Claudio Antonio Testi

1831

Mitologia ad uso della gioventù

2019
Claudio Antonio Testi, Mitologia ad uso della gioventù. Ornata di quattordici Tavole incise in rame, Milano, Fanfani, 1831, in-16, XIV-469 p. PDF : Google.
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[n.p.]
Mitologia
[n.p.] {p. III}

Discorso Preliminare. §

Esistono molti libri sulla Mitologia, ma pochi se ne trovano, a nostro credere, che convengano ai giovani e la lettura dei quali sia ad essi di qualche profitto. Peccano gli uni di prolissità la quale ad altro non serve che a confondere le loro menti, e nulla posson apprendere dall’arida nomenclatura di tanti altri ; inconvenienti che ci siamo sforzati d’evitare in questo libro, in cui si è procurato {p. IV}di non parlare che di articoli interessanti e creduti indispensabili a sapersi, trattandoli con una certa latitudine, ed impiegando ogni cura perchè l’esposizione ne fosse fatta in termini così misurati dal lato della morale e del costume, che questo libro potesse girare tra le mani de’ giovinetti di ambo i sessi senza riserva alcuna.

Coll’ entrare, come si è fatto, in alcune particolarità e col togliere il velo allegorico che copre alcune favole si è avuto in animo di dare utili insegnamenti come pure di eccitare la curiosità dei giovani onde si applicassero con maggior zelo a tale studio.

{p. V}Vari buoni trattati di Mitologia sono stati consultati e messi a profitto per questo libro ed agli autori di essi dovrassi attribuirne l’esito fortunato, quando tal sorte siagli riserbata.

Quattordici tavole diligentemente incise in rame rappresentanti altrettanti soggetti di cui è fatto parola in questo Compendio sono state aggiunte per corredo a quest’operetta, che speriamo vedere per vari titoli preferita ad altre di simil genere. Desideriamo poi soprattutto che questa nostra fatica possa esser di qualche utilità agli studiosi.

Lo scopo nostro è stato di far ad essi conoscere le finzioni dei poeti, di scoprir loro le ricchezze che da {p. VI}più di tremila anni asconde questa perenne miniera di leggiadre invenzioni. Le follie di quegli stessi Dei a noi rappresentati come inferiori agli uomini e che non sono da paragonarsi a quei filosofi che tanti diritti si sono acquistati alla riconoscenza del genere umano, comincieranno a divertirli e serviranno loro dopo di lezione : di morale, da cui potranno trarre profitto, se sapranno farne delle giuste applicazioni. Se il loro tenero animo si è mosso a sdegno alla lettura di qualche tratto inumano, se hanno versato delle lagrime, potranno ben tosto asciugarle quando sapranno che Saturno non fu mai padre sì snaturato per {p. VII}divorare i propri figli ; che Giove non fu un figlio ingrato, nè un Dio mille volte più colpevole degli scellerati che fulminò dall’ Olimpo. Se a caso non s’avvedessero che gli autori di queste allegorie hanno avuto in mira d’istruire i popoli mentre questi non credevano che di divertirsi ; se giugnessero a credere che questi sono racconti puerili nati nel seno dell’ignoranza e della barbarie, diremo loro : « No non furono barbari quelli che inventarono le favole della Mitologia, ma geni che infiammati da un fuoco divino, riscaldati dalle bellezze della virtù, renduti attoniti dalla magnificenza dell’universo, penetrati dalle leggi {p. VIII}ammirabili sulle quali si aggirano il mondo fisico e morale, colpiti al primo sguardo dall’immensa influenza dell’ ordine per la prosperità delle società e delle nazioni, preser la lira e cantarono cogli armoniosi suoni di lei l’esistenza della divinità, i suoi beneficii verso gli uomini, la necessità dell’ ordine, della giustizia, della pace, i diletti ed i piaceri e le dolcezze della vita campestre ; e facendo in tal guisa passare nell’ animo dei loro contemporanei i sentimenti di cui essi stessi erano penetrati, ornavano il loro spirito, formavano il loro cuore, e lo guidavano alla pratica del bene. »

{p. IX}Diremo loro che la poesia sarebbe spoglia de’ suoi ornamenti senza la Mitologia. E difatti essa personifica le idee e le passioni umane, brillanti e vivissime rende le immagini, nè senza di essa potrebbe la poesia secondo il precetto oraziano avvicinarsi alla pittura. Il Tasso per dire che Rinaldo aveva un aspetto avvenente e guerriero così si esprime(1) :

Se ’l miri fulminar nell’ arme avvolto,
Marte lo stimi ; Amor, se scopre il volto.

Che bell’effetto e che forza aggiungono all’ espressione del poeta i due nomi Marte e Amor !

{p. X}Diremo loro inoltre che senza la Mitologia a nulla si ridurrebber le bellezze de’ monumenti preziosi sfuggiti alle devastazioni dei conquistatori ed ai rigori del tempo ; e non dissimil sorte toccherebbe ai capi d’opera di pittura e di scultura ; gli ornamenti stessi che abbelliscono le città ov’essi son nati apparirebber agli occhi loro di niun valore ; e giunti che saranno all’età di poterne conoscere il merito s’accorgeranno che la trascuratezza di questo studio ha esposto i più eccellenti artisti a confondere il tutto con degli strani anacronismi, rappresentandoci delle cose estranee al secolo di cui ci volevano far conoscere i costumi e gli usi. E per convincerli {p. XI}maggiormente porrem termine alla nostra esposizione col riportare alcuni squarci di un discorso del maggior dei poeti italiani de’ nostri tempi scritto in difesa della Mitologia contro una nuova scuola che condanna altamente e dispregia questa maniera di studii, siccome frivoli ed infruttuosi, e come sogni d’infermo e fole da romanzo.

Così si esprime il poeta nel porre in chiaro il consiglio e l’intendimento di questa scuola per poi discendere a distruggere i suoi errori(1) :

Audace scuola boreal, dannando
Tutti a morte gli Dei, che di leggiadre
{p. XII}Fantasie già fiorîr le carte argive
E le latine, di spaventi ha pieno
Delle Muse il bel regno. Arco e faretra
Toglie ad Amor, ad Imeneo la face,
Il cinto a Citerea. Le Grazie anch’esse,
Senza il cui riso nulla cosa è bella,
Anche le Grazie al tribunal citate
De’ novelli maestri alto seduti
Cesser proscritte e fuggitive il campo
Ai Lemuri e alle Streghe. In tenebrose
Nebbie soffiate dal gelato Arturo,
Si cangia (orrendo a dirsi !) il bel’ zeffiro
Dell’italico cielo ; in procellosi
Venti e bufère le sue molli aurette ;
I lieti allòri dell’aonie rive
In funebri cipressi ; in pianto il riso ;
E il tetro solo, il solo tetro è bello.

Quindi tocca il gran sistema della greca Mitologia, e descrive a parte a parte come tutto fosse animato nel {p. XIII}mondo in acconcio della poetica invenzione.

Tempo già fu, che, dilettando, i prischi
Dell’apollineo culto archimandriti
Di quanti la Natura in cielo e in terra
E nell’aria e nel mar produce effetti,
Tanti Numi crearo : onde per tutta
La celeste materia e la terrestre
Uno spirto, una mente, una divina
Fiamma scorrea, che l’alma era del mondo.
Tutto avea vita allor, tutto animava
La bell’arte de’ vati. Entro la buccia
Di quella pianta palpitava il petto
D’una saltante Driade ; e quel Duro
Artico Genio destruttor l’uccise.
Quella limpida fonte uscìa dell’ urna
D’un’innocente Najade ; ed, infranta
L’urna, il crudel a questa ancor diè morte.
Garzon superbo e di sè stesso amante
Era quel fior ; quell’altro al Sol converso
Una Ninfa, a cui nocque, esser gelosa.
{p. XIV}Il Canto che alla queta ombra notturna
Ti vien sì dolce da quel bosco al core,
Era il lamento di regal donzella
Da re tiranno indegnamente offesa.
Quel lauro onor de’ forti e de’ poeti,
Quella canna che fischia, e quella scorza
Che ne’ boschi Sabei lagrime suda ;
Nella sacra di Pindo alta favella
Ebbero un giorno e sentimento e vita.
Or d’aspro gelò aquilonar percossa
Dafne morì ; ne’ calami palustri
Più non geme Siringa ; ed in quel tronco
Cessò di Mirra l’odoroso pianto(1).

{p. XV}Così chiuse poi il discorso con alcuni versi che si potrebbero dire un Inno di vittoria cantato in onore della Mitologia dopo sconfitti i nemici :

Ah riedi al primo officio, o bella Diva,
Riedi, e sicura in tua ragion col dolce
Delle tue’ vaghe fantasie l’amaro
Tempra dell’aspra Verità. Nol vedi ?
Essa medesma, tua nemica in vista,
Ma in segreto congiunta, a sè t’invita :
Che non osando timida ai profani
Tutta nuda mostrarsi, il trasparente
Mistico vel di tue figure implora,
{p. XVI}Onde mezzo nascosa e mezzo aperta,
Come rosa che al raggio mattutino
Vereconda si schiude, in più desío
Pungere i cuori ed allettar le menti.
Vien, chè tutta per te fatta più viva
Ti chiama la Natura. I laghi, i fiumi,
Le foreste, le valli, i prati, i monti,
E le viti e le spiche e i fiori e l’erbe
E le rugiade e tutte alfin le cose
(Da che fur morti i Numi, onde ciascuna
Avea nel nostro immaginar vaghezza
Ed anima e potenza) a te dolenti
Alzan la voce, e chieggono vendetta.
E la chiede dal ciel la luna e il sole
E le stelle non più rapite in giro
Armonïoso, e per l’eterea vôlta
Carolanti, non più mosse da Dive
Intelligenze, ma dannate al freno
Della legge che tira al centro i pesi :
Potente legge di Sofia, ma nulla
Ne’ liberi d’Apollo immensi regni,
Ove il diletto è prima legge, e mille
Mondi il pensier a suo voler si crea.
{p. 1}

Mitologia ad uso della gioventù §

Introduzione §

Vari sono i metodi adottati per insegnare la Mitologia. Quand’essa non si rappresenta sotto le forme di dizionario suolsi dividerla comunemente in tre parti.

Si descrivono nella prima gli Dei Superiori, gl’ Inferiori nella seconda, i Semidei nella terza.

{p. 2}Gli Dei Superiori sono dodici : Giove, Giunone, Vesta, Minerva, Marte, Venere, Diana, Nettuno, Apollo, Mercurio, Vulcano e Cerere. Vi si aggiungono da molti il Caos, Saturno, Plutone detto anche Orco, Proserpina e Bacco cui da alcuni si dà il nome di Libero.

Le principali Divinità Inferiori sono Pane, Giano, Eolo, Pluto, Imene, Momo, il Sonno, Morfeo, Arpocrate, l’Aurora, Vertunno, Flora, Pomona, Igiea, Ebe, il Destino, ecc.

Semidei chiamavansi propriamente quelli che avevano per padre un Dio o una Dea per madre. {p. 3}Semidei si dissero pure gli eroi che distinti si erano con qualche grande azione e che ebbero l’onore degli altari innalzati loro dulla riconoscenza.

Ercole, Perseo, Atlante, Teseo, Cadmo, Castore e Polluce, Orfeo, Lino, Anfione, Deucalione, Prometeo, Giasone, Romolo, Enea e tanti altri furono annoverati tra i Semidei.

Formano alcuni una classe particolare degli esseri intellettuali e morali che furono divinizzati, come la Fortuna, la Mente, l’Onore, ecc.

La più generale divisione poi che fucevasi una volta degli Dei era in celesti, terrestri, marini e {p. 4}infernali, secondo il luogo in cui supponevansi risedere.

In questo Compendio abbiamo adottato il metodo della divisione in tre classi di Dei Inferiori, Dei Superiori e Semidei come quello che è il più seguito, scostandoci nulladimeno qualche volta dalla accennata nomenclatura. Abbiamo parlato anche brevemente dei sacrifici che si facevano agli Dei, degli Oracoli, delle Sibille, ecc., onde nulla tralasciare che possa viemeglio facilitare ai giovanetti lo studio della Mitologia.

NB. Nell’ indice per ordine alfabetico posto in fine di questo Compendio di Mitologia si troveranno indicate tutte le materie di cui si è in esso fatto parola benchè non abbiano un articolo particolare.

{p. 5}

Degli dei superiori §

Caos §

IL Caos era un massa informe e rozza, una confusione di tutti gli elementi da eui sertirono Urano e la Terra.

{p. 6}

Urano e la Terra §

Urano e Vesta Prisca o la Terra sono gli Dei più antichi. Ad Urano si dà anche il nome di Cielo ; e qualcuno confonde Vesta Prisca o Tetture con Cibele sua figlia.

Da queste due divinità trassero origine l’Acheronte fiume infernale, i Ciclopi, Temi dea della Giustizia, Mnemosina dea della Memoria, l’Erebo fiume dell’inferno, e la Notte da cui nacquero il Destino, la Vecchiezza, la Morte, Caronte, le Furie, Momo, ecc.

Da Urano e dalla Terra nacquero pure l’Oceano e Teti di cui furon figli Taumante padre d’Iride e delle Arpie che altri fanno figlie di Nettuno e della Terra ; e {p. 7}furon pur figli di Urano e della Terra Nereo e Doride o Dori, che generarono le Ninfe, tra le quali fu rinomata Galatea.

I più celebri tra i figli di Urano e della Terra, sono Titano e Saturno.

Il nostro globo ed un altro pianeta portano il nome di queste due divinità.

{p. 8}

Titano a Saturno §

A Titano, maggiore dei figli di Urano, apparteneva l’impero del mondo, ma cedette i suoi diritti a Saturno dietro le preghiere di sua madre Tellure, a condizione però che il fratello Saturno non alleverebbe figli maschi ; e questi divorava i suoi figli a misura che nascevano. Tuttavia Rea o Cibele sua moglie trovò modo di sottrarre alla crudeltà del marito Giove, Nettuno e Plutone.

Titano scoperta la frode, mosse guerra al fratello, lo vinse e lo fece prigione. Saturno fu liberato poscia da Giove cresciuto in età.

{p. 9}Avvertito Saturno dal Destino che Giove un giorno gli avrebbe tolto l’inspero, tramò insidie al figlio per privarlo di vita e gli dichiarò senza riguardi la guerra. Giove restò vincitore e non contento della vittoria ottenuta sul padre lo scacciò anche dal cielo.

Saturno si ricovrò in Italia ed ìn quella parte ove fu pei fal bricata Roma, e fuvvi cortesemente accolto da Giano.

Saturno insegnò l’agricoltura agli uomini, e per riconoscenza in particolare verso Giano gli accordò la facoltà di conoscere le cose passate e le future, per cui si disse che Giano aveva due facce, una per conoscere il passato e l’altra l’avvenire. Quando Saturno arrivò in Italia, i costumi di quegli abitanti erano sì puri che quel tempo fu chiamato età dell’oro.

Si rappresenta questo Dio sotto forma di un veochio con lunga barba, colle ali {p. 10}e con una falce in mano, emblema del tempo, il quale passa rapidamente e distrugge ogni cosa. Gli siodà anche là figura di un serpento che si morde la coda, simbolo della perpetua rivoluzione dei tempi. L’orologio a polvere che gli si vede a canto indica la rapidità di questa rivoluzione.

Saturno ha dato il suo nome ad un pianeta.

[n.p.] [n.p.]
Cibele
{p. 11}

Cibele o Rea §

Questa dea figlia di Urano e della Terra, moglie e sorella di Saturno, chiamasi anche Ope, Vesta, la Buona Dea, la Madre degli Dei, Dindimea, Idea e Berecinzia ; appena nata fu esposta alle fiere che n’ebbero cura e la nutrirono. Essa ha gli stessi attributi di sua madre colla quale è soventi confusa. I suoi sacerdoti chiamati Coribanti ed anche Cureti le rendevano il culto danzando intorno alla sua statua contorcendosi con modi spaventevoli.

Sotto il nome di Vesta presiedeva al fuoco ; e come tale gli antichi la chiamavano Vesta Minore.

Numa Pompilio, o secondo altri Romolo, le innalzò un altare sul quale delle {p. 12}vergini chiamate Vestali conservavano un fuoco perpetuo, vegliando a vicenda intorno di esso.

Le Vestali erano astrette a conservare la verginità fino a trent’anni, dopo cui deponendo le sacre bende e rinunziando al servigio del tempio potevano maritarsi. Se per negligenza di alcuna il fuoco sacro si estingueva, il che avevasi per funestissimo augurio, ella era dal pontefice massimo severamente punita. Se taluna mancava al voto di verginità, era portata con lugubre pompa sopra una bara fuor della porta Collina, e sepolta viva in una stanza sotterranca a ciò costrutta nel campo, che dicevasi scellerato. Si crede da alcuni che il fuoco sacro così detto fosse il lume delle lampade accese nel tempio di Vesta, e che se si estinguevano, la Vestale, per la cui incuranza ciò accadeva, era sepolta viva.

{p. 13}Vesta si rappresenta talvolta sotto le forme di una bella donna con un disco in una mano, ed una chiave nell’altra, con una torre sulla testa, circondata soventi da molte e diverse bestie, e spesso sopra un carro tirato da leoni. Talvolta si rappresenta con una fiaccola in mano e con una patera, per ispargere profumi sul fuoco sacro che si manteneva contínuamente ne’ suoi templi.

Il pino è la pianta che le si consacrava.

Vesta ha dato il suo nome ad un pianeta.

{p. 14}

Giove §

Giove figlio di Rea e di Saturno nacque con Giunone e fu sottratto, come si è detto, dalla madre alla crudeltà del padre ; furono dopo di lui salvati anche Nettuno e Plutone. Rea consegnò Giove ai Cureti o Coribanti che lo condussero in Creta ove fu allattato dalla capra Amaltea. Cresciuto in età e venuto in cognizione della sua nascita chiese che Saturno lo riconoscesse erede. Titano ignaro della condotta di Rea accusò il fratello di frode, lo scacciò dal trono e lo fece prigioniere. Da quel momento Giove cominciò a dar segni del suo valore. Assalì Titano, liberò suo padre e lo rimise in trono. Ma informato Saturno dal Destino che Giove era nato {p. 15}per dar leggi all’universo, attentò più volte alla vita del figlio ; questi, irritato per l’ingratitudine del padre, gli mosse guerra apertamente, lo detronizzò, lo scacciò dal regno e l’obbligò a ricovrarsi nel Lazio. Impadronitosi del trono Giove sposò sua sorella Giunone e divise l’impero co’due suoi fratelli Nettuno e Plutone, cedendo al primo il regno de’ mari, quello dell’inferno al secondo, e riserbando per sè l’impero del cielo e della terra. I fratelli uniti a Pallade e Giunone tentarono di sottrarsi al suo dominio, ma restarono vinti da Giove e furono costretti di rifuggirsi in Egitto ove vissero sotto diverse forme di animali. Giove li perseguitò anche in quel paese, ma finì poi per riconciliarsi con essi tutti.

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Giove e Giunone

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I Giganti figli di Titano da esso detti Titani, per riconquistare i loro diritti gli mosser guerra ed ammucchiando monti sopra monti, tentarono l’assedio del cielo {p. 16}per iscacciarne Giove, il quale, essendosì già impadronito del fulmine, li folgorò, schiacciandoli sotto le stesse montagne da essi ammonticchiate.

Dopo questa vittoria Giove più non pensò che agli amori ed ebbe un infinito numero di concubine. Meti dalla quale nacque Pallade o Minerva, Semele madre di Bacco, Cerere di Proserpina, Mnemosina delle Muse, Latona di Apollo e di Diana, Maia di Mercurio, Alcmena di Ercole e tante altre.

Si cangiò in pioggia d’oro per penetrare nella torre di bronzo ove era rinchiusa Danae da cui ebbe Perseo ; sotto le forme di cigno sedusse Leda che fu madre di Castore e Polluce, di Elena e Clitennestra ; sotto quelle di toro rapì Europa figlia di Agenore, la condussé in Creta e n’ebbe Minosse e Radamanto ; trasformato in Satiro sorprese Antiope che fu madre di Ansione e di Zeto. Prese la {p. 17}figura di Diana per ingannare Calisto da cui nacque Arcade, e quella di Aquila per rapire Ganimede figlio di Troe, e portatolo in cielo lo creò suo coppiere in vece di Ebe.

Giove era la divinità dei pagani che lo riguardavano come il padrone assoluto di ogni cosa.

Esso era adorato sotto vari nomi da quasi tutte le nazioni. Gli Egizi lo chiamavano Giove Ammone. Gli altri nomi erano tratti o da’ suoi attributi o dai luoghi da esso abitati. Quello di Olimpico era il principale perchè dicesi che facesse dimora colla sua corte sul monte Olimpo in Macedonia.

Il faggio e la quercia erano le piante a lui dedicate.

Magnifici templi gli furono elevati per tutto il mondo.

La vittima che si offriva a Giove nei sacrifici era un bue bianoo.

{p. 18}Quello di Giove Capitolino fondato in Campidoglio dal re Tarquinio Prisco e più volte in seguito riedificato passava per il più sontuoso.

Si è dato il nome di questo Dio ad un pianeta.

Giove vien rappresentato come un vecchio maestoso, seduto su di un trono d’oro o d’avorio, collo scettro in una mano, la folgore nell’altra, l’aquila ai piedi e Ganimede a lato.

Quelli che toglier vogliono il velo della favola, dicono che Saturno fu re di Creta ; che fu spogliato del regno da’ suoi figli com’egli ne aveva privato il padre suo ; che nella divisione essendo toccata a Giove la parte orientale, a Plutone l’occidentale, a Nettuno le coste marittime fu perciò detto il primo re del cielo, dell’inferno il secondo, del mare il terzo ; che molti ebbero il nome di Giove, ed avendo abusato di diverse donne con {p. 19}vari stratagemmi, tutti questi furono attribuiti ad un solo, e ornati colle favole delle trasformazioni ; ma che per la pioggia d’oro intender si deve l’oro col quale Giove corruppe i custodi di Danae, pel toro la nave che aveva l’insegna del toro colla quale rapì Europa, ecc.

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Giunone §

Giunone figlia di Saturno e di Rea, sorella e moglie di Giove era tenuta per la regina degli Dei. A principio fu ritrosa alle importune amorose inchieste di Giove, ma questi si cangiò in cucculo o corvo, come dicono alcuni, per ingannarla, ed essendo stato riconosciuto, ella si decise di ascoltarlo a condizione che la sposasse. Questa Dea superba e vendicativa sposato ch’ ebbe il fratello ne divenne furiosamente gelosa e non a torto. Non cessò mai di sorvegliare la condotta del marito e perseguitò mai sempre le concubine di lui ed i figli che da quelle egli aveva. Contro Io figlio di Inaco re d’Argo esercitò ella principalmente la sua gelosia. {p. 21}Essendosi accorto Giove dell’avvicinarsi di Giunone mentre stava con Io, cangiò questa in vacca per nasconderla alla moglie. Insospettita Giunone di quel che era, la chiese in dono, ed ottenutala la mise sotto la guardia del pastore Argo che aveva cento occhi, ed essendo questi stato ucciso per ordine di Giove da Mercurio che lo avea indormentato prima col suono della zampogna e col tocco del caduceo, Giunone pose gli occhi di Argo nella coda del pavone, uccello a lei consacrato, tormentò Io, secondo Virgilio, coll’ assillo, insetto infestissimo alle vacche, e secondo altri per mezzo delle Furie. Io si rifuggiò in Egitto ove ritornata da Giove all’antica forma fu adorata sotto il nome di Iside, e partorì Epafo od Api, che da’ medesimi Egiziani veneravasi sotto la forma di bue. Inaco disperato per averla perduta, fu secondo le favole eambiato in fiume. Giunone perseguitò anche Europa, Semele, {p. 22}Latona, Alcmena e suscitò mille traversie al figlio di quest’ ultima, Ercole, ed a molti altri. Ma vedendo che Giove non le dava retta, si ritirò in Samo, ove dimorò molto tempo ; ed egli per farnela ritornare, fè venire un carro sopra il quale stava magnificamente addobbata una statua, facendo pubblicare, che quella era Platesa figlia di Asopo ch’ ei voleva sposare. Giunone accorse adirata, fece in pezzi la statua ; ed avvedutasi della malizia di Giove, si riconciliò, ridendo con lui dell’accaduto. Avendo preso parte questa Dea alla congiura degli Dei contro Giove, ed essendo essi stati vinti, il Dio del cielo la sospese in aria e le fè legar da Vulcano le mani con una catena d’oro dietro le spalle, e attaccare un incudine d’oro a’ piedi. Gli Dei non poterono mai scioglierla e pregarono Vulcano di farlo, promettendogli Venere per moglie. Ella avea un orgoglio insopportabile, e non {p. 23}perdonò mai a Paride di non averle dato il pomo d’oro sul monte Ida quando gareggiò di bellezza con Venere e Pallade, e si dichiarò in quel momento nemica implacabile dei Troiani ; e suscitando contro di essi una terribile guerra estese la sua vendetta fin contro Enea. Mentre questi navigava alla volta d’Italia, Giunone andò a ritrovar Eolo, e gli promise Deiopea, la più bella delle sue Ninfe, se faceva perire Enea colle sue navi ; ma Enea fu protetto da Venere. Avendo saputo che Giove senza di lei aveva posto al mondo Pallade, facendola uscire dal suo cervello, partorì anch’ essa Marte senza di lui. Sotto il nome di Lucina presiedeva ai parti delle donne, e sotto quello di Pronuba ai matrimoni. Era la divinità delle donne costumate, e quelle di cattiva vita non potevano entrare ne’ suoi templi. Sua messaggiera e ministra era Iride figlia di Taumante e di Elettra, {p. 24}che fu cangiata in arco baleno da Giunone per compensarla delle buone nuove che le arrecava continuamente.

In Argo, Samo e Cartagine era essa particolarmente onorata.

Aveva molti nomi tratti dalle cagioni per le quali le si sacrificava.

I poeti rappresentano Giunone in abito da regina sopra d’un trono col pavone ai piedi, o sopra d’un cocchio tirato da’ pavoni.

I filosofi che prendono Giove per l’aria più pura o l’etere, riguardano la sua sposa come l’aria la più ingombra di vapori e la più pesante da cui siam circondati.

Si conosce un pianeta sotto il nome di Giunone.

{p. 25}

Cerere §

A Cerere figlia di Saturno e di Rea fu attribuita dagli antichi l’invenzione dell’arte di lavorare la terra, e fu adorata come la Dea dell’agricoltura e delle messi. Viaggiando con Bacco insegnò ovunque l’agricoltura.

Da Giasone ebbe Pluto dio delle ric-chezze, e da Giove Proserpina. Essendo questa stata rapita da Plutone dio dell’inferno, Cerere accese due fiaccole sul monte Etna per ricercarla.

Andò alla corte del re Trittolemo cui insegnò l’arte di ben lavorare la terra, di coltivare le biade, di fare gl’istrumenti necessari all’agricoltura : e di servirsene.

{p. 26}Avendole la ninfa Aretusa palesato che il rapitore di Proserpina era stato Plutone, Cerere ricorse a Giove per ottenere che le fosse restituita, ed ebbe da lui promessa di riaverla quando però non avesse dopo la sua entrata nei Campi Elisi gustato alcun cibo. Ascalafo figlio di Acheronte e della Notte avendo manifestato che Proserpina avea colto nei giardini di Plutone una melagrana e ne avea mangiati sette grani, Cerere vedendo deluse le sue speranze, cambiò per vendetta Ascalafo in barbagianni. Giove per alleviare il dolore di questa Dea ordinò che Proserpina passasse sei mesi colla ma dre e gli altri sei col marito.

Era Cerere venerata principalmente in Sicilia ed in Grecia ; i Greci riconoscenti istituirono in onore di questa Dea una festa che si celebrava colla più grande magnificenza in Eleusi, ov’ ebber principio i misteri di lei chiamati Eleusini, ai {p. 27}quali chi iniziavasi era tenuto a rigoroso segreto, cui era sommo delitto il manifestare.

Pare che i Greci abbian tolto questa festa dagli Egizi perchè i misteri cleusini non erano che una imitazione di quelli di Iside, la stessa cosa che Cerere per quanto sembra.

Le furono innalzati de’ famosi tempii in molti luoghi, e da questi traeva diversi soprannomi. Le si offrivano le primizie de’ frutti e v’era pena della vita per chi avesse sturbato i suoi misteri. Se le sacrificava il porco.

Cerere si rappresenta comunemente sotto le forme di una bella donna di statura alta e maestosa, che ha il seno abbondante, un bel colorito, gli occhi languidi, i capelli biondi, la testa coronata di spiche e di papaveri, piante fecondissime, e la veste che le cade fino a’ piedi sparsa di spiche e di papaveri. Con una {p. 28}falce od una fiaccola in una mano ed alcune spiche o papaveri nell’altra. I papaveri non le erano sacri soltanto per la loro fecondità e perchè nascono in mezzo al frumento, ma perchè Giove era riescito a fargliene mangiare per conciliarle il sonno, che l’afflizione pel ratto di Proserpina, le avea fatto perdere ; ed aveva in tal modo trovato il mezzo di alleviare il suo dolore.

Il suo cocchio era tirato da due dragoni. Questo è quanto racconta la Favola di Cerere.

I mitologi ed i poeti però non s’accordano su la storia di questa divinità che confondono con Cibele.

Da questa Dea ha preso il suo nome un pianeta.

[n.p.] [n.p.]
Minerva
{p. 29}

Minerva §

Minerva detta con altro nome Pallade, dea della sapienza, delle guerre e delle arti, era figlia di Giove. Ecco in qual modo si racconta la nascita di questa Dea. Giove prima di sposare Giunone aveva Meti per moglie. Essendogli stato annunciato dall’oracolo ch’essa dovea divenir madre d’un figlio che avrebbe l’impero dell’universo, egli inghiottì la madre ed il figlio. Da quel momento fu oppresso da un terribile mal di capo. Avendo implorato l’aiuto di Vulcano, questi con un colpo di acceta gli spaccò il cranio ; dal cervello ne sortì Minerva tutta armata da capo a piedi. Ella aiutò suo padre nella guerra contro i Titani ove si distinse molto. {p. 30}Gareggiò con Nettuno per dare il nome alla città fabbricata da Cecrope, e fu deciso che chi avesse fatto nascere una cosa più utile di un’altra avrebbe avuto quest’ onore. Percosso il terreno da Nettuno col tridente ne uscì un cavallo, che dicesi essere il Caval Pegaso ; Minerva percuotendolo coll’asta ne usicì un ulivo ; ed avendo giudicato gli Dei più utile l’ulivo per essere il simbolo di pace, Minerva diede alla città il nome di Atene, sotto il quale era denominata dai Greci.

Gli Ateniesi le innalzarono un magnifico tempio, e celebravano delle feste in onore di lei, alle quali intervenivano degli spettatori da tutte le parti della Grecia.

Viene questa Dea rappresentata come una donna di una bellezza semplice, nobile e grave ; armata da capo a piedi, coll’elmo in testa, colla lancia in una mano, come Dea della guerra e collo scudo nell’altra ; il teschio di Medusa le {p. 31}si mette su l’egida o corazza e sul petto da alcuni, da altri sullo scudo ; le stanno di presso la civetta e degli istrumenti matematici, come Dea delle scienze e delle arti.

Il pianeta detto Pallade ha preso il suo nome da questa Dea.

{p. 32}

Marte §

Marte, dio della guerra è figlio di Giunone. Questa Dea, come si è già detto, indispettita che Giove avesse fatto da sè solo Pallade o Minerva, volle anch’essa partorire da sè sola un figlio, e mentre andava in oriente per apprenderne il modo, si fermò nei giardini di Flora, ove fu da questa interrogata dell’oggetto del viaggio ; venutane Flora in cognizione, le promise di insegnarle il desiderato segreto, col patto che nol palesasse ad alcuno ; le additò poi un fiore sopra il quale una donna sedendo concepiva immediatamente ; e dicesi di più che al solo toccarlo bastasse ad una donna per divenir madre. Giunone fece quanto le aveva Flora insegnato {p. 33}e partorì Marte che chiamò Dio della guerra e che destinò a presiedere alle battaglie.

Marte amò passionatamente Venere, colla quale suo marito Vulcano il sorprese ; questi formò di fili sottilissimi di metallo una rete invisibile, nella quale colse gli amanti e li espose alla vista degli Dei, dai quali Vulcano fu beffeggiato e deriso.

Si rappresenta questo Dio sempre armato da capo a piedi, con un gallo vicino, per aver convertito in gallo il suo favorito Alettrione, il quale addormentossi facendo la guardia mentre Marte era con Venere, e lasciollo così sorprendere da Vulcano.

Nei sacrifici gli si offriva il toro, il verro, l’ariete e qualche volta il cavallo. I suoi sacerdoti si chiamavano Salici.

Fabbricaronsi molti templi in suo onore. Il suo principal culto era a Roma {p. 34}perchè i Romani riguardavano questo Dio come il protettore del loro impero. Augusto gli innalzò un magnifico tempio dopo la battaglia di Filippi.

Questo Dio ha dato il suo nome ad un pianeta.

[n.p.]
Venere Amore
[n.p.] {p. 35}

Venere §

Dea della bellezza e degli amori, nacque secondo alcuni dalla schiuma del mare, secondo altri dal sangue del Cielo mutilato con una falce da Saturno, da Giove e da Dione come opinano molti. Pare che molte Veneri sieno state annoverate nella storia, e che le dissolutezze di molte donne di questo nome siano state attribuite ad una sola. Dicesi che appena nata le Ore cui incombeva di educarla, la portarono in cielo, ove fu trovata sì bella da tutti gli Dei, che tutti vollero sposarla ; ma Giove la diede a Vulcano in ricompensa di aver per esso fabbricato i fulmini in occasione della guerra coi Giganti. Dicono altri invece che Giove colto {p. 36}dalla bellezza di Venere, ne divenne amante e che non avendo potuto essere corrisposto, ne trasse vendetta facendola sposare al più deforme degli Dei. Venere odiò il marito per la soverchia sua deformità ed ebbe un numero infinito d’amanti. De’ suoi amori con Marte da cui ebbe Cupido se n’è già parlato. Da Anchise principe troiano ebbe Enea cui fece dono di una armatura fabbricata da Vulcano, quando passò in Italia per fondarvi un nuovo regno dopo l’eccidio di Troia. Amò il bello Adone che fu ucciso da un cignale.

Venere aveva un cinto detto ceste che inspirava infallibilmente la più viva tenerezza. Giunone bramosa di piacere a Giove pregò Venere di prestarglielo ; la Dea di Citera glielo offrì all’istante dicendole, che poteva tutto compromettersi da Giove perchè stavan in quel cinto le grazie, il riso, i vezzi, i piaceri. Paride, {p. 37}innanzi del quale levatosi il cinto si mostrò Venere in tutta la sua bellezza, le diede il pomo d’oro, contrastatole da Giunone e Pallade, e che la Discordia aveva gettato sulla mensa alle nozze di Teti e di Peleo, destinandolo alla più bella tra le Dee.

Questa Dea presiedeva ai matrimoni ed a tutti i piaceri che traggon il principio dalla tenerezza.

Le sue feste si celebravano con ogni sorta di dissolutezze. Ovunque sorsero degli altari in onore di lei. Ma fu particolarmente adorata in Amatunta, in Lesbo, in Pafo, in Gnido, in Citera e in Cipro. E più famosi sono i templi che in questi paesi le si innalzarono. L’infinito numero di statue e di templi che furono eretti in onore di lei, le fecero dare una quantità di soprannomi. Quei che più comunemente le vengon attribuiti sono Citerea, Cipria, Cipri o Ciprigna, Idalia dal monte Ida in {p. 38}Cipro, Acidalia dal fonte Acidalio in Beozia ove dicesi che colle Grazie usasse di lavarsi soventi.

Volle che le si consacrasse la colomba, perchè la ninfa Peristera molto da lei amata fu convertita in colomba da Cupido, poichè in una sfida che questi ebbe con Venere a chi sapeva coglier più fiori, Peristera aiutando Venere la rese vittoriosa.

La colomba le veniva anche offerta nei sacrifici ; e avendo in Cipro i Cerasti osato sacrificarle vittime umane furono da essa cangiati in toro.

Fra gli alberi le era dedicato il mirto.

Fra i fiori le si consacrava la rosa, che di bianca qual era prima si disse cambiata in rossa allorquando fu bagnata dal sangue di Adone puntosi con una spina.

Fra i figli di Venere si contano Amore e le tre Grazie.

{p. 39}Rappresentasi or sopra una conchiglia tirata da due Tritoni, o da due cavalli marini, or sopra un cocchio tirato da due cigni o da due colombe. I suoi biondi capelli sono ornati da una corona di mirto e di rose. Da’ suoi occhi traspira la più viva gioia, le siede su le labbra il sorriso ; e mille Amoretti stanno scherzando col suo cinto ed ammirando la sua bellezza.

Sono abbominevoli i disordini commessi da questa Dea al dir de’ poeti.

Venere ha dato il suo nome ad un pianeta chiamato volgarmente la stella del pastore.

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Diana §

Diana dea della caccia, figlia di Giove e di Latona sorella di Apollo. Fu adorata sotto tre nomi, di Ecate nell’inferno, di Diana in terra e di Luna o Febea in cielo.

Avea anche molti altri nomi secondo i luoghi ov’era particolarmente onorata.

Sua madre partorì due gemelli, e Diana, nata per la prima, appena vide la luce aiutò Latona a sgravarsi d’Apollo. Essendo stata testimonio dei patimenti della madre concepì tant’odio pel matrimonio, che ottenne da Giove per sè e per la sorella sua Minerva la grazia di poter conservare una perpetua verginità. Sotto il nome di Diana presiedeva ai boschi ed era la Dea della caccia ; sotto quello di Febea era presa per {p. 41}la Luna e presiedeva agl’incantesimi ; e sotto quello di Ecate, essa è la Dea dell’inferno ed è soventi confusa con Proserpina moglie di Plutone. Si riconosceva pure per la Dea della castità, ed era tanto vergognosa che converse Atteone in cervo per averla rimirata in un bagno. Giove stesso le diede l’arco e le frecce, e nel farla regina de’boschi, le assegnò un corteggio di bellissime Ninfe ch’ella volea pudiche al par di lei, e scacciò per questo Calisto perchè si era lasciata sedurre da Giove, che aveva vestite le sembianze della stessa Diana.

[n.p.] 

Diana

[n.p.] 

Pretendesi nondimeno che amasse il pastore Endimione, che scendesse più volte di notte dal cielo per venir a vederlo e che avesse da lui cinquanta figli. Il dio Pane ed Orione vuolsi che sieno stati amanti corrisposti di Diana ; e che anzi ella uccidesse il secondo per gelosia, non potendo soffrire che amasse la bella Aurora. Se non {p. 42}era più saggia delle altre Dee, era almeno più riservata. Andava continuamente alla caccia, e non abitava che nelle selve, accompagnata da’ suoi cani. Fu sempre gelosa della sua bellezza e degli omaggi degli uomini. Vendicativa ed implacabile si mostrò ella mai sempre contro chi eccitò il suo risentimento, recando stragi nelle gregge con epidemie, distruggendo le messi ed umiliando i genitori colla perdita dei figli.

Il cervo e la cerva le erano particolarmente consacrati.

Le venivano offerte qualche volta delle vittime umane ; Ifigenia tra i Greci ne fa prova. Si uccidevano in onor suo nella Tauride tutti gli stranieri che la tempesta gettava su quelle coste.

I Satiri, le Driadi, i Fauni celebravano feste in onor suo.

Questa Dea si rappresenta sotto la figura di una donna giovine, nel fiore della bellezza, in abito da cacciatrice, coi capelli annodati di dietro, colla faretra su di una {p. 43}spalla, con un cane al fianco, e coll’arco teso in atto di lanciare un dardo. Porta i coturni alle gambe ed ai piedi che son per altro nudi ; come porta scoperta la parte dritta del seno. Le si mette la mezza luna soventi su la testa. Passeggia alle volte su d’un carro tirato da due cervette o da cervi bianchi ; cammina spesso a piedi col suo cane e circondata dalle sue Ninfe com’essa armate di archi e di frecce, ma basse tutte più di lei almeno della testa.

Diana detta anche Delia e Cinzia dall’isola e dal monte ov’era nata aveva in Efeso il più magnifico tempio che si fosse mai veduto ed annoverato fra le sette maraviglie del mondo dagli antichi. Questo tempio era sostenuto da 227 colonne alte 60 piedi parigini corrispondenti a circa 20 metri. Esso fu abbruciato il giorno in cui nacque Alessandro il Grande, 366 anni avanti G. C. da Erostrato che non trovò altro mezzo di tramandare il suo nome alla posterità.

{p. 44}

Nettuno §

Nettuno figlio di Saturno e di Rea, fu salvato da sua madre come Giove, dal furore del padre, e consegnato a certi pastori d’Arcadia perchè ne avessero cura. Cresciuto che fu in età sposò Anfitrite figlia dell’Oceano e di Doride. Essendosi di lei invaghito e non potendo indurla ad amarlo, le mandò un delfino il quale fu sì abile nell’eseguire la sua commissione che persuase Anfitrite a sposare Nettuno ; e questi per compensare il delfino del servigio a lui renduto, lo collocò fra gli astri ove forma la costellazione che porta il suo nome. Si pretende che abbia avuto un infinito numero di amanti per le quali si cambiò sotto mille forme. Nella divisione {p. 45}fatta dell’universo co’suoi fratelli toccò a lui l’impero delle acque, colle isole e tutti i paesi vicini, e fu detto Dio del mare. Scacciato dal cielo per aver congiurato contro Giove insieme ad Apollo, andarono tutti e due ad aiutare Laomedonte a fabbricare le mura di Troia ; ed avendo Laomedonte negato il convenuto premio a Nettuno, esso lo punì mandandogli un mostro marino che devastò tutto il paese. Questa favola trae origine dall’aver Laomedonte fabbricato le mura di Troia, adoperando a tale seopo i tesori del tempio di Apollo e di quello di Nettuno.

Gareggiò in vano con Minerva per dar il nome alla città di Atene. Violò e cangiò Anemone in fontana.

Si rappresenta per lo più in piedi sopra un carro in forma di conchiglia tirato da cavalli marini o tritoni con un tridente in mano.

{p. 46}Vuolsi che abbia avuto più di cinquanta figli.

Figlie di Nettuno e della Terra erano le Arpie, mostri alati e malefici che portavano la carestia in tutti i luoghi per cui passavano, rapivano le vivande su le tavole e spargevano un odore sì fetente che non si poteva avvicinarsi a tutto ciò che non avean seco portato. Non valeva lo scacciarle, esse ritornavan sempre. Giunone le mandò per infettare e rapire le vivande dalla tavola di Fineo che aveva cortesemente accolto Enea. Zete e Calai figli di Borea le discacciarono, ma Giunone mandò Iride perchè le facesse ritornare in Tracia.

Si rappresentavano sotto le sembianze di donna vecchia, con lunghi crini, con volto sempre smunto per fame, col corpo di avoltoio, colle ali, con unghioni ai piedi ed alle mani, e con orecchi d’orso.

Le principali erano Ello, Occipete e Celeno.

{p. 47}Alcuni le prendono per un prodigioso numero di cavallette che dopo avere devastato una parte dell’Asia minore, gettaronsi su la Tracia e le vicine isole portandovi la carestia ; ed essendo state rispinte dal vento settentrionale nel Mar Ionio ove perirono, si dissero scacciate dai figli di Borea.

Altri riconoscono nelle Arpie dei pirati che facevano delle frequenti discese negli stati di Fineo, e vi cagionavano la carestia coi loro ladronecci.

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Apollo §

Apollo figlio di Giove e di Latona e fratello di Diana, fu chiamato Febo in cielo perchè conduceva il carro del Sole tirato da quattro cavalli e Apollo in terra. Era riguardato come il Dio della musica, della poesia, dell’eloquenza, della medicina e delle arti. Viveva in mezzo delle nove Muse delle quali si fece capo ed abitava con esse i monti Parnaso, Elicona, Pierio, le rive dell’Ipocrene e del Permesso, ove pascolava ordinariamente il Caval Pegaso, che loro serviva di cavalcatura. Riguardo alla sua nascita, dicesi che Latona sua madre, perseguitata dall’implacabile Giunone, la quale pregò la Terra a {p. 49}negarle ricovero ove poter partorire, fu da Nettuno accolta nell’isola Ortigia o Delo, allora natante e ch’egli poi rese ferma, e che ivi diede alla luce i due suoi figli.

[n.p.] 

Apollo

[n.p.] 

Il primo uso che Apollo fece delle sue frecce, nel lanciar le quali era espertissimo, fu di mettere a morte il serpente Pitone, nato dal limaccio della terra dopo il diluvio di Deucalione, il quale devastava la terra e ch’era stato mandato dalla implacabile Giunone per tormentare Latona. Della pelle di questo animale si servì per ricoprire il tripode sul quale sedeva la Pitonessa o sacerdotessa per dar gli oracoli. Delo, Delfo, Chiaro, Tenedo, Cirra e Patarno erano i loughi più famosi ove davansi tali oracoli.

D’accordo con Diana uccise co’suoi strali i quattordici figli di Niobe, perchè questa principessa aveva avuto l’ardire di preferirsi a Latona ; e Niobe fu conversa in una rupe.

{p. 50}Esculapio figlio di Apollo celebre nella medicina avendo risuscitato Ippolito, Giove lo fulminò, istigato a ciò fare da Plutone che vedeva pel sapere di Esculapio diminuirsi il numero de’morti. Furioso per questo Apollo ammazzò i Ciclopi che avevano somministrato i fulmini al padre degli Dei. Per questa vendetta fu scacciato dal cielo e nel suo esiglio ritirossi presso Admeto re di Tessaglia, del cui gregge fu fatto custode ; ed è per questa ragione che venne onorato come Dio de’pastori.

Mercurio venne a rapirgli le gregge, e mentre cercava il suo arco e le frecce, s’avvide che nel momento stesso gli erano state anche quelle involate. Dopo questo accidente, lasciato il servigio di Admeto, andossene con Nettuno ad aiutare Laomedonte a rifabbricare le mura di Troia e non avendone ricevuto alcun premio, punì questa ingratitudine mandando una terribile peste tra quel popolo di cui fece orribili stragi.

{p. 51}Placato in fine Giove ridonò la divinità ad Apollo e lo richiamò in cielo.

Pretendono alcuni che durante il suo soggiorno sulla terra egli inventasse la lira, ma credesi con maggior fondamento che gli fosse data da Mercurio in cambio del famoso caduceo.

Il più rinomato de’templi che gli fossero eretti fu quello di Delfo.

Leucotoe, Dafne, Clizia, Giacinto e moltissimi altri furono amati da Apollo.

Correndo un giorno dietro Dafne e noa potendola raggiugnere, la trasmutò in lauro, co’rami del quale si fece una corona.

Zefiro giuocando con Giacinto al disco, lo uccise involontariamente, ed Apollo che amava Giacinto lo cangiò in un fiore che porta il suo nome.

Ciparissa avendo con uno strale ucciso per disavventura un cervo addomesticato che gli era carissimo, volle ammazzarsi, {p. 52}ma Apollo che l’amava prevenne il colpo e lo cangiò in cipresso.

Vinse il temerario Marsia, famoso satiro che lo sfidò a chi canterebbe meglio e per punirlo lo fece scorticar vivo ; e fece crescere le orecchie d’asino a Mida figlio di Gordio re di Frigia, perchè aveva preferito il canto di Pane e di Marsia al suo (di Apollo). Il barbiere di Mida se ne accorse, gli fu proibito di palesarlo, ma non potendo trattenersi dal dirlo, fece un buco nella terra, e colà depose il suo segreto. Poco dopo vi crebbero delle canne le quali agitate dal vento ripetevano le parole del barbiere e si fece in tal modo noto a tutti che Mida aveva le orecchie d’asino.

Questo Mida è lo stesso di cui si parla nella storia di Bacco.

Il gallo, lo sparviero, l’ulivo gli furono consagrati perchè in queste cose aveva egli cangiati coloro che da lui furono {p. 53}amati. Il grifone, il cigno, il corvo e la cornacchia erangli parimenti consagrati, perocchè credevasi che questi uccelli avessero un particolare istinto a predir l’avvenire. Gli s’immolavano alle volte degli agnelli ed anche un toro.

La palma e l’alloro erano i suoi alberi favoriti. Tra i fiori erano a lui consagrati il loto, il mirto, il ginepro, il giacinto, ecc.

I giovani giunti alla pubertà consacravano ne’ suoi templi la loro capigliatura, come le giovani deponevano le loro ghirlande in quelli di Diana.

Apollo si rappresenta giovine senza barba, bello, coi capelli lunghi e biondi sparsi sugli omeri ; con una cetra in mano, una corona d’alloro sul capo, con parecchi strumenti d’arti a lui vicini e sopra un carro condotto da quattro cavalli che percorrono lo zodiaco.

Questo Dio è considerato soventi pel sole medesimo ; e ciò avviene perchè Giove {p. 54}nell’accordargli il dono di predir l’avvenire gli affidò anche la cura d’illuminare il mondo

Il più celebre monumento che ci resta dell’antichità è il famoso Apollo del Belvedere che trovasi nella Galleria del Gran Duca di Toscana a Firenze. Fra le statue antiche questa è quella che ha meno sofferto dal furore de’ barbari e dalla mano distruttrice del tempo.

[n.p.] [n.p.]
Mercurio e Batto
{p. 55}

Mercurio §

Di più individui sotto questo nome si parla nella favola ; il più celebre tra di essi però è il figlio di Giove e di Maia figlia d’Atlante. Nessuna divinità ha avuto maggiori occupazioni di Mercurio.

Interprete e messaggiero degli Dei e specialmente di Giove suo padre, al levare del quale doveva ogni giorno trovarsi per ricevere i suoi comandi, li serviva tutti con uno zelo infaticabile, anche nelle cose poco lecite, ed aveva cura di tutti i loro affari. Onde potesse velocemente eseguire i suoi ordini Giove gli aveva attaccate le ali alla testa ed ai piedi.

Mercurio era riguardato come il Dio del commercio, dell’eloquenza, dei pastori, {p. 56}dei viaggiatori, dei ladri, dei ciarlatani e di ogni sorta di frappatori. Egli conduceva le anime all’inferno e poteva a suo piacere cavarnele e non si poteva morire se egli non aveva rotti i legami che univano l’anima al corpo. Ambasciatore e plenipotenziario degli Dei, egli assisteva a tutti i trattati di pace e di alleanza. Alle volte accompagnava Giunone o per custodirla o per vegliare su la di lei condotta ; altre volte era incaricato da Giove di condurre a termine qualche nuovo intrigo amoroso. Era invocato nei matrimoni affinchè formasse la felicità degli sposi. Sapeva la musica perfettamente. Fu molto amato da Venere e da lei ebbe Ermafrodito.

Pretendesi che abbia inventata la lira e che la formasse la prima volta coi tesi nervi di una testudine morta, e che in cambio della lira avesse da Apollo il caduceo. Questo caduceo era una verga, che Mercurio imbattutosi un giorno in {p. 57}due serpenti sul monte Citerone i quali combattevano insieme, gettò loro in mezzo per separarli. I due serpenti s’avviticchiarono ad essa in tal modo, che la parte più alta del corpo loro veniva a formare un arco. Mercurio d’allora in poi volle portarla in quello stato come simbolo di pace, aggiugnendovi le ali come simbolo della rapidità e del potere dell’eloquenza.

Si rapresenta come un bel giovine, snello di corpo, col caduceo in mano, qualche volta con una borsa e colle ali alla testa ed ai piedi. Ora nudo ed ora con un manto su le spalle, che non gli copre se non la metà del corpo. Talvolta egli porta una lancia o pertica armata di uncini oppure un tridente. Con questi attributi egli proteggeva il commercio. Il tridente gli fu accordato, perchè nella distribuzione degli elementi fatta da Giove a parecchie Divinità, Apollo fu incaricato di aver cura del fuoco, Febo della terra, {p. 58}Venere dell’aria e Mercurio dell’acqua. In alcuni monumenti Mercurio appare a canto a Venere, ingegnoso emblema per indicare che i piaceri d’Amore non hanno prezzo se non quando lo spirito sa valutarli. In altri si vede a fianco a Pittagora perchè questo filosofo insegnò l’immortalità dell’anima e che questo Dio n’era il condottiero.

Col caduceo vuolsi da alcuni che avesse il potere di chiamare o fugare a suo talento il sonno su gli occhi de’ mortali ; del caduceo si serviva pure per guidare le anime de’ trapassati all’inferno e ricondurnele quando andavano ad abitare altri corpi diversi dai primi cui erano state unite.

Gli si dava la borsa come Dio del commercio ; e come quello dell’eloquenza si finse che dalla sua bocca uscissero catene d’oro, che dolcemente legavano gli ascoltanti ; come tale chiamavasi Ermete. Il {p. 59}gallo che gli si vede alle volte vicino serve a dinotare la vigilanza di lui. L’ariete che or gli si vede a canto, or su le spalle indica che egli era il protettore de’ pastori. Il cigno che gli sta vicino soventi è il simbolo della dolcezza dei discorsi del Dio dell’eloquenza ; il cornucopia dell’abbondanza prodotta dal commercio.

Molti soprannomi si diedero a Mercurio, provenienti dai diversi attributi di lui. Quello di Cilleno o Cillenio gli vien più sovente dato dai poeti, perchè era particolarmente onorato sul monte Cilleno in Arcadia o perchè si credeva ch’ei fosse nato su quel monte.

Come Dio dei ladri si racconta che commettesse varie truffe e dei furti. Mentre era ancora fanciullo rubò il tridente a Nettuno, la spada a Marte, a Venere il cinto. Mentre Apollo guidava lungo il fiume Anfriso in Tessaglia le gregge di Admeto, Mercurio gli rubò alcune {p. 60}vache, che fece camminare all’indietro, onde non se ne scoprissero le tracce. Il pastore Batto che era stato testimonio del furto avea avuto una bella vacca onde conservasse il segreto ; ma avendo mancato alle sue promesse Mercurio lo cangiò in pietra di paragone. Minacciandolo Apollo se non restituiva le vacche, Murcurio gli rubò nell’atto stesso la faretra, sicchè Apollo per la stravaganza cangiò lo sdegno in riso.

Essendo Mercurio espertissimo nel suono della lira si servì di quella di Apollo per addormentare Argo che custodiva Io ed ucciderlo. Liberò Marte dalla prigione ove era stato rinchiuso da Vulcano e attaccò Prometeo sul monte Caucaso.

Le statue che si ponevano su le vie a guisa di termini or con tre teste ed or con quattro facce erano dette Mercuri da’ Romani, ed Ermeti dai Greci, che tale è il nome di Mercurio in quella lingua.

{p. 61}Mercurio ha dato ìl suo nome ad un pianeta.

Mercurio dopo Giove è forse quello, tra le Divinità, cui siano, stati eretti più monumenti e dedicati più voti. Il suo culto era molto esteso ; e particolarmente nelle città del Peloponneso in cui vi aveva più gran commercio s’innalzarono parecchi templi in onor suo.

Le favole di Mercurio non sono state da molti dotti risguardate se non come altrettante allegorie del corso del sole e dei fenomeni da quest’astro prodotti.

{p. 62}

Bacco §

Non vanno d’accordo gli scrittori della favola di questo Dio ; cinque almeno devono essere stati i soggetti che portarono questo nome ; da ciò traggono origine le tante opinioni su la nascita e l’educazione di questo Dio ; il vero Bacco o Libero secondo quasi tutti i poeti greci e latini vien detto figlio di Giove e di Semele figlia di Cadmo re di Tebe in Beozia, ed ecco quanto si narra sul conto suo.

Giunone sempre gelosa di Giove e sdegnata contro le sue amanti, assunte le forme e la figura di Beroe vecchia donna di Epidauro, nutrice di Semele, andò a visitare quest’ultima che sapeva essere {p. 63}incinta e dopo avere mosso dei dubbi su la divinità del suo amante le mise in animo un’ardente brama di veder Giove in tutta la sua maestà. Semele che non si avvedeva della malignità di questo consiglio, chiese a Giove una gràzia ma senza dirgli quale. Il Nume giurò per lo Stige di concedergliela, ed allora ella gli chiese come una prova di amore, quello che dovea esserle cagione di morte. Giove che non poteva violare il suo giuramento comparì armato de’ suoi fulmini, e Semele, semplice mortale, restò arsa col suo palazzo. Per timore che Bacco, di cui era incinta Semele, non abbruciasse con essa, Giove lo estrasse vivo e l’ascose in una delle sue coscie, ove lo tenne il resto dei nove mesi ; venuto poi il tempo del suo nascere fu nascostamente consegnato ad Ino, sorella di Semele, che n’ebbe cura coll’aiuto delle Iadi, delle Ore e delle Ninfe, fino a che arrivasse all’ età {p. 64}da poter essere istruito dalle Muse e da Sileno, vecchio satiro che fu poi amato molto da Bacco. Cresciuto in età questo Dio andò a conquistare le Indie con un esercito di uomini e di donne, che invece di armi portavano dei tirsi, specie di lancia ornata di pampani e di edera e dei tamburi. Erano essi agitati da un divino furore. Le donne erano scapigliate e vestite di pelli di cerve e di pantere ; gli uomini portavano corone di edera o di foglie di vite. Bacco con veste di porpora coronato di pampini e di uve con un tirso nelle mani e con calzari ricamati d’oro, era assiso in un carro mezzo scoperto, tirato da tigri o da linci. Il dio Pane ed il vecchio Sileno gli camminavano a lato. Il corteggio era preceduto da una banda di Satiri. Lo spavento che inspirava un esercito cotanto singolare e tumultuoso, fe’sì che Bacco non provasse alcuna resistenza per parte de’ popoli ; egli {p. 65}fu ricevuto ovunque come una Divinità, tanto più che non era già suo scopo di imporre tributo ai vinti, ma d’insegnar loro la cultura della terra. Di là passò in Egitto, ove insegnò pure l’agricoltura, coltivò pel primo la vigna e fu adorato come Dio del vino. A lui si deve l’arte di estrarre e di apparecchiare il mele e l’invenzione dell’aratro. Punì severamente tutti quelli che vollero opporsi allo stabilimento del suo culto, trionfò di tutti i suoi nemici e di tutti i pericoli cui l’esponeva l’odio di Giunone ; giacchè questa Dea non odiava soltanto le amanti di Giove, ma estendeva puranco la sua vendetta contro i figli che di esse nascevano. Licurgo re di Tracia avendo inseguito Bacco e le sue sacerdotesse, che celebravano le orgie sul monte Nisa, fu accecato da Giove ad istanza di Bacco e morì in breve miseramente. Le Mineidi figlie di Mineo principe tebano furono cangiate in pipistrelli {p. 66}per aver lavorato in un giorno di festa solenne consacrata a Bacco.

Questo Dio fu accolto ne’ suoi viaggi cortesemente da Mida re di Frigia ed avendogli di più Mida restituito Sileno che era stato preso da’ contadini, Bacco in ricambio si offerse di concedergli qualunque cosa ei dimandasse. L’avarizia spinse Mida a dimandargli sconsigliatamente che in oro si convertisse tutto quello che da lui fosse toccato. Ma ebbe ben tosto a pentirsi della sua dimanda, e mutandosegli in oro anche il pane ed il vino, fu costretto per non perire d’inedia di pregar Bacco a ripigliarsi il suo dono, e questi allora gl’impose di lavarsi nel fiume Pattolo, che quindi acquistò la virtù di volgere arene d’oro.

Bacco ebbe molti figli da Arianna, tra i quali si conta Ceranao, Tauropoli, Evanto, Toante, Eponione. Pretendono alcuni ch’ei trovasse nel suo ritorno dall’ India {p. 67}l’affetuosa Arianna abbandonata dall’ingrato Teseo nell’isola di Dia o di Nasso e che fosse scoperta dai Satiri e dai Fauni immersa in un profondo sonno ; vogliono altri che la rapisse a Teseo medesimo. Il fatto è che la sposò e le fe’ dono d’una corona d’oro lavoro egregio di Vulcano, che pose tra gli astri dopo la morte della sua sposa. Arianna partecipò nell’Olimpo all’immortalità di Bacco.

Rappresentavasi Bacco in aria giovanile, ora seduto su di un gran tino, ora sopra di un carro tirato da due tigri, da linci e da pantere, col capo inghirlandato di pampani e di edera, ora con una tazza in mano e nell’altra un tirso, di cui si era servito per far scaturire delle fonti di vino ; si raffigurava delle volte colle corna in testa ; perchè ne’ suoi viaggi si era coperto sempre della pelle di un capro.

Suoi seguaci erano i Satiri, che figuravansi colle orecchie, le corna e le gambe {p. 68}di capro, ed il vecchio Sileno aio di lui, che lo seguiva seduto sopra d’un asino. Bacco ebbe moltissimi nomi. In Egitto fu onorato sotto il nome di Osiride.

A Bacco offerivasi mele, vino e latte ; gli si sacrificava il capro, il morso del quale si reputa così nocevole alle viti, e la gazza simbolo dell’indiscrezione de’bevitori.

Il senato romano credè utile di proibire le feste che sotto il nome di Baccanali o Orgie si celebravano a Roma in autunno con ogni genere di stravizzo.

Le sacerdotesse di Bacco s’indicavano sotto diversi nomi : le più note sono le Baccanti. Le Ninfe che allevarono questo Dio, le donne che lo accompagnarono nella conquista delle Indie, furono le prime che portarono un tal nome.

{p. 69}

Vulcano §

Vulcano dio del fuoco era figlio di Giove e di Giunone. Nacque egli così deforme, che appena nato, i suoi genitori lo precipitarono dal cielo, e cadendo nell’isola di Lenno si ruppe una coscia e restò zoppo da ambi i lati perpetuamente. Pretendono altri che fosse precipitato da Giove, per punirlo di aver voluto liberare la propria madre da lui appesa alla volta dell’Olimpo. Egli è certo però che dopo la caduta stette nove anni in una grotta profonda assistito da Teti ed Eurinome figlie dell’Oceano, per le quali si occupò a fare dei pendenti, degli anelli, dei braccialetti ed altre simili cose. Sortito {p. 70}finalmente da questo nascondiglio ricomparve nell’Olimpo, e sposò Venere per ordine di Giove. Aveva le sue fucine nelle isole di Lipari e di Lenno e sul monte Etna. I Ciclopi figli di Nettuno e di Anfitrite o di Urano e della Terra detti monocoli perchè non avevano che un occhio in mezzo alla fronte lavoravano continuamente con lui. I tre principali erano Bronte, il quale fabbricava il fulminee, Sterope che lo teneva su l’incudine e Piracmone che lo batteva a colpi raddoppiati. Se ne conta però più d’un centinaio. Apollo li uccise tutti. A malgrado della loro malvagità, essi furono annoverati tra gli Dei, e in un tempio di Corinto avevano un altare sul quale si offrivan loro sacrifici. I moderni non videro nella favola dei Ciclopi se non che l’emblema dei vulcani.

Si dicevano figli di Urano e della Terra a cagione dell’altezza e delle profonde {p. 71}radici dei monti vulcanici ; di Nettuno e di Anfirite, perchè ordinariamente il mare bagna il pie’ di queste montagne. Erano giganti di statura enorme perchè queste montagne erano altissime, ed il solo occhio scintillante in mezzo della fronte era il simbolo del cratere.

Vulcano fu chiamato. Dio del fuoco e de’fabbri per le cose maravigliose da esso fatte.

Celebri sono i tripodi che camminavano da sè stessi, le donne d’oro che aiutavanlo ne’suoi lavori, i cani d’argento e d’oro che stavano a guardia di Alcinoo, le armi impenetrabili fatte per Achille a richiesta di Tetide tra le quali distinguevasi particolarmente lo storiato scudo, su cui mille cose erano maestrevolmente effigiate.

Eguali armi e scudi egualmente maravigliosi fece egli per Ercole ad istanza di Giove, per Enea alle preghiere di Venere.

{p. 72}Erano pur lavoro di Vulcano, il palazzo del Sole, la corona d’Arianna, il monile d’Ermione, il scettro d’Agamennone e la famosa rete di fili di metallo d’una sì grande finezza che era invisibile, di cui si servì per cogliere Marte e Venero.

Di tutte le opere di Vulcano la più maravigliosa fu la statua di Pandera che fu da lui anche animata.

Si racconta che gli Dei irritati nel vedere che Giove si arrogasse solo il diritto di creare gli nomini, ordinarono a Vulcano di fabbricare una donna cui diedero il nome di Pandora, e che per renderla perfetta ognun di essi le fece un dono. Venere le diede la bellezza, Pallade la sapienza, Mercurio l’eloquenza, ec. Giove fingendo di voler ei pure far un dono a Pandora, le regalò un vaso in cui racchiudevansi tutti i mali. Dicesi che Pandora ebbe ordine da Giove di presentarlo a Prometeo contro del quale era {p. 73}adirato perchè aveva rapito il fuoco al sole per animarne i primi uomini. Prometeo essendosi rifiutato a ricevere il vaso, Pandora lo presentò ad Epimeteo fratello di Prometeo, ed avendo egli avuta l’imprudenza di aprirlo, ne uscirono tutti i mali che infestano il mondo, restando solo la speranza infine del vaso tanto conosciuto sotto il nome di vaso di Pandora.

Si rappresenta Vulcano come un uomo di età matura, zoppo da ambe le parti, con folta barba, coi capelli sparsi, conun abito che gli arriva appena ai ginocchi, appoggiato ad un incudine con un martello e le tenaglie nelle mani.

Gli Etruschi ed i Romani lo rappresentavano giovine ed imberbe.

In Lenno aveva egli il suo principal culto.

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Plutone, Proserpina, altre deità infernali e descrizione dell’ inferno §

Plutone figlio di Saturno e di Reà, salvato come gli altri suoi fratelli, ebbe in parte l’impero dell’inferno nella divisione che fece con Giove e Nettuno dell’eredità paterna. Essendo il Dio dell’inferno e non regnando che sui morti, la natura del suo impero inspirava una tale avversione a tutti, che non potè ritrovare alcuna donna che volesse sposarlo, e fu per questo che si determinò di rapire Proserpina.

[n.p.] 

Plutone e Proserpina

[n.p.] 

{p. 75}Questo fatto si racconta in tal guisa. Avendo Giove seppellito sotto i monti della Sicilia, Tifeo o Tifone gigante mostruoso, uno di quei che diedero l’assalto al cielo e che toccava le nuvole col capo, si agitò di tal maniera la Sicilia, che Plutone temè non si aprisse la terra, e uscì dall’inferno per vedere che fosse. Stava ne’ campi dell’Enna Proserpina figlia di Giove e di Cerere colle compagne cogliendo fiori. Plutone la vide, ed invaghitosene, corse a rapirla, la mise sul suo carro e la trasportò nell’inferno. Non valsero le opposizioni di Ciane amica di Proserpina, la quale fu cangiata subito in fonte. Lieto Plutone della conquista fatta creò Proserpina regina dell’inferno e dielle il titolo di Giunone infernale. Si è già parlato delle ricerche fatte da Cerere per rinvenire la figlia.

Plutone soggiornava per lo più nell’inferno e desiderava morissero tutti i viventi {p. 76}per popolarne il suo regno. Questo Dio non ebbe posterità.

La divinità e la potenza di Plutone non poterono metterlo in salvo dai colpi di Ercole, allorchè gli Dei combatterono per la sorte di Troia. Plutone in quella giornata provò la stessa fatalità di Giunone e fu ferito in una spalla dal figlio di Alemena.

A lui ed a Proserpina sacrificavansi due nere vacche o due agnelle, essendo il numero due di cattivo augurio ; laddove ai celesti le viltime si offerivano in numero dispari. Il suo culto era celebre in Grecia ed in Roma. Sono i Romani che l’avevano messo nel numero delle dodici prime divinità.

Si denominava Giove infernale, Dite ed Orco ; benchè secondo alcuni Orco sia più propriamente il Dio del giuramento e punitore degli spergiuri.

{p. 77}Venia tal volta rappresentato Plutone convolto fuligginoso, barba e capelli neri, sopra un cocchio di ferro tirato da neri cavalli, or con un bidente di ferro in mano, or con un mazzo di chiavi, e con una corona d’ebano su la testa ; talvolta si rappresenta con Proserpina tra le braccia, svenuta per la paura, mentre la trasporta all’inferno ; gli si vede spesse volte vicino il can cerbero.

Da una gran parte dei Greci Plutone è stato considerato come una causa fisica, e gli hanno assegnato per soggiorno gli anditi delle miniere, e fattone così il Dio delle ricchezze, sotto il nome di Pluto.

Altri lo riconoscono nell’aria, perchè risguardavano l’aria come il rifugio delle anime allorchè sortono dal corpo.

Lo ritengono altri come l’emblema del sole, che, nella sua assenza durante l’inverno, piomba la natura nel lutto e nella sterilità. Proserpina secondo questi ultimi {p. 78}era l’emblema della corona boreale, bella costellazione posta presso il serpentario, che accompagna il sole mentre egli percorre l’inferiore emisfero ; e quindi i sei mesi da lei passati nell’inferno e sei mesi in cielo.

Alcuni storici pretendono che prima dell’esistenza di un principe chiamato Plutone, gli uomini non conoscevano l’uso dei funerali, e che quel nuovo stabilimento lo rendette meritevole dello scettro dell’inferno.

L’inferno di cui Plutone era il Dio ed il re era un luogo sotterraneo, vasto, oscuro, diviso in regioni diverse, l’una terribile, ove si vedevano dei laghi, la cui acqua limacciosa ed infetta tramanda mortali esalazioni, un fiume di fuooo, delle torri di ferro e di bronzo, delle ardenti fornaci, dei mostri e delle furie accanite a tormentare gli empi ; l’altra, ridente e pacifica, destinata ai saggi ed agli eroi.

{p. 79}All’Inferno fingevansi due ingressi, l’uno presso il lago di Averno nella Campania, oggi Terra di Lavoro nel regno di Napoli, l’altro per una caverna nel Tenaro, or capo di Maina, promontorio del Peloponneso. Ovidio ne finse un terzo in Sicilia ne’campi dell’Enna, ove Ciane fu convertita in fonte. Nell’Inferno andavano le ombre o le anime de’mortali per essere giudicate da Minosse, Eaco e Radamanto.

I tre giudici Minosse, Radamanto ed Eaco, esaminavano la vita de’trapassati, e giusta il merito assegnavan loro il premio o la pena.

Minosse e Radamanto erano figli di Giove e d’Europa. Il primo regnò in Creta, il secondo in Licia come vogliono certuni, o in alcuna delle isole dell’Arcipelago, sulle coste dell’Asia, come vogliono altri.

Eaco era figlio di Giove e di Egina, nacque nell’isola di Egina, della quale fu re.

{p. 80}Tutti e tre passarono pei sovrani più giusti de’loro tempi. La saggezza del loro governo e la loro probità fecero dar loro dopo morte dai poeti la carica di giudici supremi dell’Inferno. Minosse era nondimeno considerato come il presidente della corte infernale, e gli altri due giudici, non erano per così dire, che gli assessori di lui.

Le due grandi divisioni dell’Inferno sono il Tartaro ed i Campi Elisi.

Il Tartaro è la prigione degli empi e degli scellerati i cui delitti non potevano espiarsi. Questa prigione è dipinta vasta, fortificata da tre giri di mura e circondata da Flegetonte e Cocito ; un’alta torre ne difende l’ingresso. Le porte sono dure quanto il diamante ; tutti gli sforzi dei mortali, e tutta la possanza degli Dei non potrebbero spezzarle. Il Tartaro si prende per l’Inferno stesso molte volte.

I Campi Elisi erano il soggiorno felice {p. 81}delle ombre virtuose. « Ivi regnava una eterna primavera ; il fiato de’venti non si faceva sentire che per ispandere intorno l’olezizo de’fiori ; un sole novello e nuovi astri mai non erano da nube alcuna velati. Boschetti imbatsamati, selve di rosai e di mirti coprivano colle fresche loro ombre le anime fortunate. Solo il rossignolo aveva diritto di cantarvi i propri piaceri, e non erano interrotti che dalle toccanti voci de’grandi poeti e de’rinomati cantori con dolce mormorio. Lete vi scorreva, e le sue onde spargevano d’oblio i mali della vita. Una terra sempre ridente rinnovava tre volte ogni anno le sue produzioni, e con bella vicenda presentava o fiori o frutti. Dolore e vecchiaia erano ignoti nomi, eternamente conservavansi le età in cui si era goduta la maggior felicità. Là rinnovavansi ancora i più lusinghieri piaceri della vita. {p. 82}L’ombra d’Achille moveva guerra alle bestie feroci, e Nestore vi narrava le proprie glorie. Robusti atleti esereitavansi alla lotta ; giovani nel vigore dell’età lanciavansi nell’aringo, mentre giocondi vegliardi reciprocamente invitavansi a banchetti. Dai fisici godimenti stavano lungi i mali dello spirito. L’ambizione, la sete dell’oro, l’odio e tutte le vili passioni da cui sono agitati i mortali, più non alteravano la tranquillità degli abitatori dell’Eliso. »

Variarono d’opinione gli antichi nel situare i Campi Elisi. Li situavono alcuni nella Luna, altri nelle Isole Canarie, che dissero Fortunate, o nell’Islanda la Tile o Tule degli antichi secondo una generale opinione. Chi li pone nel œntro della terra, chi sulle sponde dell’Oceano. La maggior parte si accordano nel collocarli oltre le colonne d’Ercole nelle amene e deliziose campagne della Betica parte della Spagna meridionale.

{p. 83}L’idea del Tartano pare che sin stata presa da Tartesso piccola isola che esisteva una volta all’imboccatura del Beti, oggi Guadalquivir, in Ispagna, perchè vi si spedivano, come si crede, i prigionieri di stato.

Cinque erano i fiumi dell’Inferno, Stige, Cocito, Acheronte, Lete e Flegetonte.

Acheronte diceasi figlio del Sole e della Terra da alcuni e di Titano e di Cerere da altri, e cambiato in fiume infernale per aver fornito l’acqua ai Titani nella lor guerra contro di Giove. Le sue acque erano fangose ed amare ; le ombre lo passavane senza speranza di ritorno.

Si rappresenta sotto la figura di un vecchio coperto d’un abito umido. Riposa sopra un’urna nera, e le onde che ne escono sono piene di spuma, perchè il loro corso era sì rapido che rotolavano degli scogli e niuna cosa poteva trattenerne l’impetuosità. Gli si pone alle volte a lato un {p. 84}gufo ; lugubre uccello, la cui sola vista faceva fremere gli Auguri e dava a temere le più gravi sciagure.

Cocito risguardató da alcuni come un ramo di Stige circondava il Tartaro ed era formato delle sole lagrime dei malvagi. Il suo nome significa pianti e gemiti.

Si rappresenta sotto la figura di un vecchio la cui urna versa delle acque che dopo aver formato un cerchio perfetto, sfuggono e vanno a riuniral a quelle dell’Acheronte. Sulle sue sponde si vedevano dei tassi che porgevano un’ombra mesta e tenebrosa, e si vedeva pure una porta con gangheri di rame, dalla quale si penetrava nell’Inferno.

Flegetonte o Priflegetonte volgeva torrenti di fiamme e da ogni lato circondava le caroeri de’colpevoli. Erano a questo fiume attribuite le più nocevoli qualità. Con l’acqua di questo fiume Cerere trasformò l’indiscreto Ascalafo. Su le sue sponde {p. 85}non vedevasi giammaï crescere albero o pianta di sorta alcuna e dopo un lungo corso contrario a quello di Cocito, gittavasi com’esso nell’Acheronte.

Lete diceasi anche il fiume dell’Oblio. Le ombre erano obbligate a bevere delle sue acque, la proprietà delle quali consisteva nel far obliare il passato.

Coloro che amrnettevano la metempsicosi gli attribuivano anohe la proprietà di disporre a soffrire di nuovo le miserle della vita.

Fu soprannominato il fiume d’olio perchè il suo corso era placido ; sulle sue sponde si vedeva una porta che comunicava col Tartaro.

Si raffigura come un vecchio che da una mano tiene l’urna, dall’altra la tazza dell’oblivione.

Si rappresenta anche coronato di papaveri e di loto.

Stige è una celebre fontana che gli {p. 86}Egizi avevano collocata nel regno delle Ombre, perchè l’accesso ne era difficile e le sue acque con sordo strepito mormorando, ispiravano una cupa tristezza. I poeti ne fecaro una Ninfa figlia dell’Oceano ; essa formava un decimo ramo del fiume Oceano, scorrente sotterra, mentre l’Oceano cogli altri nove girava sopra la terra. Unita a Pallante ebbe per figli Zelo, Vittoria, Vigore e Forza. Allorchè Giove per punire l’orgoglio dei Titani, chiamò in soccorso tutti gl’immortali, lo Stige fu il primo che vi accorse con tutta quella formidable famiglia. Il supremo tra gli Dei oltremodo contento di tanto ossequio lo colmò di beneficenze e stabili che quando gli Dei avessero giurato per le sue acque, il loro giuramento fosse inviolabile, e se vi mancassero rimanessero per cent’anni privi della divinità.

Le acque di Stige erano infette, ed in esse si ponevano i traditori ed i calunniatori.

{p. 87}La decima parte di queste acque erano riserbate per gli Dei spergiuri.

Annoverasi tra i fiumi dell’Inferno anche l’Erebo figlio del Caos e della Notte, padre dell’Etera e del Giorno, che fu cangiato in fiume e precipitato nel Tartaro per aver prestato aiuto ai Titani. Viene preso anche per una parte dell’Inferno e per l’Inferno stesso. Si fa anche marito della Notte da cui si vuele abbia avuto il Giorno.

Prima di giugnere alla regia di Plutone ed al tribunale di Mimosse, era d’uopo passar l’Acheronte in una nera barca condotta du Caronte, figlio dell’Erebo e della Notte, vecchio, ma di robusta e verde vecchiezza, al quale le anime dovevano dare una moneta per essere traghettate, e ponevasi perciò a’morti nel seppellirli una moneta sotto la lingua. Le anime degli insepolti doveano errare per cento anni sulle rive del fiume prima di essere traghettate.

{p. 88}Caronte si rappresenta come un vecchio robusto, con oochi vivaci, con sembiante maestoso, benchè severo, coll’impronta della divinità nell’aspetto, con folta e canuta barba, con un oscuro vestimento indosso, lordo del fango del fiume infernale. La sua barca ha vele color di ferro, ed egli tiene un palo e remo per dirigerla.

Nessun mortale vivente poteva entrare nella barca di Caronte, a meno che non avesse seco un ramo d’oro consacrato a Minerva. La Sibilla ne diede uno al pio Enea, allorchè volle entrare nel regno di Plutone. Molto tempo avanti che questo principe vi scendesse il nocchiero infernale era stato punito e mandato un esilio per un anno in uno de’ più oscuri e dei più orribili luoghi del Tartaro per aver fatto passare Ercole, il quale non era munito di questo magico ramo.

{p. 89}La favola di Caronte si spiega in vari modi. Credesi da alcuni che Caronte fosse un potente principe che diede leggi all’Egitto e che fu il primo ad imporre un diritto su le sepolture.

Lo vogliono altri un semplice sacerdote di Vulcano che seppe usurpare in Egitto il supremo potere e che, coi tesori procedenti dal tributo ch’egli impose sui seppellimenti, riuscì a costruire quel famoso labirinto dove l’opinione volgare non tardò guari a porre il vestibulo dell’Inferno.

L’opinione comune si è che questo nome in lingua egizia suoni barcaiuolo, e che con esso si denotasse colui che per ordine del re tragittava nella sua barca quelli che avevano pagato il diritto della sepoltura, e che li conduceva vicino a Menfi nelle amene campagne in vicinanza del lago di Acherusa.

I sacerdoti egizi rifiutavano il passaggio del lago a quelli che erano morti senza {p. 90}pagare i loro debiti, e i parenti erano obbligati di tenere presso di sè il corpo fino a che li avessero pagati essi medesimi. La moneta posta in bocca al defunto indicava che tutti i suoi creditori erano soddisfatti, giacchè gli rimaneva per ottenere il suo passaggio.

I Greci avevano tolto dagli Egizi l’idea di far errare per cento anni sulle sponde del Cocito le anime degl’insepolti, perchè quelli che si annegavano nel lago Acherusa non ricevevano funerali se non un secolo dopo e si facevano a spese del pubblico.

Dal lago che alcuni chiamano Palude di Acherusa nell’Epiro in Tesprozia sorgeva l’Acheronte, la cui acqua era amara e malsana, che dimorava lungamente nascosta sotto e rra, e scaricavasi nel golfo Adriatico. Il Cocito era una palude fangosa che terminava in quella di Acherusa.

{p. 91}Di là dell’Acheronte errava il Can Cerbero cui alcuni danno cinquanta teste e che secondo l’opinione comune non ne aveva che tre. Questo mostro nacque da Echidna metà ninfa e metà serpente, e da Tifone vento procelloso e violento.

Echidna era figlia di Crisaore e di Calliroe. Benchè gli Dei la tenessero chiusa in una caverna ebbe nondimeno da Tifone, Orco, Cerbero, l’Idra di Lerna, la Chimera, la Sfinge ed il Leone di Nemea.

Cerbero era il custode dell’Inferno ed impediva che vi entrassero i viventi e ne sortissero le ombre.

Questo mostro aveva il collo irto di serpenti. Ercole lo incatenò allorchè trasse Alceste dall’Inferno e lo strappò di sotto il trono di Plutone ove si era rifuggito.

Orfeo addormentò questo cane col suono della sua lira, allorchè andò a cercare Euridice.

{p. 92}La Sibilla che conduceva Enea nell’Inferno lo sopì pure con una focaccia di mele e di papavero.

Molti si son dati a spiegare questa favola che credesi derivata dall’uso degli Egizi di far custodire i sepolcri da grossi alani, uso arrivato fino a’ giorni nostri presso i conquistatori dell’Egitto, gli Arabi.

Trovano credenza quelli che sostengono esser questo mostro l’emblema della dissoluzione che succede nel sepolcro ; e se Ercole lo vinse dopo aver incatenato la Morte, si è perchè le magnanime azioni di questo eroe, salvarono il nome di lui dall’oblio e lo rendettero immortale.

Tra le divinità infernali si annoverava Nenia la Dea protettrice dei moribondi.

Presiedeva ai funerali e col nome di Nenia si denominavano certi versi cantati nei funerali.

A Roma si adorava anche Libitina come Dea dei funerali, e pare che fosse la stessa Proserpina.

{p. 93}Dea dell’Inferno era pur Ecate che alcuni confondono con Diana, altri cólla stessa Proserpina, e taluni distinguono da amendue, facendola figlia di Ceo Titano e Febe sacerdotessa di Apollo.

Si danno molti caratteri a questa Dea e varia all’infinito la sua genealogia ; pare che ogni paese avesse la sua Ecate di cui i mitologi hanno complicato le qualità e cumulate le azioni. Si faceva anche figlia di Giove e di Latona e sorella di Apollo. Riconoscesi sotto questo nome una benefica deità, per la quale Giove aveva più riguardi che per qualunque altra divinità, poichè ella ha in mano, per così dire, il destino della terra, premia chi l’onora, fa conseguir la vittoria, scorta i viaggiatori e i naviganti, presiede al consiglio dei re, ai sogni, ai parti, alle conversazioni e al crescimento dei fanciulti che nascono.

{p. 94}Ecate figlia del titano Perseo si dipinge come brava cacciatrice, dotta avvelenatrice, che fa prova de’ suoi veneficii cogli stranieri, avvelena il proprio padre, s’impadronisce del soglio, edifica un tempio a Diana, e fa immolare a questa Dea tutti gli stranieri spinti dal caso sulle coste del Chersoneso di Tauride : indi ella diviene sposa di Eete, ed istruisce nella propria arte due degne figlie Medea e Circe. Dea dei maghi e degl’incantesimi, era invocata prima di cominciare le magiche operazioni che la costringevano a comparir sulla terra. Sopraintendendo ai sogni ed agli spettri, essa compariva a chi l’invocava. Come Dea delle espiazioni, le erano immolati dei cagnolini e le venivano innalzate delle statue nei trivi.

Soggiornavano nell’Inferno le tre Parche, Cloto, Lachesi ed Atropo dette da alcuni figlie della Notte e dell’Averno, da altri di Giove e di Temi.

{p. 95}Gli antichi credevano che queste divinità presiedessero alla vita ed alla morte ed erano riguardate siccome quelle che avevano un potere il più assoluto di tutte le altre. Padrone dispotiche della sorte degli uomini esse ne regolavano i destini : tutto ciò che avveniva nel mondo era sottoposto al loro impero. Il loro ufficio si era di filar la vita degli uomini. Cloto tenea la conocchia, Lachesi rigirava il fuso e Atropo tagliava il filo colle forbici allorchè la vita di ciascuno era giunta al suo termine.

Si voleva con ciò indicare che la prima preparava i destini, la seconda li distribuiva, e l’inflessibilità della terza impediva loro di variare.

In queste tre divinità tutto era emblematico e tutto aveva relazione alla nascita, alla vita e alla morte degli uomini.

Le Parche restarono sempre vergini e si dà loro l’epiteto di vecchie donzelle : {p. 96}non vi fu alcuno tanto ardito per tentare di piacere ad esse. È forse questa la ragione per cui fra tutte le divinità furon esse le sole che vissero in un’amicizia ed in un’inalterabile unione.

Esse ingannavano la monotonia delle loro occupazioni cantando le sorti de’ mortali.

L’orribile ritratto che ne fanno i poeti giustifica l’avversione che si ha sempre avuto per esse. Si rappresentano nere, digrignando i denti, con ispaventevole sguardo, con mani armate d’unghie adunche, avide di sangue e di carnificina. Erano anche zoppe. Si dà loro delle alì, i capelli bianchi e si fanno soggiornare nelle valli che circondano il Parnaso. Nella loro deformità avvi chi scorge un’allegoria relativa all’ineguaglianza ed all’incertezza dei destini. Altri non vi scorgono se non un’infermità, ordinario appannaggio della vecchiaia.

{p. 97}Le battaglie somministrarono alle Parche un’abbondante messe. Scorgonsi abbigliate d’insanguinate vesti, volare sopra i corpi per succhiarne il sangue e disputarsi i cadaveri che respirano ancora, trascinare pei piedi i morti, senza risparmiare i guerrieri che dalla morte erano ancor rispettati. Si vedono avventarsi sui corpi nella mischia con inaudito accammento, e mille altri crudeli tratti sono ad esse attribuiti.

Devesi nondimeno opporre a tali dolorose pitture lo spettacolo delle Parche intenerite che restituiscono la vita allo sfortunato Pelope. Cloto gli dà una spalla d’avorio, onde sostituirla a quella stata distrutta dall’avidità di una Dea. Si vedono versar lagrime sulla morte dell’avvenente Adone, e tentare, benchè invano, di richiamarlo coi loro canti alla luce ; Proserpina non si lasciò commuovere. La dolce melodia della lira di Orfeo le intenerì a segno, {p. 98}che, per udirlo, lasciarono in abbandono i loro fusi, e poscia raddoppiarono con velocità maggiore il lavoro, temendo di aver di troppo allumgato i destini. Dopo la morte di Achille versarono amare lagrime e non vollero più rimanere nel campo greco.

Le Furie erano divinità infernali, immaginate come ministre della vendetta degli Dei contro i colpevoli ed incaricate della esecuzione delle sentenze che contr’essi emanansi dai giudici dell’Inferno. Si fanno figlie della Terra da alcuni, da altri della Discordia ; ed avvi chi le vuole figlie della Notte e del fiume Acheronte. Erano tre : Tisifone, Megera ed Aletto. Mentre i colpevoli erano in vita, le Furie portavano nell’anima loro il terrore, li tormentavano con rimorsi dilanianti e con visioni spaventevoli, le quali gettavanli nel più gran delirio, che sovente non cessava che colla loro vita. Gli Dei le impiegarono anche {p. 99}a punire gli uomini colle malattie, le guerre e gli altri flagelli dell’ira celeste, e per questo oggetto le loro incombenze erano così divise : Tisifone era impiegata a suscitare le malattie contagiose ; Aletto dedicavasi particolarmente ai disordini della guerra, e gli Dei servivansi di Megera allorchè trattavasi di trarre qualcuno a morte. Così formidabili divinità si guadagnarono particolari omaggi. Era sì grande il rispetto che avevasi per esse che quasi non osavasi nominarle, nè fissare lo sguardo sopra i loro tempii. Ne avevano in molti luoghi della Grecia e servivano di inviolabile asilo ai delinquenti. Nei sacrifici che loro si offrivano impiegavasi il narciso, lo zafferano, il ginepro, il biancospino. Venian loro immolate delle agnelle pregnanti, degli arieti e delle tortorelle.

Si rappresentano con severo sembiante ed in aria minacciosa, colla bocca spalancata, con abiti neri e insanguinati, con {p. 100}ali di pipistrello, con serpenti intreociati intorno al capo, con una torcia ardente in mano ed un flagello di serpente nell’altra oppure un uncino, con il Terrore, la Rabbia, il Pallore e la Morte per compagni. In questa guisa stando sedute intorno al trono di Plutone, attendono esse i suoi ordini con un’impazienza che mostra tutto il loro furore.

Le Furie si chiamarono anche Erinni ed Eumenidi in terra ; Dire in cielo e Cagne di Stige nell’Inferno.

Molti furono tormentati in vita dalle Furie, ma non avvi esempio più strepitoso delle loro vendette di quello dell’infelice Oreste, che perseguitarono tanto orribilmente.

Nelle Furie hanno i poeti voluto raffigurare i rimorsi che accompagnano i delitti.

I Mani erano una specie di Geni che presiedevano a morti. Da alcuni furono presi per le anime stesse de’ trapassati, e {p. 101}Plutone come capo e sovrano de’ Mani fu detto Summanus. Si innalzavano de’ tempii in loro onore, si facevano de’ sacrifici per pacificarli ed il cipresso era la pianta che loro si consacrava.

La Notte figlia del Cielo e della Terra, Dea delle Tenebre che sposò l’Erebo fiume d’Averno, da cui ebbe molti figli e che rappresentavasi per lo più in veste nera sparsa di stelle diceasi abittue l’Inferno colla Morte, col Sonno e coi Sogni suoi figli.

La morte è la più implacabile tra le Dee. Se le sacrificava un gallo. I poeti la rappresentano colle sole ossa, in veste nera, sparsa di stelle, colle ali e molte volte con una falce in mano.

Il Sonno figlio dell’Erebo e della Notte, dicono che ebbe il suo palazzo in luogo deserto e sconosciuto, ove non penetrano mai i raggi del sole. All’entrata del suo palazzo stanno de’ papaveri e dell’erbe {p. 102}concilianti il sonno. Il fiume dell’oblivione gli scorre intorno e non sentesi che il lento mormorio delle acque di questo fiume. Il Sonno sta disteso in una sala su di un letto di piume che ha le tende nere. I Sogni gli stanno dintorno sdraiati, e Morfeo suo figlio o ministro, che addormenta tutti quelli che tocca con un gambo di papavero e fa sognare, sta vegliando per impedire che non si faccia rumore. Il Sonno possente Dio cui tutto è sottomesso sta continuamente riposando in quel luogo.

Si rappresenta con un corno in una mano e un dente di elefante in un’altra.

Si rappresenta anche in figura d’un giovane sdraiato mollemente su di un gruppo di nubi, ed esprimente quello stato di quiete in cui trovansi i mortali, mentre egli con ali spiegate nelle aeree regioni, lascia dal suo manto in gran copia cadere su la terra i papaveri, {p. 103}siccome simbolo dell’oblio in cui giaccionsi le tenui cure all’ombra del benefico suo impero.

Si faceva soggiornare in fine nell’Inferno anche Pluto figlio di Cerere e di Giasone dio delle ricchezze, ministro di Plutone, col quale è stato alle volte confuso. Si rappresentava cieco ; dicesi ehe fosse zoppo quando veniva fra noi e mettesse le ali nel partirsene. Distribuisce le ricchezze a capriccio e non secondo la ragione. Quando era giovine dicesi avesse una buonissima vista, ma che avendo dichiarato a Giove ch’ei non volea seguire se non se la virtù e la scienza, il padre degli Dei, geloso delle persone dabbene, lo aveva accecato per togliergli il discernimento.

Si rappresenta sotto la forma di un vecchio che tiene una borsa in mano.

I poeti hanno conservato il nome di alcuni più celebri tra i condannati del Tartaro ed il genere del supplizio con cui vi erano tormentati.

{p. 104}Tantalo re di Lidia o di Frigia nell’Asia minore, figlio di Giove e della ninfa Plote o Ploto o Pluto figlia di Teoclimene, dicesi che in un convito offerto agli Dei, per far prova della loro divinità diè loro a mangiare il propro figlio Pelope tagliato in pezzi. Vuolsi che Cerere più avida degli altri o distratta dall’affano che le cagionava il ratto di sua figlia senza avverdersene ne mangiasse una spalla ; ma Giove inorridito per un tale misfatto, riunite le membra di Pelope col ministero delle Parche lo richiamò in vita ; e condannò Tantalo nell’Inferno all’eterno tormento della fame e della sete, ponendolo in mezzo alle acque che gli giungono fino al mento, ma che gli sfuggon di sotto quando si abbassa per beverne ; e collocandogli sopra la testa un albero carico di frutta, che s’innalzano ogni volta che stende il braccio per coglierne.

{p. 105}Le Danaidi erano cinquanta figlie di Danao re d’Argo, ch’egli maritò tutte in un giorno a cinquanta figli di Egitto suo fratello. Avendo inteso Danao dagl’indovini che dai generi dovea essere privato del regno ordinò alle figlie di uccidere la stessa notte tuttì i loro mariti. Quarantanove di esse eseguirono il barbaro comando, e non fuvvi che Ipermestra la quale salvò il marito Linceo ; furono le altre tutte condannate nell’Inferno ad attignere acqua perpetuamente con un vaglio. Si chiamavano anche Belidi, da Belo re d’Egitto padre di Danao.

Si è immaginato questo favoloso castigo perchè si pretende da certuni che le Danaidi comunicassero agli Argivi l’invenzione dei pozzi che avevano recata dall’Egitto, dove le acque erano rare ; altri dicono che palesassero l’invenzione delle trombe ; e siccome si traeva forse continuamente acqua col unezzo di queste trombe pei {p. 106}differenti usi delle Danaidi, così quei che erano impiegati in questo disagioso lavoro, dissero verisimilmente che queste principesse erano condannate a riempire un vaso forato, per consumare tant’ acqua.

Sisifo figlio di Eolo e di Enarete, nipote di Elleno e fratello di Atamante e di Salmoneo era uno de’ più astuti principi del suo tempo. Avendo occupato l’istmo di Corinto, infestava l’Attica co’ suoi latrocinii e schiacciava col peso di enorme sasso quelli che gli cadevano tra le mani. Fu ucciso da Teseo e condannato nell’ Inferno a spingere sulla cima d’un monte un gran sasso, che quando è vicino a toccare la sommità, ricade nuovamente al basso.

La rupe che gli fanno incessantemente muovere, è l’emblema di un ambizioso principe che lunga pezza ravvolse in capo dei grandi disegni senza eseguirli.

{p. 107}Flegia re de’ Lapiti volendosi vendicare di Apollo che aveva sedotta l’unica sua figlia Coronide incendiò il tempio che quel Dio aveva in Delfo. Irritato Apollo uccise Flegia e precipitato dagli Dei nel Tartaro fu condannato a starsi perpetuamente sotto di un sasso che sempre minaccia di rovinargli addosso e schiacciarlo.

Issione altro re de’ Lapiti figlio di Giove e della ninfa Melete come dicono molti mitologi sposò Dia, figliuola di Deione o Deioneo. Volendosi vendicare di suo suocero per un’ingiuria che ne aveva ricevuto lo fece morire in modo barbaro. Egli fu il primo che si fece reo dell’uccisione di una persona della sua famiglia. Questo delitto destò orrore ; e siccome era senza esempio, così non trovò persona veruna che volesse espiarlo. Indarno sollecitò tutti i principi greci a concedergli soccorso e ospitalità, quindi fu costretto ad errare lungo tempo senza {p. 108}trovare asilo. Abbandonato da tutti si rivolse a Giove il quale ebbe pietà de’ suoi rimorsi e per consolarlo della tristezza in cui tale sinistro accidente l’aveva immerso lo ricevette in cielo e lo ammise alla sua tavola ; e questo ingrato principe abbagliato dalle attrattive di Giunone osò dichiararle la propria passione. Giove da essa avvertito lo mise alla prova e convintosi della verità, preso da giusto sdegno lo percosse col fulmine e lo fece legare dalle Furie nell’ Inferno ad una ruota circondata da serpenti e che gira sempre.

I serpenti che circondano la ruota servono ad indicare i rimorsi di una coscienza lacerata dalla memoria di un orribile delitto ; il perpetuo movimento della ruota è il simbolo della continua inquietudine in cui visse questo principe dopo il suo parricidio.

Tizio era figlio di Giove e di Elara ; ma si disse figlio della Terra, perchè sua {p. 109}madre lo partorì sotto terra o in una caverna ove Giove l’aveva chiusa per nasconderla a Giunone e perchè la Terra era riguardata qual’ madre di tutti i giganti. Esso era uno smisurato gigante ; Apollo e Diana lo uccisero a colpi di freccia per aver tentato di far violenza a Latona ; e sepolto nel Tartaro, ove occupava collo smisurato suo corpo nove iugeri di terreno, fu condannato ad avere le viscere sempre rinascenti rose da due avoltoi.

Annoverano i poeti tra i più celebri condannati del Tartaro anche i Giganti o Titani che mossero guerra a Giove, il più formidabile dei quali fu Tifone che da sè solo diede a fare agli Dei più assai che tutti gli altri giganti insieme. Poichè Giove gli ebbe sconfitti precipitolli nel Tartaro ; avvi chi pretende che fossero seppelliti vivi parte sotto l’Etna, parte in diversi paesi. Vuolsi da alouni che {p. 110}Briareo famoso tra i giganti, che avea cento braccia e cento mani e che mandava fiamme da cinquanta bocche e da cinquanta petti, ad istanza di Teti, nella cospirazione degli Dei contro Giove, salisse al cielo e si sedesse al fianco di Giove, e che col suo fiero e terribile contegno spaventasse i congiurati Numi e fe’ loro abbandonare il progetto di legare il supremo degli Dei. Giove in riconoscenza lo avrebbe scelto unitamente a Gige e Cotto, suoi fratelli, per servirgli di guardia. Pretendesi da altri che Briareo avesse parte nella guerra de’Titani contro gli Dei, e che fosse oppresso sotto il peso del monte Etna e che venisse poscia liberato.

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Degli dei inferiori §

Pale §

Sotto questo nome si onoravano le Deità protettrici delle gregge. Questa Dea de’ pascoli e de’ pastori è confusa dai mitologi con Cibele e con Cerere.

Nel giorno 19 di aprile celebravasi tutti gli anni nelle campagne una festa chiamata palilia in onore di questa divinità. I contadini avevano in quel giorno tutta {p. 112}la cura di purificarsi con profumi mescolati di sangue di cavallo, di ceneri di un giovane vitello che facevano bruciare, e di gambi di fave. Purificavano eziandio le stalle e gli ovili non che le mandre col fumo di sabina e di zolfo ; poscia offrivansi dei sacrifizi alla Dea i quali consistevano in latte, in vino cotto e in miglio. La festa terminava con fuochi di paglia, e i giovinetti vi saltavano sopra, al suono di flauti, di cembali e di tamburi.

[n.p.] [n.p.]
Pane e Siringa
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Pane, Fauno, Silvano §

Pane era il principale tra gli Dei Inferiori. Gli autori antichi non sono d’accordo sulla sua origine. Chi lo vuol figlio di Giove, chi di Mercurio. Si ritiene però più comunemente che il Pane dei Greci fosse figlio di quest’ultimo Dio e di Penelope, figlia d’Icario e poscia moglie di Ulisse re d’Itaca. Pane era dio dei caceiatori, dei pastori e di tutti gli abitanti delle campagne.

Siccome Pane viene da una parola greca che significa tutto, fu egli perciò riguardato da alcuni come il Dio della natura tutta e sotto questo titolo viene considerato come figlio di Demogorgone, il più {p. 114}antico degli Dei che aveva per compagni il Tempo ed il Caos, la cui sede fu posta da alcuni nelle viscere della terra. Questi era un Dio terribile, che non era permesso di nominare. Oltre l’esser stato padre di Pane dicesi che fosser pur anche figli suoi le tre Parche, il serpente Pitone ed il Cielo stesso e la Terra.

Pane ebbe molte concubine che sedusse sotto diverse figure. Ma non potè vincere Siringa figlia di Ladone fiume d’Arcadia, la quale da lui fuggendo in riva al fiume paterno, fu cangiata in un canneto e dal suono che fecero le canne fra lor percosse, prese poscia l’idea di far la zampogna di cui fu l’inventore. Accompagnò Bacco nelle Indie e fu padre di molti Satiri.

La sua principal cura era di stare giorno e notte nelle campagne suonando la zampogna e custodendo gli armenti. Si faceva piacere di incutere, con subitanee apparizioni, timore agli animali che abitavano il {p. 115}monte Liceo ed il monte Menalo in vicinanza del fiume Eurota nel Peloponneso ove Apollo andava a cantar sulla lira la metamorfosi di Dafne. Narrasi dai Greci che quando i Galli sotto la condotta di Brenno s’accingevano scorrendo la Grecia a spogliare il tempio di Delfo, venne loro incusso da Pane un improvviso terrore per cui tutti diedersi a fuggire. Da ciò prese origine di chiamar Terror Panico quel terrore che ci assale improvvisamente senza conoscerne tante volte la causa o per causa non fondata.

In Egitto, a Roma e particolarmente in Arcadia rendevansi a questo Dio onori straordinari.

Pane si rappresenta rosso in viso, colle corna in testa, lo stomaco coperto di peli, la parte inferiore del corpo simile a quella di un capro.

Gli si sacrificava una capra.

{p. 116}Molti confondono Pane col dio Silvano e col dio Fauno. Il primo era particolarmente Dio delle selve e si rappresenta ora colle corna e metà del corpo di capra, ora con tutta l’umana forma ; ed in questo ultimo caso gli si dà una ronca in mano, una corona rozzamente fatta di foglie e di pine, un abito rustico che gli scende sino alle ginocchia, un cane a lato ed alcuni alberi. Sotto la prima forma è preso per il dio Pane ed allora si vede tutto nudo, coronato di edera, portando dalla sinistra mano un ramo di pino carico di pine, locchè dimostra che il pino era l’albero favorito di questo Dio. Spesse fiate invece di pino ha un ramo di cipresso in mano per memoria del giovane Ciparisso che da lui non da Apollo, come si è già detto, pretendono alcuni sia stato cangiato in cipresso. A Silvano offrivasi da principio solo latte, gli venne poscia immolato un porco.

{p. 117}Egli fu sommamente onorato in Italia ove dicesi esser egli nato ed aver regnato per la felicitò degli uomini.

Fauno Dio campestre figlio di Mercurio e della Notte, dipingevasi come Pane ma senza peli al mento ed al petto. Gli si sacrificava un agnello o un capretto.

I Satiri detti figli di Pane, i Fauni di Fauno ed i Silvani di Silvano si confondono soventi gli uni cogli altri ; erano tutti rappresentati metà uomini e metà capri con le corna in testa, colla sola differenza che i Satiri si rappresentavano col pelo al mento ed allo stomaco e gli altri non ne avevano, ed abitavano tutti le foreste ed i monti.

Le occupazioni dei Fauni avevano un più stretto rapporto coll’agricoltura. I loro lineamenti sono meno schifosi di quelli dei Satiri ed hanno anche una fisonomia di essi più allegra. Si consacrava ad essi il pino ed il selvatico ulivo. Si pretende {p. 118}che la voce dei Fauni si facesse sentire nel più folto dei boschi.

Il nome di Silvani era generico e si dava ai Fauni, ai Satiri, ai Sileni, ai Pani, ecc.

{p. 119}

Vertunno, Pomona §

Vertunno così chiamate perchè cangiavasi in tutte le forme a piacer suo, era il Dio delle vergini e presiedeva all’autunno ed ai giardini. Avendo il potere di cambiare di forma a suo piacere si riguardava anche come il Dio dei pensieri e dei cambiamenti.

Pare che sotto il nome di Vertunno volessero gli antichi prestare omaggio all’anno ed alle sue variazioni.

Lo si rappresenta come sotto la figura di un giovane, con una corona d’erba di varie specie, con un abito assai corto, con de’ frutti in una mano ed il corno d’abbondanza nell’altra.

{p. 120}Ebbe questo Dio un tempio a Roma nella piazza del mercato.

Invaghitosi di Pomona Dea de’ frutti e de’ giardini, molto distinta per la sua bellezza e che avea rifiutato la mano di vari Dei, impiegò tutti i mezzi per farle superare l’avversione che aveva per le nozae e riescì a piegarla colle persuasioni avendo prese le sembianze di una vocchia ; indi fattosi conoscere e trasmutatosi in un bellissimo giovine la sposò. Ebbe anch’esse un tempio in Roma.

Si rappresenta da alcuni seduta su di un cesto pieno di fiori e di frutti con un ramoscello nella mano dritta ed alcuni pomi nella sinistra ; da altri si rappresenta coronata di foglie di vite e di grappoli d’uva con un corno d’abbondanza tra le mani ovvero un cesto di fiori.

Giunto Vertunno con sua moglie in età avanzata, ringiovanissi insieme con {p. 121}lei e non violò giammai la fede che le aveva data.

Non era il solo Vertunno che avesse il potere di cambiar di forme, ebbervi Proteo, Periclimene ed Acheloo.

{p. 122}

Proteo §

Proteo, dio marino, figlio dell’Oceano e di Teti, e secondo altri di Nettuno e di Fenice, dimorava ordinariamente nel mar Carpazio, così chiamato da Carpata, ora Scarpanto isola situata tra quelle di Rodi e di Creta. I Greci vogliono che nascesse a Pallene città della Tessaglia. Era custode delle gregge di Nettuno chiamate foche o vitelli marini, è suo padre in compenso lo avea dotato del dono di predire l’avvenire, ma non lo diceva se non vi era forzato. Al pari delle altre Divinità marine aveva sulla riva una grotta in cui andava a riposarsi, e in quella recavansi i mortali per consultarlo. Bisognava {p. 123}sorprenderlo però mentre dormiva e legarlo in modo che non potesse fuggire, perchè altrimenti prendeva tutte le forme per ispaventare chi cercava di avvicinarlo. Comparve in forma di spettro ai suoi figli Tmolo e Telegone giganti crudelissimi, e fu tanto lo spavento che incusse loro, per, cui desistettero dalle scelleraggini che commettevano.

Aristeo figlio di Apollo e di Cirene avendo perdute tutte le sue api, andò per consiglio della madre Cirene a consultare Proteo per sapere il mezzo di rìsuperare le sue api, e dovette sorprenderlo mentre dormiva e con questo artificio gli riuscì di farlo parlare.

Vogliono alcuni che Proteo sia stato re d’Egitto saggio ed avveduto. La sua prudenza gli faceva prevedere tutti i pericoli, e si disse perciò che conoscesse l’avyenire. Era impenetrabile ne’suoi segreti, e bisognava, per così dire, circuirlo {p. 124}da vicino per iscoprirli. Si mostrava di rado in pubblico e soltanto a certe ore determinate passeggiava co’ suoi cortigiani. Facile e pronto di spirito, sapeva trovare mille maniere per evitare di lasciarsì penetrare. I re d’Egitto avendo d’altronde l’uso di portare, in segno del loro coraggio e del loro potere, la spoglia di un leone, di un toro o di un drago, qualche volta de’rami d’alberi e altre volte dei bracieri in cui ardevano dei profumi, questi ornamenti servivano ad ispirare ai sudditi un timore superstizioso e quindi l’idea di prendere tutte le forme per ispaventare chi cercava di avvicinarlo.

Da altri fu detto che Proteo era un oratore che colle attrattive della sua eloquenza conduceva a suo talento lo spirito di chi l’ascoltava.

Avvi chi ne fa un commediante, un mimo tanto agile che mostravasi sotto un’infinità di differenti figure.

{p. 125}Fu messo infine nel numero di quegli incantatori di cui abbondava l’Egitto, e che affascinavano, co’ loro prestigi, gli occhi della ignorante moltitudine.

Se n’era fatto un Dio marino figlio di Nettuno perchè era possente sul mare, e i suoi sudditi, popolo marittimo e dedito alla navigazione, sono stati chiamati le gregge di Nettuno.

{p. 126}

Feronia §

Feronia era Dea de’ boschi e degli orti. Veneravasi particolarmente nell’agro Pontino, ove le si facevano molte offerte, oltre un annuo sacrificio in un giorno determinato. Si vuole che il suo culto sia stato trasportato in Italia dai Lacedemoni. Essendosi appiccato il fuoco un giorno al bosco ove aveva un tempio, volendo gli abitanti trasportare altrove in salvo il simulacro di lei, ella fece subito rinverdire il legno del quale era composto il simulacro ed il bosco stesso rigermogliò e divenne improvvisamente verdeggiante e per ciò desistettero dall’impresa.

{p. 127}I sacerdoti di questa Dea camminavano a piè nudi sopra i carboni ardenti senza abbruciarsi. Era pur tenuta Dea de’ liberti, perchè i servi nel suo tempio ricevevano il cappello della libertà.

{p. 128}

Zefiro, Flora §

Zefiro vento d’occidente ed uno de’ quattro principali, era figlio di Eolo e dell’Aurora e secondo altri di Astrea. Spira questo vento così soavemente ed ha pur tanta virtù, che ravviva tutta la natura. Il suo nome significa infatti che reca la vita.

Si rappresenta sotto la figura di un giovinetto con faccia serena, colle ali di farfalla ed incoronato di ogni sorta di fiori.

Amò teneramente e sposò Clori secondo i Greci è Flora secondo i Latini ; e l’imeneo di questa amabile coppia si mette in primavera.

[n.p.] 

Zeffiro

[n.p.] 

{p. 129}Si venerava Flora come la Dea de’ fiori e della primavera, e si rappresenta ornata di ghirlande con vicino di lei molte ceste di fiori.

Flora era una delle dee che presiedeva al frumento, ed in certi tempi dell’anno le venivano offerti dei sacrifici. Quando le donne celebravano le feste di questa Dea, chiamate giuochi floreali, correvano giorno e notte, ballando al suon delle trombe e quelle che vincevano al corso erano coronate di fiori.

La Clori o Cloride de’ Greci era secondo essi una delle Ninfe delle Isole Fortunate. Essa fu amata da Zefiro, il quale la rapì e la fece sua sposa, conservandole il fiore della sua prima giovinezza e dandole in dote l’impero de’ fiori.

{p. 130}

Priapo §

Priapo, il Dio e custode degli orti, era nato da Venere e da Bacco in Lampsaco, città dell’Asia Minore ora Natolia, ov’egli era particolarmente onorato, per la qual cosa vennegli dato il soprannome di Lampsacio, Lampsaceno o Lampsaco. Dicesi che Venere essendosi innamorata del Dio del vino per capriccio, andò ad incontrarlo mentre egli ritornava dalle Indie, e che si fermò in Lampsaco per isgravarsi. Giunone, che dopo il giudizio di Paride la odiava tanto, le offrì la sua assistenza nel parto, e ricevette il fanciullo sì deforme, che non osando Venere di riconoscerlo, ordinò fosse esposto su di {p. 131}un monte vicino a Lampsaco, ove fu allevato dai pastori.

Si dipingeva soventi sotto la forma di Erme o di Termine, con corna di becco, orecchie di capra, coronato di foglie di vite o di alloro, colla barba e la chioma scomposta e con una falce in mano per allontanare i ladri e gli uccelli. I Romani mettevano la sua statua negli orti, nella persuasione ch’egli ne fosse il guardiano e che ne procurasse la fertilità. Questo Dio che presiedeva ad ogni sorta di dissolutezze era particolarmente venerato da coloro che mantenevano delle mandre di capre o di pecore o di api.

{p. 132}

Termine §

Questo Dio presiedeva ai limiti de’ campi, cui era grave delitto il violare. Pretendesi che si debba a Numa l’invenzione di questa divinità come un freno più atto delle leggi a moderare l’avidità di invadere i possessi altrui. Avendo voluto poscia Tarquinio il Superbo innalzare un tempio a Giove sopra il Campidoglio si dovette trasportare altrove le statue degli Dei che vi si trovavano. Tutti gli Dei cedettero per riverenza il luogo a Giove e si ritirarono ne’ vicini luoghi ; ma il dio Termine rimase nel suo posto senza muoversi malgrado gli sforzi che si fecero per levarnelo, ed egli si trovò in tal modo {p. 133}rinchiuso nel tempio innalzato in quel luogo. Si fece credere al popolo un tal fatto per persuaderlo che non vi era cosa più sacra dei limiti de’ campi, ed era lecito l’uccidere quelli che non li rispettavano.

A principio si rappresentava come una pietra quadrata o come un palo fitto in terra che segnava il confine tra un campo e l’altro ; gli si diede poscia una testa umana : ma era sempre senza braccia e senza piedi, affinchè, dicesi, non potesse cambiar di posto.

Anticamente non sacrificavasi a questo Dio alcun animale ; si stabilì poscia di sacrificargli un agnello o una porca lattante.

I sacrifici pubblici avevano luogo nel tempio a lui consacrato : dai particolari facevansi sui limiti medesimi dei campi. I due proprietari vicini andavano a gara per ornar di ghirlande il limite principale presso cui innalzavano un altare ed un {p. 134}piecolo rogo, al quale uno dei fittaiuoli e dei signori appiccava il fuoco, poscia spargeasi su le brace del vino ed una parte delle provvisioni che avevano portate. Dopo le preghiere ed il sacrificio della vittima, i due proprietari colle rispettive loro famiglie, davano un banchetto cui d’ordinario intervenivano i villici di quei contorni. Fra le cerimonie di quella festa, pur quella praticavasi di fregare col sangue della vittima il limite o la pietra che serviva di confine, e in mancanza di sangue ; ungevasi di olio semplice o preparato.

{p. 135}

Eolo ed altri venti §

Sí è già detto che Giove si riserbò l’impero dell’aria. Egli poi affidò ad Eolo figlio suo e di Acesta o Sergesta figlia di Ippote troiano il governo de’ venti, ed Eolo teneali rinchiusi nelle spelonche delle isole Eolie o Eolidi o Vulcanie ora di Lipari tra la Sicilia ed il continente dell’Italia ov’egli risiedeva. Era tale il potere di Eolo sui venti che la sola sua volontà li riteneva.

Quando i venti gettarono Ulisse negli stati di Eolo, questi lo accolse molto cortesemente e per segno di benevolenza gli fece dono di alcuni otri in cui stavano {p. 136}rinchiusi i venti contrari alla sua navigazione. I compagni di Ulisse, vinti dalla curiosità, aprirono questi otri, donde fuggirono i venti che furono causa di una sì spaventevole tempesta che fece perire tutti i vascelli di Ulisse, il quale potè appena salvarsi su di una tavola. Questo principe si presentò nuovamente ad Eolo, da cui fu con isdegno respinto, riguardandolo come un uomo colpito dalvira degli Dei.

Si rappresenta sotto la forma di un vecchio venerabile, con un scettro in mano, seduto su di alcuni gruppi di nubi, o all’entrata di un antro da cui sortono i venti sotto la figura di teste gonfiate.

Si attribuiscono ad Eolo dodici figli, dei quali sei maschi e sei femmine che si maritarono gli uni colle altre, avendo forse con ciò voluto indicare i dodici venti principali.

Levando il velo che copre questa favola pare ad alcuni che Eolo sia stato un {p. 137}principe dedito allo studio dell’astronomia, il quale, coll’ osservazione del flusso e riflusso, prediceva, soventi con precisione, alcuni giorni prima, qual vento dovea soffiare, e porgeva degli utili consigli a coloro che intraprendevano marittimi viaggi.

Si fa padre dei venti tempestosi o delle procelle Tifone marito di Echidna, e da Astreo e dall’Aurora o da Eribea si fanno procedere gli altri.

I principali tra questi ultimi erano que’che spiravano dai quattro punti cardinali del cielo, Borea o Aquilone cioè dal settentrione, Euro da levante, Austro o Noto da mezzogiorno, Zefiro da ponente.

Il vento Borea posto tra gli Dei soffia il freddo e cagiona le nevi e le procelle ; ma benchè fosse il padre delle brine e dei ghiacci, fu egualmente acceso dai fuochi dell’amore. Invaghitosi vivamente di Orizia figlia di Eretteo sesto re di Atene, e non avendo potuto renderla {p. 138}sensibile alla sua passione, la rapì dalle sponde del fiume Ilisso dove si trastullava con altre fanciulle della sua età, e la trasportò nella Ciconia, regione di Tracia, dove la sposò, e la rese madre di due figli gemelli Zete e Calai e di due fanciulle Cleopatra e Chione. Ebbe grandi onori a Megalopoli. Si dipinge coi coturni ai piedi e le ali alle spalle per indicare la sua leggerezza.

Si ricopre alcune volte con un mantello ed ha la figura di un giovine. Alcune volte si rappresenta con una fisonomia severa ed irritata, inviluppato in densi vapori quando traversa il cielo, e nella polvere quando scorre la terra.

Cangiato in cavallo provvide Dardano di dodici giannetti (specie di cavalli spagnuoli) di tanta velocità, che correano sulle spiche senza curvarle e sulla superficie del mare senza affondare.

{p. 139}Quelli che distinguono Aquilone da Borea rappresentano il primo, che dicono vento furioso e freddissimo, con una coda di serpente ed i capelli sempre bianchi.

Euro vento d’oriente vien dipinto come un vento impetuoso che seguita la tempesta da lui suscitata. I moderni lo rappresentano con un giovine a lato che va con ambe le mani seminando fiori ovunque passa. Dietro lui evvi un sole nascente. Vien dipinto di color nero, perchè questo colore è quello degli Etiopi o degli abitanti del Levante, ov’esso domina.

Austro vento estremamente caldo dimorava nei climi caldi del mezzogiorno. Il suo fiato era alcuna volta sì infuocato che ardeva le città ed i vascelli in mare.

Si dipinge da alcuni di statura alta, vecchio, con capelli canuti, di aspetto cupo, col capo circondato di nuvole, e stillante acqua da tutte le parti de’ suoi vestimenti ; si mette anche seduto nella caverna di {p. 140}Eolo in atto di asciugarsi le ali dopo la tempesta. Avvi chi lo personifica sotto la figura di un uomo alato, robusto, intieramente nudo. Cammina sopra nuvole, soffia con gote enfiate, per dinotare la sua violenza, e tiene in mano un innaffiatoio, per indicare che conduce ordinariamente la pioggia.

Deificate che furono dalla superstizione le terribili potenze dell’aria, si credette di poterne coi voti e colle offerte disarmare lo sdegno ; e il loro culto dall’oriente passò in Grecia, perciocchè i Persi tributavano ad essi gli onori divini.

Non s’intraprendevano viaggi sul mare se non si sacrificava ai venti ed alle tempeste.

[n.p.] [n.p.]
Imene
{p. 141}

Imene §

Alcuni poeti fanno Imene figlio di Apollo e di Urania o di Calliope, altri figlio di Bacco e di Venere, e tutti lo hanno destinato a presiedere alle nozze.

Dicono alcuni autori che Imene era un giovine il quale nel giorno delle sue nozze fu schiacciato nella propria casa, e che i Greci per ispiare tale sventura, avevano stabilito d’invocarlo in quella sorta di cerimonia, come i Romani invocavano Talassio ; questi però, secondo alcuni, non era altro che un grido di gioia ripetuto nei maritaggi.

L’Imene più generalmente conosciuto era un giovine ateniese di somma bellezza dotato, ma poverissimo e di oscura origine ; era in un’età in cui un giovinetto {p. 142}può facilmente essere tenuto per una fanciulla, allorchè divenne amante di una donzella ateniese ; ma siocome dessa era di nascita molto superiore alla sua, così non osava egli dichiarare la sua passione, quindi si contentò di seguirla ovunque ella andava. Un giorno che le signore di Atene dovevano celebrare sulla spiaggia del mare la festa di Cerere, alla quale doveva intervenire la sua favorita, egli si travestì, e quantunque sconosciuto, pure l’aria sua amabile lo fece ricevere in quella devota compagnia. Alcuni corsari intanto scesi improvvisamente a terra nel luogo della cerimonia, tutta rubarono la brigata, e la trasportarono sovra una lontana spiaggia, ove, dopo aver sbarcata la loro preda, per la stanchezza s’addormentarono. Imene pieno di coraggio propose alle compagne di trucidare i loro rapitori, e si pose alla loro testa onde eseguire il disegno. Portossi poscia in {p. 143}Atene, e dichiarò in un’assemblea del popolo il suo essere, e ciò che gli era accaduto, promettendo di far ritornare in Atene tutte quelle donne, purchè gli fosse stata accordata la mano di quella ch’egli teneramente amava. La sua proposta venne accettata, sposò egli la sua innamorata, e in memoria di un sì fortunato maritaggio, gli Ateniesi sempre lo invocarono nelle loro nozze sotto il nome d’Imene, e celebrarono delle feste in onor suo che furono chiamate Imenee. Chiamavansi anche Imenei i versi che cantavansi alle nozze.

Imene si rappresenta sempre sotto la figura di un giovinetto biondo, alle volte coronato di fiori e specialmente di maggiorana ; egli tiene dalla destra mano una facé e dalla sinistra un velo di color giallo, perchè anticamente questo colore era particolarmente applicato alle nozze ; altre volte con abito bianco ornato di fiori {p. 144}con una fiaccola in mano ed un innaffiatoio ; si trova anche figurato con una corona di rose e di spini, un giogo ornato di fiori e due faci che hanno una fiamma medesima.

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Cupido §

Sono molto discordi i mitologi nel fissare l’origine di Cupido. Lo fanno figlio del Caos e della Terra, di Zefiro e di Eride o la Discordia, di Venere e Vulcano, di Venere e Celo. Dicono alcuni che la Notte fece un uomo, lo covò sotto le sue nere ali, e ne fece nascere Amore, il quale spiegò subito le sue ali dorate, e pigliò il volo a traverso il nascente mondo.

Vuolsi da altri che Amore fosse figlio di Giove e di Venere e Cupido della Notte e dell’Erebo, e che entrambi facessero parte della corte di Venere Ammettevasi una differenza tra Amore e {p. 146}Cupido, e dicevasi che il primo impetuoso e violento invasava gli stolti, ed il secondo soave e moderato ispirava i saggi.

Cupido figlio di Marte e di Venere è quello che più comunemente si conosce ; esso presiedeva alla voluttà. Appena nato, Giove prevedendo dalla sua fisonomia i disordini di cui sarebbe stato origine, volle obbligare Venere a disfarsene, ed essa lo allevò nascostamente in un bosco, dove succhiò il latte delle belve. Giunto in età di poter maneggiar l’arco, se ne fece uno di frassino, con frecce di cipresso, e fece saggio sopra le bestie delle ferite che si proponeva di portare agli uomini. In appresso cangiò il suo arco e il suo turcasso di legno con altri d’oro.

Si rappresenta solitamente come un fanciullo ignudo in età di 7 in 8 anni, colla fisonomia di uno sfaccendato ma maligno, per dimostrare che Amore non ha niente {p. 147}di proprio ; con un arco ed un turcasso d’oro pieno di frecce ardenti, simbolo del suo potere su gli animi, alcune volte con una torcia accesa, o con elmetto e lancia ; coronato di rose, emblema dei deliziosi ma rapidi piaceri, ch’esso procura ; cogli occhi bendati, perchè l’Amore non vede i difetti dell’oggetto amato ; talora tiene una rosa nell’una mano, e un delfino nell’altra. Ora si vede tra Ercole e Mercurio, simbolo del potere che hanno in amore il valore e l’eloquenza ; ora posto vicino alla Fortuna, per esprimore quanto in amore la riuscita sia soggetta al capriccio della cieca Dea. Egli è sempre dipinto con ali, perchè non c’è cosa più passeggiera della passione ch’esso inspira ; e queste ali sono di colore azzurro, di porpora e d’oro. Alcune volte lo rappresentano in atto di saltare, ballare, giuocare o di arrampicarsi su di un albero. Per far conoscere ch’egli domina su tutta {p. 148}la natura si dipinge nell’aria, nel fuoco, su la terra e sul mare. Esso conduce carri, suona la lira, o cavalca leoni e pantere, la cui chioma gli serve di guida, per dimostrare che non c’è creatura tanto selvatica che non sia ammansata da Amore. Si fa calvacare alcune volte su di un delfino per indicare che il suo potere si estende fino sui mari. Non è cosa rara di vederlo scherzare con sua madre ; qualche volta Venere tiene il suo turcasso alzato in aria, e Cupido cerca di pigliarlo saltando, e già stringe una freccia. Altre volte egli vuol prendere una paglia, che Venere tiene in equilibrio sopra un dito ; delle volte essa lo stringe al petto e tra le braccia ; ora è seduto dinanzi sua madre, la quale gli mostra una freccia ; ora con un piede in aria egli sembra meditare qualche astuzia, o, appoggiato sopra una base, suona la tromba col viso volto verso il cielo.

{p. 149}Si vede anche in atto di abbraociare un uccello, che bene spesso è un cigno : esso porta un’anfora ; o medita sopra un teschio di morto ; o incatenato è ridotto ad arare la terra. Si vede parimente in atto di suonare il flauto di Pane, o addormentato, con l’arco e il turcasso ai piedi ; o coll’elmo in testa, colla picca sopra una spalla e collo scudo in braccio, camminando con aria trionfante, quasi dimostrando che Marte disarmato si abbandona all’Amore. Assiso davanti ad un altare infammato suona il flauto di molte canne ; o, all’ombra di una palma, abbraccia un ariete che guarda un altare fiammeggiante.

Esiste un quadro ove sonvi degli Amorini che fanno girare una cote. Un altro Amore che si è punto un braccio fa spillare il suo sangue su questa pietra, e Cupido affila su di essa certi dardi che mandano scintille di fuoco.

{p. 150}Cupido fu molto amato da Psiche la quale fece trasportare da Zefiro in un luogo delizioso ov’ella dimorò per qualche tempo senza conoscerlo e quando il conobbe egli scomparve.

Cupido conosciuto anche sotto il nome di Erote era sempre accompagnato dal Riso, dal Giuoco, dai Vezzi e dai Piaceri rappresentati com’esso sotto la figura di piocoli fanciulli alati.

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Antero §

Antero il Contro Amore o amore per amore era figlio di Venere e di Marte. Questo nome si piglia in senso di contrarietà, ma dinota amor reciproco, scambievole.

Dicesi che Venere si lagnasse un giorno con Temi, perchè Cupido rimaneva sempre fanciullo, e che la Dea consultata rispondesse che il solo mezzo per farlo crescere era di dargli un fratello. Allora sua madre gli diede per fratello un altro Amore il quale fu chiamato Antero. Appena che questo Amore ebbe veduta la luce, suo fratello sentì aumentar le sue forze e dilatarsi le ali che ripigliavano il loro antico stato ogni volta che Antero era lontano da lui.

{p. 152}Non è difficile di scorgere che questo secondo Amore è stato immaginato per dinotare che la corrispondenza fa crescere l’amorosa passione.

Antero aveva un altare nella città di Atene.

Rappresentansi i due Amori come due piccioli fanciulli alati con turcasso, frecce e balteo.

Avvi chi per Antero intende una divinità che guarisoe dall’amore. Altri lo fanno nascer dalla Notte e dall’Erebo, o dall’Inferno e dalla Notte, dipingendolo per una divinità dell’ultimo ordine, e dandogli per compagni l’Ebrezza, il Duolo e la Contesa. Gli danno dei dardi di piombo, che cagionano una passione di breve durata, alla quale succede presto la sazietà, mentrechè il vero Amore scocca dei dardi d’oro che inspirano una gioia pura ed un’affezione virtuosa e sinoera.

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Momo §

Momo figlio del Sonno e della Notte era il Dio de’buffoni. Satirico per quanto lo si può essere, non aveva riguardi per alcuno, e gli Dei stessi erano oggetto de’suoi motteggi, e riprendeva liberamennte le loro azioni come quelle degli uomini, e si rappresentava perciò in atto di levare la maschera da un volto. Altri lo dipingono con un bastone su la punta del quale sta una piccola figura, immagine della pazzia, in una mano, e coll’altra in atto di levare una maschera dal proprio volto.

Nettuno aveva fatto un toro, Vulcano un uomo, Minerva una casa ; tutti e tre questi numi scelsero Momo per {p. 154}pronunciare un giudizio su la perfezione delle loro opere. Momo le criticò tutte e tre. Disse che le corna del toro dovean essere più vicine agli occhi o alle spalle, onde potesse percuotere con maggior violenza. Avrebbe desiderato che fosse stata fatta all’uomo una finestrella vicino al cuore, perchè se gli potesser leggere i più reconditi pensieri ; biasimò infine la casa per esserne difficile il trasporto in caso che si avesse un cattivo vicino. Venere stessa non andò salva dalla critica di Momo ; e non sapendo che dire su di lei perchè era troppo perfetta, trovò che non era bastantemente ben calzata.

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Arpocrate e Muta §

Arpocrate figlio di Iside e di Osiri era il Dio del silenzio. Vogliono i poeti che sua madre, avendolo perduto mentre era fanciullo, andasse in cerca di lui per mare e per terra finchè l’ebbe trovato. Vuolsi che fosse in questa circostanza ch’ella inventò le vele. Portavasi anticamento impressa su i sigilli una figura di Arpocrate per insegnare che si deve custodire il secreto delle lettere.

Si pretende da alcuni che sua madre lo desse alla luce prima del termine e che nascesse estremamente debole e colle mani sulla bocca, come i figli stanno nel seno materno ; questa attitudine fu interpretata dai Greci per comando del silenzio.

{p. 156}Altri lo hanno creduto un filosofo che parlasse poco.

Si rappresenta questo Dio come un giovine mezzo ignudo con un corno d’abbondanza in mano e un dito su la bocca.

Si offrivano a questa divinità le lenticchie e le primizie dei legumi ; ma il loto ed il pesco gli erano particolarmente consacrati, perchè le foglie di pesco hanno la figura di una lingua, e il suo frutto quella del cuore : emblema della perfetta unione che dee esistere tra il cuore e la lingua.

Muta o Lara figlia del fiume Almone era la Dea del silenzio. Giove le fece tagliare la lingua e la confinò nell’inferno perchè aveva scoperto a Giunone una delle sue relazioni amorose. Mercurio invaghito della sua grande bellezza la sposò e n’ebbe due figli chiamati Lari.

Gli si facevano dei sacrifici per impedire la maldicenza.

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Ebe §

Ebe dea della gioventù era figlia di Giove e di Giunone secondo l’opinione di molti ; alcuni pretendono che dovesse la vita alla sola Giunone. Giove le aveva dato l’incombenza di versargli il nettare ; ma essendo un giorno caduta in presenza di tutti gli Dei in un modo poco decente, ella n’ebbe tanta vergogna, che non volle più lasciarsi vedere. Giove diede il suo impiego a Ganimede. Giunone la ritenne presso di sè e le affidò la cura di attaccare i cavalli al di lei carro. Ercole la sposò in cielo e n’ebbe un figlio ed una figlia. In questa unione si vuol indicare che la forza va comunemente unita alla gioventù. Ad istanza d’Ercole Ebe {p. 158}ringiovenì lola nipote di suo marito, che si pretende avesse abbruciata la testa dell’idra che Ercole aveva tagliata.

Questa Dea avea diversi tempii, e tra gli altri uno in Flio, città del Peloponneso, che aveva il privilegio dell’immunità.

Si rappresenta Ebe sotto la figura di una bella giovinetta, coronata di rose con un vaso in una mano e nell’altra una tazza in cui essa versa il nettare.

Il nettare era una deliziosa bevanda degli Dei, benchè da alcuni sia considerato come alimento ; e bisogna che fosse ben squisita bevanda poichè questa parola è stata poseia metaforicamente usata dai poeti di tutte le nazioni per indicare i più eccelenti liquori. Quando in Roma facevasi l’apoteosi di qualcuno dioevasi che ei beveva già il nettare nella tazza degli Dei : coloro che avevano una volta assaggiato il nettare degli Dei non potevano morire che di un colpo di folgore. Tale fu la morte d’Issione.

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Aurora §

Questa Dea figlia secondo alcuni di Titano e della Terra, del Sole e della Luna secondo altri, presiedeva al nascere del giorno. Amò teneramente Titone, giovinetto molto celebre per la sua bellezza, figlio di Laomedonte ; essa lo rapì, lo allevò e ne divonne moglie, da cui ebbe due figli, Memnone e Ematione. Fu tanto il dolore ch’essa provò per la morte di essi per cui le sue abbondanti lagrime produssero la rugiada della mattina. L’Aurora per dar un segno della sua tenerezza a Titone, gli accordò di poter vivere lungamente, e divenuto vecchissimo lo converse in cicala. Dopo Titone sposò Cefalo, avendolo prima rapito a {p. 160}Procri di lui moglie, colla quale lo mise in discordia per farsi amare ; ma non passò molto tempo che Cefalo si rappacificò colla moglie. Avendo egli uccisa inavvertentemente Procri mentre era a caccia, Aurora lo condusse in Siria ove lo aposò e n’ebbe Fetonte ; disgustata anebe di esso, rapì Orione e dopo di lui molti altri ancora. L’Aurora si rappresenta coperta con un velo e sopra di un carro risplendentissimo. Essa precede il Sole ed apre le porte dell’oriente ; è accompagnata dalle Ore e fuggono al suo giugnere la Notte ed il Sonno. Si raffigura alle volte con una face in una mano, mentre coll’altra sparge delle rose, per indicare che i fiori i quali abbelliscono la terra, vanno debitori della loro freschezza alla rugiada, che come bellissime perle liquide cade dagli occhi dell’Aurora.

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La Fortuna §

Divinità che presiedeva a tutti gli avvenimenti e distribuiva i beni ed i mali a capriocio. I poeti la dipingono cieca e calva, colle ali ai piedi, uno de’quali tiene sopra una ruota, e l’altro sospeso in aria. La ruota gira velocemente. Fu anche rappresentata con un sole ed una mezza luna su la testa, per indicare che essa presiede come questi due astri, a tutto ciò che accade sopra la terra. Viene alle volte sostituito alla ruota un globo celeste, il cui perpetuo moto dimostra egualmente l’incostanza di questa Dea. Da alcuni si figura la Fortuna seduta su di un trono sospeso in aria e portato da venti contrari, essa tiene una bacchetta magica in mano ; si scorgono {p. 162}su la di lei fisonomia tutti i segni dell’incostanza, del capriccio, dell’insolenza e della leggerezza ; la Ricchezza e l’Indigenza, il Despotismo e la Schiavitù sono i suoi seguaci, e le cammina sempre dinanzi la Sicurezza per indicare che la Fortuna arriva soventi quando è meno attesa. E sotto quest’ultima dipintura intendono i poeti di deserivere la cattiva Fortuna.

Essa è conosciuta anche sotto il nome di Sorte. Ovunque s’innalzarono degli altari in di lei onore.

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Como §

Como era il dio della gioia, dei banchetti e dei balli notturni ed il nume favorito della gioventù dissoluta. Presiedeva alle Cronie presso i Greci ed alle Saturnali presso i Romani. Il giorno in cui si celebrava la sua festa era permesso agli uomini di vestire da donna, ed alle donne di abbigliarsi da uomo. I suoi seguaci correvano di notte in maschera al chiarore delle torce, col capo cinto di fiori, accompagnati da garzoni e da donzelle che cantavano e ballavano sonando. Andavano in tal guisa a banda per le case. Queste dissolutezze cominciavano dopo cena e continuavano sino ad ora inoltrata della notte.

{p. 164}Si rappresentava il dio Como giovine, bello, di leggiadre forme, col viso acceso dall’ebrezza, coronato il capo di rose, con una face nella mano destra che sta per cadergli, e in atto di appoggiarsi colla sinistra sopra un tronco. Gli si fa tenere da altri una tazza d’oro ed un piatto di frutti. Questo Nume era uno de’compagni di Dioniso o Bacco. Si poneva la sua statua sul limitare dell’appartamento de’nuovi sposi, sopra un piedestallo ornato di fiori.

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Il Destino §

Vuolsi da alcuni che il Destino sia nato dal Caos, da altri si crede figlio della Notte, e che essa lo generasse senza il concorso di nessuna altra divinità. Tutte le divinità dipendevano da lui. Il Cielo, la Terra, il Mare, l’Inferno erano sottomessi al suo impero, e niun potere aveva la forza di cangiare ciò che aveva risolutò, o per meglio dire il Destino era esso medesimo quella fatale necessità secondo la quale ogni cosa avveniva nel mondo. Giove vorrebbe salvare Ettore, ma bisogna che egli esamini il suo Destino che non gli è noto. Lo stesso Dio si duole di non poter piegare il Destino per Sarpedonte suo {p. 166}figlio re di Licia natogli da Laodamia figlia di Bellerofonte, nè salvarlo dalla morte che incontrò all’assedio di Troia per mano di Patroclo.

Si fa dir anche a Giove che se potesse cambiare il Destino, Eaco, Radamanto, Minosse non sarebbero oppressi sotto il peso della loro vecchiaia.

Si ammettono dai mitologi due specie di decreti del Destino : gli uni irrevocabili, e dai quali dipendevano gli stessi Dei : gli altri che potevano essere cangiati o modificati dai voti degli uomini o dalla protezione di qualche divinità. Questi decreti stavano scritti da tutta l’eternità in un determinato luogo ove gli Dei andavano a consultare questo Nume. Giove vi andò con Venere per conoscere il Destino di Giulio Cesare. I Destini de’re erano scolpiti sul diamante. I ministri di questo potente Dio erano le Parche incaricate di eseguire i suoi ordini.

{p. 167}Si rappresenta cieco col globo celeste sotto i piedi ed in una mano l’urna in cui si rinchiudono le sorti dei mortali. Si dipinge anche con una corona sormontata di stelle ed uno scettro simbolo del sommò suo potere. Per indicare che esso non variava e che era inevitabile, si figurò dagli antichi con una ruota tenuta ferma da una catena.

Si pretende che sia miserabile e che ogni uomo abbia il suo.

Il Destino non aveva statue, ma aveva oracoli ed un culto.

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Igiea o Igia §

Igiea secondo alcuni moglie di Esculapio, secondo altri sua figlia e di Lampezia o Lampetusa figlia di Apollo e di Climene, era la Dea della salute, e si aveva per lei una grande venerazione. Da Igiea si è formato Igiene parte della medicina che riguarda la conservazione della salute. Si attribuiscono a questa Dea varie invenzioni, appartenenti alla medicina.

Le statue che le furono dedicate si distinguono all’aspetto di una bella donna, con un braccio intorno del quale sta avviticchiato un serpente il quale si diseta in una tazza che la Dea ha in una mano.

{p. 169}Il serpente è l’emblema della salute e della immortalità, perchè cangiando di pelle tutti gli anni pare che ringiovanisca sempre.

Aveva dessa in un tempio di suo padre a Sicione, una statua coperta di un velo, alla quale le donne di quella città dedicavano la loro capigliatura.

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Esculapio §

Esculapio figlio di Apollo e di Coronide era dio della medicina. Avendo Coronide amato il giovane Ischi, Apollo di ciò avvertito dal corvo, che poi di bianco fu tramutato in nero, uccise Coronide ed Ischi ; trasse però dal fianco di lei Esculapio e lo diede in cura al centauro Chirone, sul monte Tittone in vicinanza di Epidauro ; fu nutrito da una donna chiamata Trigone, e passando la sua vita ne’giardini acquistò una perfetta cognizione de’semplici sotto la scuola di Chirone che gl’insegnò a comporre de’rimedi ed egli stesso ne inventò moltissimi ; unì la medicina alla chirurgia, e fu creduto {p. 171}inventore e Dio della medicina. Accompagnò Ercole e Giasone nella spedizione in Colchide e prestò grandi servigi agli Argonauti.

Egli divenne tanto valente nella medicina, che potè ad istanza di Diana richiamare da morte a vita Ippolito figlio di Teseo. Abbiam già detto in Apollo che Giove sdegnato che tanto potere si arrogasse Esculapio, lo fulminò, eccitatovi anche da Plutone che vedeva diminuirsi notabilmente il numero dei morti.

Ebbe Esculapio da Eppione due figli Macaone e Podaliro che anch’essi divennero medici rinomatissimi, e quattro figlie Igiea, Egle, Panacea e Iaso. La celebrità ch’egli si era acquistata il fece riguardare insieme a suo padre Apollo qual dio della medicina. Gli si rendevano onori divini particolarmente in Epidauro, città del Peloponneso famosa pel tempio che vi fu eretto in onore di Esculapio e pel crudele {p. 172}gigante Perìsete, che divorava gli uomini e sacrificavali, il quale fu poi ucciso da Teseo che ne disperse le membra.

Esculapio si adorava sotto la forma di un serpente. Gli ammalati accorrevano in folla nei tempii di questo Dio, posti ordinariamente fuori delle città, per essere guariti dalle loro infermità ; vi passavano la notte e quando si trovavano sollevati dai loro mali, lasciavano nel tempio qualche cosa che rappresentasse la parte del loro corpo che era stata risanata.

Si rappresentava generalmente sotto la figura di un uomo grave ora imberbe, ora barbuto, col capo coronato d’alloro, tenendo in mano un bastone, cui è attortigliato un serpente, con un cane presso di lui sdraiato ; qualche volta con un vaso in una mano ed il serpente nell’altra ; e finalmente appoggiato ad una colonna intorno alla quale è nella stessa guisa attortigliato un serpente.

{p. 173}Nei sacrifici gli si offrivano capre e galline.

Il serpente ed il gallo erano a lui specialmente dedicati.

Si vuole che Esculapio sia lo stesso che il Sole considerato sotto i benefici rapporti di Dio della salute. Questo astro infatti regola la mite temperatura dell’aria, e mantiene la salute e la vita ; ed ha la facoltà di conservare o di rigenerare i corpi.

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Temi §

Temi o Temide figlia del Cielo e della Terra è la dea della giustizia. È dessa che ha istituito le divinazioni, i sacrifici, le leggi della religione e tutto ciò che serve a mantenere l’ordine e la pace tra gli altri uomini. Regnò essa nella Tessaglia e si applicò con molta saggezza nell’amministrare con tanta giustizia i suoi popoli, che fu sempre dappoi riguardata come Dea della giustizia, di cui le fecero portare il nome. S’applicò essa eziandio allo studio dell’astrologia e divenne eccellente nel predire il futuro. Temi voleva conservare la sua verginità, ma Giove la costrinse a sposarlo e la rendette madre delle Ore e delle {p. 175}Parche. Questa Dea raccomandava agli uomini, di non chiedere agli Dei se non quello che era giusto e ragionevole. Presiedeva ai trattati e alle convenzioni che hanno luogo fra gli uomini, e teneva mano affinchè tutto fosse esattamente osservato : da alcuni si vuole che versasse pur anche il nettare a Giove quando era a mensa.

Temi si rappresenta con una bilancia in mano e con una benda agli occhi.

La sua bilancia fu da Giove posta tra i segni dello zodiaco. Da alcuni si dipinge con una spada in mano.

Ogni volta che presso i Romani si voleva arringare il popolo si portava la statua di Temi nella tribuna e si collocava a fianco dell’oratore, affinchè la vista di quell’immagine lo impegnasse a non espor nulla che alla giustizia ed alla verità non fosse conforme.

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La Pace §

Questa Dea nata da Giove e da Temide o Temi si rappresenta di un contegno dolce, con volto soave, con una piccola statua del dio Pluto in una mano, con spiche, rose e rami d’olivo nell’altra e con una mezza corona d’alloro in testa.

Da altri si rappresenta con un caduceo ed una fiaccola rovesciata.

In una medaglia d’Augusto vi è rappresentata con un ramo d’olivo in una mano, e nell’altra una fiaccola accesa colla quale incendia un trofeo d’armi.

Presso i Greci e più ancora presso i Romani fu dessa celebrata : le si innalzarono in molti luoghi delle statue e dei {p. 177}tempii : quello che Agrippina cominciò e Vespasiano terminò in Roma, era il più magnifico tempio di quella grande città. Tutti coloro che le belle arti professavano, s’univano al tempio della Pace per disputarvi intorno alle loro prerogative, affinchè al cospetto della divinità, ogni asprezza fosse dalle loro discussioni bandita ; ingegnosa idea che dovrebbe dovunque trovare la sua applicazione.

Gl’infermi, per quanto si riferisce, avevano in questa Dea tutta la fiducia ; perciò vedevasi sempre nel tempio di lei una prodigiosa folla di malati, oppure di persone che facevano voti pei loro amici obbligati al letto.

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Bellona §

Bellona dea della guerra chiamata Enio da’ Greci, confusa molte volte con Pallade, vuolsi da alcuni che fosse figlia di Forcide o Forco e di Ceto ; chi la dice figlia di Marte, chi sorella ; a lei spettava la cura di preparare il carro di questo Dio e di attaccarvi i cavalli quando partiva per la guerra. Il potere di Bellona era nondimeno eguale a quello di Marte.

Essa aveva un tempio a Roma vicino alla porta Carmentale ove il senato dava udienza agli ambasciatori, prima che entrassero nella città.

Si rappresenta armata dalla testa ai piedi con un flagello in una mano, ed {p. 179}alle volte una verga tinta di sangue, i capelli sparsi e gli occhi infuocati. Per lo più i poeti la dipingono in mezzo di una battaglia percorrendo le file dei combattenti eccitando il loro furore.

Questa Dea è stata dipinta infuriata colla spada in una mano, lo scudo nell’altra, in atto di slanciarsi dal suo carro tirato da cavalli focosi, che calpestano tutto quanto rincontrano sul loro cammino. Le sta vicina la Discordia che colle sue faci mette fuoco ai tempii ed ai palazzi ; ed in certa distanza si scorge la Carità che fugge con un fanciullo nelle braccia.

I suoi sacerdoti celebravano la sua festa correndo gli uni contro gli altri armati di spade e percuotendosi con ispargimento di sangue.

Il culto di questa Dea celebre in Roma, lo era maggiormente in Cappadocia, ove ella aveva molti magnifici tempii, la maggior parte dotati di molte terre. A Comane {p. 180}nell’Asia Minore ne aveva uno servito, per quanto narrasi, da tremila sacerdoti ; e questi sacerdoti erano soggetti all’autorità di un pontefice il quale non cedeva la precedenza che al solo re ; egli era scelto nella famiglia reale e la sua dignità era a vita.

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Fetonte §

Fetonte era figlio del Sole e di Climene. In una gara che ebbe con Epafo figlio di Giove e di Io, il quale dicesi fabbricasse Memfi, mentre ancor fanciulli giuocavano insieme, Epafo rinfacciò a Fetonte che non era figlio del Sole come si credeva. Fetonte adiratosene, andò a lagnarsi di ciò con sua madre Climene, la quale il rimandò al Sole per accertarsi della sua nascita. Fetonte entrò nel palazzo del Sole e lo trovò seduto sul suo rilucente trono ed informatolo dell’oggetto della sua venuta, lo pregò di accordargli una grazia, senza dire quale essa si fosse. Il Sole in contrassegno del {p. 182}paterno affetto giurò per lo Stige di accordargli tutto quello che avesse chiesto e l’imprudente figlio richiese di condurre il suo carro per lo spazio di un giorno. Impegnato il padre con un irrevocabile giuramento, tentò ogni via ma inutilmente di distogliere suo figlio da una sì ardita impresa, onde suo malgrado gli consegnò il carro dopo d’averlo istruito del come doveva guidarlo. Fetonte non conoscendo pericoli montò nel carro e partì. Appena egli giunse sull’orizzonte, i cavalli del Sole non riconoscendo più la mano del loro signore, non obbedirono a quella del nuovo condottiero e traviarono dal solito loro cammino ; or salendo troppo alto minacciano il cielo d’inevitabile incendio, mettendo così in pericolo che tutto perisca su la terra di gelo ; or scendendo troppo basso disseccano i fiumi e bruciano le montagne. Spaventata la terra ricorse a Giove il quale per prevenire lo {p. 183}sconvolgimento dell’universo rimediò a tanto disordine, col fulminare sull’istante Fetonte, il quale cadde e si annegò nell’Eridano, fiume oggi denominato Po. Fu tanto il piangere che fecero per la morte di Fetonte le Eliadi sue sorelle e l’amico Cicno o Cigno, che furono esse cambiate in pioppi, in ambra le loro lagrime e l’amico in un uccello detto cigno.

Per questo disordine si stette un giorno intiero in cielo senza Sole.

Si danno molte interpretazioni alla favola di Fetonte. Fra le tante adottate avvi quella che Fetonte fosse un principe il quale si applicò sommamente all’astronomia e soprattutto a conoscere il corso del sole ; che morì in freschissima età, e lasciò le sue osservazioni ancora imperfette ; e da ciò i poeti dissero non aver egli potuto condurre il carro del Sole sino al termine della sua carriera. Aggiungono alcuni che questo principe fosse re {p. 184}dei Molossi, popolo dell’Epiro, che si annegò nel Po, e che essendosi applicato molto all’astronomia, aveva predetto quel calore immenso che ebbe luogo ai suoi tempi e che desolò il suo regno.

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Vittoria §

La Vittoria fu personificata dai Greci che ne fecero anche una divinità. La vogliono alcuni figlia di Stige e della Terra ; di Stige e Pallante altri, ed avvi chi la fa nascere dal Cielo e dalla Terra.

Si rappresenta sotto le forme di una donna sempre allegra, con l’ali alle spalle, una corona d’olivo in una mano, e nell’altra un ramo di palma. Qualche volta ma di rado si rappresenta senza ali. Ordinariamente è abbigliata di lunga veste sulla quale evvi una tunica che le scende sin verso la metà delle coscie e che è ritenuta sotto la gola da una cintura.

{p. 186}Gli Egizi la rappresentavano sotto l’emblema di un’aquila, uccello, che nei combattimenti contro gli altri uccelli, è sempre vittorioso.

{p. 187}

Nemesi, le Nemese §

Nemesi detta anche Adrastea, figlia di Giove e della Notte o della Necessità, era la ministra della Giustizia e la Dea della vendetta. Questa formidabile divinità dall’alto dei cieli, assorta in un’arcana eternità, osservava tutto ciò che aveva luogo su la terra, vegliava in questo mondo pel castigo dei colpevoli, e nell’altro con estremo rigore li puniva. I suoi castighi erano severi, ma giusti, e niuno potea sottrarsi ai suoi colpi. Questa divinità sovrana dei mortali, giudice delle segrete opinioni che li facevano operare, comandava eziandio al cieco Destino, e a suo beneplacito faceva dell’urna {p. 188}di quel Dio uscire i beni ed i mali. Prendeva diletto ad umiliare chi non sapeva esser moderato nelle prosperità, e chi si mostrava orgoglioso per la bellezza e per la forza del corpo e per l’ingegno, e coloro finalmente che disobbedivano agli ordini delle persone che avevano diritto d’imporli. Volgeva la sua attenzione particolarmente alle offese fatte dai figli ai propri padri. Accoglieva i giuramenti secreti degli amanti traditi o disprezzati, e non si rifiutava mai a vendicare le amanti vittime dell’infedeltà e del tradimento.

Si rappresenta coll’ali, armata di facelle e di serpenti, portando iu capo una corona di corna di cervo.

Questa sì temuta divinità, riguardata da molti come solare potenza, estendeva il suo impero sopra tutto il globo ed il suo culto erasi dovunque sparso.

Riconoscono alcuni mitologi due divinità sotto il nome di Nemese figlie {p. 189}dell’Erebo e della Notte, le quali da altri sono prese per le Eumenidi. Una era il Pudore che dopo l’età dell’oro ritornò in cielo ; l’altra rimase sulla terra e nel Tartaro per punizione de’ malvagi. Queste due divinità, invocate principalmente nei trattati di pace, assicuravano la fedeltà dei giuramenti.

Erano rappresentate con ali ed una ruota sotto i piedi, simbolo delle umane vicissitudini, atto a richiamare l’uomo orgoglioso ai sentimenti di giustizia e di moderazione. Sovente le Nemese tengono un freno per arrestare i malvagi oppure un pungolo per eccitare al bene. Si portano esse un dito alla bocca per insegnarne che è d’uopo essere discreti. La maggior parte di cotesti attributi convengono a Nemesi.

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Teti dea dei mari §

Teti gran dea dei mari, una delle Titanidi, sorella di Saturno, moglie dell’Oceano, era figlia di Urano o il Cielo e di Titea o la Terra. La maggior parte de’poeti l’hanno confusa con Teti sua nipote, moglie di Pelco e madre di Achille.

Da Teti e dall’Oceano nacquero i più rinomati fiumi, come il Nilo, l’Alfeo, lo Strimone, il Meandro, il Danubio, il Fasi, l’Acheloo, il Simoenta, il Peneo, l’Ermo, l’Eridano ossia il Po, il Ladone, l’Eveno, il Sangaro e lo Scamandro. Teti fu anche madre di tremila Niufe chiamate le Oxeanidi. Si fan nascere da lei {p. 191}non solo i fiumi e le fonti, ma la maggior parte anche delle persone che avevano regnato o abitato sulle coste del mare, come Proteo, Etra, madre d’Atlante, Persa, madre di Circe, ecc. Dicesi che Giove essendo stato strettamente legato dagli altri Dei, Teti, coll’aiuto del gigante Briareo gli restituì la libertà ; vale a dire prendendo Teti pel mare, che Giove trovò il mezzo di sottrarsi su questo clemento agli agguati che gli avevano tesi i Titani, co quali era in allora in guerra ; oppure prendendo questa guerra come fatto storico, qualche principessa della famiglia dei Titani, fece uso di stranieri soccorsi per trar Giove da qualche periglio. Pare nondimeno che Teti altro non fosse che una divinità puramente fisica : chiamavasi essa anche col greco nome che significa nutrice, perchè era la Dea dell’umidità la quale tutto nutre e mantiene.

{p. 192}Il carro di Teti era una conca di maravigliosa figura e di una bianchezza dell’avorio più rilucente ; pareva che quel carro volasse sulla superficie delle onde.

Quando la Dea andava per diporto, i Delfini scherzando, sollevavano i flutti : dopo questi venivano alcuni Tritoni i quali suonavano la tromba con ricurve conchiglie. Circondavan eglino il carro della Dea, tirato da cavalli marini più della neve bianchi, e che il salso flutto solcando, dietro di sè lasciavano un ampio solco sul mare ; infiammati erano i loro occhi e fumanti le bocche. Le Oceanidi figlie di Teti, coronate di fiori, a truppe nuotavano dietro il carro di lei ; le belle chiome scendevano loro sulle spalle ed in balía de’ venti ondeggiavano.

Teti da una mano portava lo scettro d’oro per comandare a’ flutti ; dall’ altra teneva sovr’uno de’ suoi ginocchi il piccolo dio Palemone suo figlio attaccato {p. 193}alla mammella. Aveva essa sereno il sembiante da una dolce maestà accompagnato, che faceva i sediziosi venti e le nere tempeste fuggire. I Tritoni conducevano i suoi cavalli, e ne reggevano le dorate redini. Una gran vela di porpora ondeggiava al disopra del carro ; era essa più o meno gonfia dal soffio di una moltitudine di Zefiri i quali col loro alito la spingevano. Eolo librato in mezzo all’ atmosfera, inquieto e ardente, teneva in silenzio i furiosi aquiloni e tutte respingeva le nubi ; le immense balene e tutti i marini mostri colle loro narici producendo un flusso e riflusso dell’onda amara, uscivano in fretta dalle profonde loro grotte per tributare alla Dea il dovuto omaggio.

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Teti madre di Achille §

Teti era una delle Ninfe marine, figliuola di Nereo e di Dori, sorella di Licomede redi Sciro, e nipote dell’Oceano e di Teti gran dea delle acque, colla quale fu da quasi tutti i moderni confusa.

Si disse la più bella fra le Ncreidi. Giove, Nettuno e Apollo volevano sposarla, ma avvertiti che era stabilito dal Destino che il figlio da essa nato sarebbe più grande e più possente del padre, gli Dei la cedettero a Peleo. Poco contenta Teti di avere un mortale per isposo dopo di essere stata amata dai più grandi tra gli {p. 195}Dei, a guisa di un novello Proteo, si cangiò sotto diverse forme per isfuggire alle ricerche di Peleo ; ma raggiunta da questo principe, ei la incatenò per consiglio di Chirone, e la costrinse finalmente a cedere. Le nozze si fecero sul monte Pelia, colla più grande magnificenza, e tutte le Deità celesti, infernali, acquatiche e terrestri vi intervennero, eccettuata la Discordia, la quale per vendicarsi di non essere stata invitata, gittò in mezzo del banchetto quel rinomato pomo d’ oro che fu di tanti mali funesta sorgente. Teti ebbe parecchi figli che morirono in tenera età, meno Achille. Durante la notte, li poneva sotto il fuoco affinchè si consumasse tutto quello che avevano di mortale, ma tutti vi soccombevano. Achille solo resistette, perchè nel giorno precedente era stato strofinato d’ambrosia, e perchè vi rimase per poco tempo ; imperocchè avendolo Peleo scoperto, salvò il proprio {p. 196}figlio, ma perdette la moglie. Teti sdegnata d’essere stata conosciuta, se ne ritornò colle Nereidi. Alcuni dicono ch’essa gittava i suoi figli in una piccola vasca d’acqua calda, per provare se erano immortali. I poeti aggiungono altresì aver essa immerso Achille nello Stige, locchè il rendette invulnerabile, tranne il tallone ch’essa teneva per immergerlo, e che dall’acque del fiume non fu punto bagnato.

Dopo la morte di Patroclo, uscì Teti dal seno delle onde per recarsi a consolare Achille, e vedendo che insieme all’ amico aveva egli perdute le sue armi, si portò in cielo a pregar Vulcano di darle pel proprio figlio delle armi divine e dalle proprie sue mani lavorate. Ottenute che le ebbe le portò tosto ad Achille, e lo esortò a rinunciare al suo risentimento contro di Agamennone, e gl’inspirò un ardire che niun periglio poteva far vacillare.

{p. 197}A questa Ninfa si attribuisce di aver salvato Giove nel più gran pericolo che gli sovrastasse nella guerra che gli fecero gli altri Dei, ma questo fatto spetta a Teti zia di questa, e gran Dea delle acque.

Teti aveva molti tempii in Grecia e particolarmente a Sparta.

Questa Dea è soventi presa per Anfitrite stessa.

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Sarone §

Sarone, antico re di Trezene nell’Argolide in Morea. Amava con tanto ardore la caccia che un giorno mentre cacciava un cervo lo inseguì sino alla riva del mare. Il cervo essendosi dato a nuotare, Sarone si gettò dietro a lui, e lasciandosi trasportare dal suo ardore, insensibilmente trovossi in alto mare, dove, rifinito di forze, nè potendo più lottare contro le onde, si annegò. Il suo corpo fu trasportato nel sacro bosco di Diana, e tumulato nell’atrio del tempio. Questo avvenimento fece dare il nome di golfo Saronico al braccio di mare dove Sarone annegò e desso fu messo da’ suoi popoli nel numero {p. 199}degli Dei del mare, e divenne in seguito il Dio tutelare dei marinari.

Il golfo d’Atene è il Saronico degli antichi.

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Minosse guidice infernale, Minosse secondo, Dedalo ed Icaro, descrizione del labirinto e dell’areopago §

Parlando delle Divinità Infernali si è già parlato di Minosse. A quanto se n’è già detto aggiungneremo qualche altra notizia che lo risguarda.

Egli visse verso l’ anno 1430 prima della nostr’era. Fece edificare molte città. La sua giustizia e l’ amore pe’ suoi sudditi, che lo risguardavano come il favorito degli Dei, gli fecero meritare il titolo di Gran Legislatore e fu detto il Giusto per cocellenza.

{p. 201}Per dare alle sue leggi maggiore autorità, ogni nove anni, ritiravasi in un antro ove diceva che Giove, suo padre, a lui le dettava, nè mai ritornava da quello senza portare qualche nuova legge. Avvi chi asserisce che Minosse ricevè le sue leggi da Apollo e che viaggiò a Delfo per apprenderle da quel Dio.

Si rappresenta con uno scettro in mano, assiso in mezzo alle ombre, i cui processi hanno luogo alla presenza di lui. Altri lo figurano tenendo nelle mani ed agitando l’urna fatale ov’ è rinchiuso il destino di tutti i mortali, citando le ombre a comparire innanzi al suo tribunale, e sottomettendo l’intiera loro vita al più rigoroso esame.

Si rimprovera a Minosse una mancanza che fu cagione d’una delle dodici fatiche d’Ercole. Aveva egli ommesso di sacrificare a Nettuno un toro che gli aveva promesso. Il Dio per punirlo di siffatto {p. 202}errore, mandò un toro furibondo che lanciava fuoco dalle nari, e che devastava gli stati di Minosse.

Minosse fu sposo di Itona la quale il rendette padre di un figlio chiamato Licasto, che a lui succedette nel regno, e che fu padre di Minosse, secondo di questo nome, che quasi tutti i mitologi confondono col primo.

Minosse nipote del precedente distinto sotto il nome di Minosse II sposò Pasifae figlia del Sole e della ninfa Perseide dalla quale ebbe parecchi fanciulli. Si rendette formidabile a tutti i suoi vicini e fece delle conquiste nelle isole poco distanti da Creta e divenne padrone del mare.

Questo principe avrebbe goduto la fama di uno de’ più grandi uomini ove non si fosse acquistato l’odio degli Ateniesi e dei Magariani colla guerra che fece loro per vendicare la morte del proprio figlio Androgeo assassinato dagli {p. 203}Ateniesi. Minosse avendo vinto gli uni e gli altri non accordò loro la pace se non che alla condizione ch’ eglino gli avrebbero ogni sette anni spedito sette giovani e altrettante donzelle, ond’ essere esposte al Minotauro nel labirinto, ove questo principe aveva rinchiuso quel mostro mezzo uomo e mezzo toro, frutto dell’insensato amore della propria moglie, il quale distruggeva tutto e si pasceva di carne umana.

Vuolsi che Minosse dopo aver devastata l’Attica s’impadronisse di Megara coll’ aiuto di Scilla, figlia di Niso che ne era il re, la quale troncò al padre il capello d’oro o di porpora cui era attaccato il suo destino e quello pur anche del suo impero. Informato Niso dall’ oracolo che dalla conservazione di quel capello dipendeva la durata del suo impero, non è difficile l’immaginarsi qual cura ne avesse ; e non poteva esser tradito che dalla {p. 204}propria figlia, in cui riponeva tutta la sua confidenza. Essendosi essa innamorata di Minosse che aveva veduto dall’ alto d’una torre della città, mentre il padre era addormentato gli tagliò il fatal crine, e lo mandò a Minosse nella lusinga ch’ egli le sarebbe riconoscente di siffatto tradimento. Ma la perfida s’ingannò, perchè Minosse dopo di essersi impadronito della città, non volle nè anco parlarle ; e narrano alcuni che la facesse gittar in mare, ed altri che sciogliesse sollecito le vele senza volerla condur seco, quantunque si fosse con tutta la forza attaccata alla nave di lui ; si vuole da altri che disperata si precipitasse nelle onde. Gli Dei cambiarono Scilla in un pesce, e il padre di lei che si era da sè stesso ucciso per non cadere nelle mani del vincitore, in una specie d’aquila di mare che non vive che di pesci.

{p. 205}I Greci pagarono il barbaro tributo tre volte ; ma nella quarta Teseo, uno dei giovani dannati ad essere preda del mostro, lo uccise, liberando così la patria sua da questo crudele castigo e sortì felicemente dal labirinto col mezzo di un gomitolo di filo che Arianna figlia di Minosse gli aveva dato. Nel partire da Creta Teseo condusse seco la sua liberatrice, che abbandonò poi nell’isola di Nasso.

La favola del Minotauro si spiega in tal guisa. Dicesi che Pasifae era stata colta da amorosa inclinazione per Tauro che si vuole uno de’ segretari di Minosse. Dedalo favorì ha corrispondenza di questi due amanti. Pasifae essendosi sgravata di un figlio cui gli autori nominano Asterio o Asterione, siccome incerto ne era il padre, e che si poteva credere figlio tanto di Tauro quanto di Minosse, secondo alcuni che somigliava all’uno ed all’ altro, così gli venne dato il nome di {p. 206}Mino-Tauro. Minosse per nascondere agli sguardi di tutti ciò che insieme alla moglie il ricopriva di disonore, fece rinchiudere nel famoso labirinto Asterio che la favola dipinge come un mostro il quale si nutriva di carne umana.

Il Labirinto era un ricinto ripieno di boschi e di edifizi disposti in guisa che entrativi una volta più non se ne trovava l’uscita. Gli antichi fanno menzione di cinque famosi Labirinti. Il più antico ed il più grande era quello di Egitto. Si pone nel lago Meride ; se ne crede il costruttore Petesuco o Titoes, altri vogliono che fosse opera di dodici re. Questo edificio per quanto si narra conteneva tremila appartamenti, metà dei quali erano sotto terra, e dodici palazzi in un ricinto, ed era fabbricato e coperto di marmo. Eravi una sola discesa, ma nell’ interno trovavansi infinite strade tortuose. Si pretende che fosse un monumento dedicato al Sole. Altri lo han creduto un Panteone.

{p. 207}Gli abitanti del paese danno ai resti di cotesto edificio il nome di palazzo di Caronte, e sono persuasi che sia desso l’opera di quel Caronte, il quale, dopo aver guadagnato immense somme col tributo che egli esigeva col tragitto degli estinti, abbia fatto costruire questo edificio per rinchiudervi i suoi tesori che, in forza di potenti talismani, erano garantiti da’ ladri. Da ciò deriva il loro timore che i viaggiatori non vengano a rapire que’ tesori, come pure la ripugnanza che essi palesano di condurveli.

Il Labirinto di Creta fu edificato per ordine di Minosse II presso la città di Guosso da Dedalo sul modello di quello d’Egitto, espressamente per rinchiudervi il Minotauro, colla differenza che quello era coperto ed oscuro e questo era scoperto.

Considerando che il Minotauro stava, per così dire, sepolto nel Labirinto, i {p. 208}Romani, dice un autore, per indicare che i piani e i divisamenti dei generali dovevano star sepolti nel loro cuore, nella stessa guisa che il mostro lo era nel labirinto, portavano talvolta il Minotauro per insegna.

Dedalo, celebre ateniese, figlio di Eupalamo e nipote di Metione o Imetione, della famiglia di Eretteo sesto re di Atene, fu l’uomo più ingegnoso de’ suoi tempi e vuolsi che fosse allievo di Mercurio. Egli fu eccellente sopra tutto nella scultura, nella meccanica e nell’ architettura, Benchè uscito di sangue reale, egli coltivò in tutta la sua vita le arti e le condusse a perfezione. Gli antichi gli attribuiscono l’invenzione della scure, del trapano a mano, dell’uso dolla colla di pesce e del livello. Egli si rese specialmente famoso per la sua abilità nel fare certe statue che uscendo dalla sua mano croatrice, erano come automati che si credevano animati.

{p. 209}Dedalo aveva fra i suoi allievi un nipote per nome Ascalo, noto anche sotto il nome di Talao, figlio di Perdice sua sorella. Questo giovine prometteva maggiori talenti e maggior ingegno del suo n.aestro. Egli inventò la sega, il compasso, il torno e la ruota del vasellaio. Dedalo ne ebbe tanta gelosia che lo precipitò dall’alto di una torre. Un’ azione tanto nera non poteva andar impunita in uno stato in cui per rendere più abbominevole l’omicidio si processavano perfino le cose inanimate che avevano cagionato la morte di un uomo. Dedalo fu condannato a perdere la vita dall’Areopago, ma egli si sottrasse alla giustizia colla fuga, e si rifuggì nell’ isola di Creta, dove fu tanto meglio accolto, quanto che la fama vi avea fatto conoscere i suoi rari talenti. Minosse II che regnava allora in Creta, approfittò dell’ingegno di quest’artista facendogli fare molte statue e facendogli costruire il {p. 210}Labirinto come si è detto. Questo edifizio portò il nome di Dedalo. Minosse informato della compiacenza di Dedalo nel favorite gli amori di Pasifae, determinò di punirnelo, e lo fece rinchiudere col figlio Icaro, alcuni dicono nel Labirinto, altri in una stretta prigione, da cui altra speranza non poteva animarli di sortirne, se non che di andare a terminar la loro vita coll’ultimo supplizio. Dedalo usando della sua industria, trovò il mezzo di fare delle ali e di attaccarle con cera a sè ed al figlio. Essi riuscirono a volare, ma le ali di Icaro, il quale era ito troppo in alto, contro le istruzioni del padre, si sciolsero pel calore del sole, e questo giovane non essendo più sostenuto cadde in quella parte del mar Egeo o Arcipelago che portò poi il nome di Icario e precisamente tra l’isola Icaria ora Nicaria e l’Asia Minore.

{p. 211}Nelle ali di Dedalo altro non veggono quelli che cercano l’origine della favola che le vele della nave sulla quale egli salì per salvarsi, e delle quali Icaro non seppe far uso. Dedalo andò a ricovrarsi in Sicilia in quella parte ove regnava Cocalo. Questo principe lo accolse amichevolmente e ricusò di restituirlo al re di Creta che andò a chiederglielo, e pretendesi da alcuni che Minosse trovasse in Sicilia la morte datagli a tradimento da Cocalo.

L’Areopago era un celebre tribunale di giustizia degli Ateniesi. Traeva il suo nome da Ares, Marte e da Pagos, collina. L’Areopago era in fatti situato in cima alla collina ove Marte difese la sua causa allorchè fu obbligato di giustificarsi della uccisione di Allirosio figlio di Nettuno. Ne’ primi tempi ammettevansi a questo tribunale tutti i cittadini indistintamente, purchè fossero religiosi ed onesti. In faccia {p. 212}agli Areopagiti eranvi due pietre sulle quali sedevano l’accusatore e l’accusato. Allato ai guidici vedevansi due colonne su cui erano scolpite le leggi, dietro le quali essi proferivano i loro giudizj. Questo tribunale fu istituito circa nove secoli prima di Solone che ne fu il ristauratore ritornandolo al suo antico splendore.

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Glauco §

Glauco figlio di Nettuno e della ninfa Naide fu un celebre pescatore della città di Antedone in Beozia. Osservando egli un giorno che i pesci da lui presi e posti su di una certa erba, ripigliavano forza e saltavano nell’acqua, mangiò di quest’erba e precipitossi tosto in mare. L’Oceano e Teti lo spogliarono di quanto aveva di mortale e l’ammisero nel numero degli Dei marini. Gli abitanti di Antedone gli eressero un tempio e gli offrirono dei sacrifici. Fuvvi poscia anche un oracolo sotto questo nome che i navigatori solevano consultare. Vuolsi che Cirœ lo amasse, ma ch’egli fosse insensibile al di lei {p. 214}affetto, preferendo la giovine Scilla, la quale per vendetta fu cangiata da Circe in mostro marino dopo aver avvelenato la fontana ove questa Ninfa andava a lavarsi.

Glauco era infatti un abilissimo pescatore e sapeva ben nuotare, e siccome stava egli lunga pezza sott’acqua, così(per conciliarsi molta estimazione, dava egli a credere che in quel tempo avesse delle conversazioni colle marine Deità. Malgrado però di tutta la sua abilità un giorno si annegò, ed allora fu detto che gli Dei marini lo avevano del tutto ammesso nella loro compagnia.

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Eco §

Eco figlia dell’Aria e della Terra, una delle Ninfe seguaci di Giunone, abitava le sponde del fiume Cefiso nella Focide. Giunone la condannò a non parlar mai senza essere interrogata, ed a rispondere in poche parole alle dimande che le venissero fatte, non ripetendo che l’ultime parole di quelli che la interrogherebbero per avere imprudentemente parlato di quella Dea e tenutala a bada con lunghi discorsi intanto che Giove si tratteneva in intrighi amorosi colle Ninfe di Giunone.

Eco amò Narciso e lo seguì per qualche tempo senza farsi però vedere ; ma accortasi di essere dispregiata si ritirò nei {p. 216}boschi e piû non abitò che spelonche e luoghi dirupati ove consumata dal dolore e dall’affanno non le rimaser che le ossa e la voce, e fu cangiata in rupe.

Vuolsi che Pane innamorato di lei ne avesse una figlia iamata Iringa.

{p. 217}

Le Grazie §

Le Grazie figlie di Giove e di Venere secondo alcuni, di Eurinome secondo altri e di Bacco e Venere come più generalmente si crede erano tre : Egle, Talia ed Eufrosina, così almeno vogliono la maggior parte de’poeti, benchè ne variasse il numero presso gli antichi che ne annoveravano due ed anche quattro. Omero dà il nome di Pasifea ad una delle tre suindicate.

I Gréci le chiamavano Carite, nome derivato da una parola greca che significa gioia.

Esse estendevano il loro potere su tutti i piaceri della vita. Non dispensavano agli uomini soltanto la buona grazia, l’allegria, {p. 218}l’umore sempre uguale, le facili maniere e tutte le altre qualità che spandono tanta dolcezza nella vita sociale, ma la liberalità pur anche, l’eloquenza, il senno e la prudenza.

La più bella delle loro prerogative era quella di presiedere ai beneficii ed alla riconoscenza.

A sì amabili Divinità non doveano mancare nè templi nè altari. Le Grazie avevano templi in Elide, in Delfo, in Perinto, in Bisanzio ed in tutti gli altri luoghi della Grecia e della Tracia. Ne avevano anche in comune con altre divinità come Mercurio, Amore e le Muse. Si rinvenivano ovunque dei quadri, delle iscrizioni e delle medaglie esprimenti le Grazie.

Da prinicpio si rappresentarono con semplici pietre greggie, poco dopo sotto forme umane, vestite di velo, indi ignude. Si voleva così esprimere che non avvi cosa più gradita della semplice natura, {p. 219}e che se qualche volta essa chiama l’arte in suo soccorso, non deve quest’ultima far uso di ornamenti stranieri che con moderazione. Si dipingevano giovani, belle e vergini perchè le Grazie ed i piaceri sono sempre stati risguardati come attributi della gioventù.

Si rappresentavano piccole e snelle perchè le forme più delicate sono anche le più seducenti.

Il loro atteggiamento alla danza indicava che essendo amiche della gioia innocente, non sapevano adattarsi ad una gravità austera.

Si tenevano per mano perchè le amabili qualità sono i più dolci legami della società.

Non avevan oro nè fermagli nè cinture e lasciavano ondeggiare il loro velo in balla dei Zefiri, perchè una specie di abito succinto ed incolto piace assai più degli studiati ornamenti ; e nelle opere dello {p. 220}spirito come in tutto il resto un certo che di trascurato è preferibile ad una fredda regolarità.

Le Grazie erano le indivisibili compagne di Venere. Accompagnavano alle volte anche Mercurio e le Muse.

Stanziavano per l’ordinario sulle rive del Cefiso e in Orcomene per cui furono dette le Dee del Cefiso e di Orcomene.

Si celebravano molte feste in loro onore, ma era loro particolarmente consacrata la primavera, siccome la stagione delle Grazie.

Erano invocate a tavola come le Muse, e giuravasi per la loro divinità. Pausania ammette una quarta Grazia che è la Persuasione facendo così comprendere che il gran secreto di piacere è quello di persuadere.

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Le Muse §

Le Muse dee delle scienze e delle artierano figlie di Giove e di Mnemosina dea della memoria. Quando stavano nell’Olimpo cantavano le meraviglie degli Dei ; conoscevano il passato, il presente e l’avvenire, e nulla allegrava tanto la corte celeste, quanto le loro voci e i loro concerti. Esse erano nove : Clio, Euterpe, Talia, Melpomene, Tersicore, Erato, Polinnia, Urania, e Calliope, tra quelle la più sapiente. Si fanno presiedere ciascuna a differenti arti, come alla musica, alla poesia, alla danza, all’astrologia, ecc. Sono dette vergini perchè inalterabili sonoducazione. Sono dette Muse da una parola greca che significa spiegare {p. 222}i misteri, perchè hanno insegnato agli uomini delle cose importanti, ma che non sono alla portata degl’ignoranti.

Gli antichi hanno riguardato le Muse come dee guerriere e le hanno confuse colle Baccanti. Non solo furono poste nel rango delle Divinità, ma vennero loro altresì largamente tributati gli onori. In molti luoghi della Grecia e della Macedonia offrivansi loro dei sacrifici. Anche in Roma erano ad esse consacrati due templi ed un terzo in cui venivano festeggiate sotto il nome di Camene. Le Muse e le Grazie d’ordinario non avevano che un tempio ; e di rado facevansi deliziosi banchetti senza chiamarle e salutarle col bicchiere alla mano. I poeti non tralasciarono mai d’invocarle al principio de’loro poemi, siccome Dee capaci d’ispirar loro quell’entusiasmo tanto all’arte lor necessario.

{p. 223}Clio che prende il suo nome da Kleos, gloria, fama, presiedeva alla storia e alle odi.

Melpomene, ossia la melodiosa, regna sulla tragedia, l’una delle cui parti essenziali erano altre volte i canti ed i cori.

Talia o la fiorente, presiedeva alla commedia e ai divertimenti.

Euterpe ossia la giocosa e rallegrante, presiede al flauto ed agli istromenti da fiato e la sua giurisdizione estendesi su la musica istrumentale.

Tersicore o la sollazzevole e gloconda, ha inventato l’arpa, e presiedeva alla danza e ai giuochi.

Erato o l’amorosa die’ la vita alla lira e al liuto, presiede alle galanti, appassionate o erotiche poesie, da Eros, che significa amore.

Calliope, il cui nome annuncia la bella voce, è la sovrana di nobili e sublimi canti, e presiedeva all’eloquenza e all’epica o eroica poesia.

{p. 224}Urama presiede all’astronomia.

Polinnia, così detta dalla moltitudine delle canzoni, è la Dea della musica vocale e della rettorica.

Le Muse hanno avuto diversi nomi dai luoghi lor sacri.

Sono soventi nominate Pieridi, dal monte Pierio sul quale credesi essere elleno nate, o da Piero che alcuni danno loro per padre.

Facevano per lo più dimora sui monti Parnaso, Elicona, Pindo, in Grecia e Pierio, in Macedonia. L’Amore e le Grazie abitavano con esse. L’Amore non vi era mal situato ; parecchie di esse cedettero al potere di lui malgrado si dicano vergini.

Tra i fiumi e le fontane erano loro consacrati l’Ippocrene ed il Permesso nella Beozia, il Castalio nella Focide, tra le piante la Palma ed il Lauro. Il caval Pegaso pascolava per lo più all’intorno e {p. 225}sopra i monti ove s’aggiravan le Muse. Avevano Apollo alla loro testa, colla lira in mano e coronato d’alloro. Si dipingono giovani, belle, modeste e vestite semplicemente. Siccome ciascuna presiede a un’arte diversa, così hanno delle corone e degli attributi particolari. Le Muse possono essere coronate di piume perchè avendo elle in una sfida di canto vinte le figliuole di Acheloo, che, per consiglio di Giunone, le avevano sfidate, strapparon loro le penne delle ali, e se ne fecero delle corone. Gli antichi davan loro degli abbigliamenti gialli, e una corona d’alloro e delle ali, queste ultime perchè essendo una volta entrate nel palazzo di Pireneo re di Focide, dietro il suo gentile invito per riposarsi, avendo egli tentato di far loro violenza, esse col soccorso di Apollo presero tosto le ali e se ne fuggirono.

{p. 226}Si ravvisa in Pireneo il nome di qualche principe il quale non amando le belle lettere distrusse i luoghi ove erano coltivate.

Colla musa Urania non bisogna confondere Urania o la Venere Celeste, figliuola del Cielo e della Luce. Secondo gli antichi animava essa tutta la natura e presiedeva alle generazioni : non era altra cosa che la brama che ha ogni essere creato di unirsi a ciò che più gli si addice. Urania non ispirava che dei casti amori, e sciolti dai sensi, mentre la Venere terrestre ai sensuali piaceri presiedeva. A Citera vedesi un tempio di Venere Urania il quale passa per il più antico ed il più celebre di tutti i tempii che abbia Venere in tutta la Grecia : la statua della Dea la rappresentava armata. Aveva essa un altro tempio in Elide, la cui statua era d’oro e di avorio, lavoro di Fidia. La Dea aveva un piede su di una {p. 227}testuggine per indicare la castità e la modestia che le erano proprie. La testuggine è il simbolo del ritiro e del silenzio, che a donna maritata contanto si addicono. Urania e Bacco erano le due più grandi divinità degli Arabi.

Parlando della statua di Venere Urania, cade in acconcio di parlare di una della Venere terrestre, giacchè non l’abbiam fatto all’articolo di questa Dea.

Tra tutte le statue dell’antichità una delle piû celebri nel suo genere e che dir si può un miracolo dell’arte, il modello della vera beltà femminile è la Venere detta comunemente Medioea, nome che le venne dalla Villa Medici ove fu in origine trasferita da Roma nel 1587 sotto Ferdinando I figlio del Gran Cosimo, e dalla galleria di Firenze dei principi di quella famiglia ove fu traslocata dopo e dove trovasi tuttora.

{p. 228}Essa rappresenta Venere nell’atto di nascere o emergere dalla spuma del mare. Difficile sarebbe l’esprimere colle parole tutti i pregi di quest’immagine divina. È opinione di accreditati autori ch’essa sia opera o di Fidia o di Prassitele, o forse anche di Scopa, la cui Venere nuda, posta di contro al circolo flamminio superava, secondo alcuni, la famosa Venere Gnidia di Prassitele. Una non antica iscrizione apposta alla Venere de’ Medici ha indotto alcuni a crederla opera di Cleomene, statuario di gran nome in Atene.

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Le Ore §

Le Ore figlie di Giove e di Temi. Se ne contavano dapprima tre : Eunomia, Dice e Irene, vale a dire il Buon Ordine, la Giustizia e la Pace. Volendo indicare senza dubbio con questa finzione che il buon uso delle Ore mantiene le Leggi, la Giustizia e la Concordia. Pretendesi da alcuni che non se ne contassero che tre dagli antichi perchè non eranvi che tre stagioni, cioè la primavera, l’estate e l’inverno. Quando venne ad esse aggiunto l’autunno ed il solstizio d’inverno ossia la sua più fredda parte, si crearono due nuove Ore, cui si diede il nome di Carpo e Tallatta, che furono stabilite per vegliare alla custodia dei fiori e dei frutti. Quando i {p. 230}Greci divisero il giorno in dodici parti eguali, i poeti moltiplicarono il numero delle Ore sino a dodici, impiegate al servigio di Giove, e le nominarono le dodici sorelle, nate custodi delle celesti barriere, per aprirle e chiuderle a loro piacere, e venne altresi loro commessa la cura di ricondurre Adone dall’Acheronte e di restituirlo a Venere. Si diede alle Ore anche la sprantendenza dell’educazione di Giunone ; diffatti in alcune statue di questa Dea, veggonsi al dissopra del capo di lei rappresentate le Ore. Ebbero l’incarico anche dell’educazione di Venere. Era loro cura di allestire il carro ed i cavalli del Sole.

Si vuole che presiedessero all’educazione de’ fanciulli e che esse regolassero tutta la vita degli uomini ; motivo per cui le fanno presenti a tutte le nozze celebrate nella mitologia.

{p. 231}Gli Ateniesi offrivano dei sacrifici alle Ore pregandole di accordar loro un moderato calore onde i frutti della terra col soccorso della pioggia, venissero a poco a poco a maturità.

Il tempio che avevano in Atene fu edificato in loro onore da Anfittione terzo re di Atene figlio di Deucalione e di Pirra.

Le Ore sono le compagne delle Grazie, vale a dire sono elleno le Doe delle stagioni e della bellezza.

Si rappresentavano comunemente danzando e d’una medesima età ; il loro vestimento non discendeva che fino alle ginocchia, la loro testa era coronata di foglie di palma in atto di raddrizzarsi.

Si rappresentarono poscia di diversa età.

I moderni rappresentano le Ore con ali di farfalla, accompagnate da Temide e portando dei quadranti o degli oriuoli.

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Le Gorgoni, il vcaval Pegaso §

Le Gorgoni figlie di Forco dio marino e di Ceto erano tre e si chiamavano Medusa, Euriale e Steno. Stanziavano al di là dell’Oceano, all’estremità del mondo, in vicinanza del soggiorno della Notte e dei giardini delle Esperidi.

Le Gorgoni secondo alcuni non avevano che un sol occhio e un sol dente tra tutte e tre e se ne servivano un po’ per una a vicenda ; il dente era più lungo però di una zanna del più forte cignale. Avevano le chiome di serpenti, delle grandi ale e delle ugne di lione ai piedi ed alle mani che erano di bronzo.

{p. 233}Erano pei mortali un oggetto di orrore e di spavento ; col solo loro sguardo uccidevano gli uommi o almeno trasformavano in sasso quei che guardavano. Esse davano il guasto alla campagna ed incrudelivano sopra tutti i viandanti. Perseo le vinse e tagliò la testa a Medusa, la più eelebre per le sue disavventure, ma la sola che fosse mortale, mentre le sue sorelle non erano soggette nè alla vecchiaia nè alla morte. Del teschio di Medusa Perseo si servì a cangiar in pietra chiunque ei si voleva.

Dopo la morte di Medusa, Steno ed Euriale andarono ad abitare presso l’Inferno, alla porta del nero palazzo di Plutone, ove poscia hanno sempre avuto la loro dimora coi Centauri, col gigante Briareo, coll’Idra di Lerna, colla Chimera, colle Arpie e con tutti gli altri mostri immaginati dai poeti.

{p. 234}Asseriscono alcuni che le Gorgoni erano donne guerriere le quali abitavano la Libia presso il lago Tritonide ; che furono soventi in guerra colle Amazzoni loro vicine ; e che Ercole finalmente le distrusse insieme alle loro rivali, persuaso che nel gran progetto da lui concepito di rendersi utile al genere umano, egli non avrebbe eseguito che una sola parte del suo divisamento, allora quando avesse tollerato che al mondo vi fossero delle nazioni sottoposte al dominio delle donne.

Pretendono altri che le Gorgoni fossero vere bestie feroci le quali collo sguardo petrificavano gli uomini, e raccontano esservi stato in Africa un animale che i Nomadi chiamano Gorgone, il quale è molto somigliante ad una pecora selvatica, ed il cui alito è tanto velenoso che infetta tutti coloro che gli si avvicinano.

{p. 235}Nel nome delle tre Gorgoni con altre due figlie di Forco re di Itaca e di altre vicine isole hanno alcuni scoperto il nome dei vascelli di carico i quali commerciavano sulle coste dell’Africa, ove trafficavasi dell’oro, dei denti d’elefante, dei corni di differenti animali, degli occhi di iena e delle altre mercanzie. Nel cambio che facevasi di coteste cose in diversi porti della Fenicia e delle isole della Grecia, rinchiudesi il mistero del dente, del corno e dell’occhio che le Gorgoni prestavansi vicendevolmente ; quindi le cinque figlie di Forco erano i cinque vascelli de’ quali era composta la piccola flotta di questo principe, come si vuole che lo provino i cinque loro nomi fenici. In tutte le lingue orientali, le navi di un principe, per quanto si dice, chiamansi sue figlie.

Allorchè Perseo troncò il capo di Medusa, dalle gocce del sangue che caddero da esso si vuole che nascessero tutte le {p. 236}specie di serpenti che veggonsi nell’Africa, come nacque Crisaore ed il Pegaso cavallo alato. Appena che quest’ultimo vide la luce volò nel soggiorno degl’immortali e spiegò il volo sull’Elicona montagna della Beozia, ove percuotendo il piede in terra fece scaturire il fonte Ippocrene, nome che equivale a fontana di cavallo. Questo fonte consacrato ad Apollo ed alle Muse vogliono alcuni che fosse scoperto da Cadmo che insegnò ai Greci le lettere dell’alfabeto e le scienze.

Minerva domò il caval Pegaso, lo diede a Bellerofonte che servissene per combattere la Chimera. Avendo poscia Bellerofonte voluto servirsi del Pegaso per salire in cielo, Giove lo precitò in terra e pose l’alato cavallo tra gli astri ove forma una costellazione. Anche Perseo se ne servì per liberare Andromeda, e per rubare i pomi d’oro del giardino delle Esperidi. Questo cavallo abitava i monti Parnaso, {p. 237}Elicona, Pierio e Permesso. Pretendesi che assista tuttora col suo dorso e le sue ali i poeti di primo ordine. Avvi chi confonde con Pegaso il cavallo alato che Nettuno percuotendo la terra col suo tridente fece nascere nella gara che ebbe con Minerva, come si è già riferito all’articolo di questa Dea.

Ecco il modo con cui si spiega la favola del caval Pegaso.

Medusa altro non era fuorchè una delle cinque navi della flotta di Forco, principe fenicio re d’Itaca. Essendo stata troncata la testa di Medusa, ossia ucciso il comandante della nave ne uscì Crisaore, celebre artefice in metalli ed il Pegaso. Il capo della Medusa, comperando dell’oro dagli Africani aveva preso anche da loro un artefice che sapesse porlo in uso. Il Pegaso era un animale selvaggio, il quale appena uscito dalla nave fuggì e non fu fermato se non se da Bellerofonte, che lo ferì ei pure e disparve.

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Le Ninfe, Galatea, Aretusa e Aracne §

Il nome di Ninfa indica nel suo vero significato una donzella maritata da poco tempo, una novella sposa. Si diede questo nome in seguito ad altre Divinità rappresentate sotto le forme di donzelle. Secondo i poeti tutto l’universo era pieno di Ninfe, e le dividevano in diverse classi, in Ninfe celesti, infernali, terrestri e delle acque.

Si trovano anche delle Ninfe con nomi presi o dal loro paese oppure dalla loro origine.

{p. 239}Fu dato in fine il nome di Ninfe non solo a molte illustri dame delle quali apprendevasi qualche avventura, ma eziandio fino alle semplici pastorelle e a tutte le belle che i poeti fanno entrare nel soggetto de’loro canti.

Fu tributato alle Ninfe un culto particolare : offrivasi loro in sacrificio l’olio, il latte ed il mele ; talvolta immolavansi ad esse delle capre, ed erano altresì loro consacrate alcune feste.

Alle Ninfe non era accordata un’assoluta immortalità, ma credevasi ch’elleno vivessero lunghissimo tempo.

I luoghi consacrati alle Ninfe erano talvolta piccoli templi ; ma il più sovente erano antri naturali o espressamente scavati e adorni, chiamati Ninfee. Que’ sacri luoghi erano d’ordinario situati presso delle fontane, delle sorgenti di ruscelli o’ delle piccole riviere.

{p. 240}Ogni Divinità superiore dell’uno e dell’altro sesso aveva le sue Ninfe, nel cuirango convien mettere eziandio le Muse, che sono le Ninfe di Apollo.

Le Ninfe sono sempre rappresentate per metà ignude, mentre le Muse vengon sempre dipinte decentemente vestite ; egli è il carattere distintivo delle une e delle altre.

Le Ninfe celesti o uranie regolano la sfera del cielo.

Poco si dice delle Ninfe infernali se non che tra di esse distinguevasi per bellezza Orfne che dicesi moglie di Acheronte e madre di Ascalafo cui altri danno per madre la Notte.

Le Ninfe terrestri dividevansi in Ninfe delle montagne e si chiamavano Oreadi, Orestiadi o Oredemniadi, in Ninfe de’ boschetti dette Napee, e delle foreste dette Driadi ed Amadriadi.

{p. 241}Le Oreadi, Ninfe de’ monti che si fanno nascere da Foroneo antico re d’Argo ed uno de’ primi che contribuirono all’incivilimento de’ Greci, e da Ecate, si dicevano anche le Ninfe di Diana, perchè quella Dea amava d’andare alla caccia pei monti, e per distintivo particolare si dava loro le ali. In un bassorilievo vedesi Diana discesa dal suo carro per contemplare Endimione, che fa tenere dalle Oreadi i propri cavalli. Sotto il nome di Orestiadi sono dette figliuole di Giove.

Le Napee si facevano presiedere ai boschetti, alle valli ed ai prati. Il loro nome nella lingua greca significa luogo coperto d’alberi. Il culto che si rendeva loro era presso a poco eguale di quello renduto alie Naiadi.

Le Driadi presiedevano alle campagne, ai boschi ed agli alberi. Erano state immaginate per impedire che i popoli distruggessero troppo facilmente le foreste. {p. 242}Per tagliare una foresta bisognava che i ministri della religione dichiarassero che le Ninfe l’avevano abbandonata.

Erravano esse giorno e notte pei boschi e per le foreste, e potevano ballare intorno alle quercie che erano loro consacrate, e sopravvivere alla distruzione degli alberi che erano da esse protetti. Potevano maritarsi. Euridice moglie di Orfeo era una Driade.

Venivano rappresentate sotto la figura di donne di fresco e robusto aspetto, la cui parte inferiore terminava in una specie di rabesco, descrivendo coi suoi giri allungati un tronco e le radici di un albero. La parte superiore, senza alcun velo, era ombreggiata da una capellatura sparsa al vento. Il loro capo era cinto da una corona di foglie di quercia, ed avevano in mano una scure, perchè si credeva che queste Ninfe punissero gli oltraggi fatti alla pianta che avevano in custodia.

{p. 243}Le Amadriadi ninfe anch’esse de’ boschi crano meno fortunate delle Driadi. Il destino delle Amadriadi dipendeva da certi alberi coi quali esse nascevano e morivano, e non se ne potevano mai separare ; tali alberi erano per lo più le querce. Pretendesi da alcuni che non ne fossero assolutamente inseparabili perchè si fanno abbandonare i loro alberi per andare ad ascoltare il canto d’Orfeo.

Le Amadriadi come tutte le Ninfe non erano immortali, ma è favoloso il calcolo della loro esistenza secondo molti mitologi al di là de’ 9000 anni non combinando colla durata degli alberi.

Queste Ninfe erano grate a coloro che le salvavano dalla morte, ma punivano severamente quelli la cui màno sacrilega osava insultare gli alberi da cui esse dipendevano.

Narrasi a questo proposito che un certo Parebio stava per abbattere una superba {p. 244}quercia, la più bella di tutta la provincia, quando gli apparve una Ninfa, e lo supplicò di non offendere quell’albero, dicendogli :

« La mia esistenza dipende da questa pianta : converrà ch’ io perisca nel momento stesso ch’essa cadrà sotto i colpi della tua scure : rispetta un’Amadriade alla quale tu sei debitore dei più dolci momenti di tua vita ; all’ombra di queste foglie incontrasti la donna che ti rese il più felice fra i mariti e fra i padri ; tu allora benedicesti quest’officiosa quercia, ai rami della quale poi sospendesti la culla del pargoletto tuo figlio. »

Non si lasciò neppur terminar il discorso all’afflitta Amadriade, che la quercia venne abbattuta ; ma la Ninfa se ne vendicò, poichè la sera stessa l’empio ed avido legnaiuolo fu colpito assieme col figlio da inaspettata morte immatura.

{p. 245}Un altro storico narra che un certo Reco della città di Gnido, vide un giorno una bellissima quercia incurvata ed in procinto di cadere. Ei si determinò a puntellarla, ed appena ebbe terminato questo lavoro gh comparve la Ninfa di quell’albero, la quale dissegli che era disposta ad accordargli quanto cra in suo potere, per ricompensarlo del servigio che avevale reso con prolungare la sua esistenza, che da quella quercia dipendeva ; e la Ninfa non mancò alla promessa.

Molti fatti citansi a un dipresso consimili i quali provano che gli antichi erano persuasi che la vita delle Amadriadi dipendesse dalle piante che le medesime avevano in custodia ; ed era questo un ottimo mezzo per far rispettare i propri poderi senza l’apparato dei castighi, mettendo le foreste sotto la protezione di amabili divinità, molto adattate ad allontanare dalle piantagioni quei danni, ai quali erano esposie

{p. 246}Le Ninfe delle acque dividevansi in Ninfe marine chiamate Oceanidi e Nereidi ; in Ninfe delle fonti dette Naiadi, Crenee, Pegee ; in Ninfe de’ fiumi e delle riviere dette Potamidi, e dei laghi e delle paludi dette Limniadi.

Le Nereidi erano figlie di Nereo e di Doride, le Oceanidi o Oceanitidi figlie dell’Oceano e di Teti. Sì le une che le altre erano delle famiglie delle Ninfe marine. Variano i poeti nel fissarne il numero, passandovi la differenza da sette fino a tremila e più. Sarebbe quindi inutile il riportare i nomi dati da que’ poeti che ne contano soltanto da sette a cinquanta. I loro nomi sono tratti quasi tutti dalla lingua greca e ben convengono a marittine divinità, poichè esprimono i fiumi, i flutti, le onde, le tempeste, la calma, le rade, le isole, i porti, ecc. ; e non è da maravigliarsi perciò se i poeti ne annoverano un sì prodigioso numero.

{p. 247}Le Nereidi più celebri sono Anfitrite e Tetide. Sono chiamate le caste Ninfe dagli occhi neri, che abitano il fondo del mare. Scorrono sollazzandosi, sulla superficie delle onde, sono spesso condotte sui carri dei Tritoni, e vanno coi Delfini scherzando. D’ordinario vengono rappresentate come compagne delle divinità marine, e adagiate sopra Delfini o altri mostri o cavalli marini. Si attribuisee loro una singolar bellezza, e si loda specialmente la leggiadria de’ loro piedi, delle braccia e della persona, della qual bellezza erano sommamente gelose.

Le Nereidi avevano dei boschi sacri come le grandi divinità, e degli altari, specialmente su le rive del mare. Quando stavan fuori dell’acque, d’ordinario abitavano in grotte adorne di conchiglie e di pampini.

Erano invocate per rendere il mare propizio.

{p. 248}Alle Nereidi offrivasi del latte, dell’olio e del mele ne’ sacrifici che loro facevansi ; talvolta erano ad esse immolate delle capre. Dimostravano di avere una particolare inclinazione per gli alcioni, augelli marini.

Si diede un tempo il nome di Nereidi ad alcune principesse che abitavano delle isole o sopra le coste, oppure che si rendettero celebri collo stabilimento del commercio e della navigazione. Lo stesso nome fu dato altresì a certi pesci di mare cui supponesi la parte superiore del corpo a un dipresso simile a quello di una donna.

Le Oceanidi, Le Nereidi, Teti, l’Oceano e Nettuno e tutte le altre marine divinità erano onorate con un culto il quale consisteva in preci ed in sacrifici. Questo culto era fondato sul vantaggio che traevasi dall’Oceano e dal mare e sui pericoli che incontravansi su {p. 249}quell’elemento. Quando il mare era irato gli veniva sacrificato un toro nero, e quando era in calma, gli s’immolava un agnello ed un porco, ma il toro era però l’animale che più comunemente a quelle divinità veniva immolato. Quando il sacrificio aveva luogo in sulla spiaggia raccoglievasi il sangue delle vittime nelle patere ; e se il sacrificio facevasi a bordo di un vascello, allora lasciavasi che il sangue della vittima colasse in mare.

Una delle più distinte tra le figlie di Nereo fu Galatea per la sua ammirabil bianchezza, per la divina bellezza delle forme, per l’avvenenza del volto. Amata da Polifemo e da Aci, preferì questo giovine ed avvenente pastore al deforme Ciclope. Polifemo sdegnato di tale preferenza, lanciò uno scoglio di enorme grossezza sopra Aci e lo schiacciò. Galatea gittossi in mare e si unì alle Nereidi sue sorelle.

{p. 250}Fra le Nereidi debbesi far cenno di Aretusa una delle compagne di Diana. Questa Ninfa ritornando dalla caccia un giorno si fermò per riposare al margine di un ruscello e vedendone le acque molto limpide volle bagnarvisi. Il fiume Alfeo che la vide spogliarsi ed entrare nell’ acqua se ne innamorò subito, ma essa passò su l’altra sponda e se ne fuggì. Il Dio del fiume la inseguì pei campi e pei monti, fino a che la Ninfa non potendo più reggere dalla stanchezza implorò il soccorso di Diana che la cangiò in fonte. Alfeo che la riconobbe sotto questa trasformazione abbandonò la figura della quale erasi rivestito, e ripigliando quella di fiume, mescolò le sue acque con quelle di Aretusa. Allora la casta Diana aprì la terra per dare passaggio a questa fontana la quale attraversando i più profondi antri sboccò nell’ isola d’Ortigia vicino alla Sicilia, anzi nel porto stesso di {p. 251}Siracusa, unita alla città da un ponte, ove vedesi ancora. L’Aretusa era realmente una fontana dell’isola d’Ortigia che rinchiudeva il palazzo degli antichi re di Siracusa.

Le Naiadi dette anche Crenee e Pegee erano Ninfe che presiedevano alle fontane, ai fiumi, alle riviere ed ai torrenti. Alcuni distinguono le Ninfe che presiedevano ai fiumi ed alle riviere dalle Naiadi col nome di Potamidi.

Le Naiadi vengono d’ordinario dipinte in atto di versar l’acqua da un’ urna, oppure portanti in mano una conchiglia. Erano loro offerti dei sacrifici, i quali talvolta consistevano in capre e in agnelli immolati, con libazioni di vino, di mele e di olio ; e più soventi contentavansi di porre sui loro altari del latte, dei fiori e dei frutti, ma non erano se non se campestri divinità il culto delle quali non si estendeva sino alle città. Erano chiamate {p. 252}figlie di Giove. Alcuni le contano nel numero delle sacerdotesse di Bacco, altri le fanno madri de’ Satiri.

Le Naiadi sono dipinte giovani, avvenenti e d’ordinario colle braccia e le gambe ignude, appoggiate ad un’urna. Una corona di canne adorna la loro capellatura sulle spalle ondeggiante.

Quantunque le Naiadi fossero abitanti delle acque, soggiornavano d’ordinario negli antri vicini del mare, adorni di fontane e d’arboscelli e di quanto poteva renderne piacevole la dimora. S’aggiravano alle volte anche ne’ boschi, e nelle praterie sollazzavansi. Egle era la più bella delle Naiadi.

I poeti indicano talvolta l’acqua per le Naiadi.

Il color verde s’addice all’abbigliamento delle Naiadi, come a quello di tutte le divinità marine ed ai fiumi.

Le Limniadi erano le ninfe che presiedevano ai laghi ed agli stagni. Erano {p. 253}onorate anche sotto i nomi di Limnacidi, Limnadi, Limnee e Limniache. Come Dea dei laghi e degli stagni, invocano i pastori Diana sotto il nome di Limnea o Limmatide.

Aracne(1) era una famosa lavoratrice figlia di un tintore chiamato Idmone, della città di Colofone nella Ionia, la quale lavorava così bene in ricamo, che traeva in sua casa un’infinità di stranieri per ammirare la bellezza delle sue opere. Gli elogi che le si tributarono, le inspirò una tale presunzione, che osò sfidare Minerva stessa, ripromettendosi di sorpassarla. Accettata la sfida esse incominciarono entrambe il lavoro. Quello della Dea fu certamente bellissimo ; ma quello {p. 254}di Aracne non gli cedeva. Essa aveva rappresentato sulla tela Europa sedotta da Giove trasformato in toro ; Asteria, che si dibatte contro lo stesso Dio cangiato in aquila ; Antiope soggiogata dallo stesso Nume trasformato in Satiro ; Leda, della quale egli abusa sotto le forme di cigno ; Alcmena ch’egli inganna sotto le sembianze di Anfitrione ; Proserpina ch’egli seduce sotto la figura d’un serpente, ecc. Quest’abile lavoratrice vi aveva egualmente rappresentato al naturale le amorose trasformazioni di Nettuno, di Apolline, di Bacco e di Saturno. Il disegno ne era sì regolare e vedevansi così vivamente espresse le figure, che la Dea non potendo scoprirvi alcun difetto, lacerò con isdegno quella bella tappezzeria nella quale erano troppo ben rappresentate le colpe degli Dei. Aggiungesi che la Dea portò il suo risentimento a segno di percuotere Aracne, il che pose in tanta disperazione questa {p. 255}giovine, che andò incontanente ad appiccarsi. Ma Minerva mossa a compassione la sostenne in aria, per timore che essa non riuscisse a strozzarsi, cangiandola in ragno, e sotto questa metamorfosi ella ha conservato la passione di filare e di far tele.

Dicesi che gli Egizi per rammentare continuamente al popolo l’importanza delle sue manifatture di tela, esponevano nelle loro feste la figura di una donna avente nella mano destra il subbio, intorno al quale i tessitori girano la trama della loro stoffa, e davano a quest’immagine il nome di Minerva che nella loro lingua indicava mestiere di tessitore. Vicino a questa figura eravi quella di un ragno, da essi chiamato Aracne, parola che significa, fare della tela ; emblemi che trasportati in Grecia hanno dato luogo alle finzioni di questo popolo amico del meraviglioso.

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Le Esperidi §

Le Esperidi erano nipoti di Espero e figlie di Atlante e di Esperide al dir d’alcuno ; secondo altri figlie della Notte e di Cherecrate, o di Forco e di Ceto. La più comune opinione si è che fossero tre : Egle, Aretusa e Iperetusa. Avvi chi conta la quarta chiamandola Espera, chi una quinta detta Eriteide ed altri parlano della sesta chiamata Vesta. Giunone maritandosi con Giove gli diede delle piante di pomi che fruttavano de’ pomi d’oro. Questi pomi furono posti nell’orto delle Esperidi sotto la custodia di un drago nato da Tifone e da Echidna. Quest’orribile mostro aveva cento teste e mandava in un {p. 257}medesimo istante cento fischi diversi. I pomi sui quali esso teneva sempre gli occhi aperti avevano una virtù sorprendente. Con uno di questi pomi la Discordia pose lo scompiglio fra le Doe. Col medesimo frutto Ippomene raddolcì la superba Atalanta. Le Esperidi erano dotate di bella voce, e con frequenti metamorfosi abbagliavano gli occhi di chi le mirava. Euristeo comandò ad Ercole di portarsi a prender que’ pomi. Ercole s’indirizzò ad alcune Ninfe che abitavano presso l’Eridano, onde sapere da loro ove fossero le Esperidi. Quelle Ninfe lo mandarono a Nereo, Nereo a Prometeo, il quale gl’in segnò il sito e cosa doveva fare ; Ercole si recò in Mauritania, uccise il drago, portò i pomi d’oro a Euristeo, e in questa guisa compì l’undecima sua fatica. Vogliono alcuni ch’egli pregasse soltanto Atlante a procurargli que’ pomi offrendosi a sostenere in sua vece il cielo, intanto che Atlante si recasse alle Esperidi.

{p. 258}Le Esperidi o Atlantidi secondo alcuni storici custodivano con molta cura o degli armenti o dei frutti di una grande rendita. Siccome erano belle e ancor più sagge, Busiride, re d’Egitto tratto dalla loro fama ne divenne amante e spedì dei pirati che le rapirono nel loro giardino ; ma furono sorpresi da Ercole che li ucelse, e Atlante in prova della sua riconoscenza diede all’eroe i pomi ch’egli era venuto a prendere.

Sotto il nome di pomi d’oro molti hanno intesi gli aranci ed i cedri. Nel drago non hanno scoperto che l’immagine dell’avarizia, la quale si consuma per custodire un oro che le diviene inutìle, e che non vuole sia toccato da nessuno.

Nella favola delle Esperidi non iscorgono altri che un quadro de’ fenomeni celesti. Le Esperidi sono le ore della sera ; il giardino è il firmamento ; i pomi d’oro, sono le stelle ; il drago è lo zodiaco {p. 259}il quale taglia l’equatore a angoli obliqui ; Ercole o il Sole rapisce i pomi d’oro, cioè quest’astro, quando comparisce fa sparire dal cielo tutti gli astri minori.

Quest’ultima opinione trova un appoggio in quelli che figurano in Ercole un essere allegorico il quale non vuol significare altro che il sole.

I giardini delle Esperidi, vuolsi che fossero nelle Isole Esperidi chiamate anche dagli antichi Isole Fortunate o Atlantidi, poco distanti dalla costa d’Africa, di cui gli antichi avevano poche nozioni e che credevano l’estremità del mondo ; oggi si ritiene essere le Isole Esperidi le stesse che le Canarie. Altri vogliono che i Giardini delle Esperidi fossero in vicinanza delle colonne d’Ercole oggi stretto di Gibilterra.

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Le Stagioni §

Gli antichi personificarono le Stagioni. Sopra gli antichi monumenti le quattro Stagioni sono d’ordinario simboleggiate per mezzo di alati fanciulli i quali hanno degli attributi particolari ad ogni Stagione. La Primavera per esempio è coronata di fiori e appresso lei evvi un arbusto che mette le prime foglie ; tien essa da una mano nu capretto ed un agnello. L’Estate coronata di spiche di frumento, tiene da una mano un fascio pur di spiche e dall’altra una falce. L’Autunno ha nelle mani de’ grappoli d’uva o un paniere di frutti sul capo. L’Inverno ben vestito ed il capo coperto, sta presso di un albero spoglio {p. 261}di verdura ; ei tiene da una mano dei frutti secchi e dall’altra degli acquatici augelli.

Le quattro Stagioni sono state espresse per mezzo di quattro animali : si dà alla Primavera un paniero di frutti ed un ariete ; all’Estate un covone di frumento ed un drago ; all’Autunno, un cornucopia ripieno di frutti e una lucerta od un lepre, perchè è il tempo della caccia ; all’Inverno, un vaso ripieno di fuoco ed una salamandra.

Gli antichi hanno caratterizzato la Primavera anche con Mercurio ; l’Estate con Apollo, l’Autunno con Bacco e l’Inverno con Ercole.

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Tritone §

Tritone figlio di Nettuno e di Anfitrite, era un Dio marino, la cui figura offriva sino alla schiena un uomo che nuota, ed il resto del corpo mostrava un pesce con lunga coda. Era egli il trombettiere del Dio del mare ; sempre lo precedeva, annunciando l’arrivo di lui col suono della marina conca. Talvolta è egli portato sulla superficie delle acque ; altre volte appare in un carro tirato da due cavalli turchini. Si poneva d’ordinario la figura di Tritone sulla sommità del tempio di Saturno. Oltre l’ufficio di essere trombettiere di Nettuno, si attribuisce a Tritone quello di calmare i flutti e di far cessare le tempeste.

{p. 263}La maggior parte delle divinità dei mari di second’ordine si dicono Tritoni e si dipingono per l’ordinario con una conchiglia di mare in mano ; si metton loro anche delle corone di giunchi ; e ne sono stati rappresentati anche suonando una specie di flauto o zampogna, e tenendo un remo nella sinistra mano.

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Le Sirene, Scilla e Cariddi §

Le Sirene erano secondo alcuni tre figlie del fiume Acheloo e della Musa Calliope e si chiamavano Partenope, Ligea e Leucosia. Altri le fanno figlie dell’Oceàno e di Anfitrite.

Avvi chi ne nomina quattro : Aglaosi o Aglaope, Telsipia, Psinoe ed Elige facendole figlie di Acheloo e della Musa Tersicore. Erano compagne di Proserpina e allerchè questa fu rapita da Plutone, ebbero le braccia cangiate in ali e le gambe in code di pesce ritenendo nel volto e nel busto la forma muliebre ; dicesi che ottenessero di essere in tal guisa {p. 265}trasformate pel gran desiderio che mostrarono di andare in traccia di Proserpina per aria, per terra e per acqua ; si sostiene da altri che Cerere in punizione di non aver soccorso sua figlia rapita da Plutone le cambiò in uccelli. Partite dalla Sicilia andarono a stabilirsi nell’isola di Capri dirimpetto a Napoli o in alcune isolette colà vicine che ancora si chiamano le isole delle Sirene.

L’oracolo aveva predetto alle Sirene ch’esse avrebbero vissuto sino a tanto che fossero giunte a trattenere tutti i passaggeri, ma che dal momento in cui un solo fosse passato, senza fermarsi per sempre all’incanto della lor voce e delle loro parole, sarebbero elleno perite. Le incantatrici non tralasciarono di arrestare colla loro armonia tutti coloro che giungevano a quella volta, e che erano tanto imprudenti per fermarsi ad udirne i canti. Ne rimanevano essi incantati a tale, che più non {p. 266}pensavano al loro paese, obliavano di prendere cibo e morivano d’inedia. La terra di que’contorni era coperta di ossami di coloro che erano in tal guisa periti. Ulisse dovendo passare colla sua nave dinanzi alle Sirene, e avvertito da Circe, turò colla cera le oreochie di tutti i suoi compagni, e si fece pei piedi attaccare e per le mani all’albero della nave, affinchè dandosi il caso, in cui incantato dai dolci suoni delle Sirene, avesse egli voluto fermarsi, i suoi compagni, aventi le orecchie ben chiuse, lungi dal secondare i suoi desiderii, a norma dell’ordine che avevano da lui ricevuto, con nuove corde più fortemente all’albero lo raccomandassero. Tali precauzioni non riuscirono inutili, giacchè Ulisse malgrado dell’avvertimento ricevuto da Circe riguardo al pericolo cui stava per esporsi fu sì incantato de’ lusinghieri suoni di quelle Sirene e delle seducenti promesse che gli facevano, di {p. 267}insegnargli mille belle cose, che fè cenno a’ suoi compagni di scioglierlo, loochè essi furono guardinghi di non eseguire. Le Sirene per quanto vien riferito non avendo potuto trattenere Ulisse, precipitaronsi in mare ; e quel luogo fu poscia dal loro nome Sirenide appellato.

Partenope dopo essersi precipitata in mare approdò in Italia e fu sepolta a Dicearchia oggi Pozzuolo ; la sua tomba fu trovata nell’edificare una città che dal suo nome fu detta Partenope. Questa città fu ruinata dagli abitanti perchè abbandonavasi Cuma per ivi andare a stabilirsi ; ma avvertiti dall’oracolo che per liberarsi dai guasti della peste, era lor d’uopo di ristabilire la città di Partenope, tosto la riedificarono, e le diedero il nome di Neapolis presentemente Napoli.

Le Sirene dipingonsi colla testa ed il corpo di donna fino alla cintura e la forma di uccello dalla cintura al basso ; {p. 268}oppure con tutto il corpo di augello e la testa di donna. Si danno loro in mano degli stromenti di musica ; una tiene una lira, l’altra due flauti e una terza un rotolo, come per cantare.

Sono tanto discordi le opinioni di coloro che hanno voluto dare un’interpretazione alla favola delle Sirene, e sì poco verisimili, che si crede opportuno di non riportarne alcuna.

È però fatto che le Sirene secondo i poeti vollero essere trasformate come lo furono per andare in cerca della loro compagna per cui erano animate dalla più viva amicizia.

Avrebbero per caso i poeti avuto in mira con tale racconto di eccitare nelle donne il nobile sentimento dell’amicizia sì raro nel loro sesso, ai tempi però in cui fu inventata questa favola ?

Scilla era una bellissima ninfa della quale si era invaghito Glauco, dio {p. 269}marino ; ma non avendo potuto questi farsi amare dalla medesima ricorse a Circe, famosa maga, la quale compose un veleno che gettò nella fontana in cui la Ninfa era solita bagnarsi. Appena Scilla fu entrata nella fontana, si vide cangiata in un mostro che aveva dodici artigli, sei booche e sei teste ; una frotta di cani gli sortivano dal corpo intorno la sua cintura, e coi continui loro urli, spaventavano tutti i passaggeri. Scilla spaventata ella stessa della sua figura gittossi in mare, vicino al luogo ove è il famoso stretto che porta il suo nome ; ma vendicossi di Circe, facendo perire i vascelli di Ulisse, suo amante.

Si dice che Seilla ha una voce terribile e che le orrende sue grida rassembrano al muggito del lione ; che è un mostro il cui aspetto farebbe fremere anche un Dio ; che ha sei lunghi colli e sei teste enormi, e in ciascuna testa tre ordini di denti {p. 270}che racchiudono la morte. Allorchè vede passare i vascelli nello stretto, dicono i poeti, sporge la testa fuori del suo antro e se li attrae per farli perire. Dalla testa siuo alla cintura è una donzella di una bellezza seducente, pesce enorme nel rimanente del corpo, ha una coda di delfino e un ventre di lupo.

Credesi che Scilla fosse un naviglio dei Tirreni che devastava le coste della Sicilia e portava su la prua la mostruosa figura di una donna il cui corpo era circondato di cani. Aggiungesi che lo strepito delle onde frangentesi contro le rocce dello stretto, imitando i latrati dei cani, e l’acqua che si precipita impetuosamente nei vortici, hanno dato motivo alla favola.

Cariddi nome di una donna voracissima che avendo rubato ad Ercole certi buoi, dicesi da certuni che fosse da lui uocisa, da certi altri fulminata da Giove e cangiata in una voragine vorticosa, nello {p. 271}stretto di Sicilia, che inghiottiva le navi ed i naviganti che sovr’essa passavano.

Fra Messina in Sicilia e Reggio in Calabria vi ha un passo molto stretto, ove vi sono grandi e scoscesi scogli che sporgono nel mare dai due lati opposti. È celebre nell’antichità questo passaggio per i pericoli che vi correvano i navigatori. Questo passo era chiamato Scilla dalla parte d’Italia, e Cariddi dal lato della Sicilia. Quivi perirono le navi di Ulisse. Scilla era però alcun poco più verso il Nord-Est e non si trovava precisamente in faccia di Cariddi. Quando si passava lo stretto dal Nord al Sud, prima di entrarvi, trovavasi il vortice di Cariddi alla sinistra, e lo scoglio di Scilla a mano destra. In quel tempo in cui l’arte nautica non era portata a quel punto di perfezione, in cui è presentemente, quel passaggio era pericolosissimo, e succedeva pur troppo di soventi che per evitare le terre alla {p. 272}sinistra, si radeva troppo da vicino quelle che si trovano a destra ; d’onde nacque il proverbio : Cadere da Scilla a Cariddi.

Non è cosa rara che bene spesso il timore di un male ci conduce in un peggiore.

{p. 273}

I Penati, i Lari ed i Lemuri §

I Penati ed i Lari erano Dei domestici ; si facevano presiedere i primi alle città ed alle ville, alle case i secondi ; ma comunemente prendevansi gli uni per gli altri.

Si vuole da alcuni che i Lari fossero figli di Mercurio e di Lara ninfa del Tevere, che Mercurio condusse all’inferno per ordine di Giove il quale le aveva prima fatto tagliare la lingua in pena di aver manifestato a Giunone gli amori di lui colla ninfa Giuturna figlia di Dauno e sorella di Turno.

{p. 274}Li volevano inoltre figli di Giove e di Larunda, forse la stessa che Lara.

I Lari o Penati erano piccole statue rappresentanti Deità che nelle case si onoravano e si custodivano con moltissima cura.

Per l’ordinario si collocavano dietro la porta o ne’ focolari. Si rendeva loro un culto religioso e le famiglie attribuivano ad essi la prosperità de’ loro affari domestici.

Sorsero degli altari in loro onore. Si tenevano per essi delle lampade accese. In pubblico si sacrificava loro un gallo ed anche un porco ; le offerte che ad essi si facevano in particolare erano incenso, vino, una coperta di lana ed una parte dei cibi giornalieri.

Vuolsi che anticamente tutte le anime dei morti fossero conosciute sotto il nome di Lemuri. Quelli che avevano cura degli abitanti delle case ove eglino stessi {p. 275}avevano dimorato e che erano dolci e pacifici si chiamavano Lari famigliari ; quelli al contrario che in pena della loro cattiva vita non avevano sicuro soggiorno erano considerati per Geni malefici, erranti e vagabondi che ritornavano a tormentare i viventi, cagionando panici timori alle persone dabbene e facendo ai malvagi dei mali reali, e si distinguevano col nome di Larve.

{p. 276}

Altre divinità degli antichi §

Presso i Romani molte cose campestri avevano la loro Divinità particolare.

Ippona era la dea che presiedeva ai cavalli, Bubona ai buoi, Seia o Segezzi alle sementi ; Maturna era la dea della maturità ; Mellona proteggeva le api ed i loro lavori. Colui che rubava del mele o guastava gli alveari del suo vicino esponevasi allo sdegno di questa Divinità. Stercuzio o Stercuto o Sterculio o Sterquilino era il dio del concime, che dicevasi figlio di Fauno e che aveva per il primo introdotta la concimazione de’ campi. Latturcina o Lacturcina era la dea del latte secondo alcuni ; secondo altri s’invocava pei grani {p. 277}quando cominciavano a gonfiare le spiche, la polpa delle quali ha la bianchezza del latte.

Ogni uomo era in tutela di un Dio particolare chiamato Genio, e che lo accompagnava per tutta la vita.

Secondo alcuni due Geni attribuivansi ad ogni uomo, l’uno buono e l’altro cattivo. Ciascuno nel giorno del suo nascere sacrificava al proprio Genio.

Gli si offriva vino, fiori, incenso ; ma non si spargeva mai sangue in tal sorta di sacrifici.

Presiedeva secondo gli antichi ad ogni parte del corpo un Dio particolare, come le varie vicende dell’umana vita erano anch’esse raccomandate a qualche Divinità ; di tutte queste basterà accennare le principali.

Giove presiedeva al capo, Nettuno al petto, il Genio alla fronte, Giunone alle sopracciglia, la Memoria agli orecchi, alla {p. 278}destra mano la Fede, Minerva alle dita, Mercurio ai piedi.

Nascio o Natio diceasi la dea del nascere ; Vagitano o Vaticano era quel che presiedeva ai vagiti dei fanciulli ; Levana quella che sollevava i bambini. La dea Rumia, Rumilia, Ruma o Rumina istruiva i bambini a poppare, Potina al bere, Educa o Edusa al mangiare. Strenua dicevasi la dea che rende gli uomini valorosi, Agenoria o Stimula quella che gli spingeva ad agire. Gli Agonii erano Dei che si invocavano quando trattavasi d’intraprendere qualche cosa d’importante. Orta gli esortava ad opere virtuose ; Vigilia accompagnava i viaggiatori perchè non si smarissero ; Avveruno era quello che allontanava i mali ed i pericoli. Nerina era la dea del rispetto e della venerazione ; Como era il dio de’conviti e de’ balli notturni. Martea veneravasi dagli eredi. Strenia presiedeva ai doni che si {p. 279}facevano il primo giorno dell’anno e che si chiamavano strenne. Laverna era venerata dai ladri perchè teneva occulti i loro furti ; era anche la dea degl’ipocriti. Libitina presiedeva alla morte, Nenia ai funerali. Vaccena o Vaccana era la dea della pigrizia ; presiedeva anche al riposo della gente di campagna. Marcia era la dea della viltà.

La Mente, la Virtù, l’Onore, la Pietà, la Fede, la Speranza, la Pudicizia, la Carità, la Concordia, la Pace, la Quiete, la Salute, la Felicità, la Fama ebbero degli altari innalzati in loro onore.

Si fecero dei sagrifici alla Febbre, alla Tempesta, al Pallore onde tenerli lontani.

{p. 280}

de’ Semidei §

Ercole §

Questo nome è comune a molti celebri Greci nell’antichità, che si recarono ad onore di portar un tal nome, il quale suolevasi dare anche a tutti i negozianti rinomati che andavano a scoprire nuovi paesi e vi conducevano delle colonie.

{p. 281}La vanità greca ha attribuito ad Ercole Tebano le imprese di tanti altri dello stesso nome. Ercole di cui si parla in questo Compendio è appunto il Tebano. Esso era il più noto e il più venerato dai Greci e dai Romani, era figlio di Giove e di Alcmena moglie di Anfitrione re di Tebe figlio di Alceo.

Dal nome dell’avo Ercole fu detto Alcide e dal proprio fu chiamato il primo degli Eraclidi.

Giove per ingannare Alcmena si vestì delle sembianze di Anfitrione di lei marito mentre questi era alla guerra di Tebe. Giove aveva giurato che dei due bambini i quali doveano nascere da Alcmena e secondo alcuni da Alcmena uno e da Stenelo l’altro, il primo che nascesse avrebbe l’impero sopra il secondo ; Giunone sdegnata per l’infedeltà di Giove, si vendicò sopra il figlio, sollecitando la nascita di Euristeo, ed assicurandogli così la superiorità sul suo competitore.

{p. 282}Nel giorno che nacque Ercole il tuono si fece sentire in Tebe a raddoppiati colpi e molti altri prodigi annunziarono la gloria del figlio di Giove.

Alcmena partorì due gemelli, Ercole ed Ificlo e secondo alcuni Euristeo. Volendo Anfitrione sapere qual d’essi fosse suo figlio, mandò due serpenti presso della loro culla ; Ificlo parve atterrito dallo spavento e voleva fuggire ; ma Ercole strozzò i due serpenti, dando in tal modo a conoscere fin dal suo nascere che era degno figlio di Giove.

La maggior parte dei mitologi raccontano però che Giunone la quale da’ primi giorni di Ercole diede strepitose prove dell’odio che gli portava in causa della madre, mandò due orribili dragoni alla di lui culla per farlo divorare ; ma il fanciullo, senza atterrirsi, li prese fra le mani e li pose in pezzi. Giunone per le preghiere di Pallade si raddolcì allora {p. 283}alquanto ed acconsentì anche di dargli del proprio latte onde renderlo immortale. Una goccia di questo latte che Ercole lasciò cadere, produsse quella striscia bianca in cielo che ora chiamasi Via Lattea.

Narrano alcuni questo fatto in altra maniera e dicono ché Alcmena temendo la gelosia di Giunone, non osò confessarsi madre di Ercole, e subito nato lo espose in mezzo di un campo. Minerva e Giunone vi passarono poco dopo, e la prima ammirando la bellezza di quel fanciullo consigliò Giunone a dargli del suo latte. Giunone vi acconsentì, ma il bambino la mordette con tanta forza, che essa ne provò un violento dolore e lasciò colà il fanciullo. Minerva lo raccolse e lo portò in casa di Alcmena, come una nutrice cui l’avesse raccomandato.

Ercole ebbe molti maestri : imparò a tirar l’arco da Radamanto e da Eurito, da Castore a combattere tutto armato {p. 284}Chirone fu suo maestro in astronomia e in medicina. Lino gl’ insegnò a suonare un istrumento che trattavasi con l’archetto, e siccome Ercole stuonava, Lino lo riprese con qualche severità ; Ercole poco docile non potè sopportare la correzione, gli lanciò l’istrumento su la testa e lo uccise. Ercole divenne di una statura straordinaria e di una forza di corpo incredibile ; era anche un famoso mangiatore. Un giorno viaggiando con Ilo suo figlio, sorpresi dalla fame ambidue, chiese da mangiare ad un bifolco che stava lavorando coll’ aratro ; e perchè quegli non gli die’ nulla, staccò uno de’ buoi dall’aratro, lo immolò agli Dei e lo mangiò. Dovea essere anche gran bevitore, se si deve giudicarlo dalla grandezza della sua tazza, che dicesi fossero necessari due uomini per portarla : egli però non aveva bisogno che di una mano per valersene quando la vuotava.

{p. 285}Datosi per inclinazione ad un genere di vita aspro e faticoso, si presentò ad Euristeo, sotto i cui ordini dovea imprendere i suoi combattimenti e le sue fatiche per la sorte della sua nascita.

Alcuni pretendono che questo suo procedere non fossé volontario e che da principio ricusasse di sottomettersi agli ordini di Euristeo. Giunoue per punirlo della sua disubbedienza lo colpì con tale delirio che uccise i propri figli natigli da Megara sua prima moglie credendo di togliere di vita quelli di Euristeo. Ritornato in sè stesso ne fu tanto afflitto che rinunciò al commercio degli uomini, indi consultò l’oracolo di Apollo che gli ordinò di sottomettersi, per lo spazio di dodici anni, agli ordini di Euristeo, in conformità dei decreti di Giove ; e gli annunciò che sarebbe posto nel rango degli Dei allorchè avesse compiuto i gloriosi suoi destini. Giunone eccitò contro di lui {p. 286}Euristeo. Questo principe geloso della fama di Ercole e temendo di essere un giorno balzato dal trono, lo perseguitò incessantemente ed ebbe cura di occuparlo bastantemente fuori dei suoi stati onde togliergli i mezzi di sturbare il suo regno ; gli comandò le cose più dure e malagevoli dette poi dai mitologi le dodici fatiche di Ercole, persuaso che dovesse perire ; ma Ercole ne sortì con gloria.

Dovette primieramente combattere il terribile leone figlio di Tifone e di Echidna, che infestava i contorni di Nemea, celebre città dell’Acaia, e dopo avergli colle mani squarciata la gola, ne trasse la pelle di oui andò sempre coperto.

2.° Nel paese di Argo pugnò coll’ Idra Lernea, nata da Echidna anch’essa, e che era un serpente di sette teste, a cui se una veniva recisa, immantinente rinasceva. Ercole la uocise, ed uccise pur anche il cancro marino, mandatogli da Giunone, e dal quale fu punto in un piede.

{p. 287}3.° Pugnò e prese vivo sul monte Erimanto un ferocissimo cignale che devastava l’Arcadia. Euristeo vedendo Ercole che portava su le spalle questo cignale vivo, ne fu tanto spaventato che corse a nascondersi sotto di un tino di bronzo.

4.° Sul monte Menalo inseguì per un anno intiero una cerva che aveva i piedi di bronzo e le corna d’oro. Siccome era dedicata a Diana era proibito di ucciderla. Ercole per ubbidire ad Euristeo che la voleva per sè, raggiunta che l’ebbe su le sponde del Ladone, la prese viva, se la pose su le spalle e la portò a Micene.

5.° A colpi di freccia uccise tutti gli orribili uccelli del lago Stinfalio. Essi erano mostruosi, avevano il becco e gli artigli di ferro, e pascevansi di càrne umana. Ve n’era un gran numero e la loro grossezza era tale che le loro ali impedivano che la luce del sole si spandesse su la terra.

{p. 288}6.° Sconfisse le Amazzoni e fatta prigioniera la loro regina Ippolita la diede in isposa a Teseo che gli era stato compagno in quell’impresa.

Le Amazzoni erano donne guerriere che abitavano le ripe del Termodonte in Capadocia. Non volevano uomini seco loro e non conversavano con essi che una volta ogni anno, e li rimandavano dopo alle loro case esigendo però che avessero ucciso prima tre de’ loro nemici : facevano morire o storpiavano i figli maschi ed allevavano con molta cura le fanciulle ; alle quali recidevano la mammella destra, onde non fossero impedite al tirar dell’arco ; ebbero molte guerre coi loro vicini e furono quasi interamente distrutte da Ercole.

7.° Purgò le stalle di Augia re dell’Elide, le quali contenevano tremila buoi e che non erano state pulite da trent’anni, col farvi passare il fiume Alfeo. Dopo {p. 289}averle pulite dal letame e dopo aver purificata l’aria, Ercole si presentò per ricevere il compenso delle sue fatiche, il quale consisteva nel decimo delle gregge che gli dovea appartenere. Siccome Augia gli rifiutò il compenso malgrado il parere di Fileo suo figlio che lo consigliò a mantenere i patti, Ercole offeso dalla condotta di Augia lo uccise e nominò Fileo erede degli stati di suo padre.

8.° Domò un furioso toro che devastava l’isola di Creta e lo condusse legato ad Euristeo.

9.° Vinse Diomede re di Tracia il quale pasceva i suoi cavalli di carne umana facendo loro divorare principalmente gli stranieri che avevano la mala sorte di cadere nelle sue mani. Ercole preso che ebbe Diomede lo fece divorare da quegli stessi cavalli, i quali condusse poscia ad Euristeo e non li lasciò in libertà che sul monte Olimpo ove furono divorati da animali feroci.

{p. 290}10.° Uccise Gerione figlio di Crisaore e di Calliroe o di Nettuno creduto generalmente re di Spagna benchè alcuni lo facessero dimorare in Grecia, altri nelle isole Baleari, altri in Eritia isola vicino di Cadice. Questi era un gigante con tre corpi che faceva pascere i suoi buoi con carne umana. Per custode delle sue mandre aveva un cane con tre teste chiamato Orto figlio di Echidna, ed un Dragone con sette teste. Ercole uccise anche questi mostri.

11.° Uccise il Drago custode del giardino delle Esperidi, nato anch’esso da Echidna, e ne tolse i pomi d’oro, o come altri dicono, li fe’ cogliere da Atlante ed ei frattanto sostenne invece di lui sulle sue spalle il cielo.

12.° Discese all’inferno, incatenò il can Cerbero che ebbe anch’esso Echidna per madre, cavonne Alceste, e la restituì al marito Admeto.

{p. 291}Vengono a questo eroe attribuite molte altre memorabili azioni.

Vinse il fiume Acheloo e gli tolse un corno, che fu poi chiamato Cornucopia.

Soffocò il gigante Anteo.

Distrusse molti mostri come Caco, Albione, Bergione, Tirreno ed altri.

Domò i Centauri, uccise Busiride tiranno d’Egitto che sacrificava a Nettuno suo padre i forastieri.

Uccise l’avoltoio che rodeva il cuore a Prometeo legato al monte Caucaso.

Uccise un mostro marino al quale Esione figlia di Laomedonte era esposta ; e per punire Laomedonte che gli negava i promessigli cavalli, rovesciò le mura di Troia e diede Esione a Telamone.

Separò i due monti Abila e Calpe, unendo in tal guisa il Mediterraneo all’ Oceano, e credendo che quel punto fosse la fine del mondo, vi eresse due colonne, su le quali trovossi in addietro scritto non plus ultra.

{p. 292}Ogni paese e specialmente le città della Grecia recavansi ad onore di aver servito di teatro a qualche meravigliosa di lui azione.

Per vendicarsi delle persecuzioni suscitategli da Giunone, diresse contro questa Dea una freccia a tre punte e la ferì nel seno, e n’ebbe essa a provare dolori così grandi, che sembrava non dovesser più calmarsi.

Ercole ferì anche Plutone in una spalla, nel tetro soggiorno degli estinti, per cui fu costretto a portarsi in cielo per farsi guarire dal medico degli Dei.

Un giorno in cui trovavasi molto incomodato dagli ardenti raggi del Sole, andò in collera contro questo pianeta e tese l’arco per dirigere a lui una freccia ; il Sole ammirando il suo grande coraggio gli regalò una barchetta d’oro, su la quale dicesi egli s’imbarcasse.

{p. 293}Essendosi Ercole presentato finalmente ai Giuochi Olimpici per disputare il premio e non osando alcuno di competere con esso, Giove medesimo volle lottare col proprio suo figlio sotto la figura di un atleta ; e siccome dopo lungo combattimento, il vantaggio fu eguale da ambe le parti, il Dio si diede a conoscere e si congratulò col figlio per la sua forza e valore.

Ercole ebbe molte mogli e gran numero di amanti. Le più note sono Megara, Onfale, Iole, Epicasta, Partenope, Auge, Astioca, Astidamia, Deianira e la giovinetta Ebe che sposò in cielo. L’amore ch’ebbe per Onfale regina di Lidia fu sì ardente, che si vestiva da donna per piacerle e silava con lei.

La morte di Ercole fu un effetto della vendetta di Nesso e della gelosia di Deianira. Deianira era figlia di Oeneo, ed Ercole per ottenerla in moglie dovè {p. 294}combattere col fiume Acheloo. Questo eroe condusse via la novella sposa e nel passare il fiume Eveno, il centauro Nesso si offerse di portarla sul dosso sull’altra ripa, al che Ercole acconsentì ; ma accortosi che Nesso si preparava a fuggire con Deianira, scoccogli una freocia che lo costrinse a fermarsi. Sentendosi il Centauro vicino a morire, diede a Deianira la sua camicia intrisa nel proprio sangue, a ssicurandola che quella vesta aveva tal virtù, che suo marito indossandola non avrebbe potuto lasciarla per un’altra, o che se l’avesse abbandonata avrebb’essa avuto potere di farlo ritornare a lei. Deianira troppo credula, informata degli amori di suo marito con Iole, mandò a lui la fatal camicia, ed appena se l’ebbe egli posta in dosso, che sentissi subito ardere da un crudel fuoco, ed il veleno di cui essa era infettata gli penetrò fino entro le ossa. Tentò egli ma invano di levarsi la mortifera tunica, {p. 295}poichè erasi attaccata alla pelle e quasi incorporata alle membra ; a misura ch’egli la stracciava, laceravasi nel tempo stesso la prima pelle e la carne. In tale stato mandava spaventevoli grida vomitando le più terribili imprecazioni contro la moglie ; vedendo finalmente seccarsi le membra e che si avvicinava il suo fine, alzò un rogo sul monte Oeta, vi stese la sua pelle di leone, vi si coricò sopra, si pose la mazza sotto il capo e ordinò a Filottete di appiccarvi il fuoco e di aver cura delle sue ceneri. Appena fu acceso il rogo, dicesi che cadesse il fulmine dal cielo e riducesse tutto in cenere in un istante, onde purificare ciò che v’era di mortale in Ercole. Giove lo innalzò al cielo e lo pose tra il numero de’ Semidei.

In Tebe ed in molte altre città della Grecia, in Roma, nelle Gallie, nella Spagna e sino nella Tabroane isola tra l’Indo ed il Gange, furono eretti degli altari in onor suo.

{p. 296}Si dipinge Ercole estremamente nerboruto, con spalle quadrate, tinta nera, naso aquilino, occhi grossi, barba folta, crine increspato e orribilmente negletto.

Sui monumenti viene ordinariamente rappresentato coi tratti di uomo forte e robusto, e con una mazza o clava in mano, armato delle spoglie del leone Nemeo, ch’egli porta qualche volta sopra un braccio ed anche sopra la testa.

Vedesi pure ma di rado con l’arco e col turcasso ; ora barbuto e molte volte senza barba.

La più bella di tutte le sue statue l’Ercole farnese ora in Napoli lo rappresenta in atto di riposarsi sopra la clava, vestito colla parte superiore della pelle del leone.

Alcune volte si dipinge coronato di foglie di pioppo bianco. Quest’albero gli era consacrato, perchè se n’era cinto il capo quando discese nell’inferno : ciò che toccavagli il capo conservò il suo bianco {p. 297}colore, mentre la parte esterna fu fatta nera dal fumo. La sua clava era d’ulivo, che, secondo alcuni, dopo la sua morte, piantata nella terra aveva preso radice, ed era divenuta un albero.

Ilo figlio di lui e di Deianira sposò Iolea, ma Euristeo serbando verso del figlio l’odio che nutrito avea contro del padre lo scacciò dal regno insieme agli altri Eraclidi. Rifuggiatosi Ilo in Atene Euristeo andò ad assalirvelo, ma ucciso da Ilo medesimo in un combattimento, il regno di Micene passò ad Atreo figlio di Pelope e padre di Agamennone ; e soltanto dopo un secolo circa gli Eraclidi riuscirono a stabilirsi nel Peloponneso impadronendosi di Argo, di Sparta, di Micene e di Corinto sotto il comando di un capo Etolio. Dalle tante gesta di Ercole e dalle diverse epoche in cui si raccontano avvenute congetturarono a ragione sì i Romani che i Greci e dietro {p. 298}essi i moderni che più di un Ercole vi avesse come si è già detto e che ciascuna nazione vantasse il suo, e che tutte poi attribuite fossero le imprese di tanti Ercoli al figlio di Alcmena e di Giove che si rendette così il più celebre tra i Semidei.

Insorse nondimeno un sistema, che prevale fors’anche, il quale riducendo ad un solo principio tutta la scienza mitologica, al culto antico cioè della natura, fece di Ercole un essere allegorico che al par di Bacco, di Giove, di Esculapio e di tante altre deità, non vuol significare altro che il sole.

L’universalità del culto di Ercole, l’antichità de’ suoi templi di Fenicia, di Egitto, quivi innalzatigli prima che le colonie di que’ due paesi andassero a popolare la Grecia, i tratti con cui gli antichi hanno dipinto Ercole che tutti convengono al sole formano il principal fondamento di questo sistema.

{p. 299}La perfeta analogia che passa tra le dodici fatiche attribuite ad Ercole e i dodici segni che trascorre il sole nello zodiaco è uno de’ più forti appoggi del sistema astronomico di Ercole considerato come il sole.

I sostenitori del sistema astronomico di Ercole asseriscono che non solo all’estremità del Mediterraneo, ma a quella ancora del ponte Eusino scorgevansi due colonne dette egualmente di Ercole volendo indicare colle une e colle altre il termine dei viaggi di questo eroe verso occidente ; e che due altari vedevansi nelle Indie in onore del medesimo Ercole eretti i quali segnavano il termine dei suoi viaggi in oriente. Tali colonne e tali altari servono a convalidare sempre più il sistema che Ercole non fosse altro che il sole, poichè si vedono espressi chiaramente in esse i due termini naturali del corso di quel grande astro il quale ogni giorno trascorre {p. 300}dall’orto all’occaso. Osservisi ancora che le colonne misteriose innalzate dagli antichi erano sacre tutte agli astri, prima base della loro religione.

Tutto ciò che abbiamo qui brevemente accennato sul sistema astronomico di Ercole si troverà diffusamente esposto in vari estesi trattati di mitologia.

{p. 301}

Prometeo §

Il più antico de’ Semidei fu Prometeo figlio di Giapeto uno de’ Titani e di Asia figlia dell’Oceano. Egli fu che formò i primi uomini di terra e di acqua. Minerva, ammirando la bellezza dell’opera di Prometeo, gli fece l’offerta di dargli tutto quello che poteva contribuire a perfezionarla. Prometeo le disse che avrebbe desiderato di scorrere egli medesimo le celesti regioni per scegliere quello che più gli fosse sembrato conveniente all’uomo che esso aveva formato. Innalzato al cielo da Minerva, ed avendo osservato che tutti i corpi celesti erano animati dal fuoco, vi accese una fiaccola e portatala in terra diede con essa alla sua statua anima e {p. 302}vita. Adirato Giove per questo attentato ordinò a Vulcano di formare una bellissima donna, di cui è già parlato all’articolo Vulcano stesso. Gli Dei la ricolmarono tutti di doni per cui fu detta Pandora e la mandarono a Prometeo con una scatola che conteneva tutti i mali. Prometeo ebbe l’avvedutezza di ricusare il dono temendo di un inganno, ed Epiméteo suo fratello accolse lietamente il dono e sposò Pandora contro il consiglio di Prometeo che detto gli aveva di rifiutare qualunque presente gli venisse da Giove.

L’ira di Giove nel veder che Prometeo era sfuggito a questo agguato non ebbe freno ed ordinò immantinente a Mercurio secondo alcuni, a Vulcano secondo altri, di incatenare Prometeo sul monte Caucaso, ove un avoltoio gli rodeva il cuore a misura che gli rinasceva ; e sofferse tale supplizio, sintanto che andò a liberarlo Ercole.

{p. 303}L’uomo formato da Prometeo per quelli che vogliono spiegare questa favola era una statua ch’ei seppe formare coll’ argilla, e fu desso il primo che insegnò agli uomini la statuaria. Prometeo essendo della famiglia dei Titani fu compreso nella persecuzione ad essi fatta da Giove e fu quindi obbligato a ritirarsi nella Scizia ove trovasi il monte Cuacaso, e donde non potè sortire durante il regno di Giove.

Il dispiacere di condurre una vita miserabile in un paese selvaggio, è l’avoltoio. Gli abitanti della Scizia erano estremamente rozzi e vivevano senza leggi e senza costumi ; Prometeo principe istrutto insegnò loro a condurre una vita umana, e per questo si è forse detto che coll’assistenza di Minerva aveva formato l’uomo.

{p. 304}

Deucalione §

Deucalione re di Tessaglia, era figlio di Prometeo e marito di Pirra figlia di Epimeteo e di Pandora. Gli Dei fecero ai suoi dì perire tutti gli uomini con un diluvio universale, perchè erano troppo scellerati. Tutta la superficie della terra fu inondata dalle acque ad eccezione di una sola montagna della Focide, il monte Parnaso, ove andò a fermarsi la piccola barca la quale portava Deucalione il più giusto degli uomini, e Pirra sua sposa la più virtuosa tra le donne, i soli che per essere gente dabbene gli Dei vollero eccettuare dal generale eccidio. Ritirate che si furono le acque andarono i due {p. 305}coniugi a consultare l’oracolo di Temi sul modo di ripopolare la terra e n’ebbero in risposta che si gettassero dietro le spalle le ossa della madre. Non compresero su le prime il senso dell’oracolo e furono allarmati da un ordine che parve loro crudele. Ma Deucalione dopo avervi riflettuto s’avvide che per madre dovevasi intendere la terra, madre comune, le ossa della quale erano le pietre. Riunite che n’ebbero buon numero, quelle gettate da Deucalione si convertirono in uomini e quelle gettate da Pirra in donne.

Gli altri animali, secondo alcuni mitologi, rinacquero da sè stessi dall’umida terra, tra quali citasi il serpente Pitone, che fu poi ucciso da Apollo.

Anche Cerambo, abitante del monte Otri in Tessaglia, si ritirò sul Parnaso per sottrarsi al diluvio di Deucalione e fu cangiato in uccello dalle Ninfe di quella montagna, o secondo altri, trasformato in quella specie di scarabeo che ha le corna.

{p. 306}La favola di Deucalione e di Pirra è fondata su la storia. Sotto il regno di Deucalione re di Tessaglia, il corso del fiume Peneo fu fermato da un terremoto nel luogo ove questo fiume ingrossato dalle acque di quattro altri va a scaricarsi nel mare. In quell’anno stesso cadde tanta acqua che tutta la Tessaglia fu inondata. Deucalione e que’ pochi sudditi che fuggirono si salvarono con lui sul monte Parnaso, e venute meno le acque scesero nella pianura. Le pietre misteriose che ripopolarono il paese furono forse i figli di quelli che si salvarono dall’inondazione. Deucalione ebbe da Pirra due figli. Elleno che alcuni mitologi chiamano figlio di Giove, ed Anfittione che regnò nell’Attica. Ebbe inoltre una figlia per nome Protogenea la quale fu amata da Giove che la rese madre di Etlio. L’epoca del diluvio di Deucalione dovrebbe essere verso l’anno 1560 avanti l’era volgare.

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Perseo §

Perseo re di Argolide uno de’ più famosi eroi della antichità era figlio di Giove e di Danae unica figlia di Acrisio re di Argo. Acrisio era figlio di Abante ed aveva un fratello chiamato Preto ch’egli detestava. Avendo Acrisio inteso dall’oracolo ch’ei sarebbe stato ucciso dal figlio di Danae, la fece chiudere in una torre di bronzo, ove la tenne ben custodita risoluto di non maritarla mai. Giove però cambiato in pioggia d’oro penetrò nella torre, e dopo nove mesi Danae diede alla luce un figlio chiamato Perseo. Pretendono alcuni, ma son creduti da pochi, che quegli che s’introdusse nella torre fosse Preto e che da ciò ne naeque {p. 308}l’odio implacabile che regnò tra i due fratelli. Conscio che fu Acrisio della nascita di Perseo fecelo esporre colla madre in una sdruscita nave nel mare sperando che i flutti non tardassero ad inghiottirli, ma fu deluso nella sua speranza perchè il naviglio fu trasportato sulle coste dell’isola di Serifo una delle Cicladi nel mar Egeo e raccolta da un pescatore nomato Ditti il quale condusse la madre ed il figlio a Polidete sovrano dell’isola, che dicesi da alcuni fratello a Ditti. Il re accolse cortesemente la madre e diede il fanciullo ai sacerdoti del tempio di Minerva perchè lo educassero.

Perseo divenne grande e vigoroso e siccome Polidete lo temeva e proponevasi di sedurre Danae di cui era innamorato, cercò di allontanarlo dalla sua corte. Finse Polidete di voler dare un pranzo ai suoi amici purchè ciascuno dei convitati gli facesse dono d’un cavallo ; ed invitò. {p. 309}Perseo perchè sapeva che non ne aveva. Questo giovine ardente di far prova del suo coraggio offerse di portargli invece del cavallo la testa di Medusa, una delle tre Gorgoni, la sola che fosse mortale ; cui Pallade per punirla di aver amoreggiato con Nettuno nel suo tempio aveva cangiato i capelli in serpenti, ed aveva prescritto che chiunque la riguardava dovesse rimanere pietrificato. Accettò Polidete la proposizione perchè sembrandogli impossibile il buon successo avrebbe almeno tenuto per lungo tempo lontano Perseo. Ma siccome questo giovine era amato dagli Dei essi vennero in suo soccorso. Mercurio gli prestò le ali ed i talari alati ; Vulcano una scimitarra di diamanti fatta a forma di falce ; Plutone l’elmo che rendeva invisibile chi lo portava, e Pallade uno scudo che risplendeva ad uso di specchio. Armato in tal guisa ed assistito da Minerva partì, vinse {p. 310}le Gorgoni e tagliò la testa di Medusa che portò seco.

Volando sempre in balía de’ venti, salito sul caval Pegaso, vedendo che il giorno era vicino a fmire, si fermò in Mauritania per riposarvisi fino al ritorno dell’Aurora. Chiese l’ospitalità per quella notte soltanto al re Atlante facendosi conoscere per figlio di Giove. Atlante rammentandosi di un oracolo antico che gli aveva annunciato di diffidarsi di un figlio di Giove che gli avrebbe un giorno rapiti i più bei frutti del suo giardino, gli negò l’ospitalità e lo scacciò. Perseo non potendosi misurare con Atlante che era un gigante di una enorme altezza, lo punì convertendolo nel monte dello stesso nome presentendogli il capo di Medusa, e gli rapì i pomi da lui accuratamente guardati.

Di là passò in Etiopia ove arrivò nel momento in cui Andromeda stava per {p. 311}finire i suoi giorni divorata da un mostro marino colà mandato dalle Nereidi, che l’avevano prima legata nuda ad uno scoglio per ordine di Giunone e per espiare il delitto della propria madre Cassiopea che aveva gareggiato per la bellezza con Giunone e le Nereidi. Perseo la salvò uccidendo il mostro. Cefeo padre di Andromeda e la madre di lei Cassiopea accolsero colla più grande gioia Perseo, che riconobbero pel liberatore della figlia e gliela accordarono in isposa. Ebbe nondimeno prima di averla a combattere contro Fineo fratello di Cefeo cui Andromeda era stata innanzi promessa ; e dopo aver uccisi vari delle genti di Fineo, scoprendo il capo di Medusa pietrificò tutti gli altri con Fineo medesimo.

Sposata ch’ebbe Andromeda Perseo tornò in Grecia. Pietrificò col teschio di Medusa Preto che aveva scacciato Acrisio dal regno di Argo, convertì pure in {p. 312}pietra Polidete che invidioso della gloria di lui cercava ogni mezzo di diffamarlo ed inquietava con ogni sorta di violenze Danae, e per ultimo trasmutò in sasso lo stesso Acrisio che volevagli contrastare il passaggio pe’ suoi stati.

Posto sul trono Ditti fratello di Polidete, restituì a Mercurio le ali e i talari, a Plutone il càsco, a Vulcano la spada ed a Pallade lo scudo ; e siccome aveva dei particolari doveri di riconoscenza verso quest’ultima, le fece dono della testa di Medusa ch’essa non mise su lo scudo ma su l’egida.

Sostengono altri che Perseo trovandosi a Larissa volle far prova della sua destrezza nel lanciare il disco da lui inventato e che ebbe la disgrazia di uccidere innocentemente Acrisio con un colpo di piastrella, verificandosi in tal modo quanto aveva predetto l’oracolo.

{p. 313}Intanto il dolore provato da Perseo per la morte del suo avolo gli fece abbandonare il soggiorno di Argo e andò a fabbricare una nuova città denominata Micene.

Perseo unitamente ad Andromeda, Cefeo e Cassiopea furono dopo la loro morte portati in cielo e collocati fra le costellazioni.

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Atlante §

Atlante figlio di Giove e di Climene, gigante di grandezza e di forza straordinaria era re di Mauritania oggi stato di Marocco. Divenne celebre per le sue cognizioni astronomiche ; fu il primo per quanto narrasi che rappresentò la terra sotto la forma sferica per cui si dice che portava il cielo.

Si narra da altri che Giove lo condannò veramente a sostenere colle sue spalle il cielo per aver prestato dei soccorsi ai giganti ribellatisi al supremo Nume. Atlante era il padrone del giardino delle Esperidi in cui si conservavano i pomi d’oro. Avvertito dall’oracolo di {p. 315}guardarsi da un figlio di Giove, si decise a non ricevere più alcuno in casa sua. Perseo vi andò, come abbiam già visto, ed essendogli negata l’ospitalità, n’ebbe tanto sdegno, che facendo vedere ad Atlante la testa di Medusa, converselo in una così alta montagna, che l’occhio non giugne a scoprirne la sommità.

Atlante si rappresenta per l’ordinario in atto di sostenere un globo colla testa, il collo e le spalle.

Atlante ebbe da Pleïone sette figlie chiamate Elettra, Alcione, Celeno, Maia, Asterope, Taigete e Merope. Furono esse cangiate in istelle e collocate sul petto del toro, uno de’ dodici segni dello zodiaco, perchè il padre loro aveva voluto sapere i secreti degli Dei.

Esse formano una costellazione chiamata le Pleaidi.

Da Etra ebbe Atlante altre sette figlie : Ambrosia, Eudosia o Endora, Pasitoe, {p. 316}Coronide, Polisso, Fileto e Tienea sorelle di la che venne divorato da un leone. Fu tanto il dolore che provarono le figlie di Atlante per la morte del loro fratello e sparsero tante lacrime, per cui Giove commosso dal loro compassionevole stato le cangiò in istelle e le pose su la fronte del toro, ov’esse piangono tuttora.

Si racconta da altri che le Iadi erano ninfe trasportate in cielo da Giove e convertite in astri, per sottrarle alla collera di Giunone che voleva punirle delle cure da esse avute per educare Bacco.

La costellazione formata dalle Iadi è foriera di pioggia e di cattivo tempo. Questa costellazione nomasi da alcuni Ia dal nome del fratello delle Iadi.

Fanno alcuni queste Ninfe figlie di Cadmo. Altri pretendono che le figlie di Atlante dette Atlantidi non fossero che sette dette dai Greci Iadi, Pleiadi dai Latini.

Da molti Atlante si vuole padre delle Esperidi.

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Teseo, Piritoo, Ippolito, Fedra e i Centauri §

Teseo nacque in Trezene città di Morea o in Tracline di Tessaglia, come vogliono alcuni, da Etra figlia del re Pitteo, la quale fu moglie prima di Nettuno, poscia di Egeo re di Atene, onde fu Teseo riguardato da alcuni figlio di quel Dio, da altri di Egeo. Teseo vantavasi di nascere da Nettuno. Qualunque siasi la sua origine diede egli segni di straordinario valore e marciò su le orme di Ercole ; fu ammesso tra i Semidei e creduto il maggiore di essi dopo Ercole.

Fu sempre nemico del vizio. Purgò l’Attica dai ladri che la infestavano. {p. 318}Liberò il suo paese dal vergognoso tributo che pagava a Minosse, salvandosi dai pericoli che avrebbe corso in tale difficile impresa coll’assistenza di Arianna figlia di Minosse innamoratasi di lui. Ucciso che ebbe il Minotauro tornò ad Atene ove riformò le leggi e stabilì alcune feste. Rinnovò in onore di Nettuno i Giuochi Istmici, come Ercole aveva rinnovato gli Olimpici. Trovossi al combattimento dei Centauri, alla conquista del toson d’oro, alla caccia del cignale di Calidona e secondo alcuni alle due guerre di Tebe. Rapì alcune donne fra le quali Elena, Arianna e Fedra, ma le restituiva quando non se ne compiacevano. Ne abbandonò alcune, fra le altre Arianna. Accompagnò Ercole nel combattimento contro le Amazzoni e ne sposò la loro regina Antiope o Ippolita. Discese all’inferno con Piritoo per aiutarlo a rapir Proserpina. Piritoo fu divorato dal can Cerbero e Teseo fu {p. 319}condannato da Plutone ad essere legato ad un sasso e vi stette finchè Ercole, o come altri vogliono, Euristeo, non andò a liberarlo ; ed era stato sì strettamente legato a quel sasso, che vi lasciò attaccata una parte della pelle.

Egli aveva avuto da Antiope o Ippolita un figlio chiamato Ippolito. Fedra di lui matrigna furiosa perchè non aveva voluto corrispondere alla criminosa di lei passione lo accusò al padre di aver attentato al di lei onore ; Teseo troppo credulo abbandonò il figlio al furore di Nettuno, il quale fece sortire dal mare un mostro che spaventò i cavalli di Ippolito mentre questi se ne giva verso il mare, e presa la fuga, mandarono il carro in pezzi ed Ippolito strascinato per le rupi morì miseramente. Alle preghiere di Diana Esculapio lo risuscitò e questa Dea lo converse in istella.

{p. 320}Fedra punta da rimorso confessò a Teseo l’innocenza d’Ippolito, poi disperata s’uccise ; e Teseo addolorato per l’ingiusta morte del figlio, non ebbe da quel momento più pace.

Il ritorno di Teseo in patria fu prima fatale ad Egeo. Questi gli aveva ordinato che tòrnando salvo in patria, per dargliene indizio, cangiasse in bianche le nere vele con cui era partito ; ma Teseo dimenticò il comando del padre, sicchè questi vedendo da lungi tornar il naviglio colle nere vele, e credendo il figlio estinto, per duolo affogossi nel mare, che da lui prese il nome di mar Egeo ora Arcipelago.

Ribellatisi finalmente i suoi sudditi contro di lui e vedendosi disprezzato dagli Ateniesi, Teseo si ritirò a Sciro per finirvi tranquillamente i suoi giorni in una vita privata, ma il re Licomede geloso della sua fama, lo fece precipitare {p. 321}dall’alto di una rupe ove lo aveva attirato sotto pretesto di fargli vedere le circostanti campagne.

Alcuni secoli dopo gli Ateniesi ripararono la loro ingratitudine verso Teseo rendendo onori divini alle sue ceneri. Fabbricarongli una superba tomba in mezzo della città, e gli innalzarono un tempio, in cui gli facevano dei sacrifici.

Siccome il nome di Teseo risonava altamente per tutta la Grecia, Piritoo figlio d’Issione re de’ Lapiti o secondo altri di Giove e di Melata moglie di Issione, invidioso della gloria di lui, venne colle sue genti nell’Attica per provarsi con esso : ma appena si videro i due valorosi giovani cangiato l’odio e l’invidia in ammirazione ed amore, si strinsero colla più ferma amicizia.

Giovò assaissimo a Piritoo l’amicizia di Teseo nella pugna che egli ebbe contro i Centauri. Perciocchè avendo egli alle {p. 322}sue nozze con Ippodamia figlia di Enomao invitato i Centauri, Folo lor capo tentò di rapirgliela ; ma coll’aiuto di Teseo i Centauri furono debellati e Ippodamia ad essi ritolta.

S’invogliò poscia Piritoo d’aver Proserpina figlia di Cerere e moglie di Plutone, e pregò Teseo a voler seco scendere nell’inferno per indi rapirla : ma Piritoo nel primo ingresso fu divorato dal can Cerbero, e Teseo condannato a seder immobile su di un sasso, finchè ne venne liberato da Ercole. Vuolsi da molti che questa Proserpina fosse moglie di Edomo re dell’Epiro, per toglier la quale essendo andati Teseo e Piritoo, il secondo fu ucciso, il primo imprigionato e liberato poi da Ercole.

Si pone Piritoo nel numero dei famosi scellerati che sono nel Tartaro puniti.

I Centauri mezzo uomini e mezzo cavalli abitavano un paese della Tessaglia. {p. 323}Andavano armati di clava ed erano destri nell’uso dell’arco. Variano le opinioni su l’origine di questi mostri favolosi.

Ecco ciò che narrasi riguardo all’accidente che ha dato l’idea dei Centauri. Una quantità di buoi o di tori divenuti furiosi devastavano le terre vicine del monte Pelia in Tessaglia. Alcuni giovani che avevano pei primi addestrati in que’paesi dei cavalli si proposero di liberare la montagna da quegli animali e vi riescirono. Divenuti arditi per questi successi insultarono i Lapiti popoli della Tessaglia, i quali vedendoli ritirarsi con un’estrema sveltezza dopo aver scoccate le loro frecce, li giudicarono da lontano mezzo uomini e mezzo cavalli. Ercole, Teseo, Piritoo ne uccisero un gran numero ed obbligarono gli altri a fuggire.

Narrasi pure che i Centauri essendo la maggior parte parenti del re di Tessaglia, vollero partecipare alla successione di lui ; {p. 324}ed avendo Piritoo ricusato di dividere il dominio con loro, essi gli mossero guerra. Dopo qualche ostilità d’ambe le parti, il giovine principe fece alcune trattative di pace con essi, pace che non durò lunga pezza ; imperciocchè avendoli invitati alle sue nozze essi risolvettero di rapire Ippodamia sposa di lui e le altre donne che assistevano a questa festa.

Ercole, Teseo e gli altri Lapiti vendicarono l’onore di Piritoo e fecero grandissima strage de’Centauri.

I più rinomati tra i Centauri furono Cauma, Chirone, Eurito, Amico, Folo ed Anfione.

Dagli scritti di alcuni autori e da varie opere di antichi artisti come bassirilievi, sculture, ecc. scorgesi che esistettero pei mitologi anche delle Centauresse.

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Cadmo §

Cadmo principe Fenicio, fondatore di Tebe in Beozia, era figlio di Agenore re di Fenicia e di Telefassa, o secondo altri di Argiope o Agriope, e nipote, per parte di suo padre, di Nettuno e di Libia. Europa sua sorella essendo stata rapita da Giove, Agenore che ignorava la qualità del rapitore, ordinò a Cadmo e agli altri suoi figli di andarne in traccia per ogni parte e di non ritornare senza di lei.

Cadmo, dopo molti viaggi, avendo perduta la speranza di trovarla, risolvette di stabilirsi nella Grecia. Egli consultò quindi l’oracolo di Apolline e n’ebbe in risposta : « Troverai in un vicino campo una giovenca ; seguila e fonda una città nel {p. 326}pascolo ove essa si fermerà : darai a quel paese il nome di Beozia. » Cadmo appena sortito dall’antro di Apollo incontrò la giovenca. Ei la seguì, e allorchè si fermò volle, avanti gettare le fondamenta della nuova città, dimostrare la sua riconoscenza agli Dei con un sacrificio. A tal fine mandò i suoi compagni a cercare acqua in un vicino bosco consacrato a Marte, ma un dragone che aveva in custodia questo luogo li divorò tutti. Cadmo per consiglio di Minerva attaccò il drago e lo uccise. Ne seminò indi i denti dai quali nacquero degli uomini che si uccisero immantinenti tra di loro, eccetto cinque i quali lo aiutarono a fabbricare la città di Tebe nel luogo appunto ove lo condusse la giovenca di cui aveva parlato l’oracolo.

Per conciliare la favola che dice che le mura di Tebe furono innalzate dall’armonia della lira di Anfione, prentendono alcuni che Cadmo non abbia fondata che {p. 327}una cittadella, la quale pigliò da lui il nome di Cadmea e ch’egli abbia gettato soltanto le fondamenta della città.

Allorchè Tebe fu edificata Cadmo stabilì delle leggi per far regnare la pace tra gli abitanti. Sposò Ermione figlia di Marte e di Venere, chiamata Armonia da alcuni mitologi. Questo maritaggio ebbe felicissimi principii. Cadmo si vedeva genero di due grandi divinità e amato del pari che rispettato da’suoi sudditi ; egli era padre di un figlio chiamato Polidoro e di quattro bellissime fanciulle Ino, Agave, Autonoe e Semele.

La gelosa ed implacabile Giunone non potè tollerare a lungo tale felicità. Questa Dea non poteva obliare che Cadmo era fratello di Europa, sua rivale. La prima sciagura ch’ella gli cagionò, si fu la disgrazia di Atteone figlio di Autonoe. Semele fu uccisa dal fulmine di Giove ; Penteo, figlio di Agave, fu lacerato dalle {p. 328}Baccanti ; Ino divenuta furiosa si precipitò nel mare. La famiglia di Polidoro non ebbe miglior fortuna ; questo principe fu avo di Laio, ucciso da Edipo suo proprio figlio.

Cadmo cedendo al fine al dolore che gli cagionavano tante sciagure avvenute nella sua famiglia, abbandonò il soggiorno di Tebe e dopo aver lungamente errato in diversi paesi, giunse in Illiria con Ermione sua sposa, che avevalo sempre accompagnato. Oppressi entrambi dal peso degli anni e delle sventure, pregarono gli Dei di porre fine alla loro vita, e tosto furono cangiati in serpenti, o secondo altri, furono mandati da Giove nei Campi Elisi, sopra un carro tirato da serpenti.

Vuolsi che Cadmo insegnasse ai Greci l’uso delle lettere o dell’alfabeto.

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Castore e Polluce §

Castore e Polluce erano figli di Giove e di Leda e fratelli di Elena e di Clitennestra. Così raccontansi le circostanze della loro nascita. Giove amando Leda si era trasformato in cigno per riescire ne’suoi amori. Questa principessa partorì due uova ; uno contenente Castore e Clitennestra, tutti e due mortali, era stato fecondato da Tindaro di lei marito ; l’altro fecondato da Giove produsse Polluce ed Elena che partecipavano dell’immortalità di colui da cui traevan la loro origine.

I due fratelli legatisi colla più stretta amicizia, sì teneramente si amavano che uno non abbandonava mai l’altro. Si accinsero prima di tutto a purgar {p. 330}l’Arcipelago dai pirati che lo infestavano, e furono perciò messi tra il numero degli Dei marini e come tali invocati nelle tempeste. Seguirono Giasone in Colchide e contribuirono alla conquista del vello d’oro.

Ritornati nella loro patria ripresero la loro sorella Elena ch’era stata rapita da Teseo. Caddero però in breve anch’essi nello stesso fallo di cui avevan voluto punire quell’eroe. Rapirono essi due bellissime giovinette promesse in ispose a Linceo e a Ida. Inseguiti dagli amanti e venuti a combattimento, Castore fu ucciso da Linceo, cui diede morte Polluce ferito anch’esso da Ida. Polluce afflitto per la morte del fratello pregò Giove che rendesse questi alla vita e togliesse a lui medesimo la sua immortalità. Tutto ciò ch’egli potè ottenere si fu che passerebbe nel regno de’morti tutto il tempo che Castore resterebbe sulla terra ; di maniera che vivevano e morivano alternativamente ogni {p. 331}giorno o, secondo altri, di sei in sei mesi. I Greci li ammisero tra il numero de’loro Dei. A Sparta ove nacquero ed ove ebbero la tomba fu loro innalzato un altare, e ne sorse pure un altro in Atene ch’essi avevano salvato dal saccheggio. Erano riguardati come divinità favorevoli ai navigatori. I Romani fabbricarono in loro onore un tempio ed offrivano loro in sacrificio degli agnelli bianchi. Castore proteggeva quelli che si disputavano il premio nella corsa de’cavalli, e Polluce proteggeva i lottatori, perchè tutti e due i fratelli avevano guadagnato il premio ai Giuochi Olimpici.

Furono tutti e due trasportati in cielo, convertiti in astri e collocati nella costellazione de’Gemelli uno de’dodici segni dello zodiaco. Ebbero amendue il nome comune di Dioscuri ossia figli di Giove, e di Tindaridi ossia figli di Tindaro ; ed i navigatori come si è già detto li avevano in grande venerazione perchè il loro apparire dicevasi apportator del bel tempo.

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Orfeo, Euridice §

Orfeo uno de’ più celebri e de’ più augusti personaggi dell’antichità fu legislatore, teologo, poeta, celebre cantore, viaggiatore e guerriero. Esso era figlio di Oeagro o Eagro re di Tracia e della musa Calliope. Per dare maggior splendore alla sua nascita e ai talenti di lui venne in seguito pubblicato ch’egli era figlio di Apollo e della musa Clio e questa opinione adottata da alcuni poeti è divenuta quasi generale.

Narrasi che Apollo, o secondo altri, Mercurio gli fece dono di una cetra cui egli aggiunse due eorde alle sette che già aveva quell’ istrumento. Era egli tanto {p. 333}eccellente nel trarne melodiosi suoni, e nell’accompagnare con quelli la propria voce, che fin le cose insensibili allettava ; le più feroci belve accorrevano a quella soave melodia e vi erano per anco attratti gli augelli ; al dolce suono della sua lira tacevano i venti, il lor corso fermavano i fiumi e gli alberi danzavano ; poetiche esagerazioni per dinotare o la perfezione de’ suoi talenti, oppure l’arte mirabile ch’ei seppe porre in uso onde raddolcire i feroci costumi dei Traci di que’tempi, e ridurli dalla vita selvatica alle dolcezze d’una incivilita società. Filosofo e teologo, giuns’egli ben tosto a possedere simultaneamente la dignità di pontefice e quella di re, dignità per la quale ebbe il titolo di ministro e d’interprete dei cieli. Oeagro di lui padre gli aveva già dato le prime lezioni di teologia iniziandolo ai misteri di Bacco, ed i suoi diversi viaggi in tal guisa in questa scienza lo {p. 334}perfezionarono, ch’egli è riguardato siocome il padre della pagana teologia.

Incantate dai soavi accordi della sua cetra le Ninfe delle acque e delle foreste, dovunque lo seguivano per udirlo, e di averlo in isposo ardentemente desideravano. La sola Euridice figlia di Nereo e di Dori, la cui modestia era pari all’avvenenza, gli parve degna dell’amor suo ; la sposò quindi, e fu da quella teneramente amato ; ma poco tempo dopo l’imeneo, ebb’egli la disgrazia di perderla per la morsecchiatura d’un serpente, mentre ella fuggiva dal giovine Aristeo figlio di Apollo e della ninfa Cirene che per farle violenza la inseguiva. Orfeo inconsolabile si credette in dovere di rintracciarla sin nci regni della morte ; prese egli la sua lira, discese pel Tenaro sulla riva di Stige e a quella accoppiando il doloe e commovente suono della sua voce, dilettò le infernali divinità, e sospese i tormenti delle colpevoli ombre.

{p. 335}Tantalo dimenticò la sua sete, la ruota d’Issione si arrestò, gli avoltoi intenti ad isbranare il cuore di Tizio gli diedero qualche istante di tregua ; le Danaidi si trattennero dal riempir d’acqua il loro vaglio ; Sisifo si assise tranquillo su la sua rupe ; le Furie stesse ne furono commosse, e versarono in quella circostanza per la prima volta delle lagrime. Plutone e Proserpina, egualmente inteneriti, acconsentirono di restituirgli la sposa, col patto ch’ei dovesse essere preparato a perderla per sempre e senza speranza di più riacquistarla, ove si fosse a lei rivolto per mirarla, prima d’uscire dai limiti del loro impero. Non gli restava a fare che un passo ed avrebbe riveduta la luce colla sua amata Euridice ; l’impazienza lo tradisce, egli si ferma ; si volge per vedere se la moglie lo segue e nel momento stesso Euridice gli è tolta per sempre. Essa gli stende le braccia ; egli tenta di afferrarla ma non {p. 336}abbraccia che un’ombra vana. Orfeo oppresso dal dolore vorrebbe rientrar nell’inferno, ma l’inflessibile Caronte non gli permette di ripassare il fiume. Vuolsi che restasse sette giorni su le rive dell’Acheronte senza prender alcun cibo, pascendosi del suo dolore e delle sue lagrime. Si ritirò poscia sul monte Rodopo nella Tracia, cercando di vivere solitario nei boschi, piangendo continuamente la sua perdita e divenuto insensibile all’amore ricusò costantemente di legarsi con un nuovo imeneo. Le donne di Tracia tentarono ogni via per fargli rinunciare ad un genere di vita meno triste e selvatico, impegnandolo a contrarre delle nuove nozze, ma vani riuscirono i loro sforzi. Irritate per vedersi disprezzate, profittarono dei giorni sacri alle feste di Bacco per vendicarsi dell’insultante rifiuto. Trasportate di furore, in tempo delle Orgie, lo assalirono, lo ridussero in pezzi, ne {p. 337}dispersero le membra, e gettarono la testa di lui nell’ Ebro ora Maritza fiume di Tracia che nel mar Egeo mette le sue foci. Così la morte di una sol donna rapì ad Orfeo la pace e la vendetta di molte gli tolse la vita.

Variano i racconti su la morte di Orfeo ; avvi chi pretende che nell’eccesso del suo dolore si uccidesse da sè stesso, altri lo fanno perire di un colpo di folgore, per castigo di aver egli ad alcuni profani rivelati i misteri.

La testa di lui trasportata dai flutti, si fermò presso l’isola di Lesbo, e dicesi che dalla sua bocca udivansi uscire tristi e lugubri suoni che erano dall’eco ripetuti ; e che un serpe voleva morderla nel momento che apriva la bocca, ma Apollo lo cangiò in rupe e lo lasciò nell’attitudine di un serpe che sta per mordere. Quella testa fu tenuta in grande venerazione presso i Lesbi, i quali {p. 338}come un oracolo la consultavano. La lira d’Orfeo fu trasportata in ciclo e gli Dei ne fecero una costellazione. Le donne omicide furono da Bacco mutate in piante ; e i due infelicissimi coniugi furono riuniti nei Campi Elisi e posti nel soggiorno destinato agli amanti virtuosi.

Orfeo rappresentasi ordinariamente con una lira in mano o un liuto.

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Antiope, Zeto §

Antiope moglie di Lico re di Tebe fu ripudiata da suo marito per sospetto che fosse invaghita di Epafo o Epopeo re di Sicione.

Essendo Antiope restata incinta di Giove, Dirce seconda sposa di Lico, sospettò suo marito, e fece rinchiudere Antiope in una stretta prigione ; ma Giove la liberò e la nascose sul monte Citerone, ov’ella diede in luce due gemelli Anfione e Zeto, i quali furono allevati dal pastore che aveva dato ospitalità alla loro madre.

Le inclinazioni di questi due fratelli furono diverse. Zeto si diede alla cura delle gregge e Anfione coltivò la poesia e la musica, facendo tanti progressi in {p. 340}quest’ultima che passò per inventore di tale arte. Alcuni accertano che Mercurio gliene insegnò i principii, e gli donò una lira alla quale Anfione aggiunse tre corde. Vien anche asserito che questo musico innalzò il primo altare del quale sia stato onorato Mercurio nella Grecia. Altri dicono che Anfione ricevesse la lira dalle mani delle Muse.

Divenuti grandi i due fratelli, e istruiti dei mali trattamenti che Dirce aveva fatto subire alla loro madre radunarono delle truppe, colle quali s’insignorirono della città di Tebe, uccisero Lico, e attaccarono Dirce alla coda di un toro indomito.

Alcun tempo dopo Anfione costruì le mura di Tebe al suono della sua lira : le pietre sensibili alla soavità de’suoi concenti andavano da sè stesse a porsi le une su le altre. Egli vi fe’ sette porte e diverse torri, che situò ad eguali distanze. Vedevansi ancora a Tebe al tempo degli {p. 341}Antonini, vicino alla tomba di questo principe, molte pietre rozze, che dioevansi essere un avanzo di quelle ch’egli aveva fatte venire al suono della sua lira.

Non è difficile l’intendere che i poeti nel dirci che Anfione aveva edificato le mura di Tebe col suono della sua lira, che indipendentemente del suo talento nel maneggiare questo istromento, egli era stato abbastanza eloquente per persuadera ad un popolo rozzo, come aveva fatto Orfeo a quello di Tracia, di abbandonare le campagne e le foreste per ritirarsi in una città, e porsi con buone mura al ricovero de’nemici e delle bestie feroci.

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Lino §

Lino era figlio di Apollo e di Tersicore o di Euterpe o di Urania secondo altri. Gli si attribuisce l’invenzione dei versi lirici e delle canzoni. Ebbe da Apollo la lira a tre corde di lino. Ma per aver esso sostituite a queste le corde di budella molto più armoniose, il Dio, divenutone geloso, lo uccise. Gli abitanti del monte Elicona prima di sacrificare alle Muse, facevano ogni anno l’anniversario di lui.

Questo non è lo stesso Lino che insegnò la musica ad Ercole, il quale in un trasporto di collera lo uccise con un colpo di lira, perchè lo aveva aspramente rampognato, ed anche contraffatto per la {p. 343}cattiva sua maniera di maneggiare quell’istromento. A questo Lino che era Tebano e secondo alcuni fratello di Orfeo si attribuiscono diverse opere, cioè quelle sull’origine del mondo, sul corso del sole e della luna, sulla natura degli animali e delle piante. Si fa l’inventore auche dei canti lamentevoli.

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Giasone, Medea, Chirone, Fineo, gli Argonauti, il vello d’oro, ecc. §

Giasone era figlio di Esone re di Iolco nella Tessaglia e di Alcimeda o Polimila. Suo padre fu balzato dal trono dal fratello Pelia ; l’oracolo predisse a quest’ultimo che sarebbe scacciato da un figlio di Es one. Quindi appena Giasone vide la luce suo padre fece sparger la voce che il bambino era gravemente ammalato ; e pochi giorni dopo ne pubblicò la morte, facendo tutti gli apparecchi pei funerali, mentre la madre lo portava segretamente {p. 345}sul monte Pelio ove il centauro Chirone, il più saggio degli uomini del suo tempo, prese cura della sua educazione e gl’insegnò le scienze delle quali egli medesimo faceva professione, e specialemente la medicina ; per cui il giovine principe cambiò il suo primo nome di Diomede in quello di Giasone. Pretendono alcuni che fosse Pelia medesimo che desse Giasone ad educare a Chirone regnando egli intanto negli stati del nipote.

Volendo Giasone giunto in età di venti anni sortire dal suo ritiro, recossi a consultare l’oracolo, dal quale gli venne ordinato di vestirsi alla maniera dei Magnesi e di aggiungere a tale abbigliamento una pelle di leopardo simile a quella portata da Chirone, di munirsi di due lance e portarsi in tal guisa alla corte di Iolco, lo che egli eseguì. Giunto Giasone in lolco trasse a sè gli sguardi di tutto il popolo per la bella sua presenza e pel suo {p. 346}abito straordinario : si fece conoscere pel figlio di Esone e domandò francamente allo zio il trono paterno. Pelia odiato dal popolo, avendo notato l’interessamento che il giovine principe a tutti inspirava, non osò opporsegli apertamente, ma cercò la via di perderlo con segretezza. Tormentato da lungo tempo da terribili sogni, fa consultare l’oracolo di Apollo e questi risponde che bisogna placare l’ombra di Frisso discendente da Eolo, crudelmente trucidato nella Colchide e trasportarlo in Grecia ; di più aggiunge che Frisso costretto d’allontanarsi da Tebe, ha portato seco un preziosissimo vello, la cui conquistà deve colmar esso Pelia di ricchezze e insieme d’onore. L’età avanzata di questo usurpatore è un ostacolo a sì lungo viaggio. Giasone nel fior della gioventù può solo intraprenderlo ; il suo dovere e la gloria lo invitano ; e Pelia giura per Giove dal quale hanno tutti e due origine che al suo {p. 347}ritorno gli darà il possesso del trono che gli appartiene. Giasone era in quella età in cui si va in traccia della gloria, perciò colse avidamente l’occasione che gli si presentava per acquistarne.

Fu annunciata per tutta la Grecia questa spedizione ed accorse in folla a Iolco il fiore degli eroi greci per prendervi parte ed accompagnare Giasone. Ne scelse cinquantaquattro de’ più famosi. Ercole stesso si unì a loro, e concedette a Giasone l’onore d’essere il loro capo e condottiero, siccome a quello cui per prossimità di parentela con Frisso, spettavasi più d’ogn’altro quella spedizione. Prima di sciogliere le vele, Giasone offrì un sacrifizio a quelle divinità della cui assistenza credeva poter abbisognare nella sua intrapresa. Giove promise colla voce del tuono il suo soccorso a quella truppa di eroi, la quale finito il sacrificio, s’imbarcò. Dopo una lunga e pericolosa {p. 348}navigazione le cui avventure hanno fornito il soggetto di due poemi, l’uno greco di Apollonio, l’altro latino di Valerio Flacco, gli Argonauti arrivarono finalmente in Colchide regione dell’Asia, su la costa orientale del ponte Eusino oggi mar Nero e precisamente nell’odierna Mingrelia nella Giorgia. Colà era appeso ad un albero il vello d’oro portatovi da Frisso, custodito da due tori vomitanti fiamme e da un orribile drago. Giunone e Minerva che proteggevano Giasone, fecero sì che Medea figlia di Eete re della Colchide, famosa maga, divenisse amante di Giasone affinchè colla sua arte lo assistesse a superare tutti i pericoli cui si doveva esporre. Medea e Giasone s’incontrarono fuori della città presso il tempio di Ecate, ove amendue recati si erano per implorare il soccorso di quella Diva. Medea che già incominciava ad interessarsi affettuosamente per Giasone, gli promise il soccorso {p. 349}dell’arte sua, purchè egli volesse darle la sua fede. Dopo reciprochi giuramenti si separarono, e Medea andò subito a preparare ciò che erale necessario per salvare il suo amante. Le condizioni prescritte da Eete a Giasone e colle quali acconsentiva di rimettergli il vello d’oro, erano le seguenti.

Giasone prima di tutto doveva mettere il giogo ai tori, opera di Vulcano, i quali avevano e piedi e corna di bronzo e vomitavano vortici di fiamme ; indi doveva attaccarli ad un aratro di diamante e farli lavorare quattro iugeri di terreno in un campo consacrato a Marte, per seminarvi i denti di un dragone dai quali dovevano nascere degli uomini armati, ch’egli era tenuto di sterminare tutti ; senza che ve ne rimanesse un solo ; infine gli era imposto di uccidere il mostro che vegliava incessantemente alla custodia del vello d’oro ; e tutto ciò doveva {p. 350}esser fatto in un sol giorno. Certo dell’aiuto di Medea, Giasone accetta le condizioni, ammansa i tori, li sottopone al giogo, ara il campo, vi semina i denti del drago, lancia una pietra frammezzo ai combattenti sortiti dalla terra, li pone in tanto furore, che rivoltisi l’un contro l’altro tra di loro si uccidono ; colle erbe incantate e colla magica bevanda dategli da Medea addormenta il drago, lo uccide e l’aureo vello rapisce. I due amanti coi loro compagni si danno tosto alla fuga e veggendosi inseguiti, narrasi che Medea d’accordo col marito prese il barbaro partito di fare a pezzi il fratello Absirto, e gettarne sulla strada le sparse membra, affinchè il misero padre occupato a raccoglierle ritardato venisse ne’ suoi passi. Giunsero alla corte di Alcinoo re dei Feaci nell’isola di Corcira ora Corfù, ove Medea e Giasone celebrarono le loro nozze. Quivi gli Argonauti si dispersero e gli sposi {p. 351}ritornarono a Iolco, colla gloria di aver riuscito in un’impresa in cui Giasone doveva naturalmente perire.

Siccome Pelia non si decideva a restituire a Giasone il trono del padre, Medea trovò il mezzo di liberare il suo sposo da questo nemico, consigliando le figlie di Pelia che era oltremodo avanzato in età ad uccidere il padre loro e di farlo bollire in una caldaia di rame sulla lusinga di vederlo rinascere ringiovanito. Questo delitto non rendè però a Giasone la sua corona, perchè Acasto, figlio di Pelia, se ne impadronì e forzò il suo rivale ad abbandonare la Tessaglia ed a ritirarsi a Corinto con Medea. Creonte che ne era il re li accolse cordialmente ed accordò loro generosa ospitalità. Essi vissero in quel paese per dieci anni in perfetta unione, frutto della quale furono due figliuoli, finchè venne intorbidata dall’infedeltà di Giasone. Dimenticando questo principe {p. 352}quanto Medea aveva fatto per lui e le promesse fattele, s’invaglù di Glauce o Creusa figlia di Creonte, la sposò e ripudiò Medea. La vendetta seguì da presso l’ingiuria. Medea disperata di vedersi tradita e abbandonata ricorse all’astuzia. Finse per più sicura vendetta di essere contenta ch’egli passasse alle nuove nozze, e fe’ pure in suo nome presentare a Glauce una bellissima veste ; ma siccome questa era avvelenata, così appena Glauce se l’ebbe posta andò essa a fiamme con tutta la reggia. Nè paga di ciò Medea per isfogare vie più il suo furore uccise essa stessa colle proprie mani sotto gli occhi di Giasone i due figli che da lui aveva avuti e predisse al traditore marito che dopo aver vissuto molto tempo tormentato dal peso delle sue sventure, egli perirebbe colpito dagli avanzi del vascello degli Argonauti, ciò che gli accadde in fatti. Un giorno ch’egli stava riposando, su le rive {p. 353}del mare, riparato dai raggi del sole da quel vascello tirato a terra, una trave che se ne distaccò improvvisamente gli schiacciò la testa.

Narrano altri che Medea dopo aver uccisi i propri figli se ne fuggì per aria salita su di un carro tirato da draghi, andò in Atene ove sposò Egeo padre di Teseo da cui ebbe Medo il quale diede il suo nome alla Media.

Giasone poscia s’impadronì di Iolco, ove passò tranquillamente il resto della sua vita.

Chirone nacque dagli amori di Filira figlia dell’Oceano con Saturno che si era trasformato in cavallo per occultarsi a Rea sua sposa. Divenuto grande si ritirò su le montagne e nelle foreste ove cacciando con Diana acquistò la cognizione de’semplici e delle stelle. Questo Centauro viveva avanti l’acquisto di Troia. La sua grotta, situata appiè del monte Pelio in {p. 354}Tessaglia, divenne la più famosa scuola di Grecia. Cefalo, Esculapio, Telamone, Teseo, Ippolito, Ulisse, Castore e Polluce, Ercole, Enea, Giasone, Achille e molti altri furono suoi discepoli. Achille fu quegli per cui si pigliò, come avo materno, una particolare cura. Egli insegnò a tutti questi eroi la medicina, la chirurgia, la musica, l’astronomia. Fu egli che compose il calendario di cui si servirono gli Argonauti nella loro spedizione. Il Bacco greco fu per quanto si crede un discepolo favorito di Chirone che gl’insegnò le orgie, i baccanali e tutte le cerimonie del culto bacchico. Chirone portò a tal segno il suo talento per la musica, che giunse a guarire le malattie coi soli concenti della sua lira ed era tanto valente nella cognizione de’corpi celesti, che giunse a saperne allontanare ed a prevenirne le influenze funeste all’umanità. Nella guerra che fece Ercole ai Gentauri, sperando {p. 355}questi di calmare il furore dell’eroe con la presenza del suo antico maestro, si rifuggirono a Malea dove ritirato viveva Chirone ; ma Ercole non lasciò di assalirli, ed una delle sue frecce, tinta nel sangue dell’Idra di Lerna, mancò il segno e ferì invece Chirone in un ginocchio. Ercole disperato corse prontamente ed applicò un rimedio che aveva imparato dal suo antico precettore : ma il male era incurabile e l’infelice Centauro soffriva acerbi dolori, per cui pregò Giove di porre fine a’ suoi giorni. Il padre degli Dei, tocoo dalla sua sciagura, trasferì a Prometeo l’immortalità ch’era toccata a Chirone come figlio di Saturno, e pose il Centauro nello zodiaco, dove formò la costellazione del Sagittario.

Argonauti. Nome col quale si distinguono i principi greci che s’imbarcarono con Giasone per andare nella Colchide a fare la conquista del vello d’oro. Sono {p. 356}chiamati Argonauti dal nome della nave Argo su la quale s’imbarcarono. Se ne annoverano cinquantaquattro, benchè alcuni ne numerino cinquantadue, senza contare però le persone del seguito di ciascuno. Giasone promotore dell’impresa ne fu riconosciuto il capo. Tra questi principi i più distinti erano Castore e Polluce, Telamone figlio di Eaco e padre del famoso Aiace, i fratelli alati Calai e Zete figli di Borea e di Orizia, il poeta Orfeo, Teseo secondo alcuni, non nominato da altri, ed Ercole in fine, il quale perduto Ila, giovinetto di singolare beltà, nella Misia, ove fu rapito da alcune Ninfe presso ad un fonte ivi andato in cerca d’acqua, abbandonò i compagni per andar in cerca di quel giovinetto da esso molto amato. Anche i suoi compagni non poterono consolarsi per tal perdita e fecero eccheggiar le ripe all’intorno colle loro grida.

{p. 357}Argo figlio di Alettore co’legni del monte Pelio e con una quercia tolta alla selva Dodonea formò la nave che da’poeti fu celebrata come la prima nave che fosse costrutta e le diede il suo nome ; Tifi ne fu il piloto.

Gli Argonauti s’imbarcarono al capo di Magnesia in Tessaglia. Approdarono all’isola di Lenno che trovarono abitata da sole donne, le quali per vivere in loro balìa, avevano uccisi tutti gli uomini. La regina Issipile però, la quale meno inumana delle altre aveva furtivamente salvato il padre suo Toante, accolse ospitalmente Giasone, e a lui pure congiunta n’ebbe due figli Toante ed Euneo.

Continuando il loro viaggio arrivarono gli Argonauti in Tracia, dove furono istrutti dal re Fineo del modo onde superare gli scogli Cianei o Simplegadi, che urtandosi fra di loro impedivano l’uscita del Bosforo, e Giasone in ricompensa {p. 358}ordinò agli alati figli di Borea di scaociare le Arpie, che lordavano le mense di Fineo, e questi le inseguirono fino alle isole Plote che furono poi dette Strofadi ora Strivali.

Fineo secondo alcuni figlio di Agenore e secondo altri nipote di Agenore e figlio di Fenice e di Cassiopea sposò in prime nozze Cleopatra, che altri chiamarono Stenobea o Stenobae, da cui ebbe Orito e Crambo. Dopo la morte di lei in seconde nozze menò Arpalice figlia di Borea e di Orizia, ad istanza di cui accecò i figli, che dalla prima aveva avuti. Borea vendicò l’innocenza de’nipoti, accecando Fineo, il quale per sua consolazione ottenne di poter saper l’avvenire.

Ricevette Enea ne’suoi stati ; e Giunone e Nettuno mandarono le arpie Aello e Ocipete cui da alcuni si aggiunge Celeno figlie di Taumante e di Elettra o di Nettuno e della Terra, le quali lordavano le {p. 359}vivande di Fineo sulla tavola, per cui Fineo si sarebbe ridotto a morir di fame senza l’aiuto di Calai e di Zete che vennero a scacciare que’mostri.

Gli Argonauti entrarono nell’Ellesponto, costeggiarono l’Asia Minore, sboccarono nel ponte Eusino ed arrivarono sotto le mura di Aea, città sul fiume Phasis ora Fasz-Rione ed a sei leghe dalla sua imboccatura, capitale della Colchide ove regnava Eete, ed eseguita, come si è riferito, la loro intrapresa ripartirono per la Grecia inseguiti dal re Eete.

Fosse il timore di esser raggiunti da questo re, fosse la mira di evitare gli scogli Cianei, gli Argonauti, risalita la nave, traversarono il ponte Eusino, entrarono, secondo alcuni, nelle foci dell’Istro o Danubio, e se ne vennero contro acqua sino ai monti della Liburnia, parte settentrionale dell’Illiria ora Croazia e Morlachia, di dove trasportata la nave {p. 360}per terra nell’Adriatico, per esso e pel mar Ionio se ne tornarono a Iolco. Asseriscono alcuni che prima d’arrivarvi furono gettati su le coste d’Africa.

Vogliono altri che arrivassero nel mare di Sardegna passando il Faro di Messina, e che Teti e le sue Ninfe dirigessero la nave degli Argonauti a traverso Scilla e Cariddi. A Drepane o Corcira oggi Corfù incontrarono la flotta della Colchide che gl’inseguiva, ma riuscì loro di evitarne l’incontro. Furono gettati su gli scogli della costa d’Egitto, ma la protezione degli Dei li sottrasse anche a questo pericolo. Continuando il loro viaggio, sboccarono finalmente in Egina ed arrivarono in Tessaglia. Questo avvenimento sarebbe accaduto, secondo la cronologia, trentacinque anni prima della guerra di Troia.

Il Vello o Toson d’oro era la spoglia del montone che trasportò Frisso ed Elle {p. 361}nella Colchide, e la di cui conquista fu l’oggetto principale del viaggio degli Argonauti.

Varie sono le opinioni sull’origine di questo misterioso ariete. Dicono gli uni che all’istante in cui stavasi per immolare Frisso ed Elle, Mercurio diede a Nefele, loro madre, un montone d’oro al quale gli Dei avevano comunicato la prerogativa di traversare l’aria, e Nefele lo aveva dato ai suoi figli per sottrarli all’orribile sacrificio che la loro matrigna stava per consumare. Nefele fu la seconda moglie di Atamante ; ma andando soggetta a frequenti eccessi di pazzia il re ne fu presto stanco e ripigliò Ino sua prima moglie. I figli di Nefele ebbero parte alla disgrazia della madre e soltanto alla fuga furono debitori della loro salvezza.

Nel passare dall’Europa in Asia sopra l’ariete dal vello d’oro Elle cadde nel {p. 362}mare, che per questa ragione fu detto Ellesponto ora stretto dei Dardanelli. Allorchè Elle fu perita, Frisso dalla stanchezza e dal dolore oppresso approdò col suo montone a un capo abitato da barbari vicino a Colco ed ivi si addormentò. Avendolo visto quegli abitanti già disponeansi a farlo morire, allorchè il suo ariete lo destò scuotendolo, e con una umana voce gli fe’ presente il pericolo cui era esposto. Frisso di nuovo gli salì sul dorso, giunse a Colco, immolò l’ariete a Giove Frigio, lo spogliò della pelle, cui poscia appese ad un albero in un campo a Marte consacrato e lo diede in guardia a un drago il quale divorava tutti quelli che venivano per togliorlo e a due tori spiranti fuoco dalla bocca e dalle nari. Marte si compiacque tanto di questo sacrificio ch’ei volle vivessero nell’abbondanza coloro, presso a’quali tal vello sarebbe stato, per tutto il tempo che {p. 363}conservato l’avrebbero, e fu permesso ad ognuno di provarsi a farne la conquista.

Raccontasi da altri che Ino meditava la morte di Frisso e di Elle e che il primo fu spedito a scegliere la più bella pecora delle mandre del re per offrirla in sacrificio a Giove. Mentre la stava cercando Giove die’la parola ad un montone che a Frisso tutti i disegni della matrigna discoperse ; il consigliò a fuggire con Elle sua sorella e si offrì per servir loro di vettura. L’offerta fu accettata e quando Elle cadde nel mare il montone parlò di nuovo per calmare, Frisso, promettendogli di farlo giungere in Colco senza verun sinistro accidente, locchè difatti avvenne. In riconoscenza di tanto servigio, l’ariete fu immolato a Giove, altri dicono a Marte, altri dicono a Mercurio. La spoglia fu appesa ad un albero nel campo di Marte e Mercurio la convertì in oro, di modo che, secondo {p. 364}gli uni il vello d’oro era d’oro dapprincipio, secondo altri, fu cambìato in metallo dopo che l’ariete ne fu spogliato.

Vuolsi da alcuni che quell’animale fosse coperto d’oro invece di lana fin dal suo nascere, e che era il frutto degli amori di Nettuno trasformato in ariete e dell’avvenente Teofane trasformata in agnella. Nettuno aveva affidato questo prodigioso montone a Mercurio che ne fe’dono a Nefele.

Del resto tutti i mitologi sono d’accordo nel dire che dopo il sacrificio, l’animale fu trasportato in cielo ove forma una costellazione dell’Ariete, uno dei dodici segni dello zodiaco.

Se discordi sono i mitologi nel riferire la favola del vello d’oro e di quanto vi ha rapporto, non varian meno le opinioni di quelli che si sono accinti a spiegarla. Vogliono alcuni che la favola di questo vello d’oro fosse fondata sull’esservi nella {p. 365}Colchide torrenti che volgevano le loro acque sopra una rena d’oro la quale veniva raccolta con pelli di montoni ; locchè si pratica anche presentemente su le sponde del Rodano e dell’Arriège ove la polvere d’oro si raccoglie con simili tosoni, i quali essendone ben ripieni, possono essere riguardati come tosoni d’oro.

Altri pretendono che questa favola tragga origine dalle belle lane di quel paese e che il viaggio fatto da alcuni greci mercatanti per recarsi a comperarne, avesse dato argomento a siffatta finzione.

Hanno forse più ragione coloro che spiegano la favola del toson d’oro con tutto ciò che vi ha rapporto coll’astronomia, come fanno di tant’altre invenzioni mitologiche.

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Bellerofonte §

Bellerofonte figlio di Glauco re di Efira o Corinto, nipote di Sisifo, pronipote di Eolo, ebbe per madre Eurimede. Egli portò prima il nome di Ipponoo, come il primo che insegnò l’arte di condurre un cavallo col soccorso della briglia ; ma dopo aver ucciso suo fratello Alcimeno o Delrade o Bellero (perciocchè gli vengon dati tutti questi nomi) che pretendeva farsi tiranno di Corinto secondo alcuni e secondo altri innocentemente a caccia, fu chiamato Bellerofonte che in greco significa uccisore di Bellero.

Dopo questa uccisione si rifuggì volontariamente presso Preto re d’Argo che {p. 367}non debbesi confondere col fratello di Acrisio, dello stesso nome zio di Perseo, il quale viveva più di un secolo prima. Siccome egli era un bellissimo giovine così la moglie di Preto Antea o Stenobea se ne invaghì fortemente e gli promise che se voleva corrispondere a’suoi desiderii lo avrebbe posto sul trono del suo sposo ; ma avendolo trovato insensibile, lo accusò presso suo marito di aver voluto sedurla e pretese ch’ei lo facesse morire ; giacchè è noto che niuno è più crudele di una donna il cui risentimento sia punto dalla vergogna di un rifiuto.

Preto non osando ucciderlo, per rispetto all’ospitalità, in casa propria, si contentò di spedirlo a Iobate o Giobate re di Licia, padre di sua moglie, e lo fe’portatore di una lettera colla quale istruiva il suocero dell’oltraggio che credeva aver ricevuto, pregandolo di vendicarlo con la morte del colpevole. Da questo {p. 368}avvenimento furono chiamate lettere di Bellerofonte, le lettere sfavorevoli a quelli che le portano.

Partì Bellerofonte e giunse felicemente su le rive del Xanto. Giobate lo ricevette con gioia, lo tenne soco per nove giorni, ed in ciascun giorno immolava un toro ai numi, ringraziandoli del felice arrivo del giovine eroe. Nel decimo dì gli chiese i segni che mandavagli il re suo genero : aspettò fino allora in grazia del costume di que’tempi nei quali una maggior premura sarebbe stata un indizio di indiscreta curiosità e d’inciviltà.

Allorchè Giobate ebbe lette le lettere che gl’inviava Preto, ordinò a Bellerofonte, coll’idea di farlo perire, che andasse a combattere la Chimera, che infestava un monte della Licia dello stesso nome.

La Chimera era un mostro alato, d’estrema agilità, nato in Licia da Tifone e da Echidna, ed allevato da Emisodaro. {p. 369}Aveva la testa di lione, la coda di dragone ed il corpo di capra, la sua gola spalancata vomitava turbini di fuoco e di fiamme.

Bellerofonte sostenuto dalla protezione di Minerva, ed avendo ottenuto da Nettuno il caval Pegaso, andò coraggioso ad assalire l’orribil mostro e l’uccise.

Il re di Licia lo mandò poi a combattere contro i Solimi, popolo della Pisidia, credendo che dovesse sicuramente perire in questa impresa, ma egli ritornò vittorioso. Dopo la sconfitta de’Solimi, lo mandò contro le Amazzoni, le quali avevano fatto un’irruzione nella Frigia e negli altri paesi vicini, ed egli le vinse similmente.

Ritornando Bellerofonte da questa terza spedizione, fu assalito da una truppa di Lici che erano stati inboscati da Giobate per assassinarlo, ma egli si difese coraggiosamente e li uccise tutti.

{p. 370}Allora Giobate ammirando il valore di lui, e riconoscendo dalle sue imprese ch’egli era di stirpe divina, lo ritenne ne’suoi stati, gli partecipò i crudeli ordini che aveva ricevuti, e gli diede in isposa sua figlia e con essa metà del suo regno. I popoli medesimi, tocchi di ammirazione pel suo valore, formarono per lui un immenso dominio, ch’ei riunì alla corona di Licia che aveva creditata dopo la morte di Giobate, il quale non aveva lasciato figli maschi.

Narrasi da altri che Minerva diede il caval Pegaso a questo principe per domare la Chimera ; ch’egli su questo destriero, e gonfio il cuore delle sue vittorie, tentò di salire in cielo : allora Giove mandò un assillo che punse il cavallo, e fe’cadere l’eroe, il quale si uccise nella caduta. Il cavallo volò in cielo ove fu posto fra le costellazioni.

{p. 371}Bellerofonte lasciò due figli, Isandro morto in un combattimento contro i Solimi, Ippoloco che fu padre di Glauco, ed una figlia per nome Laodamia della quale Giove s’innamorò e la rese madre di Sarpedonte. Laodamia pel suo troppo orgoglio fu uccisa da Diana.

Il sepolcro di Bellerofonte era in Corinto, vicino al tempio di Venere Melania ed al sepolcro di Laide famosa cortigiana nata in Iccara di Sicilia, rapita dalla sua patria e trasportata in Grecia.

Nelle medaglie antiche trovasi soventi Bellerofonte col caval Pegaso.

La Chimera, dicesi da chi vuol spiegare questa favola, era una montagna dell’Asia minore nella Licia, che al pari dell’Etna e del Vesuvio mandava fiamme, durante però la notte soltanto, secondo alcuni. Sopra questo monte ed intorno al vulcano vedevansi de’leoni ; a metà eranvi de’pascoli dove pascevano delle capre ; ed {p. 372}appiè del monte stesso vi erano delle paludi infestate da sérpenti. Bellerofonte fu forse il primo che lo rese abitabile, e di qui venne il suo finto combattimento con questo mostro. Dicesi che il fuoco di questo vulcano ardeva perfino nell’acqua e non potevasi estinguere se non che colla terra.

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Meleagro, Atalanta ed Ippomene §

Meleagro era figlio di Oeneo, re di Calidone e di Altea figlia di Testio re di Pleurone tutte e due città della Grecia nell’Etolia.

Al suo nascere sua madre s’avvide che le Parche misero un tizzone sul fuoco dicendo, che tanto sarebbe durata la vita di lui quanto il tizzone ; il che udendo la madre, appena le Parche furonsi ritirate, ritrasse il tizzone dal fuoco e gelosamento il nasçose.

{p. 374}Cresciuto che fu Meleagro, avvenne che Oeneo offrendo per l’ottenuta fecondità delle campagne solenni sacrifici a tutti gli Dei, dimenticò di offrirne a Diana, di che essa sdegnata spedì a disertare le campagne di Calidonia un mostruoso cignale. Per combattere questo mostro invitò Oeneo tutti i giovani principi del paese alla testa dei quali pose Meleagro e questa spedizione è celebre nell’antichità sotto il nome di caccia di Caledone. Fra i concorrenti trovossi Atalanta giovine principessa passionatissima per la caccia, e fu dessa la prima a ferire il cignale, ma la gloria di ucciderlo fu riserbata a Meleagro. Volle egli però ad Atalanta offerirne in ricompensa il capo e la pelle ; opponendosi a ciò gli zii di lui Tosseo e Plessippo, egli adirato gli uccise. Ma questa uccisione fu cagione della sua morte ; perocchè Altea di ciò irritata rimisi il tizzone nel fuoco, e a misura che questo {p. 375}andò consumandosi, egli pur divorato da interno ardore finì la vita.

Pentissi Altea, ma troppo tardi, e per disperazione si uccise ; e le sorelle di Meleagro la morte di lui piangendo furon cangiate in uccelli, che il nome ebbero di Meleagridi, che si credeva passassero tutti gli anni dall’Affrica in Beozia per piangere su la tomba del fratello.

Atalanta era figlia di Scheneo re di Sciro isola del mar Egeo secondo la maggior parte de’ mitologi, alcuni dei quali la fanno figlia di Iaso o Iasio. Il suo nome è celebre nella storia eroica. Appena ch’essa fu nata, suo padre che non voleva aver se non figli maschi, la fece esporre sul monte Partenio. Essa non fu abbandonata dalla fortuna essendo stata allevata per cura di alcuni cacciatori che la rinvennero. Divenuta grande ella abborrì per molto tempo la compagnia degli uomini e non gustava altri diletti se {p. 376}non quelli della caccia. Ella era tanto leggiera che nessumo animale potea sfuggirle e tanto bella che non si poteva vederla senza amarla. Atalanta soggiornò per molti anni sulle più alte montagne d’Arcadia, e passava le notti in una grotta poco lontana da una folta foresta. Abitavano in vicinanza due Centauri, Neo e Reco, i quali avendola veduta risolvettero di farle violenza. La giovine Atalanta che sospettava la loro intenzione, vedendoli avvicinare alla sua grotta, non ne fu commossa ; ma stende l’arco e ferisce mortalmente quello che si avanza pel primo ; l’altro ebbe tosto la stessa la sorte.

Non dicono i mitologi come Atalanta fosse restituita a suo padre ; ma la maggior parte combinano nel dire che dessa si trovò alla famosa caccia del cinghiale di Calidone, e che Meleagro capo di questa spendizione ne divenne innamorato ; che avendo essa ferito per la prima il terribile {p. 377}animale, che Meleagro finì di uccidere, questo giovine principe le presentò il capo di quel cinghiale, dicendole : « Egli è ben giusto che avendo incominciata la vittoria, voi ne dividiate meco l’onore e la preda. » Atalanta fu tanto più lusingata da questa distinzione, in quanto che i più illustri principi della Grecia, che intervennero a quella caccia, l’avevano ambita.

Essendo Atalanta bellissima, fu chiesta in matrimonio da molti principi ; ma sia ch’ella non amasse gli uomini, sia che fosse informata dall’oracolo che il maritaggio le sarebbe stato funesto, come asserirono alcuni, ella d’accordo col padre suo, mise il dono della sua mano ad una condizione capace di allontanare i più innamorati. Si è detto ch’ella era valentissima nel correre, quindi propose a’suoi amanti di sposare quello che la superasse in questo esercizio, a condizione che i concorrenti dovessero essere senz’armi, e che essa corresse con un giavellotto, col {p. 378}quale avrebbe uccisi quelli che non l’avessero vinta.

Per quanto pericolosa fosse l’alternativa, si presentò un gran numero di concorrenti. Molti erano stati vinti ed avevano già subìto la loro trista sorte. Allorchè Ippomene si presentò.

Ippomene era figlio di Megareo o Macareo, disceso dal sangue di Nettuno e di Merope. Questo giovine principe era sì casto che per non veder femmine ritirossi nei boschi e nelle montagne. Avendo nondimeno un giorno incontrato a caccia Atalanta fu sì colpito dall’avvenenza di lei che rinunciando alla vita selvaggia da lui sin allora condotta, la seguì ed accrebbe il numero dei concorrenti alla di lei mano.

Ippomene era istruito e favorito dalla dea Venere, la quale gli fece dono di tre pomi d’oro, che aveva colto nel giardino delle Esperidi al dir di alcuni e secondo altri nell’isola di Cipro. Siocome, a {p. 379}seconda delle convenzioni, l’amante doveva essere il primo a correre ; così Ippomene lasciò cadere in tre diversi momenti quei pomi, per cui Atalanta invaghitasi della loro bellezza, si trattenne a raccoglierli, ed egli giunse il primo alla meta, e sposò la principessa. La rese madre di un figlio chiamato Partenopeo, il quale fu uno de’capitani che trovaronsi all’assedio di Tebe in Beozia sotto il regno di Adrasto re d’Argo. Avendo obbliato Ippomene di renderne grazie a Venere, questa spinse i due amanti a profanare il tempio di Giove o di Cibele, o secondo alcuni un antro consacrato a Cibele ; gli Dei li trasformarono per ciò in lioni, e Cibele li attaccò al suo carro. Vogliono altri che Atalanta ed Ippomene non fossero già trasformati in lioni, ma bensì divorati da due lioni sopraggiunti nell’antro consacrato a Cibele ov’eransi ricorati e ciò fece credere che avessero subito tale metamorfosi.

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Alcione e Ceice §

Alcione figlia di Eolo, della schiatta di Deucalione, essendo inconsolabile a cagione della morte del suo sposo Ceice, figliuolo di Luciefero e re di Trachina nella Ftiotide regione della Tessaglia, che era perito in un naufragio mentre andava a Claro oggi Calmine una delle Sporadi, per consultare l’oracolo d’Apollo, morì di cordoglio o si gettò nel mare al ricever che fece questa triste nuova mandatagli dalla regina degli Dei per mezzo di Morfeo. Gli Dei ricompensarono la loro fedeltà trasformandoli entrambi in alcioni, e vollero che il mare fosse tranquillo in tutto il tempo che questi uccelli facevano i loro nidi. Epperò l’alcione era consacrato a Teti, perchè dicesi che quest’uccello cova su l’acqua e fra le canne. {p. 381}Gli antichi lo risguardavano come un simbolo di pace, di tranquillità e d’inalterabile amicizia tra i coniugati ; questo uccello non si separa mai dalla sua compagna quando l’ha scelta.

È celebre nella mitologia il gigante Alcione o Alcioneo fratello di Porfirione. Egli doveva essere immortale finchè rimaneva nel luogo di sua nascita. Prima della guerra nella quale soccorse gli Dei contro Giove, egli aveva condotto via dall’Erizia i buoi del Sole. Giove avendo comandato ad Ercole di batterlo, questi, a colpi di frecce, atterrò più volte il suo nemico ; ma tosto che Alcione toccava la terra sua madre, prendeva nuove forze e si rialzava più formidabile di prima. Pallade afferrò il gigante in mezzo al corpo e lo portò al disopra della luna, ove egli spirò. Sette fanciulle, delle quali egli era padre, furono talmente afflitte, che precipitaronsi di disperazione nel mare, ove furono cangiate in alcioni.

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Giano §

Giano che alcuni fanno Scita d’origine, era figlio secondo altri mitologi di Creusa figlia di Eretteo re d’Atene dotata di somma bellezza e di Apollo. Giano fu allevato in Delfo, ed Eretteo ignorò sempre e la sua nascita e la sua educazione. Avendo maritata la figlia a Xifeo e non avendo questi avuto prole, andò a consultare l’oracolo per sapere come far dovesse per divenir padre ; e n’ebbe per risposta di adottare il primo fanciullo in cui s’imbattesse il giorno seguente. Difatti Giano figlio di Creusa fu il primo a’ presentarsegli ed egli lo adottò. Essendo Giano cresciuto in età apprestò una flotta e fece {p. 383}vela per l’Italia, ove approdato, conquistò molto paese e fabbricò una città che dal suo nome fu chiamata Gianicola.

Nel tempo del suo regno essendo Saturno stato scacciato dal cielo o piuttosto dal suo paese, approdò anch’esso in Italia, ove fu da Giano cortesemente accolto ed associato al proprio regno, che nominò Lazio dalla parola latinalatere, nascondersi, perchè in quello se ne stava celato quando Giove lo perseguitava. Dall’aver associato Saturno al regno si crede da qualche mitologo derivare l’uso di rappresentare Giano con due facce, per dinotare che la regia potestà era divisa fra questi due principi, e che lo stato veniva dai consigli dell’uno e dell’altro governato. Vogliono altri che le due facce attribuite a Giano indichino la rara prudenza che ponevagli sempre sott’occhio il passato ed il futuro di cui fu dotato da Saturno inricompensa dell’accordatagli ospitalità. Alle {p. 384}volte si rappresenta Giano anche con quattro facce. Gli si dà una chiave ed un bastone in mano ; la chiave perchè credesi inventasse le toppe e perchè aprisse l’anno nel mese di gennaio che da lui tratto aveva il suo nome ; ed un bastone perchè accoglieva con cortesia i viandanti e custodiva le strade.

Giano insegnò ai suoi popoli le divisioni dell’anno, l’uso delle barche, delle monete, le regole della giustizia, e il modo di vivere felici sotto l’autorità delle leggi ; mostrò loro ad onorare gli Dei nei tempii per mezzo dei sacrifici, a cingere le città di mura e a coltivare i campi e le vigne. In riconoscenza di tanti benefizi i Romani lo posero nel numero degli Dei.

Il regno di Giano fu tanto pacifico che fu risguardato come il Dio della pace ; sotto il qual titolo, Numa gli fece edificare un tempio che stava aperto in tempo {p. 385}di guerra e chiudevasi in tempo di pace. Questo tempio fu chiuso sotto il regno di Numa una sol volta ; dopo la seconda guerra punica un’altra volta, cioè l’anno di Roma 519 e tre volte sotto il regno di Augusto.

Si ponevano a Giano dodici altari secondo il numero de’mesi dell’anno e nel dargli quattro facce si alludeva alle quattro stagioni. Il primo di gennaio era a lui singolarmente dedicato, e in esso i cittadini mandavansi scambievolmente dei doni che erano chiamati Strenne.

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Gordio, descrizione del nodo gordiano §

Gordio re di Frigia, padre di Mida, era figlio di un agricoltore. Altra eredità non aveva fatta che due soli paia di buoi, uno pel suo aratro, l’altro pel suo carro. Un giorno ch’egli stava arando, un’aquila scese sul giogo e vi restò fino alla sera. Stupefatto di tal meraviglia corse a consultare i Telmisi, dotti nell’arte d’indovinare, ai quali, secondo si riferisce, questa scienza era tanto naturale che passava fin nelle donne e nei fanciulli. A misura ch’egli andava avvicinandosi ad uno de’loro villaggi, incontrò una {p. 387}giovinetta che veniva ad attinger acqua, ed avendole significato il motivo del suo viaggio, ella, essendo della schiatta degli indovini, gli rispose che doveva sacrificare a Giove sotto il titolo di re e di sovrano. Egli condusse con sè questa donzella onde imparare da lei la forma del sacrificio, ed avendola poscia sposata, n’ebbe un figlio chiamato Mida. Sopraggiunsero intanto delle forti dissensioni tra i Frigi, per cui ricorsero all’oracolo, il quale disse, che tali divisioni non sarebbero cessate se non per mezzo di un re il quale fosse venuto ad essi sopra un carro. Essendo coloro in pena di siffatta risposta, videro giungere Mida col padre e colla madre sopra di un carro, e allora, più non dubitando che questi fosse colui indicato dall’oracolo, lo elessero per loro re, ed egli pose fine a tutte le loro differenze. Mida, in riconoscenza del favore che Gordio aveva ottenuto da Giove, gli dedicò il {p. 388}carro di suo padre, e lo sospese nel luogo più eminente della fortezza.

Il carro di Gordio aveva il giogo attaccato al timone con un nodo di scorza di corniolo, fatto con tant’arte e in tal guisa intrecciato, che non si poteva scoprirne le estremità. Secondo l’antica tradizione del paese, un oracolo aveva dichiarato che colui il quale fosse giunto a scioglierlo, avrebbe ottenuto l’impero dell’Asia. Trovandosi Alessandro il Grande in Frigia, nella città di Gordina, antico e rinomato soggiorno del re Mida, ebbe desio di vedere il famoso carro cui stava attaccato il Nodo Gordiano ed essendo persuaso che la promessa dell’oracolo risguardasse lui solo, fece molti tentativi per isciornelo : ma non avendo potuto riuscirvi, e temendo che i suoi soldati ne traessero cattivo augurio : Non importa, diss’egli, qualunque sia la maniera di snodarlo ; ed avendolo tagliato colla spada, in tale guisa deluse e compì l’oracolo.

{p. 389}Narrasi che Alessandro e tutti coloro che erano presenti si ritirarono come se l’oracolo fosse compiuto ; la qual cosa venne nella stessa notte comfermata da tuoni e baleni, cosicchè il principe fece nell’indomani dei sacrifici per ringraziare gli Dei del favore che gli avevano accordato e dei contrassegni che gliene davano.

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Edipo, Giocasta, Eteocle e polinice figliloro, descrizione della sfinge e della guerra di Tebe §

Edipo era figlio di Laio figlio di Labdaco re di Tebe e di Giocasta figlia di Creonte.

L’oracolo aveva predetto a Laio che sarebbe ucciso da suo figlio il quale avrebbe poi sposata la madre, dalla cui unione sarebbe sortita una detestabile stirpe.

Laio per impedire tale enormità consegnò Edipo subito nato ad uno della sua corte acciò lo facesse perire, ma questi, fatto pietoso del figlio lo attaccò solo {p. 391}pei piedi ad un albero. Fu là trovato da Forba pastore di Polibio re di Corinto e portato alla regina Merope, la quale ne prese cura e dalla gonfiezza dei piedi lo chiamò Edipo.

Fattosi adulto, udendo di non esser figlio di Polibio, andò a consultar l’oracolo di Apollo per aver contezza de’suoi parenti, e l’oracolo gli predisse le disgrazie che a Laio erano state predette e lo avvisò di non ritornare nella sua patria per evitarle. Credendo Edipo che l’oracolo parlasse di Corinto, se ne esiliò volontariamente e decise di andare in Beozia.

Giunto nella Focide, mentre in una contesa tra i Focesi e i forestieri ei volle prender le parti di questi, uccise, senza conoscerlo, il proprio padre, che a favore di quelli si era intromesso. Pretendono altri che l’uccidesse, mentre in un angusto sentiero del monte Citerone, Laio volle arrogantemente costringerlo a cedergli il passo.

{p. 392}Di là arrivato a Tebe trovò il paese infestato dalla Sfinge mostro alato nato da Tifone e da Echidna che aveva la testa ed il petto di donna, il corpo di cane, le zampe di leone, la coda di drago e l’ali d’uccello. Giunone avendo sdegno contro i Tebani perchè Alcmena aveva accondisceso alle voglie di Giove, mandò quel mostro sul monte Citerone, ove proponeva un enimma ai passaggieri, e divorava tutti quelli i quali non lo sapevano sciogliere dopo di essersi offerti a farlo. Creonte padre di Giocasta promise il regno di Tebe, di cui frattanto aveva preso il governo, e la vedova di Laio in isposa, a chi sciogliesse l’enimma, e perir facesse la Sfinge, perchè era destino che questa dovesse morire sì tosto che l’enimma da alcuno fosse disciolto. Presentossi Edipo e la Sfinge gli propose il fatale enimma, che era : Qual fosse l’animale che in sul mattino aveva quattro {p. 393}piedi, diue sul mezzogiorno e tre la sera. Edipo conobbe che in questo animale si figurava l’uomo, perchè l’uomo sul mattino della sua vita, cioè quando è bambino, se ne va carponi, onde si può dire che cammini con quattro gambe ; sul mezzogiorno, cioè mentre dura il fiore della sua vita, cammina su due piedi, e venuta finalmente la sera della sua vecchiezza, è costretto ad aiutarsi col bastone, onde qui pur dir si può che con tre piedi, e non più con due cammini. Così interpretò Edipo l’enimma, e la Sfinge per rabbia s’ammazzò. Edipo giusta la promessa di Creonte ebbe il regno di Tebe, e Giocasta in isposa cui non sospettò essergli madre ; e gli nacquero da essa due gemelli Eteocle e Polinice e le due figlie Antigone ed Ismene. Gli Dei irritati di un tale incesto percossero i Tebani con una peste, che, secondo la risposta dell’oracolo di Delfo su ciò consultato, non {p. 394}sarebbe cessata, finchè non fosse da Tebe esiliato l’uccisore di Laio.

Or mentre Edipo s’occupava premurosamente a farne ricerca, venne a scoprire, col mezzo del pastore che lo aveva salvato, non solamente che l’uccisore di Laio era stato egli medesimo, ma di più che Laio era suo padre e Giocasta sua madre.

Preso da orrore nel vedersi tutt’ad un tempo reo di parricidio e d’incesto, si cavò gli occhi per non veder più la luce, mentre Giocasta presa egualmente da disperazione, sale al più eminente luogo del palazzo, vi attacca un laccio fatale e in questa guisa si precipita nel Tartaro ; poi datosi ad un volontario esilio o come altri scacciato dai propri figli si fece condurre da sua figlia Antigone in poca distanza di un borgo dell’Altica detto Colono, in un bosco alle Eumenidi sacro.

{p. 395}Inorriditi alcuni Ateniesi alla vista di un uomo in quel luogo, dove non era permesso a nessun profano di portare il piede, vollero far uso della violenza per iscacciarnelo. Antigone, per il padre e per sè stessa intercedendo, ottenne d’esser condotta ad Atene, ove Teseo li accolse ambidue favorevolmente, ed offrìloro il suo potere per appoggio ed i suoi stati per asilo. Edipo si ricordò un oracolo d’Apollo, il quale gli predisse ch’egli doveva morire a Colonos e che la sua tomba sarebbe il segnale della vittoria degli Ateniesi sopra tutti i loro nemici. Creonte alla testa de’ Tebani viene a supplicare Edipo acciò ritorni in Tebe. Questo principe che sospetta in Creonte la mira di privarlo della protezione degli Ateniesi, e relegarlo in terre sconosciute, ricusa le di lui offerte. Liberatosi dalla violenza de’ Tebani col mezzo di Teseo, sente egli un colpo di tuono, lo risguarda {p. 396}come un presagio della vicina sua morte e senza guida alcuna s’incammina al luogo dove egli deve spirare. Giunto presso un precipizio in una strada divisa in molti sentieri, siede sopra un sasso, si spoglia dei lugubri vestimenti, e dopo di essersi purificato, si riveste d’un abito simile a quelli che si davano ai morti, fa chiamare Teseo, al quale raccomanda le due figlie, cui ordina di allontanarsi ; la terra trema e a poco a popo si apre per ricevere Edipo senza violenza e senza dolore alla presenza di Teseo, cui solo è palese il secreto intorno al genere di sua morte e il luogo della sua tomba. Abbenchè la volontà dalla quale viene costituito il delitto, non abbia avuto parte alcuna nella sua vita, pure i poeti non tralasciano di situarlo nel numero de’più famosi condannati del Tartaro.

Eteocle e Polinice che eran gemelli o per ordine del padre, come alcuni {p. 397}vogliono, o spontaneamente convennero fra di loro di regnare alternativamente un anno per ciascheduno e che per evitare qualunque contesa, quello che non fosse sul trono, si dovesse allontanare da Tebe : ma Eteocle prese le redini del governo per il primo e terminato l’anno ricusò di più cederle al fratello, e lo costrinse a ritirarsi presso di Adrasto re degli Argivi.

Aveva Adrasto due figlie, Argia e Deifile. Esso maritò la prima a Polinice, a Tideo figlio di Eneo re di Calidone che si era alla corte di Adrasto ritirato per aver disgraziatamente ucciso il fratello Menalippo maritò la seconda, assumendo l’impegno di rimettere Polinice nel regno. Spedì a questo effetto Tideo ad Eteocle per intimargli di cedere il regno secondo il patto ; ma Eteocle non solo diede un superbo rifiuto, ma fe’pure tendere un agguato dalle sue genti comandate da {p. 398}Licofonte e Meone a Tideo per assassinalo. Questi opponendosi valorosamente agli assalitori gli uccise tutti, eccetto Meone cui rimandò ad Eteocle per recargli il triste annunzio. Irritato Adrasto al rifiuto e alla nuova perfidia di Eteocle adunò incontanente il fiore de’suoi eserciti sotto la guida di sette illustri capitani, i quali erano Adrasto medesimo, Polinice, Tideo, Ippomedonte, Capaneo, Anfiarao e Partenopeo e mosse contro di Tebe, e questa fu chiamata la Guerra dei sette prodi innanzi Tebe.

Funestissima ad ambe le parti riuscì la guerra di Tebe, poichè Tideo dopo valorose prove fu ucciso dal tebano Menalippo ; Capaneo sprezzatore degli Dei, mentre scalava le mura di Tebe venne fulminato da Giove ; anfiarao fu col suo carro dalla terra inghiottito ; Ippomendonte e Partenopeo caddero anch’essi estinti ; e Adrasto perduti i suoi capitani e gran {p. 399}parte delle sue genti dovè tornarsene scornato in Argo.

Più che ad altri però fatale fu la guerra a’fratelli nemici. Fino avanti al loro nascere aveva detto Giocasta d’averli sentiti nell’utero pugnar tra loro ; e ben mostrarono appresso fino a qual segno il fraterno odio arrivar possa, ove sia dall’ambizione e dall’interesse attizzato. Incontratisi corpo a corpo nella mischia o come si asserisce da alcuni avendo chiesto, per risparmiare il sangue de’popoli, di battersi in singolar certame alla presenza delle due armate, con tale accanimento pugnarono essi l’un contro l’altro che amendue scambievolmente si uccisero. Aggiungesi che la loro discorde maniera di pensare era stata, durante la loro vita, sì grande, e il loro odio tanto irreconciliabile, che durò anche dopo la loro morte ; e credesi d’aver osservato che le fiamme del rogo su cui facevansi bruoiare i loro corpi {p. 400}siensi separate, e che la stessa cosa sia accaduta ne’sacrifici che gli venivano offerti insieme, poichè per quanto cattivi sieno stati questi due fratelli non si tralasciò nullameno nella Grecia di rendere ad essi gli onori eroici.

Creonte il quale successe alla corona, fece rendere gli onori del sepolcro alle ceneri d’Eteocle, siccome quello che aveva combattuto contro i nemici della patria, e ordinò che quelle di Polinice fossero sparse al vento, per aver egli tratto sulla propria patria un’armata straniera ; ma Antigone, non potendo tollerare che Polinice suo fratello divenisse preda dei cani e degli avoltoi, segretamente lo seppellì. Creonte, essendone stato istrutto, ordinò che questa amorosa sorella fosse sepolta viva, in pena d’aver disubbidito. Evitò essa quel crudele supplizio dandosi da sè stessa la morte.

Spiegano alcuni così la favola della Sfinge.

{p. 401}Laio aveva una figlia chiamata Sfinge, la quale poco contenta di non aver parte alcuna al governo, erasi posta alla testa di una truppa di masnadieri che nei contorni di Tebe mille e mille disordini ivano commettendo, locchè la fece come un mostro da tutti riguardare.

Gli artigli di lione indicavano la sua crudeltà, il corpo di cane mostrava i disordini di cui era suscettibile una figlia di quel carattere ; le ali esprimevano l’agilità con cui ella qua e là trasportavasi onde sottrarsi alle ricerche de’ Tebani ; gli enimmi erano l’immagine delle insidie ch’essa tendeva ai passeggieri, tirandoli negli scogli e ne’macchioni del monte Ficeo, là dove riusciva loro impossibile di liberarsi per non saperne le diverse uscite che essa perfettamente conosceva. Edipo la forzò fin ne’propri suoi trinceramenti e la fece morire.

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Pelope, Atreo, Tieste, Agamennone, Menelao, Egisto, Oreste, ecc. §

Pelope figlio di Tantalo re di Frigia e di Taigete, fu dall’empio padre, come si è già detto, dato in pasto agli Dei per far prova della loro divinità e da essi risuscitato ebbe una spalla d’avorio in luogo di quella che Cerere aveva mangiato. Dicesi che quella spalla, col semplice suo tocco, aveva la virtù di guarire ogni sorta di malattia.

I confini del regno di Tantalo erano immediatamente uniti a quelli di Troo re di Troia. Vuolsi che Tantalo essendo stato {p. 403}precipitato nell’inferno, Pelope restato solo fu scacciato dal suo regno dal re di Troia, e datosi alla fuga si ritirò a Pisa, città d’Elide ove allora regnava Enomao padre dell’avvenente Ippodamia. Questo principe informato dall’oracolo di dover morire per opera di suo genero, propose a’pretendenti d’Ippodamia, di gareggiar con esso nel corso de’ cocchi, nel quale egli era abilissimo, colla condizione, che se taluno fosse rimasto vincitore, avrebbe avuto in premio Ippodamia, ma i vinti sarebbero puniti di morte. Era difficilissimo che questo principe fosse vinto, in quanto che egli possedeva il più leggiero carro e i più rapidi cavalli di tutta la Grecia. Già tredici principi dei dintorni di Pisa erano stati vinti e tratti a morte, allorchè Pelope non esitò, nè temette di accettare la sfida ; ma per assicurarsi la vittoria pose in opra l’astuzia. Gli riuscì di sedurre Mirtilo cocchiere di Enomao {p. 404}e lo indusse a porre al cocchio di lui un fragil asse, il quale essendosi spezzato nel corso precipitò Enomao che ne morì, ed egli così ottenne Ippodamia ed il regno. Egli si rese ben tosto formidabile ai principi suoi vicini ; estese il proprio dominio sopra tutta l’Elide ; e perciò da lui tutta la famosa penisola conosciuta poscia sotto i nomi di Pelasgia, d’Apia e di Argolide, ricevette quello di Peloponneso. Questa contrada che fu la culla di tanti grandi uomini ed il teatro di tanti celebri avvenimenti, è conosciuta ora sotto il nome di Morea.

Pelope dopo la sua morte ottenne gli onori divini, ed i Greci lo ponevano tanto al dissopra degli altri eroi, quanto consideravano Giove superiore agli altri Dei.

Da Ippodamia ebbe questo principe due figli, Atreo e Tieste. Pelope sospettandoli ambedue rei della morte di Crisippo altro suo figlio che aveva avuto da {p. 405}una concubina per nome Astioche, non volle mai più permettere che comparissero alla sua presenza, dimodochè essi spatriarono entrambi. Atreo si rifuggì alla corte di Euristeo re d’Argo, suo nipote, perocchè questi era figlio di Nicippe, una delle figlie di Pelope. Euristeo lo ricevette con amicizia, lo associò al suo governo e morendo gli lasciò la corona.

Tieste, che aveva seguito suo fratello Atreo nell’Argolide, si fe’ amare dalla regina sua cognata, e la rese madre di due figli. Atreo avendo scoperto l’incestuoso intrigo di suo fratello, lo bandì dalla corte, ma non credendosi abbastanza vendicato finse di volersi riconciliare con lui e lo richiamò. Per meglio suggellare la riconciliazione ordinò un gran banchetto e avendo trucidato i figli che Tieste aveva avuti dalla regina, ne fece imbandire le membra e le presentò a suo fratello. Non contento di questa atrocità, {p. 406}fece recare verso la fine del pasto le braccia e le teste di questi figli. Dicesi che il sole retrocedette inorridito da sì fiero spettacolo. Spaventato Tieste si ritirò in Sicione città dell’Acaia. Atreo fu poi ucciso da Egisto figlio di Tieste.

Atreo ebbe due mogli. Ignorasi quale fosse la prima dalla quale ebbe Plistene, Agamennone e Menelao ; dicono alcuni che era Aerope figlia di Euristeo. Altri accertano che Aerope fu moglie di Plistene figlio di Atreo ; che la rese madre di Agamennone e di Menelao, i quali dicesi che non siano reputati figli di Atreo, se non perchè essendo morto giovine il loro padre Plistene, furono allevati dal loro avo Atreo : dal nome di questi furono essi chiamati Atridi.

Dopo la morte di Atreo, Tieste s’impadronì del regno d’Argo e fu sua prima cura di allontanare i suoi pronipoti Agamennone e Menelao. I due giovani {p. 407}principi si ritirarono appo Eneo re d’Etolia che li ricevette amichevolmente e si dichiarò loro protettore. Alcun tempo dopo, Tindaro, re di Sparta, die’ a ciascun di loro una delle sue figlie in matrimonio : Elena a Menelao e Clitennestra ad Agamennone. Divenuti generi di un potente re, pensarono a vendicare la morte del loro avo. Tindaro accordò loro delle truppe colle quali assalirono e vinsero Tieste, che trattarono con umanità contentandosi di esiliarlo nell’isola di Creta. Divenuto Agamennone e per le sue conquiste e per la morte di Tieste, che gli aveva ceduti i suoi diritti, signore di Argo ed il più potente principe della Grecia, scelse la città di Micene per capitale del suo impero. Menelao divenne re di Sparta.

In vista del vasto suo potere Agamennone fu scelto a voce unanime capo dell’armata de’ Greci, per la spedizione contro i Troiani, per ricuperare Elena moglie {p. 408}di Menelao che era stata rapita da Paride figlio di Priamo re di Troia.

Prima della partenza de’ Greci per Troia Agamennone aveva avuto vari figli e tra gli altri Oreste, Ifigenia ed Elettra.

Mentre l’armata era raccolta in Aulide porto della Beozia, e trattenuta ivi da venti contrari, il sacerdote Calcante consultato l’oracolo di Delfo portò in risposta, che per avere propizi i venti conveniva sacrificare Ifigenia figlia di Agamennone a Diana, irritata perchè questo principe aveva uccisa una cerva che erale consacrata. Il re d’Argo dopo un lungo contrasto tra la tenerezza paterna e l’ambizione della gloria che doveva fruttargli la spedizione di Troia, acconsentì finalmente agl’interessi dell’intiera Grecia adunata. Ma Diana avviluppò in una nuvola l’altare ed il sacrificatore, salvò Ifigenia sostituendole una cerva e lei trasportò in Tauride, ove la fece sacerdotessa del {p. 409}suo tempio. Dopo questo sacrificio, un favorevol vento condusse in poco tempo la flotta greca ai lidi di Troia.

Agamennone lasciò Egisto l’uccisore di Atreo che era suo cugino per vegliare al governo de’ suoi stati. Invaghitosi della regina, gli riuscì di sedurla ; e non tenendo più alcun freno alla sua condotta, di concerto con essa, allorchè Agamennone fu di ritorno, a tradimento l’uccise e impadronissi del regno d’Argo.

Oreste figlio di Agamennone e di Clitennestra dovea esser ucciso da Egisto, ma fu salvato dalla sorella Elettra, ed allevato secretamente da Strofio nella Focide, di dove all’età di venti anni tornò incognito in Argo a vendicar la morte del padre coll’uccisione di Egisto e di Clitennestra.

In pena di aver però uceisa la madre fu Oreste tormentato dalle Furie, e vagando accompagnato da Pilade figlio di {p. 410}Strofio, con cui era stato educato, giunse in Tauride, ove per ordine del re Toante fu in procinto di essere sacrificato a Diana.

Ma una virtuosa gara qui nacque fra i due amici, perciocchè Pilade, per salvarlo, si finse Oreste, e Oreste costantemente si oppose alla generosa di lui menzogna, finchè avendo Ifigenia, che era sacerdotessa di Diana, riconosciuto a sicuri indizi il fratello, si unirono tutti e tre ad uccider Toante, e seco portando il simulacro di Diana se ne fuggirono.

Tornato in Grecia fu Oreste giudicato dagli Dei nell’Areopago d’Atene, ove sebbene eguali voti ei riportasse vale a dire sei favorevoli e sei contrari, pure da Minerva fu assolto e dalle Furie liberato. Diede egli allora all’amico Pilade la sorella Elettra in isposa ; e premendogli d’aver Ermione figlia di Menelao, che prima a lui promessa, era stata poi data a Pirro, andato a Delfo, ove sapeva che {p. 411}Pirro allora trovavasi, sparse voce, che questi venuto fosse per ispogliare il tempio, e il fe’dal popolo ammutinato assassinare ; questa è almeno l’opinione generale, malgrado dicasi da alcuni che Pirro fosse ucciso da Oreste medesimo innanzi al patrio altare.

Oreste visse pacifico possessore degli stati d’Argo, cui dopo la morte di Menelao, aggiunse quelli di Sparta, e morì all’età di 90 anni pel morso di una vipera come tutti generalmente credono.

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Paride, Achille, Ulisse, Enea, ecc. descrizione della guerra di troia §

Cagione della guerra di Troia fu Paride o Alessandro figlio di Priamo re di Troia e di Ecuba figlia di Dimante re di Frigia. Dicesi che mentre Ecuba era incinta, parvele in sogno di avere in seno una fiaccola ardente ; consultati gl’indovini le fu risposto che il fanciullo di cui era incinta, sarebbe stato un giorno cagione dello sterminio della sua famiglia e della sua patria. Priamo a fin di prevenire una tale disavventura, appena Paride fu nato, lo consegnò ad uno de’suoi {p. 413}schiavi, chiamato Archelao acciò il facesse perire ; ma questi ad istanza di Ecuba si contentò di esporlo sul monte Ida, ove la madre il fece secretamente allevare da alcuni pastori.

Quantunque Paride vivesse tra pastori, pure l’interessante suo aspetto, le rare sue qualità e certi tratti di spirito e di magnanimità che talvolta gli sfuggivano, fecero sospettare ch’ei fosse uscito da una illustre famiglia. Venne a lui affidata la cura di numerose mandre, che seppe in più occasioni difendere col suo coraggio dalle feroci belve. In diverse circostanze dimostrò egli di essere di sì rara prudenza e di sì grande equità dotato, che i vicini pastori lo prendevano come arbitro delle loro questioni. Sposò la ninfa Enone, figlia del fiume Lebreno, e visse con lei nella più perfetta unione, sino all’epoca delle nozze di Teti e di Peleo.

{p. 414}L’azione che più d’ogni altro il rendette celebre, si è il suo giudizio pronunciato risguardo alle tre Dee. Si è già detto come la Discordia sommamente irritata di non essere stata invitata alle nozze di Teti, per trarne vendetta alla metà del banchetto gettò essa sulla mensa degli Dei un pomo d’oro portante la segnente iscrizione : Alla più bella. Da principio non vi fu alcuna delle Dee la quale non pretendesse d’ottenerlo, in onta delle proprie rivali ; e dopo parecchi vivi dibattimenti la contestazione si ridusse tra le tre principali Dee, Giunone, Venere e Minerva. Gli Dei, per non incontrare l’odio di veruna di quelle gelose Divinità, quantunque ricercati per esserne i giudici, ricusarono e nominarono il pastor Paride qual giudice di un sì delicato punto di questione, e ciò in forza della grande riputazione di saggezza di cui esso godeva. Le tre Dee recaronsi allora sul monte Ida in Frigia provincia {p. 415}dell’Asia Minore e senza apparecchio e vestimento veruno, si presentarono al giovane pastore. Ciascuna gli fece delle offerte onde impegnarlo a pronunciare in proprio favore. Giunone, il cui potere stendevasi su tutte le ricchezze dell’universo, promise di colmarlo d’ogni bene, non esclusa la regia podestà. Minerva gli offrì la saggezza siccome il maggiore di tutti i beni non che la gloria delle armi. Venere s’impegnò di renderlo possessore della più bella donna dell’universo. Giunone si abbigliò poscia nel modo più magnifico che le fu possibile, lo stesso fecero pur anche Minerva e Venere ; e quest’ultima non dimenticò il suo cinto. Paride dichiarò loro che vedendole coi loro vestimenti le trovava egualmente belle, e che per giudicare, eragli d’uopo di vederle ignude. L’orgogliosa Giunone si vide astretta di sottomettersi come le altre a comparire in quello stato innanzi {p. 416}ad un semplice mortale ; nè la casta Minerva potè pur essa ricusare. Sia che l’offerta di Venere fosse a Paride più gradita, sia ch’ei la trovasse delle altre due effettivamente più bella, le aggiudicò il contrastato pomo siccome premio della beltà ; quindi, per una necessaria conseguenza, si trovò egli esposto all’odio ed al risentimento di Giunone e di Minerva, le quali non mancarono di portare la più strepitosa vendetta sulla famiglia del loro giudice. Quindi le irritate Dee giurarono la ruina di Troia.

Concorso Paride in Troia ai pubblici giuochi riportò vittoria sul medesimo suo fratello Ettore senza conoscerlo ; e siccome non si parlava che di questo pastore Priamo il volle vedere, e dopo averlo interrogato intorno il suo nascimento, il riconobbe per suo figlio, nè potendo resistere alla forza dell’amor paterno, malgrado le predizioni degl’indovini, lo ricevette e diedegli il posto che gli conveniva.

{p. 417}Poco dopo fu eletto da Priamo per andare in qualità d’ambasciadore a Sparta a ridomandare Esione sua avola, condotta via da Telamone fin dal tempo che regnava Laomedonte.

Accolto ospitalmente in Isparta da Menelao marito di Elena, che era riputata la più bella donna di quell’età, colse Paride l’occasione che Menelao ebbe a partire per Creta, e abusando dell’ospitalità, si tolse Elena su le sue navi e condussela a Troia.

Per vendicare quest’ingiuria i due fratelli Agamennone e Menelao procacciarono di trarre al loro partito tutti i principi della Grecia, tra i primari de’quali contansi Achille figlio di Peleo re di Ftia in Tessaglia e di Tetide ; Aiace di lui cugino figlio di Telamone re di Salamina e di Esione ; Ulisse figlio di Laerte re di Itaca ; Nestore figlio di Neleo re di Pilo ; e Patroclo figlio di Menezio e di Stenele ; {p. 418}e dopo la morte di Achille s’aggiunse Pirro figlio di lui e di Deidamia.

Non furono meno solleciti i Troiani ad armarsi e procacciarsi alleati. Ettore e Paride figli di Priamo, Enea figlio di Anchise e di Venere furono i principali tra i Troiani ; si aggiunsero ad essi Antenore re di una parte della Tracia co’ suoi figli, Mennone re dell’Etiopia, Sarpedonte re di Licia figlio di Giove e di Laodamia figlia di Bellerofonte, Pentesilea regina delle Amazzoni, ecc.

Non tutti i principi greci si prestarono a quella lega con eguale prontezza.

Ulisse cercò di sottrarsene simulandosi pazzo ; ma Palamede scoperto l’inganno il costrinse ad entrar nella lega cogli altri.

Teti madre d’Achille sapendo che sotto Troia sarebbe questi perito l’occultò sotto abito femminile tra le damigelle della corte di Licomede re di Sciro, ove dalla figlia di esso Deidamia poi ebbe Pirro. Ma {p. 419}Ulisse presentatosi in abito da mercante con vari ornamenti donneschi a’quali frammiste erano delle armi, vedendo Achille a queste subito appigliarsi, lo riconobbe e l’indusse a seco partire.

Si è già parlato del sacrificio d’Ifigenia mentre le navi greche erano trattenute dai venti contrari in Aulide. Solamente dopo dieci anni riuscirono i Greci a soggiogare ed ardere Troia. Paride fu ucciso da Pirro e vide prima di morire interamente ruinata la sua patria per propria cagione. Subito ch’ei fu ferito fecesi portare sul monte Ida presso la moglie Enone, acciocchè lo guarisse, avendo essa perfetta cognizione della medicina, ma Enone sdegnata contro di lui, gli fece poco buona accoglienza e non volle guarrirlo : onde morì di quella ferita.

Ne’ primi anni si occuparono i Greci a saccheggiare le città e terre dintorno, finchè nel decimo anno, tratte le navi {p. 420}sul lido, posero a Troia il formale assedio.

Ma essendo insorta grave rissa tra Agamennone ed Achille per una schiava che il primo al secondo voleva togliere, Achille s’astenne dal voler più prender parte a quella guerra, malgrado i consigli di Nestore e le preghiere di Ulisse.

I Troiani comandati da Ettore ad onta della resistenza de’ Greci e soprattutto di Aiace figlio di Telamone, ebbero dei grandi vantaggi ; e poco mancò che da quelli incendiate non fossero le navi che tratte in secco servivano al campo de’Greci di trinceramento e di riparo.

In questo mezzo Patroclo amico d’Achille, non potendolo indurre a riprender le armi, chiese almeno di poter con quell’armi andar egli a combattere contro Ettore, ma ne fu ucciso e dell’armi spogliato.

Addolorato della perdita dell’amico si mosse finalmente Achille a vendicarlo, ed {p. 421}incontratosi in Ettore dopo lungo conflitto l’uccise, indi attaccatone il corpo dietro il suo cocchio, tre volte lo strascinò intorno le mura di Troia, nè si arrese che a gran fatica a restituirlo al misero padre, che venne in persona a chiederglielo.

Riconciliatosi Achille con Priamo chiese in isposa la figlia di lui Polissena, ma nell’atto che celebravasi lo sposalizio nel tempio di Apollo, Paride con una freccia avvelenata lo ferì nel calcagno, ove soltanto era vulnerabile come si è già riferito all’articolo di Teti.

Niuno fu più scaltro di Ulisse. Tra gli stratagemmi da lui impiegati a danno di Troia il più fatale fu l’invenzione del cavallo di legno. Fece egli costruire da Epeo uno smisurato cavallo, entro cui si rinchiuse egli medesimo co’ più valorosi tra i Greci. Finsero gli altri di partire abbandonando l’assedio di Troia e dietro {p. 422}l’isola di Tenedo si nascosero. Invano Cassandra figlia di Priamo, che era per destino verace sempre e non creduta mai, gridò che quel cavallo era un’insidia e che si doveva distruggere. Invano pure Laocoonte sacerdote d’Apollo confermando la stessa cosa incominciò a scagliare contro di quello una lancia. In questo mentre, secondo Virgilio, due smisurati serpenti venendo dal mare avviticchiarono Laocoonte e due suoi figli, e mentre erano i Troiani atterriti da tal portento, fu innanzi a Priamo condotto il greco Sinone, che istrutto da Ulisse, appostamente erasi ascoso nelle paludi, fingendo d’essere fuggito da’ Greci che volevano sacrificarlo. Costui seppe persuadere ai Troiani che il cavallo era stato fabbricato da’ Greci onde placare lo sdegno di Pallade irritata per la violazione del Palladio o simulacro di Pallade che Ulisse con arte introdottosi in Troia aveva {p. 423}precedentemente rapito, sapendo essere destino che Troia non fosse presa finchè il Palladio conservasse ; aggiunse che Troia sarebbe stata eternamente sicura, se quel cavallo nelle sue mura si conducesse. Fu esso adunque, squarciate le mura, nella città introdotto. Intanto Sinone a notte buia diede dall’alto della rocca con una fiaccola il segno a quelli che dietro Tenedo erano nascosti e aperse l’uscita a quelli che stavan dentro il cavallo, i quali assalendo i Troiani sepolti nel sonno, a ferro e fuoco misero la città tutta.

Ulisse e Menelao uccisero Deifobo figlio di Priamo, e via condussero Elena, che dopo la morte di Paride a quello era stata data in isposa.

Pirro entrato a forza nella reggia di Priamo vi uccise Polite altro de’ figli di lui, indi Priamo stesso ; e sacrificata Polissena sulla tomba d’Achille, trasse prigioniera Andromaca vedova di Ettore.

{p. 424}Gli altri tutti sparsi per le case e per le vie, uccidendo, predando, incendiando, ridussero quella città già sì florida e sì possente ad un mucchio di sassi e di cenere.

Dei capi troiani e loro alleati i soli che avanzarono da quella guerra e che dopo la presa e l’incendio della città salvi e liberi partirono, furono Antenore ed Enea.

Antenore che fu creduto favorevole al partito dei Greci, perchè consigliava la restituzione di Elena, e avendo in Troia scoperto Ulisse con abito simulato da schiavo non lo manifestò, dopo l’incendio di Troia partì cogli Eneti popolo della Paflagonia, che sotto Troia perduto avevano il loro re Filemone ; e venuto all’estremo dell’Adriatico fondò la città di Padova ; e discacciati gli Euganei diede alla provincia dal nome degli Eneti quel di Venezia, come alcuni opinano.

{p. 425}Enea figlio di Anchise e di Venere fu anch’egli accusato da alcuni come traditor della patria. Omero però lo dipinge come uno de’ migliori suoi difensori, e fattolo venire alle mani prima con Achille poi con Diomede, sebbene all’uno ed all’altro inferiore, lo fa salvato nel primo caso da Nettuno nel secondo da Venere.

Nella notte terribile in cui fu presa Troia, veduto ucciso Priamo e la città in fiamme, per ordine di Venere prese sulle spalle il vecchio suo padre Anchise che portava gli Dei Penati, e guidando a mano il figlio Ascanio, partì seguíto dalla moglie Creusa figlia di Priamo, che poi si smarrì nel viaggio. Enea col padre e col figlio andò a ricovrarsi ad Antandro città della Frigia alle radici del monte Ida. Quivi raccolti quanti potè de’ Troiani superstiti, e fabbricata co’ legni d’Ida una flotta, si mise in mare. Dopo molte vicende sbarcò in Italia alle foci {p. 426}del Tevere. Ivi accolto cortesemente dal re latino, ne sposè la figlia Lavinia, dopo avere ucciso Turno re de’ Rutuli cui Lavinia era stata innanzi promessa.

Enea lasciò nel Lazio suo successore il figlio Giulio Ascanio, che edificò Alba e vi trasportò la sua sede. Dopo una lunga serie di re scese da lui Numitore padre d’Ilia o Rea Silvia sacerdotessa di Vesta, dalla quale congiunta a Marte nacquero poi Romolo e Remo fondatori di Roma.

L’ira di Achille, e i mali di cui fu cagione ai Greci prima, indi ai Troiani, formano l’argomento del primo poema epico che sia apparso, vale a dire dell’Iliade di Omero.

Le avversità che Ulisse ebbe a soffrire nel ritorno dopo la guerra di Troia, vennero da Omero descritte nell’Odissea.

Le vicende sofferte da Enea dalla sua partenza dall’Asia fino al suo stabilimento in Italia furone cantate da Virgilio nella Eneide.

{p. 427}L’avventura di Laocoonte ha dato argomento ad uno de’ più bei pezzi di greca scultura che noi possediamo.

Questo gruppo è opera di Polidoro, di Atenodoro e di Agesandro di Rodi, tre eccellenti maestri dell’arte, i quali d’accordo lo scarpellarono da un sol ceppo di marmo. Esso fu rinvenuto a’ tempi di Giulio II sotto la volta di un salone che sembra aver fatto parte delle terme di Tito. Il Laocoonte trovasi al presente nel Museo Pio Clementino a Roma.

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Gli Omcoli, le Sibille, i Libri Sibillini, i Tempii più famosi, i Sacrifici, i Sacerdoti, gli Auguri, gli Augurii, le Espiazioni, l’Acqua Lustrale, i Giuochi Pubblici, ecc. §

Chiamavansi dagli antichi Oracoli le risposte che gli Dei davano agli uomini ; e lo stesso nome davasi pure al luogo in cui per bocca degli uomini eran renduti.

Gli Oracoli facevano parte della pagana religione ; e di tutte le specie di predizioni era questa la più sacra ed augusta. Per mezzo degli Oracoli credeva l’uomo di avere un immediato commercio colla divinità. Il desiderio sempre vivo e sempre inutile di conoscere l’avvenire, die’ {p. 429}vita agli Oracoli ; l’impostura li accreditò e vi pose il sigillo del fanatismo.

La venerazione tributata agli Oracoli erasi aumentata per mezzo di ricchi doni che si facevano ai loro templi e specialmente per le persone che recavansi a consultarli. I luoghi scelti per costruire i tempii ove rendevansi gli Oracoli, le vicinanze, l’esteriore degli edifici tutto contribuiva a mantenere la pia credulità del volgo.

Nella Beozia sì fertile in Oracoli non iscorgevansi che rupi inaccessibili, circondate da monti, da boschi e da antri isolati, orribili all’aspetto. I sacerdoti di tutti questi tempii non volevano essere consultati che da grandi personaggi o da uomini che fossero a parte de’ loro secreti ; e dovevano essere soli quando entravano nei tempii. Alessandro entra nel tempio di Giove Ammone e lascia alla porta i suoi cortigiani e financo il suo caro Effestione.

{p. 430}Vespasiano fa allontanare la sua scorta nel presentarsi che fa al tempio di Serapi.

Quando un particolare voleva maritarsi, intraprendere un viaggio, liberarsi d’una malattia, condurre a buon fine qualche impresa, tosto recavasi a consultare gli Dei che avevan fama di predire il futuro. Gli Oracoli rendevansi in diverse maniere. Talvolta per ottenerli, era d’uopo di molte preparazioni, di digiuni, di sacrifici, ecc.

Giove in forza della sua qualità di sovrano degli Dei, era riguardato come il primo motore degli oracoli, e prima sorgente d’ogni divinazione.

Dopo gli oracoli di Giove i più celebri e più accreditati erano quelli cui presiedeva Apollo, figliuolo di lui, siccome quello che nella cognizione dell’avvenire era il più versato di tutti gli Dei, essendosene istrutto dallo stesso Giove.

I più famosi tra gli Oracoli erano :

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Sacrifizio

{p. 431}L’oracolo di Dodona nell’Epiro, dove i sacerdoti rendevano le risposte ascosi nelle querce del bosco a Giove consacrato, per cui le favole dissero che le querce parlavano.

L’oracolo di Giove Ammone nella Libia, ove la statua di lui solennemente portavasi da sacerdoti, e da’ segni che ella dava coi suoi movimenti, i sacerdoti interpretavano le risposte.

L’oracolo di Delfo, in cui le risposte davansi dalla Pizia sacerdotessa d’Apollo. Questa Pizia chiamasi anche Pitonessa. I poeti però sogliono dare il nome di Pitonessa a qualunque strega in generale. La Pitonessa sacerdotessa d’Apollo rendeva gli oracoli su di un tripode, scranna piccola con tre piedi, che Apollo aveva coperto colla pelle del serpente Pitone. Quando costei voleva predir il futuro, usciva fuori di sè, parlava con una voce tremolosa e mozza, si contorceva orribilmente e chiamava a sè le anime dei morti.

{p. 432}Apollo aveva un Oracolo anche a Claro città della Ionia. Il più celebre però tra gli Oracoli di Apollo era quello di Delfo, non tanto per la sua anzianità, quanto per la precisione e la chiarezza delle sue risposte, in confronto degli altri ; di modo che gli Oracoli del tripode passavano in proverbio per antiche ed infallibili verità.

Il privilegio degli Oracoli venne coll’andar del tempo accordato a quasi tutti gli Dei e ad un gran numero di eroi. Marte ebbe un Oracolo nella Tracia, Mercurio a Patrasso ; Venere a Pafo e a Cipro ; Minerva a Micene ; Diana nella Colchide ; Pane nell’Arcadia ; Esculapio in Epidauro e a Roma ; Ercole in Atene e a Cadice ; Serapi in Alessandria ; Trofonio figlio di Ercino re d’Orcomene n’ebbe un celebre nella Beozia il quale rendevasi in una caverna presso Lebadea ; perfino il bue Api ebbe in Egitto un Oracolo. L’ambiguità era uno de’ più ordinari {p. 433}caratteri degli Oracoli e il duplice loro senso pareva sempre favorevole. Questa asserzione è convalidata da infiniti esempi che presenta la storia. Per consultare gli Oracoli era necessario scegliere il tempo in cui credevasi che gli Dei ne pronunciassero ; poichè tutti i giorni non erano eguali. Da principio a Delfo, non eravi che un mese dell’anno, in cui la Pizia rispondesse a coloro che ivi recavansi a consultare Apollo. Col tratto del tempo in un giorno d’ogni mese, il Dio pronunciava i suoi Oracoli, i quali non si rendevano tutti nella stessa maniera : qui la sacerdotessa rispondeva pel Dio che veniva consultato ; là era l’Oracolo pronunciato dal Dio medesimo ; in un altro luogo ricevevasi la risposta dal Nume, durante il sonno, e quel sonno preparavasi con particolari disposizioni che avevano qualche cosa di misterioso ; talvolta ciò avveniva per mezzo di biglietti suggellati ; o finalmente {p. 434}ricevevasi la risposta dell’Oracolo, gittando le sorti. Talvolta gli Dei mostravansi meno difficili ; e il consultante, al primo presentarsi otteneva la risposta dell’Oracolo, come avvenne ad Alessandro, quando andò a consultare Giove Ammone.

Anche gli antichi popoli del Nord avevano i loro Oracoli come l’Italia e la Grecia ; e tali Oracoli nè meno celebri, nè meno venerati, erano pronunciati dagli Dei e dalle Dee, oppure dalle Parche ne’ loro tempii. Quello d’Upsal era famoso tanto per gli Oracoli quanto pei sacrifici.

Nel predire il futuro si distinsero anche le donne, e famose in questa professione furono le Sibille. Così chiamavano i Greci ed i Romani certe donne ch’essi dicevano invase di spirito profetico ed alle quali attribuivano la cognizione del futuro. Convengono generalmente gli antichi che vi siano state delle Sibille, ma non sono tutti concordi riguardo al loro numero. {p. 435}Avvi chi ne conta una sola, quella di Eritrea nella Ionia ; chi tre, l’Eritrea, la Sardica e la Cumea ; altri ne contano quattro, l’Eritrea, la Sardica, l’Egizia e la Samia ; e Varrone la cui opinione è adottata da molti ne annovera dieci, la Persica, la Libica, la Delfica, la Cumea o Cumana, che risiedeva in Cuma città d’Italia, l’Eritrea, la Samia, la Cumana così chiamata da Cuma città dell’Eolide, detta anche Amaltea e Demofila, l’Ellespontica, la Frigia e l’Albanea.

La più celebre di tutte le Sibille era quella di Cuma città d’Italia, chiamata dagli uni Dafne, da altri Manto, da parecchi Femonoe o Deifoba e da taluni Amaltea. La si vuole figlia di Tiresia famoso indovino, o di Ercole o di Glauco. Dicesi che Apollo ne divenne amante e che per renderla sensibile, le offrì d’accordarle tutto ciò ch’essa poteva desiderare. Gli dimandò essa di vivere tanti {p. 436}anni, quanti erano i grani di sabbia che essa teneva in sua mano, poc’anzi raccolti ; locchè fu a lei concesso ; ma sgraziatamente dimenticò di chiedere nel tempo stesso il dono di conservare quella freschezza che tanto rendeala interessante. Apollo istesso le offrì quel favore novello, col patto che dovesse ella pure esser con lui condiscendente ; ma al piacere di una eterna gioventù, quello preferì essa di un’inviolabile castità ; di modo che una trista decrepitezza non tardò a distruggere le avvenenti attrattive della giovinezza. Era essa giunta all’età di settecento anni, allorchè Enea approdò in Italia presso la città di Cuma ove la Sibilla aveva il suo soggiorno. Quell’eroe fu a visitarla nel suo antro e la pregò di condurlo all’inferno onde vedervi il proprio padre Anchise. Mancavanle ancora tre secoli per compiere il numero dei grani di sabbia che dovevano por fine alla {p. 437}misura degli anni di sua vita. La Sibilla dopo di avergli fatto presente la difficoltà di un tal viaggio promise di soddisfarlo. Gli mostrò essa nella foresta di Proserpina un ramo d’oro e gli ordinò di strapparlo. L’eroe troiano ubbidì e con essa discese nel soggiorno delle ombre, ove apprese dal padre tutti i perigli cui sarebbe stato esposto nelle guerre che, per fondare in Italia un nuovo impero, doveva sostenere.

Alcuni dicono che fosse la Sibilla Cumana italiana quella che offerse al re Tarquinio i Libri Sibillini. Vogliono altri che fosse Demofila o Erofila, la settima delle Sibille nominate da Varrone, la quale era di Cuma in Eolide e confusa soventi con quella d’Italia per l’uniformità del nome del luogo ov’esse soggiornavano quantunque in paesi diversi. Qualunque sia la procedenza di questi libri è però certo che nulla avvi di più {p. 438}celebre nella Storia romana quanto i Libbi Sibillini vale a dire una raccolta di versi attribuiti. alle Sibille la quale conteneva i destini di Roma. Narrasi che una donna si presentò un giorno a Tarquinio Prisco, o al Superbo secondo alcuni e gli offrì nove volumi diversi pei quali chiese 300 monete d’oro. Il re la scacciò con disprezzo ; per il che essa ne gettò tre nel fuoco in sua presenza e chiese lo stesso prezzo per quelli che rimanevano. Essendole negata nuovamente la richiesta mercede, essa ne bruciò tre altri e perseverò nel chiedere la stessa somma pei tre ultimi, con minaccia di bruciarli in caso di rifiuto. Tarquinio maravigliato da tale ostinazione, mandò a cercare gli auguri, i quali consigliarono ch’egli dovesse pagare pei tre rimanenti volumi tutto ciò che si chiedeva. Ricevuta la somma l’incognita avvertì Tarquinio di custodire diligentemente questi libri come contenenti {p. 439}oracoli che presagivano i destini di Roma, e poscia dicesi che disparve. Sebbene questa storia senta in tutto del favoloso, egli è però certo che i Romani possedevano una raccolta di sibillini versi. Il re li fece porre in una cassa di pietra, la quale fu posta sotto una volta del Campidoglio. La custodia ne fu primamente commessa a due pontefici, che furono chiamati duumviri. Questo numero fu successivamente portato a dieci e poi a quindici, i quali pigliarono il nome di quindecimviri. In origine questi sacerdoti non incombevano che alle cure le quali esigeva quel sacro deposito, poscia vi fu aggiunto l’ufficio di celebrare i giuochi secolari.

Non si poteva consultare questi libri senza una speciale autorizzazione del senato, il quale non la concedeva se non quando si doveva intraprendere un’importante guerra, sedare una violenta sedizione, allorchè l’esercito era stato {p. 440}disfatto, e la peste o la carestia, o qualche epidemico morbo desolava la città e le campagne ; finalmente, allorchè eransi osservati dei prodigi i quali minacciassero qualche grande sventura, mai non si tralasciava di ricorrervi. Sotto pena di morte era proibito a chi custodiva questi libri di lasciarli vedere a chicchessia. Quella collezione era una specie di oracolo permanente, sì di sovente dai Romani consultato, quanto lo era quello di Delfo dai Greci.

Molti altri Libri Sibillini ebbero i Romani ma non avvi che i versi creduti della Sibilla Cumana il segreto dei quali sia stato sempre religiosamente conservato.

Nel 363 dell’era volgare i Libri Sibillini trovavansi ancora nel tempio di Apollo Pallatino, poichè Giuliano li fece consultare in quell’ epoca sulla sua spedizione contro i Persi ; ma nel mese di marzo di quell’anno medesimo, essendo il tempio {p. 441}di Apollo stato consumato dalle fiamme, con molta fatica furono conservati quei libri che poscia vennero per certo in qualche altro religioso luogo collocati ; poichè si sa che Onorio nel 403 li fece consultare nella circostanza della prima invasione d’Alarico re dei Goti in Italia.

Il culto che si prestò agli Dei, a’ Semidei e agli uomini che per qualche straordinaria azione si erano resi illustri, era da principio semplicissimo. Un mucchio di sassi coperti d’erbe o di frondi in aperta campagna, in qualche luogo elevato, era l’altare, sul quale agli Dei rappresentati da un sasso informe o da un troneo offrivansi i frutti della terra e non più. A poco a poco incominciaronsi a effigiare gli Dei sotto varie forme nelle statue di legno, di creta, di marmo, di bronzo, di avorio, d’argento e d’oro ; s’incominciarono ad alzar loro de’ piccoli rozzi tempietti ne’ boschi a lor consacrati, {p. 442}finchè si giunse ad erigere i più magnifici templi, quali erano il tempio di Vulcano a Memfi in Egitto, quel di Diana in Efeso, quelli d’Apollo a Mileto e Delfo, quello di Cerere in Eleusi, quello di Giove Olimpio in Atene, ed in Roma quello di Giove Capitolino, ed il Panteon che tuttavia sussiste ; ne’ Sacrifici oltre a’frutti della terra incominciaronsi ad offerir gli animali, e ne’ più solenni, chiamati ecatombe, immolavansi fin cento buoi, oltre il detestabile costume in molti luoghi introdotto di sacrificare anche vittime umane.

Ne’ Sacrifici solenni la vittima ornavasi di fiori, di nastri e di bende, le si indoravan le corna. Si esaminavano le interiora ; se eran sane era di buon augurio, e di sinistro se erano guaste o infette. Una porzione della vittima abbruciavasi in onore degli Dei, il resto mangiavasi, eccetto negli olocausti, ove tutta la vittima si abbruciava.

[n.p.] 

[n.p.] 

Aracolo d’Apollo

{p. 443}I Sacrifici erano sempre accompagnati da libazioni, che consistevano nel versare del vino, o in mancanza d’easo dell’acqua, in onore del Dio al quale sacrificavasi.

La patera di cui si è parlato qualche volta in questo Compendio era un vaso di cui facevano uso i sacerdoti nei sacrifici.

Ogni tempio aveva i suoi Sacerdoti, e molti di questi eran distinti con nomi particolari secondo il Dio cui servivano, così Galli, Coribanti e Cureti chiamavansi i, Sacerdoti di Cibele, Luperci quelli di Pane, Sali o Salici quelli di Marte, ecc.

Eranvi in molti luoghi delleSacerdotesse, come in Delfo la Pizia sacerdotessa di Apollo ; in Roma le Vestali custodi del fuoco sacro di Vesta, e in molte parti della Grecia e dell’Italia, le sacerdotesse di Bacco, conosciute sotto vari nomi di Baccanti, Menadi, Bassaridi, Tiadi, ecc.

In Roma chi aveva la suprema autorità nelle cose sacre era il Pontefice {p. 444}masimo. Seguivano i Flamini, tra cui il Diale o Flamine di Giove era il primo, venivano poi il Marziale, il Quirinale, eco. Anche le mogli loro conosciute sotto il nome di Flaminiche erano distinte col mezzo di particolari ornamenti e di grandi prerogative, ed annoverate tra le Sacerdotesse.

Ai conviti che celebravansi dopo i sacrifici presiedevano gli Epuloni sacerdoti istituiti l’anno 558 della fondazione di Roma. Essi preparavano i banchetti sacrinei giorni solenni ed erano anche obbligati a pubblicare il giorno in cui tali banchetti dovevano aver luogo in onore degli Dei. Il loro numero che da principio era solo di tre, venne portato sino a dieci.

Solevano i Romani offrine alle divinità i primi frutti che raccoglievano dalla terra in segno di riconoscenza. Per ricevere siffatte offerte nei templi, fu d’uopo di {p. 445}proporre alcusse persone che avessero cura di conservarle, di distribuirle al popolo e di servirsene pei banchetti a certe divinità consacrati. Quest’incarico fu affidato agli Epuloni che da alcuni furono chiamati Parassiti. Questo nome che da lungo tempo è divenuto spregevole fu in origine molto onorifico. Esso ha avuto la stessa sorte di quello di Sofista che si dava anticamente ai filosofi o retori, e il cattivo uso che poscia ne venne fatto, ambidue gli ha egualmente screditati. Non si sa positivamente quando i Parassiti, le cui funzioni facevano parte del culto pagano, incominciarono a degenerare e a cadere in un discredito in cui sono poscia sempre restati. Comunque sia la cosa, eglino si avvilirono, procurandosi con basse adulazioni l’accesso nelle case dei grandi. Allora furono chiamati Parassiti gli adulatori i quali, per procurarsi una piacevole sussistenza, la delicatezza e la {p. 446}probità senza verun rossore sacrificavano. I Romani, ammettendoli alle loro mense, usavano del diritto di porli in ridicolo, di maltrattarli e talvolta anche pereuoterli.

Gli Anuspici erano quelli che esaminavano le interiora degli animali per trarne i presagi. I sacerdoti Akvali erano quelli che sacrificavano per la fertilità de’ campi ; le feste che si celebravano due volte in onore di Cerere per questo oggetto chiamavansi Ambarvali.

I Feciali erano sacerdoti o ufficiali pubblici i quali presso i Romani annunciavano i trattati, la pace, la guerra e le tregue. La loro principale cura era quella d’impedire che s’intraprendessero delle guerre ingiuste dalla repubblica, e ad essi venivan dirette le lagnanze dei popoli, i quali pretendevano d’essere stati lesi dai Romani ; e se le lagnanze erano giuste i Feciali avevano diritto di punire gli autori dell’ingiustizia.

{p. 447}Eravi pur in Roma il collegio degli Auguri, nè cosa alcuna di gran momento s’intraprendeva prima che questi non avessero deciso, se l’augurio era fausto o infausto.

Gli Augurii si prendevano altri dall’osservazione del cielo, altri dal canto e dal volo degli uccelli che si chiamavano auspicii, altri dal mangiare dei polli. Il tuono era di buon augurio quando sentivasi alla sinistra, perchè giudicavasi proveniente dalla destra di Giove ; non così se udivasi al contrario.

Dalla maniera con cui ardeva l’incenso, dal crepitare, dal fumo traevansi gli Augurii. Tutti i fenomeni straordinari, tutti i casi impensati, tutti i moti volontari del cuore, degli occhi, delle ciglia, il sonar degli orecchi, gli starnuti, le parole e i rumori uditi a caso e improvvisamente offerivano materie di buono o tristo presagio, perchè riguardavansi come avvisi {p. 448}spediti dagli Dei di ciò che aveva a succedere.

Fra le cerimonie religiose dei gentili bisogna annoverare le Espiazioni colle quali pretendevasi purificare i colpevoli non che i luoghi profanati. Ve n’erano di più specie, e ciascuna aveva le sue particolari cerimonie. Le principali erano quelle che praticavansi per l’omicida, per i prodigi, per le città, per le armate, per i templi. Le espiazioni solenni erano precedute da digiuni e seguite da preghiere pubbliche e da sacrifici espiatorii. All’Espiazioni minori bastava il farsi aspergere coll’acqua lustrale consacrata dai sacerdoti, e spesso anche il lavarsi o tutto il corpo o anche le sole mani in acqua pura.

L’acqua lustrale era acqua comune nella quale estinguevasi un tizzone ardente tratto dal fuoco de’ sacrifici. Quest’acqua era contenuta in un vaso posto alla porta o al vestibolo dei templi, e quelli che entravano se ne lavavano da sè modesimi {p. 449}o se ne facevano lavare dai sacerdoti. Quando eravi un morto in una casa, mettevasi sulla porta un gran vaso pieno di acqua lustrale, preso in qualche altra casa, ove non vi fossero morti ; tutti quelli che recavansi alla casa ove era il morto, nell’uscirne aspergevansi con quest’acqua : si soleva servirsene anche per lavare il corpo.

Gli Egizi, i Greci, i Romani avevano un gran numero di Feste. Di alcune di esse abbiamo fatto cenno ai loro rispettivi luoghi. Le Feste erano sacre per quei popoli. Se avessero dato luogo alla punizione di qualche colpevole, avrebbero essi creduto di profanarle, disturbandone in tal guisa la gioia. Si coronavano di fiori, si astenevano dal proferire parole di triste augurio. Qualche volta aprivano le prigioni, ecc. ; ma nondimeno vi si abbandonavano soventi agli eccessi della più vergognosa crapula.

Porremo fine a questo Compendio parlando dei giuochi pubblici.

{p. 450}I Gruochi pubblici erano sorte di spettacoli pubblici adottati dalla maggior parte dei popoli per ricrearsi o per onorare i loro Dei. Non si conosceva giuoco alcuno il quale non fosse a qualche Dio in particolare ed anche a molti insieme dedicato. Eravi un decreto del senato romano che gli ordinava espressamente. Principiavasi sempre a solennizzarli con sacrifici e con altre religiose cerimonie : in una parola la loro istituzione aveva per apparente motivo la religione, oppure qualche obbligo di pietà. È però vero che nou poca parte vi aveva la politica, mentre gli esercizi di questi giuochi servivano d’ordinario a due mire : da una parte i Greci, fin dalla prima giovinezza acquistavano lo spirito marziale e con ciò rendevansi atti a tutti i militari esercizi ; e dall’altra si facevano più snelli e più robusti, essendo questi esercizi propri ad accrescere le forze del corpo e a procurare una vigorosa sanità.

I Giuochi pubblici pei Greci erano {p. 451}divisi in due diverse specie ; gli uni erano compresi sotto il nome di Ginnici e gli altri sotto quello di Scenici. I Ginnici abbracciavano tutti gli esercizi del corpo, la corsa a piedi, a cavallo o sulle bighe e le quadrighe ; la lotta o il pancrazio, in cui gli atleti nudi ed unti d’olio cercavano di atterrarsi l’un l’altro ; il salto o all’insù ovvero orizzontalmente ; il giavellotto che lanciavasi colla mano, o la saetta, che si scagliava coll’arco al segno prefisso ; il disco che era un pezzo rotondo di legno, o sasso, o ferro assai pesante, che i giocatori si sforzavano di gettare quanto potessero più lontano ; il pugilato nel quale combattevasi ora coi pugni soltanto, ora co’ cesti, che erano guanti di duro cuoio guarniti spesso di ferro e di duro piombo. Il luogo ove si esercitava la gioventù, e ove si facevano questi giuochi chiamavasi Ginnasio, Palestra, Stadio, ecc. secondo la loro qualità.

Rapporto a’ Giuochi Scenici, questi si {p. 452}rappresentavano sul teatro, o sulla scena che si prende per l’intero teatro.

I giuochi di musica o di poesia, per le loro rappresentazioni non avevano luoghi particolari.

I più famosi giuochi della Grecia erano :

I.° I Giuochi Olimpici, che celebravansi in Olimpia città dell’Elide ogni quattro anni, e da cui prese origine il computo delle Olimpiadi :

2.° I Pitici o Pizi, che celebravansi a Delfo ;

3.° I Nemei, che si celebravano a Nemea ;

4.° Gl’Istmici, che si tenevano nell’istmo di Corinto.

In questi giuochi che facevansi con tanta pompa, ai quali non solo da tutta la Grecia, ma da tutte le parti della terra accorreva una prodigiosa moltitudine di spettatori e di concorrenti, in questi giuochi cui siamo debitori delle odi immortali di Pindaro, non davasi altro premio, {p. 453}fuorchè una semplice corona d’erba, la quale ne’ Giuochi Olimpici era di ulivo selvatico ; nei Pizi di alloro ; nei Nemei di prezzemolo e appio domestico verde ; e negl’Istmici di prezzemolo secco o di pino. I vincitori erano anche onorati spesso di pubbliche statue e nella loro patria erano tenuti sempre in gran pregio.

Non meno famosi dei greci sono i Giuochi Romani i quali furono portati a un punto di grandezza e di magnificenza incredibile. Furono distinti pei luoghi ov’eran celebrati o per la qualità del Dio cui erano dedicati. I primi erano compresi sotto il nome di Giuochi Circensi e di Giuochi Scenici, perchè gli uni venivano celebrati nel circo e gli altri sopra la scena. Riguardo ai giuochi consacrati agli Dei erano dessi divisi in sacri e in votivi, perchè si facevano per dimandare qualche grazia ; in giuochi funebri e in giuochi ricreativi, come erano, per esempio, i Giuochi Compitali.

{p. 454}Innalzarono i Romani per celebrare i loro Giuochi dei teatri, degli anfiteatri e dei circhi magnifici, di cui gli avanzi ancora si veggono a Roma, a Verona, a Nimes ed in altri luoghi. A detti giuochi essi aggiunsero anche i sanguinosi spettacoli dei combattimenti delle fiere, le quali uscir si facevano dalle carceri o tane praticate al basso degli anfiteatri, e i più atroci e crudeli spettacoli dei combattimenti de’ gladiatori, che spesso costretti erano a pugnare fino alla morte.

Durante il tempo della reale dignità, i Giuochi Romani erano regolati dai re ; ma dopo ch’essi furono espulsi da Roma, dall’istante in cui la repubblica prese una forma regolare, diverse autorità presiedevano a questi diversi giuochi.

Presso i Romani celebravansi dei giuochi non solo in onore delle divinità abitatrici del cielo, ma eziandio di quelle che regnavano nell’inferno.

FINE

{p. 455}

Indice §

A

Abila. V. Ercole. P. 291.

Absirto. V. Giasone. 350.

Acasto. Id. 35r.

Acheloo. V. Ercole. 291.

Acheronte. 83-90.

Acherusa, lago. 89.

Acherusa, palude. 90.

Achille. 418. V. Teti. 195.

Aci. 249.

Acidalio. (fonte). 38.

Acqua Lustrale. 448.

Acrisio. V. Perseo. 307.

Admeto. V. Ercole. 290. Apollo. 50.

Adone. 36r

Adrasto. V. Polinice. 397.

Aea (città). V. Fineo. 359.

Agamennone. 406.

Agenoria. 278.

Agonii Dei. 278.

Aiace. V. Achille. 420.

Albione. V. Ercole. 291.

Alceste. V. Ercole. 290.

Alcione figlia di Eolo. 380.

Alcione o Alcioneo, gigante. 381.

Alcmena. V. Giove. 16. Ercole. 281.

Alessandro. V. Oracoli. 429.

Aletto. V. Furie. 99.

Alettrione. V. Marte. 33.

Alfeo. V. Aretusa. 250.

Altea. V. Meleagro. 373.

Amaltea (la Capra). V. Giove. 14.

Amadriadi. 243.

Amazzoni. V. Ercole. 288.

Ambarvali, feste. 446.

Amore. V. Cupido. 147. Antero. 151.

Anchise. V. Enea. 425.

Androgeo. V. Minosse II. 202.

Andromaca. V. Paride. 423.

Andromeda. V. Perseo. 310.

{p. 456}Anemone. V. Nettuno. 45.

Anfione. 339.

Anfitrione. V. Ercole. 281.

Anfitrite. V. Nettuno. 44. Nereidi. 247.

Antenore. 424.

Anteo. V. Ercole. 291.

Antero. 151.

Antigone. V. Edipo. 390.

Antiope o Ippolita, Amazzone. V. Teseo. 319.

Antiope madre di Anfione e di Zeto. V. Giove. 16.

Api. V. Oracolo. 432.

Apollo. 48.

— del Belvedere. 54.

Aquilone. 139.

Aracne. 253.

Areopago. 211.

Aretusa. 250. V. Cerere. 26.

Argia. V. Polinice. 397.

Argo. V. Giunone. 21.

— V. Argonauti. 357.

Argonauti. 355.

Arianna. V. Bacco. 66. Minosse II. 205. Teseo. 318.

Aristeo. V. Proteo. 123. Orfeo. 334.

Arpalice. V. Fineo. 358.

Arpie. 46. V. Argonauti e Fineo. 358.

Arpocrate. 155.

Aruspici. 446.

Arvali, sacerdoti. 446.

Ascalafo. 26.

Ascalo o Talao. V. Dedalo. 209.

Ascanio. V. Enea. 425.

Atalanta. 375.

Atlante. 314. V. Esperidi. 256. Perseo. 310.

Atlantidi. V. Atlante. 316.

Atreo. 406.

Atridi. V. Atreo. 406.

Atropo. V. Parche. 95.

Atteone. V. Diana. 41.

Augia. V. Ercole. 288.

Auguri. 447.

Augurii. 447.

Aurora. 159.

Austro. 139.

Avveruno. 278.

B

Baccanali. V. Bacco. 68.

Baccanti. V. Bacco. 68. Orfeo. 336.

Bacco. 62.

Bassaridi. V. Sacerdoti, ec. 443.

{p. 457}Batto. V. Mercurio. 60.

Belidi. V. Danaidi. 105.

Bellerofonte. 366.

Bellona. 178.

Berecinzia. V. Cibele. 11.

Bergione. V. Ercole. 291.

Borea. 137.

Briareo. V. Tibani o Giganti. 110.

Bronte. V. Ciclopi. 70.

Bubona. 276.

Busiride. V. Esperidi. 258. Ercole. 290.

C

Caccia di Caledone. V. Meleagro. 374.

Cadmo. 325. Suoi figli. 327.

Caco. V. Ercole. 291.

Caduceo. V. Mercurio. 56.

Calai. 46.

Calisto. V. Giove. 17.

Calliope. 223.

Calpe. V. Ercole. 291.

Camene. V. Muse (le). 222.

Campi Elisi. 80.

Caos. 5.

Cariddi. 270.

Carite. V. Grazie. 217.

Caronte. V. Inferno (descrizione dell’). 87.

Cassandra. V. Paride. 422.

Cassiopea. V. Perseo. 311, 313.

Castalio. 224.

Castore. 329.

Cefalo. V. Aurora. 159.

Cefeo. V. Perseo. 311313.

Ceice. 380.

Centauri. 322.

Centauresse. V. Centauri. 324.

Cerambo. V. Deucalione. 305.

Cerasti. V. Venere. 38.

Cerbero. V. Inferno (descrizione dell’). 91.

Cerere. 25.

Ceste (cinto di Venere). 36.

Chimera (la). V. Bellerofonte. 368, 371.

Chirone. 353.

Ciane. V. Plutone. 75.

Cianei o Simplegadi, scogli. V. Argonauti. 357.

Cibele. 11.

Ciclopi. 70.

Cicno o Cigno. V. Fetonte. 183.

Cilleno. V. Mercurio. 59. 26

{p. 458}Cinzia. V. Diana. 43.

Ciparissa o Ciparisso. V. Apollo. 5r. Pane. 116.

Circe. V. Glauco. 213. Sirene (le). 269.

Citerone, monte. V. Edipo. 391.

Clio. 223.

Clitennestra. V. Agamennone. 407. Oreste. 409.

Clizia. V. Apollo. 51.

Clori. V. Zefiro. 128.

Cloto. V. Parche. 95.

Cocito. V. Fiumi dell’Inferno. 84, 90.

Colchide. V. Giasone. 348.

Colonne d’Ercole (le). V. Ercole. 299.

Como. 163. V. Altre divinità, ecc. 278.

Condannati celebri del Tartaro. 103.

Coribanti o Cureti. V. Cibele. II.

Coronide. V. Flegia. 107. Esculapio. 170.

Cornucopia. V. Ercole. 291.

Cotto. V. Briareo. 110.

Crenee. V. Naiadi. 251.

Creonte. V. Giasone. 351. Edipo. 390.

Creusa. V. Enea. 425.

Crisaore. 237.

Crisippo. V. Pelope. 404.

Cumana (Sibilla). 435.

Cupido. 145.

D

Dafne. V. Apollo. 5r.

Danae. V. Giove. 16. Perseo. 307.

Danaidi. V. Condannati, ecc. 105. Orfeo. 335.

Danao. V. Danaidi. 105.

Dedalo. 208.

Deianira. V. Ercole. 293.

Deifile. V. Eteocle e Polinice. 397.

Deifobo. V. Paride. 423.

Dei Superiori. 5.

Dei Inferiori. III.

— Infernali. 74.

Delia. V. Diana. 43.

Delfo. V. Oracolo di. 432.

Delo (isola). V. Apollo. 49.

Demogorgone. V. Pane, ec.113.

Destino (il). 165.

Deucalione. 304.

Diana. 40. V. Ninfe (le). 253.

{p. 459}Diana Febea. 40.

— Ecate. 41.

Dindimea. V. Cibele. 11.

Diomede. 289.

Dioscuri. V. Castore e Polluce. 331.

Dirce. V. Ansione e Zeto. 339.

Dire. V. Furie. 100.

Discordia. V. Paride. 414.

Dite. V. Plutone. 76.

Ditti. V. Perseo. 308.

Divinità (altre) degli antichi. 276.

Driadi. 241.

E

Eaco. V. Inferno (descrizione dell’). 79.

Ebe. 157.

Ecate. 93.

Echidna. 91.

Eco. 215.

Ecuba. V. Paride. 412.

Edipo. 390.

Educa o Edusa. 278.

Efeso (tempio di). V. Diana. 43.

Effestione. Vedi Oracoli. 429.

Egeo. V. Teseo. 320.

Egisto. 409.

Egitto. V. Danaidi. 105.

Egle. V. Naiadi. 252.

Elena. V. Menelao. 407. Paride. 412.

Elettra. V. Oreste. 409.

Eleusi. V. Cerere. 26.

Eleusini, misteri. V. Cerere. 26.

Eliadi. V. Fetonte. 183.

Elicona. V. Pegaso (Cavallo). 236. Muse (le). 224.

Elisi. V. Campi Elisi. 80.

Elle. 361.

Endimione. V. Diana. 41.

Enea. 425. V. Cumana (Sibilla). 436.

Enio. V. Bellona. 178.

Enomao. V. Pelope. 403.

Enone. V. Paride. 413, 419.

Eolo. 135.

Epafo o Api. V. Giunone. 21.

— V. Fetonte. 181.

Epimeteo. V. Prometeo. 302. Vulcano. 73.

Epuloni. 444.

Eraclidi. V. Ercole. 297.

Erato. 223.

Ercole. 280. V. Gorgoni (le). 234. Esperidi (le). 257.

{p. 460}Ercole Farnese. V. Ercole. 296.

Erebo. V. Fiumi dell’Inferno. 87.

Eretteo. V. Giano. 382.

Erinni. V. Furie. 100.

Ermafrodito. V. Mercurio. 56.

Ermete. V. Mercurio. 58.

Ermione o Armonia. V. Cadmo. 327.

Ermione. V. Oreste. 410.

Erostrato. V. Diana. 43.

Erote. V. Cupido. 150.

Esculapio. 170.

Esione. V. Ercole. 291. Paride. 417.

Esone. V. Glasone. 344.

Esperidi o Atlantidi (le). 256.

Esperidi, Giardini. 259.

Espiazioni. 448.

Eteocle. 396.

Etna. V. Vulcano. 70.

Ettore. V. Achille. 421.

Eumenidi. V. Furie. 100.

Euriale. V. Gorgoni (le). 232.

Euridice. V. Orfeo. 334.

Euristeo. V. Ercole. 280. Pelope. 405.

Euro. V. Eolo. 139.

Europa. V. Giove. 16. Cadmo. 325.

Euterpe. 223.

F

Fatiche (le dodici) di Ercole. 286.

Fauni. 117.

Fauno. 116.

Febo. V. Apollo. 48.

Fede. 278.

Feciali. 446.

Fedra. 319.

Feronia. 126.

Feste. 449.

Fetonte. 181.

Ficeo, monte. 401.

Fileo. V. Ercole. 286.

Filottete. V. Ercole. 295.

Fineo. 358. V. Perseo. 311.

Fiumi dell’Inferno. 83.

Flamini, sacerdoti. 444.

Flaminiche, sacerdotesse. 444.

Flegetonte. V. Fiumi dell’Inferno. 84.

Flegia. V. Condannati, ec. 107.

Flora. 129.

Folo. V. Teseo. 322.

Fortuna. 161.

{p. 461}Frisso. V. Vello d’Oro. 361.

Furie. V. Inferno (descrizione dell’). 98. Orfeo. 335.

G

Galatea. V. Nereidi. 249.

Ganimede. V. Giove. 17.

Genio. V. Altre divinità, ecc. 277.

Gerione. V. Ercole. 290.

Giacinto. V. Apollo. 51.

Giano. 382.

Giasone. 344.

Giganti (i). V. Condannati, ecc. 109.

Gige. V. Condannati, ecc. 110.

Giobate o Iobate. V. Bellerofonte. 367.

Giocasta. V. Edipo. 390.

Giove. 14. V. Altre divinità, ecc. 277. Ercole. 293. Oracoli. 430.

— Ammone. 17.

— Olimpio o Olimpico. Id.

— Capitolino. 18.

Giuliano. V. Libri Sibillini. 440.

Giunone. 20. V. Altre divinità, ecc. 277. Ercole. 282. Paride. 414 e seg.

— Infernale. V. Proserpina. 75.

Giuochi Pubblici. 450.

— Circensi. V. Giuochi Romani. 453.

— Compitali. Id. 454.

— Ginnici. 451.

— Istmici. Id.

— Nemei. Id.

— Olimpici. Id.

— Pitici o Pizi. Id.

— Romani. 453.

— Scenici. 452. V. Giuochi Romani. 453.

Glauce o Creusa. V. Giasone. 352.

Glauco. 213.

Gordio. 386.

Gorgoni (le). 232.

Grazie (le). 217.

I

Ia. V. Atlante. 316.

Iadi. V. Atlante. Id.

Icaro. V. Dedalo ed Icaro. 210.

{p. 462}Idea. V. Cibele. 11.

Idra (l’) di Lerna. V. Ercole. 286.

Ifigenia. V. Agamennone. 408. Oreste. 410.

Igiea o Igia. 168.

Ila. V. Argonauti. 356.

Ilo. V. Ercole. 297.

Imene. 141.

Inferno (Descriz. dell’). 78.

Ino. V. Frisso ed Elle. 361.

Introduzione. 1.

Io. V. Giunone. 20.

Iolco. V. Giasone. 344.

Iole. V. Ercole. 294.

Ipermestra. V. Danaidi. 105.

Ippocrene. V. Apollo. 48. Muse (le). 224.

Ippodamia. V. Teseo. 322 e Pelope. 403.

Ippolito. 319.

Ippomene. 378.

Ippona. 276.

Iride. V. Giunone. 23.

Iside. V. Giunone. 21.

Issione. V. Condannati, ec. 107, Orfeo. 335.

Issipile. V. Argonauti. 357.

L

Labirinto. V. Minosse II. 206.

Lachesi. V. Parche. 95.

Laide. V. Bellerofonte 371.

Laio. V. Edipo. 390.

Laocoonte. V. Paride. 422.

— Gruppo di marmo. 427.

Laodamia. V. Bellerofonte. 371.

Laomedonte. V. Nettuno. 45. Ercole. 291.

Lapiti. V. Centauri. 323.

Lara. V. Muta. 156.

Lari. 273.

Larve. V. Penati. 275.

Latona. V. Apollo. 49.

Latturcina. 276.

Laverna. 279.

Lavinia. V. Enea. 426.

Leda. V. Castore e Polluce. 329.

Lemuri. 274.

Lenno. V. Vulcano. 69. Argonauti. 357.

Leone di Nemea (il). V. Ercole. 286.

Lete. V. Fiumi dell’Inferno. 85.

{p. 493}Levana. 278.

Libero. V. Bacco. 62.

Libitina. V. Plutone, ecc. 92. Altre divinità, ecc. 279.

Liceo, monte. V. Pane. 115.

Lico. V. Anfione e Zeto. 339.

Licomede. V. Teseo. 320.

Licurgo re di Tracia. V. Bacco. 65.

Limnacidi, Limnadi, Limnee e Limniache. V. Limniadi. 253.

Limniadi. 252.

Linceo. V. Danaidi. 105. Castore e Polluce. 330.

Lino figlio di Apollo. 342.

— precettore d’Ercole. V. Ercole. 284.

Lipari (le isole). V. Vulcano. 70.

Lucina. V. Giunone. 23.

Luna. V. Diana. 41.

M

Magnesia. V. Argonauti. 357.

Maia. V. Giove. 16.

Mani. V. Plutone. ec. 100.

Marcia. 279.

Marsia. V. Apollo. 52.

Marte. 32. V. Areopago. 210.

Martea. 278.

Maturna. 276.

Medea. 348.

Medusa. V. Gorgoni (le). 233.

— (teschio). V. Perseo. 309.

Megera. V. Furie (le). 99.

Meleagridi. V. Meleagro. 375.

Meleagro. 373.

Mellona. 276.

Melpomene. 223.

Memoria. 277.

Menadi. V. Oracoli. 443.

Menalippo. V. Eteocle e Polinice. 397.

Menalo, monte. V. Pane, ecc. 115.

Menelao. 406.

Mercurio. 55. V. Altre divinità, ecc. 278.

Meti. V. Giove. 16.

Mida. V. Bacco. 66. Apollo. 5a. Gordio. 387.

Mineidi. V. Bacco. 65.

Minerva. 29. V. Aracne. {p. 464}253. Altre divinità, ecc. 278. Paride. 414.

Minosse, giudice infernale. 200. V. Plutone, ecc. 79.

— secondo. 202.

Minotauro. V. Minosse II. 205.

Mirra. Discorso preliminare. XIV.

Mirtilo. V. Pelope. 403.

Mnemosina. V. Giove. 16. Muse (le). 221.

Momo. 153.

Morfeo. V. Inferno (descrizione dell’). 102.

Morte. V. Inferno (descrizione dell’). 101.

Muse (le). 221.

Muta. 156.

N

Naiadi, ninfe. 251.

Napee, ninfe. 241.

Narciso. V. Eco. 215.

Nascio o Nasio. 278.

Nefele. V. Frisso ed Elle. 361.

Nemese (le). 188.

Nemesi. 187.

Nenia. V. Inferno (descrizione dell’). 92. Altre divinità, ecc. 279.

Neo. V. Atalanta. 376.

Nereidi, ninfe. 246.

Nerina. 278.

Nesso. V. Ercole. 294.

Nestore. V. Paride. 417.

Nettare. V. Ebe. 158.

Nettuno. 44.

Ninfe (le). 238.

— Celesti o Uranie. 240.

— delle acque. 246.

— Infernali. Id.

— Terrestri. Id.

Niobe. V. Apollo. 49.

Niso. V. Minosse II. 203.

Nodo Gordiano. 388.

Notte. V. Inferno (descrizione dell’). 101.

Numitore. V. Enea. 426.

O

Oceanidi o Oceanitidi, ninfe. 248.

Oeneo. V. Meleagro. 374.

Olimpiadi. 452.

Onfale. V. Ercole. 293.

{p. 465}Onorio. V. Libri Sibillini. 441.

Ope. V. Cibele. 11.

Oracoli. 428.

Oracolo di Api. 432.

— di Claro o Chiaro. Id.

— di Delfo. Id.

— di Diana. Id.

— di Dodona. 431.

— di Ercole. 432.

— di Esculapio. Id.

— di Giove Ammone. 431.

— di Marte. 432.

— di Mercurio. Id.

— di Minerva. Id.

— di Pane. Id.

— di Serapi. Id.

Oracolo di Trofonio. 10.

— di Venere. 10.

— di Upsal. 434.

Orco. V. Plutone, ecc. 76.

Ore (le). 229.

Oreadi, ninfe. 241.

Oreste. 409.

Orestiadi. V. Oreadi. 241.

Orfeo. 332.

Orfne. V. Ninfe infernali. 240.

Orgie. V. Bacco. 168.

Orione. V. Diana. 41.

Orizia. V. Eolo. 137.

Orta. 278.

Ortigia, isola. V. Delo. 49.

Orto. V. Ercole. 290.

Osiride. 68.

P

Pace (la). 177.

Palamede. V. Paride. 418.

Pale. 112.

Palilia. V. Pale. 112.

Pallade. V. Minerva. 29.

Pandora (statua). V. Vulcano. 72.

— (vaso). V. Vulcano. 73.

Pane. 113.

Parassiti. V. Oracoli, ecc. 445.

Parche. V. Inferno (descrizione dell’). 94.

Paride. 412.

Parnaso. 48.

Pasifae. V. Minosse II. 202.

Pasifea. V. Grazie (le). 217.

Partenope. V. Sirene (le). 267.

Patroclo. V. Achille. 420.

{p. 466}Pattolo, fiume. V. Bacco. 66.

Pegaso (cavallo). 236.

Pegee, ninfe. V. Naiadi. 251.

Pelope. 402. V. Tantalo. 104.

Peleo. V. Teti madre di Achille. 194.

Pelia o Pelio, monte. V. Teti madre di Achille. 195.

— V. Giasone. 344.

— fratello di Esone. V. Giasone. 344 e seg.

Penati. 273.

Pentesilea. V. Paride. 418.

Perisete, gigante. V. Esculapio. 172.

Peristera. V. Venere. 38.

Permesso. V. Apollo. 48.

Perseo. 307.

Persuasione. V. Grazie (le). 220.

Pieridi. V. Muse (le). 224.

Pierio. V. Apollo. 48.

Pilade. V. Oreste. 409.

Piracmone. V. Ciclopi. 70.

Pireneo. V. Muse (le). 225.

Piriflegetonte. V. Flegetonte. 84.

Piritoo. 321.

Pirra. V. Deucalione. 304.

Pirro. V. Oreste. 411. Paride. 423.

Pitone. V. Apollo. 49.

Pitonessa. V. Oracolo di Delfo. 431.

Pizia o Pitonessa. V. Oracolo di Delfo. 431.

Pleiadi. V. Atlante. 315.

Plessippo. V. Meleagro. 374.

Plistene. V. Atreo. 406.

Plote, isole. V. Argonauti. 358.

Pluto. V. Plutone. 77. Inferno (descrizione dell’). 103.

Plutone. 74. V. Ercole. 292. Orfeo. 335.

Polibio. V. Edipo. 391.

Polidete. V. Perseo. 308.

Polifemo. V. Galatea. 249.

Polinice. 396.

Polinnia. 224.

Polissena. V. Achille. 421. Pirro. 423.

Polite. V. Pirro. 423.

Polluce. 329.

Potina. 278.

Pomona. 120.

Potamidi. V. Naiadi. 251.

Preto. V. Perseo. 307.

— V. Bellerofonte. 367.

Priamo. V. Paride. 413, 416. Achille. 421.

Priapo. 130.

Procri. V. Aurora. 160.

{p. 467}Prometeo. 301.

Pronuba. V. Giunone. 23.

Proserpina. 75. V. Cerere. 25. Orfeo. 335.

Proteo. 122.

Psiche. V. Cupido. 150.

R

Radamanto. V. Inferno (descrizione dell’). 79.

Rea. V. Cibele. 11.

Rea-Silvia o llia. V. Enea. 426.

Reco. V. Atalanta. 376.

Remo. V. Enea. 426.

Romolo. V. Enea. 426.

Rumia o Rumilia. 278.

S

Sacerdoti. 443.

Sacerdotesse. 444.

Sacrifici. 442.

Sarone. 198.

Saronico (golfo). V. Sarone. 199.

Satiri. V. Pane, ecc. 117.

Saturno. 8. V. Giano. 383.

Scheneo. V. Atalanta. 375.

Scilla figlia di Niso. Vedi Minosse II. 203.

— ninfa. 268.

Seia o Segezzi. 276.

Semele. V. Giove. 16. Bacco. 62.

Semidei. 280.

Sfinge (la). V. Edipo. 392, 400.

Sibille. 434.

Sibillini, libri. 438.

Sileno. V. Bacco. 64.

Silvani. V. Silvano. 117.

Silvano. 116.

Sinone. V. Ulisse. 422.

Sirene (le). 264.

Siringa. V. Pane, ecc. 114.

Sisifo. V. Condannati, ec. 106. Orfeo. 335.

Sofista. V. Epuloni. 445.

Sonno (il). V. Inferno (descrizione dell’). 101.

Sorte. V. Fortuna. 162.

Stagioni. 260.

Stalle di Augia (le). V. Ercole. 288.

Steno. V. Gorgoni (le). 232.

Stercuzio o Stercuto. 276.

Sterope. V. Ciclopi. 70.

Stige. V. Fiumi dell’Inferno, ecc. 85.

Stimula o Agenoria. 278.

{p. 468}Stinfalio, lago. V. Ercole. 287.

Strenia. 278.

Strenne. V. Giano. 385.

Strenua. 278.

Strofio. V. Pelope. 409.

T

Talia. 223.

Talassio. V. Imene. 141.

Tantalo. V. Condannati, ecc. 104. Orfeo. 335.

Tarquinio. V. Libri Sibillini. 438.

Tartaro. V. Inferno (descrizione dell’). 80, 83.

Tebe (la guerra di). 398.

— (le mura di). V. Anfione e Zeto. 340.

Telamone. V. Paride. 417.

Telegone. V. Proteo. 123.

Tellure. V. Terra. 6.

Telmisi. V. Gordio. 386.

Temi o Temide. 174.

Tempii più famosi. 442.

Teofane. V. Vello d’Oro. 364.

Termine. 132.

Terra. 6.

Terror Panico. V. Pane. 115.

Tersicore. 223.

Teseo. 317. V. Edipo. 395. Minosse II. 205.

Teti, dea dei mari. 190. V. Nereidi. 247.

Teti madre di Achille. 194.

Tiadi. V. Oracoli, ecc. 443.

Tideo. V. Eteocle e Polinice. 397.

Tieste. 405.

Tifeo o Tifone, gigante. V. Plutone. 75. Condannati, ecc. 109.

Tifi. V. Argonauti. 357.

Tifone. V. Condannati, ec. 109. Eolo. 137.

Tindaridi. V. Castore e Polluce. 331.

Tindaro. V. Agamennone e Menelao. 406.

Tirreno. V. Ercole. 291.

Tisifone. V. Furie (le). 99.

Titani (i). V. Giove. 15. Condannati, ecc. 109.

Titano. 8.

Titone. V. Aurora. 59.

Tizio. 108.

Tmolo. V. Proteo. 23.

Toante. V. Argonauti. 357. Oreste. 410.

{p. 469}Tosseo. V. Meleagro. 374.

Tritone. 262.

Trittolemo. V. Cerere. 25.

Troia (guerra di). V. Paride, ecc. 412.

Turno. V. Enea. 426.

U

Uccelli del lago Stinfalio. V. Ercole. 287.

Ulisse. 418, 421. V. Eolo. 135.

Urania. 224.

— V. Venere Celeste. 226.

Urano. 6.

V

Vaccena o Vaccana. 279.

Vagitano o Vaticano. 278.

Vello d’Oro. 360.

Venere Terrestre. 35. V. Paride. 414.

— Celeste. 226.

— de’ Medici (statua). 227.

Vespasiano. V. Oracoli. 430.

Vesta minore. V. Cibele. 11.

— Prisca. V. Terra. 6.

Vestali (le). V. Cibele. 12.

Vertunno. 119.

Vigilia. 278.

Via Lattea. V. Ercole. 283.

Vittoria. 185.

Vulcano. 69. V. Giunone. 22. Marte. 33.

Z

Zefiro. 128. V. Apollo. 51.

Zete. 46.

Zeto. 339.

[Errata] §


[n.p.]ERRORI CORREZIONI
Pag. 20 lin. 15 figlio figlia
» 48 » 10 Ipocrene Ippocrene
» 57 » 10 Rapresenta Rappresenta
» 87 » a e 3 erano riserbate era riserbata
» 104 » 10 avverdersene avvedersene
» 229 » 1 Le Ore figlie, ec. Le Ore crano figlie, ec.
» 236 » 17 precitò precipitò
» 246 » 18 marittine marittime
» 318 » 12 Calidona Calidone