**** *book_ *id_body-1 *date_1874 *creator_pescatori Avvertenza In luogo di Prefazione, per dar conto di quest'opera ai cortesi lettori, si riporta il preambolo del Manifesto di associazione pubblicato nel giugno del corrente anno. La Mitologia Greca e Romana a dichiarazione non solo de'greci e de' latini poeti, ma degl'italiani e d'altre nazioni, e di molte locuzioni viventi tuttavia nel comune linguaggio ; in uso delle scuole e di ogni colta persona. Di quest'opera di erudizione letteraria furono pubblicati per saggio xxii capitoli nel periodico fiorentino L'Educazione, e ne fu parlato dal Tommasèo nel fascicolo del dicembre 1873 della Nuova Antologia. Anzi fu il Tommaséo stesso che mi suggeri di aggiungere al semplice titolo di Mitologia Greca e Romana, tutte le altre parole che ora vi si leggono ; e non si contentò di dirmelo a voce in familiare conversazione, ma lo ripetè in una delle lettere ch'egli ebbe occasione di scrivermi ; e poi rese noto pubblicamente nel detto fascicolo della Nuova Antologia, che egli mi suggeriva di adottare il soprascritto titolo. Fece anche di più : voile proporre spontaneamente l'anno scorso la stampa di questa Mitologia ad un editore milanese con una sua lettera, che egli, abbondando meco di cortesia, mi mandò perchè la leggessi e la spedissi io stesso ; e tra le altre benevole e squisite espressioni mi scriveva : Vegga se questa lettera che io scriverei, possa correre. E la lettera correva di certo, ed io la spedii subito, e qui la riporto per copia conforme : « Il saggio di Mitologia in uso delle Scuole, che sotto fascia le mando, è parte di un lavoro compiuto, e che da esperti nell'insegnare ebbe lode ; e io, proponendoglielo, ne dico assai ; e meglio di me lo raccomanda il Compendio di Cosmografia, lavoro dell'autore medesimo, accettato da più di una Scuola in Toscana, e di cui l'avveduto signor Barbèra credette utile farsi editore. Ella, signore, proponga che condizioni farebbe per il diritto a certo termine, o per l'intera proprietà. » Il contratto non potè aver luogo, perchè all'editore milanese impegnato in molte altre pubblicazioni mancava il tempo, com' egli rispose direttamente a me stesso, di pubblicare anche questo libro prima della riapertura delle Scuole ; e allora il Tommasèo mi consigliò di stamparlo l'anno appresso per associazione. Il che ora io vo tentando di fare col presente Manifesto ; e confido che gl'illustri Direttori e gli egregi Insegnanti che hanno favorevolmente accolti e adottati nelle loro Scuole gli altri miei libri, vorranno accogliere e proporre ai loro scolari ed ai loro amici la soscrizione a questa Mitologia ; la quale spero che possa esser utile non solo agli scolari, ma ancora ad ogni colta persona, poichè voile il Tommasèo che cosi fosse detto nel titolo della medesima. Introduzione La Mitologia è la Teologia dei Pagani. Avanti l'origine del Cristianesimo tutti i popoli conosciuti, tranne gl'Israeliti, erano politeisti, cioè adoravano molti Dei ; e di questi raccontavano la genealogia e i pretesi miracoli. Tali favole o miracolose supposizioni di cui son piene tutte le antiche istorie, specialmente nelle loro origini, non esclusa quella di Roma, furon dette con greco vocabolo miti ; quindi Mitologia significa etimologicamente racconto dei miti, ossia delle favole delle antiche religioni dei Politeisti o Idolatri. Il titolo poi d'Idolatri (esso pure di greca origine, e che significa adoratori delle immagini sculte o dipinte) era dato ai Pagani, perchè rappresentavano e adoravano i loro Dei sotto forme materiali di uomini e di bruti. E quantunque il termine di Mitologia in senso lato sia riferibile a tutte le religioni pagane, è per altro più specialmente applicabile a quella dei Greci e dei Romani, le cui classiche lingue e letterature tanto contribuirono e contribuiscono a dar pregio e vigore alla lingua e alla letteratura italiana. E qui mi piace avvertire che lo scopo di questo lavoro sulla Mitologia non è già di risalire alle origini primitive dei miti, indicando le migrazioni e le trasformazioni delle idee mitologiche dall'oriente all'occidente ; ma soltanto di far la storia e spiegare il significato dei miti e delle idee ed espressioni mitologiche che si trovano nei poeti greci, latini ed italiani, e per conseguenza ancora delle altre nazioni che hanno adottato la Mitologia e il linguaggio dei classici greci e latini. Gli studii eruditissimi che ora si fanno da' filologi germanici sulle origini dei miti, potrà dar vita, col tempo, ad una nuova scienza che starà alla Mitologia greca e romana come la Paleontologia alla storia naturale, e che perciò potrà chiamarsi la Paleontologia mitologica. Ma questo non toglierà che sia sempre necessaria la cognizione della Mitologia greca e romana, nella guisa stessa che la Paleontologia presuppone ed esige la cognizione precedente della storia naturale, perchè è impossibile il dedurre da frammenti di esseri organici fossilizzati, da secoli e secoli non più viventi sulla faccia della terra, la loro antica forma, i loro istinti, le loro abitudini e le loro leggi di vitalità, senza aver prima di queste stesse cose cognizioni esatte negli esseri organizzati viventi. Dunque lo studio della Mitologia greca e romana sarà utile sempre, ed anche sempre più necessario, quanto maggiori progressi verranno a farsi nella Paleontologia mitologica, secondo le eruditissime elucubrazioni dei germani filologi. Inoltre la Mitologia greca e romana è necessaria pure a coloro che non sanno nè le lingue dotte nè le orientali, se voglion leggere e intendere un libro di poesia italiana, poichè tutti i nostri poeti più grandi e più sommi hanno adottate nel loro linguaggio le immagini e le frasi dei poeti greci e latini. Primo senza contrasto e sotto ogni rispetto il nostro Alighieri, quantunque cristiano e cattolico e teologo per eccellenza, è quello che nel suo divino linguaggio poetico più sovente si vale delle immagini e delle frasi mitologiche ; e gli altri tutti per quanto grandi ed illustri, tengon bordone alle sue frasi ed alle sue rime. Quindi, benchè d'ora in avanti s'inaridisse per qualche secolo (e non sarebbe un gran danno) la vena poetica degli italiani, o si abolisse (come fu inutilmente tentato un mezzo secolo indietro),. l'uso della Mitologia nei futuri poetici componimenti, resteranno pur sempre necessarie le cognizioni mitologiche per bene intendere il linguaggio poetico di quei sommi, « che non saranno senza fama, « Se l'universo pria non si dissolve. » La Divina Commedia principalmente, che sin dai primi anni della ricuperata indipendenza dagli stranieri, è divenuta il libro nazionale degl'Italiani, esige tra le altre infinite cognizioni anche quelle della Mitologia. Ed io perciò in questo libro ho riportate e spiegate tutte le parole e tutte le espressioni mitologiche, o allusive alla Mitologia, che si trovano nella Divina Commedia. E quando nel dar la spiegazione di qualche mito o favola non v'è da citare qualche verso o espressione di Dante, riporto esempii di altri poeti italiani, quali sono il Petrarca, il Poliziano, l'Ariosto, il Tasso, il Monti e il Foscolo. È da osservarsi peraltro che nè Dante nè gli altri poeti nostri adottarono i più strani, oscuri o assurdi miti dei Greci e dei Latini, e invece hanno preferito e trascelto quelli soltanto che racchiudevano le più belle immagini e i più chiari e notabili simboli dell'antica sapienza. La cognizione di questi simboli è necessaria a qualunque italiano desideri accostarsi « ……….. ove più versi « Di sue dolcezze il lusinghier Parnaso. » Quanto poi alle idee mitologiche dei classici greci e latini riporto nel testo, per chi non conosce le lingue dotte, gli opportuni esempi tratti dalle migliori traduzioni italiane, e registro in nota alcune più speciali citazioni di erudizione linguistica e letteraria a maggiore utilità degli scolari dei ginnasii. Io dunque non intendo di scrivere un trattato di Mitologia appositamente per gli studiosi delle lingue greca e latina ; chè sarebbe un portar vasi a Samo e nottole ad Atene, mentre sì fatti libri di antichissima e minuta erudizione esistono in tutte le lingue e specialmente in latino, e se ne trovano ancora tradotti in italiano dal francese e dal tedesco ; ma son libri troppo eruditi e di una erudizione troppo antiquata, e contengono un cibo non solo difficile alla assimilazione, ma talvolta ancora ostico, o almeno poco soave al gusto. Possono perciò riuscire utili soltanto a chi è valente nelle lingue greca e latina. Per tutti gli altri che son principianti o. privi affatto della cognizione delle lingue dotte, vi è bisogno di libri più facili e più alla portata della comune intelligenza. E poichè in questa classe si trovano i più degl'italiani e quasi tutte le donne italiane, ho creduto che un libro facile e popolare di cognizioni mitologiche, non aggravato da una pesante mole di peregrina e non necessaria erudizione antica, possa riuscire accetto al maggior numero dei lettori. In compenso delle più logore o irrugginite anticaglie, oltre alla illustrazione di tutti i passi mitologici della Divina Commedia e di molti dei principali poeti italiani, ho aggiunto la spiegazione di tutti i termini scientifici che derivano dai vocaboli mitologici. Chi leggerà questo libro troverà, che quasi tutte le scienze, dall'astronomia che è la più antica, alla geologia che è la più moderna, hanno tratte dai vocaboli mitologici molte delle loro denominazioni, la cui etimologia, o vera spiegazione del termine, può solo dedursi dalla cognizione della Mitologia. E poichè oggidì è riconosciuto e voluto, più che dai programmi governativi, dalla sana opinione pubblica, che non debbano andar disgiunti gli stùdii letterarii dagli scientifici, nè questi da quelli, confido che il mio tentativo di farne conoscere le molteplici relazioni con lo studio della Mitologia non debba essere stimato affatto privo di pratica utilità. Considerando poi che le Arti Belle non hanno mai cessato da tremila anni, neppur dopo la caduta della religione pagana, di rappresentare in tavole e in tele, in bronzi e in marmi le più poetiche e leggiadre personificazioni delle idee mitologiche ; e che di tal genere trovansi antichi e moderni capi d'opera di scultura e di pittura, non solo nelle pubbliche gallerie e nei palagi dei maggiorenti, ma pur anco nelle piazze e nelle strade, non in Roma soltanto, ma per tutta Italia, la cognizione della Mitologia si rende necessaria non solo ai cultori delle Arti Belle, ma altresì a chiunque non ami di apparir rozzo ed insensibile al bello artistico, che tanti stranieri richiama dalle più lontane regioni in Italia ad ammirarlo. **** *book_ *id_body-2-2 *date_1874 *creator_pescatori I La Cosmogonia mitologica La parola Cosmogonia significa generazione, ossia formazione del mondo. Gli uomini di tutti i tempi, dai più antichi ai più moderni, hanno sempre mostrato curiosità di sapere l'origine di questo mondo, o vogliam dire dell' universo ; e non solo tutte le religioni antiche degl'idolatri inventarono a modo loro una Cosmogonia, ma spesso anche i poeti e i filosofi ne hanno foggiate diverse l'una più strana dell'altra, a gara coi sacerdoti delle varie religioni. Per altro si è creduto e si crede generalmente che sotto la forma delle più strane invenzioni miracolose si nascondessero elevati principii scientifici, noti soltanto ai sacerdoti e ai loro adepti o iniziati ; e finchè prevalse lo spirito di casta, ossia di preeminenza e predominio dell'una classe sociale sull'altra, furono censurati, od anche perseguitati, a guisa degli eretici del Medio Evo, coloro che osassero spiegare al popolo la dottrina segreta. Alcuni moderni autori eruditissimi ed infaticabili hanno tentato di spiegare quei miti o simboli, ma ben di rado vi son riusciti in modo evidente o almeno probabile. Tal genere di faticosa erudizione, consistente nel decifrare gli enigmi degli antichi, va in oggi a poco a poco cedendo il campo allo studio dei problemi che sulla Cosmogonia si propongono di risolvere le scienze fisiche, e principalmente l'astronomia e la geologia, coi dati offerti dalla natura stessa e dai naturali fenomeni. Ma perchè non pochi dei miti, o simboli religiosi dei greci e dei romani politeisti furono espressi con splendide e bellissime immagini e in uno stile impareggiabile dai loro più sublimi poeti, e in appresso accolti e adottati nel linguaggio poetico degl'italiani, nasce quindi il bisogno di conoscerli ed illustrarli, e, quando è possibile, decifrarli. Sulla Cosmogonia dunque creduta vera dai Greci e dai Romani, e ammessa come base dei loro miti, convien trattenersi alquanto, considerando il principio generale da essi riconosciuto, che la materia fosse eterna, cioè fosse sempre esistita, ma tutta confusa e mista, in una massa rozza ed informe chiamata Caos (Ovid., Metam. i). **** *book_ *id_body-2-3 *date_1874 *creator_pescatori II Il Caos e i quattro elementi Il Caos era considerato dagli Antichi come il principio di tutte le cose, poichè secondo la Cosmogonia di Esiodo, esso esisteva prima di tutti gli Dei e di tutte le Dee. In greco, chaos significa confusione, e si riferisce perciò principalmente alla confusa massa di tutta quanta la materia bruta ed informe, supposta esistente nello spazio prima che con essa fosse plasmato il mondo ; e in questo significato si adopra quella parola anche dai nostri poeti. Dante stesso fa dire a Virgilio esservi « ……. chi creda « Più volte il mondo in caos converso, » cioè ritornato nella prima mistura e confusione di tutti i suoi elementi. I corpi elementari, secondo gli antichi, non erano più di quattro, cioè : terra, aria, acqua e fuoco ; mentre i fisici e i chimici moderni colle loro analisi, ne hanno per ora distinti e caratterizzati più di 60 ; e non si stancano di cercarne, nè disperano di trovarne molti altri. Può riuscir piacevole e divertente per chi intende bene le lingue dotte il leggere nei poeti greci e latini le fantastiche descrizioni del contrasto continuo dei quattro elementi di così diversa natura confusi e misti fra loro nel caos ; ma divengono pedanterie e freddure le imitazioni che talvolta s' incontrano nei poeti delle lingue moderne, ora specialmente che le scienze fisico-chimiche hanno scoperto e percorso un sì vasto campo di maraviglie vere e reali della natura. Da questi studi scientifici traggono in oggi le più belle immagini quei pochi eletti che hanno intelletto a poetare. La confusione del Caos immaginato dagli antichi ingenerò confusione anche nelle loro menti circa l'origine del mondo e l'esistenza degli Dei. Dopo che Esiodo aveva asserito che il Caos esisteva prima di tutti gli Dei, vennero altri a dire che il Caos stesso era un dio, ed aggiunsero che egli era stato l'ordinatore dell'Universo ; ed una volta che lo avevano personificato, dìssero ancora che aveva figli e che la sua moglie era la Notte. Dei figli parleremo in appresso e diremo quali fossero. Ma intanto è notabile la spiritosa invenzione della sposa del Caos, la quale ora chiamerebbesi con termine dantesco la Tenebra anzichè la Notte, poichè questa suppone l'esistenza del giorno, e giorno vero e proprio, ossia presenza del sole sull'orizzonte, esser non vi poteva, finchè gli elementi eran confusi e misti. Infatti dice espressamente Ovidio che nel Caos l'aria era priva di luce. Non asserisce però che il Caos stesso fosse l'ordinatore dei propri elementi di cui ab eterno componevasi, ma un Dio o una miglior natura. Qual fosse questo Dio non lo sa, poichè poco dopo soggiunge : qualunque degli Dei foss'egli stato (quisquis fuit ille deorum) ; e nei Fasti fa dire al dio Giano che gli antichi lo chiamavano il Caos, e che poi si trasformò in membra e aspetto degni di un nume (Fasti, i). Par dunque che gli Antichi ammettessero la generazione spontanea degli Dei dalla materia, come i naturalisti moderni ammettono la generazione spontanea di certi insetti ed altri animaluzzi ; e che i mitologi andassero anche più oltre del Darwin e compagni antropologi ; poichè mentre questi suppongono la successiva trasformazione della materia nei diversi esseri organizzati, compreso l'uomo (il quale perciò verrebbe ad essere una scimmia perfezionata), quelli facevano nascere ad un tratto dagli elementi del Caos gli stessi Dei, come nascono da un giorno all'altro i funghi dalla terra. Noto subito in principio le grandi difficoltà di ridurre a sistema regolare la Mitologia come scienza religiosa degli Antichi, non già per voler tentare di superarle, ma per dichiarare che sarebbe opera perduta l'affaticarvisi. La sola spiegazione probabile o plausibile consiste nel considerare i miti come simboli o allegorie dei fenomeni fisici dell'universo e dei fenomeni morali, ossia delle passioni degli uomini. Sotto questo punto di vista nelle lingue moderne affini della latina, e specialmente nella italiana, furono accolti e adottati dai nostri poeti i miti dei Greci e dei Romani, non però tutti alla rinfusa e senza discriminazione, ma quelli soltanto o principalmente, che presentavano una più evidente, o almeno probabile spiegazione dei fenomeni fisici o morali. Dante più degli altri poeti ci rivela un simil concetto in tutta la Divina Commedia con un sistema parallelo di confronti tratti alternativamente dalla Teologia e dalla Mitologia, dalle Storie sacre e dalle profane. Sembra che voglia dire a chi ha orecchi da intendere : Vedete ! anche gli Antichi ci hanno trasmesso come in nube molti di quei principii che l'età moderna ci presenta sotto altre forme ! E prende per guida ed interpetre dei portati dell'antica sapienza il poeta Virgilio che visse « A tempo degli Dei falsi e bugiardi, » e la prediletta sua Beatrice, divinizzata come la Teologia, a dargli la spiegazione della scienza dei Cristiani. Nè soltanto nell'Inferno e nel Purgatorio, ma pur anco nel Paradiso sino all'ultimo canto, si trovano frasi, comparazioni e similitudini mitologiche. Fissate e dichiarate le mie idee sul fine e sui limiti dello studio della Mitologia, sarà questo il filo di Arianna per non smarrirmi nell' intricato labirinto di questa antichissima erudizione ; e così ciascun che legge potrà seguirmi senza temer fatica o disagio ; anzi anche il salire gli parrà tanto leggiero « Come a seconda giù l'andar per nave. » **** *book_ *id_body-2-4 *date_1874 *creator_pescatori III Classazione generale delle Divinità pagane e Genealogia degli Dei superiori A 30,000 si faceva ascendere il numero degli Dei pagani : quindi la necessità di dividerli in classi ; la prima delle quali era detta degli Dei maggiori o superiori o supremi ; e questi erano soltanto venti, per lo più conosciuti e adorati da tutte le antiche nazioni. La seconda classe comprendeva gli Dei inferiori o terrestri ; la terza era quella degli Eroi o Semidei ; e la quarta delle Virtù e dei Vizi. Di venti Dei superiori, dodici formavano il supremo consiglio celeste a cui presiedeva Giove come re del Cielo ; e questi erano Giove, Giunone, Vesta Prisca, Cibele, Venere, Minerva, Diana, Apollo, Nettuno, Marte, Mercurio e Vulcano. I nomi degli altri otto si trovano in un frammento di un eruditissimo autore latino, Varrone, e sono i seguenti : Saturno, il Genio, il Sole, Orco o Plutone, Bacco, la Terra e la Luna. Ma convien notare che tre di questi nomi, cioè il Sole, la Terra e la Luna son sinonimi di Apollo, Vesta e Diana, registrati di sopra tra i consiglieri di Giove ; poichè è avvenuto in tutte le religioni idolatre, che prima si diedero diversi nomi a una stessa divinità secondo i suoi diversi attributi, o poi questi diversi titoli a loro attribuiti furon considerati come rappresentanti altrettante divinità. Tal'altra volta poi di più divinità se ne fece una sola, amalgamando in essa tutti gli attributi di quelle che anticamente erano distinte. È questa una osservazione generale che non convien dimenticare, perchè verrà molte volte a bisogno nel progresso della Mitologia. La Genealogia degli Dei, ossia la loro filiazione e parentela (almeno dei principali), è necessaria a conoscersi nella Mitologia pel doppio scopo, che da quella si deducono spesso i rapporti di causa e di effetto considerati dagli antichi nei fenomeni del mondo, e poi perchè frequentemente i poeti, invece di rammentare una divinità col suo nome principale e più conosciuto, fanno uso del patronimico, ossia di un vocabolo derivato o composto dal nome del padre di quella data divinità. Il Dio Urano è lo stipite delle divine famiglie regnanti nel cielo, nel mare e nell' inferno. Il suo greco nome significa Cielo, e perciò credevasi figlio del Giorno e dell' Aria, ossia di due dei quattro elementi del Caos. Sposò Vesta Prisca e generò Titano, Saturno e Cibele. Saturno sposò Cibele, e generò Cerere, Giunone, Giove, Nettuno e Plutone. Giove sposò Giunone elevandola al grado di regina del Cielo, ed ebbe da essa Marte, Vulcano ed Ebe ; e poi da altre Dee, ed anche da donne mortali, altri figli in gran numero, tra i quali qui noteremo soltanto quelli che furono divinità di prim'ordine, cioè Apollo, Diana, Mercurio e Bacco. Minerva nacque miracolosamente dal cervello di Giove. Il Genio (il cui nome derivava dall'antico verbo latino geno, che significa generare), era detto il Dio della Natura, e consideravasi perciò come il simbolo della forza generatrice della creazione. A chiunque studia con attenzione la Mitologia deve certamente recar maraviglia che la Natura non sia considerata tra le divinità di prim'ordine. Ed io aggiungerò che raramente trovasi rammentata e rappresentata come Dea, e per lo più confondesi coll' Abbondanza di tutte le cose naturali. Vedremo però in appresso che essa Natura fu goffamente e bizzarramente simboleggiata nel Dio Pan (che in greco significa tutto), Dio secondario e campestre, mezzo uomo e mezzo capro. Di questo nume semibestiale parleremo a suo luogo, poichè appartiene alla seconda o inferior classe degli Dei. Intanto però è da notarsi che questo termine di Natura è di un uso estesissimo in tutte le lingue, in tutte le scienze e nel comune discorso ; e perciò conviene indicarne i principali significati. La voce Natura è di origine latina, dalla qual lingua è passata pari pari senza alcuna alterazione nell' italiana : in greco dicevasi fisis, onde deriva il vocabolo fisica, che perciò è sinonimo di naturale. Quindi scienze fisiche e scienze naturali sono espressioni etimologicamente equivalenti, come periferia e circonferenza, perifrasi e circonlocuzione ; mentre scientificamente ai dì nostri stanno a significare due diverse e distinte parti di studio delle cose naturali Ci fa saper Cicerone che gli antichi filosofi consideravano la Natura come il principio e la causa efficiente di tutte le cose fisiche ; e perciò usavano questo termine come sinonimo di Dio. E in questo stesso significato si usa nelle scienze anche oggidì, per non star sempre a rammentare il nome di Dio : e non solo nelle scienze fisiche, ma pur anco nelle scienze morali, come per esempio, dove si tratta del diritto naturale. I giureconsulti romani nel parlare della schiavitù (quantunque a quei tempi fosse ammessa per diritto internazionale o delle genti, e riconosciuta per diritto civile), dicono francamente che è contro natura. Anche i poeti cristiani quando parlano di cose mitologiche e di fenomeni fisici usano la parola Natura nell'antico significato filosofico. Così Dante nel descrivere i Giganti, che ora fortunatamente più non esistono, dice : « Natura certo, quando lasciò l'arte » Di sì fatti animali, assai fe' bene. » Per tôr cotali esecutori a Marte. » Non di rado significa ancora il complesso delle cose create. Ma più frequentemente per Natura s'intende l'essenza degli oggetti esistenti, o vogliam dire il complesso di tutte le qualità o caratteri distintivi di qualunque essere creato tanto fisico, quanto morale o intellettuale. Cicerone compose una celebre opera intitolata Della natura degli Dei ; e Lucrezio un famoso poema sulla Natura delle cose. Anche i teologi cristiani trattano della Natura divina e della Natura umana, e inoltre dell'unione ipostatica di queste due nature. Il volgo stesso ha sempre pronte sulle labbra le espressioni : è naturale ; naturalmente ; per natura, o di natura sua e simili. Di più nella lingua italiana, oltre il verbo naturare che è antico, si è formato modernamante il verbo naturalizzare, che è stato introdotto ancora nel linguaggio delle nostre leggi, forse ad imitazione e per copia conforme del Codice Napoleone. Il notare questi diversi usi e significati della parola Natura e suoi derivati, credo che sia più utile per la studiosa gioventù, che una eruditissima discussione, a guisa de'più tenaci antiquarii o archeologi, per decidere se certe sculte o dipinte immagini rappresentino la Dea Natura, o la Dea Abbondanza, o la Dea Cerere. **** *book_ *id_body-2-5 *date_1874 *creator_pescatori IV Una Divinità più potente di Giove Ammessi più Dei, ne vien di conseguenza che nessuno di essi può essere onnipotente, ma ciascuno ha un potere limitato e temperato dalle speciali attribuzioni degli altri. Quindi il Politeismo presenta l'immagine di una federazione di diversi Stati o Principi sotto la rappresentanza di un capo supremo, come sarebbero gli Stati Uniti di America e l'Impero Germanico ; mentre il Monoteismo è il vero modello della monarchia assoluta ; la quale soltanto per analogia o somiglianza di forma, e senza alcun fondamento di ragione, si chiama impudentemente di diritto divino. Non deve dunque recar maraviglia, leggendo il titolo soprascritto, che vi sia nel Politeismo una divinità più potente di Giove, che pure è conosciuto comunemente come il supremo dei Numi, il re del Cielo, il padre degli uomini e degli Dei. E questo Dio più potente di Giove era il Fato. Il Fato, detto altrimenti il Destino, era figlio del Caos e della Notte, e rappresentava, secondo la Cosmogonia degli antichi, la legge generale e immutabile dei fenomeni fisici e delle umane vicende. Non v'è termine nelle lingue moderne europee, che più di questo di Fato o Destino sia comune e frequente sulle labbra stesse del volgo ; e tutti l'usano nello stesso senso di legge suprema inevitabile. In italiano è comune ancora il termine di fatalità nel significato di decreto o effetto di inesorabil destino. I Pagani rappresentavano cieco o bendato il Destino, e sordo agli umani lamenti ; ma appunto perchè inesorabile, nessun lo pregava o adorava, nè perciò ebbe mai tempii ed offerte. Immaginavano che i suoi decreti, riferibili a tutte le future vicende (ecco la prima idea della predestinazione), fossero contenuti in un'urna o registrati in un libro di bronzo, e consultati dallo stesso Giove per conoscere fin dove potesse estendersi la sua potenza o il suo arbitrio. Da queste idee pagane del Fato e della predestinazione derivò in filosofia il Fatalismo, il creder cioè e l'asserire che le nostre azioni non sono libere, ossia non dipendono dalla nostra libera volontà, ma da legge irrevocabile e da forza insuperabile del destino, come i fenomeni fisici. Onde che con questo sistema (adottato dai Turchi come principio religioso), si veniva a toglier dal mondo la moralità e l'imputabilità delle azioni. Ma ogni essere ragionevole sente la dignità dell'umana natura e riconosce in sè questa ingenita forza e facoltà di prestare o negare liberamente il suo assenso ; e sotto questo rapporto suol dirsi che si può esser liberi anche nella schiavitù. Perciò Dante, avversando il fatalismo, proclama da par suo il libero volere in questi splendidi versi : « Lo maggior don che Dio per sua larghezza « Fesse creando, e alla sua bontate « Più conformato, e quel ch'ei più apprezza « Fu della volontà la libertate, « Di cui le creature intelligenti « E tutte e sole furo e son dotate. » E altrove trattando lo stesso argomento aveva detto con non minore eloquenza : « Color che ragionando andaro al fondo, « S'accorser d'esta innata libertate, « Però moralità lasciaro al mondo. « Onde pognam che di necessitate « Surga ogni amor che dentro a voi s'accende, « Di ritenerlo è in voi la potestate. « La nobile virtù Beatrice intende « Per lo libero arbitrio ; e però guarda « Che l'abbi a mente, se a parlar ten prende. » Anche in altri luoghi ritorna il sommo Poeta sullo stesso argomento, o indirettamente vi allude : tanto gli stava a cuore d'imprimer bene nella mente dei suoi lettori questa fondamentale dottrina del libero arbitrio, da cui dipende la moralità delle azioni, e quindi il merito o il demerito delle persone, e la giustizia del conferimento dei premii e della irrogazione delle pene ! A compagne del Fato e ministre esecutrici dei suoi decreti aggiungevansi dagli Antichi la Necessità, la Fortuna e la Morte ; e questa era anche chiamata l'estremo fato o l'ultima necessità. La Necessità considerata dai Politeisti come una Dea è la personificazione e la deificazione dell' idea di conseguenza inevitabile di una o più cause destinate a produrre certi determinati effetti ; e poichè la Necessità costringe gli uomini a fare o soffrire, perciò fu-creduta una Dea avversa anzi che propizia agli umani desiderii. Quindi Orazio la chiama sœva Necessitas (crudel Necessità) e la rappresenta in atto di portar colla mano di bronzo lunghi e grossi chiodi da travi, e cunei, ossia biette o zeppe, e uncini e piombo liquefatto, simboli tutti di costrizione o coazione La parola Fortuna è di origine latina ; deriva da fors significante il caso ; Fortuna è dunque la Dea delle casuali vicende, ma per lo più buone ossia favorevoli agli uomini ; e perciò Cicerone ne deduce l'etimologia a ferenda ope, dal recar soccorso. In greco era chiamata Tiche, ed aveva gli stessi attributi della Fortuna dei Latini. E poichè credevasi che spesso portasse prosperi eventi, quindi non le mancavano e immagini e tempii e adoratori, tanto in Grecia quanto in Italia, e in Roma stessa più che altrove. Rappresentavasi come una donna stante in equilibrio con un sol piede sopra una ruota o un globo, per indicare la facile sua mutabilità. Le si dava inoltre il cornucopia da cui spargeva inesauribilmente frutti e fiori sopra la Terra, per significar le ricchezze che dispensava ai mortali. Dante ha fatto poeticamente dipinger la Fortuna nel Canto vii dell' Inferno da Virgilio poeta pagano, e perciò quella dipintura ha tinte più proprie del paganesimo che del cristianesimo. Ma se non è accettabile il concetto pagano che la Fortuna sia un essere soprannaturale esistente sin dalla origine del mondo o degli angeli (tra le altre prime creature), quando però ivi si afferma che « Colui lo cui saver tutto trascende, (cioè Dio) « Ordinò general ministra e duce « Che permutasse a tempo li ben vani « Di gente in gente e d'uno in altro sangue « Oltre la difension de' senni umani, » s'intende facilmente che con questo linguaggio poetico si vogliono significare le occulte disposizioni della Provvidenza, imprevedibili ed inevitabili dai mortali. Finalmente la Morte, secondo il Paganesimo, era anche essa ministra del Fato e l'ultima esecutrice de' suoi decreti sull'esistenza dei viventi ; ma fu considerata pur anco ministra di Plutone, perchè essa spinge le anime nei regni di lui. A quest'estremo fato eran sottoposti anche i Semidei, quantunque uno dei loro genitori fosse una Divinità di prim'ordine. Così fu ristretta fra certi limiti insormontabili non solo la potenza di Giove, ma quella pur anco di tutti gli altri Dei ; i quali spesso nei poeti pagani si lamentano pietosamente della inesorabilità del Destino come qualunque più misero mortale. **** *book_ *id_body-2-6 *date_1874 *creator_pescatori V Urano e Vesta Prisca avi di Giove Dal prospetto genealogico del N° III sappiamo che Urano sposò Vesta Prisca, e che loro figli furono Titano, Saturno e Cibele. Poichè Urano significa Cielo, il suo nome stesso serve a manifestare qual parte dell' Universo egli rappresenti ; e inoltre l'esser creduto figlio del Giorno e dell'Aria indica l'opinione degli antichi mitologi che il Cielo fosse composto di questi due più leggieri e più puri fra i 4 elementi del Caos. Erravano dunque meno del famoso astronomo Tolomeo (vivente nel secondo secolo, dell'êra volgare), il quale fantasticò e spacciò per verità scientifica l'esistenza di tante sfere di solido cristallo negli spazii del cielo. Anzi potrebbe dirsi che avessero gli Antichi quasi indovinate le moderne ipotesi astronomiche, per cui si ammetta nello spazio una materia cosmica, onde si formano le nebulose e le stelle, ed un'aria sottilissima e purissima chiamata etere. Ma le opinioni e le scoperte dei dotti antichi eran tenute nascoste al volgo, e costituivano la scienza segreta, colla quale cercavano d'imporre rispetto alle moltitudini e di tenerle soggette ; e con false immagini e miracolose, quanto più strane e tanto più credute dagl'ignoranti, li pascevano di vane illusioni e li dominavano, « Forse con intenzion casta e benigna, » per rimuoverli dalla vita selvaggia e vincolarli in un più umano consorzio. Così, trovando il terreno preparato e disposto al fantastico e al maraviglioso, personificarono quasi tutti gli oggetti e i fenomeni dell'Universo, e primo d'ogni altro il Cielo, che perciò fu detto il più antico degli Dei. Personificato il Cielo, ossia considerato come una persona divina, si pensò a personificare analogamente le altre parti o forze dell'Universo ; e poi perchè queste divine persone riuscissero intelligibili e paressero possibili al volgo, attribuirono ad esse bisogni, abitudini, idee e passioni come alle persone di questo mondo. Quindi immaginarono il nettare e l'ambrosia, bevanda e cibo degli Dei, i matrimoni e le figliolanze, gli amori e gli odii, le cortesie e le audaci imprese, le vendette e le guerre, e perfino i pettegolezzi delle Dee. Cominciarono dunque subito a cercar moglie ad Urano. Qual mai poteva esser la moglie del Cielo ? La Terra : non v'era da sceglier molto fra i quattro elementi, poichè avevan considerato il Giorno e l' Aria come genitori del Cielo, e volevano serbar l'Acqua per farne la moglie di Nettuno Dio del mare. Ma siccome fu dato il nome di Urano al Cielo, così fu dai Greci assegnato alla Terra il nome di Estia, che dai Latini fu cangiato in Vesta, significante, secondo Ovidio, che di sua forza sta, alludendosi in ambedue le lingue all'apparente e creduta immobilità della Terra. Le fu aggiunto in appresso l'aggettivo di Prisca, per distinguerla da un'altra Vesta sua nipote, Dea del fuoco del culto delle Vestali in Roma. Ebbe anche i nomi di Titèa e Pasitèa, usati dai poeti greci e latini, ma o poco o nulla, per quanto io mi ricordi, dai poeti italiani. Da questo matrimonio nacquero due figli, Titano e Saturno, ed una figlia chiamata Cibele. Titano in prima, e poi un suo figlio chiamato Iperione ebbero l'ufficio di guidare il carro del Sole per distribuire la luce al mondo ; perciò i nomi di Titano e di Iperione si trovano usati in poesia come sinonimi del Sole. Quando poi fu nato e cresciuto. Apollo, questo Dio oltre molte altre attribuzioni ebbe in perpetuo anche quella di guidare il carro della luce, e sotto il nome particolare di Febo fu considerato come il Sole istesso. Siccome Urano era un Dio, e perciò immortale, ed essendo inoltre il più antico degli Dei, e perciò lo stipite della celeste dinastia, poteva a suo beneplacito regnare eternamente ; ma poichè egli aveva più figli, supposero i mitologi che gli fosse piaciuto abdicare in favore di essi. Credendo per altro che esistesse anche in Cielo il diritto di primogenitura, a subentrare nel regno sarebbe toccato regolarmente al primogenito, cioè a Titano. Fu nonostante convenuto, ad istanza della madre Vesta Prisca, che regnasse Saturno ; ma Titano vi acconsentì soltanto a patto che Saturno non allevasse figli maschi, intendendo di riserbarsi, non meno di diritto che di fatto, aperta la strada al trono o per sè o per i propri figli Titani, quando Saturno a sua volta fosse stanco di regnare. Questo patto di famiglia fu causa di frodi, di dissenzioni, di guerre fraterne e di sciagure anche per Saturno e per Cibele, ma principalmente per Titano e pe' suoi discendenti, come vedremo a suo luogo e tempo. Urano dopo aver ceduto il regno ai figli non interloquì nelle vertenze dei medesimi e dei nipoti, nè si occupò di affari di Stato. La sua occupazione prediletta era quella di far girare intorno alla Terra il firmamento, ossia la sfera stellata e di adornarlo di nuove stelle. I moderni astronomi, che seguendo il sistema Copernicano abolirono anche le sfere, non che il loro movimento intorno al nostro globo, diedero il nome di Urano al pianeta scoperto da Herschel nel 1781, imitando così gli antichi astronomi, che ai pianeti più vicini al centro del loro sistema planetario avevano dato il nome dei principali figli di Giove, e al più lontano quello del padre di esso, cioè di Saturno ; perciò al pianeta che è più lontano di Saturno assegnarono il nome del padre di questo, cioè di Urano. Anche il nome di Vesta fu attribuito al 4° piccolo pianeta o asteroide scoperto da Olbers nel marzo del 1807 : ma poichè il segno simbolico che nelle carte uranografiche rappresenta questo pianeta è un'ara sormontata da viva fiamma, convien dedurne che gli astronomi abbiano inteso di rappresentar Vesta giovane, Dea del fuoco, anzi che Vesta Prisca moglie di Urano. **** *book_ *id_body-2-7 *date_1874 *creator_pescatori VI Il regno, la prigionia e l'eŚilio di Saturno Il regno di Saturno sarebbe stato felicissimo e durevole a sazietà senza disturbo alcuno, se non erano le astuzie e le pietose frodi della sua moglie Cibele. Convien sapere prima di tutto che Saturno era considerato come il Dio del Tempo, e perciò in greco chiamavasi Cronos che appunto significa tempo. Questa notizia ci sarà utile per la spiegazione di alcuni strani miti che a lui si riferiscono per tale attributo ed ufficio. Saturno memore del patto di famiglia convenuto col fratello maggiore Titano, di non allevar cioè figli maschi, il primo che gli nacque da sua moglie Cibele, lo divorò. Il qual fatto, inteso letteralmente, è peggio che bestiale, poichè anche le bestie allevano ed amano la loro prole. Ma questo racconto è un mito, ossia un simbolo del Tempo che produce e distrugge tutte le cose ; e politicamente significa che l'ambizione del regno fa porre in non cale e violare anche i più stretti vincoli del sangue. Cibele dipoi, per salvare gli altri figli maschi che nacquero in appresso, li mandò nascostamente nell'isola di Creta, e diede ad intendere al marito di aver partorito una pietra che gli fece presentare invece di ciascun neonato. Saturno nell'incertezza se quell'oggetto informe potesse considerarsi un maschio o una femmina, lo divorò. Anche questa stranezza potrebbe spiegarsi come un simbolo della forza distruggitrice del tempo, che logora, come dice Ovidio, pur anco le dure selci e i diamanti. Ma cadono poi nel feticismo, ossia nel culto materiale dei prodotti della natura (feti)), quei mitologi i quali ci raccontano che quella pietra divorata da Saturno, e da lui non ben digerita, adoravasi nel mondo sotto il nome di abdir o abadir. Il feticismo però non prevalse nella religione dei Greci e dei Romani, ma sì di altri popoli o più antichi o più rozzi, e fu proprio più specialmente degli Egiziani, come abbiamo altrove accennato. Cibele aveva preso molte precauzioni per nascondere l'esistenza de'suoi figli a Saturno e a Titano, e tra le altre quella di far sollevare urli e strepiti da' suoi sacerdoti, perchè non si udissero in cielo i vagiti di quei pargoletti numi. Ma Titano si accorse della frode e della violazione dei patti, e insiem co' suoi figli mosse guerra a Saturno, lo detronizzò e lo chiuse con Cibele in una oscura prigione. Quando Giove fu adulto, coll'aiuto de' suoi fratelli Nettuno e Plutone fece guerra allo zio Titano, lo vinse e lo cacciò dal trono e dalle celesti regioni con tutta la famiglia dei Titani ; liberò di carcere i suoi genitori, ma prese per sè il regno del Cielo e diede ai fratelli i regni del Mare e dell' Inferno. Saturno invece di esser grato al figlio e di contentarsi del secondo rango nel Cielo, quello di ex-re padre del regnante, s'indispettì perchè il figlio non lo rimise sul trono, e quindi congiurò contro di lui. Giove scuoprì la congiura, ed esiliò Saturno dal Cielo ; ma non estese la condanna a Cibele sua madre, perchè questa, dopo la perdita del trono e il carcere sofferto, aveva prudentemente rinunziato ad immischiarsi negli affari di Stato. Così nelle vicende mitologiche di Saturno troviamo rappresentate, e quasi storicamente narrate come avvengono tra gli uomini, la maggior parte delle vicende politiche di un regno, cioè successione per abdicazione del padre, patti di famiglia, violazione dei medesimi, guerre, detronizzazioni, prigionie, congiure ed esilio. Non vi si parla di stragi e di morti, perchè gli Dei degli Antichi, come le Fate del medio evo) non potevano morire. Vi manca soltanto la ribellione degli oppressi ; e questá verrà sotto il regno di Giove, e sarà mirabile e tremenda, « Di poema degnissima e di storia. » **** *book_ *id_body-2-8 *date_1874 *creator_pescatori VII Saturno esule dal Cielo è accolto ospitalmente in Italia da Giano re del Lazio Poichè i mitologi, e specialmente i poeti latini, ci raccontano che Saturno esiliato dal Cielo si fermò in Italia alla corte di Giano su quel celebre colle che tuttora chiamasi Gianicolo (abitazione di Giano) ; ed essendo questa la prima volta che noi troviamo un Dio che abita e conversa familiarmente con gli uomini, convien premettere qualche osservazione sull'origine della specie umana. La Mitologia è molto incerta su tal questione, e non la decise mai dommaticamente : lasciò correre diverse opinioni, tra le quali accenneremo per ora quella soltanto che è la più semplice e sbrigativa, e che prima delle altre espone Ovidio nelle Metamorfosi, vale a dire che quel Dio stesso che dal Caos formò l'universo creasse l'uomo di divin seme, appellando così principalmente all'anima umana, e facendola di origine divina. Anche Orazio disse che l'anima era una particella dell'aura divina). Questa per verità apparisce una opinione più filosofica e biblica) che mitologica. Di altre che sono totalmente favolose e strane avremo occasione di parlare a lungo in appresso, narrando, sotto il regno di Giove, le vicende di Prometeo e di Pandora, che cronologicamente vengono dopo il regno di Saturno. Ma qualunque fosse l'origine dell'uomo, secondo i diversi mitologi, convenivano però tutti nell'asserire, che quando Saturno fu esiliato dal Cielo era già la specie umana sparsa in diverse regioni del mondo, e che nel territorio ove ora è Roma esisteva un regno, di cui la capitale era sul monte Gianicolo. Raccontano dunque i poeti che l'esule Saturno, dopo essere andato errando per l'orbe terrestre, venne per nave sul Tevere), e fu accolto ospitalmente dal re Giano ; che il territorio di quel regno in memoria di Saturno fu da prima chiamato terra Saturnia, e poi Lazio, termine che derivando dal verbo latino latère significa nascondiglio, perchè vi si era nascosto, ossia rifugiato, quel Dio. I più credono che fiorisse l'età dell'oro in quel tempo che Saturno stette nel Lazio, sebbene altri la riferiscano al regno di Saturno nel Cielo, e non all'esilio di lui. Tutti però si accordano nell'ammettere, o nell'una o nell'altra epoca, l'età dell'oro e nel celebrarla per l'innocenza dei costumi e per le spontanee produzioni di ogni ben di Dio sulla terra ; giungono perfino a dire che scorrevano rivi di latte e di miele. Ma il nostro Dante fa una gran tara a queste poetiche iperboli, dicendo : « Lo secol primo quant'oro fu bello ; « Fe' savorose per fame le ghiande, « E nettare per sete ogni ruscello. » Ammette sì la felicità di una vita semplice e innocente ; non la contorna però d'ozio e di squisiti cibi gratuiti ; ma ne pone per base la frugalità e per condimenti la fame e la sete. Aggiungono i Pagani che in questo tempo anche gli Dei celesti soggiornavano cogli uomini, perchè erano innocenti ; ma quando questi divennero malvagi, gli Dei si ritirarono tutti, e ultima partì Astrea, cioè la Giustizia. Questa invenzione è bella e sapiente, e consuona con la dottrina della Bibbia, ove dice che lo spirito di Dio abbandonò il re Saul disobbediente, e subito dopo lo invase lo spirito maligno che lo rese alternativamente malinconico e furibondo. Nel Cristianesimo il tempo che Adamo ed Eva passarono nel Paradiso terrestre è considerato come la vera età dell'oro, a cui debbono riferirsi le fantastiche descrizioni che ne fanno i poeti pagani. Ed è questa l'opinione non solo dei commentatori della Bibbia, ma pur anco del sommo Alighieri, il quale nel Canto xxviii del Purgatorio, descrivendo le bellezze del Paradiso terrestre, fa dire alla celeste Matelda : « Quelli che anticamente poetaro « L'età dell'oro e suo stato felice « Forse in Parnaso esto loco sognaro. « Qui fu innocente l'umana radice ; « Qui primavera sempre ed ogni frutto ; « Nettare è questo di che ciascun dice ! » All'età dell'oro successe quella dell'argento e poi del bronzo e del ferro, di mano in mano che gli uomini peggiorarono. Da queste idee poetiche nacque il proverbio che il mondo peggiorando invecchia). Ma non è dimostrato nè fisicamente nè moralmente che il mondo invecchi e vada sempre peggiorando : fisicamente subisce continue modificazioni e trasformazioni ; ma chi può asserire e provare che le leggi fisiche vadan sempre perdendo della loro efficacia ? E riguardo al morale, ognun sa che vi sono uomini e popoli più o meno malvagi, ma non è cangiata o guasta l'umana natura in generale, poichè non meno la storia che la comune esperienza dimostrano che gli uomini e i popoli possono correggersi dei loro vizii e difetti. Dante stesso fa dire nella Divina Commedia a Marco Lombardo : « Tu dei saper che la mala condotta « È la cagion che il mondo ha fatto reo, « E non natura che in voi sia corrotta. » E in propria persona soggiunge tosto : « …. O Marco mio, bene argomenti. » Qui osserverò una volta per sempre che alle erronee o pregiudicate opinioni bisogna sempre opporre le contrarie sentenze per rettificarle : diversamente la nuda erudizione che non sa far confronti e dedurne logiche conseguenze è peggio che inutile per l'umano progresso ; e quel tempo che si perde in vanità e quisquilie letterarie, saria meglio impiegarlo « ….. in qualche atto più degno « O di mano o d'ingegno, » come suggerisce il Petrarca. Nel tempo che Saturno si trattenne nel Lazio insegnò a quei rozzi e semplici popoli a seminar le biade, primo fondamento dell'agricoltura ; e il nome stesso di Saturno si fa derivare dal latino Satum, cioè dal seminare. È facile il riconoscere nelle pitture e nelle sculture l'immagine di questo Dio. Si rappresenta come un vecchio alato, avente in una mano una falce ; oppure una fanciullo in atto di divorarselo, e dall'altra o presso di sè un orologio a polvere, oppure un serpente che si morde la coda e forma così un circolo non interrotto. Con tutti questi diversi emblemi s'intende facilmente che sta a simboleggiare il Tempo ; e secondariamente si vuol considerarlo come uno degli Dei dell'agricoltura, perchè la falce può significare egualmente che il tempo atterra ossia distrugge tutte le cose ; e indicare pur anco la principale operazione della mietitura. Il serpente poi che mordendosi la coda forma un circolo, appella soltanto al tempo che è la continua successione dei momenti. In Roma si celebravano nel mese di dicembre le Feste Saturnali in memoria di quel tempo felice sotto il regno di Saturno, in cui non si conoscevano nè servi nè padroni, ma tutti gli uomini erano eguali ed egualmente padroni di tutto, perchè la terra spontaneamente produceva più che abbastanza per tutti senza spesa o fatica di alcuno. In quelle feste gli schiavi dei Romani erano serviti a mensa dai loro padroni, ed avevano libertà di rimproverarli dei loro difetti). Facevasi vacanza anche negli uffizi pubblici e nelle scuole, e si mandavano regali chiamati in latino strenœ, ond'è derivato in italiano il vocabolo strenne e l'uso di mandarle o di darle agli ultimi o ai primi dell'anno. Saturno era adorato anche in Grecia e nell' Oriente ; e aveva un tempio in Roma alle falde del Campidoglio, ove conservavasi il tesoro della Repubblica. Davasi, come si dà tuttora, il nome di Saturno al più distante dei pianeti visibili ad occhio nudo), e inoltre a quel giorno della settimana che noi con vocabolo derivato dall'ebraico chiamiamo sab ato. Gli astrologi stimavano Saturno un astro infausto e maligno, deducendolo forse dalla favola, che egli divorasse i propri figli. I chimici chiamano sal di Saturno l'acetato di piombo, e i medici colica saturnina una nevralgia cagionata dall'assorbimento del piombo o delle sue emanazioni : la luce pallida o plumbea del pianeta Saturno può aver suggerito quelle scientifiche denominazioni. Dopo qùalche anno di esilio Saturno fu riammesso da Giove nel cielo fra gli Dei maggiori, ma destinato soltanto a presiedere al tempo. Fu gratissimo al suo ospite Giano, poichè prima di tutto insegnò ai popoli del Lazio l'agricoltra, e li rese così più sicuri del loro nutrimento al cessare dell'età dell'oro ; e poi accordò a Giano stesso due singolari privilegi, quello cioè di prevedere il futuro, e l'altro di non dimenticarsi mai del passato. Giano in tutto questo racconto dell'esilio di Saturno e dell'età dell'oro, ci comparisce un semplice mortale, quantunque ottimo re ; ma altrove lo troviamo rappresentato come portinaio della celeste reggia, e come il Dio che fa girare le sfere e l'asse del mondo, cioè il Dio del moto ; e finalmente come il mediatore dei mortali presso gli altri Dei. Ecco uno dei molti casi mitologici in cui più e diversi attributi ed uffici si riunivano in uno stesso soggetto, che inoltre era considerato e come uomo e come Dio. La Grecia non ha alcun Dio pari a questo, asserisce Ovidio nei Fasti, ed anche Cicerone e Macrobio fanno derivare dal latino anzi che dal greco il nome di Giano (quasi Eanus ab eundo, cioè dall'andare). Giano era rappresentato con due faccie, e talvolta con quattro : con due, dicevano i pagani, per simboleggiare le due prerogative accordategli da Saturno, di prevedere il futuro e di non dimenticarsi del passato, ed anche come portinaio del cielo, affinchè potesse vedere e invigilare da per tutto senza bisogno di voltarsi. Quattro faccie poi gli avranno servito anche meglio pel disimpegno di tutti i suoi molteplici uffici. La statua di Giano con due faccie ponevasi nei bivii, e con quattro nei quadrivii (pei trivii o trebbii essendo riserbata quella di Ecate triforme, ossia con tre faccie). Aveva in una mano una chiave, e nell'altra una verga : la prima significava non solo che Giano era il celeste portinaio, ma ancora il custode delle case ; e colla verga si voleva far supporre che egli indicasse ai viandanti la strada. Celebre era in Roma il suo tempio, che stava chiuso in tempo di pace ed aperto in tempo di guerra ; il quale in più di settecento anni fu chiuso soltanto, e per poco tempo, tre volte, come sappiamo dalla storia romana. A Giano facevansi libazioni e preghiere prima che gli altri Dei, per ottenere da lui facile accesso a qualunque altro nume. In quel tempio v'eran dodici altari, indicanti i dodici mesi dell'anno romano ; il primo dei quali fu detto gennaio dal nome e in onore di Giano, considerato come portinaio del Cielo e dell'anno. Chiamavansi Giani anche certe fabbriche di base quadrata, come le Loggie di Mercato e quella celebratissima di Or San Michele in Firenze, che servivano anticamente come luoghi di convegno e di affari ai negozianti. Gli antichi scrittori latini, e principalmente Cicerone ed Orazio, fanno più volte parola di questi Giani, che corrispondevano pel loro scopo alle moderne Borse, o palazzi della Borsa. In Roma se ne conserva tuttora uno antichissimo, situato tra il Foro romano ed il Tevere. **** *book_ *id_body-2-9 *date_1874 *creator_pescatori VIII Tre Divinità rappresentanti la Terra, cioè Vesta Prisca, Cibele e Tellùre Abbiamó detto nel N. V, che Vesta Prisca moglie di Urano era considerata come la Dea della Terra : ora aggiungiamo che anche due altre Dee, cioè Cibele e Tellùre, avevano la stessa rappresentanza. — Eran forse uguali e comuni i loro uffici, oppure diversi e disgiunti ? — Eccone le differenze : Vesta Prisca fu considerata come la Terra appena separata dal Caos, e perciò priva di piante e di animali ; Cibele poi come la Terra ornata di tutte le produzioni dei tre regni della Natura, animale, vegetale e minerale, e Tellùre come il complesso delle forze fisiche della materia terrestre. Questa triplice distinzione richiama al pensiero l'ipotesi dei geologi e degli astronomi moderni sull'origine della Terra, che cioè essendo essa in principio una massa di materia incandescente, o in fusione ignea, non era atta alla produzione e conservazione dei vegetabili e degli animali ; che in appresso, in centinaia di secoli, a poco a poco raffreddandosi aveva formato la solida crosta del globo terrestre con tutti i diversi suoi strati ; e gradatamente prodotto tutti gli oggetti dei tre regni della Natura nelle diverse e successive epoche geologiche. Di Vesta Prisca abbiamo parlato abbastanza trattando di Urano ; nè qui, dopo aver notato come distinguevasi essa dalle altre due Dee rappresentanti la Terra, resta altro da aggiungere. Circa alla Dea Tellùre basterà il sapere che Cicerone nel libro iii della Natura degli Dei dice che Tellùre non è altra Dea che la Terra ; che tanto i poeti quanto i prosatori latini usarono la parola tellùre come sinonimo di terra ; e che Dante stesso nella Divina Commedia rammenta l'orazione lamentevole della Dea Terra in occasione dell'incendio mondiale cagionato dall'imprudenza di Fetonte, come a suo luogo vedremo. Di Cibele per altro convien parlare molto più a lungo. Comincieremo dal notarne i diversi nomi e l'etimologia dei medesimi. Quello di Cibele è il più noto e comune : derivò dal nome di una città e di un monte omonimo nella Frigia, ove questa Dea fu prima che altrove adorata. Alcuni autori la chiamano ancora Cibebe, e fanno derivar questo nome da cubo, ossia dado, che è la più salda e stabile figura geometrica, essendo uguale nelle tre dimensioni di lunghezza, larghezza e profondità ; e venendosi perciò a significare la creduta stabilità o immobilità della Terra, a cui presiedeva Cibele. Chiamavasi in greco e in latino Rhea (nome che fu poi dato anche alla madre di Romolo, Rhea Sylvia), da un greco verbo che significa scorrere, perchè dalla Terra scorrono, ossia provengono tutte le cose. Con questo nome di Rhea la rammenta anche Dante nel Canto xiv dell' Inferno, ov'egli parla dell'isola di Creta e del monte Ida : « Rhea la scelse già per cuna fida « Del suo figliuolo, e per celarlo meglio, « Quando piangea, vi facea far le grida ; » alludendo evidentemente alla favola già da noi raccontata dell'infanzia di Giove e de'suoi fratelli. Chiamavasi Opi dal nome latino Ops, Opis, che significa aiuto, soccorso, perchè la Terra colle sue produzioni soccorre ai bisogni dei mortali. Qualche volta fu confusa collo Dea Tellùre, e perciò le fu dato anche il nome di questa. Aveva poi molti altri nomi, come Berecinzia, Dindimene, Idèa, Pessinunzia, dai monti e dai luoghi ove era adorata. Le era particolare il titolo di Gran Madre, tanto in greco (megale meter,) quanto in latino (magna mater,) perchè oltre ad esser la madre di Nettuno Dio del Mare, di Plutone Dio dell'Inferno, di Giunone regina del Cielo, era anche la madre di Giove re supremo, del quale eran figli la maggior parte degli altri Dei. Il culto di Cibele fu introdotto in Roma ai tempi della seconda guerra punica allorchè, infierendo una pestilenza, le risposte dei libri sibillini prescrissero che per farla cessare si ricorresse alla Gran Madre. S'interpetrò che si dovesse far venire a Roma la Dea Cibele adorata in Asia nella città di Pessinunte. Il viaggio di andata e ritorno era un po' lungo e richiedea qualche mese di tempo : talchè quando giunse in Roma la statua della Dea, il morbo pestilenziale, già pago delle vittime fatte a suo bell'agio, era cessato. La statua di Cibele venuta dall'Asia era una pietra informe che i Frigi credevano caduta miracolosamente dal Cielo (probabilmente una di quelle pietre meteoriche, dette ora aereoliti). Racconta Tito Livio (lib. xxix, cap. 14) che ad incontrarla accorse la popolazione fino ad Ostia ; l'accolse e le dedicò un tempio Scipione Nasica, giudicato il più sant'uomo di Roma ; la portarono sulle spalle le matrone e le vergini Vestali. Nè vi mancarono i pretesi miracoli, come racconta Ovidio nel iv dei Fasti : ogni superstiziosa religione ha i suoi adattati alle fantasie ed alla credulità dei popoli. In Roma per altro Cibele in progresso di tempo acquistò forma ed emblemi degni di una Dea. Fu rappresentata come una matrona con lunga veste ornata di piante e di animali ; in capo aveva una corona turrita, ossia in forma di torri ; presso di sè un disco ossia tamburo ed un leone ; e spesso le si dava ancora un carro tirato da due leoni. La veste ornata di piante e di animali indicava il carattere distintivo di Cibele, che presiedeva alla terra divenuta fertile e abitabile ; la corona di torri significava che quella Dea avesse insegnato agli uomini a fortificar le città ed i castelli ; il disco o tamburo, dicevano gli Antichi, che era il simbolo dei venti che spirano sopra la Terra ; e le era sacro il leone come il re degli animali terrestri. I sacerdoti di questa Dea si chiamavano Galli, Coribanti, Cureti e Dattili : i primi due nomi son più comuni e più frequentamente usati. Eran detti Galli, perchè in Frigia bevevano l'acqua del fiume Gallo, che li faceva divenire furibondi ; nel quale stato di concitazione o di orgasmo urlavano, battevano gli scudi e i tamburi, e si percuotevano fra loro con armi taglienti sino a ferirsi e mutilarsi. Quindi l'altra favola che essi in origine facessero questo strepito per ordine di Cibele, affinchè non si udissero in Cielo le grida dei figli di lei. In Roma conservarono più comunemente questo nome di Galli ; e poichè facevano vita comune e non avevano moglie, somigliavano in questo i monaci o frati. Cicerone nelle sue opere filosofiche aggiunge un'altra notabile rassomiglianza, che essi avevano coi nostri frati mendicanti, perchè asserisce che i Galli della madre degli Dei erano i soli sacerdoti a cui fosse lasciata per pochi giorni la facoltà di far la questua ; ma non ne dice il perchè, non vedendo forse una buona ragione di questo eccezional privilegio, e, a quanto pare dal contesto delle sue parole, disapprovandolo. Il nome di Coribanti deriva da due parole greche che significano cozzanti col corno ; il che appella ai loro furori per cui sembravano tori infuriati che tra lor si cozzassero. Cureti significa Cretensi, ossia dell'isola di Creta, perchè ivi in origine abitavano quando nacquero Giove, Nettuno e Plutone. Eran poi chiamati Dattili, perchè eran dieci come le dita ; dal greco termine dactilos che significa dito. A Cibele era sacro il pino, perchè in quest'albero fu da lei cangiato un suo prediletto sacerdote chiamato Ati, che si era per disperazione mutilato e poi precipitato fra i dirupi e i sottoposti abissi di un monte. E questa è la prima metamorfosi, ossia trasformazione, di cui ci è occorso di far parola nella Mitologia. Ne troveremo in appresso tal quantità che la collezione di esse diede origine ad un celebre poema latino, intitolato appunto le Metamorfosi. **** *book_ *id_body-2-10 *date_1874 *creator_pescatori IX Vesta Dea del fuoco e le Vestali Ad una delle figlie di Saturno e di Cibele fu dato il nome stesso dell'ava, cioè di Vesta ; e per distinguere l'una dall'altra fu aggiunto all'ava l'aggettivo di Prisca o Maggiore, e alla nipote quello di Giovane o Minore. Per dare anche a questa un qualche ufficio fu inventato che presiedesse al fuoco, il quarto degli elementi del Caos ; e siccome il fuoco nulla produce, fu detto che Vesta minore non prese marito e fu Dea della castità. Quindi il culto di questa Dea fu affidato ad alcune sacerdotesse chiamate le Vergini Vestali. Il culto di Vesta per altro è antichissimo, poichè Virgilio asserisce che praticavasi in Troia, e che da Enea fu trasportato in Italia. E che questa Dea, prima della fondazione di Roma, fosse adorata in Alba e vi avesse un tempio e le sacerdotesse Vestali, lo deduciamo dallo stesso Tito Livio, non che da tutti gli altri storici e poeti latini, i quali concordemente ci narrano che Rea Silvia, che fu poi madre di Romolo, era stata costretta dallo zio Amulio a farsi Vestale. Nel tempio di Vesta non vedevasi alcuna statua o immagine della Dea ; ma soltanto un'ara col fuoco perpetuamente acceso, come simbolo della creduta perpetuità del romano impero. Il tempio era piccolo e di figura circolare o vogliam dire cilindrica, con colonne esterne che sostenevano il tetto o la vôlta. Se ne trova tuttora uno vicino al Tevere, e si crede situato quasi sul posto stesso di quello che Orazio dice atterrato a tempo suo da una violenta inondazione ; un altro simile si vede nella parte più elevata di Tivoli. Se poco hanno avuto da inventare e da raccontarci i mitologi sulla vita semplice e monotona che attribuirono a questa Dea, molto ci hanno narrato gli storici romani sulla importanza del culto di Vesta e dell'ufficio delle Vergini Vestali in Roma. Il culto di Vesta aveva importanza non solo relativamente alla religione, ma pur anco alla politica. I due punti principali erano : primo, la conservazione perpetua del fuoco sacro, che simboleggiava, come abbiam detto, la perpetua durata di Roma e del suo impero ; e secondo, la più scrupolosa illibatezza delle Vestali che si erano dedicate al servizio della Dea della castità. Da queste due condizioni credeva il popolo che dipendesse la prosperità dello Stato ; e temeva imminente una grave sciagura, se fossero neglette o non rispettate. Conosciute queste popolari credenze o superstizioni, s'intende subito anche la ragione della importanza attribuita alle Vestali e all'adempimento dei loro voti. Il numero delle Vestali non fu mai più di sette. Si prendevano da famiglie illustri, o almeno civili ed oneste : l'età non dovea esser minore di anni sette, nè maggiore di dieci. L'ufficio loro durava per trent'anni ; dopo il qual tempo potevano uscir di convento e prender marito : il che però di rado accadeva, poichè fu considerata una determinazione infausta per la Vestale. I voti e gli obblighi che riguardavano l'interesse pubblico erano quei due indicati di sopra ; e severissime le pene minacciate ed inflitte per la violazione di quelli. La Vestale che avesse lasciato spengere il fuoco sacro, era battuta pubblicamente colle verghe dal Pontefice Massimo, e quella che avesse mancato al voto di castità era seppellita viva, in un campo, detto scellerato, fuori di Roma. I giorni in cui avessero luogo queste pene o espiazioni consideravansi giorni di lutto, detti nefasti, ossia infausti. Ebbero luogo pur troppo, e più d'una volta ; ed anche in Tito Livio ne troviamo il ricordo e la narrazione. Ma però in compenso e premio di una vita esemplare e dell'esatto adempimento dei loro ufficii e voti, si accordavano alle Vestali molti e singolari privilegi. Tutte le volte che uscivano in pubblico erano precedute da sei littori come i magistrati curuli, inferiori soltanto ai consoli : assistevano ai pubblici spettacoli fra i senatori nell'orchestra, che era il primo gradino dell'anfiteatro e del circo : la loro parola valeva come un giuramento, e la fiducia di cui godevano era tanto grande, e talmente sicura l'inviolabilità del loro soggiorno, che nelle loro mani si depositavano i testamenti e gli atti di molta importanza e segretezza non solo dai privati, ma anche dai magistrati della Repubblica e dai principi stessi dell' Impero. Avevano inoltre dallo Stato e beni e cospicue rendite. Assuefatte perciò sin da bambine ad una vita così dignitosa, splendida e principesca non deve recar maraviglia che ben poche vi rinunziassero in più matura età, e che fosse stimato di cattivo augurio il sottoporsi o alla patria potestà degli agnati, o alla perpetua tutela e al predominio di un marito quanto si voglia illustre e discreto. Ignare o immemori degli usi di famiglia, difficilmente potevano adattarvisi e non rimpiangere l'impareggiabil condizione di vita a cui avevano rinununziato. Il che non conferiva di certo alla loro felicità, nè a quella del marito e dei parenti. Il culto di Vesta, fu abolito in tutto l'impero romano nel quarto secolo dell'èra cristiana dall'imperator Teodosio il Grande. **** *book_ *id_body-2-11 *date_1874 *creator_pescatori X Cerere dea delle biade e Proserpina sua figlia Dopochè gli antichi politeisti ebbero personificato e deificato i quattro elementi del Caos, cominciarono ad inventar divinità che presiedessero alle diverse forze e produzioni della Natura, e attribuirono a quelle l'invenzione delle arti e delle scienze, ed anche la creazione e la trasformazione di molti prodotti della natura stessa. E in ciò appunto distinguesi la classica Mitologia del grossolano feticismo, e ne differisce immensamente, perchè in questo adoravansi i prodotti stessi naturali come se fossero Dei, e in quella gli esseri soprannaturali a cui se ne attribuiva l'invenzione o la creazione. Cerere figlia di Saturno e di Cibele (che è lo stesso che dire del Tempo e della Terra), era considerata come la Dea delle biade che in sua stagiòne (in tempore suo), producevansi dalla terra. Il nome di Cerere, secondo Cicerone, deriva dal verbo creo, che anticamente dicevasi cereo, e perciò dal creare, ossia dal produrre le biade. I Greci la chiamavano Demèter quali Gemèter (madre Terra) per questa stessa ragione. L'adoravano ancora e le facevano splendidissime feste sotto il nome di Tesmòfora, cioè legislatrice, sapientemente considerando quel che anche oggidì ammettono tutti i pubblicisti e gli storici filosofi, che gli uomini solivaghi e nomadi, pescatori e cacciatori conduc endo una vita errante e senza dimora fissa, mal potevano assoggettarsi al consorzio sociale e vincolarsi con leggi ; e che solo allorquando per mezzo dell'agricoltura si fissarono su quei terreni che avevano coltivati, potè cominciare la civil società retta dal Governo e dalle leggi. Inventarono i Greci che Cerere avesse prima che agli altri insegnato l'agricoltura a Trittolemo figlio di Celeo re d' Eleusi, (antica città greca fra Megara e il Pireo), e che questi sul carro di Cerere tirato da draghi volanti avesse percorso gran parte della terra per insegnar quell'arte agli altri popoli. Quindi i Misterii Eleusini, cioè i riti arcani che si celebravano nelle feste di Cerere in Eleusi. I Latini per altro non ammettevano che a loro avesse insegnato l'agricoltura Trittolemo e neppur Cerere, ma invece lo stesso Saturno, padre di lei (come dicemmo parlando di questo Dio), e perciò affermavano la lor priorità sopra i greci nell'arte di coltivar la terra. Per questa ragione Virgilio nelle Georgiche loda l' Italia come gran madre, ossia prima produttrice, delle biade (magna parens frugum). Cerere ebbe da Giove una figlia chiamata Proserpina in latino e in italiano, Persephone in greco, che rappresenta una splendida parte nelle vicende e negli attributi di sua madre. Raccontano i mitologi che Proserpina come dea di secondo ordine stava sulla terra e precisamente in Sicilia con diverse ninfe sue compagne od ancelle ; che mentre essa coglieva fiori alle falde del monte Etna fu rapita da Plutone Dio dell'inferno, per farla sua sposa e regina de' sotterranei regni ; che questo ratto fu eseguito con tal prestezza che neppur le Ninfe a lei vicine se ne accorsero, e non poteron dire alla madre che fosse avvenuto della perduta Proserpina. Questo mito del ratto di Proserpina è tanto amplificato ed abbellito di straordinarie fantasie da tutti i poeti antichi e moderni, che troppo lungo sarebbe il voler tutte riportarle. Dante stesso nel descrivere il Paradiso terrestre accenna questo mito, e dice alla bella Matelda, « ………… (che si gìa « Cantando ed iscegliendo fior da fiore, « Ond'era sparsa tutta la sua via), « Tu mi fai rimembrar dove e qual'era « Proserpina nel tempo che perdette « La madre lei, ed ella primavera. » A questo punto cederò la parola all' Ariosto, la cui splendida poesia è facile ad intendersi come la prosa : « Cerere poi che dalla madre Idea « Tornando in fretta alla solinga valle « Là dove calca la montagna Etnea « Al fulminato Encelado le spalle, « La figlia non trovò dove l'avea « Lasciata fuor d'ogni segnato calle ; « Fatto ch'ebbe alle guance, al petto, ai crini « E agli occhi danno, alfin svelse due pini ; « E nel fuoco li accese di Vulcano « E diè lor non poter esser mai spenti ; « E portandosi questi uno per mano « Sul carro che tiravan due serpenti, « Cercò le selve, i campi, il monte, il piano, « Le valli, i fiumi, gli stagni, i torrenti, « La terra e 'l mare ; e poi che tutto il mondo « Cercò di sopra, andò al tartareo fondo. » Cerere per altro non pensava nemmen per ombra di dover cercar la figlia nel tartareo fondo, ossia nell' Inferno, se non era la ninfa di una fontana chiamata Aretusa, le cui acque scorrevano sotto terra, che le avesse significato di aver veduto Proserpina piangente e spaventata, in un carro ferrugginoso tirato da neri cavalli guidati e spinti precipitosamente da Plutone per le vie sotterranee verso le regioni infernali. Corse subito alla reggia di questo Dio per riprender la figlia ; ma Plutone non volle renderla. Cerere allora ricorse a Giove, che per questo caso strano consultò il libro del Fato, nel quale trovò il decreto irrevocabile, che se Proserpina avesse mangiato o bevuto nell' Inferno, non avrebbe potuto esser libera e ritornar colla madre. Si affrettò Cerere di ritornar da Plutone ; e mentre sperava di essere stata in tempo per ricondur via la figlia, poichè molti testimoni interrogati rispondevano di non aver veduto nulla, comparve un impiegato infernale, di nome Ascalafo, che asserì di aver veduto Proserpina succhiare alcuni chicchi di melagrana ; nè Proserpina potè negarlo. Cerere indispettita gettò a costui sulla faccia l'acqua del fiume Flegetonte, e lo cangiò in gufo o barbagianni, uccello di cattivo augurio. Si venne allora ad una transazione, e fu convenuto per la mediazione di Giove che Proserpina restasse 6 mesi dell'anno col marito Plutone nell'inferno, e gli altri 6 mesi colla madre sulla terra. Tutta questa immaginosa invenzione significa che Proserpina figlia di Cerere simboleggia le biade, le quali stanno sei mesi sotto terra e sei mesi sopra terra. Dopo aver notato questi miti sarà più facile riconoscere le immagini sculte o dipinte della dea Cerere dagli emblemi coi quali è sempre rappresentata. Sono emblemi suoi distintivi una corona di spighe di grano sulla fronte e parimente un fascio o covone di spighe in braccio ; in una mano la falce, e talvolta un mazzo di papaveri nell'altra. Quest'ultimo distintivo le fu dato, perchè goffamente credevasi che avesse avuto bisogno di un decotto di papaveri che Giove le somministrò per liberarla dall'insonnio cagionatole dall'afflizione di aver perduto la figlia. Quando poi s'incominciò a rappresentare l'estate presso a poco come Cerere, cioè colla corona e col covone di spighe, e inoltre la falce da grano, parve anche necessario l'aggiungere il distintivo del mazzo di papaveri all'immagine della dea Cerere. Per maggior distinzione fu rappresentata ancora talvolta con una doppia fila di mammelle, per cui le si dava il titolo di Mammosa. Non è però possibile scambiarla o confonderla con altre Dee, quando si vede rappresentata in un carro tirato da serpenti alati, o vogliam dire draghi volanti, ed avente in mano una o due faci accese : si riconosce subito Cerere che va in cerca della smarrita Proserpina. La vittima che sacrificavasi a Cerere era la scrofa, perchè, dice Ovidio, scava col suo grifo le biade sacre a questa Dea. Fra i supposti miracoli fatti da Cerere, oltre alla trasformazione di Ascalafo in gufo, si narra che essa avesse anche trasformato il fanciulletto Stellio in lucerta per punirlo dell'essersi fatto beffa di lei. Forse la somiglianza del nome, che in latino è omonimo con quello di questo piccolo rettile, diè motivo ad inventare una tal trasformazione. Dante che ben volentieri riporta nella Divina Commedia anche le punizioni mitologiche dei delitti umani, e specialmente dell'empietà, non avrebbe trascurato di riferire anche questa, se contro i fanciulli insolenti e molesti non ne avesse trovata una più solenne e tremenda nella Bibbia, quella cioè dei fanciulli che per aver beffato il profeta Eliseo della sua calvizie, furono divorati dagli orsi ; e se ne valse per fare una perifrasi dei nome di quel profeta : « E qual colui che si vengiò con gli orsi « Vide 'l carro d' Elia al dipartire, « Quando i cavalli al cielo erti levorsi, « Sì come nuvoletta, in su salire. » Un altro celebre miracolo mitologico attribuito a Cerere è rammentato da molti poeti, e dallo stesso Dante, e perfino dal Giusti ; ed è la punizione dell'empietà di Eresittone. Questo re di Tracia (o di Tessaglia) aveva atterrato per dispregio una selva sacra al culto di Cerere ; e la Dea lo punì col farlo invadere dalla Fame (considerata come una Dea malefica), la quale lo ridusse a divorarsi in poco tempo tutto il suo ricco patrimonio, vendendo perfino la figlia Metra, ed a morire ciò non ostante di estenuazione e di tal disperazione « Che in sè medesmo si volgea co'denti. » Dante rammenta questo celebre mito, e se ne vale per una similitudine della magrezza a cui per pena eran ridotti i golosi nel Purgatorio : « Non credo che così a buccia strema « Erisiton si fosse fatto secco « Per digiunar quando più n'ebbe tema. » E il Giusti, nella Scritta, rammenta una pittura che rappresenta Eresittone come simbolo di un insaziabile usuraio : « Da un lato un gran carname « Erisitone ingoia, « E dall'aride cuoia « Conosci che la fame « Coll'intimo bruciore « Rimangia il mangiatore. » Il nome di Cerere in latino stava a significare, per figura rettorica di metonimia, il grano o le biade, come Bacco il vino, Minerva la sapienza ecc. ; e nello stesso Virgilio troviamo l'espressione Cerere corrotta dalle onde (Cererem corruptam undis), per indicare il grano avariato dall'acqua del mare. Ma in italiano in questo senso figurato è poco usata la parola Cerere, e invece si preferisce l'aggettivo latino cereale, cioè appartenente a Cerere ; e si usa al plurale in forza di nome, dicendosi i cereali per significar le biade o le granaglie. In astronomia il nome di Cerere fu dato al primo degli asteroidi (pianeti telescopici situati fra Marte e Giove), scoperto dal Piazzi nel primo giorno del primo anno di questo secolo. **** *book_ *id_body-2-12 *date_1874 *creator_pescatori XI Giove re del Cielo Che Giove fosse adorato come il supremo degli Dei dai Greci e dai Troiani sino dai più remoti tempi preistorici, lo sappiamo da Omero « Primo pittor delle memorie antiche. » Il suo nome in greco era Zeus, e in latino Jupiter. Il nome latino è conservato senza alterazione ortografica nelle moderne lingue francese e inglese, mentre in italiano lo traduciamo per Giove, prendendo questa voce, come generalmente suol farsi da noi in tutti gli altri nomi latini, dall'ablativo (Jove). Il nome di Giove deriva dal verbo giovare (juvare) : Giove significa dunque etimologicamente il Dio che giova agli uomini, il Dio benefico per eccellenza. Questa significazione è tanto chiara ed evidente, che un dei nostri poeti ha detto : quel Dio che a tutti è Giove, per dire che giova a tutti ; e Dante nel celeberrimo canto VI del Purgatorio, ove rimprovera la serva Italia di dolore ostello, ci presenta questa notabilissima perifrasi : « E se licito m'è, o sommo Giove « Che fosti in terra per noi crucifisso, « Son li giusti occhi tuoi rivolti altrove ? » ove è manifesto che egli chiama sommo Giove Gesù Cristo nel senso etimologico e non mitologico della parola Giove. La Divinità non ebbe mai in alcuna lingua un nome etimologicamente più bello, poichè anche più della giustizia e della clemenza è bella la beneficenza. Sii giusto, sii benefico, dicono i moralisti ; e in questi due punti compendiano tutti i doveri della morale, il primo come dovere assoluto e il secondo come dovere relativo, a cui si sottintende se puoi e per quanto puoi ; ma poichè la Divinità è onnipotente, perciò immensa e infinita è la sua beneficenza. Da queste idee filosofiche derivò il titolo di Ottimo Massimo che davasi a Giove dai romani politeisti ; e Cicerone stesso spiega questi due attributi colle seguenti parole : « Il popolo romano chiamò « Giove Ottimo per i suoi benefizii e Massimo per la sua potenza ». Era detto ancora Ospitale, perchè gli Antichi attribuirono a Giove l'invenzione e la protezione della ospitalità ; Tonante perchè era creduto signore del fulmine. In Roma gli furono eretti diversi tempii sotto i nomi di Giove Statore, Feretrio e Capitolino ; e la storia romana stessa narra l'origine e la ragione di questi titoli. Fu chiamato anche Giove Pluvio perchè i loro fisici lo considerarono come l'etere o l'aria, ove « ……… si raccoglie « Quell'umido vapor che in acqua riede « Tosto che sale dove 'l freddo il coglie. » Considerato Giove come il re del Cielo, aveva lassù la sua reggia, il suo trono, il suo Consiglio di Stato e la sua Corte. Ma spesso scendeva ad abitar sulla Terra, e teneva corte sul monte Olimpo in Grecia ; e perciò dai poeti il nome di Olimpo è usato come sinonimo di Cielo ; Olimpico è detto Giove ; Olimpici o Dei dell' Olimpo tutti gli altri Dei superiori. La dignità e maestà di Giove era descritta dai poeti più grandi e più sommi con espressioni veramente sublimi. Virgilio imitando Omero dice che Giove con un cenno faceva tremar tutto l'Olimpo (Æneid., ix), e Orazio non lascia da aggiunger nulla di più affermando, che facea muover tutto a un balenar di ciglio (Od., iii, 1). Rappresentavasi con molta maestà seduto in trono, coi fulmini nella destra, lo scettro sormontato dalla statua della dea Vittoria nella sinistra, e ai piedi l'aquila ministra del fulmine, vale a dire che gli portava i fulmini dalla fucina di Vulcano. Omero aggiunge che ai lati del suo trono teneva Giove due coppe, l'una del bene e l'altra del male, per versarle a suo beneplacito sopra i mortali. Dalle idee di Omero fu ispirato Fidia nel far la sua celebratissima statua di Giove Olimpico, considerata come una delle maraviglie del mondo ; la quale rimase sempre per tutti i seguenti scultori e pittori il primo e più egregio modello dei lineamenti caratteristici di questa suprema divinità del paganesimo. Nell'Affrica questo Dio era adorato sotto il nome di Giove Ammone e sotto la forma di ariete. Ammone significa arenoso, e Giove ebbe questo titolo perchè nelle arene della Libia comparve sotto la forma di ariete a Bacco, assetato e smarrito nel deserto, e gl'indicò in un' oasi vicina una fontana per dissetarsi. Il tempio che Bacco per gratitudine gli eresse in quell'oasi fu perciò detto di Giove Ammone, e l'idolo del Nume ebbe perciò la forma di ariete. Dell' Oracolo di questo tempio parleremo in un capitolo a parte, spiegando in che consistessero gli Oracoli dei Pagani. I paleontologi hanno dato il nome di Ammonite ad una conchiglia fossile, perchè ha la forma di un corno simile a quelli di Giove Ammone, cioè di ariete ; e la chiamano ancora, specialmente i Francesi, corno di Ammone. Ecco un'altra scienza, e delle più recenti, in cui non è disprezzato l'uso antico di adottare nel linguaggio scientifico i termini della Mitologia. La più bella e sublime immagine della potenza di Giove, e della dipendenza della Terra dal Cielo e dal supremo suo Nume, fu ideata da Omero, attribuendone l'invenzione a Giove stesso, che il poeta sovrano fa così favellare agli altri Dei : « D'oro al cielo appendete una catena, « E tutti a questa v'attaccate, o Divi, « E voi Dee, e traete. E non per questo « Dal ciel trarrete in terra il sommo Giove, « Supremo senno, neppur tutte oprando « Le vostre posse. Ma ben io, se il voglio, « Lo trarrò colla terra e il mar sospeso : « Indi alla vetta dell'immoto Olimpo « Annoderò la gran catena, ed alto « Tutte da quella penderan le cose. « Cotanto il mio poter vince de' Numi « Le forze e dei mortali. » Questa invenzione dell'aurea catena che lega la Terra al Cielo è sempre sembrata sì bella e sapiente, che non solo fu accolta con plauso dai poeti e dai letterati, ma commentata pur anco splendidamente dai filosofi, e tra questi da quel potente e straordinario ingegno del nostro Giovan Battista Vico. Si unirono anche gli astronomi antichi a rendere onore a Giove dando il nome di esso a quel pianeta che apparisce ed è maggiore degli altri veri e proprii pianeti, e gli dedicarono quel giorno della settimana che tuttora chiamasi Giovedì. Se tutto questo e null'altro si sapesse di Giove, avremmo in esso una nobilissima idea del Dio filosofico, riconosciuto e affermato da Socrate, da Cicerone e dagli altri sommi greci e romani antichi. Ma disgraziatamente ci fu tramandato ancora il racconto della vita privata di questo Dio, indegna d'un uomo non che d'un nume. Prima però di scendere a questa storia aneddotica, parleremo di un fatto o avvenimento straordinario, che mise in forse la potenza di Giove e degli altri Dei superiori. **** *book_ *id_body-2-13 *date_1874 *creator_pescatori XII La Titanomachia e la Gigantomachia Per intender bene le vere cause di queste guerre convien risalire al patto di famiglia fra Titano e Saturno, la cui violazione produsse nel Cielo la prima guerra fraterna che terminò colla prigionia di Saturno e di Cibele (vedi il n° VI). Ne seguì la guerra di Giove e fratelli contro lo zio ed i cugini con la sconfitta e l'esilio di questi. Ora sono i soccombenti ed oppressi Titani che tentano colla forza di ricuperare il perduto possesso del celeste regno. Veramente le guerre contro Giove, secondo gli antichi mitologi, furono due : quella dei Titani figli e discendenti di Titano, e quella dei Giganti, cioè dei figli della Terra, come significa questa parola secondo la greca etimologia. Perciò devesi distinguere la Titanomachia dalla Gigantomachia. Ma poichè queste si rassomigliano come due successive ribellioni domate e compresse, furon dai poeti riunite le strane vicende di entrambe in una sola narrazione, e come se fossero una sola guerra. Anzi poichè la seconda fu più terribile e più decisiva della prima, e da quella in poi non corse più pericoli il regno di Giove, fu più celebrata la Gigantomachia ; e della guerra dei Titani poco o nulla si parlò dalla maggior parte dei poeti. Anche Ovidio così erudito negli antichi miti, come dimostrano tutte le sue poesie e principalmente i Fasti e le Metamorfosi che ne son piene, si era accinto a cantar la guerra dei Giganti, e non dei Titani ; ma distratto da altre più facili poesie, e impedito poi dall'esilio non potè eseguire quel poema che aveva ideato. Claudiano, del quale esiste un frammento di 127 versi della Gigantomachia, non ci fa molto rimpiangere la perdita del rimanente di questo suo mitico poema ; ma il titolo soltanto dimostra che egli cantò dei Giganti e non dei Titani. Anche Dante più tosto che i Titani rammenta i Giganti che fer paura ai Dei, e ne pone un gran numero nel profondo dell' Inferno da lui immaginato e descritto ; e l'esempio del gran padre Alighier, come lo chiama l' Alfieri, dà giustamente regola e norma ai maggiori e ai minori nostri poeti. Per altro in una narrazione critica dei miti convien distinguere le due guerre e toccar brevemente anche della prima, cioè della Titanomachia. Il diritto, che ora chiamerebbesi legittimo, al trono del Cielo apparteneva veramente ai Titani come figli e discendenti di Titano, che cedè il regno a Saturno sotto condizione che questi non allevasse figli maschi ; e non essendo adempiuta l'apposta condizione sine qua non, la dinastia divenne da quel momento in poi usurpatrice ; e Giove in appresso fu soltanto un invasore fortunato che fece valere il diritto del più forte (jus datum sceleri) come vera e propria ragione. La famiglia dei Titani privata del trono, prima per frode, e poi per forza, esiliata dal Cielo ed oppressa, tenta di riacquistar colla forza ciò che colla forza erale stato tolto. Ecco la vera causa della Titanomachia : e di questa guerra accenneremo soltanto l'esito finale, che fu la disfatta dei Titani ; dei quali il molto sangue e le diverse e orribili piaghe mossero a compassione la dea Tellùre, ossia la Terra, che irritata contro Giove e gli altri Dei, così spietatamente crudeli, generò dal suo seno immani, fortissimi e mostruosi figli chiamati appunto Giganti, cioè figli della Terra, e li istigò a vendicare i Titani, a impadronirsi del Cielo e cacciarne gli usurpatori tiranni. Ed ecco l'origine e la causa della Gigantomachia ; la qual guerra è cantata dai poeti preferibilmente alla Titanomachia, perchè parve agli Antichi che in quella il miglior diritto fosse degli Dei che rimasero vincitori, mentre in questa era più veramente dei Titani che furono vinti. Erano infatti i Titani di origine divina, non che di regia stirpe e della linea del primogenito di Urano ; e invece i Giganti, esseri mostruosi e di origine terrestre, erano affatto estranei al fondamento e al titolo della contesa. La prima guerra poteva anche riguardarsi come una collisione di diritti o di pretese fra due famiglie dinastiche ; ma la seconda era stimata, come direbbesi modernamente, una irruzione del Comunismo a distruzione del Gius Costituito, ossia dell'ordine sociale di fatto ; e gli antichi la considerarono come una lotta del principio del male contro quello del bene, e perciò celebrarono la vittoria di questo. Fatta una tal distinzione, resta ora da accennare soltanto i fatti e le vicende principali della Gigantomachia. E prima di tutto, com'eran fatti i Giganti ? L'idea generale che ciascuno suol farsene si è che fossero uomini di grandezza e di forza straordinaria ; e i mitologi aggiungono che molti d'essi erano anche di struttura mostruosa. Alcuni ci narrano che Encelado, o, secondo altri, Gige aveva cento braccia, e perciò maneggiava cinquanta scudi e cinquanta lance ; che Briarèo scagliava enormi massi e interi scogli a sì prodigiose distanze da perdersi di vista dove andassero a colpire o cadere ; che Tifèo o Egeòne aveva una lunghissima coda di serpente ed era tutto coperto di scaglie come un coccodrillo o un armadillo. Ma Dante, che ci assicura di aver trovati parecchi di questi Giganti nel fondo dell'inferno, non ne vide alcuno di quelli più mostruosi. Eran tutti però molto alti e grossi, talchè da lontano tra la caligine infernale li aveva presi per torri, quantunque non apparissero che per metà, cioè dai fianchi in su ; e Virgilio lo disingannò dicendogli : « Acciò che il fatto men ti paia strano, « Sappi che non son torri, ma giganti. » Per quanto Dante ci confessi sinceramente ch'egli ebbe una gran paura al primo vederli, non lasciò per questo di guardarli bene e di misurarne a occhio le dimensioni ; e a forza di perifrasi e di confronti ci fa capire che quelli che vide dovevano essere alti in media più di venticinque braccia, ossia circa quattordici metri ciascuno, e di grossezza proporzionati all'altezza come nella specie umana. Alcuni per altro di quelli che Dante non accenna di aver veduto nel suo viaggio all'Inferno, eran molto più lunghi e più grossi, come per esempio il gigante Tizio che si estendeva per nove jugeri, ed Encelado che era lungo quanto la Sicilia, e Tifeo che toccava il cielo col capo. Gli antichi mitologi aborrivano le minuzie aritmetiche e geometriche, e spacciavano tutto all'ingrosso ; e ci danno un'idea, secondo loro, sublime della grandezza e forza dei Giganti dicendo, che per dar la scalata al cielo posero tre monti uno sopra l'altro, cioè sul monte Olimpo il monte Ossa e su questo il monte Pelio). Il teatro della guerra fu dunque nella Grecia continentale sui confini della Macedonia colla Tessaglia ; e l'immane combattimento ebbe il nome di pugna di Flègra) dalla prossima antica città di questo nome, poi chiamata Pallène. Il caso più strano di questa guerra si fu che tutti gli Dei, non che le Dee, ebbero una gran paura dei Giganti, e la massima parte fuggirono vilmente dal Cielo ; e per celarsi meglio e non esser riconosciuti, invece di travestirsi da plebei come fanno i principi fuggiaschi del nostro globo, si trasformarono in bestie ed alcuni anche in piante, e si ricovrarono quasi tutti in Egitto. Ecco, ci dicono i mitologi, perchè gli Egiziani adoravano come Dei tante bestie, ed anche qualche vegetabile). Giove rimase a combattere con due figli soltanto, cioè con Apollo e con Bacco ; e tutto al più con quattro, secondo altri poeti, e tra questi anche Dante, che vi aggiunge Marte e Minerva. L'altro figlio Vulcano insieme coi Ciclopi si affaticava a fabbricargli in gran copia i fulmini nelle sue sotterranee fucine, e l'aquila glieli portava. A furia di fulmini i Giganti furono atterrati, feriti, trafitti, sotterrati vivi o cacciati all'Inferno. Questa vittoria di Giove fu rammentata e celebrata da tutti i più illustri poeti antichi e moderni. Lo stesso Dante la rammenta più e più volte nel suo poema sacro, e fa nascere l'opportunità di parlarne perfino nel Purgatorio, immaginando che ivi esistessero dei bassirilievi rappresentanti i fatti veri o allegorici di superbia punita. Così troviamo nel Canto xii : « Vedeva Briareo, fitto dal tèlo « Celestïal, giacer dall'altra parte, « Grave alla terra per lo mortal gelo. « Vedea Timbrèo), vedea Pallade e Marte, « Armati ancora, intorno al padre loro, « Mirar le membra de' giganti sparte. » I mitologi greci e latini inventarono, a proposito della disfatta e della punizione dei Giganti, molte e strane vicende. Una delle più impossibili ed incredibili era tanto famigerata, che la eternò nei suoi mirabili versi lo stesso Virgilio. Si riferisce ad Encelado seppellito vivo nella Sicilia col capo sotto il monte Etna, coi piedi che giungevano sino al promontorio Lilibeo e le mani sotto agli altri due promontori Pachino e Peloro. Ne riporto qui la traduzione del Caro, e in nota l'originale : « È fama che dal fulmine percosso « E non estinto sotto a questa mole « Giace il corpo d'Encelado superbo : « E che quando per duolo e per lassezza « Ei si travolve o sospirando anela, « Si scuote il monte e la Trinacria tutta ; « E dal ferito petto il fuoco uscendo « Per le caverne mormorando esala, « E tutte intorno le campagne e 'l Cielo « Di tuoni empie, di pomici e di fumo). » Ed è questo uno dei più evidenti esempi a dimostrazione del modo con cui gli Antichi trasformavano in racconti mitologici la descrizione dei naturali fenomeni. Infatti Virgilio, che Dante scelse per suo maestro), e. che egli chiama il mar di tutto il senno, dovendo come poeta pagano raccontar questa favola, le fa precedere una dottissima e splendida descrizione delle eruzioni del monte Etna, così egregiamente tradotta dal Caro : « ….. Esce talvolta « Da questo monte all'aura un'atra nube « Mista di nero fumo e di roventi « Faville, che di cenere e di pece « Fan turbi e groppi, ed ondeggiando a scosse « Vibrano ad ora ad or luride fiamme, « Che van lambendo a scolorar le stelle ; « E talvolta le sue viscere stesse « Da sè divelte, immani sassi e scogli « Liquefatti e combusti al Ciel vomendo, « Infin dal fondo romoreggia e bolle). » E Dante gareggiando col maestro, e, com'è suo stile, distinguendosi da esso e da qualsivoglia altro scrittore per insuperabile concisione, accenna con un solo verso l'opinione mitologica e dà la spiegazione della causa de' vapori sulfurei dell'Etna, dicendo nel Canto iv del Paradiso, che la bella Trinacria, cioè la Sicilia, caliga, ossia cuopresi di caligine, fra Pachino e Peloro (ove appunto è situata l'Etna), « Non per Tifeo, ma per nascente zolfo. » Vedano ora i moderni geologi e chimici (se pure taluno di loro ha tempo di studiare il Dante), come il nostro divino poeta parlava cinque in sei secoli fa, secondo le loro odierne teorie ed analisi chimiche, accennando che lo zolfo nasce e si forma nei sotterranei abissi dei vulcani, e ne vengon tramandate le esalazioni nell'aria circostante ai crateri. Non troverà nulla da opporre neppure lo stesso sir Carlo Lyell, il principe dei geologi, con tutta la sua nuova teoria dei vulcani. I chimici poi che riconoscono coll'analisi l'esistenza del solfo nativo nei terreni vulcanici, specialmente in Sicilia e nella solfatara presso Pozzuoli nelle vicinanze di Napoli, troveranno, nella espressione dantesca di nascente solfo, indicata l'elaborazione e la fabbrica naturale di quello zolfo che essi, alludendo alla stessa origine, chiamano nativo). **** *book_ *id_body-2-14 *date_1874 *creator_pescatori XIII Difetti e vizii del Dio Giove Anche sulle labbra degli analfabeti, che non sieno privi affatto di qualunque idea di religione, udiamo sovente il comune proverbio, che è solo Iddio senza difetti. Ma gli antichi Pagani ammettevano nei loro Dei non solo difetti, ma pur anco azioni talmente nefande che sarebbero punibili tra gli uomini nella civil società. Distruggevano dunque l'idea stessa della divinità, la base e il fondamento della morale religiosa. Quindi il culto di tali Dei, chiamati giustamente dall'Alighieri falsi e bugiardi, doveva cadere in dispregio e dileguarsi col progresso del buon senso e del raziocìnio, come avvenne difatti. Giove, il supremo degli Dei pagani, era più vizioso di molti mortali ; e perciò usurpava, o gli era dato immeritamente il titolo di Ottimo. Nel n° XI notammo tutte le eccellenti qualità che gli erano attribuite, per le quali veniva ad esser l'ideale della divinità dei filosofi. Ora conviene accennare le meno buone, ed anche le assolutamente malvagie. Quando i Titani furono spodestati da Giove ed espulsi dal cielo, andarono profughi sulla terra ; e la loro stirpe crebbe e si moltiplicò. Fra i più celebri si annoverano Prometeo ed Epimeteo, di cui ora occorre parlare. Prometeo ed Epimeteo erano figli di uno dei Titani chiamato Japeto, ed ambedue ingegnosissimi : il primo faceva le statue di creta rappresentanti esseri simili a lui, o vogliam dire di forma umana ; e il secondo modellava e plasmava, parimente in creta, gli animali bruti. Sin qui il racconto par. vera istoria : ma ora incomincia la favola. Prometeo col favore di quegli Dei che eran più amanti e protettori dell'ingegno e delle arti, rapì dal Cielo, o come altri dicono, dal carro del Sole, una divina scintilla di fuoco, e con essa animò le sue statue, e le fece divenire uomini viventi e parlanti. Giove che intendeva riserbato esclusivamente a sè stesso il potere di crear gli uomini, punì crudelmente Prometeo col farlo legar da Vulcano ad una rupe del monte Caucaso, e di più col mandare ogni giorno un avvoltoio a rodergli il fegato, che di notte gli rinasceva e cresceva, per render perpetua la pena di lui. Parve esorbitante e tirannico questo supplizio agli stessi Dei, che inoltre rimasero indispettiti delle pretese di Giove di arrogarsi per sè solo la facoltà di creare gli uomini ; ma invece di protestare con parole o con dimostrazioni clamorose, asserirono il loro diritto, esercitandolo di fatto e creando una donna fornita di tutte le più rare doti di corpo e di spirito, la quale chiamarono Pandora, che in greco significa tutto dono, perchè tutti avevano contribuito a darle qualche particolar pregio. Giove finse di non sdegnarsene, anzi disse di voler farle un dono anch'egli, e le diede un vaso chiuso con ordine di portarlo ad Epimeteo perchè l'aprisse. Ma per quanto piena di pregi fosse Pandora, gli Dei non avevan pensato a renderla immune dalla curiosità ; quindi essa aperse subito il vaso e ne uscirono immediatamente tutti i mali fisici piombando sulla umana specie). Pandora si affrettò a richiudere il vaso, ma non vi rimase dentro che la speranza). In tutto questo racconto mitico Giove non fa più la figura del Dio che giova, del Dio benefico, ma quella d'invidioso, maligno e malefico. Questo è l'ordito della favola, secondo i più ; ma poi vi si fanno sopra tanti ricami e intorno intorno tante aggiunte e frangie, da tener lungamente occupato chi volesse darne di tutte la descrizione e la spiegazione : è questo l'argomento prediletto non solo dei poeti, ma pur anco di molti filosofi nostri e stranieri. Lo stesso gran luminare degli Inglesi, Bacone da Verulamio, nel suo libro De Sapientia Veterum, esamina ed interpetra più a lungo questa favola che le altre trenta da lui prescelte come meritevoli delle sue considerazioni. Tutti però, generalmente, convengono che Prometeo rappresenti l'ingegno umano che inventa le arti utili alla vita (il quale ingegno perciò può dirsi poeticamente una scintilla del fuoco celeste) ; e inoltre la punizione di esso significa le traversie e le persecuzioni immeritate che per lo più si ricevono dai grandi inventori invece del meritato premiò. Aggiungono però che la pena di Prometeo non fu perpetua, perchè Ercole lo liberò, ed uccise l'avvoltoio che gli rodeva il fegato : il che vuol significare che la forza d'animo, ossia la costanza, vince tutti gli ostacoli, e che gli utili effetti finali fanno dimenticare le pene sofferte). Ingegnosissimo è pure il mezzo che fanno adoprare a Prometeo per rapire il fuoco celeste, inventando che egli accese lassù una verghetta o un fascetto di legna ; e cosi vengono a significare il modo usato anche oggidì, in caso di bisogno o per esperimento, di eccitar la fiamma colla confricazione di due aridi legni. Un uguale effetto deriva ancora talvolta per la prolungata agitazione del vento, che confricando tra loro in una selva selvaggia diversi rami degli alberi, produce estesissimi e spaventevoli incendii ; ed anche il fulmine (che credevasi venir dal Cielo e dalla mano stessa di Giove) comunica il fuoco alle materie combustibili che trovansi sulla Terra. Il fuoco poi, come dice Bacone da Verulamio, è la mano delle mani, lo stromento degli stromenti, l'aiuto degli aiuti di tutte le arti degli uomini. Anzi nella modernissima scienza detta Termodinamica, ossia meccanica del calore, si dimostra che questo stesso elemento, (e in ultima analisi il Sole che n' è fisicamente la causa prima), produce il lavoro meccanico delle macchine a vapore e dà la forza anche alle braccia degli uomini. — Felice chi potè conoscer le cause delle cose), diceva Virgilio ; e in oggi spingendosi le scienze sempre più arditamente e con prospero successo a far mirabili conquiste nelle regioni del vero, posson chiamarsi invidiabilmente felici i sapienti cultori di quelle ! Quanto poi al vaso di Pandora, onde, uscirono tutti i mali di questa Terra, l'espressione mitologica è tanto famigerata che odesi spesso dalla bocca di persone tutt'altro che eruditissime. Di Pandora stessa raccontasi pur anco da alcuni mitologi, che Giove, nel regalarle il fatal vaso, le avesse ordinato di portarlo a Prometeo ; ma questi il cui nome significa provvido o cauto, non volle aprirlo ; ed avendolo essa portato quindi ad Epimeteo, il cui nome significa l'opposto, cioè improvvido o incauto, questi l'aprì. Aggiungono di più che egli sposò Pandora, la quale gli portò in dote quel vaso pieno di tutti i mali. È poi molto notabile e filosofica l'interpretazione di Bacone da Verulamio che Pandora, unita in matrimonio coll'improvvido Epimeteo, significhi la voluttà e il mal costume che spasso derivano dalla raffinatezza delle arti e dal lusso nelle anime spensierate ed improvvide : dal che nascono tutti i mali che rovinano gli uomini e gli Stati). Se Giove in questo mito, sì riguardo a Prometeo che a Pandora e al genere umano, non fa la più bella figura, come abbiam notato di sopra, nei suoi doveri poi, che diremmo domestici, vale a dire di marito e di padre, è anche più biasimevole. Mille ragioni non che una aveva Giunone sua moglie di lamentarsi e stizzirsi della violata fede coniugale di suo marito ; e gli uomini stessi non ebbero a lodarsene e a crescergli venerazione, trovandosi molte famiglie dei mortali involte in gravi sciagure per colpa di Giove. Lungo sarebbe e molesto il voler tutte rammentarle di seguito, come alcuni mitologi fanno : ond'io preferisco di narrarne le principali una alla volta, di mano in mano che ne verrà l'occasione, secondo l'ordine cronologico e gerarchico, nel parlare dei figli di Giove. Peggio poi che bestiale non che disumana fu la condotta di questo Dio nel precipitar dal Cielo in Terra con un calcio Vulcano figlio suo e di Giunone, non per altro motivo se non perchè gli parve brutto e deforme : per la qual caduta il misero Vulcano ebbe di più la disgrazia di rimaner perpetuamante zoppo, e di esser perciò il ludibrio di quelle stravaganti Divinità del Paganesimo, come vedremo a suo luogo. **** *book_ *id_body-2-15 *date_1874 *creator_pescatori XIV Il Diluvio di Deucalione Dopo che furono sterminati i Giganti dalla faccia della Terra, vi rimase la razza dei discendenti dei migliori Titani, quella degli uomini plasmati di creta e animati da Prometeo col fuoco celeste, e l'altra degli uomini che Giove stesso aveva creati. Ma ben presto divennero quasi tutti empii, scellerati e crudeli. Giove, avuta notizia di questa general corruzione del genere umano, volle assicurarsene personalmente sulla faccia del luogo : il che dimostra che egli non aveva l'onniscienza e l'onnipresenza, attributi essenziali alla Divinità. Scese perciò dal Cielo in Terra, e prendendo per compagno suo figlio Mercurio, si misero ambedue a viaggiare sotto forma di pellegrini pel mondo. Trovarono da per tutto orribili delitti, nefandità di nuova idea ; e saputo tra le altre cose, che v'era un re d'Arcadia, Licaone figlio di Pelasgo, il quale imbandiva agli ospiti nuovamente venuti le carni di quelli arrivati prima, e facea poi servir di pasto le carni loro agli ospiti che arrivavano dopo, volle presentarsi egli stesso all'infame reggia divenuta macello e cucina di carne umana. Trovò che la fama era minore del vero, poichè alla crudeltà ed alla barbarie univasi l'empietà ed ogni altra scelleraggine più nefanda ; e se egli non era un Dio, sarebbe toccata anche a lui la stessa sorte di quei miseri ospiti che lo avevano preceduto. Fulminò allora la reggia ; e mentre Licaone fuggiva atterrito lo trasformò in lupo. Questa trasformazione è fondata sopra due somiglianze, quella cioè del nome di Licaone che deriva dal greco licos che significa lupo, e l'altra degl'istinti feroci di questo animale con quelli di quel re bestiale, primo modello dei più efferati tiranni. Giove tornato in Cielo radunò il consiglio degli Dei Superiori, narrò tutti gli orribili delitti degli uomini, e si mostrò risoluto di esterminare tutta quella razza bestiale più che umana. Mise in discussione soltanto se per mezzo del fuoco o dell'acqua ; e fu deliberato il diluvio. Per nove giorni e per nove notti piombarono senza intermissione le acque dirottamente su tutta la Terra ; e per affrettar la pena, anche Nettuno vi si accordò col sollevare dai più bassi fondi i flutti come in una straordinaria marea e spingerli ad invadere le vicine convalli. Tutti perirono, fuorchè un sol uomo ed una sola donna, Deucalione e Pirra, che si salvarono in una nave ; la quale dopo aver lungamente errato in balìa delle onde fu spinta e fermossi in Grecia sul monte Parnaso. — Di quale stirpe e famiglia erano essi i due fortunati o pii, che soli ebbero in sorte o meritarono di scampare dal generale esterminio ? Furono ambedue della stirpe dei Titani : Deucalione era figlio di Prometeo, e la sua moglie Pirra era figlia di Epimeteo e di Pandora ; ed essendo rimasti soli nel mondo, e quindi il solo modello dei due sessi della specie umana, parve loro un poco lungo, com'è realmente l'aspettare ad aver compagni e sudditi, che fosser nati e cresciuti i loro figli e discendenti ; ed entrati nel tempio della dea Temi che era sul monte Parnaso, dimandarono all'oracolo di essa qual sarebbe un modo più sollecito di ripopolare il mondo. L'oracolo rispose : gettatevi dietro le spalle le ossa della gran madre. — Tutte le risposte degli oracoli erano oscure ed avevan bisogno d'interpretazione (e a suo luogo ne diremo il perchè) ; quindi Deucalione e Pirra non credendo possibile che l'oracolo suggerisse loro (come suonavan le parole intese letteralmente), una empietà o violazione dei sepolcri, interpetrarono che la gran madre fosse la Terra, madre comune di tutti i mortali), e le ossa della medesima le pietre. E poichè il tentarne la prova a nulla nuoceva, vi si provarono ; e poco dopo videro con maraviglia che le pietre scagliate dietro di sè da Pirra erano divenute donne e quelle di Deucalione uomini. Ecco perchè, dicono i poeti, noi siamo una dura stirpe, tollerante delle fatiche, e diamo indizio della dura origine nostra !). In tal modo ben presto con molte coppie di coniugi fu ripopolato il mondo. Questo fatto mitologico, per quanto strano, trovò anche un pittore che lo ritraesse e disegnatori e incisori che lo riportassaro nelle stampe o incisioni. Vedonsi nel mezzo di una squallida campagna, e sotto un cielo fantasmagoricamente nuvoloso per l'umido vapore sollevato dalle recenti acque ancora stagnanti, Deucalione e Pirra seduti sul terreno l'uno di faccia all'altra in atto di scagliare dietro le spalle una pietra, e a poca distanza le pietre già prima scagliate divenir gradatamente uomini e donne. La qual trasformazione graduale è significata nella pittura col rappresentar le diverse pietre in maggiore o minor parte trasformate, talchè in alcune scorgesi abbozzata o formata la testa soltanto, in altre anche il petto e le braccia, e così di seguito gradatamente, finchè ne apparisce qualcuna tutta cangiata in forma umana, o a cui manca soltanto il complemento di un piede che vedesi ancora di rozza pietra. La tradizione del diluvio universale è dunque non soltanto biblica, ma pur anco mitologica, ossia affermata nelle diverse e più opposte religioni e credenze ; e vi si aggiunge la moderna scienza geologica a dimostrarne la verità anche agli scettici, o universali dubitatori. La geologia, in fatti, nel trattare della crosta solida del nostro globo e degli strati che la compongono, ne distingue i materiali, sotto il nome tecnico di roccie), in 4 classi : roccie acquee, roccie vulcaniche, roccie plutoniche e roccie metamorfiche). Per lo scopo nostro, cioè in relazione al diluvio, basta il parlare delle roccie acquee per conoscere come la scienza ammette e dimostra il gran cataclisma del diluvio. In geologia si parla di più d'uno di questi cataclismi dei tempi preistorici ; e quello storico, chiamato il diluvio universale, e di cui trovasi una general tradizione in tutti i popoli, è l'ultimo di questi cataclismi riconosciuti e dimostrati dalla scienza geologica. La durata poi delle diverse epoche dei precedenti diluvii preistorici non si conta a giorni e a mesi, ma a migliaia e migliaia d'anni, come avviene di tutte le così dette epoche geologiche). Le roccie acquee sono stratificate, e questi strati vennero a formarsi dai sedimenti delle materie contenute in dissoluzione nelle acque ; si dicono perciò ancora sedimentarie, e vi si aggiunge talvolta l'appellativo di fossilifere, perchè contengono fossili, ossia corpi o frazioni di animali e di vegetabili travolti e seppelliti nella terra per forza di successivi cataclismi. Trovansi infatti nell'interno del nostro globo strati di arena, di creta e di marmo che contengono conchiglie e frantumi di vegetabili ; e se ne deduce razionalmente che questi strati doveron formarsi sott'acqua nel modo stesso che vediamo accadere anche oggidì nel fondo dei laghi e nelle inondazioni dei fiumi. — Così una scienza che due secoli indietro non esisteva neppur di nome, e non supponevasi nemmeno che potesse esistere, ha fatto e va tuttodì facendo i più mirabili progressi, e risolve i più ardui problemi dei tempi preistorici, non già interpetrando le più o meno antiche tradizioni, le più o meno veridiche cronache o istorie, ma studiando i materiali stessi del nostro globo travolti e seppelliti da migliaia e milioni di anni per le forze irresistibili della Natura negli strati sottoposti a quello sul quale abitiamo. **** *book_ *id_body-2-16 *date_1874 *creator_pescatori XV Giunone regina degli Dei e Iride sua messaggiera Il nome di Giunone ha la stessa etimologia di quello di Giove ; deriva cioè dal giovare (quod una cum Jove juvat, dicono i mitologi latini). I greci la chiamavano Era, che, secondo alcuni grecisti, sarebbe un'abbreviazione di Erate cioè amabile e, secondo altri, Era significa signora, ossia padrona). Questa Dea ha dunque due bellissimi nomi nelle lingue dotte, ed inoltre il più alto rango fra le Dee, essendo essa sorella e moglie di Giove). Nella sua pubblica rappresentanza è una Dea maestosa e benefica ; ma essa pure, nella vita che diremmo privata o domestica, ha i suoi difetti non meno di Giove, sebbene di un altro genere : è superba, dispettosa e vendicativa. Accennata l'indole di questa Dea, diciamo come si rappresenta nelle pitture e nelle sculture. Siccome è regina del Cielo e degli Dei ha in capo il diadema ; il suo volto è maestoso ; ha grandi gli occhi, bianche le braccia), lunga la veste matronale e il manto, i cui lembi estremi le stanno ricinti a mezzo la persona ; in una mano ha lo scettro e talvolta nell'altra una melagrana frutto dell'albero a lei sacro, e ai piedi il pavone. Le si dà inoltre un trono d'oro, un ricco e splendido carro tirato da due pavoni, una messaggiera chiamata Iride ed un corteo di quattordici bellissime ninfe). Molti altri nomi ed attributi eran dati a questa Dea ; e l'etimologia dei primi fa conoscere la specialità dei secondi. Chiamavasi Nuziale e Pronuba, perchè presiedeva alle nozze ; Lucina, Ilitìa e Genitale, ai parti ; e sotto questi appellativi o titoli era invocata dalle matrone, e in generale dalle donne : sebbene altri poeti, e tra questi Orazio), attribuiscano quest'ultimo ufficio a Diana. In Roma le si facevano anche le feste dette Matronali, appunto perchè eran celebrate dalle matrone. Figli di essa e di Giove furono Ebe dea della gioventù, Vulcano dio del fuoco e della metallurgia e Marte dio della guerra. Ebe oltre ad esser la dea della gioventù, mesceva il nettare agli Dei, quando erano a convito con Giove ; perciò si rappresenta come una giovanetta ingenua e gentile con un'idria in mano ed in atto di mescer da quella la celeste bevanda. Aggiungono alcuni mitologi, che un giorno questa Dea nell'esercizio del suo ministero cadde sconciamente e destò l'ilarità degli Dei, e d'allora in poi non volle più servirli a mensa ; e Giove le sostituì un coppiere di stirpe dei mortali, Ganimede figlio di Troo re di Troia, facendolo rapire dalla sua aquila e rendendolo immortale. Il nome di Ebe fu dato dagli astronomi al sesto pianeta telescopico che fu scoperto da Hencke il 1° luglio 1847. Di Marte e di Vulcano che furono Dei superiori si dovrà parlare separatamente. Il tema più vasto per altro e l'eterno argomento della vita di Giunone è quello delle gelosie, delle stizze e delle persecuzioni di questa Dea. Favoriva sì e proteggeva essa quei popoli che le erano più devoti, come gli Argivi, i Samii, i Cartaginesi ; ma guai a coloro che avessero la disgrazia di dispiacerle, specialmente poi se Giove o qualche Dea sua nemica li proteggesse, o fossero parenti od anche soltanto connazionali di qualche donna preferita da Giove. Vi sarebbe da riempire un grosso volume a raccoglier quanto ne scrissero i poeti greci e i latini ; ma alcune di quelle bizze e di quelle persecuzioni di Giunone sono così splendidamente narrate dagli antichi, che i moderni poeti e lo stesso Dante non poterono tacerle. E di queste ci occuperemo principalmente, non però subito, in questo capitolo, per evitare la monotonia dello stesso argomento, ma quando se ne presenterà l'occasione nel parlare di altre divinità odiose a questa Dea, o di famiglie o di popoli da essa perseguitati. Qui per altro è indispensabile il narrare uno di questi fatti mitici che serve a spiegare perchè il pavone fosse sacro alla Diva dalle bianche braccia. La concordia coniugale era già rotta da gran tempo fra Giove e Giunone ; e Omero sin dal 1° libro dell'Iliade ce ne rende accorti in questi versi : « Acerbissimo Giove, e che dicesti ? « Riprese allor la maestosa il guardo « Veneranda Giunon : gran tempo è pure « Che da te nulla cerco e nullo chieggo, « E tu tranquillo adempi ogni tuo senno. » Malcontenta era sì, ma non rassegnata, come ben si capisce da questi versi ; e Giove faceva di certo ogni suo volere, ma non senza disturbi ed impacci per parte di Giunone ; la quale, superba e invidiosa com'era, fremeva all'idea di potere essere ripudiata, e che un'altra divenisse regina degli Dei. Giove prediligendo la Ninfa Io figlia d'Inaco re d'Argo, per sottrarla alle investigazioni ed alle persecuzioni di sua moglie, la trasformò in vacca ; ma Giunone non vedendo più in alcun luogo la figlia di Inaco, sospettò di qualche frode, e chiese in dono al marito quella giovenca, che Giove non potè negarle per non scuoprirsi. Ottenutala, la diede in custodia ad Argo che aveva cento occhi, cinquanta dei quali erano sempre aperti e vigilanti anche quando Argo dormiva. Mercurio però col canto, col suono e con un soporifero fece completamente addormentare Argo, gli chiuse tutti i cento occhi, e poi gli tagliò la testa e liberò la vacca. Giunone non potendo risuscitarlo (tanta potenza non avevano gli Dei pagani), si contentò di trasformarlo in pavone, serbandogli nelle penne l'immagine e il ricordo de'suoi cento occhi, e lo prescelse per l'animale a lei sacro. Non perdè di vista neppure la vaccherella, e le mandò a tormentarla un assillo o tafano. Per liberarsi dal quale l'imbestiata e dolente Io fu costretta a gettarsi nel mare, che traversò a nuoto dalla Grecia all'Egitto, ove da quei feticisti egiziani che adoravano le bestie fu ricevuta e adorata come una Dea, e restituita poi da Giove nella primiera forma fu venerata sotto il nome di dea Iside. Questo mito è un anello di congiunzione fra la Mitologia classica e il Feticismo egiziano, e rende qualche probabile ragione di così strano culto, come osservammo pur anco nella guerra dei Giganti, quando gli Dei che ebber paura si trasformarono in bestie. Gli Egiziani perciò adoravan gli Dei sotto la figura di quelle bestie nelle quali credevano che questi si fossero trasformati. Il nome poi di Argo è rimasto celebre in tutte le lingue moderne affini alla greca ed alla latina, per significare antonomasticamente un uomo oculatissimo, cioè vigilantissimo ed a cui nulla sfugga. Anche Dante descrivendo nel Canto xxix del Purgatorio il carro in cui era trionfalmente portata Beatrice e facendolo simile a quello descritto dal profeta Ezecchielle, assomiglia ancora i molti occhi dei quattro mistici animali a quelli del mitologico Argo : « Ognuno era pennuto di sei ali, « Le penne piene d'occhi ; e e gli occhi d'Argo « Se fosser vivi, sarebber cotali. » Un'altra particolarità che si riferisce alla dea Giunone è il mito della sua ancella e messaggiera Iride. Era questa una Ninfa o Dea inferiore, figlia di Taumante ; e credevasi che essa per discender sulla terra ad eseguire gli ordini di Giunone passasse per quella splendida via che è contrassegnata nel cielo dall'arcobaleno. Quindi il nome di Iride per figura rettorica di metonimia sta a significare l'arco celeste prodotto dalla refrazione dei raggi del sole. I nomi stessi di Iride e del padre di essa accennano colla loro etimologia le parti fondamentali di questo mito e di questo fenomeno, poichè Iride (in greco e in latino Iris), deriva da un greco verbo che significa dire o annunziare, e ricorda perciò la messaggiera di Giunone ; e Taumante è nome che deriva da tauma, che in greco significa prodigio, e rammenta stupendamente la mirabile parvenza dell'arco celeste. Perciò la dea Iride dal nome del padre è detta poeticamente Taumanzia ; e lo stesso Alighieri con frase mitologica chiama figlia di Taumante l'Iride, ossia l'arcobaleno, allorchè nel Purgatorio (C. xxi, 46) afferma che nell'alto di quella montagna non ascendevano gli umidi vapori della terra, nè perciò producevansi le meteore acquee, e neppur l'arcobaleno, che si forma nell'aria dopo la pioggia : « Perciò non pioggia, non grando, non neve, « Non rugiada, non brina più su cade « Che la scaletta de' tre gradi breve ; « Nuvole spesse non paíon, nè rade, « Nè corruscar, nè figlia di Taumante, « Che di là cangia sovente contrade. » Il nome d'Iride è comunissimo nel linguaggio poetico, ed anche in quello scientifico. Nei poeti più eleganti, invece di Iride, trovasi anche Iri, che è voce più simile al nome greco e latino, e perciò preferita nel linguaggio poetico. Basterà che io citi Dante che così la chiama in rima e fuor di rima, come nel seguente esempio : « Nella profonda e chiara sussistenza « Dell'alto lume parvemi tre giri « Di tre colori e di una contenenza ; « E l'un dall'altro come Iri da Iri « Parea reflesso, e il terzo parea fuoco « Che quinci e quindi egualmente si spiri. » Nelle scienze fisiche l'Iride, oltre ad indicare l'arcobaleno, significa anche la refrazione dei raggi colorati della luce ; e iridescenza la proprietà che hanno alcuni oggetti di rifletter questi raggi colorati. Una bella descrizione di iridescenza e di cangiamento di colori secondo l'incidenza dei raggi e i diversi punti di vista, si legge nella seguente ottava della Gerusalemme Liberata del Tasso : « Come piuma talor che di gentile « Amorosa colomba il collo cinge « Mai non si scorge a sè stessa simile, « Ma in diversi colori al sol si tinge ; « Or d'accesi rubin sembra un monile, « Or di verdi smeraldi il lume finge ; « Or insieme li mesce, e varia e vaga « In cento modi i riguardanti appaga. » Iride si chiama in Anatomia quella membrana circolare che è situata sopra l'umor cristallino dell'occhio, ed ha appunto questo nome dalla varietà dei suoi colori, ed è quella che determina il colore particolare degli occhi di ciascuno ; e col derivativo Iritide chiamasi in Patologia qualunque affezione morbosa di quella membrana dell'occhio, e più specialmente l'infiammazionè della medesima. Per quanto tutti i poeti antichi abbiano parlato magnificamente della dea Iride, descrittane la bellezza e chiamatala, come Virgilio, fregio ed onore del cielo, eran per altro ben lungi dal conoscere le vere cause di questo splendido fenomeno. Dal vederlo comparire dopo la pioggia lo chiamavano l'arco pluvio, come troviamo anche in Orazio) : ma non avevan pensato neppur per ombra ad analizzare col prisma di cristallo il settemplice raggio del sole e dedurne che l'aria ancor umida dopo la pioggia faccia da prisma e rifranga i 7 colori della luce. Newton sullo scorcio del secolo xvii fu il primo a distinguere che la luce solare era composta di un infinito numero di raggi di differenti gradi di rifrangibilità, e che allorquando questa luce è fatta cadere sopra un prisma, i raggi che la compongono son separati, e presentano per ordine questi sette colori, cominciando da quello meno refratto, cioè : rosso, arancio, giallo, verde, turchino, indaco e violetto. Ai tempi nostri la spettroscopia, ossia l'analisi della luce per mezzo dello spettroscopio è divenuta così importante ed estesa, che può quasi considerarsi come una scienza particolare ; e perciò i moderni alle antiche fantasie poetiche ed alle cervellotiche induzioni cercano di sostituire le positive cognizioni scientifiche. Di forme corporee ed in figura umana raramente trovasi Iride dipinta o sculta, e non è mai rappresentata nelle statue, ma soltanto nei vasi ed in alcuni bassi rilievi, come una snella ed aerea giovanetta alata, e talvolta avente in mano un'Idria, quasi ad indicare l'erronea idea degli Antichi che Iride somministrasse l'acqua alle nubi. In Astronomia ebbe il nome di Iride il 7° asteroide, o piccolo pianeta telescopico scoperto da Hind il 13 agosto 1847. Gli astronomi però non avevano trascurato di rendere onore alla regina degli Dei anche prima che ad Iride sua ancella, e furon solleciti di dare il nome di Giunone ad uno dei primi asteroidi scoperti in questo secolo, e precisamente al 3°, veduto per la prima volta da Harding il 1° settembre 1804. **** *book_ *id_body-2-17 *date_1874 *creator_pescatori XVI La dea Latona Parlando del Caos, dissero i mitologi che i 4 elementi di cui esso era composto si divisero ; e divisi che furono, il fuoco, come più leggiero degli altri tre, salì più in alto e venne a formare il Sole, la Luna e le Stelle. Nè sanno assicurarci se ciò fu per opera di un Dio o del caso : le loro opinioni sono divise, e il dubbio e l'incertezza predominano sempre. Ma comunque credessero formati gli Astri, non seppero immaginare come potessero muoversi in figure geometriche regolari e con matematica precisione, se un Ente soprannaturale non li dirigesse continuamente. Quindi inventarono Divinità destinate a questo ufficio. Nei primi tempi non fecero distinzione fra stelle e pianeti ; e questi pure chiamarono stelle ; e solo quando si accorsero che avevano un movimento molto diverso da quello apparente delle Stelle, e apparentemente molto irregolare, li chiamaron pianeti, cioè corpi erranti. Le Stelle poi vere e proprie stimaron che fossero incastonate e quasi inchiodate nella volta del Cielo, e perciò le chiamarono fisse ; e diedero l'ufficio ad Urano, e poi come sostituto anche a Giano, di far girare questa vôlta o callotta sferica celeste e con essa tutte le stelle. Considerarono come un pianeta anche il Sole : e così colla Luna e gli altri 5 pianeti visibili ad occhio nùdo ne annoverarono sette, e attribuirono a ciascuno di essi una Divinità che vi presiedesse o li dirigesse nel loro corso. Quali fossero queste Divinità, e come i pianeti che ne prendono il nome fossero situati e girassero, secondo che gli Antichi credevano, intorno alla Terra, lo abbiamo già detto nel Cap. III. Ora convien parlare delle Divinità che dirigevano il Sole e la Luna, e parlarne a lungo, prima in generale, e poscia particolarmente, perchè la fantasia dei mitologi e dei poeti non venne meno così per fretta a inventar miti fantasmagorici e dilettevoli su queste due Divinità, alle quali diedero il nome di Apollo e di Diana, che poi identificarono col Sole e colla Luna. Prima di tutto però rammenteremo quel che fu detto altrove, che cioè avanti la nascita di questi due Numi figli di Giove e di Latona, il Sole e la Luna esistevano da gran tempo ; e quanto al Sole accennai che era regolato da un Titano di nome Iperione. Il Sole era detto dai Greci anche Elios, e Dante lo rammenta più d'una volta con questo nome. Anzi Dante considerando forse che un simil vocabolo trovasi anche in Ebraico in significato di eccelso (poichè deriva da El, uno dei nomi ebraici di Dio), l'adoprò con questa doppia allusione per indicare l' eccelso Sole, cioè Dio, quando nel C. xiv del Paradiso, dopo aver descritto i variopinti splendori da lui veduti nell'Empireo, esclama : « O Elios, che sì gli addobbi !) » Quanto poi al globo lunare sappiamo che la Dea che lo dirigeva prima della nascita di Diana chiamavasi, con greco nome Selene, che significava Luna, figlia essa pure d'Iperione, e perciò sorella di Elio). Venendo ora a parlare dell'origine mitologica di Apollo e di Diana, diremo che Latona loro madre era figlia di uno dei Titani ; e perchè fu prediletta da Giove), era appunto perciò odiata e perseguitata da Giunone. La quale impegnò la Dea Tellùre, ossia la Terra, a non darle ricovero in alcun luogo. Quindi Latona andò lungo tempo errando in mezzo ai disagi ; e potè solo fermarsi nell'isola di Ortigia, detta poi Delo, una delle Cicladi nel mare Egeo, isola natante, ossia galleggiante, che Nettuno per compassione di Latona rese stabilé. Ivi diede alla luce in un sol parto Apollo e Diana ; e questi Dei ebbero perciò il titolo di Delio e di Delia dall'isola in cui nacquero ; come pure il nome di Cinzio e di Cinzia dal monte Cinto dove furono allevati in quella stessa isola. Che Delo fosse stata nei tempi preistorici un'isola galleggiante fu detto la prima volta dal poeta Pindaro, il quale vi aggiunse ancora che Nettuno la rese stabile, perchè servisse di ricovero a Latona. L'esistenza d'isole galleggianti è un fatto storico e geografico, poichè se ne trovano tuttora alcune poche in qualche lago, in qualche palude ed anche in qualche fiume, non però nel mare. Tra le più celebri tuttora esistenti si citano quelle del Mississipì e del lago Chelco nel Messico ; le quali son coltivate e producono alberi, piante di fiori e legumi. In Francia e in Svizzera ve n'erano una volta molte più che al presente. Anche in Italia se ne vedono alcune in un laghetto vicino alle terme di Agrippa presso Tivoli. Poteva dunque Pindaro aver sentito parlare ed anche aver veduto delle isole natanti ; e valendosi della facoltà accordata ai poeti quidlibet audéndi (di tutto osare)), ne abbia almeno usato discretamente), ammettendo soltanto che un'isola galleggiante potesse trovarsi anche in mare). Dante adottò questa stessa idea di Pindaro, e se ne valse stupendamente per una bellissima similitudine nel raccontare che egli sentì uno spaventevole terremoto nella montagna del Purgatorio. « Quand'io senti' come cosa che cada « Tremar lo monte : onde mi prese un gielo « Qual prender suol colui che a morte vada. « Certo non si scotea sì forte Delo « Pria che Latona in lei facesse il nido « A parturir li due occhi del Cielo ; » ove è da notarsi tra le altre belle espressioni l'ardita e sublime metafora di chiamare Apollo e Diana, considerati come il Sole e la Luna, i due occhi del Cielo. Altri mitologi invece raccontano che l'isola di Delo fu sollevata da Nettuno con un colpo di tridente dal fondo del mare ; e questo racconto pure si può spiegare con un fatto geologico, che cioè per la forza del fuoco centrale del nostro globo si sollevano le montagne sulla terra e le isole dal fondo del mare. In quasi tutte le Geografie trovasi rammentato il Monte nuovo (all' ovest di Pozzuoli in Italia), che si sollevò in uno o due giorni nel 1538, all'altezza di 200 metri, ed esiste tuttora. Inoltre in questo secolo, e precisamente nel 1831, formossi per sollevamento nel mare al sud-ovest della Sicilia un'isoletta che fu chiamata Ferdinandea, la quale pochi mesi dopo cominciò a riavvallare, e disparve nuovamente sott'acqua. I geologi poi, collo studio degli strati del nostro globo e delle materie componenti i diversi terreni, sanno dire non solo l'origine delle montagne, ma perfino l'età, ossia l'epoca geologica in cui esse si sollevarono. Per terminare in questo capitolo le generalità, o vogliam dire i fatti riferibili in comune ad Apollo e a Diana, aggiungerò che ambedue furono creduti abilissimi ed infallibili arcieri (derivandosi questa invenzione dal dardeggiar dei raggi del Sole e della luce riflessa della Luna), e si uniron talvolta con accordo fraterno a saettare i colpevoli, come nel famoso e lagrimevol caso di Niobe. Era Niobe figlia di Tantalo e moglie di Anfione re di Tebe ; e andava superba, come se fosse un gran merito, di aver sette figli e sette figlie ; e perciò dispregiava, non solo in cuor suo, ma pubblicamente, Latona e la stimava a sè inferiore, perchè questa Dea aveva soltanto un figlio ed una figlia. Di questa sua folle empietà fu terribilmente punita nella causa stessa della sua ambizione o vanità, poichè Apollo e Diana invisibili a tutti saettarono a gara l'uno i figli e l'altra le figlie di Niobe ; e la madre per ineffabil dolore fu cangiata in pietra. Ne parla Omero nel libro xxiv dell' Iliade ; ne fa molto a lungo la narrazione Ovidio nel libro vi delle Metamorfosi ; e Dante trova il modo di darne un cenno efficace anche nel Purgatorio (Canto xii) dicendo di aver veduto sculto questo fatto in uno dei bassirilievi che rappresentavano esempii di superbia punita : « O Niobe con che occhi dolenti « Vedeva io te segnata in sulla strada « Tra sette e sette tuoi figliuoli spenti ! » Anche l'arte greca s'impadronì di questo tragico soggetto ; e se ne conservano nella Galleria degli Uffizi di Firenze le statue attribuite a Scòpa, le quali rappresentano Niobe e la sua famiglia colpita dalla celeste vendetta). Accennati questi fatti comuni ad Apollo e a Diana, convien parlare separatamente dei loro particolari attributi ed uffici. **** *book_ *id_body-2-18 *date_1874 *creator_pescatori XVII Apollo considerato come Dio del Sole, degli Arcieri e della Medicina Due erano i nomi principali che più comunemente si davano a questo Dio, cioè Apollo e Febo. Si potrebbe disputare a lungo sulla greca etimologia di queste due parole, se si trattasse di filologia ; ma in mitologia possiamo starcene tranquillamente alla opinione di quegli antichi mitologi, i quali dicono che Apollo significa unico, e Febo luce e vita). Questi nomi appellano evidentemente e principalmente alle proprietà distintive del sole, di essere egli nel nostro sistema planetario il solo astro che dà luce e vita ad ogni mortal cosa. Molti altri nomi e appellativi avea questo Dio : quelli di Delio e di Cinzio li abbiamo già notati nel numero precedente, e in appresso avremo luogo di notarne anche altri. Ma intanto è bene osservare per la precisa intelligenza delle poetiche frasi, che Apollo è considerato più generalmente come il vero e proprio nome, e che Febo trovasi spesso usato come aggettivo o epiteto ; e si adopra assolutamente come nome quando si vuole indicare esclusivamente il Sole). Molti e molto diversi sono gli uffici attribuiti a questo Dio ; e perciò li divido in due gruppi, riunendo tra loro quegli uffici che sono più affini ; e fo centro del 1° gruppo il Dio del Sole, e del 2° il Dio della Poesia. Considerato Apollo come il Dio del Sole, chi è che non l'abbia veduto dipinto da più o men valenti pittori come un giovane imberbe di bellissime forme, cinto la fronte e il volto di un'aureola di fulgentissimi raggi, su di un cocchio d' oro e di gemme), in atto di guidare con mano ferma e sicura quattro focosi destrieri per le vie del firmamento, e circondato da dodici avvenenti ninfe piè-veloci, che intreccian carole intorno al suo carro ? I pittori e i poeti han fatto a gara a rappresentare splendidamente questi simboli del Dio della luce ; ed ognuno li intende facilmente senza bisogno di spiegazione : solo son da notarsi i nomi assegnati dai poeti ai quattro cavalli e il numero delle Ninfe che accompagnano il Sole. I cavalli si chiamano con greci nomi Eoo, Piroo, Eto e Flegone, che significano orientale, focoso, ardente, fiammante, qualità caratteristiche, bene attribuite ai cavalli del Sole). Le dodici Ninfe poi che danzano intorno al carro rappresentano le Ore del giorno ; le quali sebbene soltanto per gli equinozii sieno precisamente dodici, non sono però ragguagliatamente più di dodici un giorno per l'altro in tutto l'anno ; e per gli antichi Romani v'era inoltre una ragione speciale riferibile all'uso che avevano di dividere il giorno vero, ossia il tempo della presenza del sole sull'orizzonte, in dodici ore soltanto. Perciò le ore del giorno e della notte essendo sempre uguali di numero dovevano necessariamente esser più lunghe o più corte, secondo le diverse stagioni. I poeti non di rado rammentano i nomi dei cavalli del Sole, e le ancelle del dì, ossia le Ore. Così, per citarne qualche esempio, usa l'Ariosto le seguenti espressioni mitologiche a significare che per chi aspetta sembra che il tempo non passi mai : « In quel duro aspettare ella talvolta « Pensa ch'Eto e Piroo sia fatto zoppo, « O sia la ruota guasta, che dar volta « Le par che tardi, oltre l'usato, troppo. » Troviamo ancora nella Basvilliana del Monti : « Era il tempo che sotto al procelloso « Aquario il Sol corregge ad Eto il morso, « Scarso il raggio vibrando e neghittoso. » E pochi versi più sotto lo stesso poeta aggiunge : « E compito del dì la nona ancella « L'officio suo, il governo abbandonava « Del timon luminoso alla sorella. » Inoltre aveva il Sole una maestosa e ricchissima reggia, opera di Vulcano), nella regione d'Oriente. Da essa cominciava il suo corso diurno, e la sera andava a riposare da Teti, dea marina, in un palazzo di cristallo in fondo al mare. Come poi facesse per ritornar nella notte dalla parte d'Oriente, i più antichi poeti, Omero ed Esiodo, l'hanno prudentemente taciuto : soltanto in appresso qualche mitologo inventò che il Sole, dopo di essersi riposato nel palazzo di Teti, entrava in fondo ad una nave d'oro col suo carro ed i suoi cavalli, ed era trasportato velocissimamente per mare, girando a settentrione, per ritornare in tempo la mattina all'Oriente. Ma questa invenzione, benchè sembri intesa a significare i crepuscoli e le aurore boreali, ebbe poca fortuna ; nè i più celebri poeti, e tanto meno i pittori, la stimarono degna di essere imitata o copiata. Il Sole nel corso dell'anno percorreva una strada (detta dagli astronomi orbita, e più propriamente eclittica), la quale resta nel mezzo ad una fascia o zona del cielo di 16 in 17 gradi, ed ove scorgonsi le 12 costellazioni, in direzione di ciascuna delle quali successivamente va il Sole a tramontare nei diversi mesi dell'anno. Questa zona del cielo fu detta con greco nome Zodiaco, cioè zona di animali, perchè le costellazioni che vi si trovano (meno una sola) hanno il nome di diversi esseri animati. Si conoscono ancora in astronomia sotto la denominazione comune di segni del zodiaco ; e i loro nomi particolari sono i seguenti : L'ariete, il toro, i gemelli, il cancro, la libra o bilancia, lo scorpione, il sagittario, il capricorno, l'aquario, e i pesci). I nomi dei segni del zodiaco appellano a fatti mitologici, dei quali sinora ne conosciamo due soli, di Ganimede coppiere di Giove che è rappresentato nel segno dell' aquario, e di Astrea dea della giustizia, che fu simboleggiata nel segno della Vergine : delle altre denominazioni apprenderemo in seguito la ragion mitologica nel trattar dei miti che vi hanno relazione. Di Apollo esistono molte statue ; una delle quali, che è una maraviglia dell' arte greca, ammirasi nella galleria del Vaticano in Roma, ed è chiamata l'Apollo di Belvedere. Un'altra mirabile statua di Apollo giovane, detta perciò volgarmente l'Apollino, può vedersi nella tribuna della galleria degli Uffizi in Firenze. Anticamente ergevasi nell' isola di Rodi una statua colossale in bronzo rappresentante Apollo, di tali dimensioni che i due piedi posavano sulla estremità dei due moli del porto, e le navi passavano a piena vela fra le sue gambe. Era questa una delle 7 maraviglie del mondo, ma fu atterrata da un terremoto ; e poi i Saracini conquistatori di quell'isola ne venderono il metallo, di cui furon caricati 900 cammelli. A spiegare il crepuscolo mattutino, ossia l'alba che precede il giorno, come dice Dante, inventarono i mitologi che tra i figli del Sole vi era una bellissima figlia chiamata l'Aurora, la quale ogni mattina apre le porte dell'oriente, e precede il padre, spargendo gigli e rose sulla terra. Tutti i poeti fanno a gara a descriverla di bellezza maravigliosa e immortale, con le bianche e le vermiglie guance), colla fronte di rose e coi crin d' oro. Dante nota ancora l' aura annunziatrice degli albori che movesi ed olezza tutta impregnata dall'erbe e dai fiori. Dalla qual voce aura è derivato in latino e in italiano il nome di Aurora. Anche il Tasso esprime la stessa idea nella prima ottava del Canto iii della Gerusalemme liberata : « Già l'aura messaggiera erasi desta « Ad annunziar che se ne vien l'Aurora. « Ella s'adorna il crine, e l'aurea testa « Di rose colte in paradiso infiora. » I pittori pur anco ne fecero ritratti maravigliosi e ispirati, fra i quali meritamente è il più celebre quello dell'Aurora di Guido Reni in Roma. Lo stesso Michelangelo, che tutto osò e in tutto fu sommo, volle rappresentare in scultura il Crepuscolo mattutino e il vespertino, le cui statue si ammirano nell' antica sacrestia di San Lorenzo in Firenze. Di un altro figlio di Apollo convien qui parlare, perchè il mito o fatto mitologico che di lui si racconta è relativo al Sole. Fetonte, il cui nome di greca etimologia significa splendente, era creduto figlio di Apollo e della Ninfa Climene. Fu egli un giovinetto presuntuoso, il quale credeva che gl'illustri natali bastassero a compire le grandi e gloriose imprese. Discorrendo di nobiltà di sangue) con un vanerello par suo, cioè con Epafo figlio di Giove e della Ninfa lo, già vacca e poi Dea, si trovò impegnato per fanciullesco puntiglio a dimostrare ad Epafo ed al mondo che egli era figlio di Apollo col guidar per un giorno il carro della luce. E coll'approvazione dell' ambiziosa sua madre Climene andò nella sublime reggia di Apollo e chiese al padre una grazia, prègandolo a giurare per le acque del fiume Stige che non glie l'avrebbe negata. Apollo giurò ; ma tosto si pentì di aver giurato quando seppe il folle desiderio del figlio. Nè valsero le ammonizioni e le preghiere paterne a distoglier Fetonte dall'ardua impresa troppo superiore alle forze di lui. Infatti i focosi cavalli del Sole ben presto si accorsero della inesperta ed imbelle mano che li guidava, e non trattenuti dai freni deviarono dall'usato sentiero, ora accostandosi alla vôlta celeste ed arroventandola, ora scendendo vicino alla terra, ed abbruciando gli alberi e gli animali e prosciugando i fiumi, i laghi ed i mari. Da per tutto s'udivano i gemiti degli uomini, e i lamenti degli Dei ; e Giove conosciuta la causa del male, e non sapendo come altrimenti rimediarvi, coi fulmini trafisse Fetonte e sbigottì i cavalli che tornarono indietro alle loro stalle. Fetonte fulminato cadde nel Po), sulle rive del quale fu pianto e sepolto dalle sorelle dette Eliadi, cioè figlie del Sole ; le quali vinte dal dolore e dall' afflizione furono trasformate in pioppi e le loro lagrime in ambra). Inoltre un giovanetto Ligure, di nome Cicno, amico di Fetonte, venuto a visitarne la tomba, cadde nel fiume e fu trasformato in cigno. Questa favola di Fetonte è descritta e celebrata da molti poeti e principalmente da Ovidio nelle Metamorfosi ; e lo stesso Dante trova il modo di parlarne più volte nella Divina Commedia. Assomiglia nel Canto xvii dell'Inferno la sua paura, nello scender su di un alato mostro in un profondo abisso infernale, a quella di Fetonte trasportato in balìa dei cavalli del Sole : « Maggior paura non credo che fosse, « Quando Fetonte abbandonò li freni, « Perchè 'l Ciel, come pare ancor, si cosse. » Rammenta ancora nel Canto xxix del Purgatorio il lamento della Dea Tellure per gli spaventevoli effetti cagionati ne'suoi tre regni dalle infiammate vampe del Sole, o come egli dice, l'orazion della Terra devota « Quando fu Giove arcanamente giusto. » Queste splendide invenzioni mitologiche, abbellite dalla più splendida poesia greca e latina, hanno sopravvissuto alla distruzione delle religioni, dei popoli, delle favelle e della scienza antica. Finchè il Paganesimo, che le spacciò per verità religiose, fu la religione degli Stati e dei popoli, è ben naturale che fossero da tutti celebrate ; ma pur anco i poeti e gli artisti cristiani, come abbiamo osservato di sopra, le stimarono degne delle arti loro. Che più ? Quantunque la scienza astronomica ponesse la scure alla loro radice abbattendo il sistema planetario di Tolomeo e sostituendovi quello di Copernico, ciò non ostante anche i poeti e gli artisti posteriori a Copernico, a Galileo, a Kepler, a Newton e a Laplace hanno preferito le splendide menzogne mitologiche alle severe verità della scienza. Apollo fu celebrato ancora come infallibile arciero, ed ecco perchè rappresentasi spesso con l'arco e con gli strali ; e noi abbiamo veduto nel N° XIII che egli nella guerra dei Giganti non fu uno di quei Numi paurosi che fuggirono e si nascosero, ma costantemente aiutò il padre e i fratelli saettando i nemici. Ora devesi aggiungere che Giove vedendo la bravura di Apollo, lo incoraggiava a ferire, e gli ripeteva, come dicono i mitologi greci, le greche parole le Pai, che significano ferisci o figlio, e da queste parole trassero tanto i Greci quanto i Latini l'etimologia del nome di Pœan dato ad Apollo ; e Pœan chiamano ancora l'inno in onore di questo Dio. I nostri poeti, in generale, non adottarono il nome Pean per significare quel nume, ma soltanto l'inno, che chiamarono il Peana. Un'altra solenne prova diede Apollo della sua infallibile valentia nel tirar d' arco, quando dopo il diluvio uccise a colpi di freccie il terribile e micidiale serpente Pitone nato dal fango della terra e dall'infezione dell'aría. È facile lo spiegar questa favola, se riflettiamo che il Sole coi suoi raggi chiamati poeticamente dardi, o strali, o saette), prosciugando gl'impaludati terreni, venne ad uccidere gli animali mostruosi e nocivi che vi erano nati. Anche i paleontologi hanno riconosciuto negli avanzi fossili dei terreni secondarii l'esistenza preistorica di certi immani e terribili mostri del genere dei rettili, e perciò chiamati Plesiosauri, Pleurosauri, Ittiosauri ecc., alcuni dei quali erano lunghi otto o nove metri. Gli zoologi poi adottarono il nome del favoleggiato serpente Pitone per darlo a un genere di rettili, in cui son compresi i serpenti dell'India e dell'Affrica, animali carnivori e formidabili per la loro gran forza muscolare. Del serpente Pitone dovremo parlare altra volta, quando nel trattar degli Oracoli si verrà a rammentare e descrivere l'ufficio della Pitonessa del Tempio di Delfo. Dopo che i mitologi ebbero considerato Apollo come Dio del Sole, furono indotti a credere che esser dovesse pur anco il Dio della Medicina), perchè il Sole co'suoi raggi calorifici e chimici infonde qualità medicamentose in molti prodotti dei tre regni della Natura. Inoltre gli attribuirono un figlio che fu il più valente medico sulla Terra, e dal quale nacque una figlia che fu la Dea della Salute. Nella invenzione della discendenza in linea retta di queste tre divinità v'è molta connessione logica di principii scientifici, che esamineremo dopo aver parlato del figlio e della nipote di Apollo secondo la Mitologia. Esculapio, lo stesso che Asclepio, come lo chiamavano i Greci, era figlio di Apollo e della Ninfa Coronide. Egli fu il primo medico di cui le antiche tradizioni ci abbiano tramandato il nome, aggiungendo che nell'esercizio dell'arte salutare faceva cure tanto prodigiose, che guariva tutti i malati e perfino risuscitava i morti. Ma Plutone re delle regioni infernali che vedeva togliersi le sue prede, ossia richiamare in prima vita i suoi sudditi, se ne lagnò con Giove ; e questi, non potendo altrimenti impedire ad Esculapio l'esercizio dell'arte medica, lo fulminò per contentar più pienamente il suo fratello Plutone. Consentì per altro che fosse trasportato in Cielo e divenisse un Dio, che i popoli molto volentieri adoravano e a cui raccomandavansi nelle loro infermità. Esculapio era rappresentato con volto maestoso e in atto di meditare ; lunga avea la barba che scendeagli a mezzo il petto ; sulle spalle il pallio, ossia mantello alla greca, e in mano un bastone al quale era attortigliato un serpente, simbolo della prudenza, virtù necessaria principalmente ad un medico. Il maggior culto di Esculapio fu in Epidauro ; e sappiamo dallo stesso Livio, non che da Ovidio, che da quella città fu trasportata solennemente la statua del Nume a Roma, e gli fu eretto un Tempio nell'isola Tiberina, che allora fu detta di Esculapio, ed ora di San Bartolomeo, dopochè Roma divenuta cristiana dedicò quel tempio pagano al culto di quest'apostolo. Idearono ancora i mitologi che Esculapio avesse una figlia chiamata Igiea, o Igia. Fu questa una personificazione, o vogliam dire deificazione dellaSanità, come significa il greco nome di questa Dea. Infatti da Igiea è denominata Igiene l'arte di conservar la salute, difficilissima in pratica pel gran numero di speciali osservazioni che richiede per ciascuna persona, ma utilissima sempre anche ne'suoi più generali principii, perchè persuadono a schivare qualunque genere d'intemperanza. Nella invenzione di queste tre Divinità che presiedono alla più felice conservazione degli esseri umani, troviamo un concetto ed un ragionamento che ha la forma di un sillogismo. Apollo rappresenta il principio generale delle forze della natura, che sono il primo e più sicuro fondamento della conservazione della salute ; Esculapio la scienza medica che fa l'applicazione delle cognizioni teoriche all'arte salutare, ed Igiea la conseguenza che ne deriva, che è la più felice e la più durevole conservazione della salute. E per indicare che non sempre l'arte medica può ottenere quest'utile effetto che è lo scopo delle sue cure, fu aggiunto che Esculapio, a richiesta di Plutone, morì fulminato da Giove : il che evidentemente significa, che la suprema legge della natura, quando ha decretato la dissoluzione dei corpi anche meglio organizzati, rende nulla la scienza e l'arte degli uomini. **** *book_ *id_body-2-19 *date_1874 *creator_pescatori XVIII Apollo considerato come Dio della Poesia e della Musica e maestro delle nove Muse Poeta è parola di greca origine che significa creatore, e perciò poesia vuol dir creazione ; quindi il Dio della poesia è il Dio della creazione intellettuale. Ecco il carattere distintivo della vera poesia e del Nume che ad essa presiede. Apollo è dunque il simbolo del poetico ingegno, che non si compra coll'oro, nè si usurpa colle brighe e colle consorterie, ma è gratisdato dalla natura e perfezionato dall'arte. E perciò Dante, poeta e filosofo, invoca non solo Apollo e le Muse, ma altresì l'alto ingegno che lo aiuti. Abbiamo in proverbio anche in italiano che Musica e Poesia nacquer sorelle ; e infatti sin dagli antichissimi tempi, sappiamo dalle istorie, che cantavansi gl'inni accompagnandoli col suono degli strumenti ; anzi spesso vi si univa contemporaneamente anche il ballo, e non solo fra gli idolatri, ma pur anco nel popolo eletto. Non dovrà dunque recar maraviglia che per associazione d' idee Apollo fosse riguardato ancora come dio della Musica e di tutte quelle altre belle arti speciali a cui presiedeva ciascuna delle nove Muse, delle quali egli era il maestro. Come Dio della Poesia rappresentavasi Apollo con una corona di lauro, pianta a lui sacra ; e come Dio della Musica, con una cetra nelle mani, in atto di trarne suoni ; e generalmente questi due simboli si trovano riuniti nelle sue immagini sculte o dipinte, perchè le due arti sorelle non andavano anticamente disgiunte, come abbiam detto. Per questa stessa ragione che anticamente le poesie erano cantate e accompagnate dal suono di qualche musicale istrumento, tutti coloro che compongono poesie dicono sempre che cantano, ancorchè scrivano soltanto o belino versi da fare spiritare i cani, e da cantarsi al suon d'un campanaccio, come diceva scherzevolmente il Redi. Aveva Apollo il titolo di Musagete (condottier delle Muse), quando consideravasi come il maestro di queste Dee. Esse eran figlie di Giove e di Mnemosine che era la Dea della Memoria (come indica il greco vocabolo), per significare che questa facoltà dell'anima, la Memoria, è la madre delle scienze e delle arti, poichè raccoglie e conserva le utili cognizioni e le presenta all'intelletto affinchè le elabori e le faccia fruttificare. Perciò gli Antichi avevano in proverbio che tanto sappiamo quanto teniamo a memoria ; e Dante aggiunge « ……….. che non fa scïenza « Senza lo ritenere, avere inteso. » Le Muse erano nove, ed avevano questi nomi : Calliope, Polinnia, Erato, Clio, Talia, Melpomene, Euterpe, Terpsicore, Urania. Ciascuna di esse presiedeva ad un' arte speciale, cioè : Calliope al poema eroico ; Polinnia all'ode ; Erato alle poesie erotiche, ossia amorose ; Clio alla storia ; Talia alla commedia ; Melpomene alla tragedia ; Euterpe al suono degl' istrumenti ; Terpsicore al ballo e Urania all' astronomia. Quindi si rappresentano con emblemi distintivi del loro speciale ufficio : Calliope con volto maestoso, cinta la fronte di una corona d'ellera, e in mano l'epica tromba. Polinnia coll'alloro, lo scettro e un papiro arrotolato in mano. Erato con una corona di rose e di mirto, tenendo in una mano la lira e nell'altra il plettro. Clio colla corona d'alloro e un libro in mano. Talia con volto allegro e ridente, la corona d'ellera in capo e una maschera, oppure, come voleva il Parini, uno specchio in mano. Melpomene con volto serio, la regal corona in capo, la maschera da tragedia in una mano, e nell'altra lo scettro o il pugnale, e calzata col tragico coturno. Euterpe aveva per distintivo il flauto. Terpsicore con vèsti corte e in atto di danzare, aveva inoltre la lira. Urania coronata di stelle, cogli occhi rivolti al cielo, avendo presso di sè un globo celeste e in mano qualche stromento matematico. Oltre i preaccennati nomi proprii, avevano le Muse anche degli appellativi comuni a tutte loro, derivati dai luoghi ov'esse abitavano ; i quali termini son più usati dai poeti greci e latini che dagl'italiani. Per altro Ugo Foscolo ne ha intredotto, nel suo Carme I Sepolcri, uno dei più rari a trovarsi anche nelle lingue dotte, quello cioè di Pimplèe, dato alle Muse, perchè talvolta soggiornavano sul monte Pimpla, o presso la omonima fonte in Macedonia sui confini della Tessaglia. Egli dice che « ……………… quando « Il Tempo colle sue fredde ali vi spazza « Fra le rovine (dei sepolcri), le Pimplèe fan lieti « Di lor canto i deserti e l'armonia « Vince di mille secoli il silenzio. » Più comuni e perciò più generalmente noti sono gli appellativi delle Muse, derivati dai monti Elicona, Pindo e Parnasso, dal bosco Castalio, dal fiume Permèsso e dalla fontana Ippocrene, luoghi da loro frequentati. Anzi spesse volte questi stessi nomi sono usati dai poeti per figura di metonimia, a significare le Muse, la poesia o l'ispirazione poetica. Così Dante ha detto nel Canto xxix del Purgatorio : « Or convien ch'Elicona per me versi, « Ed Urania m'aiuti col suo coro « Forti cose a pensar, mettere in versi. » E con maggior licenza poetica nel Canto i del Paradiso ; « Insino a qui l'un giogo di Parnaso « Assai mi fu ; ma or con ambedue « M'è d'uopo entrar nell'arringo rimaso. Anche il Tasso ha usato il nome del monte Parnaso figuratamente per la poesia nel Canto i della Gerusalemme liberata. « Sai che là corre il mondo ove più versi « Di sue dolcezze il lusinghier Parnaso. » Odesi spesso chiamar estro la poetica ispirazione. Questo è un vocabolo greco (come dice Virgilio nel iii delle Georgiche) corrispondente al latino asilus, che in italiano significa assillo o tafano. È dunque l'estro nel suo primitivo significato un insetto molestissimo alle bestie equine e bovine, e a tutti ben noto. Perciò i poeti, accorti di questa derivazione, difficilmente se ne servono per traslato a significare la loro poetica inspirazione ; e Dante (per quanto io mi ricordi), non l'ha mai usato. Anche il Tasso preferisce la parola furore, come allorquando prima di descriver la pugna di Argante con Tancredi, così invoca la Musa : « Or qui, Musa, rinforza in me la voce, « E furor pari a quel furor m'ispira ; « Sì che non sien dell'opre indegni i carmi « Ed esprima il mio canto il suon dell'armi ; » nei quali due ultimi versi accenna pur anco la necessità dell'armonia imitativa o espressiva nella compagine del verso. Fra i titoli dati alle Muse v'è quello di Pieridi, o Pierie Dee, di cui è questa l' origine. Le figlie di Pierio re di Tessaglia sfidarono al canto le Muse, credendosi più valenti di loro ; ma furono facilmente vinte, e in pena di lor presunzione cangiate in piche, ossia gazze. La qual metamorfosi significa evidentemente qual fosse la loro voce e la loro abilità nel canto in confronto delle Muse. A Dante piacque questo mito, e rammentando quel che dice Ovidio, che le Muse, per confonder le loro emule presuntuose, cantarono così divinamente da farle rimanere attonite ed atterrite, se ne vale stupendamente coll' invocar per sè da quelle Dee un simil canto, che abbatta l'invida rabbia de' suoi nemici : « Ma qui la morta Poesia risurga, « O sante Muse, poichè vostro sono, « E qui Calliopea alquanto surga, « Seguitando il mio canto con quel suono, « Di cui le Piche misere sentiro « Lo colpo tal che disperar perdono. » Un' altra particolarità si racconta delle Muse, volendo spiegare perchè talvolta furon dipinte colle ali. Inventarono i mitologi che le Muse fossero inseguite da Pireneo re della Focide, e che per salvarsi dalle violenze di lui, che le aveva raggiunte nell'alto di una torre, mettessero le ali e volassero via. Pireneo acciecato dal furore, pretendendo di inseguirle anche per aria, precipitò da quell'altezza e rimase morto nella sottoposta piazza. Questa favola ci rappresenta evidentemente un tiranno persecutore dei dotti e della civiltà, ammazzato a furia di popolo in una rivoluzione di piazza. All'opposto gli egregi poeti adorano e invocano le Muse con entusiasmo senza pari. In Dante poi era sì grande e sì fervente il culto per queste Dee, che per loro, dice egli stesso, soffrì la fame e la sete, e si privò del sonno : « O sacrosante vergini, se fami, « Seti e vigilie sol per voi soffersi, « Cagion mi sprona ch'io mercè ne chiami. » E qual'è la mercede o il premio che egli ne chiede ? Forse regie decorazioni o laute pensioni ? Null'altro egli desidera, se non che le Muse l'aiutino : « Forti cose a pensar, mettere in versi. » I poeti hanno abbellito maravigliosamente il paradiso dell'arte loro, e attribuito al loro Dio anche la facoltà di prevedere e vaticinare il futuro. Di Apollo Augure, ossia indovino o vate, dovremo parlare trattando separatamente degli Oracoli e degli Augurii. Ora però è a dirsi che i poeti hanno attribuito anche a sè stessi in gran parte questa facoltà di presagire il futuro, dicendosi inspirati dal loro Dio ; e perciò si chiamarono Vati, cioè indovini o profeti : dalla qual voce poi si derivò e compose il nome vaticinio e il verbo vaticinare. E i poeti non ne fanno mistero ; son gente franca ed aperta, e dicono liberamente quel che sentono e quel che credono, o vogliono che si creda. Ma son pur anco sdegnosi, e guai a chi li tocca ! e ne hanno non solo l'esempio delle Muse nella metamorfosi delle Piche, ma altresì di Apollo, che in un modo più tremendo (e diremo ancora crudele) fece scorticar vivo il satiro Marsia, dopo averlo vinto nella sfida da lui ricevuta a chi meglio cantasse. A Dante non sfuggì neppur questo mito ; anzi per la stessa ragion che lo mosse nella invocazione alle Muse a rammentare la punizione delle Piche, cioè a terrore degl'invidi, rammentò poi nell'invocare Apollo la punizione di Marsia : « Entra nel petto mio, e spira tue, « Sì come quando Marsia traesti « Dalla vagina delle membra sue. » Apollo però non fu sempre felice. Sappiamo già come perdè il suo figlio Fetonte : dicemmo ancora che perì fulminato da Giove l'altro suo figlio Esculapio, ad istanza di Plutone, che si vedeva rapire i sudditi dell'Inferno per opera di questo medico incomparabile. Aggiunsero i poeti che Apollo sdegnato con Giove, e non potendo vendicarsi contro di esso, perchè era suo padre e più potente, uccise i Ciclopi che fabbricavano i fulmini. Giove lo punì esiliandolo dal Cielo per cento anni. Ridotto Apollo alla condizione degli uomini, dovè lavorare per vivere, e divenne pastore delle greggie di Admeto re di Tessaglia. Anche in questo placido ufficio ebbe a soffrir disgrazie e dispiaceri. Gli avvenne d'invaghirsi di una Ninfa chiamata Dafne figlia di Peneo, la quale essendosi consacrata a Diana, e fatto voto di non prender marito, non solo ricusò di sposare, ma neppure volle ascoltare Apollo, e datasi a fuggire pregando gli Dei a sottrarla da tal persecuzione, fu cangiata in quella pianta di cui portava il nome, cioè in alloro, poichè Dafne in greco significa lauro. Dalla somiglianza del nome ebbe origine questa trasformazione. Il lauro d'allora in poi fu sempre la pianta sacra ad Apollo, che se ne fece una corona di cui portò sempre cinta la fronte ; e i poeti subito lo imitarono, e dopo i poeti anche i generali trionfanti e tutti gl' imperatori, ancorchè non fossero poeti nè mai stati alla guerra. Perciò il Petrarca chiamò il lauro « Arbor vittorïosa e trionfale, « Onor d'imperatori e di poeti. » Dante stesso parla più volte del legno diletto ad Apollo, della fronda Peneia e dell'incoronarsi di quelle foglie. Il Petrarca però abusa di questo nome di lauro sacro ad Apollo per farvi tanti giuochetti di parole col nome di Laura, l' Eroina del suo Canzoniere. Su tale argomento basti l' aver citato i due grandi poeti, padri dell' italiana poesia : « Degli altri fia laudabile tacere, « Chè il tempo saria corto a tanto suono. » Ad Apollo avvenne ancora un caso opposto, ma non meno funesto. Una ninfa dell'Oceano, chiamata Clizia, invaghita di lui, spinta da gelosia si lasciò morire di fame e di sete ; e Apollo per compassione la cangiò in elitropio, fiore di greco nome che in italiano dicesi girasole. Invenzione semplicissima, basata sul nome e la proprietà di questo fiore, di voltarsi sempre dalla parte dove si trova il sole. Il Poliziano nelle sue celebri ottave, conosciute sotto il nome di Stanze, rammenta questa metamorfosi descrivendo secondo la Mitologia il girasole : « In bianca veste con purpureo lembo, « Si gira Clizia pallidetta al Sole. » Un'altra metamorfosi basata sulla somiglianza del nome fu opera di Apollo. Egli cangiò in cipresso il giovane Ciparisso, perchè questo pastorello suo amico era morto dal dispiacere di avere ucciso, non volendo, un cervo suo prediletto. Invenzione veramente fanciullesca ! Non la sdegnò il Poliziano, adoratore devoto e felice di tutto ciò che fu scritto dalla classica antichità ; e così vi fece allusione : « Bagna Cipresso ancor pel cervio gli occhi, « Con chiome or aspre, e già distese e bionde. » Più tristi effetti ebbe per Apollo la morte del giovinetto Giacinto. Era anche questo un di quei pastorelli amici o dipendenti di Apollo nel tempo del suo esilio e della sua condizion di pastore ; i quali egli avea dirozzati insegnando loro a cantare, a suonare la cetra e la tibia e a far vari giuochi ginnastici. Mentre egli un giorno giuocava con esso al disco (ora direbbesi alle piastrelle), il vento Zeffiro invidioso che Apollo col suo ingegno avesse trovato il modo di esser tranquillo e contento anche nell'esilio, spinse con tutto il suo fiato contro una tempia di Giacinto il disco scagliato da Apollo ; e il giovinetto per questo colpo dopo brevi istanti morì. Apollo dolentissimo, per sollievo della sua afflizione lo cangiò nel fiore che porta lo stesso nome del giovinetto. Invenzione anche questa dello stesso genere delle precedenti. Ma i mitologi vi aggiungono che i parenti dell'estinto, dando la colpa della morte di esso ad Apollo, e perciò perseguitandolo, lo costrinsero a fuggire da quel soggiorno. Ei se ne andò allora in Frigia, ove si mise a fare il muratore ; e insieme con Nettuno fabbricò le mura della città di Troia ; della cui divina origine e costruzione parlano Omero e Virgilio e molti altri poeti ; e noi dovremo discorrerne narrando la famosa guerra troiana e la distruzione di quella antica città. **** *book_ *id_body-2-20 *date_1874 *creator_pescatori XIX La Dea Triforme cioè Luna in Cielo, Diana in Terra ed Ecate nell'Inferno Al pari di Apollo aveva Diana diversi ufficii non solo in Cielo ed in Terra, ma pur anco nell'Inferno ; e secondo ciascuno di questi rappresentavasi in 3 diverse forme ; quindi ebbe il titolo di Dea Triforme. Tutto ciò che si riferisce a Diana in comune col suo fratello Apollo, vale a dire i genitori, il luogo di nascita e i nomi che da quello le derivarono, l'abbiamo detto nel N° XVI. Dovendosi ora parlare de'suoi ufficii speciali diremo che, considerata come la Luna, immaginarono i mitologi che essa sotto la forma di una avvenente e giovane Dea percorresse le vie del Cielo in un carro d'argento o d'avorio tirato da 2 o 4 cavalli bianchi ; ma non seppero inventare alcuna graziosa favola sulle fasi lunari ; e in quanto alle ecclissi lasciarono correre la volgare e grossolana opinione che l'oscurazione di questo astro dipendesse dagl'incantesimi degli stregoni, i quali colle loro magiche parole avessero tanta potenza da trarre la Luna dal Cielo in Terra per farla servire alle loro male arti. Orazio rammenta più volte (ma ironicamente, perchè non vi credeva) questa magica potenza delle streghe sulla Luna e le Stelle, e Ovidio aggiunge che si estendeva anche sul Sole. Il volgo peraltro vi credeva di certo, perchè l'ignoranza fu sempre un terreno fertilissimo da allignarvi e crescervi qualunque più bestiale errore ; e la storia di tutti i tempi lo prova. Sappiamo infatti che anticamente nel tempo delle ecclissi lunari i popoli della Tessaglia facevano alti rumori con stromenti ed utensili di metallo per liberar di travaglio la Luna, credendo così d'impedire che essa sentisse le magiche parole degli stregoni ; che un esercito perdè la battaglia fuggendo spaventato per un'ecclisse di Sole che avvenne in quel tempo ; che anche i selvaggi dell'America nei primi tempi della scoperta del nuovo Mondo credettero che Colombo colle sue preghiere potesse far sì che si oscurasse e rasserenasse la faccia della Luna. Gli astronomi stessi passarono anticamente per maghi o per innamorati della Luna. Anzi di quel primo che osservò e descrisse il corso lunare raccontano i mitologi che si era invaghita la Luna stessa. Chiamavasi egli Endimione, e stava sul monte Latmo che è nella Caria ; ed essendosi in una di quelle caverne addormentato di un profondo sonno mandatogli da Giove, la Luna andava tutte le notti non vista a visitarlo, quantunque egli dormisse. Questa favola ebbe fortuna e credito presso i pittori, i poeti e i filosofi. Trovansi pitture e stampe in cui vedesi Endimione addormentato in una caverna e la Luna che sta a guardarlo. I poeti poi quasi tutti, ed anche gl'italiani, rammentano il vago della Luna, Endimione e la sua Diva, il dormitore di Latmo. E tra i filosofi Platone e Cicerone parlano del sonno di Endimione, paragonando a quello il sonno della morte. La Luna era adorata da quasi tutti i popoli idolatri ; e Cesare rammenta nei suoi Commentarii, che gli antichi Germani regolavano le loro imprese secondo le fasi lunari ; e stimavano più propizia per loro la luna nuova. In Roma v'era un tempio dedicato a Diana Noctiluca, cioè alla Luna che splende di notte, nel qual tempio tenevano accesi i lumi tutta la notte innanzi alla statua di questa Dea. Col solo nome di Diana era considerata come Dea della caccia ; e credevasi che accompagnata da 50 ninfe, le quali al par di lei avevan rinunziato a prender marito, passasse il tempo nei boschi ad inseguire ed uccider le fiere. E perciò si rappresenta come le vergini Tirie, con veste corta che appena le giunge al ginocchio, i coturni sino alla metà della gamba, pendente alle spalle il turcasso cogli strali, in una mano l'arco e nell'altra un guinzaglio con cui trattiene un levriero che si volta a guardarla ; e perchè si distingua che questa cacciatrice è Diana, le si aggiunge sull'alto della fronte un aureo monile in forma di luna crescente. Come casta Diva e cacciatrice era d'indole seria e sdegnosa. Anche Orazio la chiama iracunda Diana ; e si racconta perciò che ella era inesorabile e puniva severamente qualunque colpa o mancanza. Discacciò dal suo coro di ninfe e cangiò in orsa la giovane Callisto (il cui nome significa bellissima), perchè si accorse che amoreggiava con Giove. La qual'orsa fu poi da Giove trasformata in una costellazione per impedire un matricidio, vale a dire che fosse uccisa dal figlio di lei chiamato Arcade, bravo cacciatore, che incontrata nei boschi quest'orrida fiera e non sapendo che fosse sua madre, stava per trafiggerla con un dardo. E questa costellazione fu detta Orsa maggiore ed anche Elice per distinguerla dall'altra vicinissima ad essa che chiamasi Orsa minore ed anche Cinosura dal nome di una di quelle Ninfe che ebbero cura dell'infanzia di Giove, e che per benemerenza fu trasformata in questo gruppo di stelle. L'Orsa maggiore fu chiamata anche il Carro, nome che si conserva pure oggidì ; e le sette stelle principali che vedonsi in quella ad occhio nudo eran dette i sette trioni, ond'è venuto il termine di settentrione. Dante rammentò la ninfa Callisto col nome greco e latino di Elice nel C. xxv del Purgatorio : « …………………al bosco « Si tenne Diana, ed Elice caccionne « Che di Venere avea sentito il tosco. » E nominò anche Elice la stessa costellazione dell'Orsa nel C. xxxi del Paradiso : « Se i Barbari venendo da tal plaga, « Che ciascun giorno d'Elice si cuopra, « Rotante col suo figlio ond'ella è vaga ; » ecc. E al nome di Orsa maggiore preferì quello del Carro nel C. xi dell' Inferno : « E 'l Carro tutto sopra il Coro giace. » Rammentò ancora le Orse nel C. II del Paradiso ; ma ivi parlò con figura poetica, e prese per sue stelle polari le Muse : « E nove Muse mi dimostran l'Orse. » In greco Orsa dicesi arctos, dalla qual voce è derivato l'appellativo di polo artico, ossia dell'Orsa, e antartico, opposto all'Orsa. Alcuni mitologi aggiungono che anche Arcade figlio di Callisto fu cangiato in una costellazione detta Arctophylax, cioè custode dell'Orsa : più comunemente però si chiama Boote, ossia il bifolco. Ma neppure il termine di Artofilace andò perduto o dimenticato nella poesia italiana ; e chi mai non si allontani da qualche cara cosa o persona fu detto che egli le sta sempre come Artofilace all'Orse (secondo la frase dell'Ariosto), appunto perchè questa costellazione è vicinissima a quelle, e di certo non si scosta mai da quel posto. Una più terribile punizione inflisse Diana al cacciatore Atteone, il quale essendo penetrato in un boschetto ov'era una fonte in cui si bagnava Diana colle sue Ninfe, la Dea gli gettò dell'acqua sulla faccia e lo trasformò in cervo, che nel fuggire fu raggiunto dai suoi propri cani e da essi miseramente dilaniato. Dissero i mitologi che Atteone, perchè apparteneva ad una famiglia odiosa a Giunone, fu spinto malignamente da questa Dea ad entrare in quel boschetto per procurargli una sì miseranda fine. Atroce e vergognosa vendetta ! Il Petrarca si credè autorizzato da questo racconto mitologico a darci ad intendere, nella sua 4ª Canzone, che per opera di Madonna Laura avvenisse a lui stesso un fatto simile a quello di Atteone : « Io perchè d'altra vista non m'appago, « Stetti a mirarla, ond'ella ebbe vergogna ; « E per farne vendetta, o per celarse, « L'acqua nel viso con le man mi sparse. « Vero dirò (forse e'parrà menzogna), « Ch'io sentii trarmi della propria immago ; « Ed in un cervo solitario e vago « Di selva in selva, ratto mi trasformo ; « Ed ancor de'miei can fuggo lo stormo. » È facile peraltro l'intendere che qui il Petrarca parla soltanto metaforicamente. La Dea Triforme era considerata come Ecate nell'Inferno. Su questo terzo attributo son molto incerti e discordi fra loro i mitologi ; ed urta il senso comune e il buon gusto il sentire che confondessero l'argentea Luna e la svelta saettatrice Diana con la mostruosa Ecate. Sapendo soltanto che ad Ecate si attribuivano tre teste, una di cavallo, una di cane ed una di leone e, secondo altri, di cinghiale, basta questo perchè tal mostruosa Dea faccia orrore. E gli uffici che le si assegnavano eran pur essi fantastici e paurosi ; poichè dessa mandava fuor dal regno delle ombre i notturni spettri a spaventare i viventi, e usciva talvolta in persona colle anime dei morti a girare intorno ai sepolcri e pei trivii ; spingeva i cani ad urlare orribilmente per le vie, e proteggeva le maliarde e le streghe nei loro incantesimi. Omero però non parla di questa ributtante Dea, e il passo in cui ne discorre Esiodo credesi interpolato dagli Orfici, una specie di riformatori o di eretici dell'antico paganesimo. Il volgo però vi presta va pienissima fede, e tanto più allora quando in alcuni luoghi invalse l'uso nei trivii di offrir delle cene ad Ecate, che lasciate intatte da questa Dea eran poi ben volentieri divorate dai poveri. In tempi più civili si rappresentò Ecate con tre faccie, ma tutte di donna ; e questa triplice immagine ponevasi nei trivii, ond'ebbe ancora il nome di Trivia. Orazio in tre odi che han per soggetto le streghe e le stregonerie non rammenta mai Ecate, e solo nella Sat. 8 del lib. I dice delle due famose streghe Canidia e Sagana, che l'una invocava Ecate, e l'altra Tisifone ; e nel Carme secolare che fu cantato pubblicamente in onore di Apollo e di Diana, tra gli altri ufficii di questa Dea ivi enumerati non è accennato nemmeno quello infernale di Ecate. Quindi alcuni mitologi e poeti preferirono di sostituire ad Ecate la Dea Proserpina moglie di Plutone e regina dell'Inferno ; e lo stesso Dante seguì tale opinione ; poichè nel farsi predire da Farinata degli Uberti (nel C. x dell'Inferno) il suo esilio, e indicarne l'epoca fra circa 50 mesi lunari, esprime queste idee con frasi mitologiche nel modo seguente : « Ma non cinquanta volte fia raccesa « La faccia della Donna che qui regge « Che tu saprai quanto quell'arte pesa ; » ove apparisce manifestamente che l'ufficio di Proserpina e non di Ecate è accomunato da Dante con quel della Luna. Anche il titolo di Lucina dato anticamente a Giunone (come dicemmo nel N. XV) è più confacente a Diana, perchè Lucina, come dice Cicerone, deriva a lucendo, ed appella più propriamente alla Luna. Diana aveva in Efeso un famoso tempio, considerato come una delle 7 maraviglie del mondo, che fu arso, pur d'acquistar fama ancorchè infame, da Erostrato Efesio la notte in cui nacque Alessandro Magno, cioè il 6 di giugno, 356 anni avanti l'era cristiana. Fu ben presto rifabbricato non meno splendido per ricchezza, sebbene fosse impossibile rifare dello stesso pregio gli oggetti d'arte che erano periti nell'incendio. Questo secondo tempio esisteva ancora quando l'apostolo Paolo andò a predicare il cristianesimo agli Efesii ; e poichè egli voleva abolire il culto di Diana, poco mancò che non fosse massacrato dagli orefici di quella città, che guadagnavano molto vendendo tempietti d'argento fatti ad imitazione di quello di Diana Efesina. Pochi anni dopo fu questo tempio saccheggiato da Nerone, e nel terzo secolo dell'era volgare distrutto dagli Sciti. Ed ora dove sorgeva quel tempio e la stessa popolosa città di Efeso, che a tempo dell'imperator Teodosio II fu sede di due Concilii Ecumenici, non trovasi che qualche lurida capanna mezzo sepolta in una pianura paludosa da cui sollevansi esalazioni deleterie dell'organismo vitale ! **** *book_ *id_body-2-21 *date_1874 *creator_pescatori XX Mercurio Chi è che non conosca qualcuno dei molti significati di questa parola Mercurio ? È un termine rammentato frequentemente nel Commercio, nelle Arti, in Astronomia, in Fisica, in Chimica e perfino in Medicina o materia medica. E chi fu mai sì losco o dell'occhio o dell'intelletto che non abbia veduto e ammirato, in tela, in legno, in plastica, in bronzo o in marmo, dipinta o sculta, una svelta ed elegante figura di un giovane nudo con due piccole ali al capo ed ai piedi ed avente in mano una verga a cui stanno attortigliati due serpenti ? È quella l'immagine del Dio Mercurio, il più affaccendato di tutti gli Dei dell'Olimpo, essendo egli il Messaggiero di Giove e degli altri Numi superni. Egli era figlio di Giove e della Ninfa Maia una delle sette figlie d'Atlante che furon cangiate nella costellazione delle Pleiadi ; quindi Mercurio dai poeti trovasi denominato Atlantiade, cioè nipote di Atlante. Dai Greci era chiamato Erme, che significa interprete ; perciò il nome stesso indica l'ufficio suo principale, quello cioè di messaggiero degli Dei. La parola Erme fu poi usata in greco e in latino a significare il busto del dio Mercurio posto sopra una colonnetta ; e in questa stessa significazione si adopra tuttora in italiano, ma estendendola a indicare qualunque busto di Dei o d'uomini, posto egualmente sopra una piccola colonna. Il nome di Mercurio ha evidente relazione etimologica, tanto in latino quanto in italiano, con mercatura e con merce, e vien quindi a significare il Dio del Commercio. Da questi due principali nomi Erme e Mercurio e dagli attributi che per essi indicavansi, dedussero gli Antichi altri correlativi uffici di questo Dio. Poichè egli era l'interprete e il messaggiero degli Dei, supposero che fosse ancora il Dio dell'eloquenza e della persuasione, qualità indispensabili in un esimio ambasciatore : e dall'esser egli il Dio della mercatura e del commercio, nelle quali occupazioni si commettevano anticamente molte frodi per fare illeciti e subiti guadagni, dedussero che egli fosse pure anco il Dio dei ladri. E su queste illazioni inventarono subito una quantità di fatti mitologici, che, abbelliti dalla fantasia e dal linguaggio di sommi poeti, conviene almeno brevemente accennare. Raccontano dunque i mitologi, che nacque Mercurio dotato d'ingegno acutissimo ed accortissimo, ma. coll'istinto di valersene per ingannare gli altri. Non già che egli, come Dio, avesse bisogno di rubare, ma così per trastullo e per dimostrare la sua scaltrezza si divertiva a far delle burle agli Dei, involando ad essi quel che avevano di più caro e prezioso. E perciò dicono che Mercurio ancor fanciullo rubò le giovenche e gli strali ad Apollo, e poi il cinto a Venere, il tridente a Nettuno, la spada a Marte e perfino lo scettro a Giove. I poeti commentarono queste furbesche prodezze di Mercurio anche negl' inni in onore di lui. Era questo certamente un linguaggio allegorico, col quale si voleva significare che Mercurio col suo ingegno e la sua accortezza si era saputo cattivare l'affetto di tutti, o secondo la nostra frase familiare, aveva rubato il cuore a tutti. Ma gl'ignoranti intendevano questi furti alla lettera ; col rubare accortamente senza essere scoperti, non credevano di far male, poichè imitavano un Dio e si stimavano da lui protetti. Anzi lo pregavano apertamente a favorirli nei loro inganni e nelle loro ruberie. Tito Livio, nel libro 2° della Storia Romana, racconta che il collegio dei mercanti celebrava la festa di Mercurio il 15 di maggio, e Ovidio aggiunge la preghiera che essi recitavano, la quale terminava col chiedere a questo Dio guadagni in qualunque modo ottenuti, e di poterseli godere ingannando accortamente i compratori. E il poeta, pretendendo di conoscere come accogliesse Mercurio dall'alto questa preghiera, soggiunge che sorrideva, ricordandosi di avere anch'egli rubate le greche giovenche. Così la religione stessa interpetrata secondo le malnate passioni, contribuiva a corrompere e disfare la società pagana. Ridotto alla sua vera significazione questo attributo di Mercurio, passiamo a parlar degli altri. Come nunzio di Giove e di tutti gli Dei dovendo Mercurio far molti viaggi in Terrà e nell'Inferno, per diminuir le distanze e guadagnar tempo colla velocità, si metteva il petaso e i talari, e volava celere al pari del vento. In mano aveva o la sola verga, o la verga coi serpenti, detta il caducèo, e talvolta la borsa. In principio aveva la sola verga ; ma un giorno, come raccontano i poeti, avendo egli trovato due serpenti che si battevano, li percosse colla sua verga per separarli e dividerli ; ed essi attortigliandosi a quella rimasero in atto di lambirsi in segno di pace. La prima, cioè la verga sola, significava l'ufficio che aveva Mercurio di condurre le anime dei morti al regno di Plutone, e richiamarle alla vita secondo la dottrina della Metempsicosi, ossia della trasmigrazione delle anime ; la seconda, ossia la verga coi serpenti, indicava che questo Dio consideravasi allora come ambasciatore di pace ; e perciò il caducèo era il distintivo che i Pagani davano ai loro ambasciatori : ora è divenuto il simbolo del Commercio, che è arte di pace, e prospera utilmente per tutti soltanto in tempo di pace. La borsa poi, piena di danari, alludeva evidentemente alle umane contrattazioni, poichè il danaro è il rappresentante di tutti gli oggetti godevoli, o, come dice l'inglese Hume, è l'olio che fa girar facilmente e senza attrito le ruote della gran macchina sociale. Talvolta era rappresentato Mercurio con una catena d'oro che gli usciva dalla bocca e pendevagli dalle labbra, a significare l'efficace e gradito potere dell'eloquenza ; e come a Dio della medesima gli si offrivano le lingue degli animali. Siccome la perfetta eloquenza non trascura l'armonia del linguaggio, ma sì la coltiva e l'adopra per iscender più facilmente dall'orecchio al cuore, perciò gli Antichi asserirono che Mercurio era valentissimo nella musica, ed aveva pur anco inventato un musicale stromento. Questo chiamavasi in greco chelys e in latino testudo, parole che in entrambe le lingue significano primitivamente testuggine, perchè credevasi che Mercurio avesse formato questo stromento col guscio di una testuggine adattandovi 7 corde. I poeti latini lo chiamano anche lira e così a loro imitazione i poeti italiani. Ad Apollo piacque tanto questo stromento e tanto se ne invogliò che Mercurio suo fratello glie ne fece un regalo graditissimo. — I poeti non dimenticano veruna particolarità mitologica, e perciò Orazio chiama fraterna la lira di Apollo, perchè inventata e donatagli dal fratello. Attribuirono a Mercurio anche i primi incentivi alla vita sociale e all'incivilimento, asserendo che egli avesse dirozzati i popoli selvaggi col canto e coll'uso dei giuochi ginnastici, esercizii tanto pregiati dagli Antichi. Perciò il culto di Mercurio era estesissimo, e Cesare nei suoi Commentarii ci lasciò scritto che i Galli adoravano principalmente questo Dio, e lo credevano inventore di tutte le arti, e protettore della mercatura e dei guadagni. Noi avremo occasione più volte di rammentare fatti mirabili compiutisi coll'assistenza e col favore di Mercurio, narrati splendidamente dallo stesso Omero : qui basterà parlare di due soli che si riferiscono alla vita privata di questo Dio. Son due trasformazioni, cioè quella del pastor Batto in pietra di paragone e di Aglauro in livido sasso. Raccontano i poeti che quando Mercurio rubò le vacche ad Apollo, incontrò per via il pastor Batto, al quale regalò una giovenca perchè non lo scuoprisse ; ma poi per provar la sua fede prese la forma di un altro che cercasse il ladro di quell'armento e promise a Batto una vacca e un bove, se glie ne indicava le traccie. Batto si lasciò vincere da insaziabile cupidigia e manifestò quel che sapeva e avea promesso di tacere. Allora Mercurio, facendosi riconoscere, lo rimproverò della sua perfidia e lo punì trasformandolo in quella pietra nera che dicesi di paragone, perchè serve a far conoscere se v'è mistura o falsificazione negli oggetti d'oro e d'argento. Il significato di questo mito s'intende facilmente ; indica cioè che l'onestà degli uomini si mette alla prova col denaro ; e la conclusione o morale della favola è questa : chi, nelle cose illecite, per lucro favorisce, per lucro tradisce. La metamorfosi di Aglauro si racconta così : Mercurio per quanto pieno di occupazioni aveva trovato il tempo per invaghirsi di Erse figlia di Eretteo re di Atene ; ed Aglauro sorella di lei, per invidia frapponeva ostacoli alla conclusione degli sponsali. Mercurio che non aveva tempo da perdere, per levar di mezzo quest'impaccio, la cangiò in livido sasso, simbolo del livore, ossia dell'invidia. Dante a cui nulla sfugge, e che ovunque stenda la mano o colorisce o scolpisce, nel descrivere il cerchio del Purgatorio ove son puniti gl'invidiosi, ci narra che ei vide « Il livido color della petraia, » e più oltre « ………ombre con manti Al color della pietra non diversi, » e udì « Voce che giunse di contro dicendo : « Io son Aglauro che divenni sasso ; » e seppe così valersi incomparabilmente della pagana Mitologia, per ornamento del linguaggio poetico anche nel Purgatorio cristiano, apostolico, romano. Dagli astronomi fu dato pensatamente il nome di Mercurio al pianeta più vicino al centro del nostro sistema planetario, perchè compie con maggior celerità di tutti gli altri pianeti primarii il suo movimento di rivoluzione intorno al Sole, vale a dire in 87 giorni, 23 ore e 15 minuti. I filosofi naturali chiamaron Mercurio il solo metallo che sia liquido a temperatura ordinaria, e che si solidifica soltanto a 40 gradi di gelo. È conosciuto volgarmente sotto il nome di argento vivo a causa del suo color bianco argenteo e della sua mobilità ; per cui serve ottimamente nei tubi dei termometri e dei barometri ad indicare in quelli i diversi gradi di calore e in questi la variazione dello stato dell'atmosfera. Ebbero il nome di Mercurio sin dal 1672 alcuni giornali ed altre pubblicazioni a stampa, perchè furon considerati quei fogli come messaggieri veloci al par di Mercurio. Dai botanici si chiamò mercuriale un genere di piante della famiglia delle Euforbiacee, perchè, secondo quel che dice Plinio, si credeva dovuta al Dio Mercurio la scoperta delle qualità maravigliose che gli Antichi attribuivano a questo genere di piante. La più comune dicesi volgarmente Marcorella, che è una corruzione del termine mercuriale. Mercuriali si chiamavano dai Latini non solo i mercanti, ma anche gli uomini dotti, perchè Mercurio era pure il Dio dell'eloquenza ; Mercuriali (secondo il Menagio) le adunanze dei letterati che si tenevano il mercoledì in casa di qualcuno di loro ; Mercuriali anticamente in Francia le assemblee delle corti sovrane, Mercuriali in commercio i registri officiali delle derrate. E tutte queste denominazioni derivano dal nome di Mercurio, e trovano la loro spiegazione negli attributi di questo Dio. **** *book_ *id_body-2-22 *date_1874 *creator_pescatori XXI Minerva Un mito dei più straordinarii fu inventato sulla nascita di Minerva Dea della sapienza. Raccontano i mitologi che questa Dea nacque adulta e armata di tutto punto dal cervello di Giove. Se null'altro avessero aggiunto, era questa, com'è veramente, la più bella e sapiente allegoria, significando essa che la sapienza è figlia del supremo dei Numi e che uscì dalla divina mente di lui. In questi limiti il mito fu adottato volenterosamente e con piacere non solo dai nostri poeti, ma pur anco dagli eleganti dicitori e scrittori di prose ; e non è raro il sentir dire o leggere nei libri, che un'invenzione o una teoria uscì adulta e armata di tutto punto dalla mente del suo autore, come Minerva dal cervello di Giove. Per intender certe parole e frasi dei poeti pagani è necessario almeno accennarne alcune. Aggiungono dunque i mitologi che Giove per tre mesi sentì un gran dolor di testa, e non potendo più a lungo tollerarlo, mandò a chiamare Prometeo, o secondo altri, lo stesso Vulcano suo figlio, per farsi spaccare con un ferro tagliente il cranio ; e ne uscì Atena, ossia Minerva. La quale dall'essere stata tre mesi in gestazione nel cervello di Giove fu detta Tritonia. Prima di tutto convien conoscere l'etimologia e il significato dei principali nomi di questa Dea. Ebbe dai Greci primamente il nome di Pallade (Pallas) che secondo lo Stoll significa fanciulla robusta, perchè nacque adulta e tutta armata ; e questo nome fu adottato dai Latini e dagli Italiani. Minerva poi è voce di origine tutta latina, e Cicerone stesso ne dà l'etimologia derivandola dai verbi minuere e minitari (diminuire e minacciare) ; e perciò sotto questo nome sarebbe considerata come della guerra. Altri però dicono che deriva dal verbo monere (ammonire) ; e che perciò verrebbe invece a significare la Dea del consiglio, ossia della sapienza. Dante rammenta Pallade come Dea della guerra nel Canto xii del Purgatorio : « Vedea Timbreo, vedea Pallade e Marte « Armati ancora in mezzo al padre loro « Mirar le membra de'giganti sparte. » E nel Canto ii del Paradiso nomina Minerva come Dea della sapienza : « Minerva spira e conducemi Apollo. » Questa Dea ricevè dai Greci anche il nome di Atena che alludeva all'origine ed alla mitologica denominazione della famosa città d'Atene. Narrano di concerto i mitologi ed i poeti greci che la loro antica città di Atene, prima di aver ricevuto questo nome, era detta città Cecropia, perchè costruita o rifabbricata ed ampliata da Cecrope ; e quindi Cecropidi gli abitanti. Aggiungono che nacque gara fra gli Dei per darle il nome ; e Giove per troncar le questioni decretò che avrebbe questo privilegio quel Nume che producesse una cosa più utile al genere umano. Gli altri Dei lasciarono libero il campo a Nettuno e a Minerva. Quegli fece nascere il cavallo e questa l'olivo ; e fu stimato più utile l'uso dell'olio che quello del cavallo. Minerva dunque che in greco chiamasi Atena diede il suo stesso nome a quella prediletta città ; e i cittadini di essa favoriti e protetti dalla Dea della sapienza inventarono le scienze e le arti, e divennero il popolo più civile e ingegnoso che sia mai esistito. L'invenzione è bellissima e facile ad intendersi ; significa che l'ingegno è dato agli uomini dalla Divinità, e che le opere di esso non si compiono senza il favore di quella. Tutti i migliori poeti delle più culte nazioni hanno accolta gradevolmente questa invenzione e riprodotta a gara con splendide forme. Anche Dante ha trovato il modo di rammentarla nel Canto xv del Purgatorio, facendo dire a Pisistrato dalla moglie di lui : « …..Se tu se' Sire della villa « Del cui nome ne' Dei fu tanta lite, « Ed onde ogni scienza disfavilla, « Vendica te di quelle braccia ardite, ecc. » Dante inoltre volge ad ornamento del suo divino linguaggio poetico l'origine mitologica dell' olivo, e considerandolo come simbolo di sapienza, perchè prodotto dalla Dea della sapienza, ne corona la fronte alla sua Beatrice rappresentante la cristiana Teologia. E perchè il suo nuovo concetto apparisca manifesto, prima descrive Beatrice (nel Canto xxv del Purgatorio) : « Sovra candido vel cinta d'olivo, » e poco, dopo soggiunge che era quel velo « Cerchiato della fronde di Minerva ; » e così commenta sè stesso, facendo conoscere qual significato simbolico intendeva di dare, in quel caso, all'olivo. Nè i Latini, nè gl'Italiani adottarono il nome di Atena dato a Minerva dai Greci ; ma sì il derivativo di Ateneo. Intendevasi dai Greci per Ateneo un edifizio sacro alla Dea Atena, e destinato ad uso di archivio e di biblioteca, ove i poeti e gli altri greci scrittori depositavano i loro componimenti, come a tempo di Augusto facevasi in Roma nella biblioteca palatina sacra ad Apollo. Chiamavasi pure Ateneo un altro simile edifizio ove adunavansi i dotti per leggere o recitare i loro scritti e disputare di lettere, scienze e filosofia. In italiano si dà elegantemente questo nome di Ateneo alle Università, e da noi ed altrove suol darsi anche ad alcune società o accademie di letterati o scienziati e ad alcuni periodici letterarii e scientifici. Minerva rappresentavasi con volto serio e maestoso, e quasi sempre armata, coll'elmo in testa, nella sinistra lo scudo detto l'egida e nella destra un'asta ; e ai piedi una civetta o un gufo, animale a lei sacro. Secondo alcuni poeti l'egida era un'armatura del petto con la figura della mostruosa testa anguicrinita di Medusa ; e secondo altri questa orribile figura era sculta nello scudo per opera di Vulcano. Perchè poi fosse sacro a Minerva quell'animale notturno, rispondono i poeti, perchè le recava notizie di quel che accadeva di notte ; e si voleva significare che l'ingegno vede e scuopre le cose che agli altri restano oscure ed ignote. E Minerva non solo è una Dea ingegnosa, come la chiama Ovidio, ma è pur anco la protettrice degl'ingegni, l'ispiratrice delle invenzioni nelle arti e nelle scienze. Quindi la sua festa in Roma era solennizzata dai dotti, dagli scolari, dagli artisti e dagli artigiani ; e cominciando dal 10 di marzo durava per cinque giorni, e perciò si chiamava il Quinquatruo. Questa Dea era venerata al par di Giove da tutti i popoli civili, o almeno non affatto barbari e selvaggi. Anche nell'antichissima città di Troia aveva un tempio ed una celebre statua che i Romani pretendevano salvata da Enea e trasportata in Italia, e che fosse quella stessa che essi facevano gelosamente custodire nel tempio di Vesta come pegno della salvezza di Roma. Questa statua era chiamata il Palladio. Il più bel tempio però e la più famosa statua di questa Dea erano in Atene : la statua distinguevasi col nome di Parthenos (la vergine), cioè statua della vergine, e il tempio chiamavasi il Partenone, cioè sacro alla vergine, sottinteso Atena, vale a dire Minerva. La statua, opera di Fidia, più non esiste ; del Partenone vi restarono tali avanzi da poter fare su quelli la completa restaurazione dell'edifizio ; e se ne ha il disegno in molte stampe o incisioni. Anzi a Parigi fu costruita sul disegno e le dimensioni del Partenone la chiesa della Maddalena, guasta recentemente e quasi rovinata dagli anarchici furori della Comune. Di Minerva avremo occasione di parlare molte altre volte, ma specialmente raccontando il giudizio di Paride, la guerra di Troia e la vita di Ulisse e di Telemaco. Qui però dobbiamo riportare un racconto mitologico, che non si collega con quegli altri importanti e celebri avvenimenti. Una giovane lidia, di nome Aracne, osò sfidar Minerva a chi meglio sapesse lavorare e ricamare in lana. Minerva accettò e vinse, e punì la presuntuosa Aracne cangiandola in ragno, animale che conserva l'abitudine di far tele e ricami. Dante riferisce questa metamorfosi fra gli esempi di superbia punita nel Purgatorio (Canto xii, 43….) : « O folle Aragne, sì vedeva io te, « Già mezza aragna, trista in su gli stracci « Dell'opera che mal per te si fe ! » Quindi egli non accetta l'opinione di qualche strambo mitologo, che Minerva fosse vinta, e per dispetto percuotesse Aracne e la trasformasse in ragno. È questa una delle tante metamorfosi che furono inventate per la somiglianza del nome. Infatti Suida, lessicografo greco, scrive nel suo dizionario che la parola Aracne al femminile significa tela, e al maschile ragno, e Plinio asserisce che una donna chiamata Aracne inventò le tele, e Clostère, figlio di lei, i fusi. Il nome di Minerva fu usato dai poeti latini (e spesso anche dai prosatori) a significare per metonimia l'ingegno naturale, e vi si univa qualche epiteto o aggettivo per indicare se era pronto e facile, oppure rozzo, ottuso, tardo o restìo. Il nome di Pallade poi trovasi del pari figuratamente usato nella poesia latina a significare l'olio. Dagli astronomi fu dato il nome di Pallade al secondo asteroide o pianeta telescopico, scoperto da Olbers il 28 maggio 1802. **** *book_ *id_body-2-23 *date_1874 *creator_pescatori XXII Marte « Marte superbo e fero « Che i cuori indura e serra » come dice il Petrarca, era il Dio della guerra selvaggia, feroce, di esterminio. Per lui eran care delizie le risse e le zuffe, « E discordie e battaglie e stragi e sangue ; » e perciò a Giove stesso suo padre egli divenne fra tutti i celesti odioso, come troviamo scritto in Omero. Differiva pertanto da Minerva, quando era considerata anch'essa come Dea della guerra, quanto le furibonde sommosse differiscono dalle regolari battaglie. Perciò i Greci, che nelle loro celebri guerre contro lo straniero invasore opraron molto co senno e con la mano, e vinsero aiutando l'eroico valore colla strategia e cogli strattagemmi di guerra, preferivano il culto di Minerva a quello di Marte ; e lasciarono che lo adorassero, devotamente i Traci, i quali, come dice Orazio, avevano il barbaro costume di terminar con risse e pugne anche i conviti. Ben pochi fatti raccontavano di questo Dio che stessero ad onore di lui, perchè credevano che gli fosse nemica la stessa loro Dea protettrice, la quale in quelle pugne in cui prendevano parte anche gli Dei, come nella guerra di Troia, si metteva sempre dalla fazione contraria a Marte. In Roma per altro, la cui fondazione ebbe luogo tre in quattro secoli dopo l'eccidio di Troia, il culto di Marte fu il più solenne e devoto dopo quello di Giove Ottimo Massimo, perchè i Romani oltre al credersi discendenti dai Troiani, tenevan per fermo che il fondatore della loro città fosse figlio di Marte, come narra lo stesso Tito Livio. Da Ares, greco nome di questo Dio, derivò e fu composto il termine di Areopago, che propriamente ed etimologicamente significa borgo di Marte ; e poi sotto questo nome fu istituito da Solone il famoso tribunale dell'Areopago, di tanta sapienza e integrità, che vi eran portate a decidere le liti anche dagli stranieri. Come poi in questo nome tanto del borgo di Atene quanto del tribunale vi entrasse Marte, lo dice la Mitologia. Marte fu accusato da Nettuno di avergli ucciso contro ogni ragione il suo figlio Alitrozio ; e fu scelto un consesso di 12 Dei per giudicarlo, e il dibattimento ebbe luogo in un borgo d'Atene che d'allora in poi fu chiamato perciò Areopago. Seì di quei giudici condannarono Marte, e gli altri sei lo assolsero ; e la parità dei voti fu tenuta per favorevole all'imputato, tanto più che per l'assoluzione era dato il voto di Minerva, Dea della sapienza. Il nome latino di Mars (Marte) consideravasi una abbreviazione di Mavors, che significa, come dice Cicerone, magna vertens, cioè che sconvolge grandi cose ; significato funesto, e pur troppo vero nei terribili effetti della guerra. Chiamavasi ancora Gradivo, titolo derivato da un verbo che significa camminare, o avanzarsi a passo misurato, ed appella evidentemente alla marcia militare e all'uso degli antichi di scagliarsi contro il vicino nemico a passi accelerati e quasi correndo. Rappresentavasi Marte tutto armato, e con aspetto fiero ; ma talvolta anche nudo ; specialmente nelle statue di marmo e di bronzo (chè il nudo è il campo della statuaria), però sempre almeno coll'elmo in testa e coll'asta nella destra. I Greci fecero poche immagini sculte o dipinte del Dio Marte, prima perchè non era il Dio per cui avessero maggior devozione, e poi perchè il truce soggetto pareva loro che ripugnasse alla squisitezza della greca eleganza. All'opposto i Romani ne moltiplicarono le statue e le pitture, perchè al favore di questo Dio attribuivano le loro conquiste. Infatti il generale romano nel partir per la guerra scuoteva l'asta della statua di Marte dicendo : Mars vigila ; sottintendendo in favore dei Romani ; i quali si credevano tanto da lui prediletti e così esclusivamente protetti che lo intitolavano Marte Romano. Essendo la guerra il fondamento e la causa della loro potenza, e' la chiamavano bellum, come se fosse una bella cosa, quale riuscì per loro sino al termine della repubblica e ai primi tempi dell'impero, perchè a fin di guerra riuscivan sempre vincitori e conquistatori. Ma non la chiamavano bella i vinti, e neppure i Romani stessi quando furono soggiogati dai barbari e fatto a brani il romano impero. Anche le colonie Romane adoravano Marte come loro Dio protettore : e tra queste Firenze che non fu già tutta plasmata da « ….quell'ingrato popolo maligno « Che discese di Fiesole ab antico « E tiene ancor del monte e del macigno, » ma vi fu mista ancora « …….la sementa santa « Di quei Roman che vi rimaser, quando « Fu fatto il nido di malizia tanta. » E inoltre Dante ricorda che Firenze, quand'era pagana, aveva per suo protettore Marte, che cangiò nel Battista, allorchè divenne cristiana, facendo dire (nel Canto xiii dell'Inferno) a quell'anima, che fe gibetto a sè delle sue case : « Io fui della città che nel Batista « Cangiò il primo padrone, ond'ei per questo « Sempre coll'arte sua la farà trista. » E-aggiunge che vi rimaneva ancora a quel tempo sul ponte vecchio l'antica statua un po'guasta del Dio Marte : « E se non fosse che sul passo d'Arno « Rimane ancor di lui alcuna vista, « Quei cittadin che poi la rifondarno « Sovra 'l cener che d'Attila rimase « Avrebber fatto lavorare indarno. » A Marte era sacro il gallo, animale vigile e pugnace, emblema della vigilanza e del coraggio necessario nelle battaglie. I mitologi aggiungono che fu cangiato in gallo da Marte un suo soldato di nome Elettrione, perchè non fece bene la guardia, quando egli andò a far visita a Venere, e il Sole lo scuoprì. Ecco perchè (dicon sul serio i poeti) il gallo canta prima dell'apparir del Sole, per avvertir Marte che si guardi dall'essere un'altra volta scoperto. Di Marte infatti si raccontano diversi aneddoti poco edificanti ; basti il dire che quando accadeva qualche fatto scandaloso, si attribuiva subito a Marte : sì poco buona stima si aveva di lui per morale condotta ! In onore di Marte fu dato da Romolo il nome al mese di marzo che era in quel tempo il primo mese dell'anno. A Marte e ai marziali esercizi fu consacrato in Roma il campo Marzio, che prima era un fondo rustico, ossia un vasto podere appartenente a Tarquinio il superbo, ed ora è pieno di case, fra le quali il palazzo detto di Firenze, perchè apparteneva all'Ambasciata fiorentina o toscana. Il nome di Marte si usa figuratamente tanto nella poesia latina quanto nella italiana per significare la guerra, e in prosa latina anche per indicare la forza non solo fisica, ma pur anco intellettuale. Da Marte deriva l'aggettivo marziale adoperato non solo nel linguaggio militare, come nelle espressioni tenuta marziale, aspetto marziale, corti marziali (o consigli di guerra), legge marziale (o stato d'assedio), ecc. ; ma anche nel linguaggio della chimica, come sostanze o preparati marziali, in cui cioè entra in composizione il ferro. Al Dio Marte fu dedicato il martedì, del qual giorno conservasi ancora lo stesso nome nelle lingue affini alla latina. Di Marte diedero il nome gli astronomi antichi a quel pianeta visibile ad occhio nudo, che resta più della Terra lontano dal centro del nostro sistema planetario, vale a dire del Sole. Dalla luce rossastra e quasi sanguigna che riflette questo pianeta ebbe il nome del Dio che si diletta del sangue e delle stragi. I moderni astronomi attribuiscono quel colore o alle materie di cui è composto il pianeta, atte a rifletterlo, o ad una densa atmosfera che lo circondi. Dante aveva osservato che gli astri riflettono una luce più rossa quando si vedono sul limite estremo dell'orizzonte, e specialmente dalla parte di ponente, ove son più spessi i vapori dell'atmosfera ; e tanto più questo fenomeno si manifesta nel pianeta di Marte, che per natura sua è sempre più rosso di tutti gli altri. Avendo egli presenti alla mente queste osservazioni, se ne valse per fare una bellissima similitudine nel Canto ii del Purgatorio : « Ed ecco, qual sul presso del mattino, « Per li grossi vapor Marte rosseggia « Giù nel ponente sopra il suol marino ; « Cotal m'apparve, s'io ancor lo veggia, « Un lume per lo mar venir sì ratto, Che'l muover suo nessun volar pareggia. » **** *book_ *id_body-2-24 *date_1874 *creator_pescatori XXIII Venère, Cupido e le Grazie L'origine di Venere è narrata dagli Antichi in due modi. Omero dice che questa Dea è figlia di Giove e di Dione, ninfa della stirpe dei Titani, nata dall'Oceano e da Teti. Esiodo poi lasciò scritto che Venere nacque dalla schiuma del mare. Questa più strana e prodigiosa origine, creduta a preferenza della prima che era più semplice e naturale, fece dare a questa Dea il greco nome di Afrodite, che significa appunto nata dalla schiuma. Alcuni dei più fantastici mitologi e poeti aggiungono, che le acque del mare furono fecondate dal sangue di Urano mutilato da Saturno ; e che da questa fecondazione delle acque marine nacque Afrodite, ossia Venere, raggiante di celeste bellezza. Con questo strano mito voleva significarsi che la Bellezza è figlia del Cielo, e che nel globo terraqueo manifestasi più che altrove sul mare. Ma ambedue queste origini così diverse son talmente confuse e amalgamate nei poeti posteriori, che attribuiscono e l'una e l'altra indifferentemente e congiuntamente a Venere, come se fosse possibile il nascere in due modi e l'avere due diverse madri. Il solo punto di contatto fra queste due opinioni, e che serve di transizione dall'una all'altra è questo, che essendo Dione una Dea marina, e Venere sua figlia nata nel mare, e comparsa per la prima volta nel mondo alla superficie delle onde spumanti, fu detto figuratamente che era nata dalle onde del mare per dire che era uscita da quelle. Quindi alludendo a questa origine la rappresentarono nel primo fior dell'età e della bellezza, affatto nuda e senz'alcun ornamento, in una conchiglia marina spinta a gara dagli zeffiri sulla superficie del mare. I poeti aggiungono che andò a fermarsi in Cipro, ed ivi ebbe il maggior culto e il titolo di Ciprigna. In molti altri luoghi fu poi venerata, in Citera, in Pafo, in Idalio, in Àmatunta, in Gnido, ed ebbe da questi luoghi del suo culto i titoli di Citerèa, Pafia, Idalia ecc., tanto frequenti nei poeti classici latini e greci ; e quelli specialmente di Ciprigna e di Citerèa anche negl'italiani e nello stesso Dante. Del nome di Venere che le fu dato dai Latini, ed è divenuto tanto comune nelle lingue affini, Cicerone dà questa etimologia e significazione : Venus, quia venit ad omnia, perchè cioè la bellezza s'avviene in tutte le cose. Il Monti ancor giovanissimo intuonò un Cantico adorno di graziose immagini e forme poetiche alla Bellezza dell'Universo, ove, con amplificazione per enumerazion delle parti, fa la rassegna delle più grandi bellezzè che son da ammirarsi nelle opere della creazione ; ed Ugo Foscolo ha detto : « Venere simboleggia la Bellezza dell' Universo. » Da Venere, considerata come Dea della bellezza, son derivate le parole venustà ed avvenenza. Il nome di Dionèa dato a Venere perchè creduta figlia di Dione è comunissimo nelle lingue dotte, ma poco nell'italiana. Dante però rammenta Dione come madre di Venere, e per figura poetica adopra il nome della madre per quello della figlia, volendo indicare nel Canto xxii del Paradiso il pianeta di Venere. Venere era considerata in principio come Dea dell'Amore, e poi le fu aggiunto per questo particolare attributo un figlio chiamato Eros dai Greci e Cupido dai Latini ; ed inoltre un corteo di tre figlie col nome a tutte comune di Càriti in greco e di Grazie in latino, e con un altro proprio e particolare a ciascuna di esse, cioè Aglaia, Talìa ed Eufrosine. Così venne a significarsi che la Bellezza, l'Amore e le Grazie avevano strettissima parentela, e che le Grazie erano il necessario complemento della Bellezza e dell'Amore. Anzi i filosofi più sapienti aggiunsero che le Grazie dovevano intervenire in tutte le consuetudini del civile consorzio ; ed uno di loro disse concisamente e con molta efficacia a un suo discepolo, ingegnoso sì ma zotico anzichè no : sacrifica alle Grazie. Così gli antichi mitologi aprirono un vastissimo campo alla immaginazione dei poeti ed alla fantasia dei pittori e degli scultori. Ma se a quasi tutte le Divinità pagane ed allo stesso Giove furono attribuiti difetti e vizii, a Venere più che mai. Cominciarono a dire che questa Dea, per la sua singolare e impareggiabil bellezza, era ambita in isposa da tutti gli Dei ; e questo è naturale e probabilissimo, e non sta di certo a disdoro di Venere ; ma poi vi aggiunsero che per voler di Giove suo padre fu data in moglie al più brutto, e che per di più era zoppo e tutto affumicato e fuligginoso per l'esercizio della sua professione di fabbro. Giove così volle premiar Vulcano di averlo aiutato efficacemente nella battaglia di Flegra fabbricandogli i fulmini con cui atterrò e vinse i Giganti. Venere non si oppose e obbedì ; ma questo matrimonio così male assortito fu causa di coniugali discordie e di scandali. Con questo vennero a significare quanto sian condannabili i matrimonii fatti per forza ed a contraggenio ; ma però si estesero tanto ad inventare aneddoti scandalosi su questo tema, che spesso deturpano le più belle poesie dei classici antichi. Perciò Ugo Foscolo nel suo Carme sui Sepolcri parlando del Petrarca, che nelle sue poesie per Madonna Laura aveva sempre adoperato un linguaggio casto e verecondo, lo encomia meritamente e lo chiama con bella perifrasi « …….quel dolce di Calliope labbro « Che Amore in Grecia nudo e nudo in Roma, « D'un velo candidissimo adornando, « Rendea nel grembo a Venere celeste. » Infatti gli antichi mitologi di più sana mente avean dovuto immaginare un'altra Venere che presiedesse all'Amor puro e casto, e la chiamaron Venere Urania, ossia Celeste, come accenna Ugo Foscolo. Quando Vulcano sposò Venere le regalò un bel cinto, che elegantemente con voce greca e latina chiamasi il cèsto. Era desso di tal ricco e mirabil lavoro che facea risaltar la bellezza e vi aggiungeva un fáscino irresistibile. E le donne antiche e le moderne ne capiron bene il significato, che cioè l'arte nell'abbigliamento favorisce la venustà, o almeno nasconde in parte i danni dell'età. Servivasi Venere del cèsto per le solenni occasioni ; e non mancò di adornarsene quando si presentò a Paride che doveva decidere chi fosse la più bella tra le Dee. Oltre Cupido, Imene e le tre Grazie si annovera tra i figli di Venere anche Enea. Cupido era creduto figlio di Venere e di Marte ; Imene e le tre Grazie di Venere e di Bacco ; ed Enea di Venere e di Anchise principe troiano. Cupido è rappresentato come un fanciulletto, grazioso in apparenza benchè maligno in effetto, colle ali d'oro, e d'oro l'arco, gli strali e la faretra ; e si aggiunge dai poeti ch'egli è cieco o bendato ; e questi son tutti simboli dell'Amore facili a spiegarsi, ed a cui si fanno interminabili allusioni in verso e in prosa. Parve strano ai mitologi ed ai poeti meno antichi che Cupido si occupasse sempre a saettar colle sue freccie uomini e donne, Dei e Dee, senza pensar mai a scegliersi una sposa per sè ; e inventarono una complicatissima favola, una specie di romanzetto all'uso di quelli delle Fate del medio evo, o delle Mille e una notti, e conclusero che dopo mille prove a cui Cupido, nascondendo l'esser suo, sottopose la curiosità e la fiducia della sua eletta, sposò finalmente e rese felice col più invidiabile degli imenei la bella e vivacissima Psiche. Psiche è parola greca che in italiano vuol dire anima. Cupido che sposa Psiche significa che l'amore è un sentimento dell'anima : ecco in due parole la spiegazione del mito. E quella graziosissima particolarità del mitologico racconto, che Cupido si rendeva invisibile a Psiche facendole soltanto sentire la sua voce, esprime filosoficamente, che questa e tutte le altre affezioni dell'anima, o vogliam dir le passioni di qualunque genere, non sono che modificazioni dell'animo stesso, ed è impossibile che abbiano realmente forme corporee, nella guisa stessa che non sono esseri di per sè esistenti le febbri, i dolori, gli starnuti, gli sbadigli, ecc., ma soltanto modificazioni più o meno morbose o moleste del nostro corpo. Psiche è rappresentata come una giovanetta delicatissima colle ali di farfalla, per alludere all'immortalità dell'anima, derivandone il concetto dalla crisalide che si trasforma in farfalla. Dante afferrò subito questa idea, e la espresse maravigliosamente in quella sublime terzina, che tutti sanno, o saper dovrebbero, a mente : « Non v'accorgete voi, che noi siam vermi, « Nati a formar l'angelica farfalla « Che vola alla giustizia senza schermi ? » L'Amore malnato e maligno era rappresentato con una farfalla tra le dita e in atto di tormentarla coll'altra mano e strapparle le ali : significazione evidente degli strazii dell'anima prodotti dalle colpevoli passioni. Imene o Imeneo, l'altro figlio di Venere era il Dio delle Nozze, o vogliam dire del Matrimonio ; ed anche in italiano si usa elegantemente il nome di imeneo per significar le nozze, ossia la celebrazione del matrimonio. Rappresentavasi come un giovane maggiore di qualche anno del suo fratello Cupido, con volto serio e riflessivo, perchè non v'è cosa più seria, e che dia più da pensare, del matrimonio ; con una face ardente nella destra, simbolo del mutuo affetto degli sposi ; e nella sinistra le auree catene a significare i vincoli e gli obblighi del matrimonio, catene, d'oro ma catene per sempre. Sino al secolo passato non celebravasi un matrimonio tra persone che sapesser leggere, che subito un poeta qualunque non componesse un epitalamio, in cui v'era sempre Imene con le catene, per rima obbligata, a unire gli sposi. Da questa mitologica frivolezza non si è ancora ben purgato neppure il nostro secolo. Le tre Grazie, di cui l'appellativo stesso spiega l'ufficio o attributo, erano rappresentate come giovanette gentili ed ingenue, nude e abbracciate amorevolmente tra loro, per indicar che le grazie debbono esser naturali e spontanee e che non hanno bisogno di stranieri o compri ornamenti ed aiuti. Qualche poeta le ricoprì d'un sottilissimo velo, per significare che debbono esser temperate e non affettate ; e perciò Ugo Foscolo nel suo delicatissimo poemetto intitolato Le Grazie, le ricuopre d'un candido velo in cui finge istoriato il mito di Psiche, per indicare che il candor dell'animo è il solo ornamento delle Grazie. Gli scultori però le rappresentano affatto nude ; e se ne vede in Siena un gruppo mirabile di greco scalpello. Di Enea figlio di Venere e di Anchise dovremo parlare a lungo nella celebre guerra dei Greci contro la città di Troia, e nelle origini mitologiche del popolo romano. Venere giovanetta uscita appena dalle onde del mare era rappresentata nuda e in una conchiglia marina, oppure, e specialmente in scultura, con un delfino ai piedi, come la Venere dei Medici che si ammira nella galleria degli Uffizi in Firenze. Ma quando era considerata come moglie e madre, dipingevasi splendidamente vestita con aurei ornamenti e col cinto donatole da Vulcano. Aveva quasi sempre presso di sè il fanciulletto Cupido e talvolta anche Imene e le Grazie. Le si dava ancora un elegantissimo carro tirato dalle colombe : il fiore a lei sacro era la rosa, l'albero il mirto. Si aggiogavano al carro di Venere le colombe, perchè sono affettuosissime e feconde ; e la favola aggiunge che erano sacre a questa Dea, perchè fu cangiata in colomba una Ninfa sua prediletta chiamata Peristeria, per un infantile vendetta di Cupido su questa Ninfa che aveva aiutato Venere a vincere una scommessa a chi coglieva più rose. La rosa erale sacra perchè per bellezza e fragranza è la regina dei fiori : il mirto perchè è una pianta che meglio vegeta intorno alle acque, dalle quali credevasi esser nata Venere. Inoltre ella produsse l'anemone trasformando in questo fiore il giovane Adone da lei favorito e protetto, e che fu ucciso nella caccia da un cinghiale. A Venere fu dedicato il venerdì ; e di Venere ebbe il nome il più bello e rilucente dei pianeti primarii, « Lo bel pianeta che ad amar conforta, » come con perifrasi mitologica lo contraddistinse Dante, alludendo agli attributi della Dea Venere. **** *book_ *id_body-2-25 *date_1874 *creator_pescatori XXIV Vulcano e i Ciclopi Tutti i poeti si accordano a rappresentar Vulcano deforme e zoppo : differiscono solo nel raccontar la causa di questi difetti della sua forma corporea, che certamente debbono apparire strani e irrazionali ed anche impossibili in una Divinità, e tanto più in un figlio di Giove e di Giunone. Ma poichè ammettevasi nella classica Mitologia una Divinità più potente di Giove, il Fato, agli inesorabili decreti del quale eran sottoposti tutti gli Dei, attribuivansi al Fato tutte le irregolarità inventate dalla fantasia dei mitologi e dei poeti. Esiodo ci dice che Vulcano nacque zoppo e deforme, che dalla stessa Giunone sua madre fu gettato giù dall'Olimpo nel mare, e pietosamente raccolto ed allevato da due Dee marine Teti ed Eurinome. Ma Omero fa raccontare a Vulcano stesso che il trattamento brutale di esser precipitato dal Cielo in Terra (per la qual caduta divenne zoppo) lo ricevè essendo già adulto, e non da Giunone, ma da Giove, poichè il poeta così introduce Vulcano a parlar colla madre : « …….Duro egli è troppo « Cozzar con Giove. Altra fiata, il sai, « Volli in tuo scampo venturarmi. Il crudo « Afferrommi d'un piede, e mi scagliò « Dalle soglie celesti. Un giorno intero « Rovinai per l'immenso, e rifinito « In Lenno caddi col cader del Sole, « Dalli Sintii raccolto a me pietosi. » Ma o prima o poi che l'infortunio accadesse, anche Omero chiama Vulcano l'inclito zoppo, e come zoppo Vulcano è conosciuto questo Nume anche dal nostro volgo ; e la fama dei suoi esterni difetti, benchè a lui non imputabili, si è maggiormente diffusa (come accade pur troppo nel mondo) ed è stata più durevole di quella dei suoi rarissimi pregi nella Metallurgia. A Vulcano infatti attribuivansi i più mirabili lavori in metallo, dal carro e dalla reggia del Sole al cinto di Venere ; e Omero aggiunge che tutti gli Dei possedevan palagi « ……che fabbricati « A ciascheduno avea con ammirando « Artifizio Vulcan l'inclito zoppo. Questo Dio è rappresentato in pittura e in scultura come un uomo robusto e con folta barba, ma non però tanto brutto quanto dicono i poeti ; e il difetto di essere zoppo da un piede è appena accennato. E per farne distinguere gli ufficii, gli pongono in mano un martello e presso a lui un'incudine, e qualcuno dei suoi più celebri lavori di metallo. Molti sono i lavori di questo Dio, descritti e celebrati dai poeti ; e di alcuni avremo occasione di parlare in appresso nel ragionar di quei personaggi per cui furono eseguiti : qui basterà soltanto accennarne due, cioè gli automi ed i fulmini. Chi ha veduto qualche automa in azione, o almeno conosce storicamente il meccanismo e gli effetti maravigliosi di queste macchine ingegnosissime, che sotto forme di uomini o di animali eseguiscono lavori e operazioni proprie soltanto degli esseri animati (e quel che è più, mirabile anche delle persone che ragionano ed hanno studiato una scienza o un'arte), non troverà tanto strano il racconto di Omero, che Vulcano avesse congegnate « …….forme e figure « Di vaghe ancelle tutte d'oro, e a vive « Giovinette simili, entro il cui seno « Avea messo il gran fabbro e voce e vita « E vigor d'intelletto e delle care « Arti insegnate dai Celesti il senno. « Queste al fianco del Dio spedite e snelle « Camminavano. » Tranne l'infonder la vera vita e l'intelligenza alla materia bruta (privilegio non accordato all'arte umana), hanno saputo i meccanici fino ab antico formare automi maravigliosi, dalla colomba volante di Archita al giuocator di scacchi del barone di Kempelen. E Omero narrandoci che quelle ancelle di Vulcano, veramente auree (perchè tutte d'oro) erano simili a vive giovinette, viene a significare che eran veri e proprii automi. Dei quali i primi tentativi dovevan risalire ai tempi di Omero, se soltanto 500 anni dopo di esso, fu così abile Archita, come si racconta, da costruire una colomba volante. Altri automi più semplici, e non di umana forma, ma non meno mirabili, descrive Omero come fatti da Vulcano : « ……..Avea per mano « Dieci tripodi e dieci, adornamento « Di palagio regal. Sopposte a tutti « D'oro avea le rotelle, onde ne gisse « Da sè ciascuno all'assemblea de'Numi, « E da sè ne tornasse onde si tolse : « Maraviglia a vederli ! » Nel medio evo, al risorger delle lettere e delle scienze, si risvegliò ancora la manìa di costruire automi ; e sappiamo che Alberto Magno fece un bellissimo androide che apriva la porta di casa a chi battesse a quella, e quando le persone entravano le salutava. Nei secoli successivi furono celebri la mosca e l'aquila volante di Regiomontano, diversi automi di Leonardo da Vinci, e specialmente il famoso leone, di cui parla anche il Vasari, le teste parlanti dell'abate Mical, il suonator di flauto di Vaucanson e l'anitra del medesimo, la quale nuotava, mangiava e digeriva ; e nel presente secolo, oltre il giuocatore di scacchi rammentato di sopra, anche il calcolatore aritmetico di Babbage. Ma questi sforzi della meccanica consumano molti anni e molti danari di persone ingegnosissime senza una pratica utilità ; pochi istanti di maraviglia, ecco tutto il fine e l'effetto ! Perciò in oggi si stimano, e sono veramente più utili gli automi che lavorano più e meglio degli uomini e risparmiano loro la fatica materiale e meccanica, come fanno le macchine da filare, da tessere, da cucire, ecc. Inoltre per bellezza e comodo si moltiplicheranno sempre gli orologi ; e si può asserire che anche i girarrosti a macchina son più utili degli automi di animali nuotanti e volanti, e degli androidi che non sanno far altro che suonare e giuocare. Parlando poi della formazione dei fulmini, dei quali gli Antichi attribuirono la costruzione meccanica a Vulcano, tanto i mitologi quanto i poeti dissero più spropositi che parole, perchè non avevano veruna idea del fluido elettrico, di questa misteriosa e tremenda forza invisibile e imponderabile della Natura, di cui la scienza è giunta in questo secolo a sapersi valere per eseguir lavori di precisione matematica e per trasmettere i concetti e i desiderii degli uomini anche agli antipodi colla velocità del lampo. Sentiamo dunque su questo proposito ciò che ne scriveva il poeta Virgilio, « Che visse a Roma sotto il buono Augusto, » e che Dante chiama suo maestro « E quel savio gentil che tutto seppe. » Nel libro viii dell'Eneide descrive prima la fucina di Vulcano coi Ciclopi suoi garzoni che lo aiutavano a fabbricare i fulmini ; e quindi enumera gli elementi o materie prime di cui li componevano : « …….Stavan nell'antro allora « Sterope e Bronte e Piracmone ignudi « A rinfrescar l'aspre saette a Giove. « Ed una allor n'avean parte polita, « Parte abbozzata, con tre raggi attorti « Di grandinoso nembo, tre di nube « Pregna di pioggia, tre d'acceso foco, « E tre di vento impetuoso e fiero. « I tuoni vi aggiungevano e i baleni « E di fiamme e di furia e di spavento « Un cotal misto. » Si vede bene che Virgilio enumera poeticamente i fenomeni fisici che accompagnano lo scoppio del fulmine ; ma non spiega in che consista il fulmine stesso, perchè nè egli, nè Dante, nè alcun dotto dell'antichità o del medio evo poteva saperlo. Avevano sì gli antichi osservato l'elettricità che si sviluppa collo strofinamento dell'ambra (dal cui greco nome di electron fu appunto denominato questo fenomeno e l'elettricità stessa), ma si fermarono per secoli e secoli a questa prima osservazione, e non andaron più oltre, lasciando ai moderni, e specialmente agli italiani, (Galvani e Volta), la gloria delle più grandi scoperte e delle più utili applicazioni della elettricità. Così la scienza moderna mandò in dileguo le fantasmagorie della immaginazione e della superstizione, e rivelò le mirabili verità delle grandi leggi della Natura. Conosciute e spiegate le favole, consideriamo l'allegoria contenuta nell'invenzione di questo Dio e de'suoi attributi. Di che era simbolo Vulcano ? Evidentemente del fuoco, senza del quale sarebbe impossibile eseguire i lavori di metallurgia. Il nome stesso latino di Vulcanus, che secondo Servio è un'abbreviazione di volicanus, s'intende che voglia significare l'agitarsi e quasi lo svolazzar della fiamma. Infatti è generalmente dagli Antichi venerato Vulcano come Dio del fuoco e del fabbrile ingegno. Il nome di Efesto che gli davano i Greci non fu adottato dai poeti latini, nè dagl'italiani ; ma il termine di Vulcano è usato figuratamente anche in prosa in ambedue queste lingue. Nelle scienze fisiche chiamansi Vulcani i monti che gettano fiamme, fumo, lava infocata, ceneri, lapilli, ecc., e vulcaniche queste eruzioni, e vulcaniche le materie eruttate. Anche i geologi seguaci della scuola di Hutton, che spiegavano, coll'ammettere l'esistenza del fuoco centrale, la formazione della maggior parte delle roccie del nostro globo, furon chiamati Vulcanisti ; e Vulcanismo dicesi ancora questo sistema di geologia, e Vulcanologia la storia e la teoria dei Vulcani. Aveva Vulcano anche un altro nome in latino. Si chiamava Mulciber (a mulcendo ferro) dall'ammollire il ferro ; e perciò potrebbe tradursi a parola il fonditore ; ma il vero fonditore è il fuoco, e non l'artefice che fa le forme e vi versa il metallo fuso e liquefatto dal fuoco. Gli si dava anche il titolo di Lemnio, derivato dall'isola di Lemno, dove cadde dal Cielo e fu amorevolmente raccolto e venerato qual Dio. Lemno era un'isola vulcanica : ecco perchè per l'appunto la favola fa cadere e adorare Vulcano in quest'isola ; e per lo stesso motivo pone le sue fucine sotto il monte Etna ed altri monti vulcanici : e quindi aggiunge che le eruzioni vulcaniche son le fiamme e le scorie di queste fucine metallurgiche, e i crateri sono i camini delle medesime. Questo si chiama esser logici nel portare l'errore sino alle ultime conseguenze ! Chi si ricorda che anche Vesta giovane era considerata come Dea del fuoco, non si dovrà maravigliare che due Divinità fossero assegnate dai mitologi a questo elemento, quando pur si rammenti che avevan fatto presiedere alla Terra tre Dee, come notammo nel N° VIII, e trovammo che ciascuna aveva speciali attributi per distinguersi dall'altra. Così distinguevano ancora il fuoco celeste dal fuoco terrestre : a quello facean presieder Vesta, e a questo Vulcano. Erravano però nel credere che il fuoco che essi chiamavan celeste fosse di natura diversa da quello terrestre, non sapendo essi che risulta egualmente da combustione o ignizione di materie più o meno infiammabili ; e soltanto gli astronomi moderni colle loro analisi spettroscopiche hanno dimostrato sinora, che nel Sole si trovano in ignizione la maggior parte delle sostanze del nostro globo ; e che le stelle non sono che altrettanti Soli generalmente molto più grandi del nostro, ma composte presso a poco degli stessi elementi. Quanto poi a quel che gli Antichi chiamavan fuoco del fulmine (ignea vis), chi non sa che si forma nell'atmosfera della nostra Terra e con elementi che provengon da questa ? e che noi possiamo riprodurre a nostro beneplacito i fenomeni del lampo e del fulmine, benchè in piccole proporzioni, colla macchina elettrica ? Passando ora a parlare dei Ciclopi, dei quali si è fatto un sol cenno col dire che tre di essi, cioè Bronte, Sterope e Piracmone aiutavano Vulcano a fabbricare i fulmini a Giove, noteremo prima di tutto l'etimologia del loro nome, che è composto di due parole greche ciclos (circolo) e ops (occhio), per indicare la straordinaria particolarità a loro attribuita di aver cioè un sol occhio circolare « Di targa e di Febea lampade in guisa « Sotto la torva fronte, » come dice Virgilio. Aggiungasi che erano di gigantesca corporatura e di forze corrispondenti alla medesima. La loro stirpe era quella stessa dei Titani, poichè credevasi che fossero figli del Cielo e della Terra, ossia di Urano e di Vesta Prisca. Uno soltanto di essi era figlio di Nettuno e della ninfa Toosa, e questi chiamavasi Polifemo (il qual greco vocabolo significa celeberrimo) ed era considerato come il re di tutti gli altri, i quali furono pochi più di cento, ma tutti feroci ed antropofagi. Abitavano in un'isola, secondo Omero, vicina alla Sicilia, e secondo altri poeti, nella Sicilia stessa. A spiegar la favola dell'unico occhio fu detto che i Ciclopi eran soliti di portare in guerra una visiera con un sol foro circolare in direzione degli occhi, uso inventato dai tre aiutanti di Vulcano per ripararsi la faccia nel lavorare i metalli incandescenti. Dal nome dei Ciclopi son derivate alcune denominazioni in Archeologia e in Zoologia. Gli archeologi chiamano ciclopiche quelle antichissime costruzioni composte di grandi massi o macigni talvolta irregolari, ma spesso ancora tagliati a poliedri regolari, e notabili inoltre per l'assenza di qualunque cemento : la loro pesante mole ne rende sicura la stabilità, e fece attribuire tali costruzioni alla gigantesca forza dei Ciclopi. Se ne trovano principalmente in Grecia e in Italia ; e le più antiche sono per lo più attribuite ai Pelasgi. In Zoologia si dà il nome di Ciclopi a un genere di Crostacei, secondo Müller, dell'ordine dei Branchiopodi, e della famiglia dei Monocoli per questa loro caratteristica di avere un sol occhio. Se ne trovano generalmente nelle acque dolci e stagnanti, e in maggiore abbondanza nelle vicinanze di, Parigi, in Svizzera e in molte parti d'Italia. **** *book_ *id_body-2-26 *date_1874 *creator_pescatori XXV Bacco I mitologi greci avevano una fantasia inesauribile per inventar cose strane e fuori dell'ordine naturale, che perciò appunto si dicono prodigiose, e più veramente favolose. Sulla nascita di Bacco venner fuori a dire ch'egli ebbe due madri. I poeti classici greci diedero perciò a Bacco il titolo di Ditirambo, e i poeti latini di Bimater, cioè figlio di due madri, che meglio direbbesi due volte nato, perchè la così detta seconda madre non era una femmina, ma un maschio. Convien dunque darne la spiegazione. Raccontano che Giunone essendosi accorta che Giove prediligeva Semele, figlia di Cadmo re di Tebe, volle vendicarsi della medesima, e trasformatasi nella vecchia Beroe nutrice di Semele, suggerì a questa di farsi promettere con giuramento da Giove di comparirle innanzi con tutta la maestà e tutti i distintivi con cui si mostrava in Cielo agli Dei. La maligna astuzia di Giunone sortì pienissimo effetto ; e Giove avendo promesso non potè mancar di parola, e comparve a Semele armato di fulmini, uno dei quali gli uscì di mano, incendiò la reggia Tebana e uccise e incenerì Semele ; e sarebbe perito del pari il non ancor nato figlio, se Giove non lo salvava supplendo all' incompleto sviluppo di esso e rendendolo vitale. Dopo di che lo consegnò alle figlie di Atlante perchè lo allevassero. Il piccolo Bacco cresceva vivace ed allegro ; ed ebbe per custode della sua giovinezza (o come ora diremmo per aio o educatore) un vecchio satiro chiamato Sileno, a cui molto piaceva il vino, e che ne istillò il gusto al suo allievo, cosa molto più facile che istillare il gusto delle belle lettere e delle scienze. E Bacco divenne il Nume protettore non solo dei viticultori e degli enologi, ma pur anco dei bevitori e dei gozzovigliatori ; e trovò facilmente adoratori devoti e ferventi non solo fra gli uomini, ma ancor fra le donne. Accompagnato da una turba magna di zelanti seguaci di ambo i sessi percorse la terra sino alle Indie, e conquistò facilmente al suo culto anche questa regione. Egli aveva sempre l'aspetto di giovane, con volto reso più rubicondo dalle copiose libazioni di vino ; in testa una corona di ellera e di corimbi, ed anche di pampini con grappoli d'uva pendenti ; in mano un tirso (cioè una verga a cui era attortigliata l'ellera, oppure i pampini) ; una pelle di tigre o di pantera gli ricuopriva in parte le membra, nude in tutto il resto ; e viaggiava in un carro tirato da animali feroci, per lo più tigri o pantere. Tutti questi distintivi ed emblemi di Bacco lo manifestano chiaramente come il Dio del vino e della intemperanza. Il volto giovanile e rubicondo, i pampini e l'uva non hanno bisogno di spiegazione ; l'ellera colla sua freschezza era stimata dagli Antichi un. sedativo ai calori ed ai fumi del vino ; e gli animali feroci significavano il furore e la brutalità cui produce l'abuso di questo liquore. Anzi per indicare non tanto la forza del vino che dà alla testa, quanto ancora l'impudenza che ne deriva in chi ne abusa, si aggiungevano sulla fronte di Bacco le corna ; e i poeti dicono che egli non sempre le portava, il che significa che non era sempre ubriaco. Coloro però che vogliono attribuir dignità o importanza a questo Dio dicono che le corna son simbolo della potenza di lui, ossia della forza del vino. Il nome stesso di Bacco, o che si faccia derivare da un greco vocabolo che significa favellare, ed accenni al vaniloquio dell'ubriachezza, o da altro termine greco significante urlare, e indichi perciò il frastuono dei gozzovigliatori, è pur sempre espressivo dei principali attributi di questo Dio. I Latini intendevano la parola Bacco in questo secondo e peggior senso, poichè ne formavano il verbo bacchari che significa infuriare, e in più mite accezione abbandonarsi a smodata allegria. In italiano poi dal nome di Bacco è derivata la parola baccano che significa rumore strepitoso e selvaggio di gente che sembra impazzata. E questo era il rumore che facevano i seguaci di Bacco, e specialmente le donne che furon chiamate Baccanti ; e in tal modo clamoroso e impudente celebravansi in Roma le feste di questo Dio che furon dette Baccanali, di cui gli eccessi giunsero anticamente tant'oltre in Roma che il Senato dovè proibirle. L'immagine e similitudine dei Baccanali si è conservata e riprodotta sino a noi nel nostro carnevale, che in altri tempi più antichi dicevasi ancora carnasciale. Nel corteo di Bacco e a celebrare i Baccanali, secondo le favole, v'era pur anco la « Capribarbicornipede famiglia » dei Satiri, come scherzevolmente, con parola significante la forma dei Satiri, la chiama il Redi ; e tra i Satiri v'era l'aio di Bacco, cioè il vecchio Sileno, che dall'essere continuamente ubriaco non reggevasi in equilibrio neppur sulla groppa del suo asinello. Ma qui cederò la parola al Poliziano, che maravigliosamente in due sole ottave di versi endecasillabi sdruccioli non solo descrive, ma dipinge il corteo di Bacco : « Vien sopra un carro, d'ellera e di pampino « Coperto, Bacco il qual duo tigri guidano ; « E con lui par che l'alta rena stampino « Satiri e Bacche ; e con voci alte gridano. « Quel si vede ondeggiar ; quei par che inciampino ; « Quel con un cembal bee ; quegli altri ridano ; « Qual fa d'un corno, e qual della man ciotola ; « Qual move i piedi in danza, e qual si ruotola. « Sopra l'asin Silen, di ber sempre avido, « Con vene grosse, nere e di mosto umide, « Marcido sembra, sonnacchioso e gravido ; « Le luci ha di vin rosse, enfiate e fumide ; « L'ardite ninfe l'asinel suo pavido « Pungon col tirso ; ed ei con le man tumide « A'crin s'appiglia, e mentre sì l'aizzano, « Casca nel collo, e i Satiri lo rizzano. » Bacco aveva diversi altri nomi e titoli. In greco chiamavasi Dionisio, parola composta da Dios, uno dei nomi di Giove suo padre, e dall'isola di Nisa o dal monte Niso, dove Bacco nacque e fu allevato. I Latini non adottarono questo nome, ma bensì l'aggettivo che ne deriva, e davano l'appellativo di Dionisie) alle feste di Bacco, che quando proruppero in eccessi ributtanti, oltre che Baccanali furono dette anche Orgie da un greco vocabolo che significa pur esso furore. Anche in italiano si dà elegantemente il nome di Orgie ai notturni stravizii di gozzoviglie e bagordi. I Latini bene spesso davano a Bacco il nome di Libero per indicare che il vino ispira libertà, ma però eccessiva, che allora equivale a licenza o impudenza. Gli altri nomi eran questi : Lenèo, Tionèo, Jacco, Bromio, Bassareo, Evio, tutti derivati dal greco, e molto in uso anche nei poeti latini, e qualcuno di questi, benchè più raramente, nei poeti italiani. Convien qui rammentare il grido di allegrezza e di evviva a Bacco, che ripetevasi frequentemente nelle feste di lui ; ed era la greca voce Evoe, che in latino s'interpreta Euge fili ! e nel nostro volgare corrisponde a Bravo figlio ! parole di approvazione e d'incoraggiamento che i mitologi suppongono dette da Giove a Bacco suo figlio, allorchè questi sotto la forma di leone combatteva contro i Giganti. La qual voce Evoe fu adottata come esclamazione e nello stesso senso tanto dai poeti latini) quanto ancora dagl'italiani, come troviamo, per esempio, nell'Orfeo del Poliziano, e nel Ditirambo) del Redi, intitolato Bacco in Toscana. Anche le Baccanti avevano altri nomi, cioè di Menadi, Tiadi, Bassaridi ; il primo dei quali significa furenti, il secondo impetuose, ed il terzo è derivato da uno degli appellativi di Bacco accennati di sopra. Le Baccanti erano rappresentate come donne furibonde colla testa alta e piegata indietro, colle chiome scarmigliate e svolazzanti, in atto di far passi concitati o salti, e perciò colle vesti che formavano obliquamente molte pieghe ; e in mano il tirso o il cembalo o il crotalo), il flauto o le nacchere ; ed anche talvolta la spada o il pugnale. Generalmente hanno pur anco il mantello o la veste di pelli di daino o di cervo, le quali pelli diconsi nebridi con voce greca adottata da alcuni poeti latini) e italiani. Cosi cantò il Chiabrera, v. 46 : « E di nebridi coperto « Nel deserto « Vo'cantar tra le Baccanti. » E il Redi nel Ditirambo di Bacco fa dire a questo Nume : « Al suon del cembalo, « Al suon del crotalo, « Cinte di nebridi, « Snelle Bassaridi, « Su su mescetemi « Di quella porpora, ecc. » I poeti pensarono ancora a dar moglie a Bacco, e inventarono un modo sbrigativo, franco e alla buona, senza tante sicumere e accordature d'orchestra. Finsero che Bacco nei suoi viaggi di proselitismo enologico avesse trovato nell'isola di Naxo Arianna figlia di Minos re di Creta, abbandonata dal perfido Teseo che a lei doveva la sua salvezza dal labirinto e dal Minotauro. Quel Nume gioviale e nemico della malinconia la consolò subito facendola sua sposa e conducendola sempre seco in continua festa ed allegria. Arianna (per chi non lo sapesse) significa molto piacente ; e Bacco a cui piaceva il bello ed il buono se ne trovò molto contento, e le regalò come dono nuziale una preziosissima corona d'oro e di gemme, opera egregia di Vulcano, la quale poi fu cangiata in una costellazione che porta ancora il nome di corona di Arianna. Tre figli nacquero da questo matrimonio di Bacco, ed ebbero nomi relativi alla vite, all'uva ed al vino, cioè Evante, che significa fiorente ; Stafilo, nome derivato da staphis che era una specie di vite e d'uva anticamente chiamata stafusaria ; ed Enopio, che vuol dire bevitor di vino. Si attribuivano a Bacco diversi miracoli. Cangiò in delfini alcuni marinari che si opponevano al suo culto. Fece sì che Licurgo, re di Tracia, il quale aveva ordinato che si tagliassero tutte le viti dei suoi Stati, nel volerne recidere alcune di propria mano si tagliasse da sè stesso le gambe. Penteo re di Tebe che voleva abolire il culto di Bacco fu ucciso dalla propria madre Agave, che insieme con altre Baccanti venuta in furore lo aveva creduto una fiera ; e questa favola contiene il più grande esempio degli eccessi a cuipuò condurre l'ubriachezza. Le figlie di Mineo re di Tebe, conosciute comunemente col patronimico di Mineidi, ricusando di prender parte alle feste di Bacco per attendere alla loro occupazione di tesser le tele, fu detto che furono cangiate in vipistrelli) e i loro telai in ellera per castigo del disprezzo mostrato pel culto di Bacco. Fu poi generosissimo co'suoi devoti cultori, ma i suoi doni erano pericolosi per la sovrabbondanza stessa con cui li accordava, talchè divenivano facilmente dannosi, come avvenne a Mida figlio di Gordio re dei Frigii. Avendo questo re lietamente e sontuosamente accolto in ospizio Bacco con tutto il suo corteo, gli fu data in premio dal Nume la facoltà di scegliere un dono di suo piacere. Mida, che era avarissimo, chiese di poter trasformare in oro tutto ciò che toccava, e Bacco gliel'accordò ; ma presto egli ebbe a pentirsi di avere ottenuto una tal grazia, poichè quando si pose a mensa trovò con suo grande spavento che si cangiavano in solido oro non solo i vasellami e le stoviglie che egli toccava, ma pur anco tutti i cibi e le bevande che mettevasi in bocca, e presto sarebbe morto di fame in mezzo all'oro, se non avesse ottenuto da quel Nume benigno la cessazione di sì funesto dono. Bacco gli ordinò di lavarsi nel fiume Pattolo ; e i poeti aggiunsero che le acque di quel fiume contrassero in parte la proprietà che Mida perdè, trasportando nella loro corrente alcune pagliuzze o arene d'oro. Così sostituirono un miracolo mitologico al miracolo fisico della natural formazione delle pepiti e delle auree vene nel sen della terra. Questa favola di Mida fu raccontata dall'Alighieri nel Canto xx del Purgatorio, in quel cerchio ove son puniti gli avari : « E la miseria dell'avaro Mida « Che seguì alla sua dimanda ingorda « Per la qual sempre convien che si rida. » Ma non meno risibile divenne Mida, allorquando Apollo gli fece crescere le orecchie d'asino per aver giudicato bestialmente che all'armonia dell'apollinea cetra fosse preferibile il suono della rusticana sampogna del Dio dei pastori. Come si usa poeticamente per metonimia il nome di Cerere a significare il grano ; di Minerva o Pallade, la sapienza ; di Marte, la guerra, ecc. ; così il nome di Bacco ad indicare il vino. E Bacco in origine era simbolo soltanto del vino ; ma dopo tutte le favole che si raccontarono di lui, e specialmente dopo i fatti storici pur troppo veri degli stravizii ed eccessi dei Baccanali in onore di questo Dio, il nome di Bacco fu adoprato ancora come sinonimo di crapula e di gozzoviglia. In questo senso l'usò anche il Petrarca in uno dei suoi più celebri sonetti : « L'avara Babilonia ha colmo il sacco « D'ira di Dio, e di vizii empi e rei « Tanto che scoppia ; ed ha fatti suoi Dei « Non Giove e Palla, ma Venere e Bacco. » Alcuni mitologi antichi confusero Bacco con Apollo, cioè col Sole, o almeno lo fecero suo compagno ed amico ; e questi mi sembrano più ingegnosi e più filosofi naturali che gli altri. Imperocchè poco vale il piantare e il coltivar le viti dove i raggi del Sole non conducono le uve a maturità e non ne cangiano in vino il primitivo acido umore. Il regno di Bacco è finito dove Febo non lo favorisce colla forza dei suoi raggi calorifici e chimici. Testimoni i Germani, i Batavi, i Britanni e gli Sciti, e in una parola tutti i popoli nordici, bevitori di cervogia ossia birra, odiosissima a Bacco. Tutti seppero e sanno, e gli antichi e i moderni, o storicamente o per pratica che le uve non maturano nei luoghi freddi ed esposti al nord, e generalmente in nessuna posizione ed esposizione al di là del grado 50 di latitudine). Tutti hanno riconosciuto e riconoscono indispensabile l'azione del Sole sulle uve per renderle atte a produrre il vino ; ma Dante fu il primo a indicare come questa azione si esercita e compiesi. Egli dice nel Canto xxv del Purgatorio : « Guarda il calor del Sol che si fa vino, « Misto all'umor che dalla vite cola. » Lo stesso Galileo 300 anni dopo non aggiunse nulla di più alla formula di Dante col dire che il vino è un composto di umore e di luce. Il celebre Magalotti, relatore delle esperienze dell'Accademia del Cimento, in una delle sue lettere scientifiche (lettera 5ª a Carlo Dati), intese di dare la spiegazione di questo fenomeno con una ipotesi, alla quale allude il Redi nel Bacco in Toscana, parlando del vino : « Sì bel sangue è un raggio acceso « Di quel Sol che in Ciel vedete, « E rimase avvinto e preso « Di più grappoli alla rete. » Ma la chimica soltanto colla teoria delle trasformazioni per mezzo della luce, del calorico e della elettricità può darne la più razionale e probabile spiegazione. Quasi tutti i poeti lodano il vino ; ed anche gli astemii se ne fingono amantissimi : vale a dire adottano e celebrano, come è uso dei più, gli errori e le fantasie popolari predominanti. Il vino (come dice il proverbio) è un balsamo per chi sa usarne temperatamente e secondo il bisogno) ; ed è un veleno per chi ne abusa : oltre al nuocere alla salute, scorcia la vita, e istupidisce e degrada le facoltà intellettuali e morali. **** *book_ *id_body-2-27 *date_1874 *creator_pescatori XXVI Nettuno re del mare e gli altri Dei marini Gli Antichi non conoscevano neppure la decima parte della estensione del mare e neppur la parte millesima delle maraviglie che esso racchiude nel suo seno. Ma quanto erano scarsi di cognizioni positive e scientifiche, altrettanto erano ricchi di fantasia e d'invenzione. E non è necessario di aver scoperto come Balboa dall'alto delle Ande il grande Oceano equinoziale per esser compresi di maraviglia all'idea dell'Immenso e cader prostrati a terra, com'esso, o almeno « Colle ginocchia della mente inchine » come diceva il Petrarca ; ma basta l'essersi trovato o di giorno o di notte, « O quando sorge o quando cade il die » in mezzo olle onde dove non apparisce più terra alcuna e null'altro vedesi che Cielo ed acqua), per sentirsi intenerito il core) e rapita in estasi l'immaginazione). Non deve dunque recar maraviglia che i Pagani i quali avevan popolato di Dei il Cielo e la Terra personificando gli oggetti creati e i fenomeni naturali, avesser fatto altrettanto nel mare. E quantunque non conoscessero in tutta la loro estensione che i principali mari interni di quello che ora chiamasi il Mondo antico, avevan però un'idea generale dell'Oceano che cinge da tutte le parti la Terra, e perciò lo chiamavan circumvagus, ossia che gira all'intorno, perchè vedevano da ogni parte dove finivan le terre da loro conosciute, una immensa e per loro incommensurabile estensione di onde salse, ove andavano a gettarsi le acque di tutti i più grandi fiumi. Cominciarono dunque dal divinizzare l'Oceano stesso come avevano divinizzato il Cielo sotto il nome di Urano, e la Terra sotto il nome di Vesta Prisca o di Cibele. L'Oceano fu dunque considerato come il più antico degli Dei marini, perchè era il mare stesso, come Urano il più antico degli Dei celesti, perchè era lo stesso Cielo. Quindi non solo i poeti greci e i latini, ma pur anco gl'italiani lo invocano come un Nume. Anche il fiorentino poeta Alamanni, il celebre autore della Coltivazione, amantissimo della libertà della patria, che fu in quel tempo oppressa dai Medici, in un suo sonetto prega il padre Oceano, che rammenti « All'onorato suo figliol Tirreno, » che si svegli omai ; ma il Tirreno e l'Arno, non men che gli altri mari e fiumi d'Italia dormirono per più di trecento anni ! Abbiamo detto altra volta (V. il N. XI) che agli Dei davasi il titolo di Padre in segno di affettuosa venerazione ; e l'Oceano lo merita al par di Giove, e pei grandi benefizii che arreca agli uomini colle innumerevoli e maravigliose produzioni ; ed anche, secondo la Mitologia, pel gran numero dei suoi figli, che Esiodo fa ascendere a 6000 ; cioè 3000 fiumi e 3000 ninfe Oceanine. La sua moglie che l'arricchì di sì numerosa prole era Teti), dea marina anch'essa, ben diversa però dalla Ninfa Teti, madre di Achille. Secondo Omero, l'Oceano ha il suo palazzo nelle acque del mare agli estremi confini delle Terra, e questo palazzo, secondo altri poeti, è d'oro. Ma quantunque l'Oceano sia venerato come il più antico Dio marino, non ha peraltro l'impero assoluto del mare, che toccò in sorte a Nettuno fratello di Giove, dopo la guerra contro i Giganti, alla quale l'Oceano non prese parte. Il nome di Nettuno, dio e re del mare deriva, come dice Varrone, da un verbo latino (nubere), che significa velare o cuoprire, perchè il mare ricuopre la maggior parte (precisamente tre quarti) della superficie terrestre). In greco chiamasi Poseidon, che direbbesi in italiano Posidone e significa spezza navi, nome poco o nulla usato, per quanto io mi ricordi, dai poeti latini e italiani. Le statue di questo Dio si vedono in molte fonti pubbliche e private ; e la più celebre come opera d'arte è quella di Giovan Bologna in Bologna ; ed una delle più goffe è quella dell'Ammannato nella fonte di Piazza della Signoria di Firenze). Ma tutte presentano presso a poco gli stessi emblemi o distintivi ; il più caratteristico dei quali è il tridente, che consiste in una forca con tre corni o punte ; ed è questo il potente scettro di Nettuno col quale comanda ai flutti e scuote la Terra cagionando terremoti). Ha in testa una corona d'alghe o altre piante marine, e sta in una gran conchiglia posta sopra un carro tirato da quattro cavalli marini attaccati di fronte. I Romani avanti la prima guerra punica poco lo consideravano ed adoravano come Dio del mare, ma più generalmente, a tempo di Romolo, come Dio del consiglio sotto il nome di Conso, e in appresso anche come protettore dei cavalli e dei cavalieri col titolo di Nettuno equestre, alludendosi alla favola che questo Dio nella gara con Minerva per dare il nome alla città di Cecrope avesse prodotto il cavallo. Ma quando P. Scipione Africano partì dalla Sicilia andando con una flotta a fiaccare in Affrica la potenza cartaginese, fece dall'alto della nave una pubblica preghiera a tutti gli Dei e le Dee del mare, come lo stesso Tito Livio riferisce nella sua Storia, trascrivendo o componendo di suo le solenni frasi rituali. Se non è bene che l'uomo sia solo sulla Terra, vale a dire senza aver moglie e famiglia, sarà questo non men vero nel Mare ; e se il matrimonio può convenire in generale a qualunque privato, tanto più conviene a un re, e specialmente a un re assoluto che è padrone di tutto), e a cui non può mancar mai un lauto trattamento per una numerosa famiglia. Perciò Nettuno si risolse ben presto a prender moglie ; e scelse per sua sposa la dea Amfitrite, figlia di Nereo e di Dori, e quindi nipote dell'Oceano e di Teti. Da prima pareva che Amfitrite acconsentisse a questo matrimonio, ma poi avendo cangiato di avviso, Nettuno le mandò due eloquentissimi delfini a persuaderla ; i quali adempiron così bene la loro commissione, che condussero seco, portandola alternativamente sul loro dorso, la sposa a Nettuno ; ed egli per gratitudine li trasformò nella costellazione dei Pesci, che è uno dei dodici segni del Zodiaco. Da questo matrimonio nacque il Dio Tritone che fu lo stipite delle diverse famiglie e tribù dei Tritoni, i quali formarono il corteggio e la guardia d'onore delle principali divinità marine. Amfitrite è nome di greca origine che significa romoreggiante o corrodente all'intorno, e sta ad indicare i flutti marini e gli effetti di essi sui lidi : etimologicamente è un quid simile dell'Oceanus circumvagus dei Latini. È rappresentata questa Dea come un'avvenente giovane con una reticella da capelli che le cinge la testa, – probabilmente a significare la pesca colla rete. Le si dà ancora un carro a conto suo, simile a quello di Nettuno, con un particolar corteo di Ninfe e di Tritoni. I nomi di ambedue queste Divinità (Nettuno e Amfitrite) significano per metonimia il mare, nelle lingue greca e latina ; ma nell'italiana si preferisce il nome di Nettuno. Dante, nel Canto xxviii dell'Inferno, rammentò questo Dio nel senso mitologico e figurato : « Tra l'isola di Cipri e di Maiolica « Non vide mai sì gran fallo Nettuno, « Non da pirati, e non da gente Argolica ; » per dire che non fu commesso mai prima d'allora nel mar Mediterraneo un sì orribil delitto. Gli astronomi diedero il nome di Nettuno al più lontano pianeta del nostro sistema solare, preconizzato da Leverrier dietro le osservazioni ed i calcoli sulle perturbazioni di Urano, e veduto per la prima volta da Galle a Berlino il 23 settembre 1846. E coerentemente al nome mitologico, il simbolo o segno astronomico di questo pianeta è un circolo sormontato da un piccolo tridente. Nella nautica si chiamano Nettuni le collezioni di carte nautiche ; la qual denominazione mitologica è analoga a quella che fece chiamare Atlanti le collezioni delle carte geografiche. In geologia dicesi Nettunismo il sistema geologico che attribuisce la formazione della maggior parte delle roccie del nostro globo all'azione dell'acqua ; Nettuniani gli stessi depositi di precipitazione, e Nettunisti i seguaci di questa ipotesi. Anche la moglie di Nettuno ebbe onori celesti dagli astronomi, i quali diedero il nome di Amfitrite al 29° pianeta telescopico scoperto da Marth il 1° marzo 1854. E Cuvier assegnò il nome di Amfitrite a un genere di Annelidi della famiglia dei Tubicoli, che abitano in tubi leggieri che questi animali si fabbricano da sè stessi e seco trasportano. Tra questi si distingue pe'suoi diversi colori l'Amfitrite dorata (Amphitrite auricoma). I Tritoni eran creduti e rappresentati mezzi uomini e mezzi pesci ; di figura umana dai fianchi in su, e in tutto il resto pesci. La loro occupazione era quella di tenere allegre le Divinità del mare (come i Satiri le terrestri Divinità) e di suonar la tromba marina), che era una conchiglia ritorta simile a quelle dette volgarmente nicchie, che orridamente suonano i nostri zotici Eumei alle mandre suine. Forse i Tritoni avran saputo trame più dolci suoni ; ma, comunque ciò fosse, questo strumento è il distintivo per cui riconosconsi i Tritoni stessi nelle opere d'arte. Si sottoscrivono a questa favola anche i naturalisti, poichè hanno dato il nome di Tritone a un genere di molluschi gasteropodi che formano conchiglie talvolta grandissime, e che si trovano nella maggior parte dei mari. Convien qui rammentare principalmente quella conchiglia che i naturalisti dicono Tritone smaltato (Triton variegatus) e che volgarmente chiamasi tromba marina o conchiglia di Tritone ; e di queste alcune son lunghe sino a 60 centimetri. Trovasi chiamata scientificamente Tritone anche la salamandra aquatica ; e Tritoniani furon detti da alcuni geologi quei terreni che sono stati formati nelle acque marine, o anticamente o modernamente. Turbe infinite di Ninfe o Divinità inferiori popolavano ed abbellivano, nella fantasia dei poeti, le onde del mare ; e ce le dipingono come vaghe e snelle giovinette con lunghe chiome (per lo più verdi)), sciolte sulle spalle e grondanti acqua, perchè per lo più queste Ninfe nuotano nelle onde e tra i flutti come le folaghe procellarie ; tal'altra cavalcano un pesce e fanno una regata di nuovo genere che niun mortale vide giammai ; e spesso sono accompagnate dai Tritoni che fanno lazzi e salti, e suonano la tromba marina per divertirle. Queste Ninfe eran distinte in tre classi : Oceanine, o Oceanitidi, Doridi e Nereidi. Le Ninfe Oceanine, così chiamate perchè figlie dell'Oceano e di Teti, erano, secondo Esiodo, 3000 ; e solamente di 41 ce ne dice il nome, di cui farò grazia al lettore, riserbandomi a nominarne qualcuna a tempo e luogo, quando cioè converrà raccontare che prese marito e fu madre di qualche altra Divinità. Doridi e Nereidi son nomi patronimici di quelle Ninfe che eran figlie di Dori e di Nereo. Queste Ninfe, che eran qualche centinaio, hanno or l'uno or l'altro nome, cioè di Doridi derivato dalla madre, o di Nereidi dal padre ; ma il secondo è il più comunemente usato dai poeti, i quali annoverano fra le Nereidi la stessa Amfitrite moglie di Nettuno e la ninfa Teti madre di Achille. I naturalisti peraltro applicano distintamente ed arbitrariamente queste due denominazioni a due diverse specie di animali marini : chiamano Doridi un genere di molluschi gasteropodi della famiglia dei nudibranchi ; e danno il nome di Nereidi a quelle che volgarmente diconsi Scolopendre di mare. Ai naturalisti, per quanto pare, è molto piaciuto questo nome mitologico di Nereidi, poichè si trova che più e diversi di loro lo hanno assegnato (al solito con qualche aggettivo di specificazione) a molti generi e famiglie di Annelidi e simili animali marini. Oltre le Divinità native o indigene, ammettevano nel mare i mitologi anche qualche Divinità avventizia o ascitizia, vale a dire trasumanata) dalla mortal condizione e natura. Tra queste convien rammentare la dea Leucotoe, il dio Palemone e il dio Glauco. La dea Leucotoe era in origine la regina Ino moglie di Atamante re di Tebe ; e il dio Palemone il suo piccolo figlio chiamato Melicerta. Dal colmo-della sventura sofferta per l'odio e le persecuzioni di Giunone (nemica acerrima di quella regia famiglia, perchè vi apparteneva Semele madre di Bacco amata da Giove), passarono ambedue all'apoteosi per compassione delle benigne Divinità marine. Ma lasciamo raccontare a Dante la sventura di questa famiglia ; e poi poche altre parole basteranno a compir la narrazione del mito. « Nel tempo che Giunone era crucciata « Per Semelè contra 'l sangue tebano, « Come mostrò già una ed altra fiata, « Atamante divenne tanto insano, « Che veggendo la moglie co'due figli « Andar carcata da ciascuna mano « Gridò : tendiam le reti sì ch'io pigli « La lionessa e i lioncini al varco : « E poi distese i dispietati artigli « Prendendo l'un ch'avea nome Learco, « E rotollo e percosselo ad un sasso ; « E quella s'annegò con l'altro incarco ». E l'altro incarco era l'altro figlio chiamato Melicerta ; e la favola aggiunge che invece di annegarsi divennero la Dea Leucotoe e il Dio Palemone. Ora è da notarsi che gli Antichi fecero presiedere Leucotoe (chiamata dai Romani anche Matuta) alla calma del mare, e Palemone ai porti (e perciò fu chiamato anche Portunno). E fu saggio consiglio l'affidar la protezione dei naviganti e le due cose più da loro desiderate, cioè la calma del mare ed il ritorno in porto, a due Divinità che avevan provato le più terribili procelle di questo mare infido della vita. Di Glauco poi raccontano uno dei più strani e singolari miti, unico nel suo genere ; e di cui nulladimeno seppe valersi Dante come di similitudine per dare idea di uno dei suoi più straordinarii e sublimi concetti. La favola è questa : Glauco era un pescatore della Beozia, il quale un giorno si accorse che i pesci da lui pescati e deposti in terra sopra l'erba, gustando di quella prendevano un nuovo vigore e quasi una nuova vita, e spiccando un salto ritornavano in mare. Volle provare anch'egli a gustar di quell'erba, che subito gli fece lo stesso effetto, e sentendosi spinto e sollevato da forza soprannaturale, si trovò in un istante senza avvedersene in mezzo al mare, accolto dalle Divinità marine e trasformato in un Dio protettore della navigazione. Gli fu conservato il nome di Glauco che significa verde-azzurro, bene adatto ad indicare il colore che riflettono le onde del mare. Dante volendo raccontare che egli nell'ascendere al Cielo con Beatrice si sentì trasumanato e sospinto da forza soprannaturale verso il Cielo, ed in sì breve tempo, « ….. in quanto un quadrel posa « E vola, e dalla noce si dischiava, » trovò a proposito di citar l'esempio di Glauco per offrirci qualche immagine più sensibile del suo concetto : « Nel suo aspetto (di Beatrice) tal dentro mi fei « Qual si fe Glauco nel gustar dell'erba, « Che il fe consorto in mar cogli altri Dei ». Proteo, secondo gli antichi Mitologi, era figlio dell'Oceano e di Teti, ed avea per ufficio di condurre a pascer le mandre di Nettuno, che erano composte principalmente di orche, di foche e di vitelli marini. A questo Nume costituito in sì umile ufficio attribuirono una prerogativa degna dei più grandi Numi e dello stesso Giove, quella cioè di prevedere il futuro ; ed inoltre di poter prendere qualunque forma che più gli piacesse. Vi aggiunsero ancora una sua stranezza, che egli cioè non volesse presagire il futuro se non costretto, e che per esimersene si trasformasse in mille guise ; ed inventarono che bisognava legarlo mentre dormiva per costringerlo a dare i responsi, perchè allora, per quanto si sbizzarrisse a trasformarsi, se finalmente voleva riprender la primitiva sua forma e figura di Nume, trovavasi come prima legato, ed era costretto a rispondere veracemente alle domande che gli erano fatte. Questo mito racchiude molte importanti verità e molti utili insegnamenti. Proteo che si trasforma in tutti gli esseri, ossia corpi dei tre regni della Natura, rappresenta la materia che prende tutte le forme, la qual materia perciò con allusione mitologica elegantemente è chiamata proteiforme. Proteo conosceva qualunque segreto degli Dei e ciò che fosse utile o dannoso ai mortali, ma per rivelarlo ad essi bisognava che vi fosse costretto : così la materia contiene in sè tutti i segreti della Natura, ossia le leggi che regolano il mondo fisico, ma non le rivela, se non costretta. Il modo di costringer Proteo era quello di legarlo ; ed egli allora prendeva successivamente tutte le più strane forme, ma finalmente ritornava in quella primitiva, e allora rendeva all'interpellante la desiderata risposta. Così la materia è tenuta avvinta coll'assidua osservazione dei fenomeni e colle reiterate esperienze, e quando essa, dopo aver subìto tutte le fasi dell'analisi e della sintesi, ritorna nella forma primitiva, rivela allora il segreto richiestole. E come non bisognava stancarsi ad aspettare, se Proteo con una lunga serie di trasformazioni tardasse a riprender la sua prima figura, così conviene che gli studiosi non si stanchino dal proseguir lungamente le loro osservazioni ed esperienze, se voglionc scuoprire i segreti, ossia le leggi della Natura. **** *book_ *id_body-2-28 *date_1874 *creator_pescatori XXVII I Mostri marini Mitologici e Poetici Distingueremo subito i mostri marini che avevano in parte figura umana da quelli che erano soltanto animali marini di orribili forme. Tra i primi convien rammentare le Sirene, Scilla e Cariddi. I secondi appartenevano generalmente ai cetacei, o come direbbesi volgarmente alle diverse specie delle balene. Le Sirene, credute figlie del fiume Acheloo e della ninfa Calliope, erano rappresentate dalla testa ai fianchi come donne e nel rimanente del corpo come mostruosi pesci con doppia coda. Oltre al dire che erano bellissime, aggiungevano i mitologi ed i poeti, che esse cantavano dolcissimamente, e suonavano egualmente bene diversi strumenti musicali ; e dimorando nel mar Tirreno fra la Sicilia e l'Italia meridionale attraevano col canto e col suono i naviganti, per avere il barbaro diletto di annegarli nel mare o di divorarseli. Ed asserivasi che per quanto le prossime coste dell'Italia e della Sicilia biancheggiassero di ossa umane delle vittime delle Sirene, pur non ostante chi udiva anche da lontano il loro canto non poteva resistere alla tentazione di avvicinarsi a loro per udirle meglio, e non pensava più alla trista fine inevitabile che lo attendeva. Da circa 3000 anni quasi tutti i poeti, incominciando da Omero, ed incluso anche Dante, hanno parlato delle Sirene ; e raccogliendone tutte le descrizioni e le allusioni se ne formerebbe un volume. Omero inventò che Ulisse, volendo udire il canto delle Sirene e schivare qualunque pericolo, si fece legare all'albero della nave, avendo otturate prima le orecchie colla cera ai suoi compagni, e detto loro qual direzione tener dovessero per non accostarsi troppo agli scogli ov'esse abitavano. Dante poi ha trovato il modo di parlarne anche nel poema sacro della Divina Commedia. Nel Canto xix del Purgatorio immagina di aver fatto un sogno, nel quale, per quanto parvogli, una donna « Io son, cantava, io son dolce sirena « Che i marinari in mezzo al mar dismago, « Tanto son di piacere a sentir piena. « Io volsi Ulisse dal suo cammin vago « Al canto mio ; e qual meco s'aùsa « Rado sen parte, sì tutto l'appago. » Con questi detti della Sirena, il poeta ce la rappresenta come l'immagine del vizio che alletta « Col venen dolce che piacendo ancide. « Ma così tosto al mal giunse lo empiastro, » in quanto che subito dopo soggiunge : « Ancor non era sua bocca richiusa, « Quando una donna apparve santa e presta « Lunghesso me per far colei confusa. » E questa donna santa era la Virtù, che stracciando le pompose vesti che cuoprivano quella immagine del vizio, ne mostrò a Dante la turpitudine, « E lo svegliò col puzzo che n'usciva. » Nè al divino Alighieri bastò riferire la lezione di morale che immaginava di aver ricevuta in sogno, ma volle che gliela commentasse il suo duca, signore e maestro, Virgilio : « Vedesti, disse, quell'antica strega « Che sola sovra noi omai si piagne ? « Vedesti come l'uom da lei si slega ? « Bastiti, e batti a terra le calcagne ; « Gli occhi rivolgi al logoro che gira « Lo rege eterno con le rote magne. » I mitologi pretendevano ancora di sapere i nomi delle Sirene, e ne rammentano tre, cioè Lisia, Leucosia e Partenope ; ed aggiungono che la sirena Partenope andò a morire sulla costa del Tirreno dove fu poi fabbricata una città che in memoria di lei ebbe il nome di Partenope o Partenopea, e che in appresso rifabbricata fu detta, come dicesi ancora, Napoli, che significa città nuova. Scelsero egregiamente gli Antichi per soggiorno delle Sirene un clima incantevole bene adattato agli attributi che a queste assegna la favola. Il nome di Sirena è usato figuratamente a significare ' allettamento ai piaceri e ai divertimenti ; e Orazio in uno di quei momenti in cui indossava la ruvida veste dello stoico e del moralista, lasciando quella effeminata, e per lui più abituale, dell'epicureo, chiama Sirena anche la pigrizia e l'infingardaggine, ossia il dolce far nulla degli Italiani. Alcuni naturalisti (specialmente fra gl'Inglesi) danno ancora il nome di Sirene ai cetacei erbivori, detti comunemente Lamentini (Manatus), che formano la transizione fra le balene e le foche, e la cui forma, nelle parti superiori del corpo, si discosta meno di quella degli altri cetacei dalla figura umana, mentre poi vanno a finire in una coda orizzontale, come una gran parte dei pesci. Da sì lieve causa e somiglianza, che doveva sembrare anche più grande alla robusta e sbrigliata immaginazione degli Antichi, ebbe origine la favola delle Sirene, abbellita dall'arte dei poeti nel modo che abbiam detto. Non si può parlar di Scilla senza che ricorra alla mente anche Cariddi, essendo questi due termini collegati fra loro nel detto proverbiale : trovarsi fra Scilla e Cariddi, e collocati fronte a fronte geograficamente. La favola dice che Scilla era figlia di Forco divinità marina e di Ecate dea infernale, e che in origine era bellissima, ma poi per gelosia di Amfitrite, o, secondo altri, della maga Circe, fu cangiata in un orribile mostro con 6 teste e 12 braccia, e di più alla cintura una muta di cani latranti. Cariddi poi, benchè creduta figlia di Nettuno e di Gea, ossia della Terra, fu detto che si dilettava di assaltare i passeggieri e i naviganti, e di annegarli nel mare ; e che, fulminata da Giove, cadde nello stretto o faro di Messina, e vi formò una pericolosa voragine. La geografia ci dice che Scilla è una scogliera sulla costa della Calabria ulteriore I, ove le onde si frangono romoreggiando con un suono che sembra un latrato : quindi la favola dei cani alla cintura di Scilla ; e che Cariddi è un vortice poco distante, sulla opposta costa di Sicilia presso il faro di Messina. L'antico volgo esagerò i pericoli che v' erano a passar lo stretto fra Scilla e Cariddi ; e i poeti, incominciando da Omero, abbellirono con straordinarie invenzioni favolose le fantastiche ed esagerate paure del volgo. E poichè stimavasi difficile schivare l'un pericolo senza incappare nell'altro, ne derivò il proverbio : trovarsi fra Scilla e Cariddi. Se qualche pericolo v'era anticamente, o perchè il vortice e i flutti fossero più impetuosi, o per la imperizia degli antichi navigatori, certo è però che nei tempi moderni nessun più ne teme, anzi di pericoli non se ne parla nemmeno. Dante rammenta Cariddi, non già secondo la favola, ma secondo la geografia, come un vortice, qual è veramente, prodotto da due opposte correnti di acqua del mare : « Come fa l'onda là sovra Cariddi, « Che si frange con quella in cui s'intoppa, « Così convien che qui la gente riddi. » Passando ora a parlare dei mostri marini che erano soltanto animali viventi nel mare, e le cui specie son tuttora esistenti, convien notare primieramente che gli Antichi davano loro il nome generale di Orche ; e quanto meno ne conoscevano la struttura e gl'istinti, con tanto maggior sicurezza lavoravano di fantasia. Perciò supposero che fossero animali carnivori che divorassero gli uomini e tanto più volentieri le donne ; e credettero che talvolta uscisser dal mare, e sulle terre vicine facessero stragi e devastazioni. Tali ci furon descritte le più terribili Orche dagli antichi poeti, quella cioè che devastò la Troade ai tempi dello spergiuro Laomedonte, e l'altra da cui Perseo liberò Andromeda : e di queste dovremo parlare lungamente a suo tempo. Per altro si capisce che quelle così terribili Orche non erano altro che Balene. Ma oggidì può chiunque sa leggere sapere dai libri di Storia Naturale, o aver sentito raccontare da chi li ha letti, che la vera e propria Balena, senza pinna dorsale e con due sfiatatoi, mentre è il più grosso degli animali viventi, non è vero che sia un animale carnivoro, perchè i suoi stromenti masticatorii sono atti appena a maciullare una meschina aringa, e il suo esofago non è più largo di 4 pollici inglesi, ossia dieci centimetri circa ; e quindi non può trangugiare nè uomini nè donne e neppure un bambino appena nato : di fatti suo cibo prediletto sono i molluschi del genere Clio Borealis, non più grossi di un dito, non più lunghi di 2 pollici. Inoltre la Balena con tutta la sua gigantesca statura, che quando alza l'enorme sua testa perpendicolarmente fuori dell'acqua, l'illuso marinaio la crede uno scoglio ; e per quanto sia straordinaria e tremenda la sua forza, che quando flagella furiosamente le onde colla potente sua pinna produce una piccola tempesta e ne rimbomba il suono per le solitudini dell'artico Oceano come il romor del cannone, pur tuttavia ben lungi dall'avere spiriti guerreschi e sanguinarii, è assolutamente priva di coraggio ; per cui se anche un uccelletto marino le si posa sul dorso, le cagiona grande inquietezza e paura. Queste e simili notizie sulle Balene non potevano averle non solo i più antichi mitologi greci e latini, ma non le avevano neppure i poeti classici e i dotti del secolo di Augusto, e neppure lo stesso Plinio il Naturalista che morì l'anno 79 dell'era cristiana il 2° giorno della prima eruzione del Vesuvio. E quantunque i poeti che scrissero dopo le prime spedizioni dei Baschi alla pesca delle Balene, e dopo la scoperta dell' America dovessero saperne molto più degli Antichi, continuarono non ostante ad imitare le loro fantasticherie e a gareggiare con loro nelle invenzioni e nelle descrizioni di immaginarii mostri marini. Tra i più eccellenti poeti d'ingegno divino e di mirabile fantasia l'Ariosto principalmente si dilettò di questo genere d'invenzioni ; e nel suo poema dell' Orlando Furioso troviamo Cetacei a dovizia : « Pistrici, fisiteri, orche e balene « Escon dal mar con mostruose schiene. » E tra queste descrive il poeta più particolarmente « …… una balena, la maggiore « Che mai per tutto il mar veduta fosse : « Undici passi e più dimostra fuore « De l'onde salse le spallacce grosse : « Caschiamo tutti insieme in uno errore, « (Perch'era ferma e giammai non si mosse), « Ch'ella sia un'isoletta ci credemo ; « Così distante ha l'un dall'altro estremo. » Mirabile è poi sovra le altre la descrizione del modo con cui Orlando libera Olimpia dall' Orca che stava per divorarla : « Tosto che l'Orca s'accostò, e scoperse « Nel schifo Orlando con poco intervallo, « Per inghiottirlo tanta bocca aperse, « Ch'entrato un uomo vi saria a cavallo. « Si spinse Orlando innanzi, e se gl'immerse « Con quell'àncora in gola, e, s'io non fallo, « Col battello anco ; e l'àncora attaccolle « E nel palato e nella lingua molle. « Sì che nè più si puon calar di sopra, « Nè alzar di sotto le mascelle orrende. « Così chi nelle mine il ferro adopra, « La terra, ovunque si fa via, sospende, « Che subita ruina non lo cuopra, « Mentre mal cauto al suo lavoro intende. « Da un amo all'altro l'àncora è tanto alta, « Che non v'arriva Orlando, se non salta. « Messo il puntello, e fattosi sicuro « Che'l mostro più serrar non può la bocca, « Stringe la spada, e per quell'antro oscuro « Di qua e di là con tagli e punte tocca. « Come si può, poi che son dentro al muro « Giunti i nimici, ben difender rocca, « Così difender l'Orcá si potea « Dal paladin che nella gola avea. « Dal dolor vinta, or sopra il mar si lancia, « E mostra i fianchi e le scagliose schiene ; « Or dentro vi s'attuffa, e con la pancia « Muove dal fondo e fa salir l'arene. « Sentendo l'acqua il cavalier di Francia « Che troppo abbonda, a nuoto fuor ne viene : « Lascià l'àncora fitta, e in mano prende « La fune che dall'àncora depende. « E con quella ne vien notando in fretta « Verso lo scoglio, ove fermato il piede, « Tira l'àncora a sè, che in bocca stretta « Con le due punte il brutto mostro fiede. « L'Orca a seguire il canapo è costretta « Da quella forza che ogni forza eccede, « Da quella forza che più in una scossa « Tira, ch'in dieci un argano far possa. « Come toro salvatico che al corno « Gittar si senta un improvviso laccio, « Salta di qua, di là, s'aggira intorno, « Si colca e lieva, e non può uscir d'impaccio ; « Così fuor del suo antico almo soggiorno « L'Orca tratta per forza di quel braccio, « Con mille guizzi e mille strane ruote « Segue la fune, e scior non se ne puote. « Di bocca il sangue in tanta copia fonde, « Che questo oggi il mar Rosso si può dire, « Dove in tal guisa ella percuote l'onde, « Che insino al fondo le vedreste aprire : « Ed or ne bagna il cielo, e il lume asconde « Del chiaro Sol : tanto le fa salire. « Rimbombano al rumor che intorno s'ode « Le selve, i monti e le lontane prode. « Fuor della grotta il vecchio Proteo, quando « Ode tanto rumor, sopra il mare esce ; « E visto entrare e uscir dall'Orca Orlando, « E al lido trar sì smisurato pesce, « Fugge per l'alto Oceano, oblïando « Lo sparso gregge : e sì il tumulto cresce, « Che fatto al carro i suoi delfini porre, « Quel dì Nettuno in Etiopia corre. « Con Melicerta in collo Ino piangendo, « E le Nereidi coi capelli sparsi, « Glauci e Tritoni, o gli altri, non sappiendo « Dove, chi qua, chi là van per salvarsi. « Orlando al lito trasse il pesce orrendo, « Col qual non bisognò più affaticarsi ; « Che pel travaglio e per l'avuta pena « Prima morì che fosse in su l'arena ». Dopo questa arditissima e veramente omerica invenzione, ornata di tante belle similitudini, di bene adattate idee classiche e mitologiche e di tutto lo splendor dello stile ariostesco, chi potrà legger pazientemente nel Ricciardetto la secentistica e plebea descrizione di « Una balena larga dieci miglia « E lunga trenta,……… » avente nelle interne cavità delle sue viscere terreni arborati e seminativi, un ampio lago ed un mercato di grano con gente che compra e vende, e inoltre una chiesa con le campane che suonano a festa, un convento di frati cappuccini ed altre simili stravaganze ? Monsignor Forteguerri mise pegno d'inventarle, come egli diceva, più grosse e più straordinarie di quelle dell'Ariosto, e gli riuscì soltanto di presentarci, goffamente delineate, volgarissime caricature delle mirabili immagini ariostesche. Dante rammenta le balene nel fare una sapiente e filosofica osservazione, che cioè la Natura non ha da pentirsi di aver creato animali marini e terrestri di dimensioni e di forze tanto più grandi e potenti di quelle dell'uomo, perchè non avendo loro accordato l'argomento della mente, vale a dire l'intelligenza e il raziocinio, l'uomo che ne è fornito può non solo difendersi da essi, ma vincerli e dominarli, facendoli servire o vivi o morti ai suoi proprii vantaggi. Infatti l'uomo ha saputo ridurre l'elefante alla condizione del più umil somiero, e uccider balene di più di 20 metri di lunghezza, di dieci o undici di larghezza e del peso di più di 100 mila chilogrammi ; e così dimostrar coi fatti che non già la forza brutale, ma l'intelligenza, madre delle arti e delle scienze, è la dominatrice dell'Universo. **** *book_ *id_body-2-29 *date_1874 *creator_pescatori XXVIII Le regioni infernali La paròla Inferno, secondo l'etimologia latina, significa ciò che resta di sotto, ed è propriamente un aggettivo a cui può sottintendersi il nome di qualunque luogo od oggetto, che nella direzione dell'altezza trovisi al di sotto di un altro : equivale dunque soltanto all'aggettivo inferiore. Perciò nella classica Mitologia non è annessa alla parola Inferno la stessa significazione che le si dà in italiano nella cristiana religione. Infatti i mitologi latini adoprano quest'aggettivo al plurale, e intendono regioni al di sotto della superficie della Terra, perchè supponevano che nel seno di essa esistessero due inferne regioni molto diverse tra loro per l'uso a cui erano destinate. La prima chiamavasi il Tartaro, ed era luogo di pena per le anime dei malvagi : la seconda dicevasi Elisio o Campi Elisii, luogo di beatitudine per le anime dei buoni. Siccome gli Antichi credevano che alcuni dei loro più famosi eroi, Teseo, Ercole, Orfeo, Ulisse ed Enea in corpo e in anima, ossia da vivi, fossero andati a visitar questi luoghi, e ritornati ne avessero raccontato mirabilia, i poeti impadronendosi di questa popolare credenza vi trovarono un vasto campo libero ed aperto alla loro immaginazione, che percorsero a briglia sciolta, e senza paura di essere smentiti da chi, dopo la morte, nulla vi avesse trovato di quel che essi dicevano. E il nostro Dante valendosi della facoltà consentita ai poeti greci e latini, e specialmente dietro l'esempio di Virgilio suo maestro ed autore, costruì un Inferno che sarà sempre una maraviglia non solo della sua fantasia, ma pur anco della sua sapienza morale e politica. Il conoscer dunque le regioni infernali secondo che le hanno immaginate e descritte gli Antichi, è necessario non solo per intendere i classici greci e latini, ma altresì gl'italiani, e sopra gli altri Dante, che in questo è superiore a tutti gli antichi e ai moderni. I Pagani sapevano molte vie per andare all'Inferno ; ma ne rammentavano principalmente due : una sotto il promontorio di Tenaro (ora capo Matapan al sud della Morea) ; e l'altra sulle sponde del lago Averno in Italia. Cinque fiumi scorrevano nelle regioni infernali, cioè lo Stige, l' Acheronte, il Cocìto, il Flegetonte e il Lete. Lo Stige era considerato come un Dio fluviatile, e per le sue acque giuravano gli Dei, e il loro giuramento era inviolabile : onorificenza che fu accordata allo Stige perchè la sua figlia Vittoria nella guerra dei Giganti si dichiarò dalla parte di Giove. Era questo il primo fiume che trovavasi nello scendere all'Inferno, e tutto lo cingeva ; e perchè non v'erano ponti, nè l'acqua era sì bassa da poterlo guadare, bisognava necessariamente passarlo in barca. L'Acheronte, il Cocìto e il Flegetonte scorrevano dentro il Tartaro, ed erano fiumi propriamente da dannati, perchè le acque dell'Acheronte erano corrosive, quelle del Cocìto erano formate dalle lagrime dei malvagi, e nel Flegetonte scorreva un liquido infiammabile (come lo spirito di vino o il petrolio) che sempre ardeva, e serviva per tuffarvi i dannati. Il Lete poi aveva il suo corso fra i due dipartimenti del Tartaro e degli Elisii, e le sue acque piacevoli a beversi producevano l'oblio del passato e perfino della propria esistenza ; e queste davansi a bevere a quelle anime, che, secondo la dottrina della Metempsicosi di cui parleremo in appresso, dovevano ritornare nel mondo a dar vita a nuovi corpi. Il territorio del Tartaro era orrido e sterile come il paese della Fame descritto da Ovidio, senza biade, senz'alberi ; e soltanto nel vestibolo prima di arrivare allo Stige, eravi, secondo Virgilio, un bosco di alberi annosi ed un boschetto di mirti. Nei Campi Elisii per altro la scena mutava in tutto e per tutto. Cominciavasi dall'avere colà un nuovo Sole e nuovi astri fatti apposta per illuminar sotto terra quelle anime fortunate dei beati. Boschetti, giardini, e varii altri divertimenti v'erano come in prima vita, ma però non tutti, come noteremo particolarmente parlando dello stato delle anime dopo la morte : di straordinario e soprannaturale avevan soltanto la prescienza del futuro. È celebre la descrizione che ne fa Virgilio nel vi libro dell'Eneide, che Annibal Caro tradusse così : « Ciò fatto, ai luoghi di letizia pieni, « All'amene verdure, alle gioiose « Contrade de'felici e de'beati « Giunsero alfine. È questa una campagna « Con un aer più largo, e con la terra « Che d'un lume di porpora è vestita, « Ed ha 'l suo sole e le sue stelle anch'ella ». La reggia e la residenza di Plutone non era negli Elisii. ma nel Tartaro, ove più si manifestava il bisogno di raffrenar coll'impero sovrano le anime dei malvagi, e vegliar che i suoi ministri non mancassero al loro dovere di tormentare i dannati. Era questa all'incirca la topografia delle regioni infernali, secondo i poeti latini e Virgilio principalmente. In Omero e negli altri poeti greci le idee su tal proposito furono anche più incerte e confuse, e perciò non vi si trova unità nel disegno, nè regolarità nella esecuzione. In fatti Omero pone le regioni delle anime degli estinti nel paese dei Cimmerii, popoli antichi i quali abitavano sulle rive settentrionali del Ponto Eusino (ora Mar Nero) e della Palude Meotide (ora Mar d'Azof). Tal descrizione trovasi nel lib. xi dell' Odissea, ed è la seguente : ….« Spento il giorno, e d'ombra « Ricoperte le vie dell'Oceàno, « Toccò la nave i gelidi confini, « La 've la gente de'Cimmerii alberga, « Cui nebbia e buio sempiterno involve. « Monti pel cielo stelleggiato, o scenda « Lo sfavillante d'or Sole, non guarda « Quegl'infelici popoli, che trista « Circonda ognor pernizïosa notte. » La più bella fabbrica dell'Inferno è quella che Dante ha delineato in modo sì mirabile da superare l'abilità di qualsivoglia architetto. La sua poetica descrizione è tanto chiara ed evidente che molti cultori delle arti belle, e tra questi lo stesso Michelangiolo, hanno potuto rappresentarla senza alcuna difficoltà colla matita e col pennello. Dante pur conservando le credenze e i principii teologici del Cristianesimo, e introducendo i diavoli a tormentare i dannati, non ha voluto rinunziare a valersi di alcune delle invenzioni mitologiche dei Pagani, che potevan meglio servire alla immaginata allegorìa del suo poema. Ma quanto alla fabbrica dell'Inferno la creò tutta di pianta a modo suo, guidato soltanto dal suo ingegno, dalla scienza e dall'arte. Egli asserisce, non già sulla fede altrui, ma come testimone oculare (poichè finge di aver percorso egli stesso quelle regioni), che l'Inferno è formato di circoli concentrici come un anfiteatro ; che il primo cerchio che si trova, poche miglia sotto la superficie terrestre, è il più grande di tutti gli altri, i quali, vanno gradatamente decrescendo fino al centro del nostro globo, nel qual punto termina l'Inferno stesso ; che i cerchi son 9 ; ma il 7° è diviso in 3 gironi, l'8° in dieci bolge e il 9° in quattro compartimenti chiamati Caina, Antenora, Tolomea e Giudecca. Peraltro fra i cerchi 6°, 7°, 8° e 9° vi son tre baratri o abissi, nei quali conviene scendere in un modo straordinario e pericoloso per giungere al centro. Oltre i quattro fiumi dell'Inferno Pagano, cioè l'Acheronte, lo Stige, il Flegetonte e il Cocìto si trovano nell' Inferno di Dante cascate d'acqua, paludi, pantani, un gran lago gelato, argini, ponti, torri, un castello « Sette volte cerchiato d'alte mura, « Difeso intorno da un bel fiumicello, » e finalmente, tralasciando ogni altra singolarità, la città di Dite, ossia del fuoco con mura ferruginose, e dentro, invece di case, cassoni di ferro rovente, pieni di dannati. Tutte le opere d'arte (qual che si fosse lo maestro che le fece, come dice Dante), furono eseguite secondo le regole architettoniche e le proporzioni matematiche in modo così esatto e preciso, che i più dotti commentatori della Divina Commedia dalle indicazioni che ne ha date l'autore hanno potuto determinarne in numeri concreti le dimensioni geometriche di lunghezza, larghezza e profondità. Certamente chiunque ascolta o legge anche per la prima volta le descrizioni mitologiche o dantesche delle sotterranee regioni, non può credere che quei luoghi stiano precisamente come la Mitologia e Dante raccontano ; e gli nasce facilmente (se non è stupido) la ledevole curiosità di conoscere che vi sia veramente sotto la superficie del nostro globo. Lo spazio è abbastanza grande da entrarvi parecchie cose. Con una periferia di 21,600 miglia geografiche pari a 40,000 chilometri, e per conseguenza con una superficie di più di 500 milioni di chilometri quadri ed una capacità per più di 3000 milioni di chilometri cubi, vi possono star comodamente non solo migliaia, ma anche milioni di materie e di sostanze diverse, solide, liquide e aeriformi. Questa curiosità d'investigare l'interna struttura e material composizione del globo terrestre, divenuta potente sull'animo degli scienziati, li condusse passo passo, di osservazione in osservazione, di raziocinio in raziocinio a creare recentemente una nuova scienza, la Geologia, che comprende la Geogonia, cioè la storia dell'origine della Terra e la Geognosia, vale a dire la scienza della struttura interiore della solida crosta del nostro globo. Ben presto vi si aggiunse compagna indivisibile la Paleontologia, che consiste nel riconoscere dagli avanzi fossili di esseri organici l'esistenza antichissima di animali e di vegetabili di specie e varietà molto diverse da quelle che esistono ancora oggidì. Tutte le scienze da qualche tempo congiurano amichevolmente ad ottenere lo stesso fine ed effetto, di scuoprire cioè l'origine del nostro pianeta e la fisica costituzione di esso anche internamente. La stessa Astronomia ha portato e porta continuamente molti materiali per questo nuovo edifizio scientifico, e adotta l'ipotesi molto accreditata che la Terra e gli altri pianeti fossero in origine stati parte della materia ignea componente il globo solare, e poi distaccati da quello in forza del movimento di rotazione. Inoltre colle analisi spettrali che dimostrano nel Sole l'esistenza della maggior parte delle sostanze che si conoscono sul nostro globo, si venne a confermare i raziocinii dei geologi, che cioè la Terra fosse in origine un globo in ignizione come il Sole, e che a poco a poco raffreddandosi avesse formato le rocce ignee, acquee, metamorfiche, ecc. ; insomma tutti i diversi strati, sull'ultimo dei quali abitiamo. Questo è quel che asserisce la scienza moderna a proposito delle regioni sotterranee. Se poi si considerano i dati scientifici su cui si fondano i calcoli di centinaia di secoli che passarono dall'una all'altra epoca geologica prima che si compiessero le formazioni delle diverse rocce ; e si riflette filosoficamente che infinite specie di animali terrestri, aquatici ed amfibii, di forze e di forme « Maravigliose ad ogni cor securo, » furon cancellate dal libro dei viventi e fossilizzate dal tempo e dagli occulti agenti chimici sotterranei, avremo anche per la fantasia un campo molto più vasto di quello delle invenzioni mitologiche ; e riconosceremo che la mente dell'uomo non sa immaginare neppur la millesima parte delle maraviglie che la scienza tuttodì va scuoprendo nelle operazioni e nelle leggi della Natura. **** *book_ *id_body-2-30 *date_1874 *creator_pescatori XXIX Plutone re dell' Inferno e i suoi Ministri Pur di esser re, Plutone benchè nato in Cielo ed allevato in una delle più belle regioni della Terra, accettò di regnar nell' Inferno. E che quel soggiorno fosse pur troppo inamabile, come dicono i poeti latini, e tetro, si può dedurre pur anco dal sapere che nessuna Dea o Ninfa, per quanto ambiziosa e vana, acconsentì a sposar Plutone per divenir regina ; e se egli volle aver moglie gli convenne rapirla, e poi contentarsi che ella stesse ogni anno per sei mesi con la madre o sulla Terra o nel Cielo. (Vedi il Cap. X, ove si parla di Proserpina). Lo stesso Omero dice chiaramente che quelle infernali regioni, oltre ad esser prive della luce del Sole, erano orrende anche al guardo del Cielo (Iliade, xx), cioè facevano orrore anche agli Dei. Benchè Plutone avesse il titolo di re delle regioni infernali non spiegava alcun potere sulle anime dei buoni, nè troviamo che andasse mai a visitare i Campi Elisii, o invitasse alla sua reggia alcuno dei più illustri eroi che vi soggiornavano ; e sui malvagi aveva un ufficio simile a quello del soprastante delle carceri o delle galere ; nè poteva diminuirne o aggravarne le pene, che giudici di diritto e di fatto, da lui indipendenti, nelle loro sentenze avevano assegnate ai dannati. Era inoltre al pari degli altri Dei sottoposto al Fato, ed anche al suo maggiore e più potente fratello Giove. Si accorsero i mitologi di questo difetto del loro mito infernale, e pretesero di supplirvi assegnando a Plutone non soltanto la cura di far sì che delle anime degli estinti non ritornasse alcuna nel mondo, (come è naturale, e pur troppo vero), ma pur anco l'altro più odioso attributo di affrettare la discesa degli uomini ne'regni suoi. Plutone era rappresentato assiso in un trono di zolfo, con viso arcigno e sguardo truce, con una mano sostenendosi il mento e coll'altra impugnando lo scettro, che era una forca bicorne : in capo avea la corona ; un manto ricuoprivalo dai fianchi in giù ; e ai piedi aveva il tricipite Can Cerbero. Tal volta gli si poneva a lato Proserpina, sua moglie per forza, di cui dicemmo il ratto e le vicende nel capitolo di Cerere sua madre. Allora non compariva più come l'avvenente e delicata Ninfa che sceglieva fior da flore alle falde del monte Etna, e a cui Dante assomigliò la bella e cortese giardiniera del Paradiso terrestre ; ma come una matrona molto seria, in regie vesti, ma tutt'altro che lieta del grado di regina : allora confondevasi invece con Diana triforme, o con Persefone (chè questo era il nome che davasi dai Greci alla regina dell'Inferno) ; e di più credevasi che anch'essa si fosse adattata ai gusti del marito, e li secondasse attirando nei regni infernali più gente che potesse ; e perciò si trova chiamata dai poeti la crudel Proserpina. Anche Plutone aveva altri nomi ; e in principio chiamavasi Pluto, ma poi si distinse con questo nome il Dio delle ricchezze ; e Plutone re dell'Inferno fu chiamato frequentemente Orco e Dite dagli antichi poeti. Dante usò più volte la parola Dite come sinonimo di Plutone, denominando città di Dite la città del fuoco (di cui abbiam detto nel Cap. precedente) : e poi da Virgilio poeta pagano facendo chiamar Dite il gran diavolo Lucifero. La parola Orco fu adoprata dai poeti romanzeschi, e tra gli altri anche dall'Ariosto, per significare un mostro immaginario, come il Polifemo e l'Orca dei mitologi ; della quale invenzione, come di quella delle Fate, si abusò, e forse ancora, specialmente nelle campagne, si abusa, in tutte quante le novelle e favole « Che raccontano ai putti le bisavole. » Tutta la guardia pretoriana del re e della regina dell'Inferno consisteva nel Can Cerbero che aveva 3 teste, e difendeva meglio e con maggior fedeltà i suoi padroni che far non potesse una coorte di Svizzeri. Di Pluto, Dio delle ricchezze, considerato come un ente diverso da Plutone, conveniva trovare una diversa origine e parentela ; e fu detto che era figlio di Cerere dea delle biade e di un ricco agricoltore Giasione, per indicare che le vere e più sicure ricchezze derivano dall'agricoltura. In fatti a che servirebbe l'oro senza i frutti della Terra ? A null'altro che a rinnovare la miseria dell'avaro Mida, come dice Dante. Di Ecate, dea infernale, abbiamo parlato bastantemente nel Cap. della Diva Triforme ; nè si trova altro da aggiungervi. Resta dunque soltanto a trattare dei ministri di Plutone. Di maggiore importanza erano le Parche, figlie di Giove e di Temi, e corrispondevano a quelle Dee che i Greci chiamavano le Mire. In origine i Greci conoscevano una sola Dea Mira uguale in potenza e in ufficio al Fato dei Romani ; e poi ne inventarono tre, distinguendole coi nomi di Cloto, Lachesi ed Atropo, nomi che furono adottati dai poeti latini per le loro Parche, e passarono ancora nel frasario poetico degl'Italiani. Asserivano i mitologi che le Parche avevano l'ufficio di determinare la sorte degli uomini dal primo istante della nascita a quello della morte ; e che ne dessero indizio con un segno sensibile singolarissimo, ma invisibile ai mortali, cioè per mezzo di un filo di lana, che esse incominciavano a filare quando nasceva una persona, e che recidevano, quando quella persona doveva morire. Ecco l'origine mitologica delle frasi troncare o recidere lo stame vitale, il fil della vita, ecc. Inoltre per significare le varie vicende della vita di ciascuna persona, le Parche formavano lo stame vitale di lane di diversi colori : il bianco ed il nero (che allora non si sapeva che non fossero colori), indicavano la felicità e la sventura ; il color d'oro e di porpora, le ricchezze e gli onori, ecc. E dovendo le Parche far questo lavorìo per ogni persona che veniva al mondo, non mancava loro occupazione : quindi Dante per contraddistinguere una di esse Parche senza nominarla, usò questa perifrasi : colei che di e notte fila, supponendo che tutti i suoi lettori sapessero bene la Mitologia, e che perciò capissero che egli intendeva di parlare di Làchesi. Infatti i mitologi avevano assegnato a ciascuna delle Parche uno speciale ufficio : Cloto teneva la conocchia, Làchesi filava, ed Atropo troncava il filo ; e Dante ha rammentato i loro nomi ed ufficii nella Divina Commedia, come apparisce dai versi che ne cito in nota. Anche Michelangelo ha rappresentato le Parche in queste loro diverse occupazioni, come si vede nel suo quadro che trovasi nella galleria di Palazzo Pitti. Da quanto leggesi scritto e narrato intorno alle Parche si deduce che esse erano indipendenti da Plutone ; e perciò dovrebbero chiamarsi piuttosto ministre del Fato che del re dell'Inferno. Ma gli Antichi considerando che esse troncavano lo stame vitale e crescevano il numero dei sudditi di Plutone, le posero tra le divinità infernali. Insieme con queste si annoveravano ancora la Morte, il Lutto, il Timore, la Fatica, la Povertà, la Fame e perfino la Vecchiezza, funeste divinità allegoriche, ben note in tutta la loro orrenda realtà ai miseri mortali, e delle quali perciò i poeti rammentano soltanto il nome, tutt'al più con qualche epiteto espressivo senza estendersi in descrizioni, tranne qualche rara eccezione, come quella del Petrarca nel Trionfo della Morte. Ma di Caronte, dei Giudici dell'Inferno e del Sonno, non solo i poeti greci e i latini, ma anche gl'italiani ci presentano singolari fantasie, che è necessario conoscere. Essendo Caronte il barcaruolo dell'Inferno, s'intende subito che doveva trovarsi molto occupato a traghettar le anime dei morti (specialmente nei giorni delle più micidiali battaglie), dall' una all' altra riva dello Stige o dell'Acheronte. La favola ci fa sapere che egli era figlio dell' Erebo e della Notte ; che era vecchio e canuto, ma pur sempre robusto ; orrido e sozzo di persona e di vesti, e di modi zotici ed aspri. Aggiunge poi che ciascun'anima per essere ricevuta nella barca di Caronte doveva, per superiore decreto inesorabile, pagare un obolo ; la qual piccola tassa o rimunerazione prendeva in latino il nome di naulum, ond'è venuta in italiano la parola nolo. Qual fosse lo scopo di questa strana invenzione lo diremo nel prossimo numero parlando dello stato delle anime dopo la morte. Passate le anime all'altra riva, trovavano tre giudici che decidevano delle sorti di ciascuna di loro nell'altro mondo ; e la sentenza di essi era inappellabile. Questi giudici si chiamavano Minos, Eaco e Radamanto, i quali in origine erano stati sulla Terra tre ottimi re della Grecia, celebri per la loro giustizia ; e perciò dopo la morte meritarono l'onorevole ufficio di giudicar le anime degli estinti. Minos e Radamanto erano figli di Giove e di Europa ; Eaco poi di Giove e di Egina. Appartenevano perciò alla classe dei Semidei ; e di loro dovremo parlar nuovamente e più a lungo nel ragionare dei secoli eroici, che sono il medioevo fra la Mitologia e la Storia. Le Furie eran destinate non solo a punire le anime dei malvagi nel Tartaro, ma pur anco a spaventare e perseguitare in vita gli scellerati che avevano commesso i più gravi e nefandi misfatti. In tal modo venivano i mitologi a rappresentare i rimorsi di una rea coscienza. Le Furie furon dai Greci chiamate Erinni, nome adottato dai poeti latini, e che trovasi anche in Dante ; ed erano tre : Megera, Tisifone ed Aletto, vocaboli significanti odiosa, punitrice delle stragi ed inquieta. Ebbero anche il titolo di Eumenidi, che vorrebbe dire benevole o placabili, dopo che scongiurate con sacri riti lasciarono quieto Oreste. Altri mitologi dicono che ebbero esse questo nome per antifrasi, cioè per significare tutto l'opposto, vale a dire implacabili. I pittori fanno a gara coi poeti a rappresentarle orribili nell' aspetto, nelle vesti, nei distintivi : faccia minacciosa, occhi furibondi, chioma di serpenti, ali di vispistrello ; nell'una mano aveano la face fiammeggiante e nell'altra un mazzo di serpenti per avventarli a morsicare i colpevoli. Il Sonno, « Dolce de'mali oblio, calma e riposo « Della stanca Natura, » come lo definisce il poeta Young, era per gli Antichi un Dio, creduto figlio dell'Erebo e della Notte, e dimorante in una caverna lungo le rive del fiume Lete, e perciò posto tra le Divinità infernali. Gli si davano per figli i Sogni, di cui si rammentano con nomi speciali soltanto tre, che erano i capi di altrettante tribù numerosissime, cioè Morfeo, Fobetore e Fantasia, termini greci significativi dei diversi generi di sogni ; poichè Morfeo produceva nei dormienti i sogni più regolari sotto forme conosciute e naturali ; Fobetore i sogni spaventevoli e Fantasia i più strani e fantastici. Non soltanto Ovidio tra gli antichi e l'Ariosto tra i moderni hanno fatto bellissime descrizioni della Casa del Sonno, ma quasi tutti i poeti parlano del Sonno e dei Sogni ; ed anche Dante racconta diversi sogni ch'egli ebbe nel suo viaggio allegorico. Lo stesso Virgilio ci narra che nelle regioni sotterranee vi son due porte da cui escono i sogni per venire sulla Terra ; la prima è di corno da cui escono i sogni veri, e la seconda di avorio, e n'escono i sogni falsi : della quale invenzione non è facile intendere il significato. Generalmente qualunque poeta in questa vastissima regione immaginaria crede di avere scoperto qualche cosa di nuovo, e non la nasconde al lettore ; ed anche i pittori si sbizzarriscono a rappresentare il Sonno ed i Sogni secondo la loro fantasia ; e lo stesso Vasari, ne ragiona ex-cathedra nelle sue Vite. Vediamo ora quali di queste Divinità mitologiche stimò bene l'Alighieri d'impiegare nel suo Inferno. È facile l'indovinare che introducendole nell'Inferno dei Cristiani non conservasse loro il grado di divinità che avevano in quello dei Pagani. Infatti le ridusse presso a poco alla condizione di demonii. Primo si trova il barcaruolo dell'Acheronte, « Caron dimonio con occhi di bragia, « Un vecchio bianco per antico pelo, « Che intorno agli occhi avea di fiamme ruote. » Egli invita coll'antica sua buona grazia le anime ad entrar nella barca, « Gridando : guai a voi, anime prave ! « Non isperate mai veder lo Cielo : « Io vengo per condurvi all'altra riva « Nelle tenebre eterne, in caldo e in gielo. » E usando i soliti suoi modi cortesi, « Batte col remo qualunque si adagia. » Ha soltanto di buono che non esige più l'obolo per traghettar le anime all'altra riva, e le trasporta tutte gratuitamente. S'incontra poi « Cerbero fiera crudele e diversa, » che conservando la sua forma tricipite, « Con tre gole caninamente latra « Sovra la gente che quivi è sommersa. « Gli occhi ha vermigli e la barba unta e atra « E 'l ventre largo e unghiate le mani ; « Graffia gli spirti, li scuoia e li squatra. » Dei tre Giudici dell'Inferno pagano, Dante ha impiegato soltanto Minos, che era il presidente di quel tribunale ; ma nell'Inferno dei Cristiani questo giudice ha perduto molto della sua dignità. Infatti « Stavvi Minos orribilmente e ringhia, « Esamina le colpe nell'entrata, « Giudica e manda secondo che avvinghia, cioè per mezzo della sua coda, come spiega Dante stesso ; diversamente nessun l'avrebbe indovinato ; perciò soggiunge subito dopo : « Dico che quando l'anima malnata « Gli vien dinanzi, tutta si confessa ; « E quel conoscitor delle peccata « Vede qual luogo d'Inferno è da essa : « Cingesi con la coda tante volte « Quantunque gradi vuol che giù sia messa. » V'è anche « ….. Pluto con la voce chioccia, che parla un linguaggio che non s'intende : « Pape Satan, pape Satan aleppe. » Come già Dio delle ricchezze presiede al cerchio ove son puniti gli avari e i prodighi ; ma Dante e Virgilio mostrano che meritava poco rispetto chiamandolo fiera crudele e maledetto lupo. Non vi mancano di certo : « Tre Furie infernal di sangue tinte, « Che membra femminili aveano ed atto, « E con idre verdissime eran cinte ; « Serpentelli e ceraste avean per crine, « Onde le fiere tempie erano avvinte. » Sono ivi pure chiamate, come nella Mitologia, Megera, Tisifone ed Aletto, e ricevono anche il greco nome comune a tutte di Erinni o Erine. Plutone nel poema sacro di Dante non poteva trovar posto come re dell'Inferno, perchè anche questo dipende dal re dell'Universo che in tutte parti impera, secondo le espressioni di Dante stesso ; ma abbiamo già veduto di sopra che il poeta si valse di uno dei nomi di Plutone, di quello cioè di Dite, per darlo alla città del fuoco ed allo stesso Lucifero. Altri Dei e mostri mitologici non mancano nell'Inferno di Dante, anzi vi sono a iosa ; e li noteremo a tempo e luogo, cioè quando dovrà parlarsene nel corso regolare della Mitologia. Anche gli scienziati adottarono alcune denominazioni derivate dall'Inferno dei Pagani ; e principalmente i geologi che diedero il nome di plutoniche ad alcune roccie che il progresso delle osservazioni scientifiche fece riconoscere differenti, per certi particolari caratteri, da quelle che avevan chiamate vulcaniche, e perciò da doversi distinguere con altro nome. E poichè queste roccie (principalmente i graniti e alcuni porfidi), sono in parte affini alle formazioni vulcaniche, prescelsero per esse una denominazione derivata da Plutone Dio infernale che aveva maggiore affinità con Vulcano, Dio del fuoco. Gli astronomi diedero il nome di Proserpina al 26° asteroide scoperto da Luther il 5 maggio 1853 ; ed in appresso avendone scoperti tanti altri (che sinora sono giunti a più di 130), hanno saccheggiato la Mitologia e adottato perfino il nome dell'orrida divinità infernale Ecate per darlo al 100° pianeta telescopico. Anche il can Cerbero ha ricevuto l'onore dagli astronomi che il suo nome fosse dato ad una piccola costellazione, composta, secondo il catalogo di Arago, di tredici stelle : la quale resta nell'emisfero boreale, vicina a quella parte della costellazione di Ercole che si chiama la mano, volendosi così alludere alla favola che Ercole incatenò il can Cerbero nell'Inferno e lo trascinò seco sino alla vista del Cielo. I naturalisti danno il nome di Cerbero a un genere di piante della famiglia delle Apocinee, che hanno proprietà velenose ; ed inoltre ad una specie di vipere. **** *book_ *id_body-2-31 *date_1874 *creator_pescatori XXX Stato delle anime dopo la morte, secondo la Mitologia Abbiamo veduto nel N. XXVIII che i Campi Elisii erano il soggiorno dei buoni dopo la morte, e il Tartaro, dei malvagi. Secondo gli antichi mitologi, ben pochi andavano in Cielo nel consesso degli Dei supremi e a mensa con essi a gustare il nettare e l'ambrosia ; e questi erano per lo più gli Eroi o Semidei, e non tutti, ma quelli soltanto che furono i più grandi benefattori della umanità. A questi novelli Dei assunti in Cielo ergevansi nel mondo dalla credulità dei pagani, tempii ed altari, offrivansi incensi e voti. Tutti gli altri mortali, per quanto buoni e giusti e pii andavano ai Campi Elisii, soggiorno che gli Antichi, con tutta la loro vigorosa fantasia, non seppero dipingere e rappresentare talmente ameno e beato da preferirsi alle terrestri condizioni di questa mortal vita. Lo stesso Omero ci narra che Achille, quantunque godesse i primi onori nei Campi Elisii, si era potentemente annoiato di quel soggiorno, anche pochi anni dopo la sua morte ; e parlando con Ulisse che era andato a visitare il regno delle ombre, « Non consolarmi della morte, o Ulisse, « Replicava il Pelide. Io pria torrei « Servir bifolco per mercede, a cui « Più scarso il cibo difendesse i giorni, « Che del Mondo defunto aver l'impero. « Su via, ciò lascia ; e del mio figlio illustre « Parlami invece. » Non era dunque uno stato felice quello che produceva la noia, e faceva rimpianger la vita mortale e preferire la più meschina condizione di questa. La prescienza del futuro non li allettava quanto la reminiscenza del passato, e principalmente di quei luoghi e di quelle persone che resero loro più cara e gioconda la terrena esistenza. Aggiunsero infatti i mitologi che tutte quelle anime così dette beate si esercitavano nell'altro mondo in quelle stesse arti ovvero occupazioni che erano state per loro più gradite in questo. Per tal credenza, presso alcuni popoli, gettavansi ad ardere nel rogo del defunto o seppellivansi nella stessa tomba, gli schiavi, i cavalli, i cani ed anche i materiali oggetti che gli furono più cari in vita, non dubitando che per tal via andassero a raggiungere l'anima di lui nell'altro mondo ; e per la stessa ragione anche oggidì tra gl'Indiani adoratori del Dio Brama spontaneamente si ardono vive le predilette mogli di quegli idolatri colla certezza di riunirsi compagne indivisibili ai loro mariti nel soggiorno dei beati. Questa noiosa monotonia dell'altra vita anche negli Elisii, come la descrivevano gli Antichi, fu un poco interrotta colla invenzione della Metempsicòsi, immaginata dal filosofo Pitagora. Metempsicòsi è parola greca che significa trasmigrazione delle anime ; questa dottrina suppone che le anime degli estinti, dopo essere state un certo numero di anni (che i più fissano a mille) negli Elsii o nel Tartaro, ritornino in questo mondo, entrando nei corpi non solo degli uomini nascituri, ma pur anco dei bruti. E poichè Virgilio, nel dare un'idea generale dello stato delle anime dopo la morte, accenna ancora la dottrina della Metempsicòsi, ne riporterò qui la traduzione di Annibal Caro, e in nota i versi stessi del poeta latino : « Primieramente il ciel, la terra e 'l mare « L'aer, la luna, il sol, quant'è nascosto, « Quanto appare e quant'è, muove, nudrisce, « E regge un che v'è dentro o spirto o mente « O anima che sia dell'Universo ; « Che sparsa per lo tutto e per le parti « Di sì gran mole, di sè l'empie e seco « Si volge, si rimescola e s'unisce. « Quinci l'uman legnaggio, i bruti, i pesci, « E ciò che vola, e ciò che serpe, han vita, « E dal foco e dal ciel vigore e seme « Traggon, se non se quanto il pondo e 'l gelo « De' gravi corpi, e le caduche membra « Le fan terrene e tarde. E quinci ancora « Avvien che tema e speme e duolo e gioia « Vivendo le conturba, e che rinchiuse « Nel tenebroso carcere e nell'ombra « Del mortal velo, alle bellezze eterne « Non ergon gli occhi. Ed oltre a ciò, morendo, « Perchè sien fuor della terrena vesta, « Non del tutto si spoglian le meschine « Delle sue macchie ; chè 'l corporeo lezzo « Sì l'ha per lungo suo contagio infette, « Che scevre anco dal corpo, in nuova guisa « Le tien contaminate, impure e sozze. « Perciò di purga han d'uopo, e per purgarle « Son dell'antiche colpe in varii modi « Punite e travagliate : altre nell'aura « Sospese al vento, altre nell'acqua immerse, « Ed altre al foco raffinate ed arse : « Chè quale è di ciascuno il genio e 'l fallo, « Tale è il castigo. Indi a venir n'è dato « Negli ampii elisii campi ; e poche siamo « Cui sì lieto soggiorno si destini. « Qui stiamo in fin che 'l tempo a ciò prescritto « D'ogni immondizia ne forbisca e terga, « Sì che a nitida fiamma, a semplice aura, « A puro eterio senso ne riduca. « Quest'alme tutte, poichè di mill'anni « Han volto il giro, alfin son qui chiamate « Di Lete al fiume, e 'n quella riva fanno, « Qual tu vedi colà turba e concorso. « Dio le vi chiama, acciò ch'ivi deposto « Ogni ricordo, men de' corpi schive, « E più vaghe di vita un'altra volta « Tornin di sopra a riveder le stelle. » Da questa celeberrima esposizione di principii filosofici e religiosi, che è la più bella e sublime di quante ce ne son pervenute dai poeti pagani, è confermata la pitagorica dottrina della Metempsicòsi, e ne deriva necessariamente la conseguenza che le pene del Tartaro e le beatitudini dell'Elisio non erano eterne, e che le anime avevano una perpetua rotazione di passaggi alternativi dall'una all'altra vita. Si viene ad accennare ancora una specie di Purgatorio prima di passare ai Campi Elisii ; e vi si trova chiaramente espresso il principio, o vogliam dir la credenza dell'anima del Mondo, che fu considerata come la base del Panteismo. Appunto perciò la religione dei Pagani è chiamata da alcuni filosofi il Panteismo mitologico. L'antichissima invenzione dell' obolo da pagarsi a Caronte fu bonariamente creduta una indubitabile verità nei secoli più rozzi ; e perciò nelle funebri cerimonie ponevasi una piccola moneta di tal nome nella bocca degli estinti. Vero è che queste stesse monete si ritrovarono anche dopo 100 e 1000 anni nei teschi dei sepolti cadaveri, o fra le loro ceneri, e ne furon trovate anche in bocca alle Mummie egiziane : il che dimostrò che Caronte non era tanto inesorabile quanto gli agenti delle tasse e i riscuotitori dei pedaggi e delle gabelle. Quindi in appresso si cessò dall'insistere sulla necessità del pagamento di quest'obolo, ma si confermò indispensabile la sepoltura del cadavere, affinchè l'anima potesse esser traghettata da Caronte all'altra riva, e non andare errando per 100 anni lungo lo Stige nella penosa incertezza della sede che erale destinata. La qual credenza religiosa rese più pii i superstiti ai mortali avanzi degli estinti. Stimavasi perciò un dovere sacrosanto il seppellire i morti e il serbarne inviolate le tombe e le ceneri. Anzi per indurne negli animi maggior rispetto e venerazione, le dedicavano agli Dei Mani ; pei quali però non sappiamo con certezza se intendessero le anime stesse dei defunti, o in generale le infernali divinità ; ma nell'un significato o nell'altro, si elevavano e parificavano le tombe alla santità dei tempii e delle are. Nella descrizione delle pene del Tartaro l'immaginazione degli Antichi era stata un poco più feconda che in quella delle beatitudini dell' Elisio, avendo ideato diversi generi straordinarii di pene inflitte ad alcuni dei più famosi scellerati. E qui ne faremo una breve rassegna. La pena generale per tutti i dannati al Tartaro era quella di esser tormentati dalle Furie e gettati nelle flamme del Flegetonte ; e le pene speciali si riferiscono soltanto a pochi, cioè a Issione, a Sisifo, a Tantalo, a Tizio gigante, a Flegia, a Salmoneo e alle Belidi o Danaidi. Issione re dei Lapiti, per avere tentato di offender Giunone, fu punito nel Tartaro coll'esser legato a cerchio sopra a una ruota che velocemente e continuamente girando rendevagli eterno il tormento. Sisifo, figlio di Eolo, infestò l'Affrica e l'istmo di Corinto co'suoi ladroneggi e colle sue crudeltà ; e dopo la morte fu condannato nel Tartaro a spinger sulla cima di un monte un gran masso, che tosto ricadendo a valle rendeva eterna la sua pena. Omero la descrive così : « Sisifo altrove smisurato sasso « Fra l'una e l'altra man portava, e doglia « Pungealo inenarrabile. Costui « La gran pietra alla cima alta d'un monte, « Urtando con le man, coi piè puntando, « Spingea ; ma giunto in sul ciglion non era, « Che risospinta da un poter supremo, « Rotolavasi rapida pel chino « Sino alla valle la pesante massa. « Ei nuovamente di tutta sua forza « Su la cacciava ; dalle membra a gronde « Il sudore colavagli, e perenne « Dal capo gli salia di polve un nembo). » Di Tantalo è anche più straordinaria la colpa non meno che la pena. Tantalo era figlio di Giove e perciò ammesso ai segreti degli Dei ; ma egli abusando di tal fiducia, li rivelò ai mortali, e per far prova se i Numi avessero l'onniscenza, li invitò a pranzo e imbandì loro le membra del suo figlio Pelope da lui stesso ucciso. Tutti gli Dei inorriditi si astennero dal mangiarne, ad eccezione di Cerere, che afflitta per la perdita di Proserpina, non si accorse di quella abominevole imbandigione, e mangiò una spalla di Pelope. Si aggiunge ancora che gli Dei resero la vita al figlio di Tantalo ricòmponendone le cotte membra, e facendogli d'avorio la spalla mancante. Questo strano racconto era così divulgato e creduto, che i Pelopidi, ossia i discendenti di Pelope, portavano un distintivo, o come ora direbbesi, una decorazione, consistente in una piccola spalla d'avorio). Il padre scellerato ed empio fu condannato nel Tartaro ad una pena che tutti i poeti greci e latini rammentano, ma niuno descrisse meglio di Omero (Odissea, xi.) « Stava lì presso con acerba pena « Tantalo in piedi entro un argenteo lago, « La cui bell'onda gli toccava il mento. « Sitibondo mostravasi, e una stilla « Non ne potea gustar : chè quante volte « Chinava il veglio le bramose labbra, « Tante l'onda fuggìa dal fondo assorta, « Sì che appariagli ai piè solo una bruna « Da un Genio avverso inaridita terra. « Piante superbe, il melagrano, il pero, « E di lucide poma il melo adorno, « E il dolce fico e la canuta oliva « Gli piegavan sul capo i carchi rami ; « E in quel ch'egli stendea dritto la destra, « Vêr le nubi lanciava i rami il vento). » Pindaro per altro, secondo l'interpretazione dei moderni grecisti, sembra asserire che Tantalo soffriva quella pena non già nell'Inferno ma nel Cielo, perchè avendo egli gustato il nettare e l'ambrosia, bevanda e cibo degli Dei immortali), non poteva morire, nè perciò andare al Tartaro. Inoltre lo stesso poeta alla solita pena di Tantalo aggiunge il timore continuo di essere schiacciato da una rupe che sta sempre per cadergli addosso, e il tormento di sapere che egli è immortale, e che perciò la sua pena durerà eternamente. Orazio assomigliava a Tantalo gli avari) ; ma le loro privazioni sono spontanee e non forzate come quelle di Tantalo ; perciò più vero e confacente sarebbe l'assomigliarvi i miserabili, i quali, vedendo nelle taberne e nei mercati una vera dovizia di cibi squisiti, non posson comprar nemmeno i più vili per saziar la fame che li tormenta. Dicesi ancora che soffron la pena di Tantalo coloro che non contenti dell'aurea mediocrità, si macerano desiderando in vano ciò che non possono ottenere. Costoro nell'eccesso opposto son più ridicoli degli avari, e meritamente si puniscono da sè stessi delle loro smodate e irrazionali cupidità. Del gigante Tizio che offese Latona, udiremo da Omero qual fosse la pena nel Tartaro : « Sul terren distendevasi e ingombrava « Quanto in dì nove ara di tauri un giogo ; « E due avvoltoi, l'un quinci e l'altro quindi, « Ch'ei con mano scacciar tentava indarno « Rodeangli il cor, sempre ficcando addentro « Nelle fibre rinate il curvo rostro »). Flegia, benchè figlio di Marte e padre di Coronide che partorì Esculapio, fu empio contro Apollo, e ne incendiò il tempio di Delfo. Perciò fu punito nel Tartaro col perpetuo timore di essere schiacciato da un masso che gli pendea sulla testa. Virgilio aggiunge che Flegia « Va tra l'ombre gridando ad alta voce : « Imparate da me voi che mirate « La pena mia : non violate il giusto, « Riverite gli Dei ». Ma questa predica è inutile nell'Inferno ; e perciò Dante non ha imitato in questo il suo Maestro, ed ha fatto di Flegia un nocchiero della palude che cinge la città di Dite. Salmoneo, fratello di Sisifo, era sì pien d'orgoglio per aver conquistato l'Elide, « Che temerario veramente ed empio « Fu di voler, quale il Tonante in cielo, « Tonar quaggiuso e folgorare a prova. « Questi su quattro suoi giunti destrieri, « La man di face armato, alteramente « Per la Grecia scorrendo, e fin per mezzo « D'Elide, ov'è di Giove il maggior tempio, « Di Giove stesso il nome e degli Dei « S'attribuiva i sacrosanti onori. « Folle ! che con le fiaccole e co'bronzi « E con lo scalpitar de'suoi ronzini, « I tuoni, i nembi, i folgori imitava, « Che imitar non si ponno. E ben fu degno « Ch'ei provasse per man del padre eterno « D'altro fulmine il colpo e d'altro vampo « Che di tede e di fumo ; e degno ancora « Che nel baratro andasse ». Delle Danaidi o Belidi è alquanto più lungo il racconto. Esse erano precisamente 50, tutte figlie di Danao re di Argo e nipoti di Belo ; dai quali nomi del padre e dell'avo derivarono i loro appellativi o patronimici di Danaidi e di Belidi. Per caso raro, forse a bella posta inventato, un fratello di Danao, chiamato Egitto, aveva 50 figli ; e perchè del regno di suo fratello non andassero in possesso generi estranei alla famiglia, propose che i suoi 50 figli sposassero le 50 figlie di Danao. Questi avrebbe acconsentito, se l'oracolo da lui consultato non avesse risposto che egli sarebbe stato ucciso da un genero suo nipote. Ma Belo coll'insistenza e colle ostilità lo costrinse a cedere ; e Danao allora per tentar di assicurarsi la vita macchinò un misfatto, che 49 delle sue figlie eseguirono, qual fu quello di uccidere i loro sposi la prima sera del loro matrimonio. La sola Ipermestra salvò la vita al suo sposo Linceo ; e questi poi compì quanto aveva predetto l'oracolo, uccidendo il suocero in battaglia. Le 49 Danaidi micidiali dei loro mariti furon condannate nel Tartaro ad empir d'acqua infernale una botte pertugiata, o come altri dicono sfondata, con l'ironica e beffarda promessa che sarebbe cessata la loro fatica, quando la botte fosse piena. Questa favola è delle meno antiche, e non si trova in Omero. La rammentano però i poeti posteriori, e principalmente Ovidio nelle Metamorfosi e nelle epistole ; come pure altri poeti del secolo di Augusto. È notabile che nell'Inferno dei Pagani le pene non hanno una evidente correlazione ai delitti, nè vi si scorge una opportuna proporzione fra questi e quelle. In tal graduazione Dante si manifesta superiore non solo a tutti i poeti, ma pur anco ai legislatori ed ai criminalisti. Nel Canto xi dell'Inferno espone i principii filosofici su cui è basata la classificazione dei delitti e la proporzionale graduazione delle pene relativamente alla qualità ed alla quantità, o vogliam dire intensità, non potendovi esser differenza alcuna relativamente al tempo, poichè nell'Inferno dei Cristiani son tutte eterne. Notabilissimi sono i principii filosofici dai quali deduce la reità dei motivi a delinquere, o come dice il Romagnosi, la spinta criminosa, considerandola in ragion composta coll'ingiuria che risulta dal commesso delitto, ossia colla violazione dei doveri morali verso Dio, verso sè stesso, e verso il prossimo. Son queste le sue parole : « D'ogni malizia ch'odio in cielo acquista « Ingiuria è il fine ; ed ogni fin cotale « O con forza o con frode altrui contrista. « Ma perchè frode è dell'uom proprio male, « Più spiace a Dio ; e però stan di sutto « Gli frodolenti, e più dolor gli assale. « De'violenti il primo cerchio è tutto : « Ma perchè si fa forza a tre persone, « In tre gironi è distinto e costrutto. « A Dio, a sè, al prossimo si puone « Far forza ; dico in loro ed in lor cose, « Come udirai con aperta ragione. » Procede infatti con lo stesso metodo a render ragione delle diverse categorie di dannati che egli ha posti in tre diversi cerchi, gironi o bolge infernali sottoponendoli con giusta proporzione a pene diverse per qualità o intensità. Mirabile è poi in sommo grado, e al tempo stesso di tutta evidenza, l'argomentazione con la quale dimostra che usura offende la divina bontade ; e perciò gli usurieri son condannati alle pene dell'Inferno. Egli finge che sia Virgilio che gli dà tale spiegazione da lui richiesta : « Filosofia, mi disse, a chi la intende, « Nota non pure in una sola parte, « Come natura lo suo corso prende « Dal divino intelletto e da sua arte : « E se tu ben la tua Fisica note, « Tu troverai non dopo molte carte, « Che l'arte vostra quella, quanto puote, « Segue, come il maestro fa 'l discente, « Sì che vostr'arte a Dio quasi è nipote. « Da queste due, se tu ti rechi a mente « Lo Genesi dal principio, conviene « Prender sua vita ed avanzar la gente. « E perchè l'usuriere altra via tiene, « Per sè natura e per la sua seguace. « Dispregia, poichè in altro pon la speme. Perciò quando egli nel Canto xix con devota ammirazione esclama : « O somma sapïenza, quanta è l'arte « Che mostri in Cielo, in Terra e nel mal mondo, « E quanto giusto tua virtù comparte ! » ci costringe ancora ad ammirare che di tanta sapienza, arte e giustizia la sua mente sia un così splendido riflesso e la sua parola il più eloquente interprete. Non tutti i dannati celebri dei Pagani introdusse Dante nel suo Inferno, perchè non volle che gli mancasse lo spazio per cacciarvi tanti storici personaggi dell'èra cristiana ed anche suoi contemporanei, di ogni classe e condizione, laici e cherci, poveri e ricchi, e perfino re e imperatori, e papi e cardinali. Di alcuni di quei dannati che Dante non rammentò raccolsero i nomi gli Scienziati per formarvi certe particolari denominazioni scientifiche. Gli Zoologi chiamaron Tantalo un uccello della classe dei Trampolieri, simile all'Airone ed all'Ibi. I Chimici da Tantalo denominaron Tantalio un nuovo elemento o corpo che partecipa della natura dei metalli per le sue proprietà fisiche, ma se ne scosta per varii caratteri chimici ; e inoltre ne formarono i derivati o composti Tantalite, Tantalati, ossido di Tantalio, acido tantalico, ecc. Delle Danaidi fu dato il nome dagli Zoologi a certe farfalle che hanno nera la testa e il corpo con alcuni punti bianchi, e le ali di color di fulvo o biondo, contornate di nero e sparse esse pure di punti bianchi ; e dai Botanici si chiamò Danaide un genere di piante rampanti della famiglia delle rubiacee, con fiori rossi che spandono piacevole odore. Anche in Meccanica ha il nome di Danaide una specie di ruota idraulica che serve a convertire il movimento rettilineo di una corrente d'acqua in un movimento di rotazione continua ; e si fece così una felice allusione al continuo attinger dell'acqua, che era la pena delle Danaidi. **** *book_ *id_body-2-32 *date_1874 *creator_pescatori XXXI Il Genio e i Genii Fu detto nella classazione generale degli Dei (V. il N. III) che il Genio era considerato dai Latini come un Dio di prim'ordine, ossia della classe degli Dei superiori o celesti, e, secondo l'etimologia della parola, come la forza generatrice della creazione. Ma essendo carattere proprio della falsa religione del Politeismo il moltiplicare gli Dei, come nei falsi sistemi di governo si moltiplicano gl'impiegati, comiciarono i mitologi a supporre che questo unico Genio sarebbe troppo occupato a provvedere da sè solo a tutti gli esseri della creazione ; e perciò immaginarono che vi fossero Genii particolari per ciascun popolo, e poi per ciascun luogo, e finalmente per ciascuna persona ; e in tal modo li moltiplicarono all'infinito. Ma non basta. Dopo aver detto che un Genio particolare presiedeva alla vita di ciascuna persona e l'accompagnava e dirigeva dalla culla alla tomba, considerando l'indole diversa degli uomini, o buona o rea, furono indotti a credere che esistessero Genii buoni e benefici e Genii maligni e malefici, che fossero in lotta tra loro per avere il predominio sul mondo in generale e sugli esseri umani in particolare). Nè queste idee eran proprie soltanto dei Politeisti greci e latini ; anzi non furon nemmeno di loro invenzione, poichè sappiamo di certo che ebbero origine nell'Oriente e prevalsero principalmente tra gl'Indiani e i Persiani, e poi passarono agli Egizii, e finalmente ai Greci e ai Romani. I Chinesi vi credono ancora oggidì. Inoltre è notabile che questa credenza nei Genii o negli spiriti, come poi si chiamarono nelle lingue nordiche, si diffuse più che altrove tra gli antichi Germani ; e che non si fosse del tutto dileguata a tempo del Goethe ce ne dà prova egli stesso colla sua quanto mirabile altrettanto fantastica invenzione del Fausto. E il nostro volgo, specialmente nelle campagne, non crede forse tuttora negli Spiriti e nel potere degli stregoni e fattucchieri che tengono il demonio per loro iddio ? Abbiamo perciò davanti a noi un soggetto o argomento che è una vera fantasmagoria mondiale dai tempi preistorici ai dì nostri, abbellito in varie guise dai poeti e dagli artisti, e in mille guise storpiato o goffamente raffazzonato dagli ignoranti. Non sarà dunque un fuor d'opera il risalire alle prime origini di questa invenzione. Tralascierò di parlare della Trimurti, o trinità Indiana di Brahma, Visnù e Siva, o di altre triadi poco da questa dissimili ; e mi basta per la spiegazione dei Genii il rammentare soltanto il dualismo, che riconosce due principii, o vogliam dire due cause supreme di tutte le cose, entrambe eterne, l'una opposta e nemica dell'altra ; e, senza aggiungervi nulla di mio, riporterò quel che ne dice un filosofo ortodosso, discepolo e fido seguace di Rosmini, il Pestalozza. Nel parlare del dualismo egli fa le seguenti osservazioni storiche e filosofiche : « Nell'ordine fisico la riflessione filosofica vide la produzione e la distribuzione, la luce e le tenebre, il caldo e il freddo ; nell'ordine morale la virtù e il vizio, l'amore e l'odio ; nell'ordine intellettuale l'errore e là verità. Bisognava dare a cose così opposte un principio opposto. Di qui nacque il dualismo indiano di Mahadeva e Bahavani, l'egizio d'Iside e Osiride, il persiano di Ormuzd e Ahriman, quello degli gnostici e di altri l'intelligenza e la materia. « Questa dottrina che ammette due principii coeterni, del bene e del male, insegnata antichissimamente da Manete, prese voga dopo stabilito il cristianesimo, per opera dei Manichei, seguaci di Manete ; ma dove gli antichi pel domma dei due principii avevano fabbricate diverse favole poetiche sulle creazioni opposte e sui combattimenti dei due principii, dai quali ripetevano le grandi catastrofi della natura, le guerre dei giganti, la corruzione ognor crescente del genere umano, il diluvio, i tremuoti, le eru zioni vulcaniche, e via discorrendo, i Manichei all'incontro sostenevano l'esistenza dei due principii con la sofistica, e maggior danno cagionavano alla morale pubblica e privata. ………………………… « Non v'è forse sistema di teologia presso gli antichi, sia che si parli degli Orientali, o dei Greci e dei Romani, che non ammetta il dualismo del principio benefico e del principio maligno. » Vien poi a concludere giustamente che con questo sistema si libera l'uomo da ogni responsabilità, sottomettendolo al cieco destino. A queste stesse conclusioni io giunsi per altra via, quando nel N° IV parlai del Fato e del Fatalismo. Passando ora alla Mitologia classica per ordine cronologico, noterò prima di tutto che i Genii nel linguaggio dei Greci eran detti Dèmoni ; e in Omero troviamo che gli stessi Dei davansi tra loro per onorificenza questo titolo. Perciò sembra più di tutte probabile la interpretazione della parola Dèmone derivandola da daimon che significa intelligente). Il popolo generalmente considerava questi Dèmoni o Genii come Dei che regolassero le vicende della vita degli uomini ; e dagli effetti li distingueva in agatodèmoni e in cacodèmoni, cioè in buoni e in cattivi spiriti. Anche i più celebri filosofi della Grecia, anzi del mondo, cioè Socrate, Platone e Aristotele, espressero la loro opinione su questi Dèmoni, o spiriti, o genii. Aristotele, il maestro di color che sanno, come lo chiama Dante, divise gli Immortali in Dei e in Dèmoni ; e i mortali in Eroi e in uomini. Platone così parla dei Dèmoni nel Convito : « Essi sono esseri intermediarii fra gli Dei e i mortali ; ed è loro ufficio l'interpretare e il recare agli Dei ciò che viene dagli uomini, e a questi ciò che vien dagli Dei ; …. poichè la Divinità non ha comunicazione diretta cogli uomini, ma soltantò per mezzo di Dèmoni. » E altrove aggiunge : « Ogni mortale alla sua nascita è affidato ad un dèmone particolare che lo accompagna sino alla fine della sua vita. » Conoscendo questi ufficii attribuiti anche dal divino Platone ai Dèmoni, non dee recar maraviglia che Filone, filosofo alessandrino, ma di stirpe ebraica, asserisse che i Dèmoni dei Greci equivalevano a quelli che Mosè chiama Angeli) ; ed Apuleio lasciò scritto che corrispondono ai Genii dei Latini. E queste etimologie e somiglianze di ufficio non furon contradette da alcuno. L'opinione poi di Socrate sull'esistenza dei Dèmoni o Genii non potrebbe esser più manifesta ; sapendosi da'suoi stessi discepoli Platone e Senofonte, che egli attribuivasi fin dalla prima gioventù un Dèmone il quale suggerivagli tutto ciò che doveva fare). Socrate diceva così per secondare il linguaggio e le idee dei suoi connazionali e per essere inteso da loro ; ma in cuor suo e per intimo convincimento era monoteista. Bastino a provarlo le seguenti massime che egli insegnava ai suoi discepoli : « Il Dio supremo governa il mondo come l'anima governa il corpo. L'anima stessa è di natura divina, e per conseguenza immortale. La vita futura sarà uno stato di rimunerazione secondo le opere di ciascuno. » Sembran parole copiate da qualche libro di Teologia cristiana ! Eppure Socrate viveva 4 in 5 secoli prima che incominciasse il Cristianesimo ! E perciò nel Politeismo fu Socrate giudicato eretico, e condannato a morte come violatore della Religione dello Stato e corruttore della gioventù. Il Dèmone dunque di cui egli parlava non poteva significare, nella sua segreta intenzione, una divinità mitologica, ma piuttosto l'ispirazione di quell'unico Dio in cui egli credeva. Abbiamo veduto di sopra, che i Genii dei Latini corrispondevano ai Dèmoni dei Greci : eran molto diversi i vocaboli per la loro etimologia, ma gli esseri per quelli significati nulla differivano secondo le opinioni religiose e filosofiche di quei tempi ; e perciò anche nel politeismo romano credevasi all'esistenza di genii buoni e di genii ma ligni). Quando poi i Pagani divenner Cristiani, confusero i Genii buoni cogli Angeli, e i cattivi coi Diavoli), trovandovi grandissima rassomiglianza quanto alle attribuzioni e agli effetti sulla vita degli uomini. La greca parola dèmone fu adottata nella lingua latina, ma poco usata dai classici, e molto dagli scrittori ecclesiastici. Da dèmone derivò in latino il diminutivo demonio ; ed ambedue questi nomi servirono nel Cristianesimo a significare gli spiriti infernali, ossia gli Angeli ribelli discacciati dal Cielo e condannati all'Inferno. Perciò Dante oltre al chiamarli Demonii e Diavoli, li chiama ancora angeli neri, come nel Canto xxiii dell' Inferno : « Senza costringer degli angeli neri, « Che vengan d'esto fondo a dipartirci. » Nelle Belle Arti spesso i Genii dei Pagani furono rappresentati in figura d'imberbi giovanetti colle ali come Cupido, e allora potrebbero facilmente confondersi cogli Angeli dei Cristiani ; ma per altro hanno quasi sempre qualche distintivo, perchè per lo più tengono nelle mani la patera o il cornucopia. Così nella colonna Traiana si vede alato il Genio della luce e con una fiaccola in mano al di sopra del carro di Diana ; e perciò non è possibile crederlo un Angelo. Quando poi i Genii sono senza le ali, indossano ancora la toga romana. Per altro i Genii delle persone con caratteri e distintivi pagani furono ammessi anche nell'arte cristiana, e si vedono per lo più nei monumenti sepolcrali in atto mesto e colla face rovesciata o spenta, simbolo di morte. I Pagani credevano ancora che esistessero i Genii delle città e dei diversi luoghi o territorii ; ma per lo più li rappresentavano in forma di serpenti e in atto di cibarsi delle frutta a loro offerte in una patera. Questa parola Genio ebbe un gran credito e un grande uso nella lingua latina), e lo ha tuttora nelle lingue affini e derivate, e specialmente nella italiana ; anzi in queste riceve sempre nuove applicazioni, ossia va sempre acquistando nuovi significati. Io citerò qui, come esempii, alcuni versi del Cecchi, del Parini, del Monti, del Manzoni, e del Giusti, in cui trovasi usato il vocabolo Genio in più e diversi significati ; e confinerò qualche prosaica osservazione filologica in una nota, essendo più che persuaso, convinto, che la poesia è più generalmente gradita che non la filologia. Il Cecchi, citato dal Vocabolario della Crusca, nei seguenti versi rammenta il Genio buono con tali caratteri che potrebbero convenire anche ad un Angelo : « Da chi lo feo gli fu dat'anco « Quel santo precettor, quell'alma guida « Genio appellato, il qual come ministro « Della ragion lo sproni al bene oprare, « E dall'opere ingiuste il tiri e frene. » Il Parini, nel suo celebre poemetto satirico il Giorno, personifica il Piacere come un Genio e così lo descrive : « L'uniforme degli uomini sembianza « Spiacque ai Celesti, e a varïar la Terra « Fu spedito il Piacer. Quale già i Numi « D'Ilio sui campi, tal l'amico Genio, « Lieve lieve per l'aere labendo, « S'avvicina alla Terra ; e questa ride « Di riso ancor non conosciuto. » « …………… « Gli s'aggiran d'intorno i Vezzi e i Giochi, « E come ambrosia le Lusinghe scorrongli « Dalle fraghe del labbro. » Il Monti, nel Canto intitolato : La Bellezza dell'Universo, usa la parola Genio nel senso più generale : « Ferve d'alme sì grandi e non indarno « Il Genio redivivo. Al suol romano « D'Augusto i tempi e di Leon tornarno. » Il Manzoni, nel suo mirabile Cantico il Cinque Maggio, chiama Genio la sua facoltà poetica : « Lui sfolgorante in soglio « Vide il mio genio e tacque ; « Quando con vece assidua « Cadde, risorse, e giacque, « Di mille voci al sonito « Mista la sua non ha : » Il Giusti nelle sue impareggiabili poesie usa molte volte il termine Genio, e per lo più nel significato d'ingegno straordinario e inventivo, come : « E anch'io in quell'ardua immagine dell'arte « Che al genio è donna e figlia è di natura, « E in parte ha forma della madre, in parte « Di più alto esemplar rende figura ; ecc. » « Rinnega il genio « Sempre punito « Se pur desideri « Morir vestito. » Ed anche ironicamente : « Fecero a un tratto un muso di defunto « Tutti, nel centro, a dritta ed a mancina, « E morì sulle labbra accidentato « Il genio di quel birro illuminato. » Finalmente il Giusti usò, benchè ironicamente, la parola Genii a significare scrittori di ingegno straordinario : « Con che forza si campa, « In quelle parti là ! « La gran vitalità « Si vede dalla stampa, « Scrivi, scrivi e riscrivi, « Que' Genî moriranno « Dodici volte l'anno, « E son lì sempre vivi). » **** *book_ *id_body-2-33 *date_1874 *creator_pescatori XXXII Gli Oracoli Quantunque gli Oracoli più celebri fossero nella Grecia ed esistessero molti secoli prima della fondazione di Roma, questo vocabolo sotto cui si conoscono in italiano e in altre lingue moderne è d'origine latina ; e derivando dal nome os, oris (labbro o bocca), sta a significare le risposte a voce che rendevansi dagli Dei ai mortali per mezzo dei sacerdoti). Perciò, stando all'etimologia della parola, qualunque altro modo di manifestazione dei voleri divini che non fosse a voce, non potrebbe a rigore chiamarsi oracolo, ma piuttosto divinazione, cioè interpretazione della volontà degli Dei. Lo stesso è da dirsi del vocabolo responsi, latinismo che è divenuto in italiano il termine solenne e poetico delle risposte degli Oracoli). Inoltre la parola Oracolo significa talvolta lo stesso che responso, e tal'altra il luogo sacro in cui si rendevano i responsi : e questa differenza di significato facilmente s'intende dal contesto delle diverse frasi. I più noti e celebri Oracoli eran quelli di alcune delle Divinità Maggiori e principalmente di Giove e di Apollo. Giove ne aveva tre, e Apollo ventidue ; Giunone, Cerere, Mercurio e Plutone ebbero soltanto un oracolo per ciascuno di loro ; delle Divinità inferiori o terrestri, quasi nessuna ebbe oracoli ; e piuttosto preferirono i Pagani di attribuirli a più d'uno degli Eroi o Semidei, come per esempio ad Esculapio, a Trofonio, ad Ercole, ad Amfiarao, ecc. Sommati giungeranno a più di quaranta oracoli. Sarebbe perciò troppo lungo discorso e monotono il parlar di tutti particolarmente ; ed io credo che invece basterà descriverne tre o quattro dei principali e più famosi, e passar leggermente sugli altri con qualche osservazione che sia ad essi comune. Fra tutti quanti gli Oracoli, il più celebre del mondo pagano era senza dubbio quello di Delfo ; e Apollo a cui attribuivansi quei responsi fu perciò chiamato Delfico) ; e troviamo anche in Dante la perifrasi Delfica deità invece del nome di Apollo). Delfo (oggi Kastri), città della Focide nell'Acaia, situata fra il monte Cirfide e il monte Parnaso, conteneva fra le sue mura il tempio e il famosissimo oracolo di Apollo. Il territorio fu, come ora direbbesi, neutralizzato, e reso indipendente e sacro. Il governo era aristocratico o più veramente oligarchico, dipendendo con assoluta autorità da cinque Sommi Sacerdoti, che eran chiamati i cinque Santi. Credevasi che Apollo colà avesse ucciso il serpente Pitone che infestava quei luoghi ; e che perciò in origine la città di Delfo fosse detta Pito, donde l'appellativo di Pitio o Pizio dato ad Apollo, di Pitici o Pizii ai giuochi in onore di esso, di Pizia o Pitonessa alla sacerdotessa che invasata dal Nume proferiva mistiche parole, interpretate dai sacerdoti come responsi di Apollo. Gli Oracoli si rendevano in un sotterraneo del tempio, inaccessibile a tutti i profani, ed ove ammettevasi soltanto qualche devoto che ne avesse ottenuto dai sacerdoti il permesso. Nella parte più interna dell'adito, o sacro penetrale, eravi una voragine dalla quale esalavano vapori inebrianti da allucinar la vista e far venir le traveggole, ovvero mofetici da mozzare il fiato. Un tripode, che alcuni dissero coperto della pelle del serpente Pitone, serviva di sedile alla Pitonessa, ed era tenuto sospeso sulla voragine ; e ai piedi di quello pendeva un vaso circolare e concavo, una specie di caldaia, che i Greci chiamavano lebete e i Latini cortina, dentro la quale si conservavano i denti e le ossa del serpente Pitone. — In appresso la parola cortina in latino fu interpretata per tenda o velario, col qual significato è passata nella lingua italiana. Il furore divino che invasava la Pizia era l'effetto delle esalazioni naturali o artificiali che uscivano dalla voragine ; le mistiche parole che essa proferiva erano vocaboli sconnessi, detti a caso e senza alcun senso, che i sacerdoti cercavano di connettere in frasi ambigue, ossia con doppio senso ; e il sacro orrore che investiva i creduli devoti ammessi a queste fantasmagorie era la paura prodotta dalla tetraggine del luogo e dalla alterazione della loro fantasia). Fra tutti gli altri Oracoli di Apolló il più notabile era quello di Claro nel territorio di Colofone, perchè godeva molta rinomanza e continuò ad esser consultato anche sotto gl'Imperatori romani), come narrano Pausania, Strabone e Tacito ; e quest'ultimo storico autorevolissimo aggiunge che il sacerdote proferiva gli oracoli in versi. (Ann., II, 54.) Il più antico di tutti gli Oracoli della Grecia, secondo Erodoto, fu quello di Giove in Dodona città dell'Epiro ; e i responsi si deducevano per interpretazione o divinazione in tre modi : 1° dal movimento impresso dal vento alle foglie delle quercie consacrate a Giove ; 2° dal romore dei bacini di bronzo sospesi a contatto fra loro, e ciecamente o a caso percossi ; 3° dal mormorio delle acque di una sacra fontana, modi affatto primitivi e d'immaginaria interpretazione. Quest'Oracolo cominciò ad esser poco frequentato appena che acquistò fama quello di Delfo, che era il più centrale della Grecia e rendeva responsi in un modo più solenne e soddisfacente. Quanto all'origine del tempio e dell'Oracolo di Giove Ammone nella Libia parlammo a lungo nel N° XI : ora basterà dire che in quest'Oracolo i responsi deducevansi dalle osservazioni degli smeraldi e delle altre pietre preziose, di cui era formata l'immagine del Nume, come asseriscono Diodoro Siculo e Q. Curzio. Anche i Romani ricorrevano talora a consultare gli Oracoli della Grecia ; e lo stesso T. Livio ne adduce diversi esempi, tra i quali il più celebre è quello, già da noi registrato, dei figli di Tarquinio il Superbo : ma per regola generale preferivano i così detti oracoli delle Sibille, vale a dire le risposte dei libri sibillini, di cui parleremo altrove. V'erano per altro anche in Italia alcuni Oracoli, che perciò eran detti Italici, come l'antico oracolo di Fauno, rammentato da Virgilio nell'Eneide, quelli della Fortuna, di Marte, ecc. ; ma appartenevano piuttosto alla vera e propria divinazione, perchè non rendevano responsi a voce, ma consistevano nella interpretazione di segni casuali, ed anche di sogni che si facessero addormentandosi in quei sacri recinti. E come se tutto ciò fosse poco, vi si aggiunsero gli Augurii, di cui eran solenni mæstri gli Etruschi ; e da essi li appresero i Romani che ne facevano un uso frequentissimo negli affari pubblici e nei privati, come sappiamo anche dagli storici di Roma. Gli Oracoli e tutti gli altri modi di divinazione preindicati erano altrettante solenni imposture del Politeismo, e sì abilmente organizzate da allucinare per molti secoli non solo i popoli rozzi e barbari, ma quelli ancora « ………..che fenno « L'antiche leggi e furon sì civili. » Che fossero un'impostura dei sacerdoti pagani non credo che sia d'uopo dimostrarlo ai tempi nostri, tanti secoli dopo che furon riconosciuti falsi e bugiardi gli stessi Dei a cui quegli oracoli erano attribuiti. Sebbene i primi scrittori ecclesiastici si affatichino a citare centinaia di autori che avevano scritto contro gli Oracoli, per noi non è necessario tanto lusso di erudizione, tanta ricchezza di testimonianze ; e ci basterà il sapere che ne pensassero Demostene, Cicerone e Catone Uticense, di ciascuno dei quali l'autorità val per mille. Demostene in una delle sue celeberrime Orazioni disse pubblicamente al popolo di Atene, che la Pizia filippeggiava, vale a dire che l'Oracolo di Delfo era corrotto dall'oro del re Filippo padre di Alessandro Magno. Cicerone compose un'opera sulla Divinazione, nella quale confuta ad una ad una tutte le asserzioni di suo fratello Quinto sulle pretese cause soprannaturali degli Oracoli e di qualunque altra creduta manifestazione della volontà degli Dei). Catone Uticense ai suoi amici che gli suggerivano (quand'egli era in Affrica armato contro Cesare) di consultare l'Oracolo di Giove Ammone, rispose, che gli Oracoli erano buoni per le donne, i fanciulli, e gl'ignoranti. Cominciarono dunque a screditarsi gli Oracoli il quarto secolo avanti l'èra cristiana, come intendiamo dal sommo Orator della Grecia, e il discredito andò sempre crescendo molto prima della introduzione del Cristianesimo, come sappiamo dal sommo Orator romano e dal più insigne degli ultimi repubblicani dell'antica Roma. Che mi va dunque fantasticando Plutarco nel suo trattato sulla Deficienza degli Oracoli coll'attribuire alla morte di alcuni Dèmoni o Genii che vi presiedevano la cessazione di alcuni oracoli, che derivò soltanto dal discredito in cui eran caduti ? Egli che visse sino all'anno 119 dell'èra cristiana e si mantenne pagano, e registrò nelle sue opere tutti i più strani ed assurdi miracoli del Politeismo, non seppe conoscere la vera causa della decadenza della religione pagana, e le diede, forse senza avvedersene, un colpo mortale, ammettendo la morte di alcuni Dèmoni o Genii ; poichè questa asserzione implicava la possibilità che morissero tutti gli altri ; e inoltre il creder negli Dei e il supporre che non fossero immortali era una contradizione, la negazione della loro stessa divinità, e perciò del culto religioso che ne dipendeva. I primi Cristiani attribuirono gli Oracoli all'opera dei Demònii, ed asserivano che la potenza di questi era cessata col sorger del Cristianesimo ; e così assegnavano gratuitamente e senza necessità una causa soprannaturale a ciò che era l'effetto naturalissimo della impostura dei sacerdoti pagani, da prima nascosta ed ignota, e poi a poco a poco scoperta e smascherata. Resta per altro a spiegarsi il fatto storico, pur troppo vero e indubitabile, che per tanti secoli gli Oracoli avessero credito e fama non solo presso gl'ignoranti, ma anche presso i dotti e sapienti. E questo è argomento di più alta indagine, sul quale piacemi un poco di trattenermi. Che i più celebri Oracoli abbiano avuto origine nei tempi preistorici è asserito non solo dai mitologi, ma da tutti i più antichi scrittori. I mitologi dicono (come notammo nel N. XIV) che Deucalione e Pirra, dopo l'universale diluvio, consultarono l'Oracolo di Temi sul monte Parnaso. Omero parla degli Oracoli, delle divinazioni e degli augurii come di cose antiche ai tempi della guerra Troiana, nella quale l'indovino Calcante rappresenta una parte importantissima, come interprete degli Dei, nei parlamenti di quei famosi guerrieri e nei segreti consigli di Stato. Fu poi riconosciuto anche dai filosofi che i primi civilizzatori dei popoli si valsero del principio teocratico, facendosi credere o figli degli Dei o interpreti dei supremi voleri di quelli, per rimuovere i primitivi uomini ignoranti e barbari dalla vita selvaggia e brutale e condurli a collegarsi ed unirsi fra loro in un più umano consorzio. Quel che di Orfeo dice Orazio nella Poetica è applicabile a tutti i fondatori delle antiche religioni ; dal che deducesi che il governo teocratico fu il primo governo regolare e il primo cemento della civil società). In questo concetto si trovano d'accordo mitologi, poeti, storici e filosofi. Che più ? Lo stesso Machiavelli dice chiaramente e senza bisogno d'interpretazione : « Fra tutti gli uomini laudati sono laudatissimi quelli che sono stati capi e ordinatori delle religioni. » E dopo avere attribuito gradatamente qualche parte di laude maggiore o minore secondo la diversa importanza a tutte le altre occupazioni ed arti utili alla umana società, aggiunge con forza mirabile di convinzione : « Sono, per lo contrario, infami e detestabili gli uomini destruttori delle religioni, dissipatori de'regni e delle repubbliche, inimici delle virtù, delle lettere e d'ogni altra arte che arrechi utilità e onore alla umana generazione, come sono gli empii e i violenti, gli ignoranti, gli oziosi, i vili e i da poco. E nessuno sarà mai sì pazzo, o sì savio, o sì tristo, o sì buono, che propostagli la elezione delle due qualità d'uomini, non laudi quella che è da laudare e biasimi quella che è da biasimare. » (Discorsi, lib. I, cap. 10.) E passando egli dalle osservazioni generali alle particolari sulla religione dei Pagani, così ne parla nel Cap. 12 : « La vita della religione gentile era fondata sopra i responsi degli Oracoli, e sopra la sètta degli arioli e degli aruspici ; tutte le altre loro cerimonie dipendevano da questi. Perchè loro facilmente credevano che quello Dio che ti poteva predire il tuo futuro bene o il tuo futuro male, te lo potesse ancora concedere. Di qui nascevano i tempii, di qui i sacrifizii, di qui le supplicazioni ed ogni altra cerimonia in venerarli, perchè l'oracolo di Delo, il tempio di Giove Ammone ed altri celebri Oracoli tenevano il mondo in ammirazione e devoto. » Da tutte le preaccennate autorità e da altre molte che si potrebbero citare, e delle quali ciascun che legge queste pagine avrà facilmente præ manibus più d'una, si può dedurre con sicurezza di non errare, che gli Oracoli e gli altri modi d'interpretazione della volontà degli Dei furono inventati da prima con intenzion casta e benigna per uno scopo altamente sociale, e che essendo diretti al pubblico bene furono utilissimi, e divennero, come direbbe il Romagnosi, uno dei primi fattori dell'Incivilimento. Infatti le risposte degli Oracoli ebbero efficacia di raccogliere e riunire in nazione le sparse tribù elleniche, e d'ispirar loro l'amore della patria comune e il coraggio per difenderla contro le straniere invasioni. Il responso della Pizia, che i Greci si difendessero in mura di legno, suggerì saggiamente di combatter per mare le innumerevoli orde di Serse, e ne derivò la famosa vittoria di Salamina, gloria eterna di Temistocle e della Grecia). Le più belle massime antiche morali e filosofiche eran credute responsi degli Oracoli ; e la più sapiente e mirabile di tutte, espressa con queste poche parole : conosci te stesso, leggevasi scritta sul pronao del tempio di Apollo in Delfo. Cicerone che l'analizza filosoficamete nelle Tusculane, chiama il Nosce te precetto di Apollo, ed aggiunge che essendo di tal sublimità da parer superiore all'ingegno umano, fu perciò attribuito a un Dio). Finchè dunque i sacerdoti che facevan parlare gli Oracoli furon dotti e sapienti e amarono la libertà e il pubblico bene, anche i dotti e i sapienti del mondo ammirarono ed encomiarono la loro santa impostura), e ben si guardavano dallo svelarne al popolo l'artifizio e screditarla. Ma però…… e qui cedo la parola al Machiavelli, « come costoro cominciarono dipoi a parlare a modo dei potenti, e questa falsità si fu scoperta nei popoli, divennero gli uomini increduli ed atti a perturbare ogni ordine buono. » Fu allora che venne fuori Demostene a dire pubblicamente che la Pizia filippeggiava, e in appresso Cicerone a dimostrare filosoficamente che la Divinazione era immaginaria e insussistente, e Catone ad asserire che gli Oracoli eran buoni soltanto per le donne, i fanciulli e gl'ignoranti. E il Paganesimo cadde e seco trasse in ruina e in frantumi la pagana società, tanto illustre e potente finchè non disconobbe e non calpestò i principii eterni della morale, senza i quali non può prosperare l'umano consorzio, nè sostenersi religione alcuna, perchè la fede senza le opere è morta). **** *book_ *id_body-2-34 *date_1874 *creator_pescatori Epilogo Abbiamo veduto, parlando sin qui degli Dei Superiori soltanto, che la cognizione della Mitologia greca e romana è lo studio delle principali idee religiose, politiche e scientifiche dei due più celebri popoli dell'Europa che fenno le antiche leggi e furon sì civili, e della cui civiltà è figlia la nostra. Se una gran parte di queste loro idee, quali si trovano espresse e rappresentate dai loro poeti, ci sembrano fantastiche e strane, essi forse potrebbero dir come Dante : « Mirate la dottrina che s'asconde « Sotto 'l velame degli versi strani. » I loro filosofi per altro furono i primi a ridurle al. loro più vero significato, sceverandole dalle fantasmagorie della immaginazione e dalle assurde credenze del volgo ; e così insegnarono a noi come doveva intendersi e studiarsi la loro Mitologia. Cicerone specialmente, in questa parte, è più esplicito ed aperto degli altri ; e perciò i suoi libri sulla Natura degli Dei, sul Fato e sulla Divinazione furon considerati dai più scrupolosi Pagani siccome contrarii alla religione del Politeismo, mentre all'opposto i Santi Padri dei primitivi tempi del Cristianesimo citarono i detti di Cicerone forse più spesso di quei della Bibbia. Andando su queste traccie, riesce più facile o almeno più probabile la spiegazione di molte idee mitologiche degli antichi Pagani ; e facendo tesoro delle interpretazioni che hanno date alle medesime, non solo i nostri poeti, e principalmente l'Alighieri, ma pur anco i filosofi di maggior fama, possiamo almeno conoscere quale opinione avessero dell'antica sapienza contenuta nella Mitologia gli uomini più grandi e più sommi. La più evidente interpretazione dei miti abbiamo veduto esser quella di considerare le Divinità del Gentilesimo come altrettante personificazioni o deificazioni dei fenomeni fisici e delle passioni degli uomini, e perfino delle idee non solo concrete, ma anche astratte, come noteremo più specialmente nelle seguenti parti di questa Mitologia. Infatti risalendo alla Cosmogonia dei Pagani, la materia era eterna, il Caos era un Dio, ed erano Divinità anche gli elementi che lo componevano, cioè il Fuoco ossia la Luce, l'Aria, l'Acqua e la Terra. Che più ? anche la Notte, ossia l'oscurità, l'assenza della Luce, era una Dea ; e tutti questi Dei e Dee avevano figli e figlie che erano altrettante Divinità ; le quali venivano a rappresentare i diversi effetti o fenomeni speciali, che, secondo le antiche idee (vere o false che fossero), dalla combinazione di quei principali elementi si producevano. Perciò abbiamo notato frequentemente in quali casi, secondo i moderni progressi delle scienze, le idee degli Antichi fossero vere, e in quali false. Quindi, per esempio, alla causa mitologica delle eruzioni vulcaniche abbiamo aggiunto la spiegazione della causa fisica delle medesime ; alla formazione favolosa del fulmine la causa vera di questo fenomeno ; e così di tante altre. Oggidì che hanno sì gran credito gli studii preistorici sugli uomini primitivi dell'età delle armi di pietra e delle abitazioni lacustri, di quel tempo cioè in cui i nostri antenati Europei eran forse più rozzi dei selvaggi dell'America scoperti da Colombo, non potrà stimarsi meno importante lo studio intorno alle origini delle idee morali che ebbero tanta efficacia sulla civiltà greca e romana. Se negli Dei superiori di cui abbiam parlato in questa prima Parte troviamo personificate le più grandi leggi fisiche e le più notabili idee della vita morale e sociale, procedendo alla seconda Parte vi troveremo l'applicazione di quelle ai casi più speciali ed anche individuali. Nella terza poi vedremo cambiarsi la scena : le grandi virtù, congiunte sempre a grandissima forza fisica, si considerano incarnate negli uomini dalle Divinità per mezzo di matrimonii misti, che danno origine ai Semidei ed agli Eroi ; e questi son sempre in lotta coi mostri e coi grandi scellerati e ne purgano il mondo. È l'epoca eroica dei popoli antichi, è la base o il substrato della loro incipiente civiltà e della loro storia nazionale. Passata quest'epoca, che è la più poetica e che ha dato origine e materia ai più celebri poemi epici, si continua la personificazione di nuove idee astratte, non solo delle virtù, ma pur anco dei vizii, e si termina con l'apoteosi degl'Imperatori romani, che fu l'ultimo anelito del Paganesimo. fine della prima parte della mitologia