigia o Delo, che era allora natante, e ch’ egli poi rese ferma; e Latona, colà recatasi trasformata in quaglia, diede alla luce sul monte Cinto Diana ed Apollo, il qual cresciuto, e fatto espertissimo arciero, il serpente Pitone colle sue frecce poi mise a morte.

Superbo di questa uccisione si fece Apollo a dileggiare il fanciullo Cupido, che osasse di trattar l’ arco e gli strali. Questi irritato, per dar prova del valor suo, scoccò uno strale dorato contro di lui medesimo, per cui ardentemente innammorossi di Dafne figlia del fiume Peneo, ed una di piombo a Dal ne, per cui odiandolo si diede con tutta possa a fuggirlo. Con pari ardore si mise Apollo ad inseguirla, e già slava per raggiugnerla, quando frodate vide del tutto le sue speranze; perciocchè ella al padre raccomandandosi fu tramutata in alloro.

Oltre Dafne amò egli Giacinto, Ciparisso, Clizia, Leucotoe, Isse, e Coronide.

Mentre giocava al disco con Giacinto figlio di Pierio, e di Clio secondo alcuni, e di Ebalo o Amicleo secondo altri, Zefiro per rivalità portò il disco di Apollo alla testa di Giacinto; che ne morì, e fu da Apollo cambiato nel fiore dello stesso nome. Ovidio racconta il fatto alquanto diversamente, dicendo che il disco battendo sopra di un sasso ribalzò in faccia a Giacinto nell’ alto ch’ egli era corso per prenderlo.

Ciparisso figlio di Amicleo avendo per disavventura ucciso con un colpo di saetta un cervo addimesticato, che gli era carissimo, volle ei medesimo per dolore ammazzarsi; ma Apollo che lo amava prevenne il colpo cangiandolo in cipresso. Tutto questo però da molti viene attribuito a Silvano.

Innamorato prima di Clizia figliuola di Orcamo e d’ Eurinome; Apollo l’ abbandonò per Leucotoe di lei sorella, cui sedusse prendendo le sembianze di Eurinome. Clizia scoperse il fatto ad Orcamo, il quale fece seppellir viva Leucotoe che poi da Apolline fu trasformala nell’ albero, da cui stilla l’ incenso, e Clizia medesima fu cangiata in girasole.

Coronide figliuola di Flegia dopo essere stata per alcun tempo ad Apollo fedele, ad esso antepose il giovine Ischi. Di ciò Apollo, avvertito dal corvo, che poi di bianco fu tramutato in nero, uccise Ischi, e Coronide. Trasse però dal fianco di lei un bambino, cui fece prima allattar da una capra, e poscia allevar dal centauro Chirone, e chiamollo Esculapio.

Questi da Chirone istrutto nell’ arte medica, ne divenne così valente, chef potè ad istanza di Diana richiamare da morte a vita Ippolito tiglio di Teseo.

Sdegnato però Giove che tanto potere ei si arrogasse, lo fulminò e Apollo, che prese a farne vendetta col saettare i Ciclopi, che fabbricati avevano i fulmini a Giove., venne esigliato dal cielo.

Ebbe Esculapio da Epione due figli Macaone e Podalirio, che aneli essi divennero medici rinomatissimi, e’ quattro figlie Igica, Egle, Panacela e Jaso.

La celebrità ch’ egli si era acquistata fece riguardare insieme con Apollo suo patire qual Dio della medicina. Il suo culto era specialmente in Epidauro; ma passò poscia anche in Roma nel modo seguente.

I Romani afflitti dalla pestilenza mandarono in Delfo a consultare l’ oracolo di Apollo, il quale rispose, che conveniva condurre Esculapio da Epidauro in Roma. Gli ambasciatimi passarono quindi in Epidauro per trasportare la statua. Ma intanto che su di ciò consultavasi fra i cittadini, un serpente uscito dal tempio attraversando la città andò a posarsi spontaneamente sopra la nave dei Romani, ch’ era nel porto, e da essi condotto a Roma, e deposto nell’ Isola del Tevere, dopo aver liberata la città dalla pestilenza, scomparve. Fu quindi creduto che Esculapio medesimo assunto avesse quelle, sembianze, e gli s’ innalzarono templi, in cui rappresentavasi con un bastone in mano, al quale era un serpente attorciglialo; e gli s’ istituirono sacrifici, ne’ quali a lui offerivansi capri o galline. Il serpente, ed il gallo erano specialmente a lui dedicati.

Apollo sbandito dal cielo ricoverassi presso di Admeto re di Tessaglia, che amorevolmente i’ accolse, e lo propose alla guardia delle sue greggi’ lungo il fiume Anfriso.

Grado fu Apollo all’ amorevolezza di Admeto; perciocchè bramando questi di aver in isposa Alceste figlia di Pelia, nè potendo ottenerla se non a condizione di condurre a Pelia un carro tirato da un leone e da un cignale. Apollo gl’ insegnò il modo onde aggiogare queste due bestie feroci. Oltreciò allorchè preso da grave malattia era Admeto vicino a morte, ei gli ottenne dalle Parche il poterne campare, se altri si offerisse a morire per lui; ed essendosi Alceste generosamente a ciò offerta, egli fu risanato, ed Alceste fu poi da Ercole tratta fuor dell’ l’ Inferno, dopo avervi incatenata la Morte.

Durante il suo esiglio andò pure Apollo in compagnia di Nettuno, esule anch’ esso in quel tempo per aver congiurato contro di Giove, a fabbricare pel re Laomedonte le mura di Troia; ma avendo questi in appresso negata ad ambedue la convenuta mercede, Apollo il punì colla pestilenza, e Nettuno coll’ inondazione, e col mandar un mostro marino, al quale Laomedonte per ordine dell’ oracolo dovette esporre la figlia Esione, che fu poi liberata da Ercole.

In Frigia fu Apollo dal Satiro Marsia sfidato a chi meglio sonar sapesse o questi la zampogna, o quegli la lira; ed avendolo vinto, in pena del suo ardimento’ gli trasse la pelle, e dalle lagrime di Ini mescolate col sangue formossi il fiume Marsia, che sbocca nel fiume Meandro.

Pari disfida ebbe ivi da Pane, e parimente vincitore ne fu dichiarato dal Dio del monte Imolo. Ma alla decisione di questo si oppose il re Mida, per cui Apollo gli fece crescere le orecchie d’ asino. Ingegnossi egli colle velature del capo a ricoprirle, ed ordinò al suo tosatore di non manifestarle a nessuno; ma questi non potendo per una parte tacere, è temendo per l’ altra di esser punito, scavò in segreto luogo una fossa, e vi mormorò dentro: Mida ha le orecchie di asino, ed essendo ivi cresciute delle canne, alle percosse dal vento andarono ripetendo le stesse parole, sicchè la cosa si fece a tutti palese.

Una tenzone di altro genere ebbe Apollo con Forba, il quale impossessatosi del cammino di Delfo vietava che alcuno vi andasse; ma trasformatosi in atleta Apollo ben tosto lo atterrò, e l’ uccise.

Era Apollo adorato principalmente in Deio, Giuro, Timbra, Pataro, Cirra, e Delfo, ove era il famoso oracolo, che rendevasi dalla sacerdotessa Pitia posta sul tripode coperto della pelle del serpente Pitone, e da questi luoghi ei trasse i nomi di Delio, Clario, Timbreo, Patareo, Cirreo, Delfico, come quello di Cintio dal Monte Cinto ove nacquero quello di Pitio da Pito sinonimo, di Delfo, quello di Febo, cioè risplendente, dall’ esser confuso col Sole.

In Roma i giuochi Apollinari celebravansi ai 6 di Luglio; e ne’ sacrifici ad esso offerivasi il toro, il porco e l’ ariete. L’ albero a lui consacrato era l’ alloro.

Rappresentavasi come abilissimo arciero, coll’ arco e colla faretra, e come Dio della poesia e della musica, colla lira. Era pur tenuto insieme col figlio Esculapio per Dio della medicina.

Qual Dio della musica e della poesia era egli chiamato preside e condottier delle Muse figlie di Giove, e di Mnemosine, o Dea della memoria.

Le Muse eran nove, e ciascuna aveva una particolare ispezione, Clio per la istoria, Euterpe per la musica, Tersicore per la danza, Polinnia per l’ eloquenza, Urania per l’ astronomia, Talia per la commedia, Melpomene per la tragedia, Calliope per la poesia epica, Erato per la lirica.

Il loro soggiorno poneasi nell’ Aonia, parte della Beozia sopra i monti Parnasio, Castalio ed Elicona, da cui usciva il fonte Castalio, in cui si volle cangiata la ninfa Castalia mentre fuggiva da Apollo, e il fonte Aganippe, Ippocrene o Cavallino, che si disse fatto sgorgar di terra da un calcio del cavallo Pegaso nato dal sangue di Medusa. Il monte Piero nella Tessaglia, e il monte Pindo nella Macedonia diceansi pure sovente da esse abitati.

Narra Ovidio, che le nove figlie di Pierio edi Evippe avendo sfidate al canto le nove Muse, ed essendone state vinte a giudizio delle Ninfe vennero cangiate in piche.

Narra similmente, che avendo Pireneo invitato le Muse sopraggiunte dalla pioggia a ricoverarsi in sua casa, e quindi tentato di far loro violenza, esse fuggirono convertite in uccelli, ed ei volendo inseguirle precipitossi da una loggia, e rimase estinto.

Capo XI. Di Diana. §

Oltre alla figlia di Giove e di Latona, due altre Diane da Cicerone si accennano, l’ una figlia di Giove e di Proserpina, l’ altra figlia di Upi e di Glauce: ma di queste appena trovasi menzione presso i Poeti.

Ben vedasi presso molti confusa sovente Diana colla Luna, sebbene i più antichi l’ abbiano interamente distinta.

Era Diana tenuta per Dea della caccia, perchè di essa formava la sua occupazione e il suo diletto.

Costringeva a perpetua verginità le Ninfe, sue seguaci; ed avendo scoperta la gravidanza di Calista figlia di Licaone, la quale erasi lasciata sedurre da Giove, che per ingannarla avea assunte le sembianze di Diana medesima, la discacciò. Quella entrala in un bosco diede poi Arcade alla luce, e fu da Giunone cangiata in orsa. Arcade cresciuto in età fu in procinto di ammazzarla non conoscendola; e Giove tramutalo in orso lui pure, e trasportò in ceelo amendue nelle costellazioni dell’ orsa maggiore, e dell’ orsa minore; Giunone però implacabile, altro non potendo, ottenne, secondo Ovidio, dall’ Oceano e da Teti di non permettere che mai si bagnino in mare.

Diana stessa era creduta castissima, e malamente gli amori della Luna con Endimione a lei vengono attribuiti.

Anzi avendo Atteone figliuolo di Aristeo e di Autone osato di mirarla nuda nel bagno, fu da essa coll’ acqua, che gli gettò contro cangiato in cervo, e divorato poscia da propri cani.

Orione, nato secondo le favole dall’ orina di Giove, Nettuno e Mercurio chiusa in una pelle di bue, e sepolta sotterra, avendo alla caccia tentato di far violenza ad Opi ninfa di Diana, e secondo alcuni a Diana stessa, fu da essa ucciso, secondo alcuni, con un dardo, e secondo altri colla puntura di uno scorpione fatto ivi sorgere dalla terra Omero però fa dire a Calipso che l’ uccidesse per dispetto veggendolo rapito dall’ Aurora.

Chione figlia di Dedalione, che per aver da Mercurio generato Autolico, da Apolline Filammone, osò a lei preferirsi, fu essa pure da lei trafitta, di che il padre addolorato gettossi in mare, ma fu da Apollo a mezz’ aria cangiato in uno sparviero.

Egual vendetta e più terribile fece ella contro di Niobe figlia di Tantalo, e moglie di Anfione che per esser madre di quattordici figli, osò insultare superbamente Latona di averne due soli. Diana per punire l’ oltraggio fatto alla madre, unitasi con Apollo, uccise a colpi di frecce tutti i figli e le figlie di Niobe, che a sì orrendo spettacolo in marmorea statua fu tramutata.

Nè impunito lasciò Eneo re di Calidone e marito di Altea, che offerendo le primizie a Cerere, a Bacco, ed a Minerva, a lei con disprezzo le avea negate. Ella mandò a disertar le campagne calidonie un terribil cignale, il quale ben poi fu ucciso da Meleagro figlio di Eneo, ma con fatai danno di lui medesimo. Imperocchè nella caccia, che a quello diedesi, e alla quale concorsero i principali Eroi della Grecia, essendo Atalanta figliuola di Giasio re di Arcadia stata la prima a ferirlo, Meleagro dopo di averlo estinto, a lei, in premio ne presentò la pelle, e la testa. Ma irritaronsi a ciò Plesippo e Toxeo figli di Testio, e fratelli di Altea, e volendo a forza ritogliere ad Atalanta il dono avuto da Meleagro vennero uccisi. Allora Altea madre di Meleagro, che al nascer di lui ritratto avea dal fuoco, e occultalo in luogo segreto il tizzone, che le Parche vi avean posto, dicendo che tanto sarebbe durata la vita di lui, quanto il tizzone, rimise per vendicare la morte de’ suoi fratelli il tizzone sul fuoco, e Meleagro consunto da interna arsura insieme con quello rimase estinto. Altea poscia di ciò pentita di propria mano si uccise, e le sorelle di Meleagro la morte di lui piangendo furono da Diana cangiate negli uccelli detti Meleagridi.

Altri strali invisibili di Diana e di Apollo venivano pure attribuite, secondo Omero, le morti improvvise, e le pestilenzie.

Diana rappresentavasi in abito di cacciatrice sopra un carro tirato da due cervi, e come confondessi colla Luna, cosi a lei poneasi pur anche un arco lunato in fronte; anzi da molti poeti pur fu confusa con Ecate, e detta perciò triforme, cioè Luna in cielo, Diana in terra, ed Ecate nell’ inferno.

Aveva i nomi di Delia e di Cintia dall’ isola e dal monte ove era nata.

Famoso era il suo tempio in Efeso, che poi fu incendiato da Erostrato, preso dalla mania di rendersi con ciò immortale.

La vittima a lei dedicata era una cerva. In Tauride però le si immolarono per alcun tempo umane vittime, come vedremo parlando d’ Ifigenia, e d’ Oreste.

Capo XII. Di Mercurio. §

Cinque Mercuri troviamo presso di Cicerone, il primo nato dal Cielo e dalla Dea del giorno; il secondo figlio di Valente e di Foronida, ed è quello, dice egli, che abita sotto terra, ed è chiamato Trifonio; il terzo figlio di Giove e di Maia, dal quale e da Penelope alcuni pretesero nato il Dio Pane; il quarto figlio di Nilo; il quinto dagli Egizi chiamati Teut o Tot, che dicesi aver loro insegnalo le lettere, e date le leggi.

Il più rinomato fra questi, Cioè il terzo, figlio di Giove e di Maia, era considerato come il messaggiero degli Dei.

Perciò dipingevasi colle ali a piedi ed al capo; onde esprimer la sua velocità.

Davaglisi pure in mano il caduceo; vale a dire una verga attorcigliata da due serpenti, colla quale dice Omero, eh egli chiamava il sonno su gli occhi de’ mortali, o il fugava a suo talento, e con cui pur guidava le anime de’ trapassati all’ inferno.

Avendo per ordin di Giove ucciso Argo posto da Giunone alla custodia di Io (come si disse al Capo IV.), ebbe da ciò il titolo di Arcidiga.

Vuolsi per alcuni ch’ egli abbia da Venere avuto Cupidine, per altri Ermafrodito.

Innamorato di Erse figlia di Cecrope indusse con oro Agiamo sorella di lei a tenergli mano. Pallade ciò sapendo mandò l’ Invidia ad infettare Aglauro del suo veleno. Ella perciò al venir di Mercurio cercò vietargli l’ ingresso, e fu convertita in nera pietra.

Mentre Apollo guardava lungo il fiume Aufriso in Tessaglia gli armenti di Admeto, Mercurio gli rubò alcune vacche, ed essendo in ciò stato scoperto dal pastore Batto, lo cangiò in pietra di paragone.

Minacciandolo Apollo, se non restituiva le vacche, Mercurio nell’ alio stesso gli rubò la faretra, sicchè Apollo per la stravaganza finì a cangiare lo sdegno in riso e Mercurio fu poi tenuto Dio dei ladri.

Era anche chiamato Dio de’ mercatanti, e spesso perciò dipingevasi con una borsa nelle mani.

Dio dell’ eloquenza fu egli pur nominato, e si finse che dalla sua bocca uscissero catene d’ oro, che dolcemente legavano gli ascoltanti.

Per ultimo a lui venne attribuita eziandio l’ invenzion della lira, che si disse da lui formata la prima volta coi tesi nervi di una morta testudine.

Le statue che si ponevano sulle vie a guisa di termini erano dette Mercurii dai Romani, ed Ermi dai Greci, che tale è il nome di Mercurio in quella lingua.

Capo XIII. Di Bacco. §

Cinque pure, secondo Cicerone, ebbero il nome di Bacco o Libero: il primo figlio di Giove e di Proserpina; il secondo figlio del Nilo, che si disse aver ucciso Nisa; il terzo figlio di Caprio, che fu detto re dell’ Asia in onore di cui furono istituite le feste Sabazie; il quarto figlio di Giove e della Luna, a cui dedicate si dissero le feste Orfiche; il quinto figlio di Niso e di Dione, da cui si credettero stabilite le Trieteridi. Comunemente però da poeti Bacco vien detto figlio di Giove e di mele figlia di Cadmo.

Allorchè questa ne era incinta, Giunone assunta la figura di Beroe di lei nutrice le mise in animo un’ ardente brama di veder Giove in tutta la sua maestà. Consentì Giove a tale richiesta, sebbene a malgrado; ma quando a lei presentossi, un fulmine da lui uscito l’ incendiò. Allora Giove le estrasse il figlio vivo, e l’ ascose nella sua coscia, poi datolo alla luce lo fece allevare da Ino sorella di Semele sotto la custodia di Sileno.

Cresciuto in età andò alla conquista delle Indie, da cui tornando trovò nell’ Isola di Nasso Arianna abbandonata da Teseo, e fattala sua sposa trasportò iu cielo la corona di lei nella costellazione, che ha questo nome.

Preso da’ corsari di Tiro, che sopra una spiaggia il trovarono addormentato in sembianza di fanciullo, domandò di essere condotto a Nasso, e allorchè fu ad essa vicino, veggendo che i corsari volevano proceder oltre, rendette immota la nave, e lor cangiò in delfini, salvo Acete, che a quelli si era opposto.

Alcitoe, Leuconoe e le sorelle, figlie di Meneo, avendo osato esse pure d’ insultare Bacco, furono cangiate in nottole.

Era egli tenuto per inventore del vino, e le sue feste celebravansi dalle Baccanti in una specie di furore, ond’ erano da’ Greci chiamate orge da furore.

In queste il giovane Cisso spensieramente saltando cadde in una profonda fossa, e da Bacco venne cangiato in edera.

Essendosi a tale feste opposto Penteo re di Tebe, furor sì strano ispirò Bacco ad Agave madre di lui, ed una delle Baccanti, che unita alle compagne lo fece a brani.

Licurgo re di Tracia che opporsi volle alla propagazion delle viti, fu anch’ egli punito; perciocchè mentre di propria mano accinto s’ era con una scure a tagliarle, tagliossi le gambe.

All’ incontro avendo Micia re di Frigia a Bacco restituito Sileno, che era stato preso dai contadini, Bacco in ricambio si offerse pronto a concedergli qualunque cosa ei domandasse. Ma avendo l’ avarizia sospinto Mida a chiedere sconsigliatamente che in orò si convertisse tutto quello, che da lui fosse tocco, mutandosegli in oro anche il pane ed il vino ei fu costretto per non morire d’ inedia a pregar Bacco di ripigliarsi il suo dono, e questi allor gl’ impose di lavarsi nel fiume Pattolo, che quindi acquistò la virtù di volgere arene d’ oro.

Anche, le cinque figlie di Anio sacerdote di Apollo in Delo avevan da Bacco ottenuto di cangiare in frumento o vino od olio tutto ciò che toccassero; il che sapendo Agamennone re di Argo venne per prenderle, onde alimentare l’ armata nella guerra, che preparava contro di Troia, ma esse fuggirono in Andoo presso il fratello, che aveva a quell’ isola dato il nome, ed avendole Agamennone colà pure inseguite, elle a Bacco ricorrendo furon mutate in colombe.

Rappresentatasi Bacco in aria giovenile, sopra di un carro tirato da due tigri col capo inghirlandato di edera e di pampini, e col tirso in mano, che era una lancia ornata anch’ essa di pampini.

Suoi seguaci erano i Satiri, che figuravansi colle orecchie, le corne e le gambe di capro, ed il vecchio aio di lui, che dietro vernagli seduto sopra di un asino.

A Bacco offerivasi mele, vino, e latte, e sacrificavasi il capro, il morso del quale cosi nocevole vico riputato alle viti.

In Roma le feste di Libero o Bacco, dette Liberali, celebravansi ai 17 di Marzo; le Baccanali si celebravano in autunno con ogni genere di stravizzo.

Capo XIV. Di Cerere. §

Figlia di Saturno e di Rea fu Cerere, ed a lei venne attribuita l’ invenzione dell’ agricoltura, per cui gli uomini, che si pascevan prima di ghiande, incominciaron a pascersi di frumento. Ebbe quindi gli epiteti mammosa e di alma, perchè tutti per certo modo essa aliatta ed alimenta..

Unita a Giasone o Giasio figlio di Giove e di Elettra partorì Pluto Dio delle ricchezze, unita a Giove divenne madre di Proserpina.

Essendo questa da Plutone stata rapita nelle campagne dell’ Enna in Sicilia, Cerere corse per ogn’ intorno a riceverla colle fiaccole accese alle fiamme del monte Etna.

Aretusa, che era prima una ninfa dell’ Elide, e che inseguita dal fiume Alfeo si seppellì sotterra cangiata in fonte par opera di Diana, e venne a sgorgare in Sicilia (ove però dicon le favole, che fu tuttavia per le sotterranee strade dal fiume Alfeo raggiunta), diè finalmente a Cerere contezza che Proserpina da Plutone, era stata rapita.

Essa allora sir volse a Giove per riaverla ed ebbe dà lui promessa che le sarebbe restituita, qualor non avesse giù nell’ Inferno gustato ancor alcun cibo. Ma avendo Ascalato figlio di Acheronte e della Nolte manifestato, che nei giardini di Plutone avea Proserpina colto una melagrana e mangiatine sette grani, Cerere frodale vide le sue speranze, e in vendetta cangiò Ascalafo in barbagianni. Ovidio aggiugne però aver ella ottenuto in seguito, che Proserpina pei sei mesi dell’ anno con lei si stesse, e per altri sei con Plutone.

Mentre Cerere nelle sue scorrerìe arsa di sete e sudata e affannata chiedea ristoro a una buona vecchia, il figlio di lei Stellione si fe scioccamente a beffarla, ed ella irritata cangiollo in lucerta.

Recatasi in Eleusi vi fu accolta dal re Celeo cortesemente in ricompensa di che prese ella ad educarne il picciol figlio Trittolemo, pascendolo di giorno col proprio latte, e coprendolo di fuoco alla notte.

Or crescendo Trittolemo con portentosa prestezza, ebbe Celeo curiosità di spiare quale magìa usasse Cerere con lui la notte, e veggendol coperto di fuoco, corse atterrito per liberarlo; ma egli medesimo vi rimase abbruciato.

Allorchè Trittolemo fu giunto a perfetto stato, dopo averlo pienamente istruito nell’ arte di coltivare la terra, Io spedì sopra il suo carro tirato da due dragoni in varie parti del mondo ad insegnarla.

In Patrasso mentre Trittolemo stava addormentato, Anteo figlio del re Eumele ebbe vaghezza di salire sopra quel carro, ma giunto a certa altezza ne venne precipitato.

Nella Scizia il re Lineo in luogo di profittare degli utili insegnamenti di Trittolemo, cercò anzi ammazzarlo; ma fu da Cerere cangiato in lince.

Avverso a Cerere ed a Trittolemo fu pur in Tessaglia Erisittone, che giunse infino a tagliare arditamente e profanare il bosco a lei consecrato. Cerere, al dir di Ovidio, spedì quindi nel Caucaso a ricercare la Fame, la quale assalì Erisittone per modo, e così insaziabile divoratore lo rese, che consunte tutte le sue sostanze, vendette schiava perfino la figlia Metra per comperarsi di che mangiare. Ma questa mal sofferendo la schiavitù raccomandossi a Nettuno da cui prima era stata amata, ed ei per toglierla al padre la trasformò in pescatore. Restituita alla forma primiera tornò essa al padre, e veduta da lui nuovamente, e pur nuovamente si trasformò, usando della facoltà che Nettuno le avea concesso. Così seguitò ella più volte cangiandosi ora in cavallo, ora in bue, ora in augello, or in cervo. Ma non essendo il prezzo, che il padre ne ritraeva dal venderla, sufficiente a satollarlo, ei finì da ultimo a doversi arrabbiatamente mangiare le proprie carni.

Era Cerere venerata principalmente in Sitilia ed in Eleusi, ov’ ebber principio i misteri di lei chiamati Eleusini, a’ quali chi iniziavasi era tenuto à rigoroso segreto, cui era sommo delitto il manifestare.

Rappresentavasi Cerere coronata di spiche e di papaveri perchè dicevasi, che nell’ afflizione per la perdita della figlia non potendo mai prender sonno, con questi per consiglio di Giove riuscita era a conciliarselo. Portava pure la fiaccola con cui andò in traccia della figlia, e la falce con cui si miete il frumento. Il suo cocchio era tirato da due dragoni.

In Roma a lei offerivansi ne’ sacrificlatte, vino e fave, ed immolavasi una troia.

Le feste Cereali si celebravano nella città ai 19 d’ Aprile, e verso il medesimo tempo nelle ville celebravansi le Ambarvali, conducendo la vittima attorno ai campi con rusticani salti, e con inni a lode, ed invocazione di Cerere.

Capo XV. Di Vesta. §

Due Veste si distinguevano, l’ una che si tenea per madre di Saturno, e confondeasi con Gea o la Terra, l’ altra che si dicea figlia di lui, e adoravasi come la Dea del fuoco.

Il rito di adorare il fuoco e conservarlo gelosamente era antichissimo presso gli Orientali, e in Italia vuolsi portato da Enea; sebben’ pretendesi da alcuni che fosse già in uso presso i Tirreni.

La custodia del fuoco sacro, era affidata in Roma ad un collegio di vergini dette Vestali, che nel tempio di Vesta fabbricato secondo alcuni da Romolo, e secondo altri da Numa, vegliavano a vicenda intorno ad esso.

Le vergini Vestali erano astrette a conservare la verginità fino a trent’ anni, dopo cui deponendo le sacre bende e rinunziando al servigio del tempio potevano maritarsi.

Nell’ atto che prese erano dal Pontefice massimo, e condotte nel tempio, consideravansi come emancipate dal padre, e godeano la facoltà di testare.

In molta venerazione erano presso del popolo, e la loro interposizione ha sovente giovato moltissimo a calmar le discordie e le inimicizie.

Ma se per negligenza di alcuna il fuoco sacro si estingueva, il che aveasi per funestissimo augurio, ell’ era dal Pontefice massimo severamente punita.

Nè il fuoco per altro modo si raccendeva, che per mezzo de’ raggi solari raccolti con una specie d’ imbuto sopra materie facilmente combustibili, o coll’ aggirare frettolosamente un cono, o fuso di legno nel foro fatto entro una tavola pur di legno, finchè si accendesse.

Il medesimo pur si faceva ogni anno alle calende di Marzo rinnovando il fuoco sacro, il quale nell’ uno e nell’ altro caso portavasi da una Vestale sopra l’ altare entro un crivello di rame.

Che se taluna delle Vestali violava il voto di verginità chi l’ avea sedotta morir faceasi a forza di battiture, ed ella era portata con lugubre pompa sopra i una bara fuor della porta Collina, e sepolta viva in una stanza sotterranea a ciò costrutta nel campo, che dicevasi scelletaralo.

Capo XVI. Della Terra, e degli Dei terrestri. §

La Dea della terra, detta da Esiodo con proprio nome Gea, e dagli antichi Latini Tellure, fu da essi riguardata come moglie del Cielo, e madre di Saturno; ma da’ posteriori mitologi e poeti più comunemente venne considerata come, moglie di Saturno sotto ai nomi di Opi o Cibele.

Opi fu detta, secondo Varrone, perchè indi viene ogni opera, e d’ essa è uopo per vivere; Cibele o dalla città o dal monte Cibelo nella Frigia, ove il suo culto ebbe principio, o da Cibelo suo primo Sacerdote.

Fu detta anche Dindimene, Berecinzia, Madre Idea, o Frigia o Pessinunzio da’ monti Dindimo, Berecinto e Ida, e dalla città di Pessinunte nella Frigia, ove specialmente era adorata.

Finalmente, come Dea della terra, e madre de’ massimi Iddii, fu nominata madre alma, e magna Madre, e Madre degl’ Iddii, e Dea Buona; sebbene sotto quest’ ultimo nome alcuni abbian preteso doversi intendere la madre di Mida, altri la moglie di Fauno.

Rappresentavasi coronata di torri per indicar le città, che sono sparse sopra la terra, con una veste dipinta di erbe e di piante, simbolo delle sue produzioni; sopra di un cocchio a quattro ruote tirato da due leoni, e colle chiavi in mano, con cui apre alla buona stagione i suoi tesori, e li chiude all’ inverno.

I suoi sacerdoti eran detti Galli dal fiume Gallo nella Frigia, Dattili da dactylos, dito, perchè erano eguali in numero alle dita. Cureti, da cura tonsura, perchè tosavansi; Coribandi da coryptein agitare il capo, perchè con grandi agitazioni del capo e di tutto il corpo, e con grande strepito di percossi cembali di metallo le feste di Cibele da quelli si celebravano.

Eran essi eunuchi ad imitazione di Ali, che tal si rese allor quando mirò trafitta da Cibele la ninfa Sangaride, colla quale violato egli avea il precetto di castità impostogli da Cibele nel farlo suo sacerdote. Ati fu poi da essa cangiato in pino.

La vittima che a Cibele sacrificavasi era una troia.

In Roma alla fine di marzo la statua di Cibele fatta di nera pietra, e venuta di Frigia portavasi con pompa da’ Sacerdoti a lavarsi nel fiume Almone, che poco lungi dalla città entra nel Tevere.

Le feste megalesi a lei sacre si celebravano ai 4 di Aprile, le opali ai 19 Dicembre.

Le feste della Dea buona celebravansi alle calende di Maggio nella casa del Pontefice massimo con gran mistero, e dalle sole donne, senza che alcun uomo potesse intervenirvi.

Nelle viscere della terra fu posta da Pronabide la sede di Demogorgone, Dio terribile, che noti era permesso di nominare, e che si dice padre della discordia di Pane, delle tre Parche, di Pitone, e del Cielo stesso e della Terra.

Fra gli Dei terrestri prima a dover nominarsi è Pale Dea delle gregge e dei pastori, che alcuni han pur confuso con Vesta o Cibele. Le Feste palilie a lei sacre si celebravano in Roma ai 21 di Aprile.

Dio della gregge e de’ pastori era pure tenuto Pane figlio di Mercurio; sebbene alcuni per esso abbiano inteso più generalmente il Dio Pan, che significa tutto, e riguardandolo sotto di questo aspetto, come figlio di Demogorgone.

Egli rappresentavasi colle orecchie, le corna e le gambe di copro; ed il suo soggiorno ponevasi in Arcadia, spezialmente sui monti Menalo e Liceo.

Già abbiamo detto, com’ egli con un presente di bianca lana a se trasse ne’ boschi di Arcadia la Luna.

Dalla ninfa Eco ebbe Iringe, che fornì i farmachi incantatori a Medea.

Vinse la ritrosìa di Driope trasformandosi in pastore.

Ma non potè vincere quella di Siringa figlia del fiume Ladone, la quale da lui fuggendo in riva al fiume paterno fa cangiata, in un cespo di canne; e dal suono che queste, fecero tra lor percosse ci prese poscia l’ idea di formar la zampogna onde fu l’ inventore.

Narra Pausania, che quando i Galli sotto la condotta di Brenno scorrendo la Grecia si accinsero a spogliare il tempio di Delfo, venne loro incusso da Pane un improvviso terrore, per cui tutti diedero alla fuga, ond’ è poi venuto che il terrore per ignota o non fondata caglone chiamasi tuttavia terror panico.

A Pane sacrificavasi una capra; e le feste lupercali, che in Roma celebravansi a’ 15 di Febbraio, che si dissero altrove dedicate a Giunone Februale, da molti si vollero dedicate a Pane, di cui si pretende che i Luperci fossero sacerdoti.

Silvano era il Dio delle selve, e rappresentavasi con un cipresso in mano per memoria del giovane Ciparisso, che da lui non da Apollo vogliono molti essere stato cangiato in cipresso. A Silvano offertasi una troia.

Fauno, altro Dio campestre figlio di Mercurio e della Notte, dipingetesi come Pane, ma senza peli al mento ed al detto. Alcuni lo dissero figlio di Pico re dei Lazio, e padre dei Fauni, cui ebbe dalla moglie Fauna, o Fauta. Cogliono pure che dalla ninfa Simetide ei generasse Aci, che fu poi amato da Cutatea, e ucciso da Polifemo; e dalla ninfa Mirica Latino, padre di Lavinia.

A lui immolavasi un agnello o un capretto, e le feste Faunali celebravansi in Roma ai 5 di Dicembre.

I Satiri, Dei Campestri seguaci di Pane; di cui dicevansi anche figli, figuravansi in tutto simile a lui; e la lor differenza da’ Fauni consisteva nell’ avere peloso il mento ed’ il petto, laddove i Fauni l’ uno e l’ altro avevano senza peli.

Priapo, figlio di Bacco e Venere, era il Dio e custode degli orti. Effigiavasi colla barba, e la chioma scomposta, e una falce di legno in mano per allontanare i ladri e gli uccelli. In Lamsaco città della Misia aveva egli il culto primario. Era tenuto come il più lascivo fra tutti gli Dei. La ninfa Loto da lui fuggendo fu trasformata nella pianta dello stesso nome; e Driope amata prima da Pane e da Apolline, e divenuta poi moglie di Andremone, da questa pianta cogliendo alcuni fiori per divertire il figlio Anfisso, anch’ ella venne cangiata in loto.

A Priapo sacrificavasi un asino.

Feronia Dea de’ boschi veneravasi principalmente nell’ agro Pontino, ovediceasi che alcuni Lacedemoni fuggiti da Sparta, perchè mal sofferenti delle leggi troppo rigide di Licurgo, colà approdando le consacrassero un bosco ed un tempio. Si aggiunse poi, che essendosi il bosco fortuitamente incendiato, e volendo perciò gli abitanti recare altrove il simulacro della Dea, ella fece in un subito rinverdire tutte le piante. Aveva però un tempio a piè del monte Soratte, ove dicevasi che gli uomini dello spirito di lei invasi camminassero impunemente a piè nudi sopra le brage ardenti. Era pur tenuta Dea de’ liberti, perchè i servi nel suo tempio ricevevano il cappello della libertà.

Pomona Dea de’ fruiti fu amata dal Di o Vertunno, cosi chiamalo perchè volgeasi a piacer suo in tutte le forme. Per superare l’ avversione ch’ ella mostrava alle nozze, incominciò prima a piegarla colle persuasioni, assumendo le sembianze di una vecchia, indi si tramutò improvvisamente in bellissimo giovane. In Roma Vertunno avea un tempio sulla piazza del mercato. Le feste vertunnali celebravansi in Ottobre.

Clori o Fiora Dea de’ fiori fu moglie di Zefiro. Con molta lascivia si celebravano in Roma ai 28 di Aprile i giuochi Florali, istituiti dalla meretrice Acca Tarunzia o Tarruzia che a quest’ effetto avea delle sue ricche sostanze lasciato erede il popolo romano.

Aristeo figlio di Apollo e della ninfa Cirene fu creduto inventore dell’ arte di far l’ olio, il cacio, ed il mele.

Mentre inseguiva Euridice moglie di Orfeo, questa fu morsicata da un serpente nascosto fra l’ erbe, e ne morì. Le ninfe compagne di Euridice punirono Aristeo coll’ ammazzargli le api. Ma, secondo Virgilio, essendo egli ricorso alla madre Cirene, questa il guidò a Proteo, che gli scoperse la cagione della morte delle api; ed allora fatti per consiglio della madre de’ sacrifici onde placare Euridice e le Ninfe, e lanciate le morte vittime in luogo chiuso, dalle putrefatte loro viscere pullularono nuovi sciami di api.

Il Dio Termine presedeva ai confini dei campi, cui era grave delitto il violare.

La sua figura a principio non era che una pietra, da quale segnava il confine tra un campo e l’ altro, ma in seguito a questa pietra si sovrappose una testa umana.

Fu detto da’ Romani, che quando trattossi di fabbricare il Tempio di Giove Capitolino, le statue degli altri Dei per rispetto cedettero il luogo, ma il Dio Termine stette fermo.

A lui dedicate erano le feste terminali, che celebravansi ai 23 di Febbrajo.

Anticamente al Dio Termine non sacrifica vasi alcun animale; poi s’ istituì di sacrificargli un agnello, o una troja lattante.

Fra le terrestri Divinità annoverate eran le Ninfe, di cui altre presedevano a’ fiumi, e dicevansi Naiadi, altre a’ laghi, e si nominavan Limniadi, altre ai monti, e si chiamavan Orcadi, altre alle valli, ed eran dette Napee, alti e alle piante ed a’ boschi, e si appellavano Driadi ed Amadriadi. Le Nereidi ninfe del mare appartenevano agli Dei marini.

Molte delle cose campestri avean pure presso i Romani la loro particolare Divinità; e Ippona essi dicean la Dea che possiede a’ cavalli; Bubona quella, che a’ buoi; Seia o Segezia la Dea delle sementi; Matura quella della maturità; Lactura o Lactucina la Dea del latte; Mellona quella del mele; Sterculio o Stercuzio il Dio dei concime, che diceasi figlio di Fauno, ed avere il primo introdotta la concimazione de’ campi; e cercavano pur di placare il Dio Robigo, perchè non infestasse colla ruggine il frumento.

Dii domestici erano i Penati ed i Lari di cui i primi presedevano alle città e alle ville, i secondi alle case; ma spesso prendevansi promiscuamente gli uni pergli altri.

Intorno ai Lari è stato favoleggiato che fosser figli di Mercurio accoppiatosi a Lara ninfa del Tevere nell’ atto che la conduceva all’ inferno per ordine di Giove, il quale le aveva prima tagliata la lingua in pena di avere manifestato a Giunone gli amori di lui colla ninfa Giuturna figlia di Dauno e sorella di Turno.

A’ Lari offerivasi il gallo: e le feste Compilali a lor dedicate si celebravano ai 2 di Maggio.

I Lemuri, che erano riputati infestare le case colle larve notturne, placavansi a’ 9 di Maggio.

Ogni uomo era in tutela di un Dio particolare che chiamavasi Genio, e che Io accompagnava in tutta la vita. Molti pure ad ogni uomo due Geni attribuirono, l’ uno buono e l’ altro cattivo, o, come dice Orazio, l’ uno bianco e l’ altro nero. I Geni delle donne più comunemente erano detti Giunoni.

Dal Genio e da una vergine Sabina diceasi nato il Dio Fidio fondatore della città di Curi, adorato da’ Sabini, e poscia ancor dai Romani, che spesso invocando nelle asserzioni e ne’ giuramenti, come pur Ercole, Castore e Polluce, onde vennero Medius Fidius, Mehercule, Mecastor, sottintendendovi adjuvet, ed Ædepol, cioè per Ædem Follacis.

Ad ogni parte dell’ uman corpo un Dio particolare pur presedeva. Giove al capo, Nettuno al petto, Marte ai lombi, il Genio alla fronte, Giunone alle sopracciglia, Cupidine agli occhi, la Memoria agli orecchi, al dorso Plutone, alle reni e agl’ inguini Venere, alla destra mano la Fede, alle ginocchia, che abbraciavansi da’ supplichevoli, la Misericordia, Minerva alle dita, Mercurio a’ piedi, Tetide alle calcagna.

Le varie vicende dell’ umana vita erano anch’ esse raccomandate a particolari Divinità, di cui basterà accennare la principali.

Nascone o Nazione diceasi la Dea del, nascere; Vagitauo o Vaticano quel che apre la bocca a’ vagiti, Levana quella che solleva da terra i bambini, Cunina quella che presiede alle cune. La Dea Rumina istruiva i bambini al poppare, Potina al bere, Educa o Edusa al mangiare. La Dea Ossilagine consolidava loro le ossa; Nundina era quella sotto gli auspici di cui i maschi al nono giorno dopo la nascita, e le femmine all’ ottavo purgavansi, e loro imponevansi i nomi; Statilino o Statano dava loro lo stare in piedi; Fabulino ih favellare; Pavenza loro toglieva i timori; Gioventù li guidava alla giovinezza; Orbona supplicavasi, perchè orbi non rimanessero de’ genitori.

Nelle nozze Jugatino dicevasi quello che univa i coniugi; Domiduco quello che guidava la sposa alla casa del marito; Domizio e Minturna per cui ella in casa e col marito restava: Virginense e Cinzia per cui il cinto verginale a lei scioglievasi; Viriplaca quella che i mariti placava nelle contese e negli sdegni. Oltre Lucina, per cui altri intendeano Latona, altri llitia ed altri Diana, a’ parti presedean pure Partunda ed Egeria, e Prosa invocavasi ne’ parti regolari, Posverta negli irregolari e difficili; Intercidona, Piluno e Deverra allontanavan di notte Silvano, perchè le puerpere non molestasse.

Strenua dicessi la Dea che rende gli nomini valorosi; Agenoria e Stimula quella che gli spinge ad agire; Agonio quel che presiede alle azioni; Orla quella che esortagli ad opere virtuose; Volunno e Volunna que’ che lor danno il buon volere; Cazio quello che cauti li rende; Angerona quella che libera dalle angosci e, e fa che tacciano i lamenti, onde fu detta pur Dea del silenzio, e dipingevasi colla bocca fasciata e sigillata; Fellonia quella che Scaccia i nemici; Fessonia quella che alleggia gli stanchi; Vigilia quella che accompagna i viaggiatori perchè non errino; Averrunco quel che allontana i mali e i pericoli; come era ài Dio de’ conviti; Momo quel della satira e del riso. Era Martea venerala dargli eredi; Laverna invocavasi da’ ladri, perchè occulti tenesse i loro furti; Libitina presedeva alla morte; Nenia ai funerali.

Molti esseri astratti furono pur da’ Romani divinizzati. Fra questi la Dea Fortuna avea un nobile tempio in Anzio, ed in Preneste or Palestrina, e molti ne aveva in Roma sotto a’ diversi nomi di Fortuna primigenia, ossequente, privala, pubblica, viscosa, piccola, maschia, virile, muliebre, equestre, mala, scia, mammosa, e reduce.

Templi pur furono innalzali alla Mente, alla Virtù, all’ Odore, alla Pietà, alla Fede, alla Speranza, alla Pudicizia, alla Concordia,, alla Pace, alla Quiete, alla Salute, alla Felicità, alla Libertà, alla Fama; e sacrifici si fecer anche alla Febbre, alia Tempesta, al Pavore e al Pallore onde tenerli lontani.

Agli Dei terrestri aggiunger si possono ancor gl’ Indigeti, cioè, quegli uomini che per le loro azioni meritaron gli onori divini.

Tra questi oltre Esculapio, e Romolo o Quirino, de’ quali abbiam detto, ed Ercole, Castore, Polluce ed Enea, dei quali diremo appresso, dee ricordarsi Carmento madre di Evandro, detta anche Nicostrata e Temide, che ebbe il dono de’ vaticini, a cui dedicate erano in Roma le ferie Carmentali, che si celebravano in Gennaio; Evandro stesso figlio di Mercurio e di Carmenta nativo di Arcadia che avendo per disgraziato caso ucciso il padre, ricoverossi in Italia, dove sui colle Palatino fondò una piccola città chiamata da lui Pallanteo; Acca Laurenzia che fu nutrice di Romolo e di Remo, e in onor di cui voglionsi istituite da Romolo le feste Laurentine o Laureatali, che celebravansi in Dicembre, ed Anna Perenna, che avendo recato de’ pani al Popolo Romano, allorchè stava ritirato sul monte Aventino, si volle da esso per gratitudine onorata di perenne culto, e la sua festa con solennità celebrata ai 15 di Marzo.

Capo XVII. Di Nettuno, e degli Dei marini. §

Primo Dio del mare, secondo Esiodo, fu Ponto figlio della Terra e Padre di Nereo a cui Dori figlia dell’ Oceano partorì le Ninfe del mare dette perciò Nereidi.

L’ Oceano da Esiodo e da Omero non è riguardato come Dio nel mare, ma come un fiume, che unito a Teli figlia della Terra divenne padre di tutti i fiumi, e delle Ninfe de’ fonti e dei fiumi, dette quindi Oceanitidi ovvero Oceanine. I poeti posteriori però hanno comunemente confuso Oceano e Ponto, considerandoli amendue come esprimenti il mare.

L’ impero del mare nella divisione tra i figli di Saturno abbiam detto esser toccato a Nettuno.

Questi sposò Anfitrite figlia dell’ Oceano, cui fè rapir da un Delfino, che in ricompensa fu poi trasportato fra de costellazioni; e da essa ebbe Tritone che rappresentasi mezz’ uomo e mezzo pesce, e suol precedere il carro di Nettuno sonando una conca marina.

Secondo Omero, Nettuno da Ifimedia moglie di Aloeo ebbe due figli Oto, ed Efialte, i quali a nove anni essendo cresciuti all’ altezza di trentasei cubiti, e alla grossezza di nove, incatenarono Marte, che fu liberato poi da Mercurio, e soviapposero all’ Olimpo l’ Ossa ed il Pelio per cacciar Giove dal cielo; ma da lui fulminati furono poi sepolti nel Tartaro.

Aggiugne lo stesso Omero, che Nettuno da Tiro figlia di Salmoneo e moglie di Creteo, la quale ingannò assumendo la forma del fiume Enipeo, ebbe Pelia, che spedì Giasone alla conquista del vello d’ oro, e Neleo padre di Nestore; da Toosa figlia di Forco ebbe il Ciclope Polifemo, che acciecato fu poi da Ulisse, a cui divorato aveva sei compagni: finalmente da Peribea figlia di Eurimedonte ebbe Nausitoo re de’ Feaci, padre di Alcinoo, che liberamente accolse Ulisse nel suo naufragio vicino all’ isola Scheria o Corfù e ricco di doni lo fece da’ suoi trasportare in Itaca.

Ovidio aggiugne; che per Canace figlia di Eolo ei trasformossi in un giovenco, per Bisaltite in ariete, per Cerere e Medusa in cavallo, per Melanto in delfino; e che Cene figlia di Elato tessalo, dopo essersi a lui prestata, ottenne di venire cangiata in maschio sotto il nome di Ceneo, e di essere invulnerabile, e che poi combattendo Ceneo a favor de’ Lapiti contro i Centauri, non potendo essere da questi ferito, fu invece oppresso sotto il peso delle piante su lui ammassate.

Già si è detto come nella sua contesa con Pallade per dar il nome ad Atene, fece di terra uscire un cavallo, e come avendo congiurato contro di Giove fu costretto a servir con Apollo al re Laomedonte nella costruzione delle mura di Troia, e ciò di’ indi avvenne.

Presso Omero è Nettuno caratterizzato coi titoli di cingitore, e scotitor della terra. Rappresentavasi con chiome cerulee, e col tridente in mano, sopra una grande conchiglia tirata da due cavalli marini.

A Nettuno sacrificavasi il toro, il verro, e l’ ariete; e le feste Nettunali in Roma erano ai 23 di Luglio.

Il Dio Conso, particolare a’ Romani da alcuni venne confuso con Nettuno, da altri distinto, e riguardato come Dio de’ consoli e delle astuzie. In onore di lui celebravansi le feste. Consuali ai 21 di Agosto.

Due Dee marine lor proprie avean pure i Romani, l’ una Venilia per cui i flutti vengono al lido, e l’ altra Salacia per cui si ritirano; le quali Dee furono poi anche nominate in appresso, la prima Malina, e la seconda Liduna.

Custode del gregge marino era Proteo figliuolo dell’ Oceano e di Teli figlia della terra, il quale da Nettuno avea per ricompensa ottenuto da previsione del futuro; ma noi predicea se non legato, e godea la facoltà di cangiarsi in tutte le forme.

La stessa facoltà godea Tetide figlia di Nereo. Sorpresa, secondo Ovidio, da Peleo figlio di Eaco, mentre era addormentata, ella cangiossi in albero, in tigre, in uccello, e cosi a lui si sottrasse. Ma avvisalo da Proteo di legarla, ove la sorprendesse di nuovo, e tenerla malgrado qualunque trasformazione, per questo modo ottenne Peleo di averla in moglie, e da essi poi nacque Achille, che Proteo avea innanzi predetto a Tetide che sarebbe stato più forte del padre. Avendo Peleo in appresso ucciso il fratello Foco nato da Psamate ninfa marina, questa mandò un mostruoso lupo a devastargli l’ armento; ma colla intercessione di Tetide ei placò Psamate, e il lupo fu convertito in marmo.

Galatea altra figlia di Nereo fu amata furiosamente dal Ciclope Polifemo. Essa spregiandolo si accese in cambio, per Aci figlio di Fauno e della ninfa Simetide. Ma avendolo Polifemo con lei sorpreso, lo schiacciò con’ un pezzo del monte Etna, ed ella poscia cangiollo in fiume.

Forco o Forcine figlio del Ponto e della Terra, secondo Esiodo, fu padre delle Gree, delle Gorgoni ec. Da Omero egli e detto re dello steril mare e padre di Toosa, che partorì Polifemo, e a lui sacro, secondo il medesimo, era il porto d’ Itaca. Ma un altro Forco da Cicerone si accenna, figlio dell’ Oceano e di Salacia, il quale, die’ egli, fu re di Corsica e di Sardegna, e vinto da Atlante in una battaglia navale e sommerso, fu detto poi da’ compagni cangiato in Dio marino..

Glauco, il quale alcuni dicono figlio di Polibio, altri di Foiba, ed altri di Nettuno, ma che di professione tutti dicono pescatore, veggendo, che i pesci da lui presi gettati sul lido al tocco di cert’ erba nuovamente balzavano in mare, volle assaggiarne, e saltando anch’ egli in mare, divenne Dio di quell’ elemento.

In modo non molto dissimile Dii del mare divennero Ino e Melicerta. Ino figlia di Cadmo e di Ermione o Armonia era moglie di Atamante. Giunone di lei nemica mandò Tisifone ad ispirar tal furore ad Atamante, che credendo in Ino vedere una lionessa, e nei due figli Learco e Melicerta due lioncini, prese Learco e raggiratolo in alto lo sbattè crudelmente sul suolo, indi si fece a inseguir Ino e Melicerta, che gettandosi in mare furono ad istanza di Venere cangiati amendue da Nettuno in Dei marini, e chiamati poscia da’ Greci co’ nomi di Leucotea e di Palemone, e da’ Romani con quei di Matusa e di Portuno.

In mostri marini furono invece trasformate le Sirene, e Scilla e Cariddi.

Le Sirene, secondo Ovidio, erano tre figlie di Acheloo e di Calliope, e chiamavansi Partenope, Ligia e Leucosia. Leonzio le vuoi figlie di Acheloo e della Musa Tersicore, e ne nomina quattro Aglaosi o Aglaope, Telciope, Pisno, ed Ilige o Ligia. Eran esse, al dir di Ovidio, compagne di Proserpina, e allorchè questa fu da Plutone rapita, e bramando di andarne in traccia per acqua e per aria, non che per terra, si vider le braccia cangiate in ali e le gambe in due code di pesce, ritenendo nel volto e nel busto la forma muliebre. Partite dalla Sicilia vennero a stabilirsi nell’ Isola di Capri rimpetto a Napoli, o in alcune isolette colà vicine, che ancor si chiamano l’ isole delle Sirene. Quivi col loro canto seduceano i naviganti e poscia li divoravano. Essendosi Ulisse alle loro insidie sottratto, elle affogaronsi in mare, e Partenope recata dall’ onde, ove fu poi fabbricata la città di Napoli, fu cagione che a questa il nome di Partenope fosse dato.

Scilla era figlio di Forco e della ninfa Cratea. Fu amata perdutamente da Glauco, il quale ricorse a Circe per ottenere da lei qualche incantesimo, onde essere da Scilla riamato. Invece innammorossi Circe di, lui, ma rimanendo esso costante nel suo amore per Scilla, Circe indispettita di vedersi posposta infettò la fonte, ove Scilla lavavasi, e con ciò fu questa convertita in un mostro, che Omero dipinge con dodici piedi, sei lunghi colli, e ad ognuno orrida testa con triplicali denti con cui divorava i passaggieri.

Cariddi fu prima una donna voracissima, che avendo rubato ad Ercole certi buoi, secondo alcuni, da lui fu uccisa, e secondo altri fulminata da Giove; e cangiata in una voragine vorticosa, che inghiottiva le navi e i naviganti, che sovra essa passavano.

Questi due ultimi mostri erano amendue nello stretto di Messina. Scilla dalla parte dell’ Italia, e Cariddi dalla parte della Sicilia.

Capo XVIII. Di Eolo, e de’ Venti. §

L’ impero dell’ aria fu da’ Mitologi assegnato, come abbiam detto, a Giove ed a Giunone, da cui dipendean le piogge e le altre meteore.

Ma il governo de’ venti fu da Giove affidato ad Eolo figlio di esso e di Acesta o Sergesta figliuola d’ Ippota troiano, ed ei rinchiusi teneali nelle spelonche delle isole Eolie, ora di Lipari.

Padre de’ venti tempestosi o delle procelle fu da Esiodo detto Tifone marito di Echidna; gli altri venti ei fece nascere da Astreo e dall’ Aurora,

I principali tra questi erano quei che spiravano da’ quattro punti cardinali del cielo, vale a dire Borea o Aquilone da tramontana, Euro da levante, Austro o Noto da mezzogiorno, Zefiro da ponente.

Zefiro fu marito di Glori o Flora Dea dei fiori; e come egli a noi porta comunemente il bel tempo, suole dipingersi in figura di alato giovinetto con faccia serena e incoronato di fiori.

Borea rapì Orizia figlia di Eretteo re eli Atene, e n’ ebbe. Calai e Zete, che liberaron Fineo re di Tracia dalle Arpie, come dirassi nella spedizione degli Argonauti.

Capo XIX. Di Plutone, e degl’ altri Dei dell’ inferito, e de’ principali condannati, che ivi erano. §

Plutone fratello di Giove e di Nettuno, a cui nella divisione accennata più addietro toccò il regno dell’ Inferno, veniva pur nominato Giove infernale, e Dite, od Orco; sebbene, Orco da Esiodo è chiamato più propriamente il Dio del giuramento, e punitore degli spergiuri.

Rapì egli Proserpina figlia di Cerere, il che da Ovidio vien raccontato in questo modo. Allorchè Giove seppellì, come è detto nel Capo III, sotto a’ monti della Sicilia Tifeo, si agitò questi sì fattamente, che Plutone temè che non si aprisse la terra; e uscì dall’ Inferno per vedere che fosse. Stava ne’ campi dell’ Enna Proserpina figlia di Giove e di Cerere colle compagne cogliendo fiori. Plutone la vidde, e ferito per consiglio di Venere dallo strale di Amore, corse a rapirla sopra il suo cocchio. Ben volle i Ciane amica di Proserpina a lui opporsi, ma fu tosto cangiata in fonte; ed ei lieto recò Proserpina all’ Inferno, di cui la fece regina, e dielle titolo di Giunone infernale. Le ricerche che ne fece Cerere, e che ne fecero le Sirene veggansi ai Capi XIV e XVII.

Venia Plutone rappresentato con volto fuliginoso, con nera barba e neri capelli, sopra un cocchio di ferro tratto da neri cavalli, e con un bidente di ferro in mano.

A lui ed a Proserpina sacrifìcavansi nere vacche o agnelle e di numero pari, laddove agli Dii celesti le vittime si offerivano io numero dispari.

Dea dell’ Inferno era pur Ecate, che alcuni confondono con Diana, altri colla stessa Proserpina, ma che Esiodo distingue da amendue, dicendola figlia di Geo, e di Febo.

Nella Tracia ed in Alene qual Dea dell’ Inferno adoravasi anche Cotitto riguardata da alcuni come la stessa Proserpina, e da altri come una Dea da lei diversa. I Sacerdoti di Cotitto chiamavansi Bapti.

Nell’ Inferno soggiornavano le tre Parche Cloto, Lachesi ed Atropo, cui Esiodo in un luogo dice figlie della Notte, e in un altro figlie di Giove e di Temi. L’ ufficio loro si era il filar la vita degli uomini. Cloto tenea la rocca, Lachesi ne traeva e torceva il filo, Atropo lo tagliava, allorchè la vita di ciascuno era giunta al suo termine.

Le tre Furie, o Dire, o Erinni, o Eumenidi, Tisifone, Megera ed Aletto, figlie dell’ Acheronte e della Notte, aveano già nell’ Inferno l’ ufficio di tormentale e punire i condannali. Persecutrice e punitrice delle colpe in questa vita era Nemesi o Adrastea figlia della Notte secondo Esiodo, e secondo altri figlia di Giove e della Necessità, che essendo particolarmente venerata in Ramno borgo dell’ Attica, ebbe il soprannome Ramnusia; persecutore, specialmente delle menzogne e degli spergiuri era Orco Dio del giuramento.

Gli Dei Mani erano una specie di geni, che presedevano a’ morti. Da alcuni furon confusi co’ Lemuri, da altri furon presi per le anime stesse de’ trapassati, e Plutone come capo e sovrano de’ Mani dai Latini era detto Summanus.

La Notte dicevasi anch’ essa tener sede giù nell’ Inferno insieme colla Morte, eoi Sonno, e co’ Sogni suoi figli. Morfeo figlio e ministro del Sonno era quello, che gli nomini addormentava, spruzzando gli occhi loro delle acque di Lete con fior di papavero. I sogni, secondo Omero, avean due porte: l’ una di corno per cui usciano i veri, l’ altra di avorio per cui i falsi.

Finalmente nell’ Inferno poneasi anche il soggiorno di Pluto figlio di Giasone, e di Cererete Dio delle ricchezze, cui malamente alcuni confusero collo stesso Plutone.

L’ inferno rappresentavasi come un luogo sotterraneo, a cui due ingressi fingevansi, l’ uno presso il lago di Averno nella Campania, ora Terra di Lavoro nella Puglia, l’ altro per una caverna del Tenaro, or capo di Marina promontorio del Peloponeso. Ovidio ne finse un terzo in Sicilia ne’ campi dell’ Enna, ove Ciane fu convertita in’ fonte.

Eranvi cinque fiumi, Acheronte, Cocito, Flegetonte o Piriflegetonte, Lete e Stige.

Acheronte diceasi figlio del Sole e della Terra e cangiato in fiume infernale, per aver fornito l’ acqua a Titani nella lor guerra contro di Giove.

Cocito riguardavasi come un ramo di Stige.

Flegetonte o Piriflegetonte, figlio di Cocito, rappresentavasi come un fiume di fuoco.

Le acque di Leto erano l’ acque dell’ oblivione, e bevute faceano dimenticare tutto il passato.

Stige era figlia dell’ Oceano, e formava, secondo Esiodo, un decimo ramo del fiume Oceano, scorrente sotterra, mentre l’ Oceano cogli altri nove girava sopra la terra. Unita a Pallante essa ebbe per figli Zelo, Vittoria, Vigore e Forza, cui presentò a Giove, e ne ebbe in compensò che il giuramento per le acque di Stige fosse inviolabile anche agli Dei, sicchè, ove taluno a quello mancasse, fosse sepolto per un anno in profondo letargo, indi escluso per altri sette anni dal consorzio e dalla mensa de’ Numi.

Caronte figliuolo dell’ Erebo e della Notte, vecchio ma di robusta e verde vecchiezza, era quegli, che traghettava su nera barca le anime di là dal fiume Acheronte. Le anime degl’ insepolti però dovean restare per cento anni sulle rive dei fiume sprima di essere tragittate, e quelle pur de’ sepolti doveano pagarne il nolo, per cui nel seppellirli poneasi loro una moneta, sotto la lingua.

Di là dell’ Acheronte era il cane Cerbero con tre teste, nato da Tifone e da Echina, ch’ era il custode dell’ Inferno.

Tre giudici, Minosse, Radamanto ed Eaco, esaminavano la vita de’ trapassati, e giusta il merito assegnavan loro il premio o la pena.

Minosse e Radamanto erano figli di Giove e di Europa, e il primo era stato innanzi re e legislatore de’ Cretesi.

Eaco era figliuolo di Giove, e di Egina, e re di Cenopia, o Enona, cui dal nome della madre chiamò Egina.

Il luogo del premio era un delizioso soggiorno detto Eliso, ove le anime dei buoni godean vita beata, e prendevano diletto di quelle occupazioni, che più aveano amate qui in terra.

Il luogo della pena era il Tartaro; e i più famosi condannati erari laggiù i Titani, Tifeo, gli Aloidi, Tizio, Flegia, Issione, Tantalo, Sisifo e le Danaidi.

I Titani e Tifeo vi furono profondati, come è già detto nel Capo III, per avere osato di far guerra a Giove.

Per la stessa cagione condannati vi furono, come si è accennato nel Capo precedente, Oto ed Efialte figli di Nettuno, e d’ Ifimedia moglie di Aloeo, e chiamati perciò Aloidi.

Tizio era figliuolo di Giove e di Elara; ma perchè questa il partorì sotto terra, ove Giove l’ aveva chiusa per occultarla a Giunone, fu detto figliuolo della Terra. Avendo voluto far violenza a Latona, fu egli ucciso da Apollo, e sepolto nel Tartaro, dove occupava collo smisurato suo corpo nove iugeri di terreno, e le viscere sempre rinascenti gli erano rose da due avvoltoi.

Flagia figliuolo di Marte e di Crise, e re de’ Lapiti, avendo incendiato il tempio di Apollo, fu da esso ucciso, e condannato a starsi perpetuamente sotto di un sasso, che sempre minacciava di rovinargli addosso a schiacciarlo.

Issione figliuolo di Flegia ammesso da i Giove alla sua mensa osò aspirare a Giunone. Giove da essa avvertitone, per farne prova gli te comparire sotto alla sembianza di Giunone una nube, cui egli corse ad abbracciare, e dalla quale poi nacquero i Centauri. Ma Giove sdegnato col fulmine lo percosse, e lo fe poi dalle furie legare giù nell’ Inferno ad una ruota circondata da serpenti e che sempre gira.

Tantalo figlio di Giove e della ninfa Piote in un convito offerto agli Dei, per fare esperimento della loro divinità, diè loro a mangiare il proprio figlio Pelope. Ma essendosene questi accorti riuniron le membra di Pelope, il richiamarono in vita; indi condannarono Tantalo giù nell’ Inferno all’ eterno tormento della fame, e della sete, ponendolo in mezzo alle acque, che gli giungono fino al mento, ma che gli fuggon eli sotto quand’ ei si abbassa per beverne, e collocandogli vicino un albero carico di frutta, ma che s’ innalzano allorchè stende la mano per coglierne.

Sisifo, figliuolo di Eolo avendo occupato l’ istmo di Corinto, infestava l’ Attica co’ suoi latrocini, e schiacciava, secondo Lattanzio, col peso di enorme sasso quelli, che gli cadeano tra le mani. Fu ucciso da Teseo, e condannato nell’ Inferno a spinger sull’ erta di un monte un gran sasso, che quando è vicino a toccare la cima, al basso nuovamente ricade. Pausania pretende che di tal pena ei sia stato punito da Giove pei’ aver ad Asopo rivelato il luogo, in cui egli teneva Egina nascosta. Ferecide disse invece, che Sisifo a dispetto di Plutone tenne per lungo tempo incatenata la Morte, finchè ad istanza dello stesso Plutone fu liberata da Marte. Demetrio intorno ad esso spacciò un’ altra favola dicendo, che vicino a morte egli ordinò alla moglie di non seppellirlo; che giunto all’ Inferno domandò a Plutone di poter per brevi momenti tornare in vita, onde punire la moglie che lo lasciasse insepolto; e che uscito dall’ Inferno con questo pretesto non volle più ritornarvi, finche da Mercurio non vi fu trailo a forza.

Le Danaidi erano cinquanta figlie di Danao re di Argo, che tutte in un giorno le maritò a cinquanta figli di Egitto suo fratello; ma avendo inteso che dai generi doveva esser privato del regno, ordinò alle figlie di uccidere la stessa notte tutti i loro mariti. Eseguiron esse l’ iniquo comandamento, eccetto Ipermestra, che salvò il marito Linceo, e perciò furon condannate nell’ inferno ad attinger acqua perpetuamente con un vaso senza fondo. Furon esse chiamate anche Belidi dal nome di Belo, padre di Danao.

Capo XX. Degli Dei stranieri. §

Oltre agli Dei fin qui rammentati, alcuni de’ quali particolari erano a’ Romani, altri comuni a’ Romani ed a’ Greci, alcuni altri i Romani adottati ne avevano pur da altre nazioni, e siugolarmente dagli Egizi.,

Tra questi erano Orride Dio principale degli Egizi, che a lui debitori credevansi dell’ agricoltura e delle leggi; Iside di lui moglie, la quale i Greci pretendeano esser la figlia d’ Iliaco da Giove prima cangiata in vacca per occultarla a Giunone, e poi dal medesimo restituita alla forma primiera, allorchè fuggendo l’ ire di Giunone si ricoverò in Egitto; Api figlio di Io, che rappresentavasi in forma’ di bue; Anubi, che figuravasi colla testa di cane; Serapide, che dai più si confonde con Osiri stesso e con Api; ed Arpocrate Dio del silenzio, che dipingevasi col dito indice alla bocca in atto appunto d’ intimar silenzio.

Parte seconda. De’ Semidei e degli Eroi. §

Semidei chiamavansi propriamente quelli che avean per padre un Dio, o una Dea per madre, ed Eroi quelli che distinti si erano con qualche grande azione. Degli uni e degli altri noi verrem qui accennando i principali.

Capo I. Di Prometeo, e di Deucalione. §

Il più antico de’ Semidei’ fu Prometeo figlio di Giapeto uno de’ Titani, e di Asia figlia dell’ Oceano.

Dotalo di astutissimo ingegno egli volle ingannar Giove stesso. Mentre accolti, dice Esiodo, in Mecona o Sicione, uomini e Numi tra lor disputavano, Prometeo mise innanzi un gran bue furbescamente diviso. Da una parte ei nascose sotto la pelle le intestina e carni coperte col ventriglio; dall’ altro le ossa coperte col grasso, e ne diede a Giove la scelta. Questi scoperse la frode togliendo il grasso, e per punire non solo Prometeo, ma gli altri uomini ancora, tolse il fuoco, e lo seppellì sotto terra. Ma Prometeo riuscì a trovarlo, ed agli uomini lo riportò in una cava ferula o sferza o come volgarmente dicesi canna d’ India.

Allora Giove sdegnato impose a Vulcano di formare una bellissima giovane, e a Minerva, a Suada, alle Grazie, alle Ore, a Mercurio di ornarla di tutti i doni, per cui fu detta Pandora, e la spedì ad Epimeteo fratello di Prometeo con un vaso, nel quale chiudevansi tutti i mali.

Accolse Epimeteo lietamente Pandora contro il consiglio di Prometeo che detto aveagli di rigettare qualunque presente gli venisse da Giove; ed avendo Pandora aperto il vaso: ne uscirono tutti i mali, che sulla, terra si sparsero, incontanente, restando la sola speranza al fondo del vaso che Pandora avvedutamente richiuse.

Nè di ciò pur contento fè Giove incatenar da Mercurio, o come altri vogliono, da Vulcano, Prometeo, sul monte Caucaso, e mandò a rodergli le sempre rinascenti viscere un avoltoio: il quale tormento Prometeo soffrir dovette, finchè da Ercole pur con assenso di Giove medesimo, non ne fu liberato.

Altri voglion però che la cagione della spedizione di Pandora e della punizione di Prometeo sia stata, che avendo questi formata una statua di argilla, salì al cielo coll’ aiuto di Minerva, e accesa al fuoco del Sole una fiaccola, con essa diede alla sua statua anima e vita.

Fu Prometeo padre di Deucalione re di Tessaglia, sotto di cui, secondo i Mitologi, avvenne l’ universale diluvio. Deucalione con Pirra sua moglie figliuola di Epimeteo, postosi in una nave, salvossi io Beozia sopra il monte Parnasso; e cessate le acque, consultando l’ oracolo di Temi sul modo di ripopolare il mondo, n’ ebbe in risposta, che si gettasse dietro le spalle le ossa della gran Madre. Comprese doversi per questa intender la Terra, e per quelle i sassi; e quindi le pietre che dietro gettossi Deucalione si convertirono in uomini, e quelle che Pirra in donne.

Gli altri animali, secondo Ovidio, rinacquero per se stessi dall’ umida terra, e fra questi il serpente Pitone che poi fu ucciso da Apollo.

Cerambo, secondo il medesimo, si sottrasse anch’ egli al diluvio, fuggendo sui monte Parnasso, cangiato dalle Ninfe in scarabeo.

Capo II. Di Ercole. §

Il più celebre fra i Semidei e gli Eroi fu Ercole figlio di Giove e di Alcmena moglie di Anfitrione, il quale era figlio di Alceo, onde ad Ercole per fu dato il nome di Alcide.

Giove per ingannare Alcmena prese la sembianza di Anfitrione medesimo, mentre questi era occupato nella guerra contro de’ Tafii e da’ Teleboi, e’ per istarsi più lungamente con lei triplicò il corso della notte.

Poco dopo sopravvenne lo stesso Anfitrione, da cui Alcmena concepì Ificlo, che nacque gemello con Ercole.

Era nel medesimo tempo la moglie di Stenelo re di Micene incinta di Euristeo. Giunone carpi da Giove il giuramento che chi nascerebbe il primo avesse impero sopra dell’ altro, indi corse ad accelerare la nascita di Euristeo, che venne alla luce di sette mesi, e ritardò quella di Ercole fino al decimo mese.

Anzi, secondo Ovidio, Alcmena pur giunta al termine stette per sette giorni fra acerbi dolori senza poter partorire, perchè Lucina ad istigazione di Giunone, in vece di favorire il parto, impedivalo stando vicino all’ ara colle mani strette fra le ginocchia. Ma Galantide ancella di Alcmena di ciò accortasi, studiosamente si mise a gridare: Alcmena pur finalmente ha partorito; il che udendo Lucina per atto di sorpresa allargò le mani, e il parto di Alcmena susseguì immantinente.

Sdegnata di ciò Giunone, dopo avere in donnola trasformata Galantide, impaziente di veder Ercole estinto, il fè assalire in culla da due serpenti, che però l’ intrepido fanciullo strangolò amendue colle proprie mani.

Riuscì allora a Minerva di placare Giunone, sicchè si arrese fin anche a nutrir Ercole col proprio latte; ed essendosi porzione di questo sparso pel Cielo, formò la Via Lattea, e dalle gocce che ne caddero in terra spuntarono i gigli.

Ma allorchè Ercole fu cresciuto, tornato Giunone all’ antico sdegno, ordinò ad Euristeo di esporlo a’ più gravi pericoli onde alla fine perisse.

Dodici sono le principali imprese, a cui Ercole fu da Euristeo obbligalo, le quali perciò comunemente son dette le dodici fatiche di Ercole.

1. Ei dovette combattere il terribil Leone figlio di Tifone e di Echidna, che infestava i contorni di Nemea o Cleone; ed avendogli colle mani squarciata la gola, gli trasse la pelle, e n’ andò poi sempre coperto per monumento della sua vittoria.

2. Pugnò nel paese di Argo coll’ Idra Lernea nata parimente da Echidna, che era un serpente di sette teste, a cui se una ne veniva recisa, immantinente rinasceva. Egli secondo alcuni, colla sua clava, le troncò tutte di un colpo, secondo altri, gliele bruciò colle faci recategli da Giolao figlio d’ Ificlo.

3. Sul monte Erimanto in Arcadia prese e vivo trasse ad Euristeo un cignale ferocissimo.

4. Inseguì per un anno intero sul monte Menalo una cerva, che aveva i piedi di bronzo e le corna d’ oro, e raggiuntala, viva portò lei pure ad Euristeo.

5. Col rumore de’ cembali di metallo prestatigli da Minerva mise in fuga sul lago Stinfalo in Arcadia gli sparvieri educati da Marte, che aveano il becco e gli ai tigli di ferro, e pasceansi di umane carni, e poscia gli uccise.

6. Sconfisse in riva al Termodonte fiume della Cappadocia le Amazoni, che la signoreggiavano sole, esclusi gli uomini, ed erano così dette, perchè recideansi la destra mamma, onde non fosse d’ impedimento al tirare dell’ arco; e fatta prigioniera Ippolita loro regina, la diede a Teseo, che gli era stato compagno in quell’ impresa.

7. Purgò le stalle di Augia re dell’ Elide dal letame accumulatovi da trenta anni, coll’ introdurvi il fiume Alfeo.

8. Condusse legato ad Euristeo un Toro che orribil guasto facea nell’ isola di Creta.

9. Vinse Diomede re di Tracia, che pasceva i suoi cavalli colle carni degli ospiti, e da’ cavalli medesimi il fè divorare.

10. Abbattè Gerione figlio di Crisaorre e di Calliroe, che avea tre corpi, e gli tolse le vacche custodite dal cane Orto nato da Tifone e da Echidna. Le donne di Eripilo insofferenti di veder condotte da Ercole queste vacche pe’ loro campi furon esse medesime cangiate in vacche.

11. Uccise il Drago custode del giardino delle Esperidi, nato anch’ esso da Echidna, e ne tolse i pomi d’ oro, o come altri dicono, li fè cogliere da Atlante, ed ei frattanto in vece di lui sostenne sulle sue spalle il cielo.

12. Per ordine di Euristeo scese all’ inferno e gli condusse incatenato il, cane Cerbero nato parimente da Echidna; e dalla velenosa bava che questi lasciò sulla terra, nacque l’ aconito.

Oltre le qui accennate, più altre imprese di Ercole si raccontano; ma egli è comari sentimento che molti Ercoli vivuti sieno in diversi tempi, sicchè Varrone ne numera fino a quarantaquattro, e che le loro azioni, per renderle più prodigiose, oltre all’ essere abbellite coll’ favole, sien pure state ad un solo attribuite.

Una delle più celebri tra queste imprese fu quella di unire l’ Oceano al Mediterraneo, separando i due monti Abila e Calpe, e formando lo stretto che or chiamasi di Gibilterra, ove Ercole per monumento piantò due colonne, su cui era scritto: Non più oltre.

Lottò con Anteo figlio della Terra, e veggendo che atterrato ei sorgeva sempre più vigoroso, levollo in aria, e il petto gli strinse colle sue braccia sì fattamente, che il soffocò.

Mentre andava a Pito, ossia Delfo con Giolao figlio d’ Ificlo, Cigno figlio di Marte volle nel bosco Pagaseo a lui opporsi, ei l’ uccise, e ferì Marte, che sopra il suo cocchio dovette fuggirsene.

I giganti Albione e Bergione pretesero di attraversargli il cammino nella Gallia Narbonese; ei dopo aver consumalo contro di loro tutte le sue saette, ottenne da Giove una pioggia di sassi, co’ quali li mise in fuga, e il luogo ebbe poscia il nome di campo lapideo, o campo di sassi.

In Pallene Telegono e Poligono figli di Proteo fortissimi atleti costringevano gli ospiti a lottar seco, e vinti gli uccidevano; Ercole con lor provandosi li superò, ed ambedue li mise a morte.

Mentre tornava dalla spedizione contro di Gerione seco guidando le vacche a lui tolte, Caco figliuolo di Vulcano alcune gliene rapì, e trattele per la coda, onde le orme indicassero contrario cammino, le chiuse in una caverna del monte Aventino, dov’ ei si; stava, Ercole sulle prime ingannato dall’ orme non seppe trovare ove si fosser le vacche involate. Ma nel partire udendo il muggito di una si accorse dov’ erano, e rovesciato nel Tevere il comignolo dell’ Aventino scoperse la grotta; indi gettatosi tra il fumo e le fiamme, che vomitava Caco dalla bocca, io soffocò, e le sue vacche ritolse. Evandro, che allor regnava sul Palatino, per gratitudine di aver purgalo il paese da quel ladrone gli eresse un’ ara, che in grande onore fu poi ancora presso i Romani col nome di Ara massima.,

Busiride tiranno di Egitto sacrificava empiamente a Nettuno suo padre i forastieri. Ercole colà recatosi il prese e l’ immolò sul medesimo altare.

Uccise l’ aquila, che rodeva le viscere a Prometeo legato sul monte Caucaso, come si è detto nel capo precedente.

Liberò Esione figlia di Laomedonte re di Troia dal mostro marino, a cui per ordine dell’ oracolo era stata esposta, come s’ è detto (Parte I Capo X.), e avendogli l’ infedele Laomedoate negato poscia i cavalli della razza di quei del Sole, che in ricompensa gli avea promessi, Ercole espugnò Troia, uccise il perfido re, e diede Esione al socio Telamone figlio di Eaco, e fratello di Peleo. Ritrasse Alceste dall’ Inferno dopo aver incatenata la morte come nel capo medesimo si è accennato, e ne liberò anche Teseo, come dirassi qui in seguito al Cap. X.

Essendogli da Tindamante re di Misia negate le vettovaglie, irritate l’ uccise, poi prese seco il giovine Ila figlio di lui per compagno nella spedizione degli Argonauti, ma essendo questi dalle Ninfe stato rapito nella Bitinia, mentre era sceso per bere al fiume Ascanio, Ercole inconsolabile l’ andò cercando per tutte quelle contrade, nè più si curò di seguire la nave Argo.

Periclimeno figlio di Neleo e fratello di Nestore, avea da Nettuno ottenuto di potersi trasformare a suo talento. Di ciò orgoglioso volle provarsi con Ercole, e con lui combattendo sotto varie forme, da ultimo cangiossi in aquila. Ma Ercole lo ferì di saetta in un’ ala, e quagli cadendo fece col peso del proprio corpo che la saetta gli penetrasse nel fianco e l’ uccidesse. Altri voglion però che sia stato Periclimeno per la sua insolenza ucciso dallo stesso Nettuno.

Il poter di cangiarsi in varie forme avea pure Acheloo figlio dell’ Oceano e della Terra, il quale venne a tenzone con Ercole. Per Deianira figlia di Eneo re di Calidania e sorella di Meleagro; atterrato da Ercole egli mutossi prima in serpente, poi afferrato da lui pel collo e vicino ad essere strozzato si cangiò in toro; ma essendogli sotto di questa forma da Ercole strappato un corno, fu alla fine costretto a cedere. Quel corno poi, dice Ovidio, che il corno divenne dell’ abbondanza; sebbene altri per corna deli.’ abbondanza intendan quelle della capra Amaltea, intorno a cui veggasi il capo III della prima parte.

Ma fu Ercole in procinto di perdere il fruito della sua vittoria; perciocchè giunto con Deianira al fiume Eveno, il Centauro Nesso offrendosi di portarla in groppa di là dal fiume, tentò di rapirla, se non che quegli avvedutosi a tempo il colpì con un dardo tinto del sangue dell’ Idra, e l’ uccise. Lasciò però Nesso a Deianira la veste intrisa del suo sangue e del veleno dell’ Idra, dandole a credere che con quella avrebbe richiamato Ercole all’ amor suo qualor le fosse infedele; ma essa invece fu poi ad Ercole cagion di morte, come tra poco vedremo.

Prima moglie di lui, giusta Omero, fu Megera figliuola di Creonte. Si accese ei poscia per Onfale regina di Litia, la quale abusando dell’ impero sovra di lui acquistato, il costrinse a trarre invece dei dardi e della clava la rocca ed il fuso.

Dopo ch’ ebbe sposata Deianira, innamorossi di Iole figlia di Eurilo re dell’ Ecalia, di che Deianira fatta gelosa gli mandò per mezzo del giovine Licia la veste tinta del sangue di Nesso, sperando di richiamarlo con questa all’ amor suo, come il Centauro le avea promesso; ma invece allorchè Ercole l’ ebbe indossata, si senti preso da un interno ardor si cocente, che furioso errando pel monte Eta, incontralo Licia, preselo per un piede, e rotatolo in alto lanciotto nell’ onde Euboiche, ove fu convertito in uno scoglio; indi costrutta una pira, su quella si abbracciò, date prima le sue saette a Filottete figlio di Paente, con ordine di seppellirle con lui, ed a niuno manifestare ove fosse sepolto.

Le favole aggiunsero poi che fu egli da Giove portato in cielo e posto nel numero degli Dei, e che ottenne quivi in isposa Ebe figlia di Giove e di Giunone Dea della Gioventù, dalla quale pur conseguì che Gioluo figlia d’ Ificlo e suo compagno in molte imprese allorchè fu giunto all’ età decrepita, fosse di nuovo alla giovinezza restituito.

Dopo la morte di Ercole, essendosi Illo, figlio di lui nato da Deianira, rifugiato in Atene presso di Teseo, Euristeo serbando verso del figlio l’ odio che nutrito avea contro del padre, andò ad assalirlo; ma da Illo medesimo in un combattimento restò ucciso e il regno di Micene passò ad Atreo figlio di Pelope, e padre di Agamennone.

Capo III. Di Perseo. §

Fu Perseo figliuolo di Giove e di Danae figlia di Acrisio re di Argo.

Avendo Acrisio inteso dall’ oracolo di aver ad essere ucciso dal figlio, che nato fosse da Danae, la fece chiudere in una torre ben custodita da guardie, perchè niun uomo se le accostasse.

Giove però convertilo in pioggia d’ oro, cioè corrompendo coll’ oro i custodi, seppe penetrar nella torre.

Appena Danae ebbe dato Perseo alla luce, Acrisio là fece chiudere insieme col figlio in una cassa, e gettar in mare, affinchè amendue perissero.

Ma questa, secondo alcuni, fu portata dall’ onde ai lidi della Puglia, ed ivi raccolta da’ pescatori e recata al re Pilunno, il quale sposata Danae, da cui ebbe Dauno (che trasferitosi nel paese de’ Rutoli e fabbricata Ardea, fu poi padre di Turno), paese per cura della educazione di Perseo.

Secondo altri, la cassa, dov’ eran Danae e Perseo, fu recata, all’ isola di Serifo una delle Cicladi nel mar Egeo, e data al re Polidette, il quale, allorchè Perseo fu cresciuto, di lui temendo, commisegli, per allontanarlo con onorevol pretesto, di andare a combatter Medusa una delle Gorgoni, figlia di Foreo e di Ceto, e regina delle isole Gorgadi, ora del Capo Verde, nel mare Atlantico.

Erano stati a Medusa i capelli cangiati da Pallade in serpenti, perchè nel tempio di lei erasi data in braccia a Nettuno, e chiunque la riguardava ne rimanea petrificato.

Per vincerla ebbe Perseo da Mercurio i talari o coturni alati, da Vulcano una spada adamantina, da Plutone l’ elmo, e da Pallade uno scudo, che risplendea a guisa di specchio.

Giunto ov’ era Medusa, stando egli sospeso in aria, e guardando, l’ imagine di Medusa, nello scudo di Pallade, colla spada di Vulcano troncolle il capo.

Dal sangue che ne sgorgò nacque Crisaorre, che fu poi padre di Gerione, e il cavallo Pegaso, che in Elicona aprì con un calcio il fonte Ippocrene; e dalle gocce sanguinose, che caddero ne’ deserti di Libia; allorchè Perseo venne sopr’ essi volando col capo di Medusa, nacquero i serpenti, onde quella fu poi sì feconda.

Giunto in Mauritania, essendogli negato l’ ospizio, dal re Atlante, col presentargli il capo dì Medusa lo convertì nel monte dello stesso nome., il quale per la sua altezza si disse poi sostenere il cielo: sebbene altri sieno di opinione che Atlante siasi detto portare il cielo, perchè era assai studioso dall’ astronomia.

Passò in Etiopia, dove Andromeda figlia di Cefeo e di Cassiopea per ordine dell’ oracolo era esposta ad essere divorata da un mostro marino, colà mandato dalle Nereidi, perchè Cassiopea avea avuto l’ orgoglio di loro anteporsi in bellezza. Perseo, ottenuta promessa da’ Genitori, che Andromeda sarebbe stata sua sposa, uccise il mostro, e posato il teschio di Medusa coperto di un velo sopra le piante marine, che ivi erano, e che furon convertite in coralli, disciolse Andromeda, e seco la guidò salva alla reggia.

Ma Fineo fratello di Cefeo, a cui Andromeda era stata innanzi promessa, pretese di averla; e nata quindi grave contesa, Perseo dopo avere uccisi vari delle genti di Fineo, scoprendo il capo di Medusa petrificò tutti gli altri pur con Fineo medesimo.

Tornato con Andromeda in Grecia, col medesimo teschio tramutò in sasso Preto; che avea cacciato Acrisio dal regno di Argol, indi Polidette, che invidioso della gloria di lui, cercava per ogni maniera di diffamarlo, e per ultimo Acrisio stesso, che imprudentemente nel capo di Medusa si affissò.

Fu indi Perseo unitamente ad Andromeda, Cefeo e Cassiopea portato incielo, ove tutti e quattro fra le costellazioni vennero collocati.

Capo IV. Di Bellerofonte. §

Bellerofonte figlio di Glauco re di Efìra o Corinto e di Eurimede, e nipote di Sisifo fu prima chiamato Ipponoo, perchè abilissimo domator di cavalli, e poscia coll’ uccisore di Bellero, che pretendea farsi tiranno di Corinto, acquistò il nome di Bellerofonte.

Trovandosi alla corte di Preto, che scacciato Acrisio, erasi fattore degli Argivi, la moglie di lui detta da Omero Antea, da altri Stenobea si accese di Bellerofonte, e non potendolo trarre ai suoi desideri, l’ accusò presso il marito quasi avesse tentato di violarla.

Preto non osando per ospitalità ucciderla in casa propria, lo spedì ad Ariobate o Giobate suo suocero nella Libia con lettere, in cui raccomandavagli di trovar mezzo, onde farlo perire.

Giobate lo mandò prima, a guerreggiar contro i Solimi, indi contro le Amazoni; ma essendo di queste guerre uscito sempre vittorioso, lo spedì per ultimo a combattere la Chimera, che infestava il monte della Licia del medesimo nome.

Era la Chimera un mostro nato da Tifone e da Echidna col capo e il petto di leone, il ventre di capra, e la coda di drago, e che fuoco vomitava dalla bocca.

Bellerofonte, ottenuto da Nettuno il cavallo Pegaseo, con esso andò coraggioso ad assalire il mostro è l’ uccise.

Allor Giobate ammirando il valore di lui, non solo con esso pacificossi, ma gli diede pure Achemene sua figlia dalla quale Bellerofonte ebbe Issandro, Ippoloco e Leodamia, che amata da Giove fu madre poi di Sarpendone, e Stenobea disperata all’ udir queste nozze di propria mano si uccise.

Avendo poi Bellerofonte col cavallo Pegaso tentato a salire in cielo, Giove mandò l’ assillo a tormentare il cavallo per modo, che si scosse Bellerofonte di dosso, e precipitollo nel campo, che fu detto Aleio, ed ei solo volò su in cielo, ove fu posto fra le costellazioni.

Delle figlie di Preto, e di Stenobea disser le favole, che avendo osato di paragonarsi a Giunone furon punite colla mania di credersi cangiate in vacche, e ne furono poi guarite da Melampo, il quale sposò una di esse, e diede l’ altra a Biante suo fratello.

Capo V. Di Meleagro, della caccia del cignal Calidonio, d’ Atalanta, e d’ Ippomene. §

Meleagro era figlio di Oeneo Re di Calidone, e di Altea figlia di Testio.

Al suo nascere le Parche misero un tizzone sul fuoco, dicendo che tanto sarebbe durata la vita di lui, quanto il tizzone, il che udendo la madre ritrasse il tizzone dal fuoco, e gelosamente il nascose.

Cresciuto che fu Meleagro, avvenne, che Oeneo offrendo per l’ ottenuta fecondità delle campagne solenni sacrificj a tutti gli Dei, dimenticò di offerirne a Diana, di che essa sdegnata spedì a disertar le campagne di Calidonia un mostruoso cignale.

Per combatter questo mostro invitar si dovettero tutti gli Eroi più famosi, fra i quali Apollodoro annovera, oltre a Meleagro, Driante figlio di Marte, Ida e Linceo figli d’ Afareo, Castore e Polluce figli di Giove e di Leda, Admeto Re di Tessaglia, Teseo figlio d’ Egeo, Pirotoo figlio d’ Issione, Giasone figlio d’ Esone, Ificlo figlio d’ Anfitrione, Peleo e Telamone figli d’ Eago, Euritione padre d’ Alcmena, Anfiarao figlio d’ Oileo, Atalanta figlia di Scheneo, a quali Ovidio aggiunge Adrasto Re di Argo, Laerte padre d’ Ulisse, Nestore figlio di Peleo, Tosseo e Plessippo fratelli d’ Altea, e parecchi altri.

Prima a ferire il cignale fu Atalanta; ma la gloria d’ ucciderlo fu riserbata a Meleagro

Volle egli, però ad Atalanta offerirne in ricompensa il capo e la pelle; e opponendosi a ciò fieramente gli Zii Tosseo e Plessippo, egli adirato gli uccise.

Ma fu questa uccisione cagione della sua morte; perocchè Altea di ciò irritata, rimise il tizzone sul fuoco, e a misura che questo andò consumandosi, egli pur divorato da interno ardore finì la vita.

Pentissi Altea, ma troppo tardi, e per disperazione s’ uccise; e le sorelle di Meleagro la morte di lui piangendo furon cangiate in uccelli, che il nome ebbero di Meleagridi.

Atalanta ricercata da molti alle nozze che abborriva, promise alla fine che data avrebbe la mano a chi lei avanzasse nel corso, con questa legge però, che raggiugnendoli fosse in poter suo l’ ucciderli.

Ippomene figlio di Macareo per superarla ottenne da Venere tre pomi d’ oro colti nell’ isola di Cipro, e lasciandosi questi cadere l’ uno dopo l’ altro, mentre Atalanta si perdette a raccoglierli, giunse ad avanzarla. Il premio della vittoria fu Atalanta, che Ippomene sposò; ma scordatosi egli, di renderne grazie a Venere, questa spinse li due amanti a profanare il tempio di Giove, o, secondo molti, di Cibele, che per vendicarsene li mutò in lioni, e gli attaccò al suo carro.

Capo VI. Di Cadmo, e di Anfione. §

Cadmo figlio di Agenore re di Fenicia e di Telafasse, e fratello di Europa, allorchè questa fu rapita da Giove, ebbe ordine dal padre di andarne in traccia per ogni parte, nè ritornare senza di lei.

Venne egli nella Focide a consultare l’ oracolo, di Delfo, onde avere notizia dov’ ella fosse; ma ebbe in risposta di non cercarne più oltre, e di fabbricare in vece una città nel luogo, ove un bue l’ avrebbe condotto.

Arrestatosi nel luogo indicato dal bue spedì i compagni ad attigner acqua alia fontana di Marte, e questi vennero tutti quanti divorati da un drago.

Desolato per una tal perdita fu confortato dar Minerva a combattere il drago, e seminare i denti colla promessa che nati di là sarebbono altrettanti uomini.

Sursero questi di fatto, e tutti armati ma incominciarono tosto a distruggersi fra di foro, nè altri rimasero fuori di cinque soli: i quali però bastaron ad aiutarlo nella edificazion di Tebe, che fu poi capitale della Beozia, così detta in memoria del bue sopraccennalo.

Ebbe Cadmo da Ermione o Armonia figlia di Marie e di Venere quattro figlie, vale a dire Semele, che fu poi madre di Bacco, ma incenerita dal fulmine di Giove; Ino madre di Melicerta, che fuggendo le furie di Atamante, dovette gettarsi in mare; Autonoe madre di Atteone, che fu da Diana cangiato in cervo: ed Agave madre di Penteo, cui ella medesima uccise in compagnia delle Baccanti.

Addolorato per queste sciagure di sua famiglia ed aggravato dagli anni, Cadmo insieme con Ermione allontanossi da Tebe, e andò nell’ Illirico, dove chiedendo agli Dei di essere trasformalo in ciò ch’ era stato il principio di sue avventure, fu insieme con Ermione tramutato in serpente.

Succedette a lui nel regno di Tebe il figlio Polidoro avuto similmente da Ermione; ma per essersi opposto a Bacco, in breve tempo anchi’ ei ne fu discaccialo.

Mancavano a Tebe le mura, delle quali Cadmo e i suoi successori Polidoro e Labdaco non l’ avean recinta: e queste furono poi fabbricate da Anfione, il quale secondo le favole al suon della lira trasse le pietre a soprapporsi l’ una all’ altra spontaneamente.

Era Anfione figlio di Giove e di Antiope figlia di Asopo e moglie di Lico; il quale usurpato avea il trono di Tebe. Questi vedendola incinta la ripudiò, e prese Dirce, la quale temendo che Antiopi tornar potesse in grazia del marito, ottenne di tenerla rinchiusa in una stretta prigione.

Fu però Antiopa liberata da Giove, e ricoveratasi sopra il monte Citerone, ivi partorì Anfione e Zeto, i quali cresciuti in età ucciser Lieo, s’ impadroniron di Tebe, e legarono Dirce ad un furioso toro, che trascinandola la fece a brani, finchè dagli Dei per compassione fu can giata nel fiume Dirce, che non lungi da Tebe entra nel fiume Ismeno.

Capo VII. Di Edipo, de suoi figli, e della guerra di Tebe. §

Edipo era figlio di Laio figliuolo di Labdaco re di Tebe e di Giocasta o Epioasta, come è detta da Omero, figliuola di Creonte.

Avendo Laio udito dall’ oracolo, che doveva essere ucciso dal figlio, di cui Giocasta era incinta, le ordinò di soffocarlo appena nato. Ma non avendo ella cuore di eseguir per se stessa il barbaro comandamento, diè il figlio nelle mani di un soldato, che recatolo in un bosco e foratigli i piedi, attraversando per essi un vinciglio il lasciò sospeso ad un albero.

Fu là trovato da Forba pastore di Polibio re di Corinto, e portatolo, alla regina Merope la quale ne prese cura, e dalla gonfiezza de’ piedi lo chiamò Edipo.

Fattosi adulto udendo di non esser figlio di Polibio andò a consultar l’ oracolo di Apollo per aver contezza de’ suoi parenti, ed ebbe in risposta di non ritornare nella sua patria, perchè vi avrebbe ucciso il padre, e sposata la madre.

Credendo che l’ oracolo parlasse di Corinto se ne esigliò volontariamente, e risolse di andare in Beozia.

Giunto nella Focite, mentre in una contesa tra i Focesi ed i forestieri ei volle prender le parti di questi, uccise senza conoscerlo il proprio padre, che a favore di quelli si era intromesso. Altri dicono che l’ uccidesse, mentre in un angusto sentiero del monte Citerone Laio volle arrogantemente costringerlo a cedergli il passo.

Di là arrivato a Tebe trovò di paese infestato dalla Sfinge, mostro nato da Tifone e da Echidna, che avea la testa, e il petto di donna, il corpo di cane, de zampe di leone, la codardi drago, e le ali di uccello.

Abitava ella nel monte Ficeo, e lanciandosi sui passaggieri proponea loro un enimma, cui se non sapessero sciogliere, li divorava.

Creonte padre di Giocasta promise il regno di Tebe, di cui frattanto avea preso il governo, e la vedova di Laio in isposa a chi sciogliesse l’ enimma, e perir facesse la Sfinge, poichè era destino, che questa dovesse morire sì tosto, che l’ enimma da alcuno fosse disciolto.

Presentossi Edipo, e la Sfinge gli domandò qual fosse l’ animale, che avea quattro piedi al mattino, due al mezzogiorno, e tre la sera.

Edipo rispose esser l’ uomo, che in fanciullezza si strascinasti quattro piedi, in età adulta cammina con due, e in vecchiaia si appoggia al bastone come terzo piede.

La Sfinge allor cadde estinta, e giusta la promessa Edipo ebbe il regno di Tebe, e Giocasta in isposa, cui non sospettò essergli madre, e da essa gli nacquero i due gemelli Eteocle e Polinice, e le due figlie Antigone ed Ismene.

Ma sopravvenne in Tebe alcuni anni dopo un orribile pestilenza, la quale, disse l’ oracolo di Delfo su ciò consultato, che non sarebbe cessata, finche non fosse de Tebe esigliato l’ uccisore di Laio.

Or mentre Edipo si occupa premurosamente a farne ricerca, venne a scovrire non solamente che l’ uccisore di Laio era stato egli medesimo, ma di più che Laio era suo padre, e Giocasta sua madre.

Preso da orrore al vedersi tutto ad un tempo reo di parricidio e d’ incesto; si Cavò gli occhi per non veder più la luce, mentre Giocasta egualmente inorridita si appiccò da se stessa; poi datosi ad un volontario esiglio, nel quale la figlia Antigone volle accompagnarlo., andò a morire in Atene.

I due gemelli Eteocle e Polinice o per ordine del padre, come alcuni vogliono, o spontaneamente convennero fra di loro di regnare alternatamente un anno per ciascheduno: ma Eteocle, prese le redini del governo, ricusò di più cederle al fratello, e lo costrinse a ricoverarsi presso di Adrasto re degli Argivi.

Avea Adrasto due figlie Argia e Deifile; e parevagli in sogno che la prima ad un leone si maritasse, e la seconda ad un cignale. Or mentre turbato da questo sogno cercando andavane il significalo, comparvero alla sua corte da un canto Polinice coperto di una pelle di leone, e dall’ altro coperto di una pelle di cignale, Tideo figlio di Eneo re di Calidone, che ucciso sgraziatamente il fratello Menalippo, di là fuggiva.

Parve ad Adrasto che questi fossero il leone e il cignale indicati dal sogno, e data Argia a Polinice, e a Tideo Deifile, assunse pure l’ impegno di, rimettere Polinice nel regno.

Spedì quindi Tideo ad Eteocle per intimargli di cederlo secondo il patto; ma Eteocle dopo un superbo rifiuto fece pure dalle sue genti comandate da Licofonte e Meone tendere a Tideo un agguato per, assassinarlo al ritorno.

Non atterrito Tideo dal numero degli assalitori, ad essi valorosamente opponendosi tutti gli uccise eccetto Meone, cui rimandò ad Eteocle per recargli il tristo annunzio.

Ma irritato Adrasto al rifiuto e alla nuova perfidia di Eteocle, adunò incontanente il fiore de’ suoi eserciti sotto la guida di sette illustri capitani, i quali erano Adrasto medesimo, Pollinice, Tideo, Ippomedonte, Capaneo, Anfiarao e Partenopeo, e con questi si mosse contro di Tebe.

Anfiarao però, ch’ era della famiglia dell’ indovino Melampo, e prevedeva di dover sotto a Tebe perder la vita, erasi nascosto per sottrarsi a quell’ impresa, ma la moglie Erfile sorella di Adrasto vinta da Argia moglie di Polinice col presente di un aureo monile lasciato da Ermione, scoperse il luogo dov’ ei celavasi; ed ei costretto ad andarvi, lasciò ordine al figlio Alcmeone, che quando udisse la morte di lui, uccidesse l’ infedele Eri file per vendicarlo.

Funestissima ad ambe le parli riesci la guerra di Tebe, poichè Tideo dopo molte valorose prove fu ucciso dal tebano Menalippo; Capaneo sprezzatore degli Dei, mentre scalava le mura di Tebe, venne fulminato da Giove; Anfiarao fu col suo carro dalla terra inghiottito; Ippomedonte e Partenopeo caddero anche essi estinti; ed. Adrasto perduti i suoi capitani e gran parte delle sue genti dovette tornarse scornato in Argo.

Più che a tutt’ altri però fattale fu quella guerra a’ due nemici fratelli. Fino avanti al loro nascere avea detto Giocasta di averli sentiti nell’ utero pugnar tra loro: e ben mostrarono appresso fino a qual segno il fraterno odio arrivar possa, ove sia dall’ ambizione e dall’ interesse aizzato. Incontratisi corpo a corpo nella mischia con tale accanimento, pugnaron essi l’ un contro l’ altro che amendue scambievolmente, si uccisero; ed essendo i loro corpi stati posti sopra, il medesimo rogo, le fiamme, che circondavano l’ uno e l’ altro si separarono, come se nemmeno in morte, soffrissero distar congiunta quelli, che in vita stati erano così divisi.

Nè le triste conseguenze di quella guerra finirono colla; loro morte. Perciocchè avendo Creonte, il quale prese il governo di Tebe, vietato che gli Argivi si seppellissero, fu ucciso da Teseo; e Alcmeone eseguito il fiero comandamento paterno coll’ uccisione della madre, fu per lungo tempo agitato dalle furie; indi avendo sposata prima Alfesibea figlia di Fegeo, e poi Calliroe figlia di Acheloo, andando per togliere a quella il fatai monile, che areale recato per presente di nozze dai fratelli di lei Temeno ed Assieme fu trucidato; e questi lo furon poi da Acarnone e Anfotero figli di Alcmeone, e di Calliroe, i quali essa ottenne, che ancor fanciulli giugnessero immantinente all’ età matura per vendicar la morte del padre.

Capo VIII. Di Giasone e degli Argonauti, singolarmente di Chirone, di Calai e Zete, di Castore e Polluce, e di Orfeo. §

Giasone ora figlio di Esone re di Iolco nella Tessaglia, e di Alcimede o Polimila.

Pelia fratello di Esone dopo averlo detronizzato cerco di far perire anche Giasone; ma Alcimede ebbe modo di salvarlo, e di farlo segretamente educare sul mente Pelio dal Centauro Chitone.

Cresciuto Giasone venne per ripetere il regno paterno; ma Pelia non osando opporglisi apertamente cercò destramente di allontanarlo, animandolo alla grande impresa della conquista del vello d’ oro, il quale veniva riputato come sicuro pegno della prosperità dello stato che il possedesse.

Era questo la pelle del montone, su cui Frisso ed Elle, figli di Atamante re di Tracia e di Nefele, fuggendo le persecuzioni della madrigna Ino, si argomentarono di passare lo stretto, che or chiamasi dei Dardanelli. Ma spaventati dai flutti Elle cadde nel mare, e diede a quello stretto il nome di Ellesponto; Frisso giunto all’ opposta riva n’ andò col montone a Coleo; dove sacrificollo a Giove (il quale poi lo trasportò in cielo nel segno dell’ ariete), e ne sospese la pelle, che avea la lana d’ oro, in un bosco consegrato a Marte; ove sfavasi custodito da un drago, e da due tori spiranti fuoco dalla bocca e dalle nari.

Per questa spedizione Giasone invitò gli Eroi più famosi, che allor vivessero. Argo figlio di Alettore co’ legni del monte Pelio, e con una quercia tolta alla selva Dodenea formò la nave, che da’ Poeti fu celebrata come la prima nave, che fosse costruita, e le diede il suo nome; Tifi ne fu il piloto; i compagni di Giasone furon tra gli altri il sudetto Chirone i due fratelli Castore e Polluce, i fratelli alati Calai e Zete figli di Borea e di Orizia, il poeta Orfeo. Plutarco vi aggiugne ancora Teseo, del quale altri tacciono: e unito crasi ad essi ancor Ercole; ma perduto Ila nella Misia, ivi poi si rimase per ricercarlo.

Giunti gli Argonauti all’ isola di Lenno trovaronla abitata da sole donne: perocchè esse, onde vivere in lor balìa, uccisi avevano tutti gli uomini. La regina Issipile però la quale meno inumana delle altre salvata avea furtivamente il padre suo Toante, accolse ospitalmente Giasone, e a lui pure congiunta n’ ebbe due figli Toante ed Euneo.

Seguendo il loro viaggio arrivarono gli Argonauti in Tracia, dove istruiti furono dal re Fineo del modo onde superare gli scogli Cianei o Simplegati, che urtandosi fra di loro impedivano l’ uscita dal Bosforo: in ricompensa di che Giasone ordinò agli alati figli di Borea di scacciare le Arpie, che lordavano le mense di Fineo, e questi le inseguirono fino alle isole Piote, che poi furono dette Strofadi ora Strivali.

Era Fineo, secondo alcuni, figlio di Agenore, e secondo alcunti, figlio di Agenore, e figlio di Fenice e di Cassiopea. Sposò in prime nozze Cleopatra, che altri chiamarono Stenobra o Stenoboe, da cui ebbe Orito e Crambo Dopo la morte di lei in seconde nozze menò Arpalice figlia di Borea e di Orizia ad istanza; di cui acciecò i figli, che dalla prima avea avuti. In pena di ciò gli Dei acciecaron lui stesso, e ad infestarlo mandarono le Arpie Aello e occipete, a cui Virgilio aggiunge Celeno figlia di Taumante e di Elettra. Erano queste mezze donne, e mezzo uccelli, che divorando e lordandogli tutti i cibi, ridotto avrebbon Fineo a perir di fame, se opportunamente da Calai e Zette non fossero state scacciate.

Approdato a Colco presentossi Giasone al re Eta chiedendo il vello d’ oro, ma questi risposegli che per averlo convenivagli prima domar due tori spiranti fiamme e sottoporli al giogo poi seminare i denti del drago ucciso da Cadmo, che ad Eeta erano stati mandati da Pallade e Marte, e vincere gli uomini che ne sarebbero nati; per ultimo uccidere il drago custode del vello.

Giasone ebbe l’ arte d’ innammorare Medea figlia di Eeta, la quale essendo maga gli fornì l’ erbe incantate, onde domare i tori e addormentare il drago, e l’ avvertì che lanciando un sasso contro degli uomini armati sorti da’ seminati denti, quelli sarebbonsi l’ un contro l’ altro rivolti, e tra loro uccisi.

Ciò tutto avvenuto e impossesatosi Giasone del vello d’ oro, se ne parrì coi compagni è con Medea, la quale prevedendo che dal padre sarebbe stata inseguita, prese il barbaro partito di fare a pezzi il fratello Absirto, gettarne sulla strada de sparse membra, acciocchè il misero padre occupato a raccoglierle ritardato venisse nel suo inseguimento.

Risalita la nave, gli Argonauti, per non ripassare gli scogli Gianei, entrarono; secondo alcuni, nelle foci dell’ Istro o Danubio, e se ne venner contr’ acqua fino a’ monti della Liburnia, di dove trasportata la nave per terra nell’ Adriatico, per esso e pel mare Ionio se ne tornarono a Ioleo. Fu chi aggiunse che prima di arrivarvi essi vennero dalla tempesta sbattuti ai lidi dell’ Africa; Omero accennò pure che superarono essi ih passaggio alle pietre erranti vicino a Scilla e Cariddi, e che in questo pericoloso passaggio aiutali furono da Giunone; ma come non sì saprebbe determinare ove fosse un tal passaggio, sembra che l’ immaginazione di Omero abbia voluto qui trasportare quello degli scogli Cianei.

In Iolco Medea ringiovenì il vecchio Esone padre di Giasone con trargli il sangue dalle vene, e nuovo sangue creargli co’ suoi sughi incantati, e bramando le figlie di Pelia, che altrettanto facesse al padre loro prescrisse a queste di ucciderlo, e farlo bollire in una caldaia, promettendo che con sue erbe l’ avrebbe fatto rinascere giovane; ma invece sopra di un carro tirato da dragoni se ne fuggi a Corinto, dove Giasone trovavasi.

Giasone erasi quivi acceso di Glauce figlia del re Creonte, di che Medea irritata finse per più sicura vendetta di esser contenta ch’ egli passasse alle nuove nozze, e fe pure in suo nome presentare a Glauce una bellissima veste; ma come questa era avvelenata così appena Glauce se l’ ebbe posta, andò essa a fiamme con tutta la reggia.

Ne paga di ciò Medea, per isfogare vie più il suo furore scannò atrocemente sotto agli occhi di Giasone medesima i due figli che da esso avea avuti, indi salita sul carro tirato da’ draghi fuggì in Atene, ove divenuta moglie di Egeo padre di Tesèo partorì Medo, che poi diede il nome alla Media.

Chirone nacque da Fillira figlia dell’ Oceano congiunta a Saturno, il quale sorpreso dalla moglie Rea, per occultarsi, cangiossi in cavallo. Fu quindi Chirone rappresentato come Centauro, cioè mezzo uomo e mezzo cavallo.

Dicesi ch’ egli fosso gran conoscitore delle stelle, ed espertissimo nel tirar di arco e nel sonar la lira, nelle quali arti istruì Giasone ed Achille, che l’ uno da Alcimede, come abbiam detto, l’ altro da Tetide gli furon dati ad allevare.

Fu anche dottissimo in medicina, nella quale ammaestrò Esculapio affidatogli da Apollo; e la cognizione che egli avea delle stelle fu di grandissimo giovamento agli Argonauti nel lor viaggio.

Mentre stava esaminando le saette di Ercole tinte dal sangue dell’ Idra, una che a caso il ferì gli creò tal dolore, che desiderò di morire e fu trasportato in cielo nella costellazione del Sagittario: le quali cose mentre la figlia Ociroe, ch’ era indovina, gli stava vaticinando, fu al dir di Ovidio tramutata in cavallo.

Castore e Polluce nacquero, secondo le favole, da due uova partorite da Leda; ma l’ un di questi contenente Polluce ed Elena era stato fecondato da Giove cangiato in cigno, l’ altro contenente Castore, e Clitennestra avea avuta la fecondazione da Tindaro re dell’ Ebalia, marito di Leda. Quindi è che Polluce era immortale, e mortale era Castore. Polluce però, onde aver col fratello una sorte comune, ottenne da Giove che a vicenda l’ uno morisse, e risorgesse l’ altro. Furono poi trasportati in cielo amendue nella costellazione de’ Gemelli, ed ebbero amendue il nome comune di Dioscuri, cioè figli di Giove, e di, Tindaridi, cioè figli di Tindaro; e in somma venerazione erano entrambi, presso de’ naviganti, perchè il loro apparire dicevasi portator del bel tempo.

Polluce erasi reso celebre nella lotta e bel combattimento de’ cesti, co’ quali uccise Amico, tenuto prima invincibile, Castore si distinse nei matteggio de cavalli.

Orfeo figlio, secondo alcuni, di Apollo, e secondo altri, di Onagro re di Tracia e della Musa Calliope, fu a tempi suoi insigne musico e poeta, ed uomo eloquentissimo; e come seppe ammansare la ferocia de’ Traci allor selvaggi, e trarli al vivere socievole, fu detto dalle favole, che al suono della sua lira traeva le piante e le fiere, ed arrestava il corso de’ fiumi.

Fu egli sposo di Euridice, ed essendo questa, caduta estinta per morsicatura di un serpente nell’ atto che fuggiva da Aristeo, egli scese all’ inferno per riacquistarla.

Seppe infatti col suo canto cosi intenerire gli Dei Infernali, che gli permisero di ricondurla, a patto però di non volgersi a guardarla, finchè dall’ Inferno non fosse uscito, mai la sua impazienza il tradì, ed Euridice gli fu ritolta.

Allora andò egli solitario i pe’ boschi piangendo continuamente la sua perdita, nè amore, di donna più il potè muovere; di che indispettite le madri de’ Ciconi lo fecero a brani, e il capo ne gettarono nel fiume Ebro.

Questo, secondo Ovidio, fu portato a Lesbo, dove un serpente che avvenissi per morderlo venne da Apollo cangiato in sasso, e le donne omicide furon da Bacco mutate in piante.

Capo IX. Di Minosse, e di Dedalo. §

Due Re di Creta ebbero il nome di Minosse. Il primo figlio di Giove, e di Europa e fratello di Radamanto, fu legislalor de’ Cretesi, e per meglio accreditar le sue leggi dicea di averle ricevute da Giove stesso. Dopo la sua morte ei fu in compagnia di Radamanto e di Eaco fatto giudice dell’ inferno.

Il secondo figlio di Licasto e di Ida, figlia di Coribante e nipote del primo ebbe in moglie Pasifae figlia del Sole e di Perseide la quale furiosamente innamoratasi di un toro, partorì il minotauro mezzo toro e mezzo uomo.

Essendogli stato dagli Ateniesi per ordine di Egeo assassinato il figliò Androgeo, dopochè nelle feste Panatanee era riuscito vincitore in tutti i giuochi, armossi egli contro di loro, e giunto prima a Sitone ottenne coll’ oro che la città gli fosse venduta da Arne figlia del re, che fu quindi caugiata in mulacchia; indi posto l’ assedio a Nisa chiamato poscia Megara, Scilla figlia del re Niso di esse innammoratosi recise al padre addormentalo un crine purpureo, al quale era annesso il destino di Nisa, per la qual cosa ella fu poi tramutata in lodola, e Niso in avvoltoio che ognor l’ insegue.

Vinti alla fine gli Ateniesi, Minosse impose loro la cruda condizione, che ogni sette anni spedir gli dovessero tratti a sorte sette giovani e sette donzelle, cui dava nel laberinto fabbricato da Dedalo in pasto al Minotauro, il quale fu poi ucciso da Teseo.

Dedalo, figlio d’ Imessione, nipote di Eupolemo, pronipote di Eretteo re di Alene, fu ingegnosissimo artefice, ma avendo tolto ad istruire Gelo figlio, di Perdice sua sorella il quale mostrava di voler superarlo (perciocchè giunto da se medesimo era già ad inventare la sega, il torno, la ruota dei vasi, ed altri ingegnosi istrumenti.), mosso da invidia precipitollo dalla rocca di Minerva, che poi lo cangiò in pernice.

Rifugiatosi perciò Dedalo in Creta ivi fu accollo da Minosse, per ordin di cui fabbricò il laberinto, luogo d’ intralciatissime strade, per le quali chiunque vi era introdotto più non trovava l’ uscita.

Favorì egli dappoi gli amori di Pasifae inchiedendola in una vacca di legno, e fornì ad Arianna figlia di Minosse il filo, con cui Teseo, ucciso nel laberinto il Minotauro, potè strigarsene, e fuggir poscia con Arianna medesima, e con Fedra di lei sorella.

Ciò risaputo, Minosse fe chiudere lo stesso Dedalo col figlio Icaro nel labirinto, e custodirne in modo le porte, che non potesse fuggirne.

Dedalo allora procacciatesi delle penne, le unì con cera, e ne formò due ali a se, ed al figlio, colle quali deluse i custodi fuggendo a volo.

Ma il giovin Icaro di quel volo invaghito, contro gli avvertimenti del padre, volle levarsi troppo alto, sicchè squagliatasi al calor del Sole la cera, le penne gli caddero, ed ei privo di quelle precipitò vicino all’ Isola di Samo nel mare, che da lui prese il nome d’ Icario. Dedalo invece sempre tenendosi a mezz’ aria, arrivò salvo, secondo Virgilio, a Cuma, e secondo altri in Sicilia presso Cosalo re di Agrigento, dove andato Minosse per riaverlo a forza, fu prima da Cocalo accolto amichevolmente, poi soffogato in un bagno caldo.

Capo X. Di Teseo, e di Piritoo. §

Teseo nacque in Trachine da Etra figlia del re Pitteo, la quale congiunta prima a Nettuno si unì poscia ad Egeo, re di Atene, onde fu Teseo tenuto da alcuni per figlio di Nettuno, e da altri per figlio di Egeo.

Questi nel partir da Trachine per ritornarsene ad Atene, seppellì in presenza di Etra sotto ad un gran sasso una spada, ordinandole, che, se nascesse da lei un maschio allorchè fosse in grado di rimovere il sasso e pigliarne la spada, glielo mandasse.

Teseo di questa spada fornito, emulando le glorie di Ercole, si diede prima, com’ esso, a purgare la terra da’ mostri, e dagli uomini malvagi.

Trasse a morte vicino a Maratona il terribile toro, che Ercole avea condotto da Creta ad Euristeo, e che questi avea mandato a devastazione dell’ Attica, e a Grondone il porco che disertava le campagne di Corinto.

Uccise in Epidauro il ladrone Perifeta figlio di Vulcano, detto pur Cornista dalla clava ond’ era armato; in Eleusi Cercione, che sfidava i passaggieri alla lotta, e vinti o ricusanti di combattere li uccideva; nell’ istmo di Corinto il gigante Sine, che piegando due pini a terra ed attaccandovi gli uomini, col rilasciare i piai faceva gli uomini in quarti; presso Megara Scirone, che appostato sopra uno scoglio gettava in mare i viandanti che si avvenivano su quella strada; presso ad Ermonia il gigante Damaste detto Procuste, che faceva stendere gli ospiti sul proprio letto, e tagliava loro le gambe, se fuori sopravvanzavano, o stiravali a forza, se non arrivavano alla misura del letto.

Vuolsi pure che in Tebe egli abbia ucciso Creonte, il quale vietava di seppellire gli Argivi morti in quella guerra; e avendo accompagnato Ercole nella spedizione contro le Amazoni, ebbe da esso Ippolita, o come altri dicono, Antiopa, dalla quale nacque Ippolito.

Aveva prima rapito Elena figlia di Giove e di Leda; ma questa gli fu prontamente ritolta da Castore e Polluce di lei fratelli.

Giunto finalmente ad Atene, dove Medea era divenuta moglie di Egeo, corse grave pericolo di esser vittima della malvagità di questa donna, perciocchè o temesse di lui o d’ esso accesa ne fosse respinta, indusse Egeo a porgergli una tazza avvelenata. Ma nel presentarla riconobbe Egeo la spada che sepolta avea sotto del sasso, e gettata la tazza abbracciò Teseo’ come suo figlio.

Erano gli Ateniesi per l’ uccisione di Androgeo figlio di Minosse stati da lui sottomessi, come abbiam detto, alla barbara condizione, che ogni anno mandar gli dovessero tratti a sorte sette giovani e sette donzelle, che davansi in pasto al Minotauro.

Uno de’ sette giovani fu pur Teseo, o fosse egli uscito a sorte, o per opera di Medea, o si fosse spontaneamente esibito per aver la gloria di uccidere quel terribile mostro.

Stava questo nel labirinto fabbricato da Dedalo; e Teseo per potere di là sottrarsi dopo l’ uccisione del Minotauro essendosi procacciato l’ amore di Arianna figlia di Minosse, ebbe da lei per consiglio di Dedalo un gomitolo di filo, che attaccato per un capo all’ ingresso del labirinto andò svolgendo, finchè giunto al Minotauro, e datogli morte, tenendo dietro al filo medesimo se uscì, presa seco Arianna con Fedra di lei sorella fuggi di Creta.

Ma arrivato all’ isola di Nasso, ivi ingratamente abbandonò Arianna, che fu poi trovata e sposata da Bacco e tornossene in Atene, con Fedra soltanto, cui fece sua moglie, e che fu poi ad esso cagione di estremo dolore. Omero dice però che Arianna fu trattenuta in Dia o Nasso espressamente da Diana ad istanza di Bacco.

Il ritorno di Teseo fu in prima fatale ad Egeo. Perciocchè avevagli questo raccomandato, che qualora salvo tornasse, per dargliene indizio, cangiasse in bianche le nere vele con cui era partito; ma Teseo dimenticò il comando del padre, sicchè questi vedendo da lungi il naviglio tornar colle nere vele, e credendo il figlio estinto, per duolo affogossi nel mare, che da lui prese il nome di Mar Egeo, ora Arcipelago.

Come il nome di Teseo altamente risonava per tutta la Grecia, Piritoo figliuolo d’ Issione re de’ Lapiti, o come dice Omero, figliuolo di Giove e di Melata moglie d’ Issione, invidioso della gloria di lui venne colle sue genti nell’ Attica per provarsi con esso; ma appena si videro i due valorosi giovani, cangiato l’ odio e l’ invidia in ammirazione ed amore si strinsero colla più ferma amicizia. Giovò sommamente a Piritoo l’ amicizia di Teseo nella pugna ch’ egli ebbe contro i Centauri. Perciocchè avendo egli alle sue nozze con Ippodamia figlia di Atracio invitato i Centauri, Folo lor capo tentò di rapirgliela; ma coll’ aiuto di Teseo i Centauri furono debellali, ed Ippodamia ad essi ritolta.

S’ invogliò poscia Pirotoo di aver Proserpina figlia di Cerere e moglie di Plutone e pregò Teseo a voler seco scendere all’ inferno per indi rapirla: ma Piritoo nel primo ingresso fu divorato dal Cerbero, e Teseo condannato a seder immobile sopra di un sasso, finchè ne venne liberato da Ercole. Vuolsi però da molti che questa Proserpina fosse moglie di Edoneo re dell’ Epiro, per toglier la quale essendo andati Teseo e Piritoo, il primo fu ucciso, il secondo imprigionato, e campato poscia da Ercole.

Tornato in Atene si diede Teseo ad unire in una sola città i vari casali che formavano la popolazione ateniese, ed istituì in essa ad onore di Minerva le feste Panatenee, e i giuochi funebri nell’ istmo di Corinto.

Ma infelici a cagione di Fedra furono gli ultimi anni della sua vita.

Erasi questa d’ incestuoso amore accesa per Ippolito, e rigettata da lui, cangiando l’ amore in odio l’ accusò presso il marito di averle voluto fai forza.

Teseo irritalo, e memore della promessa che fatta gli avea Nettuno di appagarlo in qualunque cosa gli avesse chiesto, il pregò a volere in quella occasione far contro Ippolito le sue vendette.

Nettuno spedì perciò un mostro marino, dal quale i cavalli che traevano il cocchio d’ Ippolito lungo la spiaggia, furono sì spaventati, che datisi a fuga precipitosa, scosser dal cocchio Ippolito avviluppato fra le redini, e strascinandolo per bronchi e sassi miseramente io lacerarono.

Fu egli poi richiamato in vita dà Esculapio ad istanza di Diana, e da lei trasportato in Italia nel bosco di Arica ove appresso fu venerato sotto il nome di Virbio, cioè due volte uomo.

Ma Fedra punta da rimorso confessò a Teseo l’ innocenza d’ Ippolito, poi disperata si uccise e Teseo addolorato per l’ ingiusta morte del figlio, dai quel momento non ebbe più pace, finchè scacciato pure da Atene ricoverossi nell’ isola di Sciro, ove fu ucciso secondo alcuni da Licomede, e secondo altri caduto in mare da un alto scoglio restò affogato.

Capo XI. Di Pelope, Atreo, Tieste, Agamennone, Menelao, Egisto, ed Oreste. §

Pelope, figlio di Tantalo re di Frigia e di Taigete, fu dall’ empio padre, come è già detto, dato in pasto agli Dei per far pruova della loro divinità, e da essi risuscitato ebbe una spalla di avorio in luogo di quella che Cerere aveva mangiato.

Cresciuto in età, abbandonato la patria venne nell’ Elide, ove a quel tempo regnava Enomao padre di Ippodamia, la quale perchè bellissima, e perchè unica ed erede del regno, veniva ambita da molti.

Ma Enomao sapendo dall’ oracolo di dover morire per opera di suo genero, propose ai pretendenti d’ Ippodamia, di gareggiar con esso nel corso de’ cocchi, nel quale egli era abilissimo, colla condizione, che se taluno fosse rimasto vincitore avrebbe avuto in premio Ippodamia, ma i vinti sarebbero puniti di morte.

Pelope, onde aver la vittoria, sedusse Mirtilo cocchier di Enomao a porre al cocchio di lui un fragil asse, il quale essendosi spezzato nel corso precipitò E nomao che ne morì; ed egli cosi ottenne Ippodamia ed il regno, cui poscia ingrandì per modo che tutta la penisola da lui trasse il nome di Peloponneso.

Ebbe esso da Ippodamia due figli, Atreo e Trieste, il secondo de’ quali sorpreso con Erope moglie di Atreo se ne fuggi; ma Atreo covando il desiderio della vendetta, lo richiamò protestando il perdono, indi uccise i due figli di lui glieli diede a mangiare in una abbominevole cena, da cui dicesi che il Sole torse per orrore la faccia.

Figli di Atreo furono Agamennone e Menelao, il primo de’ quali fu re di Argo, e sposò Clitennestra figlia di Tindaro e di Leda sorella di Castore; il secondo fu re di Sparta, e sposò Elena figlia di Giove e di Leda e sorella di Polluce.

Essendo Elena stata rapita da Paride figlio di Priamo re di Troia, armossi tutta la Grecia per riaverla, e capo della Spedizione fu fatto Agamennone.

Mentre l’ armata era raccolta in Aulide porto della Beozia, trattenuta ivi da venti contrari, il sacerdote Calcante consu Itato l’ oracolo di Delfo portò in risposta che per aver propizi i venti conveniva sacrificare Ifigenia figlia di Agamenone.

Consentì il padre al barbaro sacrificio; ma Diana salvò Ifigenia sostituendole una cerva, e lei trasportò in Tauride, ove la fece sacerdotessa del suo tempio.

Partito Agamennone per la guerra di Troia, di cui appresso diremo, Egisto figlio di Tieste, che per vendicare la morte de’ fratelli già aveva ucciso Atreo, riuscì a sedurre Clitennestra, e di concerto con essa, allorchè Agamennone fu di ritorno, invitandolo in casa sua ad un solenne convito, a tradimento l’ uccise, e impadronissi del regno di Argo.

Cercò egli di uccidere anche Oreste figlio di Agamennone e di Clitennestra; ma questi salvato dalla sorella Elettra, fu allevato segretamente da Strofio nella Focide, di dove all’ età di venti anni tornò incognito in Argo a vendicar la morte del padre coll’ uccisione di Egisto e di Clitennestra.

In pena però di aver uccisa la madre fu Oreste agitato dalle furie, e vagando accompagnato da Pilade figlio di Strofio, con cui era stato educato giunse in Tauride, ove per ordine del re Toante fu in procinto di essere sacrificato a Diana.

Ma una virtuosa gara qui nacque fra i due amici, perciocchè Pilade per salvarlo si finse Oreste, e Oreste costantemente si oppose alla generosa di lui menzogna, finchè avendo Ifigenia, ch’ era la sacerdotessa di Diana, riconosciuto a sicuri indizi il fratello, si unirono tutti e tre ad uccider Toante, e seco portando il simulacro di Diana se ne fuggirono.

Tornato in Grecia fu Oreste giudicato dagli Dei nell’ Areopago di Atene, ove sebbene eguali voti ei riportasse, vale a dire sei favorevoli e sei contrari, pur da Minerva fu assoluto e dalle Furie liberato. Diede egli allora all’ amico Pilade la sorella Elettra in isposa; e premendogli di aver Ermione figlia di Menelao, che prima a lui promessa, era stata poi data a Pirro, andato a Delfo, ove sapea che Pirro allora trovavasi, sparse voce, che questi venuto fosse per dispogliare il tempio, e il fe dal popolo ammutinato assassinare. Virgilio dice invece, che l’ uccise di propria mano innanzi al patrio altare. Vuolsi ch’ egli perisse alla fine pel morso di una vipera.

Menelao avendo nella presa di Troia ricuperato Elena, al ritorno fu dalla tempesta portalo in Egitto, e di là dopo lungo tempo tornato a parta carico di ricchezze, visse tranquillo nel regno per molti anni, indi giusta la predizione avuta da Proteo in Egitto, come sposo di Elena, e genero di Giove, senza soccombere alla morte fu negli Elisi trasportato.

Capo XII. Della guerra di Troia, e de principali Greci, Troiani, e loro ausiliari, che vi ebbero parte. §

Cagione della guerra troiana fu Paride, altramente detto Alessandro, figlio di Priamo re di Troia, e di Ecuba.

Mentre Ecuba n’ era incinta, parvele in sogno di aver in seno una fiaccola ardente, il che essendo stato interpretato che cagionare ei dovesse l’ incendio della Città e del regno, Priamo il fe appena nato esporre da Archelao in un bosco, ma Ecuba segretamente il fe poscia educare da’ pastori sul monte Ida.

Ivi dalla pastorella Enome ebbe egli Dafni e Ideo; e fatto giudice della bellezza tra Giunone, Pallade, e Venere, di cui la prima promettevagli il regno, la seconda la sapienza, e la terza la più bella delle donne, ei diede a Venere la preferenza.

Concorso in Troia a’ pubblici giuochi, ei vinse non pure gli altri, ma Ettore stesso figlio di Priamo, ch’ era di tutti il più valente, e avendo Ettore, di ciò sdegnato contro di esso impugnata la spada, Paride, datigli i contrassegni di essere a lui fratello, il placò e Priamo stesso come suo figlio amorevolmente l’ accolse.

Poco dopo lo spedì Priamo in Grecia con venti navi per ripetere Esione, che liberata dal mostro marino era stata via condotta da Ercole, e data a Telamone figlio di Eaco e re di Salamina.

Accolto ospitalmente in Isparta da Menelao marito di Elena, ch’ era riputata la più bella donna di quell’ età, colse Paride l’ occasione che Menelao ebbe a partire per Creta, abusando dell’ ospitalità, si tolse Elena sulle sue navi, e condussela a Troia.

Per vendicar quest’ ingiuria i due fratelli Agamennone, e Menelao procurarono di trarre al lor partito tutti i principi della Grecia, de’ quali i primari furono Achille figlio di Peleo re di Elia in Tessaglia, e di Tetide; Aiace di lui cugina, figlio di Telamone re di Salamina, e di Esione; Tenero di lui fratello; Aiace figlio di Oileo re di Locri; Palamede figlio di Nauplia re dell’ Eubea; Ulisse figlio di Laerte re d’ Itaca; Stenelo figlio di Capaneo; Diomede figlio di Tideo e nipote di Eneo re di Calidone; Idomeneo e Merione figli di Deucalione, e nipoti di Minosse, re di Creta, Nestore figlio di Neleo re di Pilo;.Antiloco tìglio di Nestore; Patroclo figlio di Menezio e di Stenele; Podalirio e Macaone figli di Esculapio; Protesilao figlio d’ Ificlo; Filottete figlio di Peante; ai quali, dopo la morte di Achilie si aggiunse Pirro figlio di lui e di Deidamia, soprannomato Neottolemo, cioè nuovo guerriero.

Nè men solleciti furono i Troiani ad armarsi e procacciarsi alleati. Fra i Troiani i principali guerrieri furono Ettore, Paride, Troilo, Deifobo figli di Priamo, ed Enea figlio di Anchise e di Venere; a’ quali si aggiunsero Antenore re di una parte della Tracia coi figli Elieaonio e Polidamante; Melinone re dell’ Etiopia figlio di Titone e dell’ Aurora; Eufemo re de’ Ciconi; Serpedone re di Licia figlio di Giove e di Laodamia figlia di Bellerofonte; Reso re di Tracia figlio di una delle Muse; Cigno figliuol di Nettuno; e Pentesilea regina delle Amazoni.

Non tutti però i principi Greci si prestarono a quella lega con egual prontezza.

Ulisse cercò di sottrarsene simulandosi pazzo; ma Palamede per fame esperimento gli pose dinanzi a’ buoi, co’ quali arava, il piccol figlio Telemaco, e vedendo la premura con cui egli corse a levarlo, conobbe la finzione, e il costrinse ad entrar nella lega cogli altri. In vendetta di ciò fu poi detto, che Ulisse nel campo di Troia nascose dell’ oro sotto la tenda di Palamede, e accusandolo di averlo ricevuto da’ Troiani per mezzo di tradimento, il fè lapidare da Greci.

Tetide madre di Achille, sapendo che sotto Troia sarebbe questi perito, l’ occultò sotto abito femminile tra le damigelle della corte di Licomede re di Stiro, ove dalla figlia di esso Deidamia poi ebbe Pirro. Ma Ulisse presentatosi in abito da mercatante con vari ornamenti donneschi, a’ quali frammiste eran delle armi, vedendo Achille a queste subito appigliarsi, lo riconobbe, e l’ indusse a partire con seco.

Filottete era stato compagno di Ercole, e testimonio della morte di lui. Ercole volle che le sue frecce tinte del sangue dell’ Idra fossero seppellite con esso-lui, e fe giurarsi da Filottete di non mai ad alcuno manifestare il luogo del suo sepolcro. Ma avvertiti i Greci dall’ oracolo, essere necessarie all’ espugnazione di Troia le frecce di Ercole, costrinsero Filottete a scoprire dov’ egli fosse sepolto. Credette Filottete di non mancare al giuramento tacendo il luogo, e accennandolo invece col piede. Ma allorchè le frecce ne furon tratte, cadutagli una di queste sol piede, incominciò egli a mandar tal fatore dalla ferita, che i Greci, i quali seco preso l’ aveano, perchè egli solo trattar sapeva le frecce di Ercole, furon costretti a lasciarlo in Lenno, dove Ulisse poi venne a riprenderlo sulla fine della guerra, e condotto a Troia vi fu guarito da Macaone figliuol di Esculapio.

Mentre i Greci adunati in Aulide con mille navi stavano a Giove sacrificando per implorare propizi i venti, che poi non ottennero se non col sacrificio d’ Ifigenia, un serpente salito su di un vicin platano divorò otto uccellini nel lido, e poscia anche la madre; dalla qual cosa il sacerdote Calcante presagì, che la guerra troiana durerebbe nove anni, e Troia sarebbe presa nel decimo, siccome avvenne: e Ovidio aggiugne, che il serpente a perpetua memoria dagli Dei fu cangiato in sasso.

Era stato predetto dall’ oracolo, che il primo, il quale fosse sceso sul lido di Troia, sarebbe perito. Ciò gli altri ricusando, Protesilao balzò coraggioso dalla sua nave, e fu ucciso da Ettore.

Ne’ primi anni si occuparono i Greci a prender e saccheggiare le città e terre dell’ intorno, finchè nel decimo anno tratte le navi sul lido, poser a Troia il formale assedio. Ma grave rissa dappoi insorse fra Agamennone ed Achille, per cui questi lungo tempo si astenne dal voler più prender parte a quella guerra.

Cagion della lite si fu, che essendo Venuto Crise sacerdote di Apollo per riscattare la figlia sua Astionome, nota più comunemente sotto al nome di Criseide, la quale nella divisione della preda fatta da’ Greci nella espugnazione di Crisa città della Frigia era toccata ad Agamennone, questi lo ributtò bruscamente; per la qual cosa avendo Crise implorata da Apollo vendetta, ei desto nel greco esercito un’ orribile pestilenza. Or insistendo Achille, perchè Agamenonne restituisse Criseide, come Calcante diceva essere di mestieri, Agamennone alteratamente dispose, che l’ avrebbe restituita, ma che in compenso voleva Briseide toccata ad Achille. Si volse allora questi ad Agamennone con aspre ingiurie e già la mano pur gli era corsa alla spada, ma fu da Pallade trattenuto. Si chiuse egli pertanto nella sua tenda covando il suo sdegno, e protestando di non voler più combattere a favore de’ Greci, nè i consigli di Nestore e le preghiere di Ulisse valsero a rimuoverlo dal suo proponimento.

Frattanto Paride e Menelao convennero di terminare la guerra con un duello alla presenza dei due eserciti; ma Venere temendo che Paride soccombesse, indusse il troiano Pandaro a scoccare uno strale contro di Menelao per disturbare il duello, e trasportò Paride in Troia.

Nelle battaglie, che appresso vennero, i Troiani comandati da Ettore malgrado la resistenza che i Greci, e soprattutto Aiace figlio di Telamone, vi opponevano, ebbero de’ grandi vantaggi, e poco mancò, che da quelli incendiate pur fosser le navi, che tratte in secca servivano al campo de’ Greci di trinceramento e di riparo.

In questo mezzo Patroclo amico di Achille, non potendolo indurre a riprender le armi, chiese almeno di poter con quelle armi andar egli a combattere contro di Ettore; ma ne fu ucciso e dell’ armi spogliato.

Addoloralo per la perdila dell’ amico allor finalmente si mosse Achille per vendicarlo, e incontratosi in Ettore dopo lungo conflitto l’ uccise, indi attaccatone il corpo dietro il suo cocchio, tre volte lo trascinò d’ intorno alle mura di Troia, nè si arrese che a gran fatica a restituirlo al misero padre, che venne in persona a domandarlo.

L’ ira di Achille, e i mali di che fu cagione a’ Greci in prima, indi a’ Troiani, formano l’ argomento del primo poema epico che sia apparso, vale a dire dell’ Iliade di Omero.

Riconciliatosi Achille con Priamo chiese in isposa la figlia di lui Polissena; ma nell’ atto che celebravasi lo sposalizio nel tempio dì Apollo, Paride con una freccia avvelenata lo ferì nel calcagno, ove soltanto era vulnerabile, perchè Tetide, appena nato per esso tenendolo, immerso lo aveva nel fiume Stige, e con ciò reso invulnerabile in tutte le altre parti. Dice Ovidio, che la freccia di Paride fu là diretta da Apollo medesimo ad istanza di Nettuno al quale Achille aveva ucciso il figlio Cigno, atterrandolo e strozzandolo, poichè esso pure a’ dardi era impenetrabile.

Grave battaglia per riavere il corpo di Achille insorse allora fra i Greci, ed i Troiani; ma Ulisse recandoselo sulle spalle, difeso dallo scudo di Aiace, riuscì a portarlo nel campo de’ Greci, che fattigli i funerali solenni, gli alzarono un gran monumento sul promontorio Sigeo.

Ma forte contesa poi nacque fra Ulisse ed Aiace per aver le armi di Achille, cui Tetide aveva posto in mezzo, perchè fossero date al più degno; su di che non sapendo i Greci decidere, chiesero a’ Troiani prigionieri quale dei due avesse a Troia fatto più danno, e avendo questi risposto Ulisse, le armi a lui furon date. Ma di ciò Aiace adirato ne venne sì furioso che ne perde la ragione, e lanciatosi in una mandra di pecore si die a farne strage credendo di uccidere Ulisse; e finalmente colla spada si trapassò da se stesso. Ovidio aggiugne, che dal suo sangue sorsero de’ giacinti.

Non però a torto deciso aveano i Troiani che Ulisse alla loro patria avesse recato i danni maggiori.

Ei travestitosi un giorno, secondo Omero, da servo fuggitivo, e introdottosi in Troia, spiò quanto era là dentro, e nè portò a’ Greci la più esalta contezza.

Altra volta colà entrato insieme con Diomede, ne rapì il Palladio o simulacro di Palla le, sapendo esser destino che Troia non fosse presa finchè il Palladio conservasse, e menò prigioniero Eleno figlio di Priamo e vate, cui obbligò a svelare i futuri eventi di Troia.

E poichè era pure destino, che Troia fosse invincibile, se i cavalli di Reso venuto in soccorso di quella gustasser l’ erba de’ prati troiani, e bevessero l’ acqua del fiume Xanto, egli con Diomede andò a prevenirlo anzichè giugnesse nella Troade; e posti amendue in agguato, lui ucciser di notte, e via condussero i cavalli.

Ma lo stratagemma di Ulisse più a Troia fatale fu in appresso l’ invenzione del cavallo di legno. Fece egli costruire da Epeo uno smisurato cavallo, entro cui si rinchiuse egli medesimo co’ più valorosi Greci. Finsero gli altri poi di partire abbandonando l’ assedio di Troia, e dietro l’ isola di Tenedo si nascosero. Invano Cassandra figlia di Priamo, che era per destino verace sempre e non creduta mai, gridò che quel cavallo era un’ insidia e che doveva distruggersi. Invano pure Laocoonte Sacerdote di Apollo confermando la stessa cosa incominciò a scagliare contro di quello una lancia. In questo mentre, secondo Virgilio, due smisurati serpenti venendo dal mare avviticchiarono Laocoonte e due suoi figli; e mentre erano i Troiani atterriti da tal portento, fu innanzi a Priamo condotto il greco Sinone, che istrutto da Ulisse, appostatamete erasi ascoso nelle paludi, fingendo di esser fuggito da’ Greci che voleano sacrificarlo. Costui seppe persuadere a Troiani, che il cavallo era stato fabbricato da’ Greci, onde placar lo sdegno di Pallade irritata per la violazion del Palladio, e che Troia sarebbe stata eternamente sicura, se quel cavallo nelle sue mura si conducesse. Fu esso adunque, squarciate le mura, nella città introdotto. Intanto Sinone a notte buia diede dall’ alto della rocca con una fiaccola il segno a quelli che dietro Tenedo eran nascosti, e aperse l’ uscita a que’ che stavano dentro il cavallo, i quali assalendo i Troiani sepolti nel sonno, a ferro e fuoco misero tutta la città.

Ulisse e Meneleo uccisero Deifobo, e via condussero Elena, che dopo la morte di Paride, il quale era educato per man di Pirro, a quello era stata data in isposa.

Pirro entrato a forza nella reggia di Priamo vi uccise Polite figlio di lui: indi Priamo stesso; e sacrificata Polissena sulla tomba di Achille, trasse prigioniera Andromaca vedova di Ettore.

Gli altri tutti sparsi per le case e per le vie, uccidendo, predando, incendiando ridussero quella città già sì florida e sì possente a un mucchio di sassi e di cenere.

Capo XIII. Del ritorno de’ Greci, e spezialmente di Ulisse dopo la rovina di Troia. §

Superbi i Greci della loro vittoria più non pensarono che a ridursi alle case loro; ma pochi vi giunsero senza incontrare gravi disavventure o nel ritorno, o dopo d’ esservi arrivati.

Come Agamennone fosse a tradimento ucciso da Egisto e da Clitennestra, e Menelao sbattuto dalla tempesta fino in Egitto, già si è eletto più addietro.

Pirro giunse in Tessaglia guidando seco prigionieri Eleno figlio di Priamo, e la vedova di Ettore Andromaca; ma dopo il ritorno di Menelao sposato avendo Ermione figlia di lui promessa innanzi ad Oreste, da questo fu ucciso.

Aiace figlio di Oileo avendo nella presa di Troia osato violare Cassandra nel tempio di Pallade, la Dea irritata suscitò contro di esso una fiera burrasca, dalla quale ben fu campaio per opera di Nettuno sopra lo scoglio Gireo, ma poi vantandosi di aver saputo a dispetto degli Dei salvarsi da se medesimo, fu dallo stesso Nettuno sommerso con parte di quello scoglio, ch’ ei distaccò col tridente.

Idomeneo nel tornarsene a Creta con Merione, sorpreso anch’ egli dalla tempesta, fe voto a Nettuno di sacrificargli il primo che sopra il lido incontrasse. Questi fu il proprio figlio; ed avendolo immolato, sopravvenne tal pestilenza, che discacciato dal regno ei dovette rifuggiarsi in Calabria nel paese de’ Salentini. Diodoro di Sicilia però asserisce, che egli morì tranquillamente in Creta, e che anche a suo tempo mostravasi nella città di Gnosso la tomba, ov’ egli era sepolto in compagnia di Merione.

In Calabria parimente si ridusse Filottete, e vi fondò la città di Petilia, ora Belcastro.

Teucro per non aver vendicato contro di Ulisse la morte del fratello Aiace, arrivato a Salamina sdegnosamente ne fu scacciato da Telamone, e ricoveratosi in Cipro vi fondò poi la città, che dal nome della patria intitolò pur Salamina.

Diomede, secondo Omero, in una battaglia, nella quale gli Dei medesimi vollero prender parte, ferito avea Marte stesso, indi Venere accorse in aiuto del figlio Enea. Or Venere in vendetta fè che Egialea moglie di Diomede si desse in preda a Cillabaro figlio di Stenelo, il che Diomede sapendo in luogo di fermarsi nella patria Argo venne ad approdar nella Puglia, ove presa in moglie una figlia di Dauno, fondò presso il monte Gargano la città di Arpi o Siponto, e vi fu poi secondo alcuni ucciso da Enea, secondo altri fu da Venere convertito in uccello; sebbene Ovidio dice essere questo tramutamento avvenuto a’ compagni di lui, che sprezzarono l’ ire di Venere.

Nestore fu il solo, che dopo avere sotto alle mura di Troia perduto il figlio Antiloco ucciso da Mennone, potè salvo e senza altri disastri tornarsene a Pilo, ove secondo i poeti giunse felicemente al termine di tre età.

Quegli invece, che più avversità ebbe a soffrir nel ritorno, fu Ulisse, le cui avventure vennero da Omero descritte nell’ Odissea.

Partito egli da Troia con dodici navi, approdò prima in Tracia al lido de’ Ciconi, ove si diede a saccheggiare, perchè essi aveano prestato aiuto a’ Troiani; ma sopravvenuti lor de’ soccorsi dall’ Inferno, dovette rimbarcarsi precipitosamente, perduti settantadue compagni.

Giunto al capo di Malea or capo Malio nel Peloponneso, la tempesta il portò all’ isola de’ Lotofagi nel golfo di Gabes presso Tripoli, dove spediti avendo due compagni ed un araldo a spiare il paese, i Lotofagi dieder loro ad assaggiare il loro frutto dolcissimo, che fece ad essi dimenticare il ritorno, sicchè a forza dovette ritrali sopra le navi, ed ivi incatenarli.

Di là i venti il portarono al lido de’ Ciclopi in Sicilia, dove andato con dodici compagni a visitare nella sua grotta Polifemo figlio di Nettuno, questi gliene divorò sei con animo di divorar gli altri ancora, se non che Ulisse, prima ubbriacatolo con vi no generoso, gli trasse poscia, mentre dormiva, con un palo infocato il sol occhio circolare, che aveva in mezzo alla fronte, indi legati i compagni sotto il ventre de’ montoni che ivi erano ed egli aggrappatosi sotto al più grande, ne uscirono tutti nell’ atto che Polifemo, tolto lo smisurato macigno, che serviva di uscio alla grotta, ne mandò fuori la greggia. Con questo acciecamento però Ulisse concitò contro se l’ odio di Nettuno, che mai non cessò di perseguitarlo, finchè in Itaca non fu giunto.

Radendo i lidi della Sicilia, venne egli all’ isola Eolia, ossia a Lipari, dove Eolo gli diede chiusi tutti i venti in un otre eccetto Zefiro a lui propizio, e con questo felicemente arrivò in faccia a Itaca; ma essendo quivi per tal stanchezza e la lunga veglia stato sorpreso dal sonno, i compagni sciolsero l’ otre credendo che gran tesoro vi si contenesse, e i venti di là scoppiati riportarono le navi a Lipari, di dove Ulisse sdegnosamente da Eolo fu poi discacciato.

Errando pel mare verso ponente giunse al paese de’ Lestrigoni, che da Cicerone supponsi ove fu poscia la città di Formia, ora Mola di Gaeta. Erano costoro uomini selvaggi, di smisurata grandezza ed antropofagi; i quali gli fracassaron con una grandine di sassi undici navi e appena egli colla sua e coi compagni che in essa erano potè camparne.

Con questa approdò all’ isola Eea, ossia al promontorio Circeo, ora Monte Circello, ove la maga Circe gli cangiò in, porci la metà de’ compagni; ma egli coll’ erba moli datagli da Mercurio vinse l’ incanto, ed obbligò Circe a richiamare i compagni alla forma primiera.

Dimoralo un anno con essolei, da cui ebbe, secondo Esiodo, Aglio e Latino, e secondò altri Telegono, per ordine di lei medesima n’ andò a’ Cimmeri, che da Plinio pongonsi presso a Cuma ed allago di Averno (benchè altri Cimmeri pur vi fossero presso la Palude Meotide); e di là scese all’ inferno a consultar l’ anima del tebano Tiresia. Qui fatti i prescritti sacrifizî a Proserpina ed a Plutone, vide prima l’ anima del compagno Elpenore, che caduto dal letto nell’ Isola Eea, mentre gli altri partivano era Timaslo insepolto; poi da Tiresia udì i futuri suoi casi; ragionò coll’ anima della madre Anticrea, con quelle delle antiche donne più illustri; tenne discorso con Agamennone e con Achille, ma Aiace dispettosamente negò di rispondergli; vide il giudice Minosse; le pene di Tizio, di Tantalo, di Sisifo, e l’ immagine di Ercole.

Tornato a Circe, e data sepoltura ad Elpenore, avvertito da lei del viaggio che aveva a tenere, e dei pericoli che doveva evitare, navigando verso levante e mezzogiorno si sottrasse all’ insidia del canto delle Sirene all’ isola di Capri, chiudendo a’ compagni le orecchie eoa cera, e facendosi egli legare all’ albero della nave: schivò il mar burrascoso alle pietre erranti; passò lo stretto di Messina fra Scilla e Cariddi, ove Scilla colle sei teste gli tolse e divorò sei compagni.

Approdato alla spiaggia, ov’ è ora Messina, vi fu trattenuto un mese da’ venti contrari, e i compagni contro il suo divieto divorarono le vacche delle mandre del Sole; per cui questi irritato ricorse a Giove, il quale alla loro partenza fulminando la nave li fè andar tutti sommersi.

Ulisse rimase solo nella carena, che dal vento fu portalo sopra Cariddi, ove la carena fu inghiottita. Egli però aggrappatosi colle mani ad un fico selvatico stette aspettando che la carena riuscisse, e gettatosi nuovamente sovr’ essa andò errando per dieci giorni, finchè arrivò all’ isola Ogigia, creduta dai più l’ isola Gaulos, ora Gozo vicino a Malta, ove la Ninfa Calipso figlia di Atlante lo tenne per sette anni, e tentò di farselo marito promettendogli l’ immortalità e la perpetua giovinezza; ma non potè mai piegarlo ad acconsentire. Esiodo dice però ch’ ei n’ ebbe Nausitoo e Nausinoo.

Pallade protettrice di Ulisse ottenne allora da Giove, che per mezzo di Mercurio spedisse ordine a Calipso di rilasciarlo. Ma allorchè navigando prosperamente sopra una zatta da lui costrutta ei fu vicino a Scherla, ora Corfù, isola de’ Feaci, Nettuno con una fiera tempesta gli sciolse la zatta e ne disperse i legni, sicchè Ulisse a grave stento, avvolgendosi al petto una fascia datagli da Ino Leucotea, potè a nuoto salvarsi in un fiume dell’ isola.

Quivi presentatosi nudo a Nausicaa figlia del re Alcinoo e di Arete, che colle ancelle era andata a lavare le vesti alfiume, ebbe da lei ristoro di cibo e dì vestimenta, e fu scortato alla città, ove da Alcinoo ed Arete venne liberalmente accollo, e spedito con ricchi doni sicuro in Itaca sopra una loro nave, la quale da Nettuno sdegnato fu poi al ritorno cangiata in pietra.

Perchè in Itaca non fosse Ulisse riconosciuto, e così potesse più agevolmente far vendetta de’ Proci, i quali pretendendo forzar Penelope di lui moglie a sposare uno di loro, frattanto si divoravano le sostanze di esso, si trasformò in vecchio mendico.

Sotto a questa sembianza egli andò prima da Eumeo guardiano de’ suoi porci, ove essendo pur giunto il figlio Telemaco ritornato dal viaggio di Pilo e Sparla, ov’ era andato a cercar novelle di suo padre; Ulisse per ordine di Pallade a lui si manifestò, e presi seco gli opportuni concerti, condotto da Eumeo alla città, si pose a mendicare fra i Proci, dai quali sofferse pazientemente insulti di ogni maniera.

Avendo poscia Penelope per ispirazione di Pallade proposto a’ Proci di sposar quello, il quale coll’ arco di Ulisse scagliar sapesse uno strale attraverso ai fori di dodici scudi piantati a certa distanza, e non essendo niuno di essi riuscito a tender quell’ arco, Ulisse, avutolo fra le mani col titolo di farne prova, incominciò col primo strale a passar i dodici fori, poi col secondo uccise Antinoo, e col terzo Eurimaco, ch’ erano i capi de’ Proci, e via seguendo di mano in mano cogli strali e colle aste recategli da Telemaco, ajutato pure da lui e da due pastori Eumeo e Filezio, e soprattutto da Pallade, sterminò tutti i Proci ch’ erano cento otto, non meno che i loro aderenti, salvando il solo cantore Femio, e l’ araldo Medonte, che ai Proci servivano a forza.

Fattosi quindi con sicuri contrassegni conoscere da Penelope, e seco passata lietamente la notte cui Pallade, trattenendo do l’ aurora rendette pure più lunga, andò il mattino seguente in villa a far una dolce sorpresa al vecchio Laerte suo padre; ed essendo là venuti per assalirlo Eupide padre di Antinoo con altri del suo partito, Laerte per consiglio di Pallade getto contro di essi la prima lancia con cui uccise Eupide, e dopo alquanta uccisione degli altri, Pallade finalmente sotto alla sembianze di Mentore aio di Telemaco s’ interpose a far con essi la pace.

Secondo la predizione di Tiresia, riportata da Omero, doveva quindi Ulisse andar con un remo sopra la spalla fin dove gli fosse detto che quello era un ventilabro, e fatto quivi un sacrificio a Nettuno, vivuto sarebbe poscia in piena pace, e cessato avrebbe di vivere consunto mollemente dalla vecchiezza, ma altri invece han detto, che egli fu ucciso dal figlio Telegono avuto da Circe, in occasione che questi sbattuto dalla tempesta in Itaca vi fe qualche guasto, ed essendo venuti Ulisse e Telemaco per discacciarlo, egli con una spina avvelenata del pesce trigono o tortora marina feri Ulisse senza conoscerlo.

Capo XIV. Della venuta di Antenore, e Enea, in Italia. §

Dei capi de’ Troiani e loro alleati i soli, che avanzarono da quella guerra, e che dopo la presa e l’ incendio della città salvi e liberi ne partirono, furono Antenore ed Enea.

Ettore, Troilo, Cigno, Mennone e Pentesilea furono uccisi da Achille si disse poi che Cigno fu da Nettuno cangiato in Cigno, e Mennone a’ preghi dell’ aurora convertito insieme co’ suoi compagni negli uccelli detti Mennonidi; Paride ucciso venne da Filottete o da Pirro; Deifobo da Ulisse e da Menelao; Priamo da Pirro, Sarpedone da Patroclo; Reso da Ulisse e da Diomede.

Antenore, che fu creduto favorevole al partito dei Greci, perchè sempre consigliava la restituzione di Elena, e avendo in Troia scoperto Ulisse con abito simulato da schiavo non lo manifestò: dopo l’ incendio di Troia partì cogli Eneti popoli della Paflagonia, che sotto Troia perduto aveano il re loro Filemone e venuto all’ estremo dell’ Adriatico fondò la città di Padova, e discacciati gli Euganei diede alla provincia dal nome degli Eneti quello di Venezia.

Enea figliuolo di Anchise, e di Venere e pronipote di Assarago, fratello d’ Ilo re di Troia, fu anch’ egli accusato da alcuni come traditor della patria. Omero però nell’ Iliade lo dipinse come uno de’ migliori suoi difensori, e lo fa venire alle mani prima con Achille, e poscia con Diomede; sebbene inferiore all’ uno e all’ altro, fu poi salvato nel primo caso da Nettuno, e nel secondo da Venere.

Nella notte terribile in cui Troia fu presa, dopo aver fatto secondo Virgilio quanto poteva in difesa di lei, allorchè vide Priamo ucciso, e la città in fiamme, per ordine di Venere si prese sulle spalle il vecchio suo padre Anchise, che portava gli Dei Penati, e guidando a mano il figlio Ascanio, parti seguito dalla moglie Creusa figlia di Priamo, che poi si smarrì, e andò a riamarsi ad Andandro città della Frigia alle radici del monte Ida.

Quivi raccolti quanti potè de’ Troiani superstiti, e fabbricata co’ legni d’ Ida una flotta, si mise in mare.

Approdò prima nella Tracia, ove menre tagliava de’ rami per velarne l’ altare, vide da essi gocciolar sangue, e udì una voce la quale gli annunziò che ivi sepolto era Polidoro figlio di Priamo, ucciso dal re Polinnestore per rapirne i tesori, con cui Priamo l’ aveva a lui spedito. Aggiunge Ovidio, che la morte di Polidoro era stata poi vendicata da Ecuba perciocchè essendo i Greci dopo la presa di Troia approdati in Tracia, ove sacrificarono Polissena (che però altri dicono sacrificata da Pirro sopra la tomba di Achille), Ecuba accostatasi al mare per lavarne il corpo, vide sull’ onde il cadavere del figlio Polidoro, e chiamato a se Polinnestore a titolo di consegnarli un nuovo tesoro da dare al figlio, del quale dissimulò di sapere la morte, furiosamente, a lui avventandosi gli cavò gli occhi, ed essendo poi stata perciò lapidata dai Traci, fu convertita in cagna.

Partendo dalla Tracia, Enea sen venne a Delo, ove consultato l’ oracolo dì Apollo, questo rispose, che i Troiani cercar dovessero albergo là onde traevan l’ origine; il che essendo interpetrato da Anchise per l’ isola di Creta, da cui oriundo era Teucro, Enea là si diresse, e cominciò a piantare una nuova citta, cui disse Pergamea.

Ma sopravvenuta una fiera pestilenza, apparvero di notte ad Enea gli Dei Penati, avvisandolo che la terra indicata da Apollo era l’ Italia, da cui origine traeva Dardano nativo di Conto ora Cortona, fondatore della città Dardania, che ingrandita da Troe fu poscia chiamata Troia.

Rimessosi adunque in mare, dopo lunga tempesta giunse alle isole Strofadi, ora Strivali, ove inquietato fu dalle Arpie, o Celeno una di queste predissegli che non avrebbe avuto seggio in Italia, finchè non fosse stato ridotto per fame a divorarsi ancor le mense.

Trapassate non senza timore le greche isole arrivò a Butroto, ora Batrinto porto dell’ Epiro, ove regnava Eleno figlio di Priamo con Andromaca vedova di Ettore, che egli aveva sposata dopo la morte di Pirro.

Accolto quivi con gran tripudio, ebbe da Eleno, che era pur vate, l’ avviso di non approdare a’ vicini lidi della Calabria e della Puglia, perchè erano abitati dai Greci, di non fidarsi a passar lo stretto troppo pericoloso fra Scilla e Cariddi, ma di circondar la Sicilia, di consultar poscia in Italia la Sibilla Cumea, e fermarsi, dove alla riva di un fiume veduto avrebbe, una candida Troia con trenta candidi figli.

In questo giro alle radici dell’ Etna gli si presentò il greco Achemenide, cui Virgilio fìnge dimenticalo da Ulisse nella grotta di Polifemo, e che pregò di essere da lui raccolto. Al tempo medesimo sopravvenne Polifemo, che udendo il trambusto de’ remi inseguì a piedi le navi per lungo tratto di mare, che non gli oltrepassava il ginocchio.

Approdò finalmente nella Sicilia a Drepano, ora Trapani, ove fu accolto amorevolmente dal re Aceste figlio del fiume Crinise e di Egesta Troiana, ma ivi con estremo rammarico perde il padre Anchise.

Di là salpando fu dalla tempesta gettalo ai lidi della Libia, ove dice Virgilio che Didone vedova di Sicheo fuggendo dal fratello Pigmalione re di Tirto, il quale ucciso aveale il marito, approdata era non molto innanzi, e ottenuto dal re Jarba tanto di terra quanto ne potesse cingere con un cuojo di bue, e tagliato questo in sottilissime liste, tanto spazio ne circondò, che potè fabbricarvi la città di Cartagine.

Accolse ella Enea piacevolmente, e di ardentissimo amore per lui si accese. Ma Jarba, figlio di Giove e della Ninfa Garamantide, che era stato prima da lei rifiutato, ricorse al padre, il quale spedì Mercurio ad intimare ad Enea di lo sto partir per l’ Italia, ove chiamavalo il destino.

Ubbidì Enea, e invano Didone e eoa rimproveri e con preghiere, e con interporre l’ opera della sorella Anna, sforzossi di trattenerlo, finchè vedendolo già partito, sul rogo che avea fatto disporre col pretesto di un magico sacrificio per richiamarlo, ivi si uccise colla spada che Enea avea lasciato. Tutto questo però non è che un’ invenzione di Virgilio, poichè Didone secondo gli storici visse trecento anni dopo di Enea e si uccise anzi per conservar la fede a Sicheo, e fuggir le nozze, a cui Jarba volea costringerla.

Da’ venti contrari fu Enea costretto a ritornare in Sicilia presso di Aceste, ove correndo l’ anniversario della morte di Anchise, celebrò solennemente i giuochi funebri in onore di lui.

Intanto Giunone nemico implacabile dei Trojani spedì Iride, che’ sotto al sembiante di Beroe una delle Troiane insinuò alle altre di dar fuoco alle navi, onde non essere più costrette ad esporsi a’ rischi del mare, e quattro di queste rimasero incendiate, il fuoco dell’ altre fu estinto da una dirotta pioggia mandata da Giove.

Allora il vecchio Naute consigliò ad Enea di lasciare in Sicilia presso di Aceste le donne e i vecchi, e seco guidare in Italia soltanto i giovani; il qual consiglio essendosi pur confermato da Anchise in sogno, Enea fondò per quelli una città, cui diede il nome di Acesta.

Partito alla volta d’ Italia perdette il piloto Palinuro, che fu da Morfeo addormentalo e’ gettato in mare vicino al promontorio, che dal suo nome fu detto poi Palinuro.

Giunto a Cuma, seguendo il consiglio di Eleno presentossi alla Sibilla Deifobe, e secondo l’ ordine avuto in sogno dal Padre le chiese a scender seco all’ Inferno. Essa lo avvertì esser prima necessario procacciarsi il ramo d’ oro da presentarsi a Proserpina, e questo gli fu mostrato dalle colombe di Venere.

Intanto Mise trombettiere di Enea sonando la conca marina era stato per invidia da un Tritone gettato in mare; Enea datagli sepoltura sotto al promontorio, che dal nome di lui appellò Miseno, scese colla Sibilla sotterra, entrando per una spelonca vicino al lago di Averno.

Trapassati i mostri ch’ erano sull’ ingresso, giunse al fiume Acheronte, cui tragittò sulla barca di Caronte, mostra to ad esso il ramo d’ oro; poi addormentato dalla Sibilla il can Cerbero con un’ esca incantala, Enea scorse colla medesima le varie sedi, ove stavano i bambini, i condannati a ingiusta morte, i suicidi, gli amanti, fra quali era Didone che fuggì da lui dispettosa, e i guerrieri fra’ quali conobbe Deifobo ed altri Troiani e Greci; quindi mostratogli a manca della Sibilla il luogo, ove tormentati erano i colpevoli, prese a destra la via de’ campi Elisi, ove additate gli furono, da Anchise le anime di quelli che dovevano da lui discendere fino a Marcello nipote di Augusto.

Uscito dall’ inferno, e rimbarcatosi perde la sua nutrice Caieta presso il luogo che poi da essa n’ ebbe il nome; indi giunto alle foci del Tevere vide la bianca Troia predetta da Eleno; e avendo a caso sull’ erba stese larghe focacce in luogo di mense, poichè Ascanio avvertì, che mangiato il restante, le mense ancora si divoravano, conobbe Enea con ciò compì anche il vaticinio dell’ arpia Celeno.

Spedì adunque Oratorio a Latino re di Laurento, il quale ammonito dall’ oracolo di Fauno suo padre di dover dare la figlia Lavinia ad uno straniero, che di lontano paese sarebbe là giunto, ad Enea spontaneamente l’ offerse,

Giunone per disturbar queste nozze chiamò dall’ inferno la Furia Aletto, la quale accitò prima Amata moglie del re Latino a nasconder la figlia ne’ monti sotto il pretesto di celebrale le orgie di Bacco; poi infiammò alla guerra Turno figlio di Dauno re de’ Rutoli, al quale Lavinia era stata innanzi promessa; e finalmente fece che Ascanio coll’ uccisione di un cervo allevato da Tirteo pastore del re desse occasione alle prime zuffe tra i Latini e i Troiani.

Dichiarata la guerra, Turno cercò di trarre al suo partito quanti potè de’ principi dell’ Italia, fra i quali Mezenzio, che per le sue crudeltà era stato cacciato dal regno di Etruria; ed Enea per consiglio avuto in sogno dal Dio del fiume Tevere, n’ andò per esso a chiedere soccorso ad Evandro figlio di Mercurio e di Carmenta o Nicostrata, il quale, come si è detto, partito di Arcadia per avervi digraziatamente ucciso il padre, era venuto in Italia a stabilirsi sul colle Palatino.

Evandro gli diè suo figlio Pallante con una schiara di Arcadi, e il consigliò di ricorrere a’ Tirreni, i quali, espulso Mezenzio, aspettavano secondo l’ oracolo un duce straniero per opporsi agli sforzi che esso faceva per rientrare nel regno,

Turno frattanto avvisato da Giunone per mezzo d’ iride di profittar dell’ assenza di Enea, assalì la piccola città, dove Enea aveva lasciato le sue genti, incendiò le navi, che per esser costruite con legni d’ Ida vennero da Cibele cangiale in Ninfe marine, entrò nella città, ove fe grandissima strage, poi uscendone si gettò a nuoto nel Tevere, e trapassò all’ altra sponda.

I due amici Niso, ed Eurialo uscirono coraggiosi di notte per recare di queste cose l’ avviso ad Enea, ma entrambi rimasero uccisi.

Enea ricevè intanto da Venere le armi fabbricate da Vulcano, fra cui lo scudo, ove erano effigiate le future imprese de’ Latini e de’ Romani, e segnatamente di Augusto.

Giunto che fu cogli Arcadi e co’ Tirreni, seguì grande battaglia, in cui Turno uccise Pattante, Enea uccise Mezenzio e Lauso figlio di lui, e Giunone temendo per Turno, gli presentò una falsa immagine di Enea, cui egli inseguendo fino ad una nave a ciò appostata, fu da questa portato in Ardea capitale de’ Rutoli.

Tornato a Laureato, si avanzò Turno per impedire ad Enea il passaggio de’ monti; e qui appiccossi altra battarglia, ove Camilla regina de’ Volsci, figlia di Metabo, venula in soccorso di Turno, fu uccisa dal toscano Arunte, e questi fu poi trafitto da Opi Ninfa di Diana, alla quale Camilla era consagrata,

Enea innoltrandosi venne a porre l’ assedio a Laurento, Turno allora si offrì di decider la guerra con un duello. Questo ad istanza di Giunone fu disturbato dalla ninfa Giuturna sorella di Turno, che mosse Tolunnio a scagliarsi contro a’ Troiani, onde la battaglia si fece generale. Enea in questa è ferito di saetta in una gamba, e sanato da Venere. Tornato al campo va in cerca di Turno, cui Giuturna, presa la forma del cocchiere di lui conduce in tutt’ altra parte. Enea appressa l’ esercito alla città, e ne arde le torri. Amata credendo Turno ucciso si appicca. Turno vedendo l’ incendio della città vi accorre, ed è ucciso da Enea. Fin qui Virgilio.

Altri aggiunsero poi, che Enea fatta la pace coi Latini sposò Lavinia, che fabbricò una città, cui dal nome di essa chiamò Lavinia, e che Venere dopo tre anni a lui ottenne da Giove, che lavandosi nel fiume Numico spogliasse la natura mortale, e fosse in cielo fra gli Dei Indigeti annoverato.

Lasciò nel Lazio suo successore il figlio Giulio Ascanio, che edificò Alba, e vi trasportò la sua sede.

Dopo una lunga serie di re scese da lui Numitore padre d’ Ilia o Rea Silvia sacerdotessa di Vesta, dalla quale congiunta a Marte nacque poi Romolo, e Remo, fondatori di Roma, di cui si è detto nella I. parte al capo VI.

Appendice. Transunto delle Metamorfosi d’ Ovidio. §

Da principio insieme confusi eran l’ acqua, l’ aria, il fuoco, è la terra. Da questo caos il trasse il Dio della natura e ne formò il Mondo.

Sotto al regno di Saturno fiori l’ età dell’ oro, in cui la terra tutto producea da se medesima. Venne sotto al regno di Giove l’ età dell’ argento, in cui egli costrinse gli uomini a coltivare il terreno per trarne la necessaria sussistenza. Succede l’ età del rame in cui gli uomini cominciarono a farsi guerra tra loro. Seguì da ultimo l’ età del ferro, nella quale inondarono tutt’ i vizi,

Da questi irritato Giove delibera di sommerger la terra con un diluvio universale. Scende egli prima per visitarla, e Licaone re di Arcadia avendogli imbandito a cena, per farne prova, le carni di un ostaggio de’ Molossi, è da lui convertito in un lupo.

Dal diluvio campano sul monte Parnasso Deucalione e Pirra, che ripopolano il mondo gettandosi le pietre dietro le spalle, Parte II. Capo I.

Dafne è cangiata in lauro. Parte I. Capo X.

Io è cangiato in vacca; Argo è ucciso da Mercurio; Io in Egitto diventa Iside, Parte I. Capo IV.

Faetonte mal reggendo il carro del Sole è fulminato da Giove e precipitato nell’ Eridano; le sorelle di lui son mutate in pioppi, e Cigno di lui cugino in cigno. Parte I. Capo IX.

Calisto è cangiata in orsa, e trasportata col figlio Arcade nelle costellazioni dell’ orsa maggiore, e minore. Parte I. Capo XI.

Il corvo avvisa Apollo di aver veduta Coronide figlia di Flegia col giovane Ischi. Egli uccide Coronide, e le trae dal seno Esculapio. Il corvo è cangiato di bianco in nero. Parte I. Capo X.

Coronide figlia di Coroneo è trasformata in cornacchia, Nittimene in civetta; Erittonio nasce mezz’ uomo, e mezzo serpente. Parte I. Capo V.

Ociroe figlia di Chirone è mutata in cavalla. Parte II. Capo VII.

Batto è cangiato in pietra di paragone. Parte I. Capo XII.

Aglauro figlia di Cecrope è mutata in nera pietra. Parte I. Capo XII.

Giove trasformato in toro rapisce Europa, Parte I. Capo III.

Agenore spedisce Cadmo a cercarla; questi in Beozia uccide il drago e ne semina i denti da cui nascono uomini armati. Parte II. Capo IV.

Atteone nipote di Cadmo è cangiato in cervo. Parte I. Capo XI.

Semele figlia di Cadmo è da un fulmine incenerita; Giove n’ estrae Bacco. Parte I. Capo XIII.

Tiresia tebano veggendo due serpi accoppiati li percuote col bastone e diventa donna. Rivedendoli otto anni dopo li percuote di nuovo, e ritorna uomo. Nata contesa fra Giove, e Giunone, quale de’ due sessi provi piacer maggiore, la decide contro il parer di Giunone, che sia maggiore quello della femmina. Giunone di ciò irrirata l’ accieca, e Giove in compenso gli dà la previsione del futuro.

Interrogato Tiresia da Liriope moglie del fiume Cefiso, se il figliuol loro Narciso vivuto sarebbe a lunga età, rispose: Se non vedrà mai se stesso. Or essendosi questi chinato un giorno, stanco della caccia, ad una fonte per bere, veduta in esso la propria immagine, si pazzo amore ne prese, che ne morì, e fu cangiato nel fiore narciso.

La ninfa Eco per avere con lunghi discorsi intertenuto dal sorprender Giove nelle sue tresche amorose ne aveva avuto per pena di non poter più che ripetere le ultime parole altrui. Essendosi poscia innamorata di Narciso, e veggendosi da lui fuggita, ne morì di rammarico, e fu convertita in rupe, che ancor ritiene la proprietà di replicare le ultime voci che la percuotono.

1 corsari di Tiro sono da Bacco mutati in delfini salvo Acete. Parte I. Capo XIII.

Piramo e Tisbe babilonesi opponendosi i parenti alle nozze da lor bramate, per una fessura del muro che divideva le case loro, concertano di trovarsi la notte sotto un gelso presso al sepolcro di Nino. Tisbe è la prima a recarvisi; ma spaventata da una lionessa, che fatta strage di buoi veniva a bere al vicin fonte, sen fugge lasciando ivi il suo velo. Questo dalla lionessa è lordalo di sangue. Piramo sopraggiunto, vedendo il velo di Tisbe insanguinato la crede divorata dalle fiere, e per dolore si uccide. Tisbe tornando al concertalo luogo, e vedendo trafitto Piramo, uccide anche essa colla medesima spada, e il loro sangue fa che i fruiti del gelso, dapprima bianchi, diventin neri.

Leucotoe è cangiata nell’ albero dell’ intenso, e Clizia in girasole. Parte I. Capo IX.

La ninfa Salmace in una fonte della Caria abbraccia Ermafrodito figlio di Mercurio e di Venere, e prega gli Dei di non esserne mai disgiunta. Questi uniscono i due corpi in un solo fornito di ambi i sessi.

Alcitoe, Leuconoe, e le sorelle figlie di Mineo sprezzando Bacco sono cangiate in pipistrelli. Parte II. Capo XIII.

Ino e Melicerta gettandosi in mare diventano Dei marini. Parte I. Capo XVII.

Le Ismenidi compagne d’ ino addolorale al vederla nel mare sommersa vengono trasformate, altre in marmoree statue conservanti l’ atteggiamento in cui erano, altre in uccelli marini.

Cadmo ed Ermione e Armonia son tramutati in serpenti. Parte II. Capo V.

Le gocce di sangue cadute dalla testa di Medusa sopra la Libia divengon tanti serpenti. Parte II. Capo III.

Atlante è da Perseo cangialo in monte. Parte II. Capo III.

Le piante marine, su cui Perseo posa la testa di Medusa, son convertile in coralli. Parte II. Capo III.

I capelli di Medusa erano stati da Pallade mutati in serpenti, perchè nel tempio di Pallade ella si era data a Nettuno convertito in cavallo. Parte II. Capo III.

Pineo, Preto, Polidette sono da Perseo petrifica ti. Parte II. Capo III.

Le Muse cangiansi in ucelli per fuggir Pireneo. Questi per voler inseguirle precipita dalla loggia e si ammazza. Parte I. Capo X.

Le nove figlie di Piero sfidano le Muse al cauto, e son mutate in piche. Parte II. Capo X.

Gli Dei nella guerra di Tifeo con Giove si trasformano in vari animali, e fuggono in Egitto. Parte I. Capo III.

La ninfa Ciane volendosi opporre al rapimento di Proserpina è mutata in fonte. Parte I. Capo XIX.

Stellione è trasformato in lucertola, Ascalafo in gufo, Aretusa in fonte, Lince in lince. Parte I. Capo XIV.

Le Sirene diventano mostri marini. Parte I. Capo XVII.

Aracne sfida Minerva nell’ arte del tessere, ed è mutalo in ragno. Parie. I. Capo V.

Gara di Nettuno con Pallade per dar il nome ad Atene. Parte I. Capo V.

Emo e Rodope sono cangiati in monti, Pigmea in grue, Antigone figlia di Laomedonte in cicogna, le figlie di Cinira ne’ gradi del tempio di Giunone. Parte I Capo V.

Varie trasformazioni di Giove, Nettuno, Apollo, Bacco, e Saturno. Parte I. Capo V.

Niobe sprezzando Latona si vide uccisi da Apollo e da Diana sette figli e sette, figlie, ed ella è cangiata in pietra. Parte I. Capo XI.

Il Satiro Marsia è scorticato da Apollo. Parte I. Capo X.

A Pelope risuscitato è fatta di avorio la spalla, che Cerere avea mangiata. Parte II. Capo X.

Tereo è mutato in upupa, Filomela in rosignuolo, Progne in rondine, Iti in fagiano o in cardellino. Parte I. Capo VI.

Borea rapisce Oritia, e ne nascono i figli alati Calai, e Zete. Parte I. Capo XVIII.

Giasone va alla conquista del Vello d’ oro; coll’ aiuto di Medea doma i tori spiranti fiamme, addormenta il drago ec. Parte II. Capo VII.

Medea richiama Esone all’ età di quarant’ anni. Parte II. Capo VII.

Bacco da esso ottiene dì rendere la gioventù anche alle vecchie sue nutrici.

Per uccider Pelia Medea finge odio con Giasone, persuade alle figlie di Pelia di uccidere il padre e farlo cuocere in una caldaia, promettendo di ringiovanirlo, poi sovra un carro tirato da draghi fugge a Corinto. Parte II. Capo VII.

Cerambo si salva dal diluvio sul monte Parnasso cangiato dalle Ninfe in uno scarabeo. Parte II. Capo I.

Tioneo figlio di Bacco sul monte Ida rapisce un giovenco: è inseguito da’ pastori; Bacco muta il giovenco in cervo, e Tioneo in cacciatore.

Mera è trasformata in cagna. Questa dìcesi che poi divenisse la cagna d’ Icario figlio di Ebalo, e che avendo certi pastori dell’ Attica ucciso Icario e gettatolo in un pozzo, perchè ubbriacatosi col vino che ei loro avea dato, credettersi avvelenati. Mera indicò ad Erigione figlia di lui il luogo ov’ era sepolto; e questa per dolore si appiccò, che sopravvenuta la peste in Atene, l’ oracolo disse che Bacco vendica con essa la morte d’ icario, a cui egli avea insegnato a coltivare la vigna; che gli uccisori furono quindi cercati e messi a morte; che una festa in seguito s’ istituì ad onore d’ Icario e di Erigone, e si disse finalmente, che Icario era stato portato in cielo nel segno di Boote, Erigone in quello della Vergine, e Mera in quello elei la canicola.

Le donne di Euripilo sono cangiate in vacche. Parte II. Capo II.

I Telchini abitatori di Laliso città di Rodi, che affascinavano altrui co’ loro occhi, sono da Giove mutati in iscogli sottomarini.

La figlia di Alcidamante in Cartea città dell’ isola Cea è trasformata in colomba.

Cigno figlio di Apollo e di Iride, amato da Fillio, dopo aver mille cose da lui ottenuto, pretende pure di aver un toro che Fillio gli ricusa; per dispetto si getta da una rupe, ed è convertito in cigno. La madre si strugge di dolore, e diventa un lago.

Comba figlia di Ofio, perseguitata a morte da’ figli, è cangiata in uccello.

Un nipote del fiume Cefiso da Apollo è cangiato in foca.

Anteo figlio di Eumelo re di Patrasso ascende il cocchio di Trittolemo, e n’ è precipitato. Parte I. Capo XVI.

Arne vende la patria a Minosse, ed è cangiato in mulacchia. Parte II. Capo IX.

Essendo l’ isola di Egina spopolata dalla peste mandata da Giunone, Eaco figlio di Giove e di Egina a lui ricorre, e veggendo al piede di una quercia gran quantità di formiche gli chiede di avere altrettanti uomini, Giove gli cangia quelle formiche in uomini, che per ciò vengon da Eaco nominati Mirmidoni da myrmex formica.

Scilla figlia di Niso recide al padre un crine purpureo, cui era annesso il destino di Megara, per darlo a Minosse. Ella è cangiata in lodola, e Niso in avoltoio. Parte II. Cap. VIII.

Perdice nipote di Dedalo è da lui ucciso, e da Minerva cambiato in pernice, Parte II. Capo X.

Dedalo fugge da Creta colle ali fabbricatesi da se stesso; il figlio Icaro cade in mare. Parte II, Capo VIII.

Altea madre di Meleagro con lui sdegnata rimette sul fuoco il tizzone, al quale la vita di lui era annessa, ed ei muore consunto da interna arsura. Parte I. Capo XI.

Le sorelle di Meleagro piangendo la morte di lui sono cangiate da Diana negli uccelli meleagridi. Parte I. Capo XI.

Cinque Naiadi sacrificando agli altri Iddii, posto in non cale il Dio del fiume Acheloo, sono da esso gettate in mare, e si trarformano nelle cinque isole Echinadi.

Pelimele figlia d’ Ippodamante congiuntasi ad Acheloo, è dal padre precipitata in mare, e da Nettuno ad istanza di Acheloo cangiata in un’ isola vicina ab l’ Echinadi.

Giove, e Mercurio, viaggiando per la Frigia sotto umana sembianza, rigettati dagli altri, sono accolti amorevolmente da Filemone e Bauci di lui moglie. In ricompensa, condottili sopra di un colle, fan loro vedere il paese inospitale cangiato in palude, e il lor tugurio in tempio, di cui si fan Sacerdoti; e giunti a decrepitezza, bramando essi di non sopravvivere l’ uno all’ altra, son trasformati nel medesimo istante Filemone in elee, e Bauci in tiglio.

Erisittone per aver tagliato il bosco di Cerere è tormentato dalla fame. Metra sua figlia, col lasciarsi vendere schiava, per alcun tempo il sostiene; ma alla fine egli è ridotto a mangiarsi le proprie carni. Parte I. Capo XIV.

Acheloo è vinto da Ercole. Parte II. Capo II.

La ninfa Loto; e Driope sono cangiate in loto. Parte I. Capo XVI.

Giolao figlio d’ Ificlo e nipote di Ercole ad istanza di lui è da Ebe restituito alla giovinezza. Parte II. Capo II.

Alcmeone figlio di Anfìarao uccide la madre Erifile; è agitato dalle Furie, ucciso poi da’ cognati, è vendicalo da’ figli. Parte II. Capo VI.

Bibli, figlia di Mileto e di Circe figlia del fiume Meandro, s’ innamora di Cauno suo fratello gemello, e quest’ amore incestuoso gli manifesta. Cauno fugge inorridito abbandonando la patria. Bibli ne corre in traccia, e non trovandolo muor di dolore in Caria, e dalle ninfe Lelegeidi è cangiata in fonte.

Litto in Festo di Creta esige promessa da Teletusa sua moglie, che se partorisce una figlia, l’ uccida. Ella partorisce la figlia Ifi, cui alleva, facendo credere a Litto che sia un maschio. La cosa stava per iscoprirsi all’ occasione che Ifi sposar doveva Jante figlia di Teleste; ma Teletusa ottiene da Iside, che sia realmente cangiata in maschio.

Orfeo scende all’ inferno per ricuperare Euridice. Parte II. Capo VII.

Letea moglie di Oleno, preferendosi in beltà alle Dee, è cangiata in pietra nel monte Ida insieme col marito, che a parte vuol essere della pena.

Il giovane Cisso saltando nelle feste di Bacco cade in una profonda fossa, ed è mutato in edera. Parte I. Capo XIII.

Ati è cangiato in pino. Parte I. Capo X.

Ciparisso e trasformato in cipresso. Parte I. Capo X.

Ganimede è rapito da Giove. Parte I. Capo III.

Giacinto è mutato nel fiore giacinto. Parte I. Capo X.

Le Propetidi sono da Venere cangiale in sasso. Parte I. Capo VIII.

I Cerasti, che a Venere sagrificano gli ospiti, sono da lei convertiti in tori. Parte I. Capo VIII.

Pigmalione scultore s’ innamora di una sua statua, chiede a Venere che sia animata, e l’ ottiene; da essa nasce Pafo, che dà il nome alla città di Pafo.

Mirra figlia di Cinira s’ innamora del padre; è trasformata nell’ albero della mirra; da questo nasce Adone, che poi è amato da Venere, ucciso da un cignale, e cangiato in anemone. Parte I Capo VIII.

Atalanta figlia di Scheneo ricusa di unirsi ad alcuno, che lei non vinca nel corso, ponendo per patto la morte a colui che resta vinto. Ippomene riceve da Venere tre pomi d’ oro colti in Cipro nel campo Tamaseno, i quali gettati l’ uno dopo l’ altro mentre Atalanta si ferma a raccoglierli, riesce a precorrerla. Ma ingrato poi dimostrandosi verso di Venere, e da lei sospinto ad accoppiarsi con Atalanta nel bosco consacrato da Echione a Cibele, e per aver violato il luogo sacro egli è da Cibele cangiato in leone, e Atalanta in leonessa.

Le donne dei Ciconi assassine di Orfeo sono da Bacco mutate in piante, e un serpente, che si avventa per morderne il capo, è da Apolline mutato in Sasso. Parte II. Capo VII.

Mide ottiene da Bacco di cangiare in oro tutto ciò ch’ egli tocca. Parte I. Capo XIII.

Apollo gli fa sorgere l’ orecchie d’ asino. Parte I. Capo X.

Laomedonte froda Apollo e Nettuno del prezzo convenuto per l’ edificazione delle mura di Troia. Nettuno manda un mostro marino, a cui Laomedonte costretto ad esporre la figlia Esione. Parte I. Capo X.

Esione è liberata da Ercole, il quale frodato egli pure de’ promessi cavalli, espugna Troia, uccide Laormedonte, e dà Esione al socio Telamone. Parte, II. Capo II.

Nozze di Peleo e Tetide. Parte I. Cap. XVII.

Chione figlia di Dedalione è trafitta da Diana; Dedalione si precipita in mare, ed è cangialo in uno sparviero, Parte I. Capo XI.

Ceice re di Trachine figlio di Fosfora va a consultar l’ oracolo, di Ciato, promettendo alla moglie Alcione di tornar fra due mesi. Naufraga nel ritorno, e il suo corpo è portato dalle onde verso il lido. La moglie lo scopre da lungi, e va per raggiungerlo in mare. Gli Dei mossi a pietà cangiano amendue in Alcioni.

Esaco figlio di Priamo e di Alessiroe ama non riamato la ninfa Eperie. Mentre P insegue, questa è morsa da un serpente. Esaco per dolore si getta in mare, e da Tetide è convertito in mergo.

Presagio avuto da’ Greci in Aulide, che Troia sarebbe stata presa nel decimo anno. Parte II. Capo XI.

Sacrificio d’ Ifigenia, e sostituzione della cerva in suo luogo. Parte II. Capo XI.

Cene figlia di Elato ottien da Nettuno di essere cangiata in maschio. È uccisa dai Centauri. Parte I. Capo XVII.

Periclimeno trasformato in aquila è trafitto da Ercole. Parte II. Capo II.

Achille uccide Cigno figlio di Nettuno, questi eccita, Apollo a dirigere contro di esso lo strale di Paride. Parte II. Capo XI.

Aiace proposto ad Ulisse nella contesa per le armi di Achille, furioso si uccide, e dal suo sangue spuntano dei giacinti. Parte II. Capo XI.

Ecuba accieca Polinnestore uccisore di Polidoro ed è cangiata in cagna. Parte II. Capo XIII.

Mennone coi compagni son convertiti negli uccelli mennonidi. Parte II. Capo XII.

Le figlie di Anio ottengon da Bacco di cangiare tutto quello che toccano in frumento, olio, e vino. Fuggendo Agamennone sono da Bacco mutato in colombe. Parte II. Capo XI.

Mentre Tebe è afflitta dalla pestilenzia., l’ oracolo dichiara che non cesserà, se non, sacrificano due vergini. Metioca e Menippe si offrono volontarie al sacrificio. Dal loro rogo escono due giovani, che son nominati Coroni.

I figli del re Molosso fuggendo da un incendio son convertiti in uccelli.

Aci è schiacciato da Polifemo, e da Galatea cangiato in fiume. Parte I. Capo XVII.

Glauco al mangiar di cert’ erba balzando in mare è fatto Dio marino. Parte I. Capo XVII.

Scilla è cangiata in mostro. Parte I Capo XVII.

I Cercopi, due de’ quali erano Candulo ed Atlante, per le loro frodi sono da Giove mutati in sci mie; e posti ad abitare nelle isole Ischia e Procida dette perciò Pitecuse.

La Sibilla Cumana amata da Apollo, è da esso invitata a domandare tutto ciò ch’ ella brama. Preso un pugno di arena, gli chiede di poter vivere tanti anni, quante sono le arene che tiene in mano, ma si dimentica di chieder pure di non invecchiare. Non avendo adunque voluto corrispondere all’ amore di Apollo ottiene bensì la longevità, ma arriva a tale decrepitezza, che consunto tutto il corpo, non ne riman che la voce.

I compagni di Ulisse vengon da Circe cangiati in porci; Pico re del Lazio è mutato in picchio, Canente moglie di lui è disciolta in aura. Parte I. Capo IX.

I compagni di Diomene, Acmone, Lico, Ida, Retenore, Nitteo ed Abante sprezzando l’ ire di Venere sono cangiati in bianchi uccelli simili ai cigni. Parte II. Capo XIV.

Un pastore della Puglia insultando la Ninfe con ingiuriose parole è mutato in oleastro.

Le navi di Enea incendiate da Turno sono da Cibele cangiate in Ninfe marine. Parte II Capo XIII.

La nave de’ Feaci dopo avere deposto Ulisse in Itaca al ritorno è petrificata da Nettuno. Parte II. Capo XII.

Ardea patria di Turno dopo la morte di lui è incendiata da Enea, e n’ escono gli uccelli chiamati a idea.

Venere impetra da Giove, che Enea lavandosi nel fiume Numico spogli la natura mortale e sia annoverato fra gli Bei. Parte II. Capo XIII.

Vertunno per vincer Pomona, prima; si cambia in vecchio, e poi in bellissimo piovane. Parte I. Cap. XVI.

Tiberino re degli Albani si affoga nel fiume Albula, e fatto Dio, da al fiume il proprio nome.

In Cipro Ifi ama Anassarete, e da lei sprezzato si appicca innanzi alla porta di lei medesima. Quando è portato alla sepoltura, ella s’ affaccia alla, finestra a mirarlo, ed è cangiata in sasso.

Nella guerra di Tito Tazio re dei Sabini contro di Roma, Terpea apre al Sabini, una porta; Venere ottiene dalle Ninfe, che le vicine acque diventino bollenti, e i Sabini ne sono respinti.

Miscelo figlio di Alemone Argivo, da Ercole in sogno è avvisatoci abbandonare la patria, malgrado la legge che ciò vietava, e andare a stabilirsi al fiume Esare in Calabria. È preso dagli Argivi e tratto in giudizio ma Ercole fa che nell’ urna dei giudici i calcoli diventino tutti bianchi, e con ciò a lui favorevoli. Parte quindi assoluto, e presso l’ Esare fabbrica Taranto, cui dà questo nome dal’ vicino, sepolcro di Tarante figlio di Nettuno.

Pittagora narra essere l’ anima di Euforbo troiano ucciso da Menelao in lui trasmigrata.

Ippolito risuscitato da Esculapio è trasportato da Diana nel bosco di Aricia, e venerato quivi sotto il nome di Virbio.

Nel medesimo bosco si ritira la Ninfa Eperia dopo la morte del maritò Nu-ma Pompilio, ed è cangiata in fonte.

Nell’ Etruria un aratore profondando l’ aratro più addentro del solito solleva una zolla pesante, cui vede cangiarsi in fanciullo, al quale dà il nome di Trage; e questi, divien poi ivi il primo maestro dell’ arte di predire il futuro.

Un’ asta scagliata da Romolo sul monte Palatino si planta in terra, e diventa un albero.

Cippo Pretore romano sente nascersi le corna in fronte, il toscano Aruspice predice che’ entrando in’ Roma ei ne sarebbe proclamato Re. Egli invece convocato il senato ed il popolò domanda di esser escludo da Roma, ed in compenso gli viene assegnato quanto terreno può cinger di un solco dal nascere al tramontare del sole.

Esculapio sotto la figura di serpente e condotto da Epidauro a Roma, e la libera dalla peste. Parte I. Capo X.

Ucciso Giulio Cesare in senato, Venere toglie l’ anima, e la porta in cielo, dove si manifesta sotto la forma di una cometa.

Appendice. Origine dell’ idolatria.
Riti Religiosi de’ Gentili, delle loro feste e de’ loro giuochi. §

L’ idolatria secondo l’ Ab. Banier incominciò dal culto degli astri, e principalmente del Sole e della Luna. Da questo, si passò al culto del Fuoco, dell’ Aria, e de’ Venti, del Mare e dei Fiumi, della Terra e de’ Monti, e finalmente a quello degli Uomini che per qualche straordinaria azione si erano resi illustri.

Questo culto però da principio era semplicissimo. Un mucchio di sassi coperti d’ erbe ò di fronde in aperta campagna, o in qualche luogo elevato era l’ altare, sul quale agir Dei rappresentati da un sasso informe o da’ un tronco offerivansi 1 frutti della terra, e non più. A poco a poco incominciaronsi ad effigiare gli Dei sotto varie forme nelle statue di legno, di creta, di marmo, di bronzo, di avorio, di argento, e d’ oro, s’ incominciarono ad alzar loro de’ piccioli e rozzi tempietti ne’ boschi lor consecrati, finchè si giunse ad erigere i più magnifici templi, quali erano il tempio di Vulcano a Memfi in Egitto, quello di Diana in Efeso, quelli di Apollo a Mileto e a Delfo, quelle di Cerere in Eleusi, quello di Giove Olimpio in Atene, e in Roma quello di Giove Capitolino, ed il Panteon che tuttavia sussiste. Ne’ sacrifici oltre a frutti della terra incominciaronsi a offerir gli animali; e ne’ più solenni, chiamati ecatombe, immola varisi fin cento buoi, oltre il detestabil costume in molti luoghi introdotto di sacrificare anche vittime umane.

Ne sacrifici solenni la vittima ornavasi di fiori, di nastri e di bende, le, si indoravan le corna, le si poneva sul capo la mola salsa, che era una stiacciata di farro con sale, il Sacerdote le strappava dal capo alcuni peli e li gettava sul fuoco, poi ordinava a’ ministri detti Vittimari, Popi, o Cultrari di scannarla; l’ Aruspice esaminava quindi le interiora se eran sane, il che era di buon augurio, e se eran guaste o infette, che era di augurio sinistro; per ultimo una porzione della vittima abbruciavasi in onor degli Dei, il resto mangiavasi, eccetto negli olocausti, ove tutta la vittima si abbruciava.

I sacrifici eran sempre accompagnati dalle libazioni, che consistevano nel versare del vino (o in mancanza di esso dell’ acqua) in onore del Dio, al quale sacrificavasi.

Usavasi pure ne’ sacrifìci l’ incenso maschio, e dalla maniera con cui ardeva da! crepitare, dal fumo, traevansi gli auguri.

Ogni tempio aveva i suoi Sacerdoti, e molti di questi erano distinti con nomi particolari secondo il Dio a cui servivano, così Galli chiamava usi i Sacerdoti di Cibele, Luperci quelli di Pane, Sali quelli di Marte, ec.

In molti luoghi eranvi pur le Sacerdotesse, come in Delfo la Pitia sacerdotessa di Apollo; in Roma le Vestali custodi del fuoco di Vesta, e in molle parti cosi della Grecia, come dell’ Italia le Baccanti, o Menadi, o Bassaridi, o Tiadi, o Mimallonidi, o Edonidi, o Bliadi sacerdotesse di Bacco.

In Roma chi aveva nelle cose sacre la suprema autorità era il Pontefice Massimo; Seguivano i Flamini, tra etti il Diale o Flamine di Giove era il primo, e solo avea il privilegio di portare l’ albogalero ch’ era una specie di berretto bianco, poi venivano il Marziale, il Quirinale, il Floreale ec. Eravi il re sacrificolo detto ancora rex: sacrorum, come regina sacrorum diceasi la moglie di lui, e che secondo Macrobio sacrificava principalmente a Giunone nella curia detta Calabria. A’ conviti che celebravansi dopo i sacrifici presedevano gli Epuloni, che prima furon tre soli, poi cinque, sette, e infine a dieci. Gli Aruspici erari quelli che osservavano le interiora della vittima; e gli Aruspici si dissero istituiti da Tagete Etrusco, il quale si favoleggiò esser nato da una grossa zolla di terra, cui sollevò un agricoltore profondando l’ aratro più; del consueto. I sacerdoti Arvali erari quelli che sacrificavano per la fertilità de’ campi, i Feciali quelli che si spedivano per dichiarare la guerra, o trattare la pace.

Eravi pure in Roma il collegio degli Auguri, nè cosa alcuna di gran momento s’ intraprendeva, prima che questi non avessero deciso se l’ augurio era fausto o infausto. Gli auguri poi si prendevano altri dall’ osservazione del cielo, che propriamente dicevansi auguri, altri dal canto e dal volo degli uccelli, che più propriamente si chiamavano auspici, altri dal mangiare de’ polli. Il fuoco era di buon augurio quando udivasi alla sinistra, perchè giudicavasi proveniente dalla destra di Giove; non così se udivasi al contrario. Tutti i fenomeni straordinari, tutti i casi impensati, tutti ì modi volontari del cuore, e degli occhi, delle ciglia, il sonar degli orecchi, gli starnuti, le parole e rumori uditi a caso e improvvisamente, offerivan materia di buono o tristo presagio, perchè riguardavansi come avvisi spediti dagli Dei di ciò che aveva a succedere.

Il desiderio di saper l’ avvenire fu quello che diede origine alla astrologia e alla divinazione introdotta prima presso i Caldei e gli Egiziani, e propagata poscia nelle altre parli del mondo, e con cui pretendevasi di potere da’ movimenti e dalle posizioni degli astri, e da altri fenomeni della natura predire i futuri eventi, come se queste cose avessero sopra le umane vicende quell’ influenza che mai non ebbero, nè potevano avere.

Lo stesso desiderio pur diede origine agli oracoli, che sparsi erano in mille luoghi, e che avidamente si consultavano in tutti gli affari importanti.

I più famosi tra questi erano: 1. L’ oracolo di Dodona nell’ Epiro, dove i Sacerdoti rendeano le risposte ascose nelle querce del bosco a Giove consecrato per cui le favole dissero, che le querce parlavano. 2. L’ oracolo di Giove Aminone nella Libia, dove la statua di lui solennemente portavasi da’ Sacerdoti, e da’ segni che ella dava co’ vari suoi movimenti, i Sacerdoti interpetravano le risposte. 3. L’ oracolo di Delfo, in cui le risposte davansi dalla Pitia sacerdotessa di Apollo. Stava sopra di un tripode collocato su di una buca, di cui uscivano delle forti esalazioni, dalle quali allorchè la Pitia era inebriata, pronunziava delle parole per lo più oscure o confuse, che raccoglievansi da’ Sacerdoti a ciò destinati, e disponevansi in versi. 4. L’ oracolo di Trofonio, il quale rendevasi in una caverna presso Lebadea città della Beozia. Era Trofonio figlio di Ercino re di Orcomeno, e avendosi secondo Plutarco, fabbricato in compagnia del fratello Anamede il tempio di Delfo, ne chiese ad A polline la ricompensa. Questi promise che data l’ avrebbe dopo otto giorni, al fine dei quali i due fratelli furono trovati morti. Pausania dice in cambio, che Trofonio fu inghiottito vivo dalla terra apertasi sotto di lui, e che in quella stessa caverna il suo oracolo fu indi stabilito. Chi andava per consultarlo dopo varie preparazioni entrar facevasi in questa caverna, dalla quale uscendo riferiva quanto vi aveva udito e veduto a’ Sacerdoti, che a loro modo l’ interpetravano.

L’ oracolo del bue Api in Egitto traevasi dall’ accertar ch’ ei faceva o rifiutare quello che gli si dava a mangiare. L’ oracolo di Venere in Africa tra Eliopoli e Biblo era favorevole, se le cose che gettavansi nel vicin lago andavano al fondo, contrarie se rimanevano a galla. L’ oracolo della Fortuna a Preneste e ad Anzio rendevasi per via di sorti t gettando una specie di dadi, su cui erano scrìtti de’ Caratteri, il significato dei quali cercavasi nelle tavole a ciò fatte espressamente. Per cento altre maniere, che troppo lungo sarebbe l’ annoverare gli oracoli si rendevano in altri luoghi.

Fra le donne che professarono di conoscere, e di predire il futuro, famose furono le Sibille, il numero delle quali è vario presso i vati autori. Varrone ne annovera dieci, 1. La Persiana detta dagli antichi Sambethe. 2. La Libica, detta da Euripide figliuola di Giove e di Lamea; 3. La Delfica da Diodoro chiamata Danfe; 4. La Cimmeria, nata fra i Cimmerî d’ Italia secondo Nevio e Pisone; 5. L’ Eritrea, che secondo Varrone e Apollodoro vivea al tempo della guerra troiana, e secondo Eusebio ai tempi di Romolo, 6. La Samia chiamata Pilo secondo Suida, ed Erfile secondo Eusebio; 7. La Cumana detta secondo alcuni Amaltea, e secondo altri Demofila o Erofile; 8. l’ Ellespontina che Eraclite Pontico dice vivuta al tempo di Ciro; 9. La Frigia, che soggiornava ad Ancira; 10. La Tiburtina chiamata Albunea. Alcuni vi hanno aggiunto la Sardica nativa di Sardi nella Libia. Presso i Romani la più famosa era la Sibilla Cumana, la quale si disse che offerse al re Tarquinio superbo una raccolta di versi sibillini in nove libri, chiedendone trecento monete d’ oro, che avendole questi ricusato pagarle., ella gettò tre libri sul fuoco, domanda lo stesso prezzo per gli altri sei; che al secondo rifiuto ne gittò sul fuoco tre altri, insistendo a volere il medesimo prezzo pei tre ultimi che rimanevano, e che poi da Tarquinio furono comperati. Questi furono gelosamente custoditi nel Campidoglio sotto alla guardia de’ Quindecemviri fino ai tempi di Silla, ne’ quali da un incendio rimasero consumati.

Frequenti erano presso i Gentili le espiazioni, le quali facevansi o per delitti commessi, o in occasione di pubbliche calamità per placare gli Dei, o all’ apparir di prodigi straordinari per allontanare i mali che si temevano, o all’ avvenirsi in alcuna cosa di mal augurio o per prepararsi a qualche impresa importante, onde avere gli Dei favorevoli, o per iniziarsi a’ misteri. L’ espiazioni solenni erano precedute da digiuni, e seguite da preghiere pubbliche, e da sagrifici espiatori. All’ espiazioni minori bastava il farsi aspergere colf acqua lustrale consegrata da’ Sacerdoti, e spesso anche il lavarsi tutto il corpo, od anche le sole mani in acqua pura.

Moltissime eran pure le feste in onor degli Dei così presso i Greci, come presso i Romani. Intorno alle prime può consultarsi Meurzio, che ne ha trattato espressamente, per le seconde Ovidio ne’ Fasti, e Rosini nelle Romane antichità; sebbene le principali tra queste sono state da noi accennate a’ loro luoghi.

Le feste per ordinario accompagnate eran da’ pubblici giuochi. Fra questi i più famosi giuochi nella Grecia erano 1. gli Olimpici, che celebravansi in Olimpia città dell’ Elide, ogni quattro anni, e da cui prese origine il computo delle Olimpiadi: 2. i Pitici, che celebravansi a Delfo, 3. i Nemei, che si celebravano a Nemea, 4. gl’ Istimici, che si tenean nell’ istmo di Corinto.

A questi giuochi concorreva tutta le Grecia. Il premio era una corona di alloro ne’ primi e ne’ secondi, una di appio ne’ terzi, ed una di pino ne’ quarti: ma i vincitori erano poi celebrati da’ più insigni poeti, come appare dalle odi di Pindaro, erano spesso onorati di pubbliche statue, e nella loro patria erano tenuti sempre in grandissimo pregio.

I giuochi distinguevansi in scenici, e ginnastici; I primi consistevano incanti, e suoni, e nelle tragedie e commedie che recitavansi ne’ teatri. I secondi tenevansi negli anfiteatri e ne’ circhi, ed erano: 1. la corsa a piedi, o a cavallo, o sulle bighe e le quadrighe; 2. il disco, ch’ era un pezzo rotondo di legno, o sasso, o ferro assai pesante, che i giocatori sforzavansi di gettare, quanto potessero più lontano; 3. il giavellotto che lanciavasi colla mano o la saetta, che si scagliava coll’ arco al segno prefisso; 4. La lotta o il pancrazio, cui gli atleti nudi ed unti di olio cercavano di atterrarsi l’ un l’ altro; 5. il salto o all’ insù, ovvero orizzontalmente; 6. il pugilato, nel quale combattevasi ora co’ pugni soltanto, or co’ cesti, che erano guanti di duro cuojo guerniti spesso di ferro e di piombo.

Questi giuochi più tardi introdotti furono ancor da’ Romani, che teatri, e anfiteatri, e circhi magnifici innalzarono per celebrali, i di cui avanzi ancor si veggono non solo in Roma, ma in Verona, in Capua, in Pozzuoli, in Nimes, e in altri luoghi. A’ detti giuocchi essi aggiunsero ancor i sanguinosi spettacoli de’ combattimenti delle fiere, le quali uscir si facevano dalle carceri o tane praticate al basso degli anfiteatri, e i più atroci e crudeli spettacoli de’ combattimenti de’ gladiatori che spesso costretti erano a pugnare fino alla morte.

FINE.