Costantino Pescatori

1874

La mitologia greca e romana. Volume II

2019
Costantino Pescatori, La mitologia greca e romana: Dichiarazione non solo de’ greci e de’ latini poeti ma degl’italiani e d’altre nazioni e di molte locuzioni viventi tuttavia nel comune linguaggio; esposta dal D.r Costantino Pescatori in uso delle scuole e di ogni colta persona, volume II, Firenze, Tipografia della Gazetta d’Italia, 1874, in-12, p. 260-530. PDF : Google.
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Parte II

Degli dei inferiori o terrestri §

XXXIII

Osservazioni generali §

Nella classazione generale delle Divinità del Paganesimo (vedi il N. III) fu accennato che gli Dei di 2° ordine eran detti Inferiori o Terrestri ; e questi appellativi spiegano bastantemente la minor potenza e l’ordinario soggiorno di tali Dei sulla Terra. Gli Dei Superiori, di cui abbiamo parlato nella Iª Parte, erano soltanto venti, e gl’Inferiori a migliaia, e costituivano la plebe degli Dei, come li chiama Ovidio : de plebe Deos. Fortunatamente, per chi deve studiar la Mitologia, a ben pochi di questi Dei fu dato dai Pagani un nome proprio, e la maggior parte furon compresi sotto certe generali denominazioni, come ora suol farsi nella Storia Naturale in cui si distinguono soltanto i generi, le specie, le famiglie, le varietà, ecc. e non gl’individui, o vogliam dire i singoli prodotti naturali. E a render più facile il còmpito di chi vuole imparar la Mitologia contribuisce ancora il non avere inventato i Pagani molti miti o fatti miracolosi riferibili a questi Dei Inferiori, perchè molto limitata credevano la loro potenza. Abbiamo notato nel principio del N. IV che, ammessi più Dei, nessuno di loro poteva essere {p. 260}onnipotente, perchè il poter di ciascuno era limitato dalle speciali attribuzioni degli altri ; e se ciò era vero per gli Dei Superiori e per lo stesso Giove, come ci è accaduto di narrare più volte, tanto più è presumibile e conseguente per gli altri Dei che furon detti e considerati Inferiori.

Agli antichi Mitologi non bastò l’avere assegnato tre Dee al globo terrestre, come notammo nel N. VIII, ed anche altre Divinità Superiori ai principali prodotti della Terra, cioè Cerere alle biade, Bacco al vino, Vulcano alla metallurgia, ecc. ; e lasciando libero il freno alla immaginazione videro Divinità da per tutto, nei monti, nei fiumi, nelle fonti, nelle selve e perfino nelle piante, come col microscopio si vedono da per tutto brulicar gl’insetti e gl’infusorii. Sappiamo poi dagli scrittori ecclesiastici dei primi secoli del Cristianesimo (i quali studiavano con gran premura ed attenzione la Mitologia per dimostrare le assurdità della religione degl’Idolatri)1, molte particolarità che non si trovano altrove, perchè le trassero da quei libri dei Pagani2, che posteriormente furon perduti o distrutti nelle successive invasioni dei Barbari.

E qui mi basterà rammentare, a proposito di quanto ho accennato di sopra, che il vescovo d’Ippona (S. Agostino) asserisce che i Pagani erano giunti ad assegnare quattordici Divinità alla vegetazione del grano. Anzi vi aggiunsero anche un altro Dio, che schiverei di rammentare, se, oltre Lattanzio, non ne parlasse anche Plinio il Naturalista ; ed era il Dio Sterculio o Stercuzio, così detto perchè aveva inventato il modo di render più fertili i terreni col fimo o concime. Plinio asserisce che era questi un re d’Italia {p. 261}deificato per sì utile insegnamento3. Di tali divinità il cui ufficio si conosce e s’intende dal significato del loro stesso nome ve n’era un bel numero nel Politeismo, come per esempio, il Dio Robigo, la Dea Ippona, il Dio Locuzio, la Dea Mefiti, ecc. ecc. ; e basta conoscere l’etimologia e il significato di questi vocaboli per intendere qual fosse l’ufficio di tali Dei. Non dovrà dunque recar maraviglia che il dottissimo Varrone, contemporaneo ed amico di Cicerone, abbia annoverati trentamila Dei del Paganesimo, come dicemmo nel N. III ; e deve parer probabile che fossero aumentati da quell’epoca al tempo in cui scriveva S. Agostino, cioè in più di quattro secoli, poichè i Pagani avevano libertà di adottare anche gli Dei stranieri, e poi per mezzo della cerimonia detta l’Apoteosi facevano diventar Divi i loro Imperatori dopo la morte, e spesso li consideravano tali anche in vita4.

Anche Dante confrontando, nel Canto xix dell’Inferno, il numero degli Dei degl’ Idolatri con quelli d’oro e d’argento adorati dai Simoniaci, e dichiarando che questi Dei son cento volte più numerosi di quelli, accetta per lo meno il computo di Varrone, poichè così rimprovera i Simoniaci stessi5 :

{p. 262}« Fatto v’avete Dio d’oro e d’argento ;
« E che altro è da voi all’ Idolatre6
« Se non ch’egli uno e voi n’orate cento7 ? »

Convinti dunque che il numero degli Dei Pagani fosse anzi più che meno di trentamila8, e assicurati al tempo stesso che migliaia e migliaia di questi sono sine nomine vulgus, e da spacciarsi in massa, (o come taluni dicono in {p. 263}blocco) e con poche e generali considerazioni sul loro comune appellativo, procediamo senza spaventarci ad osservare anche altre fantasmagorie preistoriche dei nostri più remoti Antenati.

XXXIV

Il Dio Pane §

Prima di parlar dell’etimologia del nome di questo Dio e degli ufficii di lui, credo opportuno di presentarne il ritratto. È una eccezione al mio metodo, che mi par giustificata dall’ufficio eccezionale e dalla forma particolare di questo Dio. Egli è mezz’uomo e mezzo bestia : ha le gambe e i piedi di capra, il naso camuso, ossia schiacciato, le orecchie a sesto acuto, ossia appuntate dalla parte superiore, e due lunghissime corna gli torreggiano sopra la fronte. Tutte le altre sue membra son di forma umana, ma coperte di pelo caprino ; e in queste membra semibestiali alberga l’anima di un Nume immortale. Quantunque abbiamo trovato prima d’ora, e troveremo anche in appresso, qualche Divinità che, a giudicarne dalla forma, si prenderebbe piuttosto per un mostro di natura che per un essere soprannaturale, il Dio Pane richiama maggiormente la nostra attenzione per gli uffici che gli furono attribuiti, e per quanto ragionan di lui non solo i poeti, ma anche gli storici e i filosofi.

Il nome di questo Dio in greco è Pan che significa tutto ; e gli antichi Mitologi basandosi sul significato di questo vocabolo e interpretando la forma strana di questo Nume come emblematica dei principali oggetti della creazione, lo considerarono come simbolo della Natura o dell’Universo. Questa etimologia e la conseguente spiegazione, furono adottate nei {p. 264}dizionari etimologici delle lingue dotte e in quelli enciclopedici più moderni9.

Bacone da Verulamio, che nel suo libro De Sapientia Veterum spiegò anche troppo minutamente e sottilmente il mito del Dio Pane, dichiara che gli Antichi lasciarono in dubbio la generazione di questo Dio, osservando che non si accordavano i Mitologi ad assegnargli i genitori, poichè lo stimavano figlio chi di Giove e di Calisto, chi di Mercurio e di Penelope, ed anche di Urano e di Gea, ossia Tellure. Afferma per altro che tutti eran d’accordo (e vi si unisce anch’egli) nella etimologia della parola Pan e nel simbolo indicato da questo Dio che, cioè, significhi il tutto e rappresenti perciò l’universa natura10. Ma la spiegazione che soglion dare delle diverse parti della figura del Dio Pane, e più specialmente delle corna, dei velli e degli zoccoli caprini, non solo i Mitologi quanto ancora il celebre filosofo Inglese, potrà sembrare ai dì nostri piuttosto uno sforzo d’immaginazione, che una indubitabile interpretazione, poichè dicono sul serio che le corna significano i raggi del Sole e la Luna crescente, i velli gli alberi e i virgulti del nostro suolo, e i solidi zoccoli caprini la stabilità della Terra. Risparmierò al cortese lettore altre {p. 265}simili spiegazioni ; e aggiungerò soltanto al ritratto del Dio Pane, che ho delineato in principio, i distintivi che gli si davano perchè non si confondesse con altre inferiori divinità di forme presso a poco così graziose come quella di lui. Sul dorso aveva un mantello o clamide di pelle di pardo, in una mano la verga pastorale e nell’altra la sampogna. Di questi tre distintivi non sarà inutile dar la spiegazione, perchè riesce più concludente. Infatti, essendo il Dio Pane considerato come il protettore dei cacciatori e dei pastori, ed inoltre l’inventore della sampogna, i tre distintivi preaccennati rammentano chiaramente questi tre attributi. Della sampogna poi convien raccontare pur anco l’origine mitologica.

Al Dio Pane avvenne un caso simile a quello di Apollo rispetto a Dafne. Egli pure voleva sposar per forza una Ninfa di nome Siringa ; ma essa avendo pregato gli Dei a liberarla da un sì fatto sposo, ottenne soltanto di esser cangiata in canna, come Dafne in lauro. E il Dio Pane gareggiando con Apollo ad onorare in quella pianta la prediletta Ninfa, formò di sette canne di diversa lunghezza, unite fra loro colla cera, un musicale stromento, che in greco chiamavasi col nome stesso della Ninfa, cangiata in canna, cioè Siringa, in latino fistula e in italiano sampogna11. Siccome Siringa in greco significa canna, la somiglianza del nome potè aver dato origine a questa favola, come dicemmo dei nomi di Dafne, di Giacinto, di Ciparisso ecc.

Sul rozzo stromento della sampogna fanno i Mitologi una infinità di commenti. Non contenti di eredere che le sette {p. 266}canne simboleggino i sette toni della musica, o, come ora direbbesi, le sette note musicali, immaginarono che rappresentassero l’armonia delle sfere, secondo le idee di Pitagora.

Dante rammenta la favola di Siringa nel Canto xxxii del Purgatorio ; e, com’è suo stile di esser concisissimo e presentare al lettore più idee che parole, qui è più conciso che altrove, poichè con una sola similitudine e in soli due versi e mezzo, riunisce due miti, ed allude evidentemente al racconto che ne fa Ovidio nel lib. i delle Metamorfosi, che cioè Mercurio per addormentare Argo non solo suonasse la lira, ma gli raccontasse pur anco la favola di Pane e Siringa :

« S’io potessi ritrar come assonnaro
« Gli occhi spietati, udendo di Siringa,
« Gli occhi a cui più vegghiar costò sì caro ;
« Come pittor che con esemplo pinga
« Disegnerei com’ io m’addormentai ;
« Ma qual vuol sia che l’assonnar ben finga. »

Il Dio Pane, mancatagli la sposa che ambiva, si ammogliò in appresso colla Ninfa Eco, la quale era stata da Giunone cangiata in voce, in punizione della sua loquacità, e condannata a tacere se nessun le parlava, ed a ripeter soltanto le ultime voci di chi le dirigeva il discorso : favola ricavata evidentemente dai noti effetti del fenomeno acustico dell’Eco. Il matrimonio del Dio Pane con questa Ninfa sembra significare che solo ai detti suoi l’Eco rispose.

Questo Dio era adorato principalmente in Arcadia come Dio dei pastori, e da quella regione fu trasportato il suo culto in Italia dall’Arcade Evandro tre secoli e mezzo prima della fondazione di Roma. Evandro aveva fissata la sua residenza su quel monte che egli chiamò Palatino dal nome di suo figlio Pallante, ed ove poi fu da Romolo fabbricata l’eterna città. Anche a tempo di Cicerone, com’egli racconta nelle sue {p. 267}epistole familiari, esisteva sotto quel colle un antro consacrato da Evandro al Dio Pane.

Dai Romani ebbe questo Dio anche il nome di Luperco (ab arcendis lupis) dal tener lontani i lupi dal gregge ; e si celebravano le feste Lupercali, in onore cioè di Luperco, ossia del Dio Pane, nel mese di febbraio. Son celebri nella storia romana i Lupercali dell’anno 710 di Roma, poichè in quel giorno offrì Marc’Antonio il regio diadema a Cesare che lo ricusò ; e Cicerone rammenta questo fatto più volte nelle sue opere, e specialmente nelle filippiche contro lo stesso Marc’Antonio.

Dal nome del Dio Pane è derivata l’espressione di timor pànico, che etimologicamenie significa timore ispirato o incusso dal Dio Pane ; e, nella comune accezione, timore che assale all’improvviso e non ha fondamento o causa razionale o evidente.

« Temer si deve sol di quelle cose
« Che hanno potenza di fare altrui male :
« Dell’altre no, chè non son paurose, »

diceva Dante nella Divina Commedia ; ma non tutti gli uomini e non sempre possono ragionare freddamente e conoscer subito la causa delle cose ; e per casi nuovi o ignorati o non preveduti avviene spesso che si alteri la fantasia, specialmente del volgo, e si tema ove nessuna ragion v’è di temere. Ma perchè questo improvviso e mal fondato timore debba chiamarsi pànico, ossia prodotto dal Dio Pane, anzichè Plutonico, o diabolico, o altrimenti, cerca di spiegarlo la Mitologia ; la quale, dopo avere asserito che il Dio Pane soggiornando nelle solitudini più selvagge e piene di sacro orrore, spaventa da quelle colla sua terribil voce i passeggieri, vi aggiunge, quali prove di fatto, diversi aneddoti riferiti nelle antiche storie, come per esempio, che il Dio Pane al tempo della battaglia di Maratona parlasse a Fidippide Ateniese, e {p. 268}gli suggerisse il modo di spaventare i Persiani ; che la voce di questo Dio, uscita dalle sotterranee caverne del tempio di Delfo, atterrisse e mettesse in fuga i Galli che volevano saccheggiare quel ricchissimo tempio, ecc. È però da notarsi che gli aneddoti riferibili alle voci miracolose del Dio Pane, raccontati da Erodoto, da quel miracolaio di Plutarco e da altri scrittori di minor conto, sono la relazione delle popolari credenze prevalenti a quei tempi, e non la storica dimostrazione della verità dei fatti. Anche Tito Livio racconta molti miracoli nella sua Storia Romana, ma non li garantisce, e aggiunge quasi sempre un si dice, o si crede ; e nella prefazione dichiara esplicitamente che egli non intende di confermarli nè di confutarli12.

Ma poichè timor pànico venne posteriormente a significare anche presso i Pagani una paura senza fondamento, ciò stesso dimostra che si aveva per una ubbìa e non per un miracolo. Anche Cicerone nelle sue Opere usa almeno due volte, per quanto mi ricordi, l’aggettivo pànico riferito a timore o romore, ma lo scrive con lettere greche, perchè greca è l’origine di questo aggettivo al pari del nome Pan da cui deriva, e perchè quel celeberrimo oratore lo credeva un neologismo che non avesse ancora acquistato la cittadinanza romana. È però usato nelle lingue moderne comunemente, e parlando e {p. 269}scrivendo, e trovasi anche registrato nei vocabolarii non solo italiani, ma altresì in quelli francesi, inglesi e spagnuoli : anzi gl’Inglesi l’usano assolutamente come nome.

E per non chiudere il capitolo con queste quisquilie filologiche, terminerò esponendo una solenne osservazione filosofica del celebre Bacone da Verulamio sul timor pànico. Egli afferma che ai timori veri e necessari per la conservazion della vita si aggiungono sempre molti timori vani, da cui tutti gli uomini, chi più, chi meno, sono assaliti ; e quindi nota come immensamente più dannosa di qualunque altra vana paura la superstizione, che veramente, com’ egli dice, non è altro che un terror pànico (quœ vere nihil aliud quam panicus terror est).

XXXV

I Satiri ed altre Divinità campestri §

Chiunque ha veduti sculti o dipinti i Satiri avrà notato una gran somiglianza di forme fra essi e il Dio Pane, e riconoscerà quanto graziosamente e concisamente il Redi nel suo Ditirambo intitolato Bacco in Toscana li abbia definiti :

« Quella che Pan somiglia
« Capribarbicornipede famiglia. »

Molti di essi formavano il corteo di Bacco, come dicemmo parlando di questo Dio, ed ivi notammo che per frastuono, stravizii ed ogni genere di follie non la cedevano alle più effrenate Baccanti. E a chi si maravigliasse di sì spregevol razza di Dei diremo soltanto che avendo i Mitologi ammessi anche gli Dei malefici, eran questi di certo peggiori dei Satiri, per quanto poco esemplari. Siccome poi, come dicemmo fin da principio, avevan foggiato i loro Dei a somiglianza degli uomini, così dopo averne ideati dei buoni e dei {p. 270}cattivi, ne immaginarono ancora degli scioperati e dei fannulloni, come da Esiodo son chiamati i Satiri. Se questi eran poco esemplari come Dei, e molestavano le Ninfe campestri e boscherecce, almeno non nuocevano ai mortali. E perciò son rammentati quasi sempre scherzevolmente dai poeti, e per gli aneddoti che se ne raccontano rappresentati come i buffoni e i pagliacci delle divinità pagane. Anche la loro figura e il loro umore bizzarro e petulante si confaceva a tal qualificazione. Con questo concetto e sotto questo punto di vista furono introdotti i Satiri nelle Belle-Arti, quando cioè si volle rappresentare qualche cosa di giocoso e di bizzarro. Gli Artisti per lo più nel rappresentare i Satiri non seguono servilmente le descrizioni dei Mitologi, e studiansi di renderne meno sconcie le figure riducendole presso a poco alla forma ordinaria degli uomini ; ma però con fattezze più proprie della razza etiopica o malese, che della caucasica, e coi lineamenti caratteristici delle persone rozze e impudenti.

Posson vedersi nella Galleria di Palazzo Pitti i Satiri di Tiziano nel suo quadro dei Baccanali ; nella Galleria degli Uffizi il Satirino che di nascosto pilucca l’uva a Bacco ebrio, gruppo di Michelangiolo, tanto lodato dal Vasari e dal Varchi13. Inoltre intorno alla Fonte di Piazza della Signoria si vedono otto Satiri di bronzo fuso, quattro dei quali con piedi di capra e muso caprino, e gli altri quattro col {p. 271}solo distintivo di due piccole corna che spuntano loro sulla fronte di mezzo ai capelli. Talvolta gli scultori pongono le figure dei Satiri per cariatidi ; della qual parola dà una bella spiegazione l’Alighieri nella seguente similitudine :

« Come per sostentar solaio o tetto
« Per mensola talvolta una figura
« Si vede giunger le ginocchia al petto,
« La qual fa del non ver vera rancura
« Nascere a chi la vede ; così fatti
« Vid’io color, quando presi ben cura. »

Due Satiri posti per cariatidi si vedono in Firenze nella facciata di un antico palazzo ora appartenente alla famiglia Fenzi. Nelle antiche Guide della Città, uno di questi due Satiri era attribuito a Michelangelo.

I poeti italiani hanno introdotto i Satiri anche nelle Favole pastorali, ossia in quelle drammatiche rappresentazioni, i cui personaggi erano antichi pastori mitologici. Tra queste sono meritamente celebrate l’Aminta del Tasso e il Pastor fido del Guarini, in ciascuna delle quali Favole trovasi {p. 272}un Satiro, che sebbene parli elegantissimamente, e spesso anche troppo leziosamente, ragiona però bestialmente, come

« …. Semiramis, di cui si legge
« Che libito fe’licito in sua legge. »

I Naturalisti danno il nome di Satiri a certi insetti del genere dei Lepidotteri diurni ; e i Retori o Letterati chiamano Satira un componimento che ha per oggetto la censura più o meno mordace degli altrui detti o fatti14.

Sileni dicevansi i Satiri quand’eran vecchi ; e il più celebre di questi è quel Sileno che fu Aio e compagno di Bacco in tutte le spedizioni di proselitismo enologico. In pittura e in scultura neppur Sileno si rappresenta mezzo capro, ma con forme ordinarie d’uomo, e solamente vi si aggiunge qualche distintivo, come l’ellera, i corimbi, l’uva, i pampini, il tirso, ecc. Tale è l’antica statua di Sileno col piccolo Bacco nelle braccia, che trovasi nella villa Pinciana, e di cui una copia in bronzo esiste nel primo vestibolo della Galleria degli Uffizi in Firenze ; e come vedesi pure nel quadro dei Baccanali di Rubens, che è parimente nella stessa Galleria.

Il Dio Momo è da porsi vicino ai Satiri pel suo umor satirico ed impudente. Il greco nome Momos datogli da Esiodo significa disdoro ossia disonore. Era in fatti spregevolissimo come fannullone e maldicente ; e molto a proposito fu creduto figlio del Sonno e della Notte. Da prima era stato ricevuto nella corte celeste come buffone degli Dei, ma poi {p. 273}ne fu scacciato per la sua soverchia insolenza. Poco o nulla hanno scritto di lui i Classici latini ; e tra i Greci, dopo Esiodo che creò questo bel tipo di maldicente, gli fece le spese Luciano ne’suoi dialoghi a schernire gli Dei ; ma gli fa dire tante freddure che sono una miseria e uno sfinimento a sentirle. Era rappresentato con un berretto frigio coi sonagli, un bastone ed una maschera in mano, distintivi significanti che egli con sfrenata licenza plebea e con modi da pazzo censurava tutti, pretendendo di smascherarne i vizii.

I Fauni erano antiche divinità campestri d’origine italica15 : in appresso si confusero coi Satiri, ma non furon mai rappresentati colle gambe e colle corna di capra16. I Naturalisti per altro sin dal tempo di Linneo pare che li considerassero più bestie che uomini, poichè usarono a guisa di nome collettivo la Fauna per indicare complessivamente tutti gli animali che vivono in una data regione, nel modo stesso che dicono la Flora per significare tutti i fiori che si trovano nella regione medesima.

Anche i Silvani appartenevano alla stessa classe di campestri divinità, e l’etimologia della parola li manifesta di origine latina (a silvis). Virgilio nelle Georgiche invoca Silvano tra le divinità protettrici delle campagne, e accenna che per distintivo portava in mano un piccolo cipresso divelto dalle radici17.

{p. 274}Pale era la Dea dei pascoli e dei pastori18. Anticamente, e molto prima della fondazione di Roma, la festa di questa Dea celebravasi soltanto nelle campagne dai pastori e dagli agricoltori, per implorare la protezione di essa ; ed oltre le usate libazioni e le offerte di sacre focacce e di latte accendevansi fuochi di paglia, a traverso le cui vivide fiamme saltavano quei villici, credendo con tal atto di espiare le loro colpe. Questa placida Dea, come la chiama Tibullo19, e queste rozze e semplici cerimonie sarebbero rimaste ignote o presto obliate, se non fosse avvenuto che nel giorno stesso di quella festa avesse Romolo incominciato la fondazione di Roma, tracciando coll’aratro la prima cinta dell’eterna città. Quel giorno che fu il 21 di aprile divenne poi celebre e festeggiato solennemente anche in Roma come l’anniversario della fondazione di essa20, e tuttora si celebra e si solennizza, ma in altro modo, dai moderni Romani dopo 2628 anni.

{p. 275}Il nome di Vertunno, che davasi al Dio delle stagioni e della maturità dei frutti, colla sua latina etimologia a vertendo, (cioè dai cangiamenti operati dalle stagioni sui prodotti della terra) dimostra l’origine italica e romana di questo Dio. Le sue feste si celebravano nell’ottobre quasi in ringraziamento della già compiuta maturità dei più utili frutti dell’anno. Opportunamente gli era data per moglie la Dea Pomona protettrice dei pomi, ossia dei frutti degli alberi.

Anche i fiori avevano la loro Dea, e questa chiamavasi Flora ad indicarne col nome stesso l’ufficio. Era la stessa che la Dea Clori dei Greci, il qual vocabolo fu tradotto con alterazione di pronunzia in quello latino di Flora come asserisce Ovidio21. Sposò il vento Zeffiro e ottenne da esso l’impero sui fiori. Le feste Florali cominciavano in Roma il 28 di aprile e duravano sino a tutto il dì 1° di maggio, nei quali giorni v’era un gran lusso di fiori, di cui tutti facevano a gara a cingersi la testa e ornarne le mense e perfino le porte delle case. L’immagine della Dea Flora è simile a quella della Primavera : ha mazzi di fiori in mano, una corona di fiori in testa, e fiori spuntano sul terreno ov’ella posa le piante.

Di mezzo alle più graziose fantasie poetiche degli antichi Mitologi ne spunta di tratto in tratto qualcuna non egualmente felice, ed inoltre poco dignitosa per una divinità, qual fu l’invenzione del Dio Priapo. I Greci lo dissero figlio di Venere e di Bacco e gli attribuirono l’ufficio di guardian degli orti, e perciò di spaventare i ladri e gli uccelli. Ma gli aneddoti sconci ed abietti che raccontano di lui servono tutti a ispirar dispregio anzi che venerazione per esso. Aveva {p. 276}culto pubblico soltanto in Lampsaco, città dell’Asia Minore presso l’Ellesponto, e perciò i poeti lo appellano Lampsaceno e Nume Ellespontiaco ; ed eragli immolato l’asino, vittima che si credeva a lui gradita, in soddisfazione di uno sfregio che egli ricevè dall’asino di Sileno, quantunque la pena ricadesse sugli altri asini innocenti22. I Romani ponevano la statua di Priapo nei loro orti o giardini, ma per far soltanto da spauracchio agli uccelli ; e a tal fine ed effetto nell’alto della testa gli piantarono una canna con stracci in balìa del vento. Molti poeti latini, tra i quali Orazio e Marziale, si sbizzarrirono a dileggiar talmente questo Dio, che peggio non avrebbero fatto nè detto contro il più vil dei mortali23.

Un Nume di origine romana, e simbolo vero e proprio della romana costanza, fu il Dio Termine. Non era altro che un masso, o uno stipite di pietra rozzamente squadrata, un {p. 277}parallelepipedo rettangolo, come direbbesi in geometria, il quale ponevasi per confine del territorio dello Stato e dei campi dei cittadini. Se ne attribuisce l’invenzione a Numa Pompilio, che volle così santificare con una idea religiosa il diritto di proprietà e renderlo inviolabile coll’attribuire la rappresentanza di una Divinità tutelare di tal diritto a un segno materiale dei legittimi confini di esso. Gravissime pene eran minacciate anche dalle Leggi civili a chi rimuovesse il Dio Termine dal suo posto per estendere i proprii possessi a danno di quelli dei vicini. Oltre l’esecrazione religiosa, corrispondente alla scomunica maggiore, v’era la pena della deportazione in un’isola e la confisca del bestiame e di una terza parte dei beni del condannato.

Il Dio Termine aveva in Roma una cappella a lui sacra nel tempio di Giove Capitolino, il quale era situato, come affermano gli archeologi, ove ora esiste la chiesa di Ara Coeli. Le Feste Terminali eran celebrate agli ultimi di febbraio, che fu per lungo tempo l’estremo mese dell’anno, poiché quando Numa vi aggiunse i mesi di gennaio e di febbraio, fece precedere il gennaio e seguire il febbraio ai dieci mesi dell’anno di Romolo. Con tali feste terminavano anticamente il loro anno i Romani ; e queste coincidevano in appresso con quelle della cacciata dei re24. Così solennizzavano contemporaneamente i più preziosi diritti del cittadino, la proprietà e la libertà.

{p. 278}

XXXVI

Le Ninfe §

Nel parlar delle Divinità marine notammo che v’erano seimila Ninfe Oceanitidi e alcune centinaia di Nereidi e di Doridi, oltre all’aver detto anche prima, che Giunone aveva per suo corteo quattordici Ninfe, Diana cinquanta e Cerere e Proserpina non si quante. Parrebbe dunque che l’argomento delle Ninfe dovesse essere esaurito. Ma non è così, perchè v’è ancora da parlare delle Ninfe dei monti, delle valli, delle fonti, dei boschi e perfino degli alberi. Perciò il loro numero non potrebbero dirlo nemmeno i più valenti Geografi, in quanto che non sono stati a contar sul globo tutte le fonti, e tanto meno tutti i boschi e boschetti, a cui pur presiedevano almeno altrettante Ninfe.

Ninfa è parola di origine greca, che fu adottata dai Latini e conservata dagli Italiani nello stesso duplice {p. 279}significato primitivo, cioè di Dea inferiore e di giovane donna, perchè credevasi che le Ninfe non invecchiassero mai. Perciò si trovan sempre rappresentate come giovinette ingenue, semplicemente vestite, e tutt’al più ornate di fiorellini campestri come le pastorelle.

Ammettevano per altro i Mitologi un grande assurdo, che cioè queste Divinità potessero morire ; il che è una contradizione in termini teologici. Erano meno assurdi i romanzieri del Medio Evo, che avendo inventato le Fate con potenza soprannaturale benchè limitata, credevano che non morissero mai :

« Morir non puote alcuna fata mai, »

disse l’Ariosto, che di Fate se ne intendeva.

Gli appellativi di Oreadi, Napee, Naiadi e Driadi, che si diedero alle Ninfe, indicano col loro significato a quali cose queste Dee presiedevano ; poichè derivano da greci nomi significanti monti, valli, acque, quercie, e per catacresi, ossia abusivamente o estensivamente, alberi. Amadriadi poi è un greco vocabolo composto, che significa insiem colla quercia, o come si è detto di sopra, coll’albero ; e davasi questo titolo a quelle Ninfe la cui esistenza era legata alla vita vegetativa di una data pianta ; inaridendosi la quale, oppure essendo recisa o arsa, periva ad un tempo la Ninfa Amadriade. — Questi termini essendo significativi degli attributi speciali di quelle Ninfe a cui erano assegnati, conviene che li tengano a memoria anche coloro che non studiano le lingue dotte, perchè li adoprano non solo i poeti greci e i latini, ma altresì, benchè più di rado, gl’ italiani.

Molte di quelle Ninfe a cui fu dato un nome proprio dai Mitologi e dai poeti furono da noi rammentate sinora : qui torna in acconcio di far parola di qualche altra che non troverebbe luogo più opportuno altrove. Tra le quali son da rammentarsi pel loro proprio nome le Ninfe che ebbero {p. 280}cura dell’infanzia di Giove, cioè Amaltea e Melissa. Queste nutrirono l’infante Nume col latte di una capra detta comunemente Amaltea dal nome di una di queste due Ninfe a cui apparteneva. La qual capra fu poi da Giove trasportata in Cielo e cangiata nella costellazione del Capricorno, segno dello Zodiaco, corrispondente al solstizio invernale, e che rifulge di sessantaquattro stelle. Alcuni Mitologi dicono che anche la Ninfa Amaltea fosse cangiata insieme con la sua capra in quella costellazione25. Della Ninfa Melissa poi raccontano che fosse stata la prima a scuoprire il miele in un alveare dentro un albero incavato o corroso dalla vecchiezza ; e che essa poi fosse cangiata in ape.

La favola della Ninfa Eco cangiata in voce è raccontata anche in un modo diverso da quello che accennammo nel Cap. XXXIV ; ed è collegata colla favola di Narciso. E poichè Dante allude ad ambedue queste favole nella Divina Commedia, è necessario il farne qualche cenno.

La Ninfa Eco figlia dell’ Aere e della Terra si era invaghita del giovane Narciso figlio della Ninfa Liriope e del fiume Cefiso ; il qual Narciso era così vano della propria bellezza che non amava che sè stesso e disprezzava superbamente ogni persona. La Ninfa Eco se ne afflisse tanto, e si consumò talmente dal dolore, che di essa vi rimase la {p. 281}voce sola che ripeteva appena le ultime parole altrui. A questa favola allude Dante nel Canto xii del Paradiso coi seguenti versi :

« A guisa del parlar di quella vaga (la Ninfa Eco)
« Ch’amor consunse come Sol vapori ; »

e fa questa similitudine per dar la spiegazione che quando compariscono nel Cielo due Iridi, o come dice Dante :

« Due archi paralleli e concolori
« Nascendo di quel d’entro quel di fuori, »

ciò avviene per riflessione dei raggi della luce, come il parlar dell’ Eco per riflessione del suon della voce.

Quanto poi all’orgoglioso amor proprio di Narciso, la Mitologia inventò molto a proposito che egli ne fu punito coll’essersi innamorato della propria immagine, veduta nello specchio delle acque di una fonte, e che credendola una Ninfa stette tanto a guardarla che ivi morì di estenuazione e fu cangiato nel fiore che porta il suo nome. Dante allude più d’una volta a questa favola, come, per esempio, nel Canto xxx dell’Inferno, ove un dannato dice ad un altro :

« Che s’io ho sete, e umor mi rinfarcia,
« Tu hai l’arsura e ‘l capo che ti duole,
« E per leccar lo specchio di Narcisso (cioè l’acqua)
« Non vorresti a invitar molte parole. »

E nel Canto III del Paradiso, descrivendo le anime beate che egli vide nel globo lunare, dice che gli eran sembrate immagini riflesse dall’ acque nitide e tranquille, anzi che esseri di per sè esistenti, conchiudendo con la seguente osservazione tratta dalla favola di Narciso :

« Perch’io dentro l’error contrario corsi
« A quel che accese amor tra l’uomo e ‘l fonte ; »

cioè tra Narciso e l’immagine sua reflessa dall’acqua.

{p. 282}Anche la Ninfa Galatea è molto rammentata, specialmente dai poeti latini, come una delle più belle Ninfe ; e dicono che se ne fosse invaghito quel mostruoso gigante Polifemo che fu re dei Ciclopi ; ma vedendosi preferito il pastorello Aci, lo uccise gittandogli sopra dall’ alto di un monte un macigno. Gli Dei cangiarono Aci in fiume che scorre nella Sicilia. I pittori hanno gareggiato a rappresentar Galatea di bellissime forme, ed una delle più belle è quella che vedesi nella Galleria degli Uffizi in Firenze.

Le Ninfe oltre ad esser giovani e belle, erano anche generalmente buone e cortesi ; e perciò tanto nelle lingue antiche quanto nelle moderne, e specialmente nella nostra, questo termine di Ninfa, anche nel senso traslato, cioè non mitologico, ha sempre un significato favorevole. Tant’è vero che Dante l’assegnò perfino alle Virtù Cardinali, che sotto forma ed abito femminile accompagnavano Beatrice ; e fa dire alle medesime nel canto xxxi del Purgatorio :

« Noi sem qui Ninfe e nel Ciel semo stelle :
« Pria che Beatrice discendesse al mondo.
« Fummo ordinate a lei per sue ancelle. »

E nel rammentar questo passo il can. Bianchi, che fu segretario dell’Accademia della Crusca, così lo spiegò : Le virtù morali sono ninfe nella vita mortale, che abbellano e felicitano, operando, l’umanità ; sono stelle nel Cielo, da cui derivano e dove Dio le premia. » La quale spiegazione dimostra che ad un teologo, e al tempo stesso elegante scrittore, parve opportunamente adoprata in verso e in prosa la parola Ninfe anche in argomento religioso. Tanto più dunque, concluderemo, in soggetti profani.

Infatti, anche gli Scienziati trovarono da far nuove applicazioni del significato di questo nome e da formarne vocaboli derivati e composti. Gli Zoologi nello studiarsi d’indicare con nomi diversi le successive metamorfosi di certe {p. 283}specie di animali, e principalmente degli insetti, presero dalla Mitologia il vocabolo di ninfa per significare l’insetto nello stato intermedio fra quello di larva e lo stato estremo o perfetto ; e dimostrarono così di aver bene inteso che le Ninfe mitologiche non eran perfette divinità, ma in una condizione media fra quella degli uomini e quella degli Dei supremi. Stabilita la base, e lieti della prima applicazione bene appropriata, presero coraggio a metterne fuori anche altre, e diedero il nome di Ninfale a un genere di Lepidotteri diurni della tribù dei Papilionidi ; e poi al Ninfale del pioppo (N. populea) assegnarono anche un altro nome più familiare e comune, tratto parimente dalla Mitologia, vale a dire Gran Silvano.

I Botanici anch’essi nel determinare la nomenclatura delle piante aquatiche si ricordarono di aver trovato nella Mitologia, o in qualche classico, certe Ninfe dell’acqua, o che stavano nell’acqua, (il nome preciso di Naiadi non pare che lì per lì lo avessero ben presente) e si affrettarono a chiamar Ninfèa una pianta aquatica (detta altrimenti Nenufar e volgarmente giglio degli stagni), e ne fecero il tipo della famiglia delle Ninfacee, ossia delle piante erbacee aquatiche congeneri alla Ninfèa.

In Architettura poi sin dal tempo dei Classici greci e latini chiama vasi Ninfèo non solo il tempio sacro alle Ninfe, ma altresì una particolar costruzione architettonica, o fabbrica sui generis, destinata il più spesso ad uso di bagni, annessa ai palazzi e alle ville dei più doviziosi cittadini, ove, oltre le acque scorrenti in ruscelli e zampillanti in fontane (e necessariamente le vasche e i bacini), aggiungevansi per ornamento e statue e vasi e talvolta ancora un tempietto dedicato alle Ninfe.

{p. 284}

XXXVII

Gli Dei Dei Fiumi §

Se i Mitologi ed i poeti inventarono le Divinità delle fonti, tanto più è presumibile che non avranno mancato d’immaginare gli Dei dei Fiumi. E quanto ai nomi li presero dalla Geografia, vale a dire adottarono quegli stessi nomi che avevano i diversi fiumi nei diversi paesi. Supposero che questi Dei abitassero negli antri donde usciva la sorgente del fiume, la quale chiamavasi poeticamente il capo. Tibullo si maravigliava che il Padre Nilo nascondesse il suo capo in ignote terre26 ; e per quanto i Geografi e i più arditi viaggiatori si sieno affaticati a cercarlo, non son riusciti ancora ben bene, dopo circa 2000 anni, a levarsi questa curiosità : sembra che il Padre Nilo si diverta a far capolino tra i monti dell’Abissinia e si ritiri sempre un poco più in là. Il Padre Tebro poi, ossia il fiume Tevere, era un personaggio molto serio, ed in certi casi anche un poco profeta. Nell’Eneide parla divinamente nel suo linguaggio originale, come lo fa parlare Virgilio27.

{p. 285}Virgilio inoltre si dà premura di presentarci ancora il ritratto del Dio Tevere,

« ….. che già vecchio al volto
« Sembrava. Avea di pioppo ombra d’intorno ;
« Di sottil velo e trasparente in dosso
« Ceruleo ammanto, e i crini e ‘l fronte avvolto
« D’ombrosa canna28. »

{p. 286}Per altro in pittura e in scultura si aggiungono altri distintivi ai diversi fiumi. Si rappresentano generalmente seduti in un terreno alquanto declive e colle gambe stese per indicare il corso del fiume e la pendenza dell’ alveo : ha ciascuno di essi presso di sè un’urna da cui esce l’acqua per significar la sorgente ; e se il fiume è navigabile, si pone in mano alla figura del Dio un remo : se poi il suo corso si dirama in due o più alvei, si aggiungono sulla fronte del Nume due corna. Inoltre la corona o ghirlanda del fiume è composta di canne, come del Tevere ha detto Virgilio, o ancora delle fronde di quegli alberi che più facilmente vegetano sulle sue rive, o che sono particolari alla regione nella quale scorre quel fiume. Modernamente, per indicar meglio qual Fiume sia rappresentato, gli si pone appresso, o nella sinistra, uno scudetto coll’arme o stemma di quel popolo pel territorio del quale scorrono le sue acque.

Tra i Fiumi della Grecia ve n’erano alcuni molto bizzarri. Il fiume Alfeo, per esempio, essendosi invaghito della Ninfa Aretusa29 (cangiata in fonte che scorrevà sotto terra nella Sicilia presso Siracusa), per andarla a trovare si scavò un canale sottomarino e la raggiunse tra i ciechi labirinti delle {p. 287}inferne regioni30. Il fiume Acheloo fu battagliero quanto Rodomonte, e osò venir tre volte a singolar tenzone con Ercole per ottenere a preferenza di lui Deianira in isposa. E di questa pugna dovremo parlare altrove più a lungo.

I fiumi poi della Troade eran piccini, ma furiosi. Omero ci racconta che il fiume Xanto (chiamato altrimenti lo Scamandro31, nel tempo della guerra di Troia vedendo le stragi che Achille faceva dei Troiani, congiurò col Simoenta, suo fratello, di annegar quell’Eroe nelle loro acque ; ed avrebbe ottenuto l’intento, se non accorreva Vulcano con una gran fiamma a vaporizzarle. E poichè è un’alta gloria di {p. 288}quel piccolo fiume l’aver fatto paura egli solo al tremendissimo Achille, che non aveva paura di alcuno, non sarà discaro il sentire con quale impetuosa eloquenza il Xanto incoraggiava il fratello Simoenta ; e poi quanto fu grande lo sgomento di Achille che disperatamente si lamentava, e pietosamente si raccomandava agli Dei che lo salvassero.

Nel libro xxi dell’ Iliade (trad. del Monti) così parla il Xanto al Simoenta :

« Caro germano, ad affrenar vien meco
« La costui furia, o le dardanie torri
« Vedrai tosto atterrate, e tolto ai Teucri
« Di resister la speme. Or tu deh ! corri
« Veloce in mio soccorso, apri le fonti,
« Tutti gonfia i tuoi rivi, e con superbe
« Onde t’innalza, e tronchi aduna e sassi,
« E con fracasso ruotali nel petto
« Di questo immane guastator, che tenta
« Uguagliarsi agli Dei. Ben io t’affermo
« Che nè bellezza gli varrà nè forza
« Nè quel divin suo scudo, che di limo
« Giacerà ricoperto in qualche gorgo
« Voraginoso. Ed io di negra sabbia
« Involverò lui stesso, e tale un monte
« Di ghiaia immenso e di pattume intorno
« Gli verserò, gli ammasserò, che l’ossa
« Gli Achei raccorne non potran : cotanta
« La belletta sarà che lo nasconda.
« Fia questo il suo sepolcro, onde non v’abbia
« Mestier di fossa nell’esequie sue.
« Disse, ed alto insorgendo, e d’atre spume
« Ribollendo e di sangue e corpi estinti,
« Con tempesta piombò sopra il Pelide.
« …………………
{p. 289}« Levò lo sguardo al Cielo il generoso
« Ed urlò : Giove padre, adunque nullo
« De’numi aita l’infelice Achille
« Contro quest’onda ! Ah ! ch’io la fugga, e poi
« Contento patirò qual sia sventura.
« Ma nullo ha colpa de’Celesti meco
« Quanto la madre mia che di menzogne
« Mi lattò, profetando che di Troia
« Sotto le mura perirei trafitto
« Dagli strali d’Apollo ! Oh foss’io morto
« Sotto i colpi d’Ettorre, il più gagliardo
« Che qui si crebbe ! Avria rapito un forte
« D’un altro forte almen l’armi e la vita.
« Or vuole il Fato che sommerso io pera
« D’oscura morte, ohimè ! come fanciullo
« Di mandre guardïan cui ne’piovosi
« Tempi il torrente, nel guadarlo, affoga. »

Avremo da parlar tanto delle prodezze di Achille (invidiato dallo stesso Alessandro il Grande per la singolar fortuna di averne per banditore Omero), che non vi sarà spazio a raccontar questa sua unica paura, che trova qui posto più opportuno, parlandosi delle prodezze e dei vanti dei fiumi della Troade.

XXXVIII

Gli Dei Penati e gli Dei Lari §

Se dovessimo prendere ad esaminare le diverse opinioni degli eruditi intorno a questi Dei, faremmo un lavoro arduo e poco piacevole, e poi senza alcun frutto, perchè non è possibile conciliarle tra loro, nè scuoprire chi meglio {p. 290}abbia colto nel segno. Perciò converrà contentarsi di conoscere quel che ne accennano i Classici e principalmente Virgilio e Cicerone, e starcene a quel che essi ne credevano e ce ne lasciarono scritto ; e tutt’al più deducendone quelle illazioni che ne derivano razionalmente. — Per chi non è idolatra o politeista sembra che possa bastare.

Virgilio che nell’Eneide ha eternato co’suoi impareggiabili versi le origini mitologiche del popolo romano secondo le più comuni credenze antiche, fa derivare da Troia gli Dei Penati ; e da quel che egli ne scrive s’intende chiaramente che questi erano speciali Dei protettori della città, poichè fa dire ad Enea dall’ombra di Ettore, che Troia affida ad esso i suoi Penati ; e inoltre gli comanda che cerchi loro altre terre, erga altre mura32. E quando Enea li consegna a suo padre Anchise, li chiama patrii Penati33. E per viaggio, allorchè questi Dei gli compariscono in sogno, li appella Frigii Penati34. Ecco tre esempi che dimostrano il concetto generale di Virgilio, che cioè i Penati fossero gli Dei protettori di Troia e della Troade. Vero è che lo stesso poeta aggiunge che i Penati avevano special culto anche nella reggia di Priamo :

{p. 291}« Era nel mezzo del palagio all’aura
« Scoperto un grande altare, a cui vicino
« Sorgea di molti e di molt’anni un lauro
« Che co’rami all’altar facea tribuna,
« E coll’ombra a’Penati opaco velo35. »

Ma se il capo dello Stato onorava di un culto speciale gli Dei protettori della sua città e del suo regno, questo fatto non toglie agli Dei Penati il loro carattere generale e il loro principale ufficio, che essi non avrebber perduto ancorchè in ogni famiglia avessero ricevuto un simil culto. Infatti non è proibito nemmeno nella religion cristiana l’eriger private cappelle in onore del santo patrono della città o dello Stato. Con tal distinzione sparisce ogni dubbio sul vero e proprio ufficio attribuito dai Pagani agli Dei Penati. Anzi ne deriva al tempo stesso la spiegazione come avvenga che talvolta in qualche Classico latino si annoverano tra gli Dei Penati taluni degli Dei superiori o maggiori, come Giove, Marte, Nettuno ecc. Vedemmo altrove che lo stesso Dante rammenta Marte come il primo patrono di Firenze, che poi i cittadini divenuti cristiani cangiarono nel Battista36. Infatti, la voce Penati è soltanto un attributo o aggettivo che corrisponde, non già per l’etimologia, ma pel significato e per l’effetto creduto, alla parola protettori, o patroni : quindi per tale ufficio poteva scegliersi qualunque Nume dei più noti e celebri.

{p. 292}Riguardo poi all’ etimologia del titolo di questi Dei, che furon portati in Italia

« ……. da quel giusto
« Figliuol d’Anchise che venne da Troia, »

lasceremo decidere ai solenni filologi di professione se il vocabolo stesso Penati discenda in linea retta o collaterale dal troiano linguaggio, come i Romani dai Troiani. E poichè Cicerone, a cui parrebbe che questa squisitezza filologica avesse dovuto importare più che a noi, non vi pensa nè punto nè poco, e ci dice soltanto che la voce Penati deriva da due vocaboli latini usitatissimi (penus e penitus), senza aggiungere che questi fossero d’origine troiana, bisognerà per ora starsene a quel che egli ne scrisse, e credere sulla sua parola che l’etimologia di quel termine fosse latina, e alludesse al vital nutrimento degli uomini dai Penati protetti, ovvero alla parte più interna dei tempii e delle case ove questi Dei erano adorati37. Sappiamo infatti anche dagli storici essere stata comune opinione che quegli stessi idoli degli Dei Penati venuti da Troia fossero custoditi dalle Vestali in luogo nascosto ai profani insieme col Palladio, sacre reliquie troiane, che nessun vide giammai, ma nella cui esistenza tutti credevano ; — e quando si tratta di credere, non v’è bisogno di dimostrazione ; sola fides sufficit. Quindi l’espressione rituale dei politeisti i sacri penetrali corrisponde al sancta sanctorum dei monoteisti ; quindi il comun verbo penetrare significa lo spingersi addentro nei più riposti recessi dei luoghi o dei pensieri.

{p. 293}In quanto ai Lari, che questi fossero Dei familiari o domestici non può insorger questione, poichè li consideran tali tutti i Mitologi ed i poeti latini e pur anco gl’ Italiani : lo stesso Ugo Foscolo, peritissimo nelle lingue dotte e per conseguenza anche nella Mitologia, li chiama nel suo Carme I Sepolcri, come abbiamo veduto altrove, i domestici Lari. Sappiamo poi che nelle case dei più ricchi politeisti romani v’era il Larario, ossia la cappella dei Lari ; e nelle altre, almeno un tabernacolo colle statue o immagini di questi Dei, le quali spesso ponevansi ancora dentro certe nicchie nei focolari, parola questa che alcuni etimologisti notano come composta colla voce Lari38.

La questione per altro verte intorno all’etimologia del nome ed alla origine di questi Dei, poichè v’è chi li crede così chiamati, perchè figli della Ninfa Lara o Larunda, ed altri ne derivano il nome da Lar antica parola etrusca che significa capo o principe. Chi non la pretende a filologo è indifferente per l’una o per l’altra etimologia ; ma quanto all’origine e alla particolar natura di questi Dei nessuno potrà convenire di dover confondere i Penati coi Lari, come fanno alcuni Eruditi. Oltre la diversa origine, troiana dei primi, etrusca o italica dei secondi, e le caratteristiche bene accertate degli Dei Penati, come abbiamo veduto di sopra, si potrebbero {p. 294}citare molte autorità di classici, da cui chiaramente apparisce il differente ufficio dei Penati e dei Lari. Vero è che potrebbe citarsi ancora qualche esempio in contrario ; ma qualche rara eccezione non distrugge mai la regola generale ; e a sostegno di questa terminerò coll’ esaminare una filosofica osservazione di Cicerone, nel lib. v della Repubblica, ov’egli parla, per dirlo colla frase del Romagnosi, dei fattori dell’ Incivilimento. Tra questi egli annovera il culto degli Dei Penati e dei Lari familiari ; e aggiunge che nella pratica applicazione questi Dei rappresentano i comuni ed i privati vantaggi della social convivenza. Perciò, oltre al distinguer gli Dei Penati dagli Dei Lari, e decider così la question mitologica sulla diversa loro personalità, viene ancora a significare che i primi eran protettori dei diritti del cittadino, ed i secondi di quelli del padre di famiglia ; senza dei quali, come egli sapientemente dichiara, non può esser buona una repubblica, nè ben viversi in essa39.

XXXIX

Eolo e i Venti §

Non bastò ai Greci ed ai Romani politeisti, dopo aver considerata l’Aria come uno dei 4 elementi del Caos, il farne anche una Dea, che, sposato il Giorno (sinonimo di luce), produsse Urano, ossia il Cielo ; in quanto che osservando in appresso che nell’aria esiste

« Quell’umido vapor che in acqua riede, »

{p. 295}ne fecero un Dio sotto il nome di Giove Pluvio ; ed inoltre, poichè l’aria, movendosi,

« ….. or vien quinci ed or vien quindi,
« E muta nome perchè muta lato, »

e produce il fenomeno dei Venti, vollero deificare anche questi. Riconobbero però facilmente che la maggior parte di questi Dei eran molto turbolenti, producendo in mare orribili tempeste, e sulla terra bufere e devastazioni ; e che perciò v’era bisogno che fossero sottoposti a qualche altra più potente divinità che li raffrenasse ; diversamente, come dice Virgilio,

« ….. Il mar, la terra, e ‘l cielo
« Lacerati da lor, confusi e sparsi
« Con essi andrian per lo gran vano a volo.
« Ma la possa maggior del padre eterno
« Provvide a tanto mal ; serragli e tenebre
« D’abissi e di caverne e moli e monti
« Lor sopra impose ; ed a re tale il freno
« Ne diè, ch’ei ne potesse or questi or quegli
« Con certa legge o rattenere o spingere.40 »

Questa regione o carcere dei Venti, secondo lo stesso poeta,

« È nell’Eolia, di procelle e d’austri
« E delle furie lor patria feconda.
« Eolo è suo re, ch’ivi in un antro immenso
« Le sonore tempeste e i tempestosi
{p. 296}« Venti, siccome è d’uopo, affrena e regge.
« Eglino impetuosi e ribellanti
« Tal fra lor fanno e per quei chiostri un fremito,
« Che ne trema la terra e n’urla il monte.
« Ed ei lor sopra realmente adorno
« Di corona e di scettro, in alto assiso
« L’ira e gl’impeti lor mitiga e molce.41 »

Questa regione dell’Eolia non è già quella dell’Asia Minore situata fra la Troade e l’Ionia, e detta più anticamente la Misia, ma corrisponde al gruppo delle isole chiamate ancora oggidì Eolie, o di Lipari, nel mar Tirreno fra la Sicilia e l’Italia. Il nome stesso di Eolo, che deriva da un greco vocabolo significante vario o mutabile, allude alle successive mutazioni dei venti che predominano in quelle isole.

Anche Omero, nel libro X dell’Odissea, dice che Eolo

« …. de’venti dispensier supremo
« Fu da Giove nomato ; ed a sua voglia
« Stringer lor puote o rallentare il freno. »

Ma gli attribuisce un genere di vita più patriarcale, e gli assegna un soggiorno più poetico ed ameno, quantunque nella stessa regione insulare. Non è tempo perduto, nè fia senza diletto leggerne o rileggerne l’omerica descrizione :

{p. 297}« Giungemmo nell’Eolia, ove il diletto

« Agl’immortali Dei d’Ippota figlio,42

« Eolo, abitava in isola natante,43
« Cui tutta un muro d’infrangibil rame,
« E una liscia circonda eccelsa rupe.
« Dodici, sei d’un sesso e sei dell’altro,
« Gli nacquer figli in casa ; ed ei congiunse
« Per nodo marital suore e fratelli,
« Che avean degli anni il più bel fior sul volto.
« Costoro ciascun dì siedon tra il padre
« Caro e l’augusta madre, ad una mensa
« Di varie carca delicate dapi.
« Tutto il palagio, finchè il giorno splende,
« Spira fragranze, e d’armonie risuona ;
« Poi, caduta sull’isola la notte,
« Chiudono al sonno le bramose ciglia
« In traforati e attappezzati letti
« Con le donne pudiche i fidi sposi. »

Alcuni Mitologi dissero che Eolo era figlio di Giove e di Segesta figlia d’Ippota troiano ; e che i Venti fossero figli di Astreo, uno dei Titani, e dell’Aurora ; e quelle loro {p. 298}genealogie furono accolte dai più. Si eran provati pur anco ad inventare che i Venti avessero mosso guerra a Giove ; ma i poeti trovaron poco spiritosa questa invenzione e la trascurarono affatto. E pochi altri fatti mitologici ne raccontano, perchè hanno trovato difficile di attribuire ai Venti distinte personalità e porle in azione. Soltanto del più impetuoso e del più mite fra loro, cioè di Borea e di Zeffiro, narrano brevemente qualche fatto. Di Borea dicono che rapì la Ninfa Orizia figlia di Eretteo re di Atene, e n’ebbe 2 figli chiamati Calai e Zete, di cui dovremo parlare nella spedizione degli Argonauti. La spiegazione più semplice e più naturale del ratto di Orizia è, secondo Platone, che questa infelice principessa rimanesse vittima di una tempesta o di un uragano. Di Zeffiro abbiamo già detto altrove che egli sposò la Dea Flora e le diede potestà sui fiori ; e questa favola significa soltanto che il tepido vento chiamato Zeffiro o Favonio favorisce la vegetazione delle piante fanerogame, cioè che producono fiori.

Poichè tutti i poeti epici han per costume di descrivere qualche tempesta in cui inevitabilmente incappano sempre i loro protagonisti o altri dei più famosi eroi, perciò Eolo ed i Venti figurano molto in tali descrizioni dei poeti pagani, e principalmente in Omero e in Virgilio. E siccome i nomi che diedero i Greci e i Latini ai Venti sono per lo più adottati anche dai poeti italiani, e inoltre ne derivaron o molte denominazioni geografiche, non sarà inutile il farne brevemente la rassegna.

I 4 Venti principali, rammentati anche da Omero, sono Borea, Noto, Euro e Zeffiro, nomi adottati dai Latini e conservati nella poesia italiana ed in alcune denominazioni scientifiche. Corrispondono ai Venti di tramontana, ostro, levante e ponente che spirano dai 4 punti cardinali nord, sud, est, ovest. Il nome greco è significativo delle qualità distintive di ciascuno di essi : Borea significa fremente ; Noto, umido ; {p. 299}Euro, abbronzante ; Zeffiro, oscuro.44 In Esiodo si trova rammentato il vento Argeste (che vuol dir sereno, e secondo altri grecisti veloce) ; e siccome in quel poeta non si trova nominato il vento Euro, alcuni Eruditi hanno detto che è sinonimo di questo., Ma Plinio il Naturalista afferma che l’Argeste greco corrispondeva al Cauro o Coro dei Latini, ossia al ponente-maestro (nord-ovest).

Gli Antichi non conoscevano i 32 Venti notati e distinti dai Geografi e dai Navigatori moderni, ma soltanto 12 bene accertati, ristrettissima essendo e timida la loro navigazione, perchè andavano per lo più costeggiando, e poco si azzardavano in alto mare. Non immaginavano neppure l’esistenza del Grande Oceano ; non avevan mai passata la linea nell’Oceano Atlantico ; e il non plus ultra delle colonne d’Ercole li tratteneva ancora dal passar lo stretto di Gades (ora di Gibilterra) e dall’andar navigando lungo le spiaggie occidentali dell’Affrica.

I Geografi moderni non si accordano nell’assegnare il corrispondente nome latino o greco ai diversi Venti ora conosciuti e contrassegnati nella così detta Rosa dei Venti ; e la ragione è questa, che gli Antichi stessi furono incerti nel determinare da qual punto preciso quei Venti da loro notati e denominati spirassero ; e poi perchè invece di fare in principio la bisezione dell’angolo retto fra i punti cardinali e quindi suddividerlo, ne fecero la trisezione, ossia lo divisero in 3 : quindi è matematicamente impossibile il far corrispondere i loro punti intermedii a quelli determinati dai {p. 300}moderni. Ma su ciò vedano i Geografi ne quid Respublica detrimenti capiat ! A noi basterà di conoscere in qual quadrante, (come dicono in oggi nelle tavole meteorologiche), ossia dentro quale degli angoli retti formato dai punti cardinali spirassero quei loro Venti intermedii.

Fra Borea ed Euro spiravano Aquilone e Volturno ; fra Euro e Noto, Subsolanus e Austro ; fra Noto o Zeffiro, Affrico o Libico e Favonio ; fra Zeffiro e Borea, Cirico o Iapige e Cauro o Coro. È da notarsi però che talvolta gli Autori e specialmente i poeti, nominano l’un per l’altro quei Venti che spirano tra lor più vicini, ossia usano i loro diversi nomi come sinonimi di uno stesso Vento. Così fanno sinonimi Borea ed Aquilone ; Austro e Noto ; Zeffiro e Favonio, ecc. Più esatto di tutti è Dante, perchè più scienziato, e inoltre impareggiabile anche in astronomia. Egli infatti colle indicazioni astronomiche ci fa conoscere non solo i giorni del suo viaggio allegorico, ma pur anco le ore diverse di quei giorni. Quand’egli dice nel Canto xi dell’Inferno,

« Che i Pesci guizzan su per l’orizzonta
« E’l Carro tutto sovra’l Coro giace, »

accenna con precisione astronomica che eran due ore prima dello spuntar del Sole in quel giorno del mese di marzo che aveva prima indicato, poichè appunto in quell’ora che egli voleva significare appariva la costellazione dei Pesci sulorizzonte, e inoltre la costellazione del Carro, ossia dell’Orsa maggiore giaceva tutta sovra’l Coro, cioè fra settentrione ed occidente, ossia presso a poco a ponente-maestro o nord-ovest, come ora direbbesi. E quando nel Canto xxxii del Purgatorio vuole affermare che i 7 celesti candelabri ardenti non li spengerebbero i più opposti e gagliardi venti, egli dice

« Che son sicuri d’Aquilone e d’Austro, »

{p. 301}nominando i venti più opposti e più procellosi. E finalmente terminerò col rammentare che Dante non ha dimenticato d’introdurre nella Divina Commedia anche un cenno della favola di Eolo re dei Venti, secondo ciò che ne scrive il suo maestro Virgilio nei versi da noi citati in principio di questo Numero, poichè invece di dire prosaicamente che soffia o spira il vento di Scirocco, orna ed abbellisce il suo concetto con questa perifrasi mitologica :

« Quand’Eolo Scirocco fuor discioglie. »
[n.p.n.p.]

Parte III

Semidei, indigeti ed eroi §

XL

Osservazioni generali §

Questi tre termini di Semidei, Indigeti ed Eroi si trovano usati talvolta indistintamente l’uno per l’altro, benchè differiscano tra loro non solo etimologicamente, ma pur anco per certe speciali condizioni, che converrà prima di tutto accennare.

Semidei, parola latina conservata senza alterazione ortografica nella lingua italiana, è traduzione del greco vocabolo Emitei ; e in tutte e tre le lingue significa evidentemente mezzi Dei, e vi si sottintende e mezzi uomini, non già mezze bestie, come si rappresentavano alcune delle Inferiori Divinità. Erano figli o d’un Dio e di una donna mortale, quali furono Perseo ed Ercole ; oppure di una Dea e di un uomo mortale, come credevasi di Achille e di Enea.

Indigeti è parola di etimologia tutta latina, sia che debbasi interpretare inde geniti, o in diis agentes, cioè generati sulla Terra, o ascritti fra gli Dei. E per quanto possa questo vocabolo sembrare a primo aspetto sinonimo di quello di Semidei, non v’è compresa per altro come necessaria la condizione che uno dei genitori debba essere una Divinità. Quindi anche un semplice mortale poteva divenire un Indigete Dio.

{p. 304}La voce Eroi, divenuta tanto comune in verso e in prosa non solo nelle lingue dotte, ma pur anco nella italiana e nelle altre lingue affini, è di origine greca ; ed i filologi antichi, incominciando da Servio commentator di Virgilio, ne danno tre diverse etimologie,45deducendole da tre diverse accezioni in cui trovasi usata quella voce, cioè di Semidei, di Dei Indigeti, e di uomini divenuti illustri o per dignità o per imprese di sovrumano valore. Lo stesso Omero l’usa assai spesso in quest’ultimo significato tanto nell’Iliade quanto nell’Odissea ; e del pari si adopra comunemente nella lingua italiana tanto in verso quanto in prosa ; e si applica pur anco agli uomini illustri della storia antica e della moderna, come pure ai più straordinarii personaggi d’invenzione della fantasia dei poeti. I due vocaboli Semidei e Indigeti son termini appartenenti esclusivamente alla Mitologia classica : il vocabolo Eroi, oltre a poter esser comprensivo degli altri due sopraddetti, si estende dai più antichi e famosi personaggi ai più moderni e ridicoli Eroi da poltrona proverbiati dal Giusti46.

{p. 305}Varcati questi sterpi filologici, avanziamoci in più aperta e vasta campagna e in più spirabil aere, e diamo uno sguardo fugace alla remota Età eroica, che spunta fra le caligini mitologiche e si estende sino alle serene regioni della Storia. I tempi eroici anche più dei mitologici formarono il soggetto delle meditazioni dei più grandi filosofi e pubblicisti (e basti rammentar fra questi il Vico e Mario Pagano), perchè vi si trovano le origini storiche dei più celebri popoli antichi, frammiste a racconti favolosi, dai quali bisogna distinguerle e sceverarle. A quest’epoca si riferiscono le più straordinarie imprese condotte a termine colla forza e col senno degli uomini, assistiti e protetti dalle Divinità. Principalmente si rammenta e si celebra il liberar la Terra dai mostri e dai tiranni, e sgombrar così la via dai più grandi ostacoli all’incivilimento dei popoli. E quanto alla sapienza di quell’epoca ottennero lode sopra gli altri i fondatori delle religioni e delle città. Se grandi erano le virtù, non meno grandi furono i vizii consistenti principalmente nell’abuso della forza, o come dicono i poeti, nel viver di rapina : era per lo più questa la causa delle antiche guerre.

Nel Medio Evo dopo la caduta del romano Impero e le irruzioni dei Barbari, se non si rinnovò precisamente un circolo similare di tutte le antiche fasi sociali, come suppone il Vico, poichè vi restò un addentellato della greca e della romana civiltà, come dice il Romagnosi (e si può aggiungere anche di quella del Cristianesimo), che aiutarono e sollecitarono il risorgimento, ritornò per altro colla dissoluzione di tutti gli ordini sociali il predominio della forza in tutto il suo furibondo vigore e il così detto diritto della privata violenza. Ne abbiamo una conferma anche nei racconti delle leggende, riferibili a quell’epoca dolorosissima ; e da quei fatti leggendarii s’informarono i poemi romanzeschi che ammettono prodigii non meno strani di quelli dell’Odissea.

Spiacemi che il mio umile assunto e lo scopo principale {p. 306}a cui è diretto questo lavoro m’impediscano di estendermi in osservazioni generali, e mi obblighino invece di aggiunger soltanto spiegazioni al racconto dei molteplici fatti particolari che più ne abbisognano ; ma ho voluto premetter questi brevi cenni per far conoscer la necessità di studiare i tempi eroici, che sono come il Medio Evo fra la Mitologia e la Storia, e che perciò hanno la stessa importanza per le origini storiche dei popoli antichi che il Medio Evo per le origini della moderna civil società.

Scendendo ora a parlare dei principali Eroi, e Semidei e Indigeti di quest’epoca, convien prima di tutto determinare l’estensione, o vogliam dire la durata dell’età eroica ; ed io l’accennerò prima di tutto colle parole stesse del nostro Giovan Battista Vico : « Tutti gliStorici, egli dice, danno il principio al Secolo eroico coi corseggi di Minosse e con la spedizione navale che fece Giasone in Ponto, il proseguimento con la guerra Troiana e il fine con gli error degli Eroi, che vanno a terminare nel ritorno di Ulisse in Itaca. » Volendo poi determinare cronologicamente quest’epoca, non abbiamo dati certi neppure dell’anno preciso della distruzione di Troia, poichè si trova in taluni Autori la differenza di più di un secolo ; ma seguendo la Cronologia greca più accreditata colle modificazioni di Petit-Radel nel suo Examen critique, troveremo almeno in qual ordine di tempo vissero gli eroi più antichi di quelli che presero parte attiva nella guerra di Troia. E a far questo ci aiuteranno diverse celebri imprese a cui intervennero quasi tutti gli Eroi contemporanei, che i Mitologi ed i Poeti si son dati cura di rammentare : tali sono la caccia del cinghiale di Caledonia, la spedizione degli Argonauti, la guerra di Tebe o dei 7 Prodi, e finalmente la guerra di Troia. Ora in queste diverse imprese trovansi rammentati quasi tutti gli Eroi di cui si ha notizia, e talvolta in una son nominati i padri e nell’altra i figli ; e di qualche eroe che intervenne a più d’una è detto in quale {p. 307}di esse egli era più giovane, in quale più vecchio : dal che deducesi senza tema di errare l’ordine cronologico di quelle imprese. Inoltre di quegli Eroi che non son rammentati o compresi in nessuna di quelle spedizioni, e che pure compierono memorabili gesta, separatamente narrate dai Mitologi, dobbiamo ragionevolmente indurne che fossero anche più antichi del tempo in cui avvennero quelle, e già divenuti Indigeti Dei, oppure discesi nel regno delle Ombre. Questo può asseverarsi principalmente di Perseo, di Bellerofonte e di Cadmo, anche secondo la precitata Cronologia greca ; perciò dalle gesta di questi dovrà cominciare la narrazione dei tempi eroici. Degli altri dirò a mano a mano che toccherà la lor volta per ordine cronologico ; e di quelli che si trovarono insieme in una data spedizione prima accennerò brevemente le particolari qualità di ciascuno di essi, e poi li metterò in azione tutti insieme ; parlando più a lungo del capo o protagonista di quella impresa nel narrare l’impresa stessa.

Prima di por termine a questo Capitolo convien fare un’altra osservazione generale ; ed è questa : che attribuendosi oltre che una forza straordinaria, anche una lunghissima vita a tutti gli Eroi, non devesi calcolare la loro media e la loro probabile esistenza secondo le moderne tavole di Statistica ; e basta soltanto il sapere quel che dice Omero del Pilio Nestore, il più vecchio dei Duci che andarono alla guerra di Troia, che cioè

« Di parlanti con lui nati e cresciuti.
« Nell’alma Pilo ei già trascorse avea
« Due vite, e nella terza allor regnava. »
(Iliad., lib. i).
{p. 308}

XLI

Perseo §

Questo antichissimo Eroe apparteneva al novero dei Semidei, poichè fu creduto figlio di Giove e di Danae, la quale era figlia di Acrisio re degli Argiesi. Se gli storici pongono Argo fra le più antiche città della Grecia, trovano la conferma della loro asserzione nelle tradizioni preistoriche della Mitologia, poichè abbiamo già veduto nel N. XI, che di Inaco re d’Argo era figlia la Ninfa Io trasformata in vacca, e poi in Dea, sotto il nome di Iside ; e parimente d’Argo era re Danao padre delle Danaidi, di cui parlammo nel N. XXXI ; ed ora troviamo Perseo di regia stirpe Argiva. In appresso incontreremo Agamennone re d’Argo e Micene, generalissimo della Grecia congiurata ai danni di Troia ; e finalmente Oreste figlio di lui, col quale termina l’età eroica e comincia l’epoca storica47. — Ma torniamo alle favole.

{p. 309}Acrisio avea saputo dall’Oracolo che se nascesse un figlio da Danae ucciderebbe l’avo. Il solo modo di render bugiardo l’Oracolo era troppo crudele, cioè di uccider subito la figlia ; e Acrisio non fu così snaturato come furono in appresso Aristodemo ed Agamennone, i quali non esitarono ad uccider le loro figlie, non già per salvarsi la vita, ma per ambizione di regno. Acrisio credè invece che bastasse rinchiuder la sua in una torre di bronzo per impedire che prendesse marito. Ma fu inutile questa precauzione, poichè Giove stesso trasformatosi in pioggia d’oro discese in quella torre e sposò Danae che fu poi madre di Perseo. S’intende facilmente che l’oro col quale furon comprate le guardie da un ricco principe aprì le porte della torre di bronzo, per la stessa ragione che fece dire a Filippo padre di Alessandro Magno non esservi fortezza inespugnabile alla quale potesse accostarsi un asinello con una soma d’oro48. Acrisio {p. 310}prese allora un’altra mezza misura : fece chiuder la madre e il figlio in una cassa di legno e gettarli nel mare ; ma e figlio e madre illesi, dopo varii pericoli che poco importa il descrivere, furon trasportati con tutta la cassa nell’isola di Serifo (una delle Cicladi nel mare Egeo), e ospitalmente accolti dal re Polidette.

Cresceva Perseo e si dimostrava degno figlio di Giove per valore e per senno, talchè Polidette cominciò a temere che potesse detronizzarlo : quindi per dargli occupazione e allontanarlo dalla sua reggia lo eccitò, coll’allettamento della gloria che ne acquisterebbe, ad una impresa stranissima e pericolosissima da eseguirsi nelle isoleGorgadi, situate nell’Oceano Atlantico presso il promontorio che tuttora dicesi Capo verde ; le quali perciò sembra che debbano corrispondere alle isole dette ora di Capo verde. Doveva Perseo tagliare a Medusa la testa cinta di orribili serpenti, che facea divenir di pietra chi la guardava. I poeti antichi dicono che Medusa aveva due sorelle chiamate Stenio ed Euriale, e che da prima eran tutte bellissime, e poi divennero mostruose in punizione della lor vanità, e furon chiamate le Gorgoni dalla voce gorgon che era il nome di un orribile mostro affricano. Le credevano figlie di Forco divinità marina, e perciò le chiamavano ancora le Fòrcidi. Più terribile era Medusa per la fatal proprietà di cangiar gli uomini in pietra. L’impresa di ucciderla sarebbe stata impossibile senza l’aiuto degli Dei ; i quali per favorire il figlio di Giove gl’imprestarono le loro armi divine, Marte {p. 311}la spada o scimitarra, Nettuno l’elmo, Minerva lo scudo e Mercurio i talari e il petaso. Così Perseo volando e coperto di armi divine si accostò non visto a Medusa e le tagliò la testa, che dipoi portò sempre seco e se ne servì utilmente per far diventar di sasso chi più gli piacque, come vedremo.

Intanto sarà bene notare che poeti e artisti antichi e moderni fecero a gara a descrivere, dipingere e scolpire la testa di Medusa. Dante asserisce che a tempo suo la Gorgone era già all’Inferno da lunga pezza ; e ci racconta che egli ebbe una gran paura, quando nel far laggiù quel suo celebre viaggio, le tre Furie infernali vedendolo da lontano dall’alto di una torre :

« Venga Medusa, sì ‘l farem di smalto,
« Gridaron tutte riguardando in giuso ;
« Mal non vengiammo in Teseo l’assalto. »

E non era un timor panico il suo, perchè Virgilio stesso gli disse tosto :

« Volgiti indietro, e tien lo viso chiuso,
« Chè se ‘l Gorgon si mostra e tu ‘l vedessi,
« Nulla sarebbe del tornar mai suso. »

Quanto poi alle belle arti sappiamo che gli antichi rappresentavano la testa di Medusa nell’Egida, e talvolta nell’usbergo della Dea Minerva ; e Cicerone rimprovera a Verre, tra gli altri delitti e sacrilegii, di avere involato una bellissima testa anguicrinita di Medusa, distaccandola dalle porte del tempio di Minerva in Siracusa49. Tra i lavori {p. 312}moderni poi è da rammentarsi la testa di Medusa dipinta da Leonardo da Vinci, che si ammira nella Galleria degli Uffizi in Firenze, e la statua di Perseo colla testa di Medusa in mano, opera egregia in bronzo fuso, di Benvenuto Cellini, che è posta sotto le loggie dell’ Orgagna in Piazza della Signoria.

Anche i Naturalisti si son ricordati di questo mostro mitologico nel dare il nome di Meduse a un gruppo di Zoofiti che formano la 1ª divisione degli Acalefi. Non v’è però da spaventarsi a veder queste Meduse, perchè son piccoli animali marini gelatinosi, e fosforescenti durante la notte, nè producono altro maligno effetto, non già a vederli, ma a toccarli, che quello stesso dell’ortica, e perciò si chiamano ancora volgarmente Ortiche di mare.

Proseguendo ora il racconto mitologico delle gesta di Perseo, è da dirsi prima di tutto che dal sangue sgorgato dal teschio di Medusa nacquero molti orribili serpenti, e dal tronco o busto di essa uscì l’alato caval Pegaso, che servì poi sempre di cavalcatura a Perseo. Inoltre questo cavallo dando un calcio al terreno presso il monte Elicona nella Beozia, fece sgorgare una fonte che fu poi sacra alle Muse e fu chiamata Ippocrene, che vuol dir fonte del cavallo. La produzione dei serpenti dal sangue della testa anguicrinita di Medusa è meno difficile a spiegarsi che quella del caval Pegaso nato dal corpo di essa. E Pindaro, a cui forse piaceva poco questa strana invenzione di Esiodo, non l’adottò, e disse invece che il caval Pegaso fu mandato dagli Dei a Perseo mentre egli si disponeva ad uccider la Gorgone. Con questi due potentissimi aiuti, il Pegaso e il teschio di Medusa, divenne Perseo il più formidabile eroe dell’antichità, perchè egli solo più di qualunque esercito fornito di qualsivoglia arme più micidiale e diabolica valeva per velocità e potenza di mezzi di distruzione delle umane esistenze. Ma per non perdere il vanto del valor personale {p. 313}e per non nuocere agl’innocenti, teneva nascosto in una borsa di pelle il teschio di Medusa, e se ne valeva soltanto nei casi di maggior bisogno ed estremi.

Su questi dati mitologici i romanzieri del Medio Evo e i poeti romanzeschi fantasticarono l’ippogrifo e l’abbagliante e stupefaciente scudo del mago Atlante50.

{p. 314}Tra le diverse imprese di Perseo occupa un posto importantissimo la liberazione di Andromeda dall’ Orca. Era Andromeda figlia di Cefeo re di Etiopia e della ninfa Cassiopea ; e fu esposta ad esser divorata da un mostro marino, perchè o essa o sua madre erasi vantata di esser più bella delle Nereidi. Nel tempo che l’Orca avanzavasi per ingoiarla, passò per aria Perseo sul caval Pegaso, e accortosi del pericolo di Andromeda volò tosto in soccorso di lei ; ma non potendo pervenire ad uccidere il mostro colla spada, perchè era più duro d’uno scoglio, lo pietrificò col teschio di Medusa. I genitori che eran presenti diedero in premio al liberatore la figlia in isposa, e il regno per dote.

Questa mirabile liberazione di Andromeda fu espressa da Benvenuto Cellini nel bassorilievo di bronzo fuso che vedesi nella base del Perseo ; ma l’eroe vi è rappresentato volante col petaso e i talari di Mercurio e non sul caval Pegaso ; con la scimitarra nella destra, e senza la testa di Medusa nell’altra mano. Nel giardino di Boboli vedesi nella gran vasca detta dell’isolotto la statua di Perseo sul caval Pegaso e di Andromeda legata allo scoglio ; ma l’Orca è di così piccole dimensioni da render risibile la paura di Arianna di poter essere divorata da quel piccolo mostro poco più grosso di un granchio. Si crede opera degli scolari di Giovan Bologna, del quale è di certo la statua colossale del Grande Oceano, che ivi si ammira.

Le feste per le nozze di Perseo con Andromeda furono disturbate negli ultimi giorni da una improvvisa invasione delle truppe del re Fineo, a cui Andromeda era stata {p. 315}promessa in isposa, ma che però non si era mosso per liberarla dal mostro marino, e quindi avea perduto qualunque titolo ad ottenerla. Perseo, dopo aver fatto prodigi di valore colla spada, vedendo che si perdeva troppo tempo ad uccidere i nemici uno alla volta, perchè pochi compagni aveva per aiutarlo, mise fuori la testa di Medusa e pietrificò nell’istante quanti la guardavano ; ed anche Fineo ebbe la stessa sorte.

Dipoi volle Perseo tornar colla sposa a riveder sua madre Danae ; e nel passare dalla Mauritania gli fu negata l’ospitalità dal re Atlante ; il quale avea saputo dall’Oracolo, che per quanto egli fosse di statura e di forza gigantesca, dovea tutto temere da un figlio di Giove. Ma la sua stessa precauzione fu causa del suo male, poichè Perseo, irritato di tale scortesia, lo raggiunse volando sul caval Pegaso mentre Atlante andava alla caccia, e mostrandogli la testa di Medusa lo trasformò in quel monte della Mauritania che tuttora chiamasi Atlante, del quale gli antichi favoleggiavano che sostenesse il Cielo, e il cui nome hanno dato i moderni, con evidente allusione mitologica, alla collezione delle carte geografiche e uranografiche.

Giunse Perseo senz’altri incidenti all’isola di Serifo, e trovò che Polidette voleva costringer Danae a sposarlo ; ed egli per toglier d’impaccio la madre, lo cangiò in una statua. All’avo Acrisio, che ancor viveva, perdonò, ed anzi lo rimise nel regno, uccidendo l’usurpatore Preto. Ma poichè finalmente doveva avverarsi la predizione dell’Oracolo, inventarono i Mitologi che il nipote, per caso, nel fare esercizi guerreschi uccidesse l’avo.

Compiute Perseo le sue imprese fe’ dono della testa di Medusa a Minerva. Il caval Pegaso gli sopravvisse e passò in potere di un altro eroe, come vedremo. Si attribuisce a Perseo la fondazione del regno di Micene ; e si narra che ivi Perseo fu ucciso a tradimento da Megapente, figlio di Preto, per vendicare la morte di suo padre.

{p. 316}La storia di Perseo fu registrata dagli Antichi a caratteri di stelle nel Cielo, poichè asserirono trasformati in costellazioni, oltre Perseo, la sua moglie Andromeda, i suoi suoceri Cefeo e Cassiopea, e finalmente qualche tempo dopo il caval Pegaso. Questi nomi dati dagli Antichi a cinque delle costellazioni boreali si conservano tuttora dai moderni Astronomi, i quali ci dicono pur anco di quante stelle è formata ciascuna di queste costellazioni, cioè Perseo di 6551 ; Andromeda di 27 ; Cefeo di 58 ; Cassiopea di 60, e il Pegaso di 91. Aggiungono inoltre che una gran quantità di stelle cadenti, di cui hanno luogo fiammeggianti pioggie ordinarie circa la metà dell’ agosto e del novembre tutti gli anni, si osserva partirsi di verso la costellazione di Perseo ; e perciò quelle tali stelle cadenti son distinte col nome di Perseidi.

XLII

Bellerofonte §

Quest’Eroe fu pronipote di Eolo, nipote di Sisifo e figlio di Glauco, della dinastia dei re di Efira, cioè di Corinto. Il suo vero nome primitivo era Ipponoo ; ed è soltanto un soprannome quello di Bellerofonte, che gli fu dato dopo che egli per caso uccise Beller suo fratello ; di che rimase poi sempre dolente e mesto52. Dicono i Mitologi che egli pure fosse re di Corinto ; ma il suo nome non trovasi nella greca cronologia di questi re ; e forse perciò aggiungono che fu subito dopo detronizzato da Preto e costretto a restar come {p. 317}ostaggio alla corte di lui. Quivi fu calunniato malignamente dalla regina Stenobea ; e Preto per le accuse della perfida moglie (volendo per altro schivare l’odiosità di farlo morire egli stesso senza apparente motivo), lo mandò da suo suocero Iobate re di Licia, con una lettera chiusa, che consegnò a Bellerofonte stesso, dicendogli che era una commendatizia, mentre invece conteneva la commissione di far morire il latore di quella. D’allora in poi lettere di Bellerofonte furono dette per antonomasia dai Pagani simili lettere proditorie53. Quindi in appresso invalse l’uso di consegnare aperte le lettere commendatizie.

Iobate non volle macchiarsi le mani nel sangue di un ospite, e impegnò Bellerofonte in imprese pericolosissime, immaginando che vi sarebbe perito, se egli era reo, oppure darebbe una prova della sua innocenza se riuscisse vittorioso54. La più celebre e memorabile di queste imprese fu quella della Chimera, mostro che avea la testa di leone, il corpo di capra e la coda di serpente, ed inoltre gettava fiamme dalla bocca e dalle narici. Gli Dei protettori {p. 318}dell’innocenza perseguitata favorirono quell’Eroe, sottoponendo ai suoi servigi il caval Pegaso posseduto prima da Perseo ; e con tale efficacissimo aiuto egli potè velocemente schermirsi da qualunque pericolo e vincere ed uccidere la Chimera. Allora sì parve a Iobate manifesta l’innocenza di Bellerofonte, e cangiato il sospetto in ammirazione e benevolenza, gli diede in isposa l’altra sua figlia, che era sorella di Stenobea. Questa, quando lo seppe, agitata dall’invidia, dalla vergogna e dai rimorsi, perdè la ragione e si diede la morte.

Bellerofonte, dopo tante ardue prove della sorte avversa, giunto finalmente a superarle tutte e ad uno stato felicissimo, fu men forte a tollerare la prosperità che prima l’avversità. Credendo che nulla gli fosse impossibile, montato sul caval Pegaso, lo spinse verso il Cielo, presumendo che gli Dei dovessero accoglierlo nel loro consesso ed alla loro mensa. Ma Giove, per punirlo della sua folle superbia, mandò un tafano a molestare il caval Pegaso, che scosse dalla sua groppa il cavaliere e lo precipitò dall’alto sulla terra ; e così miseramente finì Bellerofonte i suoi giorni. Il Pegaso continuò il volo sino al Firmamento, ove fu cangiato nella costellazione che porta il suo nome, come dicemmo.

La spiegazione più plausibile che suol darsi della Chimera è questa : che invece di essere un mostro fosse un monte ignivomo della Licia, nella parte più alta del quale soggiornassero i leoni, a mezza costa le capre selvagge e alle falde i serpenti. E per quanto a taluni non soddisfi pienamente questa spiegazione, nessuno ha saputo sinora trovarne una migliore.

I Naturalisti hanno dato il nome di Chimera a un genere di pesci, notabili per la forma mostruosa della loro testa, e che son classati come appartenenti alla famiglia degli Storioni. La Chimera artica vive in mezzo all’ oceano boreale, e si nutrisce principalmente di granchi e di molluschi. È {p. 319}lunga circa un metro e di color giallastro con macchie nere. Le fu dato ancora volgarmente dai pescatori settentrionali il nome di Regalec, ossia di re delle Aringhe, perchè la trovano sempre in mezzo alle innumerevoli legioni delle aringhe.

Pochi altri termini mitologici son tanto famigerati e comuni nelle lingue moderne, e specialmente nella italiana, quanto quello di Chimera, nel significato però di cosa insussistente, inverisimile, impossibile ; e così dicasi dell’aggettivo chimerico che ne deriva55. Anzi sulla base o radicale di questa parola si son formati in italiano vocaboli di cui non esistono gli equivalenti neppure in latino, cioè il verbo chimerizzare e i nomi chimerizzatore e chimerizzatrice, i quali sebbene sieno poco usati parlando, pur si trovano registrati nei nostri Vocabolari. Questo stesso significato che suol darsi comunemente alla parola chimera dimostra che di tutte le cose favolose ond’ è piena la Mitologia, questa è stimata la più favolosa di tutte, appunto per lo stranissimo accozzo animalesco ond’ è composto questo mostro56. Quindi è che anco nelle Belle Arti è raro il trovar dipinta o sculta la figura della Chimera. Ne esiste una di bronzo fuso nella {p. 320}Galleria degli Uffizi ; ma è dichiarata opera etrusca e dall’avere incisi sulla zampa destra etruschi caratteri, e perchè fu trovata presso Arezzo. Potrà bene aver pregio per gli Antiquarii e per la Storia dell’ Arte, ma non reca di certo una gradita sensazione all’occhio dei profani, qual fu immaginata ed eseguita dagli antichi Etruschi.

XLIII

Cadmo §

Non appartiene Cadmo al novero dei Semidei, e neppur divenne un Indigete Dio ; ma è considerato un Eroe e per l’epoca in cui visse e per quanto oprò. Il racconto della sua vita è un misto di favole e di fatti storici. Perciò diremo da prima quanto ne riferisce la Mitologia, e aggiungeremo in ultimo alcune osservazioni riferibili alla Storia.

Cadmo era figlio di Agenore re di Fenicia e fratello di Europa. Fu questa una bellissima giovinetta, che Giove rapì trasformatosi in un bianchissimo e placidissimo toro. Europa vedendolo così mansueto vi era salita in groppa per giovanile trastullo ; ma il toro giunto sulla riva del mare, si gettò in mezzo alle onde, e nuotando trasportò all’isola di Creta la giovinetta, ed ivi, riprese le forme divine, la fece sua sposa, e n’ebbe due figli Minos e Radamanto57. Il padre di lei non sapendo che ne fosse avvenuto, mandò il figlio Cadmo a cercarla, con ordine di non tornare a casa finchè non avesse trovato la sorella. Cadmo, dopo averla cercata invano per {p. 321}un anno, trovandosi vicino a Delfo, consultò quel celebre Oracolo per sapere se fosse possibile trovarla, e dove ; ma l’Oracolo non rispose alla sua domanda, e invece gli disse di fabbricare una città ove incontrasse una giovenca smarrita dalla mandra. Dove ei la incontrò, ivi la uccise, offrendola in sacrifizio ai Numi per implorarli favorevoli alla nuova città che dovea fabbricare. Per gli usi del sacrifizio avea mandato alcuni dei suoi compagni a prender dell’acqua alla fonte che trovassero più vicina, e poi gli altri a sollecitare quei primi ; ma non vedendo tornare nè questi nè quelli, vi andò egli stesso, e vide un orribile drago, custode di quella fonte, che finiva di divorarsi l’ ultimo di essi. Allora per vendicare la morte dei compagni rischiò la propria vita combattendo con quel drago che era sacro a Marte, e con sforzi prodigiosi lo uccise. Intanto una voce uscita dalla caverna donde sgorgava la sorgente, gli presagì il castigo dell’empio suo fatto ; ma apparsagli Minerva lo confortò, e gli suggerì di prendere i denti di quel serpente da lui ucciso e seminarne alquanti nel terreno. Da quella strana sementa vide Cadmo con sua gran maraviglia uscir poco dopo una quantità di uomini armati che si misero subito a combattere fra loro, finchè i più rimasero estinti, e i soli cinque sopravvissuti lo aiutarono a fabbricare la città. Questa fu da prima chiamata Cadmea dal nome di Cadmo, e poi Tebe, conservandosi però sempre il nome di Cadmea alla fortezza che fu primamente il nucleo della città. Il territorio poi fu detto Beozia dal greco nome dell’animale ivi trovato e sacrificato da Cadmo.

Fondata la città, prese Cadmo per moglie Ermione, o, secondo altri Mitologi, Armonia, figlia di Venere e di Marte, e dalla medesima ebbe quattro figlie : Autonoe, Ino, Semele ed Agave, e inoltre un figlio chiamato Polidoro. Abbiamo già detto altrove che Ino fu cangiata nella Dea marina Leucotoe, e che Semele fu madre di Bacco. Ma per quanto {p. 322}avesse Cadmo strettissima parentela coi principali Dei, poichè Giove era suo genero, Venere e Marte suoi suoceri e Bacco suo nipote, oltre il proprio merito di fondatore di una illustre città, non ostante non fu felice, e neppure i suoi discendenti. Di lui ci dicono i Mitologi che si ritirò insieme colla moglie in una solitudine, e che ivi furono ambedue cangiati in serpenti, e posti da Plutone a guardia degli Elisii. La qual metamorfosi sta a significare che egli si ritirò insieme colla moglie dalla vita pubblica e finì oscuramente i suoi giorni. Dei suoi posteri, non i Mitologi e i poeti soltanto, ma anche gli storici narrano molte triste vicende ; di alcune delle quali avremo occasione di parlare a lungo in appresso.

In quanto poi ai guerrieri nati dai denti del serpente ucciso da Cadmo, gli Antichi ci hanno trasmesso anche il nome di quei cinque che sopravvissero ed aiutarono Cadmo a fabbricare e popolare la città di Tebe ; e i loro nomi son questi : Echione, Udeo, Ctonio, Peloro e Iperènore. Anzi i nobili Tebani dei secoli successivi credevano tanto (o fingevano di credere) in così strana favola, che derivavano la loro nobiltà di sangue dall’esser discendenti, com’essi vantavansi, di questi prodi guerrieri sì miracolosamente nati ; la quale illustre prosapia era detta degli Sparti, che significava seminati, alludendosi appunto alla sementa dei denti del serpente ucciso da Cadmo58.

{p. 323}Anche la trasformazione di Cadmo in serpente era tanto famigerata presso gli antichi Pagani che talvolta fu rappresentata perfino sulla scena : il che non dovrà recar maraviglia, ripensando che anche ai tempi nostri si è veduto rappresentare in qualche spettacolo Nabuccodonosor trasmutato in bestia coram populo. Ma Orazio nella poetica avverte che non si debbono dare tali spettacoli, che riescono sconvenevoli nel teatro, perchè, sottoposti all’occhio fedele, divengono risibili59 ; mentre, come osserva il Tasso, convenevolmente son narrati dai poeti antichi e moderni, e son letti volentieri e con maraviglia nell’epopea. La trasformazione di Cadmo in serpente fu narrata così egregiamente da Ovidio, che sembrò mirabile, nonchè al Tasso, anche a Dante. Anzi Dante, convinto che tali trasformazioni poeticamente ed ingegnosamente narrate fanno grandissimo effetto sulla immaginazione dei lettori, volle gareggiare anche in questo cogli antichi poeti, come fece nel Canto xxv dell’ Inferno, detto appunto delle trasformazioni ; e fu tanto contento e sicuro egli stesso dell’opra sua, che non potè nasconderlo ai suoi lettori, ed asserì di aver superato Lucano ed anche Ovidio, il famoso autore delle Metamorfosi :

« Taccia Lucano omai, là dove tocca
« Del misero Sabello e di Nassidio,
« Ed attenda ad udir quel ch’or si scocca.
« Taccia di Cadmo e d’Aretusa Ovidio,
« Che se quello in serpente e questa in fonte
« Converte poetando, io non l’invidio ;
« Chè due nature mai a fronte a fronte
« Non trasmutò, sì ch’ambedue le forme
« A cambiar lor nature fosser pronte. »

{p. 324}Considerando poi storicamente Cadmo, ne troviamo determinata l’epoca nella Cronologia Greca verso il 1580 avanti l’èra cristiana. E quanto alla sua sorella Europa, della quale dicono i Mitologi che ebbe da Giove il privilegio di dare il nome alla terza parte dell’antico continente che noi abitiamo, gli storici non sanno dire nulla di più nè di diverso. Che il nome di Cadmea fosse dato alla fortezza di Tebe e conservato pur anco a tempo della conquista dei Romani è notizia storica confermata anche da Cornelio Nipote nelle sue Vite degli eccellenti capitani greci. Quanto poi al nome di Tebe, non si contrasta che Cadmo avesse in mira di fare una città simile alla famosa Tebe di Egitto, e che perciò le desse lo stesso nome ; ma se ne adducono due motivi diversi : il primo che la stirpe fenicia di Cadmo derivasse dall’ Egitto, come asseriscono molti ; il secondo che Cadmo stesso non fosse Fenicio, ma Egiziano, come afferma Pausania.

A questa questione si collega l’altra sull’ origine dell’ Alfabeto in Europa, del quale si attribuisce a Cadmo che portasse in Grecia le prime sedici lettere60. Sino al presente secolo non se ne dubitava, ed oltre al dirsi precisamente quali erano le sedici lettere importate da Cadmo, si notavano {p. 325}ancora le quattro inventate da Palamede al tempo dell’assedio di Troia, e le altre quattro aggiuntevi da Simonide cinque secoli dopo ; che in tutte vengono a formar l’alfabeto greco di ventiquattro lettere61. Modernamente però mentre Brettmann e Creuzer hanno ammessa l’influenza Fenicia in Europa, C. O. Muller l’ha rigettata, considerando Cadmo come una Divinità pelasgica. Ed ecco come dalla Mitologia si passa nel campo della critica storica ; nei quali confini deve arrestarsi il Mitologo. È però fuori di controversia che la civiltà non meno che la popolazione sia venuta dall’Asia in Europa, o vogliam dire dall’Oriente in Occidente.

XLIV

La caccia del cinghiale di Calidonia §

È questa la prima impresa dei tempi eroici in cui si trovino riuniti molti celebri eroi, e che serve perciò, in mancanza di altri dati cronologici, a stabilire almeno che quegli {p. 326}eroi erano contemporanei. Sebbene i Mitologi la considerino un’impresa secondaria (ed è tale se riguardisi soltanto lo scopo di uccidere una belva feroce), e perciò ne parlino soltanto incidentalmente, è per altro di somma importanza per la cronologia degli Eroi, dimostrando essa che furon contemporanei coloro che vi presero parte.

Calidone o Calidonia era la capitale dell’Etolia a tempo del re Oeneo, circa un secolo prima della guerra di Troia. Questo re nel fare un sacrifizio agli Dei in ringraziamento per le buone raccolte ottenute, erasi dimenticato di Diana ; ed essa lo punì mandando un mostruoso cinghiale a devastare lo stato di lui. Non molto lungi dalla città v’era la folta selva Calidonia, da cui usciva il cinghiale per devastare ed uccidere, ed ivi tornava ad imboscarsi ; ed era impresa pericolosissima l’andare ad assaltarlo là dentro. Perciò il re invitò tutti i più coraggiosi e prodi giovani della Grecia a prender parte a questa caccia, e ne fe’capo il suo figlio Meleagro. Accorsero all’invito i più distinti eroi che vivessero in quel tempo : alcuni dei quali divennero anche più celebri in appresso per altre più importanti e mirabili imprese, come Giasone che fu poi duce degli Argonauti, Teseo vincitore del Minotauro, Piritoo suo fidissimo amico, Castore e Polluce gemelli affettuosissimi, che poi divennero la costellazione dei Gemini, l’indovino Anfiarao che fu uno dei sette prodi alla guerra di Tebe, Nestore ancora nella sua prima gioventù, Peleo che fu poi padre di Achille, Telamone padre di Aiace e Laerte di Ulisse ; dei quali tutti dovremo parlare anche in appresso. Degli altri eroi intervenuti a questa caccia, dei quali non si conoscono fatti più celebri di questo, ne diremo qui brevemente quanto è necessario a sapersi.

I più notabili erano : Meleagro figlio del re Oeneo e duce di quella eletta schiera, i suoi zii Plessippo e Tosseo, fratelli di Altea sua madre, e la sua fidanzata Atalanta {p. 327}valentissima cacciatrice. Infatti fu dessa la prima a ferire, benchè leggermente, il cinghiale, dopo che questa fiera aveva già fatto strage di tre o quattro cacciatori e di molti cani. I cacciatori che vi rimasero uccisi dalla fiera non hanno altra celebrità che quella acquistata con questa trista fine ; ma, come dice un moderno poeta :

« Trar l’immortalità dalla sua morte
« È una sorte meschina, o non è sorte. »

Dopo altre vicende che poco importa narrare, finalmente ebbe Meleagro la gloria di atterrare quell’immane belva ; e il diritto che egli avea di prender per sè il teschio e la pelle del cinghiale lo cedè ad Atalanta. Ciò dispiacque ai suoi zii, mal tollerando che una donna con tal distintivo di onore potesse vantarsi di essere stata più valente degli uomini ; e volevano toglierle quell’insigne trofeo62. Di che Meleagro irritato, e dalle parole venendo ai fatti, li uccise ambedue. Fin qui il racconto potrebbe parer vera storia, toltane l’esagerazione della prodigiosa forza e ferocia del mostruoso cinghiale. Ma la scena termina con una favola di nuovo genere, invenzione che Dante stesso rammenta nella Divina Commedia. La favola si riferisce al destino della vita di Meleagro.

Raccontano i Mitologi ed i poeti, e più estesamente di tutti Ovidio nelle Metamorfosi, che quando nacque Meleagro, le Parche comparvero nella stanza ove Altea partorì, e, gettato nel fuoco un ramo d’albero, dissero : « tanto vivrai, o neonato, quanto durerà questo legno ; » e subito dopo disparvero63. La madre, che non si sa per qual privilegio o {p. 328}grazia speciale potè vederle e udirle, corse a levar dal fuoco quel tizzo che già ardeva dall’ un de’ capi, lo spense e lo chiuse fra le cose più care e più preziose. Ma quando seppe che Meleagro aveva ucciso gli zii, all’amor materno cominciò a prevalere la pietà dei fratelli uccisi e l’orrore per la scelleraggine del figlio ; e dopo molti e strazianti contrasti vinse finalmente l’ira, e preso il fatal ramo lo gettò tra le fiamme. Meleagro assente cominciò subito a sentirsi consumar le viscere da un fuoco interno inestinguibile. Se la madre avesse potuto veder quegli spasimi atroci, ne sarebbe rimasta impietosita e avrebbe cercato di porvi rimedio ; chè ella sola il poteva. Quelli che gli apprestavano i suoi affettuosi compagni furono affatto inutili, e la vita del misero Meleagro si estinse allo spengersi dell’ ultima scintilla del tizzo fatale. Quando lo seppe la madre, agitata dal rimorso e divenuta folle per disperato dolore si diede la morte ; il padre ne rimase affranto e istupidito e poco sopravvisse ; e le sorelle (tranne Deianira che era già moglie di Ercole), furon cangiate in uccelli detti Meleàgridi, nome che da alcuni Ornitologi si dà tuttora alle galline affricane (Numida Meleagris).

Ho detto di sopra che Danterammenta nella Divina Commedia la trista fine di Meleagro ; ed eccomi ad accennare in quale occasione. Dopo aver narrato che i golosi son puniti nel Purgatorio con una fame canina resa più acuta dal vedersi dinanzi agli occhi, come Tantalo nell’ Inferno pagano, i pomi e l’acqua senza poterne gustare ; il qual tormento rendeva talmente magre e scarne quelle anime, che

« Negli occhi era ciascuna oscura e cava,
« Pallida nella faccia e tanto scema
« Che dall’ossa la pelle s’informava,

cominciò a pensare

{p. 329}« Alla cagione ancor non manifesta
« Di lor magrezza e di lor trista squama ; »

e non potendo trovarla da sè, finalmente, fattosi coraggio, domandò a Virgilio :

« ……Come si può far magro
« Là dove l’uopo di nutrir non tocca ? »

E Virgilio a lui :

« Se t’ammentassi come Meleagro
« Si consumò al consumar d’un tizzo
« Non fora, disse, questo a te sì agro. »

Ma accorgendosi Virgilio che con questo esempio pretendeva di spiegare un mistero con un altro mistero, citò ancora un fenomeno fisico :

« E se pensassi come al vostro guizzo
« Guizza dentro allo specchio vostra image,
« Ciò che par duro ti parrebbe vizzo. »

E per quanto anche il poeta Stazio, a richiesta di Virgilio, gli desse bellissime spiegazioni scientifiche sulla generazione dell’uomo, sull’unione dell’anima col corpo e lo stato di essa dopo la morte, nulladimeno non sembra che Dante rimanesse tanto convinto quanto altra volta che Virgilio gli disse :

« A sofferir tormenti e caldi e geli
« Simili corpi la Virtù dispone
« Che come sia non vuol che a noi si sveli. »

E così con esempii mitologici, cattolici e scientifici viene a far conoscere che spesso s’incontrano nelle umane cognizioni misteri inesplicabili.

{p. 330}

XLV

La spedizione degli Argonauti alla conquista del Vello d’oro §

Su questo argomento furon composti due poemi, uno in greco e l’altro in latino64 ; e sul duce o principal personaggio più e diverse tragedie antiche e moderne ; ed inoltre quasi tutti i poeti, incluso Dante, ne parlano o vi alludono. Cinquanta furono gli Eroi che vi presero parte, alcuni dei quali eran prima intervenuti alla caccia del cinghiale di Calidonia ; e tra questi Giasone che fu il duce e il protagonista degli Argonauti, e acquistò maggior fama di tutti in questa impresa, come Achille nella guerra di Troia. Lo scopo della spedizione era la conquista del Vello d’oro ; e perciò di questo convien prima di tutto parlare.

Chiamasi il Vello d’oro la pelle di un montone che invece di lana era coperta di fili d’oro. S’intende subito che questo montone è favoloso, e perciò convien cercarne l’origine nei precedenti tempi mitologici.

Atamante re di Tebe, che sposò in seconde nozze Ino divenuta poi la Dea Leucotoe, aveva della sua prima moglie Nèfele un figlio e una figlia di nome Frisso ed Elle ; che non contenti della matrigna fuggirono dalla casa paterna portando via un grosso montone col vello d’oro, donato già dagli Dei ad Atamante ; e montati a cavallo su quell’animale, lo spinsero in mare per farsi trasportar da esso fra le onde sino alla Colchide. Ma nel passar lo stretto che ora dicesi dei Dardanelli la giovinetta Elle cadde nel mare e vi {p. 331}annegò ; e per questo fatto mitologico gli Antichi diedero a quello stretto il nome di Ellesponto che significa mare di Elle. Al desolato fratello convenne continuar solo il viaggio marittimo che ebbe termine nella Colchide ov’era diretto. Questa regione, situata fra il Ponto Eusino o Mar Nero, il Caucaso e l’Armenia, appartiene ora alla Russia e corrisponde alle provincie di Imerezia, Mingrelia e Grusia. Fu un prodigioso viaggio quello di Frisso di traversar sull’ aureo montone nuotante l’Arcipelago, lo stretto dei Dardanelli, il Mar di Marmara, lo stretto di Costantinopoli e tutta la maggior lunghezza del Mar Nero, e giunger salvo a Colco. Frisso fu benissimo accolto con quel raro e prezioso animale da Eeta re di quella regione : e volendo mostrarsi grato agli Dei dell’esser giunto a salvamento ove desiderava, offrì loro in sacrifizio quel bravo montone che lo aveva sì ben servito, per appenderne come voto l’aureo vello maraviglioso. Ma gli Dei ricompensarono essi quel povero animale, trasformandolo nella celeste costellazione dell’Ariete ; e invece dell’aureo vello l’adornarono di quarantadue fulgidissime stelle, e il Sole l’onorò coll’ incominciar dal 1° grado di esso l’annuo suo corso tra i segni del Zodiaco. Quindi i poeti alludendo a tal fatto mitologico chiamano questa costellazione l’animal di Frisso ; e Dante l’appella più volte antonomasticamente il Montone, siccome il più buono, il più paziente, il più illustre di quanti montoni sieno esistiti giammai ; e volendo egli esprimer poeticamente lo spazio di sette anni, usa questa perifrasi mitologica ad un tempo ed astronomica :

« … Or va, che il Sol non si ricorca
« Sette volte nel letto che il Montone
« Con tutti e quattro i piè copre ed inforca,
« Che cotesta cortese opinïone
« Ti fia chiovata in mezzo della testa
« Con maggior chiovi che d’altrui sermone. »

{p. 332}Il vello d’oro rimasto nella Colchide fu consacrato, secondo alcuni, a Giove, e, secondo altri, a Marte, e custodito religiosamente, e assicurato con molte cautele e magiche invenzioni, di cui parleremo in appresso.

Alla pericolosa conquista di quest’aureo vello fu diretta la spedizione degli Argonauti ; e non la considerarono essi una impresa di rapina, ma come l’esercizio di un diritto imprescrittibile, di riacquistar ciò che è suo, essendo che l’aureo montone appartenesse originariamente alla Grecia e precisamente alla real famiglia di Tebe, come abbiam detto di sopra. Ma gli Eroi di questa impresa per far lo stesso viaggio marittimo che fece Frisso sulla groppa del suo impareggiabile montone, furon costretti a costruire ed armare una nave che fu creduta la prima inventata dagli uomini, e celebrata perciò con lodi interminabili da tutti gli antichi. La nave fu chiamata Argo, e quindi Argonauti gli Eroi che navigarono in quella. Se le fosse dato questo nome da quello dell’architetto che la costruì, o dall’esser fabbricata in Argo, oppure da un greco vocabolo, che secondo alcuni etimologisti significa veloce, o da altro ortograficamente poco dissimile, ma che significa l’opposto, lascerò deciderlo ai solenni filologi : con tante idee poetiche e storiche che desta questa spedizione, non mi sento disposto ad arrestarmi a quisquilie filologiche.

All’invito di Giasone accorsero gli Eroi da tutte le parti della Grecia, alcuni dei quali eran già stati con lui alla caccia del cinghiale di Calidonia, cioè Teseo, Piritoo, Castore, Polluce e Telamone ; ed altri di cui non si è ancora parlato, cioè Calai e Zete figli di Borea, Ercole, Orfeo, Linceo, Tifi, Tideo, ecc. È ben facile che alla primitiva tradizione, di cui fa cenno anche Omero, non che Esiodo, siano stati aggiunti in appresso nuovi eroi dei diversi Stati della Grecia per accomunar la gloria di questa impresa a tutta la Nazione, poichè si fanno ascendere, come abbiam detto, almeno a {p. 333}cinquanta, uno per remo, essendo Argo una nave di cinquanta remi. In questa comune e nazionale impresa per altro il solo Giasone è quello di cui si raccontano fatti straordinarii e maravigliosi, degni di poema ; gli altri Eroi vi rappresentan soltanto una parte molto secondaria ; ma appunto per questo vi è maggiore unità e si rende più facile e più breve la narrazione.

Giasone era figlio di Esone re di Tessaglia65, a cui fu usurpato il regno dal fratello Pelia ; perciò essendo egli ancor fanciullo, per salvarlo dalle in sidie dello zio, fu mandato ad educare altrove, e dicono presso il Centauro Chirone. Ma divenuto adulto e prode ritornò arditamente in Tessaglia per ridomandare allo zio il regno paterno. Pelia non osando di dargli un aperto rifiuto, lo seppe talmente allucinare colle idee della gloria e dell’onor nazionale, che lo impegnò a riconquistare il vello d’oro che ap parteneva alla Grecia, e gli promise di restituirgli il regno al suo ritorno, ma sperando in cuor suo che sarebbe perito in quella impresa.

Fu costruita la nave per questa spedizione coi pini del monte Pelio e colle quercie della selva di Dodona sacra a Giove, e, aggiungono i poeti, sul disegno dato da Minerva stessa, per significarne la perfetta costruzione. Riuniti a Giasone i cinquanta eroi, la nave salpò per la Colchide, che allora chiamavasi la terra di Eea, vocabolo d’incerta e vaga significazione, indicante soltanto una terra lontana, come l’Oga Magoga della Bibbia e il paese di Cuccagna e di Bengodi dei nostri novellieri. Gli Argonauti sapevano soltanto che quel paese era fra settentrione ed oriente, e in quella {p. 334}direzione volsero la prora. Il capitan della nave era Giasone, il pilota Tifi, ed a prua stava Linceo di vista acutissima, (come significa il suo nome derivato da lince, per osservare se v’eran sott’ acqua scogli e sirti, ove corresse rischio di frangersi o arrenare la nave. Orfeo interrompeva la monotonia del viaggio rallegrando i compagni col canto e col suon della cetra : tutti gli altri Eroi costituivano la ciurma che eroicamente remava. Convenne far diverse fermate per prender, come suol dirsi, paese, ossia per avere a mano a mano opportune notizie riferibili al luogo e allo scopo del loro viaggio, ed anche per rinnovare le loro provvisioni da bocca, perchè Ercole, oltre ad essere il più forte e robusto eroe, era anche il più gran divoratore, e mangiava per cinquanta, bevendo ancora in proporzione ; e perciò gli avevan messo il soprannome di Panfago, che vuol dir mangia-tutto.

La prima fermata fu nell’isola di Lenno,

« Poi che le ardite femmine spietate
« Tutti li maschi loro a morte dienno, »

come dice Dante ; e vi giunsero appunto dopo l’atroce fatto che le donne di quell’isola, malcontente delle leggi e dei trattamenti degli uomini, li uccisero tutti per costituirsi in repubblica femminile. La sola Issipile, figlia del re Toante, con pietosa frode salvò la vita a suo padre ; e meritava perciò una miglior sorte di quella che si racconta di essa, poichè giunto in quell’isola insieme cogli altri Argonauti Giasone,

« Ivi con segni e con parole ornate
« Issifile ingannò la giovinetta,
« Che prima tutte l’altre avea ingannate ; »

e poi traditane la buona fede la lasciò alle persecuzioni delle sue crudeli compagne, che scoperta la sua pietà filiale, le tolsero il trono e la cacciarono dal regno. Inoltre fu presa {p. 335}dai pirati e venduta schiava a Licurgo re di Tracia66. Dante, amico non timido amico al vero ed al retto67, dopo aver narrato l’inganno di Giasone, non fa come certi lassisti68 che scusano facilmente i così detti errori giovanili : per lui qualunque inganno dannoso al prossimo, in qualunque età commesso, è non solo meritevole di punizione, ma anche di pena maggiore dell’omicidio ; e perciò mette Giasone nella prima bolgia dell’Inferno fra i dannati che eran puniti

« Da quei Dimon cornuti con gran ferze
« Che li battean crudelmente di retro ; »

e soggiunge :

« Tal colpa a tal martirio lui condanna,
« Ed anche di Medea si fa vendetta.
« Con lui sen va chi da tal parte inganna. »

Dopo questo episodio, poco cavalleresco a dir vero, proseguirono gli Argonauti il loro viaggio. Troppo lungo e {p. 336}monotono sarebbe il racconto di tutti e singoli gl’incidenti, che per lo più son comuni alla maggior parte dei viaggi marittimi narrati dai poeti, come, per esempio, qualche tempesta, qualche combattimento coi popoli delle coste marittime o delle isole, qualche pericolo di scogli o di sirti ; in quella vece ci arresteremo piuttosto a riferire un episodio di nuovo genere, imitato anche dall’Ariosto, e rammentato più d’una volta dall’Alighieri, cioè la liberazione del re Fineo dalle Arpie.

Le Arpie eran mostri che Dante dipinge così :

« Ale hanno late e colli e visi umani,
« Piè con artigli e pennuto il gran ventre,
« Fanno lamenti in sugli alberi strani. »

E bisogna aggiungere quel che ne dicono i poeti greci e i latini, che cioè questi mostri avevano l’istinto di rapire i cibi dalle mense e di contaminarle con escrementi che fieramente ammorbavano. Il loro stesso nome di Arpie deriva da un greco vocabolo (arpazo) che significa rapire69. Ad essere infestato da tali mostri era condannato dagli Dei Fineo re di Tracia in punizione delle sue crudeltà verso i proprii figli, e vi fu aggiunta pur anco la cecità. Approdati gli Argonauti nella Tracia o bene accolti da Fineo, vollero per gratitudine liberarlo dalle Arpie, ed oltre a cacciarle dalla reggia colle armi, le fecero inseguire per aria da Calai e Zete, figli di Borea, che avevano le ali come il loro padre ; i quali le respinsero fino alle isole Strofadi, ove poi furono trovate da Enea nel venire in Italia, come a suo luogo {p. 337}diremo. Finalmente furono confinate nell’Inferno, ove Dante le trovò a tormentare i dannati per suicidio.

Ma poichè l’Ariosto, coll’immaginare che il Senàpo imperatore dell’Etiopia avesse ricevuto una punizione simile a quella di Fineo, ha riunito in poche ottave tutte le classiche reminiscenze degli antichi poeti su questo fatto mitologico, aggiungendovi di suo altre invenzioni medioevali, riporterò prima l’imitazione degli Antichi, e dipoi il diverso modo di liberazione da lui immaginato :

« Dentro una ricca sala immantinente
« Apparecchiossi il convito solenne,
« Col Senàpo s’assise solamente
« Il Duca Astolfo, e la vivanda venne.
« Ecco per l’aria lo stridor si sente,
« Percosso intorno dall’orribil penne :
« Ecco venir le Arpie brutte e nefande,
« Tratte dal cielo a odor delle vivande.
« Erano sette in una schiera, e tutte
« Volto di donne avean pallide e smorte,
« Per lunga fame attenuate e asciutte,
« Orribili a veder più che la morte.
« L’alacce grandi avean, deformi e brutte,
« Le man rapaci e l’ugne incurve e torte,
« Grande e fetido il ventre, e lunga coda
« Come di serpe che s’aggira e snoda.
« Si sentono venir per l’aria e quasi
« Si veggon tutte a un tempo in su la mensa
« Rapire i cibi e riversare i vasi ;
« E molta feccia il ventre lor dispensa,
« Tal che gli è forza d’otturare i nasi,
« Che non si può patir la puzza immensa.
« Astolfo, come l’ira lo sospinge,
« Contra gl’ingordi augelli il ferro stringe.
{p. 338}« Uno sul collo, un altro su la groppa
« Percuote, e chi nel petto e chi nell’ala ;
« Ma come fera in su un sacco di stoppa,
« Poi langue il colpo, e senza effetto cala :
« E quei non vi lasciâr piatto nè coppa
« Che fosse intatta ; nè sgombrâr la sala
« Prima che le rapine e il fiero pasto
« Contaminato il tutto avesse e guasto. »
(Orl. Fur., xxxiii, 119.)

A questo punto l’Ariosto lascia l’imitazione degli Antichi, e con le invenzioni del Medio Evo, di cui si era valso in altri luoghi del suo poema, narra la liberazione del Senàpo dalle Arpie in modo più maraviglioso di quello dei poeti classici greci e latini. I mezzi che egli adopera sono due l’ Ippogrifo, di cui abbiamo riportato altrove la descrizione stessa fattane dall’Ariosto, e l’altro non meno straordinario e mirabile, di cui riporterò parimente la descrizione coi versi stessi dell’Ariosto ;

« E questo fu d’orribil suono un corno
« Che fa fuggire ognun che l’ode intorno.
« Dico che ‘l corno è di sì orribil suono
« Ch’ovunque s’oda, fa fuggir la gente.
« Non può trovarsi al mondo un cor sì buono,
« Che non possa fuggir come lo sente.
« Rumor di vento e di tremuoto, e ‘l tuono,
« Al par del suon di questo, era nïente. »
(Or. Fur., xv, 14.)

Conosciuti i mezzi, ecco in qual modo l’Ariosto li fa porre in opera dal duca Astolfo per la liberazione del Senàpo dalle Arpie :

« Avuto avea quel re ferma speranza
« Nel duca, che l’ Arpie gli discacciassi ;
{p. 339}« Ed or che nulla ove sperar gli avanza,
« Sospira e geme e disperato stassi.
« Viene al duca del corno rimembranza,
« Che suole aitarlo ai perigliosi passi ;
« E conchiude tra sè, che questa via
« Per discacciare i mostri ottima sia.
« E prima fa che ‘l re con suoi baroni
« Di calda cera l’orecchio si serra,
« Acciò che tutti, come il corno suoni,
« Non abbiano a fuggir fuor della terra.
« Prende la briglia e salta su gli arcioni
« Dell’Ippogrifo ed il bel corno afferra ;
« E con cenni allo scalco poi comanda
« Che riponga la mensa e la vivanda.
« E così in una loggia s’apparecchia
« Con altra mensa altra vivanda nuova.
« Ecco l’Arpie che fan l’usanza vecchia :
« Astolfo il corno subito ritrova ;
« Gli Augelli che non han chiusa l’orecchia,
« Udito il suon, non puon stare alla prova ;
« Ma vanno in fuga pieni di paura,
« Nè di cibo nè d’altro hanno più cura.
« Subito il paladin dietro lor sprona ;
« Volando esce il destrier fuor della loggia,
« E col castel la gran città abbandona,
« E per l’aria, cacciando i mostri, poggia.
« Astolfo il corno tuttavolta suona ;
« Fuggon l’Arpie verso la zona roggia,
« Tanto che sono all’altissimo monte,
« Ove il Nilo ha, se in alcun luogo ha, fonte.
« Quasi della montagna alla radice
« Entra sotterra una profonda grotta,
« Che certissima porta esser si dice
« Di chi all’inferno vuol scender talotta.
{p. 340}« Quivi s’è quella turba predatrice
« Come in sicuro albergo ricondotta,
« E già sin di Cocito in su la proda
« Scesa, e più là, dove quel suon non s’oda. »

E così l’Ariosto collega l’antico col moderno, e fingendo che Astolfo nell’800 dell’èra volgare avesse spinto le Arpie nell’Inferno, ove Dante, 500 anni dopo Astolfo, dice di averle trovate, mette d’accordo, come se fossero una storia vera, le fantasie di tutti gli altri poeti col racconto di sua invenzione.

Da Fineo ebbero gli Argonauti notizie e consigli sul miglior modo di schivare i pericoli della loro navigazione ; e partiti da lui colmi di ringraziamenti e di doni proseguirono il loro viaggio per l’Ellesponto e la Propontide. Prima di entrar nel Ponto Eusino perderono la compagnia di Ercole, il quale avendo mandato il suo valletto Ila a prender dell’acqua sulle coste della Misia, e non vedendolo ritornare, scese a terra a cercarlo e non volle seguitare il viaggio. Per quanto cercasse, non lo trovò più ; e fu detto dai poeti che le Ninfe Naiadi avevano rapito il giovinetto Ila ; il che in prosa significherebbe che era annegato in quella fonte ov’egli andò ad attingere l’acqua. Gli Argonauti non furon troppo dolenti di perder la compagnia del loro carissimo Panfago, perchè poteron procedere più speditamente, alleggerita di quel grave peso la nave, e senza doversi così spesso fermare a far nuove provvisioni da bocca.

Tutti gli altri incidenti che avvennero avanti che gli Argonauti giungessero nella Colchide sono di lieve importanza in confronto dei già narrati e dell’azione principale, scopo del loro viaggio ; quindi ci affretteremo a parlare di questa. E sebbene la presenza e il braccio di tanti famosi Eroi rendesse sicura qualunque impresa da compiersi colla forza, trovaron per altro che questa non bastava a conquistare il Vello {p. 341}d’oro : bisognava ancora vincer gl’incanti, nelle quali arti i Greci eran novizii in confronto dei Colchi70. Sarebbe dunque rimasta vana ed inutile la spedizione degli Argonauti, quanto al fine ultimo della medesima, se Giasone non avesse trovato una Maga che lo aiutasse a superare ogni ostacolo soprannaturale. Con tale aiuto potè egli solo compier l’impresa, rimanendo spettatori e pieni di maraviglia gli stessi Eroi suoi compagni. Ecco perchè d’ora in avanti anche i nostri sguardi dovranno esser principalmente rivolti su Giasone e la Maga Medea.

XLVI

Giasone e Medea §

Re della Colchide al tempo che vi giunsero gli Argonauti, cioè 13 secoli avanti il Cristianesimo, era Eeta, il quale aveva una figlia nubile chiamata Medea ed un piccolo figlio chiamato Absirto. I Colchi eran celebri nell’antichità per l’arte magica, e Medea apparteneva al novero

« Di quelle triste che lasciaron l’ago,
« La spola e ‘l fuso, e fecersi indovine ;
« Fecer malìe con erbe e con imago. »

Fra tutti gli Argonauti distinguevasi Giasone per avvenenza e per regale aspetto ; e Dante che lo pose nell’ Inferno come ingannatore di femmine, non tace però di alcune sue egregie doti, facendo dire a Virgilio :

« ….. Guarda quel grande che viene
« E per dolor non par lagrima spanda :
« Quanto aspetto reale ancor ritiene !
« Quegli è Iason che per cuore e per senno
« Li Colchi del monton privati fene. »

{p. 342}Medea se ne invaghì ; e Giasone le promise di sposarla e di condurla seco ad esser regina in Grecia, se lo aiutava colle arti sue ad impadronirsi del vello d’oro. Le difficoltà erano straordinarie : conveniva entrare in uno steccato difeso da tori spiranti fiamme, aggiogarne due ad un aratro spingendoli quindi a fare un solco ; e, seminati i denti del serpente ucciso da Cadmo, combattere coi guerrieri che nascevano da quelli ; e finalmente uccidere il drago alato che vegliava a guardia dell’aureo vello. Medea coll’arte magica premunì talmente Giasone che vinse ogni prova, e, impadronitosi dell’ambito tesoro, partì subito cogli eroi compagni e colla sua fidanzata per imbarcarsi nuovamente sulla nave Argo ancorata nel fiume Fasi71. Non vi fu bisogno che alcuno degli altri Argonauti prendesse parte alle preaccennate prove, ma stettero tutti a vedere pieni di maraviglia, specialmente allorquando Giasone seminò i denti del serpente ucciso da Cadmo, e ne nacquero uomini. Dante allude a questo fatto mitologico nel Canto ii del Paradiso, dicendo :

« Quei glorïosi che passaro a Colco
« Non s’ammiraron, come voi farete,
« Quando Jason vider fatto bifolco. »

{p. 343}Medea per altro avea preveduto che suo padre Eeta li avrebbe fatti inseguire, e perciò condusse seco come in ostaggio per qualunque più tristo evento il suo piccolo fratello Absirto ; e quando vide che il padre stesso li inseguiva con un esercito, invece di fidare nel valore degli Argonauti, ove mai s’impegnasse la mischia, uccise il fratello Absirto e ne gettò le membra sparse sulla via per cui passar doveva suo padre, affinchè questo ferale spettacolo lo ritardasse, arrestandolo a rendere alla salma dell’ estinto figlio i funebri onori. Con questo orrendo delitto ottenne l’intento, e dimostrò a tutti, non che allo sposo, di qual tempra ella fosse72.

Quanto alla strada che tennero gli Argonauti per ritornare in Grecia, vi sono tre opinioni diverse, che sarebbero poco divertenti a raccontarsi e a udirsi, perchè dopo tutto, non si può accertare qual sia la vera ; e fortunatamente poco importa il saperlo. Si accordano però i diversi Mitologi ad asserire che volendo gli Argonauti ritornare in Grecia per {p. 344}altri mari, furono obbligati a portarsi sulle spalle la loro nave a traverso i monti per andare a trovare, chi dice il Mar Rosso, e chi il Mare Adriatico ; e su questa fatica che ora direbbesi erculea (benchè vi mancasse, come sappiamo, l’aiuto di Ercole che aveva lasciati molto prima i compagni), si estendono con molte amplificazioni i poeti antichi, come faranno i futuri poeti che questo tempo chiameranno antico, narrando il passaggio del general Bonaparte e dell’artiglieria francese sulle nevose cime delle Alpi. Quella antica è probabilmente una invenzione poetica per encomiar quegli Eroi che non ebber nulla da fare nella conquista del vello d’oro : la narrazione del fattò vero moderno parrebbe non meno favolosa, se si perdessero i documenti storici.

Rientrati gli Argonauti nei mari della Grecia accompagnarono Giasone e Medea in Tessaglia, ed ivi si divisero da loro per andare a compiere altre illustri imprese, delle quali parleremo fra breve in altri capitoli. In questo convien continuare il racconto di Giasone e Medea.

Poco lieto di questo ritorno fu Pelia usurpatore del regno di Giasone, poichè aveva sperato di essersi tolto di mezzo per sempre il nipote ; ed ora lo vedeva tornare colmo di gloria col prezioso vello ed una fiera moglie di lui più tremenda. E qui ricominciano gli atroci fatti e le magiche frodi.

È una invenzione di alcuni poeti, e specialmente di Ovidio, che Medea col sugo di certe erbe trasfuso nelle vene del vecchio Esone lo ringiovanisse,73 poichè tutti gli altri dicono {p. 345}che il padre di Giasone fosse stato molto prima ucciso da Pelia ; ma però tutti si accordano ad asserire che Medea per punir crudelmente Pelia fe’ credere alle figlie di lui che potrebbero ringiovanire il vecchio padre con certe erbe magiche che ella diè loro ; ed esse troppo credule furono orribilmente micidiali e parricide.

Giasone dopo essere stato qualche anno in perfetto accordo colla moglie ed avutine due figli, ricominciò una vita errante in cerca di straordinarie avventure ; ed essendosi fermato lungamente alla corte di Creonte re di Corinto, si sparse la fama che egli avrebbe sposato Glauca figlia del re, e ripudiato Medea. Questa appena lo seppe, corse a Corinto coi figli ; e trovando che la fama non era stata bugiarda, finse rassegnazione e di voler fare anch’essa un dono alla novella sposa, e le diede un abito ed anche un cinto spalmati di magici succhi, che divamparono in fiamme nell’appressarsi della sposa all’ara ardente e alle vampe delle faci nuziali ; e la misera Glauca, o come altri la chiamano Creusa, morì carbonizzata, e l’incendio si comunicò anche alla reggia. Nè {p. 346}solo di questa atroce vendetta fu paga la furibonda Medea, ma uccise anche i figli, potendo più in lei l’odio contro Giasone che l’amore di madre ; e poi, benchè chiusa nella reggia fuggì per aria a volo in un carro tirato da serpenti alati, e se ne andò ad Atene nella corte del vecchio Egeo padre di Teseo. Quel che ivi macchinasse sarà detto nel racconto particolare della vita di questo Eroe. Giasone colpito cru- delmente nelle sue più care affezioni tornò affranto dal dolore nel suo regno di Tessaglia ; e di lui null’altro più si racconta che la trista fine. Si narra che la nave Argo dopo il famoso viaggio fu collocata sulla riva del mare sopra una base come un glorioso trofeo, e che Giasone frequentemente all’ombra di essa arrestavasi ripensando ai dì che furono, quando egli duce dei più degni Eroi, varcava su quella incogniti mari. Ma un giorno, come volle il suo fato funesto, dalla nave sconquassata nel lungo viaggio e corrosa dalle intemperie, cadde una trave sulla testa dell’Eroe e lo uccise. E forse per questa fine ingloriosa non ebbe egli dopo la morte quegli onori divini che solevano prodigarsi agli altri Eroi. Invece fu onorata ben più la stessa nave, che i poeti asserirono assunta in cielo e trasformata in quella costellazione che ne porta tuttora il nome, e nella quale i moderni astronomi coi loro telescopii hanno contato 127 fulgidissime stelle.

Per quanto gli Antichi si affaticassero a dire che Argo fu la prima nave inventata dagli uomini, nessuno dei moderni vorrà credere che non ve ne fossero state altre anche avanti. Si può bene ammettere che fosse la prima di quella particolare ed egregia costruzione, ma non già che gli Argonauti fossero i primi navigatori. Le isole stesse dell’ Arcipelago greco, per quanto vicine tra loro, non che le più distanti negli altri mari, non avrebbero potuto esser popolate da gente che vi si fosse trasportata a nuoto ; e sappiamo dalla Storia della scoperta dell’America, che anche i selvaggi di {p. 347}quella parte del mondo adopravano piccole barche formate di un sol tronco d’albero scavato naturalmente per vecchiezza, oppure artificialmente col fuoco o con stromenti di pietra. Anzi gli scrittori filosofi che studiano le origini storiche, e fra questi principalmente il Vico, asseriscono che il toro che rapì Europa non fosse altro che una nave coll’insegna o col nome di quell’animale, e così il montone di Frisso ed Elle ; mentre poi per l’ aureo vello intendono un ricco tesoro trasportato nella Colchide, ove gli Argonauti andarono per ricuperarlo.

I poeti per altro prescelgono sempre quel che è più maraviglioso, ancorchè sia men vero, e vi aggiungono particolari incidenti per renderlo verosimile. Lo stesso Cicerone nelle sue opere filosofiche riporta una scena della tragedia degli Argonauti di Lucio Accio, nella quale il poeta finge, che un pastore che non aveva mai prima veduto una nave, nello scorgere dall’alto di un monte il vascello degli Argonauti traversare i flutti, daprima si maraviglia e resta attonito credendolo un soprannaturale prodigio ; ma quando vede i giovani Eroi e ode il suon della cetra e i nautici canti, comincia a sospettare che sia quella una nuova invenzione maravigliosa dell’umano ingegno. E Cicerone afferma che i primi filosofi dovettero imitar questo pastore nell’osservare i fenomeni dell’Universo, per giunger poi a scuoprire col raziocinio qual ne fosse la causa e l’autore74. Questa scena {p. 348}inventata e così ben dipinta dall’antico tragico latino, sembra così vera e naturale che apparisce più favoloso il racconto storicamente vero della maraviglia dei selvaggi dell’America, quando videro avvicinarsi alle loro rive le navi di Colombo.

Ma di tutte le invenzioni mitologiche di cui fu abbellito il racconto della spedizione degli Argonauti, nessuna divenne più popolare di quella del fiero carattere di Medea. I Drammatici Greci e Latini vi trovarono un argomento eminentemente tragediabile, per dirlo col vocabolo usato dall’Alfieri ; ed anche nel secolo di Augusto sembra che si recitassero frequentemente tragedie sui fatti atroci di Medea, poichè Orazio nella poetica avverte che nelle tragedie di tale argomento non si deve introdurre Medea ad uccidere i figli sulla scena (coram populo75. Ha poi lasciato gran desiderio nei letterati la perdita della tragedia di Ovidio intitolata Medea, perchè tutti i più celebri scrittori latini ne parlano con tante lodi da far credere che fosse un capo lavoro dell’arte tragica76 ; e tanto più è da lamentare una tal perdita in quanto che nessuna altra tragedia ci resta dell’aureo secolo di Augusto.

{p. 349}

XLVII

Origine della Civiltà
simboleggiata nei miti di Orfeo e di Anfione §

La forza del braccio e degli stromenti meccanici inventati dall’uomo può abbatter mostri e tiranni, ruinar città, devastare e spopolar territorii, ma non creare la civiltà. Questa deriva ed è prodotta soltanto dalla persuasione e dalle arti di pace. Quindi la guerra è giustificata soltanto quando non vi è altro mezzo per poter vivere in pace e progredire senza ostacoli nel perfezionamento economico, morale e politico77

{p. 350}Civiltà e civile derivano da città e cittadino, e stanno ad indicare nel primitivo loro significato il modo di vivere della città, ossia dei cittadini ; quindi, secondo questa etimologia e questo primitivo significato, diconsi guerre civili quelle tra cittadini della stessa città o dello stesso Stato ; le quali guerre son tutt’altro che civili nel senso morale, essendo invece le più incivili e immorali di tutte, e segno manifesto di decadenza della civiltà ; poichè questa se non è accompagnata dalla moralità, non è altro, secondo la frase del Romagnosi, che una barbarie decorata. La civiltà infatti com’ebbe origine dalla concordia degli uomini a stare uniti per comune vantaggio78, così per la discordia si dissolve e dileguasi79. Furon pertanto i più grandi benefattori della umanità coloro che primi indussero gli uomini selvaggi ad unirsi in sociale consorzio ; e perciò gli antichi li considerarono esseri soprannaturali, o figli degli Dei, o ispirati da loro. Tali erano Orfeo ed Anfione, la cui esistenza appartiene ai tempi eroici più remoti. Essi sono da annoverarsi tra i Semidei, anzichè tra i semplici Eroi, e, secondo il sistema del Vico, altro non sarebbero che caratteri poetici dei primi civilizzatori dei popoli.

Essendo incerto chi di loro due esistesse prima, comincierò da Anfione, del quale è più breve il racconto.

Anfione fu creduto figlio di Giove e di Antiope (o secondo altri di Mercurio), e che fosse re di Tebe. Di lui si narra un solo fatto mirabile, che val per mille ; e quasi nessun poeta tralascia di accennarlo, e tra questi anche Dante. Dicono che Anfione col suon della cetra e col canto facesse scender dal monte Citerone i macigni, che per udirlo si disposero in giro {p. 351}l’uno sopra l’altro intorno a lui, e formarono le mura di Tebe80. È facile intendere che questa favolosa invenzione significa il potere della poesia e della musica sugli animi delle persone più rozze e dure per attirarle a un genere di vita più umano e sociale. A questo fine e con questo stesso intento invoca Dante le Muse a dare alla sua poesia una efficacia pari a quella di Anfione :

« Ma quelle donne aiutino il mio verso,
« Che aiutaro Anfione a chiuder Tebe,
« Sì che dal fatto il dir non sia diverso. »

Se quest’ Anfione era quel desso che fu marito di Niobe, come dice Ovidio81, egli ebbe a provar la più crudele sventura domestica, quella cioè di perder tutti i figli per colpa e in punizione della superbia di sua moglie (V. il N. XVI).

Di Orfeo creduto figlio di Apollo e della Musa Calliope si narrano innumerevoli maraviglie operate col suono e col canto, e prima e dopo la spedizione degli Argonauti, non in terra soltanto, ma pur anco nell’Inferno. Oltre i massi e le quercie egli traevasi dietro ad ascoltarlo anche le tigri e i leoni : il che, secondo Orazio, significava che ei seppe distogliere gli uomini selvaggi e antropofagi dalle stragi e dalla {p. 352}vita bestiale e ferina 82. Ma questi e simili prodigii furon dai Mitologi attribuiti anche ad altri civilizzatori dei popoli83 : di Orfeo soltanto e non d’altri è propria la gloria di avere operato prodigii anche nel regno delle Ombre, ove discese essendo egli in prima vita.

Narrano i poeti, e tra questi più splendidamente di tutti Virgilio, che Orfeo nel giorno stesso destinato alle sue nozze colla Ninfa Euridice, perdè la sua sposa che morì per essere stata morsa in un piede da una vipera. La desolazione di Orfeo è indescrivibile : basti il dire che egli osò scendere nelle {p. 353}Infernali regioni per pregar Plutone e Proserpina, creduti inesorabili, a rendergli la sua sposa. E fu tanto potente il suo canto accompagnato dal suono della sua cetra, che lo stesso Can Cerbero ne rimase ammaliato, e le Furie cessarono di tormentare i dannati per ascoltarlo, e Plutone e Proserpina inteneriti gli accordarono la grazia implorata di riprender la sua diletta Euridice. Vi aggiunsero per altro una condizione (sic erat in fatis), che precedendola nel suo ritorno non si voltasse mai a guardarla, finchè non fossero giunti alla superficie della terra. Orfeo promise e si avviò ; ed Euridice lo seguiva. Ma quando furon vicini allo sbocco dell’Inferno presso il promontorio di Tenaro, Orfeo udì del romore, e temendo per Euridice, si voltò a mirare ; ed allora Euridice diè un grido di dolore, e gli disse per sempre addio. Fu inutile correre per raggiungerla, o tentar nuovamente di penetrare nel regno delle Ombre : il Destino vi si opponeva per, la violata condizione espressa. Inconsolabile e disperato si ritirò solitario a pianger la perduta Euridice sul monte Rodope nella nativa Tracia, e rifiutò qualunque nuovo connubio che gli fosse offerto. Il che fu causa della sua fine funesta, perchè le Tracie femmine indispettite dei suoi rifiuti, percorrendo nel giorno delle feste di Bacco quelle regioni, trovarono Orfeo, e furibonde lo fecero a brani. Il capo di lui ruotolando giù per le balze del Rodope cadde nel sottoposto fiume Ebro ; ed anche così com’era spiccato dal busto e trasportato dalla fiumana ripeteva pur sempre il nome di Euridice. Fu poi raccolto dai Lesbii e datogli onorevole sepoltura ; e la sua lira fu presa dalle Muse e cangiata in quella costellazione boreale che ne porta tuttora il nome e vedesi fregiata di 21 stella.

Al racconto mitologico di Euridice trovasi sempre congiunto nei poeti quello di Aristeo, che fu il primo Apicultore dell’Antichità. Egli era figlio della Ninfa Cirene, e perciò fu da taluni considerato come uno dei Semidei. Ambiva {p. 354}anch’egli di sposare Euridice, e quando seppe che era stato preferito Orfeo, il giorno stesso fissato per le nozze si diede furibondo ad inseguire Euridice, che fuggendo per la campagna calpestò una vipera, pel cui morso velenoso morì, come abbiam detto di sopra. Le Ninfe per vendicar la morte della loro compagna uccisero tutte le api di Aristeo, e così lo privarono delle sue rendite. Nè allora esistevano altre api nel mondo ; ed Aristeo non sapendo come riparare a tal perdita, consigliato dalla Madre ricorse a Proteo, che dopo i soliti sutterfugii di molteplici trasformazioni finalmente gli disse di sacrificar quattro giovenche in espiazione della sua colpa, e che lasciandone putrefare le carni, ne sorgerebbero nuovi sciami a ripopolare i suoi alveari. Quel che disse il vecchio profeta si avverò. Ed ecco una nuova metamorfosi mitologica non mai osservata in natura, che cioè i vermi della putredine si cangino in api melliflue. Così bene spesso gli Antichi alle leggi naturali della creazione sostituivano i fantasmi della loro immaginazione.

XLVIII

Ercole §

Il nome e la forza d’Ercole hanno fama tanto divulgata e generale, che non v’è persona che l’ignori : tant’è vero che il volgo dice che è un Ercole chiunque sia dotato di robustezza e forza straordinaria. Ma le imprese che si attribuiscono al greco Eroe son tante, perchè tanti furono gli eroi di questo nome, e ad un solo Ercole si ascrissero le imprese di tutti.

Fra i molti Eroi di questo nome (Cicerone ne conta 6 e Varrone 43) fu il più fortunato quello Tebano, perchè arricchito delle spoglie di tutti gli altri. Egli era figlio di {p. 355}Anfitrione re di Tebe e di Alcmena sua moglie ; ma fu detto che era figlio di Giove, per render più credibili, secondo le idee di quei tempi, le sue straordinarie e prodigiose gesta. Le quali generalmente si afferma che fossero 12, conosciute sotto il nome di fatiche d’Ercole, ed imposte ad esso dal re Euristeo suo cugino ; ma però molte altre ancora ne compiè spontaneamente dovunque trovasse da uccider mostri o tiranni.

Ammesso che egli fosse figlio di Giove e di Alcmena v’è da aspettarsi che Giunone lo perseguiterà. Infatti si racconta che questa Dea cominciò a perseguitarlo prima che egli nascesse. Era scritto nel libro del Fato che regnerebbe in Tebe quello dei due cugini (altri dicono gemelli) che prima nascesse nella Corte Tebana. Giunone come Dea dei parti fece in modo che nascesse prima Euristèo, e perciò Ercole fosse a lui sottoposto. Nato che ei fu ed essendo ancora in culla, Giunone gli mandò due grossi serpenti a strangolarlo ; ma il fanciullo, che, per quanto dicono i poeti, anche in culla era degno di Giove, strangolò loro. Questo fatto divenne tanto famigerato, che anche i pittori, e principalmente gli scultori si dilettarono di rappresentare Ercole infante che stringe in ciascuna mano un serpente e sta in atto di strangolarli entrambi84.Questa insidia di Giunone contro un bambino parve troppo atroce e crudele a tutti gli Dei, che le ne fecero un rimprovero ; ed essa finse di cangiar l’odio in benevolenza, e per illuder meglio, fattosi recare in cielo il piccolo Ercole gli diede del suo proprio latte, che però al pargoletto Eroe non piacque e lo lasciò cadere nella volta celeste, ove scorgesi tuttora una striscia biancastra, che perciò gli antichi chiamarono Via lattea ; la quale invece di esser {p. 356}prodotta dal latte di Giunone è un incommensurabile strato di milioni e milioni di stelle. Galassia la chiamavano i Greci in lor linguaggio, che significa lo stesso che Via lattea nel nostro ; e col greco nome la rammentò Dante descrivendola nei seguenti versi della Divina Commedia :

« Come distinta da minori e maggi
« Lumi biancheggia tra i poli del mondo,
« Galassia sì, che fa dubbiar ben saggi.

Ercole può dirsi veramente, secondo il linguaggio del Vico, il carattere poetico dell’eroismo greco, avendogli attribuito i Greci tutte le più straordinarie e mirabili prove, in premio delle quali acquistossi l’immortalità e un seggio tra gli Dei nel Cielo. Il suo nome in greco fu Heracles, che in quella lingua significa reso illustre da Era, ossia da Giunone, vale a dire per le persecuzioni di questa Dea. I Latini con poca differenza di ortografia lo dissero Hercules che noi traduciamo {p. 357}per Ercole. Chiamavasi anche Alcide, o dall’avo suo Alceo, come asserisce Erodoto, o da un greco vocabolo significante forza e per traslato virtù, come affermano gli etimologisti. La forza che Ercole manifestò sin dalla prima infanzia andò sempre talmente crescendo da sembrare indomabile e irresistibile. Quindi si procurò d’infrenarla e dirigerla coll’eduzione ; ed Ercole ebbe maestri ed occupazioni non solo in ogni genere di esercizii ginnastici e guerreschi, ma pur anco nelle scienze, nella poesia e nella musica. E dell’indole sua impetuosa ci tramandarono un tristo esempio gli Antichi, il solo che sia a disdoro di quest’eroe, che cioè rimproverato dal suo maestro di musica chiamato Lino, gli ruppe la testa colla lira 85. Giunto per altro alla pubertà scelse spontaneamente la via della Virtù, e si rassegnò al voler del Fato di star sottoposto ad Euristeo. A questo tempo della sua vita si riferisce il moralissimo racconto di Ercole al Bivio, in cui si finge che il giovane eroe, invece di sceglier la via della Voluttà, per quanto sembrasse amena e piacevole, ma che induceva all’oblio dei proprii doveri e della fama, preferì quella ardua e malagevole della Virtù che guida al bene della umanità ed alla gloria.

Accenneremo prima le 12 imprese impostegli da Euristeo, e conosciute sotto il nome di fatiche d’Ercole, e poi le altre non meno celebri da lui spontaneamente compiute. Le dispongo in quell’ordine in cui si trovano rammentate da {p. 358}Ausonio in 12 esametri latini, che riporto in nota86 : il titolo delle medesime ne indica lo scopo, cioè : 1ª il Leon Nemeo ; 2ª l’Idra di Lerna ; 3ª il Cinghiale d’Erimanto ; 4ª la Cerva di Menalo ; 5ª le Arpie ; 6ª le Amazzoni ; 7ª le stalle di Augia ; 8ª il Toro Cretense ; 9ª il tiranno Diomede ; 10ª Gerione ; 11ª gli aurei pomi del giardino delle Esperidi ; 12ª il Can Cerbero.

1ª Fatica : Il Leon Nemeo §

Colla clava, e secondo alcuni Mitologi, soffocandolo tra le sue braccia, uccise Ercole il Leone della selva Nemea, e gli tolse l’irsuto vello, che portò sempre in dosso per manto e come il suo primo trofeo di gloria. Questi due distintivi, la clava e la pelle del leone, oltre la robusta e gigantesca corporatura dell’Eroe fanno riconoscere Ercole nelle molte statue che di lui vedonsi ovunque. L’estinto Leone, non si sa per quali suoi meriti, fu cangiato nella costellazione che ne porta il nome, ed è uno dei 12 segni del Zodiaco, adorno di 93 stelle.

2ª Fatica : L’Idra di Lerna §

La parola Idra derivando da un vocabolo che significa acqua è il nome che davano gli Antichi ai serpenti aquatici. I Naturalisti moderni, invece, lo hanno dato ai polipi di {p. 359}acqua dolce, assomigliando forse i microscopici tentacoli di questi alle molteplici teste dell’Idra favolosa. Agli Antichi non bastò il dire che la loro mitologica Idra fosse insanabilmente velenosa, ma vi aggiunsero che avea sette teste, e (maggior maraviglia), che recisa una testa ne rinascessero due. Questa Idra avea per soggiorno la palude di Lerna in Grecia. Quanto fosse difficile e pericolosa impresa l’uccidere un tal mostro se ne accorse Ercole quando vide raddoppiarsi all’Idra tutte le teste che egli tagliava. Adoprò allora anche il fuoco per ristagnare il sangue che sgorgando dalle ferite produceva quel terribile effetto ; e Giunone per impedirgli di compier l’impresa gli mandò un enorme Cancro a morderlo nelle gambe, affinchè l’Eroe, voltandosi, fosse ferito dall’Idra il cui veleno era letale. Ercole fu costretto a chiamare in aiuto il suo servo o amico Jolao che lo schermisse dalle offese di uno dei due nemici, in mezzo a cui si trovava : schiacciò prima il Cancro, e poi finì di tagliar le teste all’Idra, e nel sangue di essa tinse le sue freccie che divennero in appresso tanto famose anche nei poetici racconti della guerra di Troia. Il Cancro per questo maligno e sciagurato servigio prestato a Giunone fu trasformato nel segno del Zodiaco di tal nome e fregiato di 85 stelle. Anche l’Idra fu trasportata nel firmamento, e dagli Astronomi antichi chiamata l’Idra femmina, costellazione boreale adorna di 52 stelle, la più grande e lucente delle quali fu detta e dicesi ancora il cuor dell’Idra. Gli Astronomi moderni dopo la scoperta dell’America e del Capo di Buona Speranza avendo osservate le costellazioni australi non mai viste dagli antichi, diedero il nome di Idra maschio ad una di esse composta di sole 8 stelle.

3ª Fatica : Il Cinghiale di Erimanto §

Questo cinghiale uscito dalle selve del monte Erimanto menava stragi e devastazioni come il cinghiale di Calidonia. {p. 360}Ercole da sè solo compiè una più ardua impresa che ucciderlo, perchè lo prese vivo e lo portò ad Euristeo, che soltanto a vederlo ebbe a morir di paura.

4ª Fatica : La Cerva di Mènalo §

Non sarebbe stata una gran fatica se Ercole avesse dovuto uccidere un sì timido animale, che abitava sul monte Mènalo in Arcadia ; ma poichè questa cerva era sacra a Diana, stimavasi un sacrilegio l’ucciderla ; ed avendo inoltre un mirabile distintivo, cioè le corna d’oro, ed alcuni aggiungono anche i piedi di bronzo, Euristeo voleva possederla viva ; perciò convenne ad Ercole inseguirla per un anno intero, e finalmente la raggiunse in un angolo o lingua di terra alla foce del fiume Ladone.

5ª Fatica : Le Arpie §

Questi mostri furono descritti da noi colle parole di Virgilio e di Dante nel parlare della spedizione degli Argonauti, quando raccontammo che Calai e Zete ne avevano liberato Fineo. Ma sembra che la fatica d’Ercole, riferibile alle Arpie, fosse compiuta prima di quel tempo, poichè in questo fatto le Arpie son chiamate uccelli stinfalidi, dall’abitar che facevano presso il lago Stìnfalo in Arcadia. Ercole le scacciò da quel territorio, ed esse fuggirono in Tracia a tormentar Fineo ; discacciate anche di là da Calai e Zete si fermarono nelle Isole Stròfadi, come dicemmo, ove poi le trovò Enea, come diremo.

6ª Fatica : Le Amazzoni §

Le Donne antiche eran più fiere delle moderne. Oltre quelle che nell’isola di Lenno

« Tutti li maschi loro a morte dienno, »

e si costituirono in repubblica, troviamo ora un regno tutto di donne, le quali non solo avevano ucciso tutti li maschi {p. 361}loro, come fecero quelle, ma divenute abilissime a tirar d’arco, spinsero le loro spedizioni guerresche nell’Asia Minore, non che nella Grecia sino all’Attica ed alla Beozia. Furon chiamate le Amazzoni, del qual nome si danno 5 diverse etimologie ; ma il lettore non si spaventi : io riporterò soltanto la più comune e adottata generalmente, che fa derivare la parola Amazzone da due vocaboli greci che significano senza mammella, ed allude a quel che raccontano di queste guerriere i Mitologi, che cioè per esser più spedite a tirar d’arco, si tagliavano o bruciavano da bambine la mammella destra. Abitarono da prima nella Sarmazia presso il fiume Tanai (ora il Don,) quindi nella Cappadocia sul fiume Termodonte.Ad Ercole fu imposto di combatter con esse per togliere ad Ippolita loro regina un preziosissimo cinto di cui si era invogliata Admeta figlia di Euristeo. Coloro che dissero che Ercole oltre a togliere il cinto ad Ippolita la uccidesse, non pensarono che questa stessa Amazzone fu data da Ercole in moglie al suo amico Teseo, e ne nacque Ippolito tanto celebrato dai poeti e specialmente dai tragici antichi e moderni.

L’esistenza delle Amazzoni è da riporsi tra le favole : non ostante era creduta non solo anticamente, ma anche dopo la scoperta dell’America, e fu dato il nome di fiume delle Amazzoni al più gran fiume di quel nuovo continente e del mondo, perchè si prestò fede al racconto di Orellana compagno di Pizzarro, che nel 1540, quand’egli primo vi penetrò, avesse trovato su quelle rive una repubblica di Amazzoni87.

{p. 362}
7ª Fatica : Le Stalle di Augia §

Augìa era un re d’Elide, che possedendo tremila bovi, (altri dicono trentamila) non aveva mai fatto in dieci anni nettarne le stalle che eran vicine alla città. Dal puzzo che ne usciva temevasi una infezione, tanto lasciandovi quanto asportandone le immondezze. Ercole trovò un compenso da valenti ingegneri : deviò il corso del fiume Alfeo, e ne fece passar la corrente per quelle stalle e trasportarne al mare ogni sozzura. Allusivamente a questo fatto mitologico dicesi ancora oggidì, come in antico, che par la stalla di Augia qualunque abituro ove sia poca nettezza.

8ª Fatica : Il Toro Cretense §

Dopo che Ercole ebbe ucciso il Leon Nemeo e l’Idra di Lerna, e preso vivo il Cinghiale di Erimanto, non dovè sembrargli una straordinaria fatica il liberar Creta da un Toro furioso mandato da Nettuno ai danni di quel popolo. Se poi lo prendesse vivo o lo uccidesse, Mythologi certant, et adhuc sub judice lis est ; e poco c’importa che sia data la sentenza definitiva.

9ª Fatica : Il Tiranno Diomede §

Mostri peggiori delle fiere crudeli sono i tiranni ; ed Ercole da par suo non li risparmia. Seppe che Diomede re dei Bistonii in Tracia pasceva di sangue e di carne umana certi suoi strani cavalli carnivori, ed egli andò a far visita a quel tiranno, lo prese gentilmente per la vita e lo diede a divorare ai suoi cavalli stessi ; dei quali poi s’impadronì e li regalò ad Euristeo.

10ª Fatica : Gerione §

I tiranni non son mai mancati in qualsivoglia regione del mondo : anche Dante diceva,

{p. 363}« Che le terre d’Italia tutte piene
« Son di tiranni, ed un Marcel diventa
« Ogni villan che parteggiando viene. »

Ci vorrebbe sempre un Ercole

« Valente di consiglio e pro’ di mano, »

come l’antico, a purgarne la Terra.

Ercole aveva saputo che nella Spagna esisteva un re di statura gigantesca e di forma mostruosa, con tre corpi, tre teste e sei ale ; e più mostruoso era l’ animo suo crudele che dilettavasi di straziare i popoli, e dar, come Diomede, la carni umane in cibo alle sue giovenche. Ercole lo uccise e s’impadronì di tutte le mandre, varcando con esse i Pirenei e le Alpi per ritornare in Grecia.

Di questo viaggio che diede occasione ad altre straordinarie imprese di Ercole, non comandate a lui da Euristeo, parleremo fra poco. Qui convien dire che quando egli fu giunto allo stretto, che ora dicesi di Gibilterra e allora di Gades, ivi arrestò il corso delle sue spedizioni dalla parte di ponente, e, secondo i Mitologi, pose in questo stretto due colonne coll’ iscrizione : Non più oltre. Fu creduto che fosse questo un avvertimento, che dava Ercole ai naviganti, di non avanzarsi nell’Oceano Atlantico. Anche Dante rammenta quello stretto con una perifrasi esprimente questo fatto mitologico, facendo dire ad Ulisse :

« Io e’compagni eravam vecchi e tardi,
« Quando venimmo a quella foce stretta,
« Ov’Ercole segnò li suoi riguardi,
« Acciocchè l’uom più oltre non si metta. »

Perciò poco più oltre, fino al tempo di Colombo, si azzardarono gli uomini ad avanzarsi nell’Atlantico ; e l’iscrizione Non plus ultra delle colonne d’Ercole divenne un assioma di {p. 364}cautela e di confine dell’umano ardire. Gli Spagnoli coniarono con questa iscrizione posta fra due colonne le loro monete, dette perciò volgarmente colonnati.

Non deve credersi per altro che le così dette colonne d’Ercole fossero fatte come quelle delle monete spagnole o di uno dei quattro o cinque ordini dell’architettura, ma erano due montagne sullo stretto di Gibilterra, chiamate Abila e Calpe, la 1ª appartenente all’Affrica, e la 2ª all’Europa.

11ª Fatica : I pomi del giardino delle Esperidi §

Da Espero fratello di Atlante deriva il patronimico di Espèridi che perciò significa le figlie di Espero ; le quali erano tre, chiamate Egle, Aretusa ed Esperetusa88. Avevano esse nell’Affrica un bel giardino con alberi che producevano pomi di solido oro ; ma perchè questi avrebbero allettato la cupidigia di molti, eran guardati da un terribil dragone con cento teste pronte all’offesa di chi si accostasse. Ercole uccise il dragone, e presi gli aurei pomi, li portò ad Euristeo.

12ª Fatica : Il Can Cerbero §

Questa fatica doveva compiersi nell’Inferno ; ed Ercole vi si accinse ben più volentieri che alle altre, perchè trattavasi di liberar l’amico suo Teseo, il quale per secondare il {p. 365}suo inseparabile Piritoo si unì ad esso nella folle impresa di rapir Proserpina. Piritoo fu fatto a brani dal can Cerbero, e Teseo fu preso e attaccato a uno scoglio infernale per restarvi eternamente in corpo e in anima. Ercole per questa spedizione, oltre la clava, prese una catena e incatenò il Cerbero ; e andò quindi a cercar Teseo, lo staccò dallo scoglio e lo condusse via con sè. Di più si trascinò dietro il cane infernale fino alla superficie della Terra per farlo vedere ad Euristeo, e poi lo lasciò libero che se ne ritornasse all’Inferno. I poeti aggiungono che il can Cerbero arrivato all’aria aperta sparse sul terreno la sua bava, e da quella ivi nacque la pianta erbacea chiamata Acònito, dalle cui foglie estraesi l’aconitìna che spiega una potente azione velenosa sull’economia animale. Dante ci fa supporre che Cerbero trascinato da Ercole tentasse di resistere, e puntasse il muso in terra come fanno i cani di questo mondo, quando non voglion seguir chi li tira ; ma l’irresistibil forza del braccio d’Ercole lo trascinava suo malgrado, facendogli rimaner pelato il mento e il gozzo, secondo le parole stesse di Dante89

Oltre le dodici fatiche impostegli da Euristeo, compì Ercole di proprio moto e di spontanea volontà anche altre imprese non meno importanti e celebri, nel percorrere le diverse regioni dell’antico continente. Queste imprese spontanee furon chiamate dai Greci con una sola parola composta parerga, cioè fatiche di giunta o di soprappiù ; delle quali converrà almeno accennare le più note e famose.

Combattè Ercole spontaneamente col Libico gigante Antéo figlio di Nettuno e della Terra ; e benchè l’Eroe {p. 366}Tebano lo abbattesse più volte, quegli appena steso sul terreno risorgeva più forte di prima a combattere : la madre Terra rendevagli novelle forze. Di che accortosi Ercole, lo sollevò per aria e lo soffocò tra le sue braccia.

Di questa favola dà la seguente spiegazione il Machiavelli nel cap. 12 del lib. ii dei suoi celebri Discorsi sulla prima Deca di Tito Livio : « Anteo re di Libia assaltato da Ercole Egizio fu insuperabile, mentre che lo aspettò dentro a’confini del suo regno ; ma come e’ se ne discostò per astuzia di Ercole, perdè lo Stato e la vita. E ne deduce questo politico insegnamento, che quando i regni sono armati, come era armata Roma, e come sono i Svizzeri, sono più difficili a vincere quanto più ti appressi a loro ; perchè questi corpi possono avere più forze a resistere ad uno impeto che non possono ad assaltare altrui. »

Questo Anteo è uno di quei giganti che Dante dice di aver veduto nell’Inferno, anzi fu quello stesso che pregato da Virgilio prese colle sue mani i due poeti in un fascio90, e li calò lievemente da una grande altezza nel profondo dell’Inferno :

« Ma lievemente al fondo che divora
« Lucifero con Giuda ci posò ;
« Nè sì chinato lì fece dimora,
« E com’albero in nave si levò. »
(Inf., xxxi,v. 142.)

{p. 367}Tra i più famosi masnadieri e assassini che Ercole uccise è da rammentarsi principalmente il gigante Caco. È questo un vocabolo greco che significa cattivo o malvagio91, e perciò fu dato a questo mostro per antonomasia, ad indicare cioè il più gran malvagio che sia mai esistito. I poeti dicono che era figlio di Vulcano e che abitava in una caverna del Monte Aventino, che egli chiudeva con un macigno e con ordigni di ferro fattigli da suo padre. Di là scendeva a rubare ed uccidere ; e il terreno all’ intorno biancheggiava di ossa umane delle sue vittime. Giunse Ercole nel piano fra quel monte e il Tevere, con le mandre tolte nella Spagna a Gerione, ed ivi le lasciò a pascere per andare a far visita al greco Evandro che abitava sul prossimo colle, che poi fu detto il Palatino. In questo tempo Caco rubò ad Ercole nascostamente (perchè con lui non osava affrontarsi) quattro giovenche ; e le tirò a ritroso, ossia per la coda, nella sua caverna, perchè non si avesse indizio dalle orme dei piedi verso qual parte fossero andate. Ercole però se ne accorse dai muggiti delle giovenche rubate che rispondevano a quelli delle loro compagne ; ed aperta a forza la caverna, a colpi di clava uccise Caco che inutilmente gettava contro di lui fumo e fiamme dalla bocca e dalle narici. Tutti i vicini ne furono talmente contenti, che eressero ad Ercole un’ara appellata Massima ed ivi gli fecero sacrifizii come a un Nume. Questo culto per Ercole fu accolto e si conservò in appresso in Roma sino agli ultimi tempi del Paganesimo. Tutte le più minute particolarità di tale avvenimento furono a gara descritte da Virgilio e da Ovidio ; e Dante che vide Caco nell’Inferno lo fa rammentar concisamente da Virgilio stesso :

{p. 368}« Lo mio Maestro disse : Quegli è Caco
« Che sotto il sasso di monte Aventino
« Di sangue fece spesse volte laco.
« Non va co’suoi fratei per un cammino,
« Per lo furar frodolente ch’ei fece
« Del grande armento, ch’egli ebbe a vicino :
« Onde cessâr le sue opere biece
« Sotto la mazza d’Ercole, che forse
« Glie ne diè cento, e non sentì le diece. »
(Inf., xxv, v. 25.)

Alcuni Mitologi raccontano che Ercole per far riposare Atlante dalla fatica di sostenere la volta del Cielo colle spalle, si sottopose a quel peso per un giorno ; e suppongono che l’Eroe Tebano fosse già adulto a tempo di Perseo, il quale per mezzo della testa di Medusa cangiò Atlante nel monte di tal nome, come dicemmo. Non apparisce però da altri fatti o invenzioni della Mitologia che Ercole fosse contemporaneo di Perseo.

Non staremo a narrar la mischia che ebbe Ercole coi Centauri, perchè nulla di straordinario vi fu, oltre le ferite e le morti, solito e necessario effetto di tutte le risse e di tutte le guerre. Diremo soltanto che i Centauri erano mezzi cavalli e mezzi uomini ; cavalli dalle estremità dei piedi sino al collo ; invece del quale avevano il petto, le braccia e la testa di uomo. Così rappresentati posson vedersi in pittura e in scultura ; ed è celebre il gruppo di Ercole e del Centauro sotto le loggie dell’Orgagna in Firenze, scultura di Gio. Bologna.

Di altra più tremenda e famosa pugna de’Centauri converrà parlare nella vita di Teseo. Quanto poi alla liberazione di Esìone, figlia di Laomedonte re di Troia, dall’esser divorata da un mostro marino, e alla vendetta di Ercole perchè non gli furono da quel re spergiuro osservati i patti, sarà più a {p. 369}proposito ragionare nel racconto dei re di Troia. Basti qui l’avere accennate queste imprese che in appresso racconteremo più a lungo.

È tempo ormai che Ercole abbia un poco di riposo dalle sue molteplici e sovrumane fatiche, e che noi assistiamo alle nozze di lui, senza trascurar però di notare in appresso qualche sua debolezza che in ultimo fu causa della sua morte ; la quale per altro egli incontrò con un eroismo pari a quello mostrato in tutto il corso della sua vita.

Sposò da prima Mègara figlia del re Creonte tebano92 e poscia Deianira figlia di Oeneo re d’Etolia e sorella di Meleagro. I Mitologi gli attribuiscono molte altre mogli da lui sposate in Grecia, ed anche una in Italia, e questa dicono che fu la figlia di Evandro. Ebbe perciò molti figli, che nella Mitologia e nella Storia Greca son tutti compresi sotto il nome di Eràclidi, patronimico significante figli e discendenti di Eracle, che è il greco nome, come abbiam detto, di Ercole. Ma fra tutte le mogli di lui merita special menzione Deia-nira, perchè per essa Ercole dovè combattere, per essa dovè morire.

Dovè combattere per Deianira col Dio del fiume Acheloo, il più gran fiume della Grecia, e perciò da Omero chiamato il re dei fiumi. Questi fu il solo pretendente che non cedesse al nome ed alla fama del valore di Ercole, il solo che osò cimentarsi con lui in singolar tenzone, fidandosi forse nel privilegio che avea di trasformarsi in toro e in serpente. Infatti combattè anche sotto queste due forme, oltre che in quella di Nume fluviatile ; ma Ercole avvezzo a strangolar serpenti fin dalla culla e poi ad uccider mostri e giganti, vinse con molta facilità Acheloo sotto qualunque forma, e {p. 370}di più gli ruppe un corno, onor della fronte degli Dei dei fiumi ; per ricuperare il quale Acheloo diede in cambio il cornucopia a lui donato dalle Ninfe93.

Ercole vincitore e trionfante sposò lietamente Deianira ; e dopo le feste nuziali postosi in via per ritornar colla sposa a Tebe, trovò il fiume Evèno sì gonfio di acque da non potersi guadare. Sopraggiunto il Centauro Nesso si offrì di passar Deianira all’altra riva sull’equino suo dorso ; ma appena l’ebbe in groppa tentò di rapirla correndo in altra direzione. Ercole lo raggiunse con una delle sue freccie tinte nel sangue dell’Idra di Lerna ; e Nesso sentendosi mortalmente ferito si vendicò col persuader Deianira che quella sua veste insanguinata sarebbe un talismano per conservarle l’affetto di suo marito. E infatti quella veste o camicia di Nesso fu in ultimo la causa della morte di Ercole, come diremo. Dante ci ricorda questo fatto in due versi e mezzo, facendo dire a Virgilio :

« …………Quegli è Nesso
« Che morì per la bella Deianira,
« E fe’ di sè la vendetta egli stesso. »

Ercole dopo qualche tempo ricominciò la sua vita randagia e di avventure, e la Fama divulgò che a menomar la gloria delle sue imprese eroiche, avesse avuto la debolezza di filare, vestito da donna fra le ancelle di Onfale regina di Lidia ; e fu detto inoltre che egli voleva sposare la bella e giovane Jole figlia di Eurito re dell’Oecalia. Deianira credè giunto il momento decisivo di provar l’effetto del talismano di Nesso. Ne fece lavare l’insanguinata tunica o camicia, e insieme con altre vesti la mandò al marito. Ercole fu trovato dal messaggiero Lica sul monte Oeta nella Tessaglia mentre disponevasi a fare un sacrifizio a Giove ; gradì le {p. 371}vesti mandate da Deianira e se le indossò ; ma poco dopo sentì ardersi le carni da occulto fuoco : il veleno dell’Idra cominciava a fare il suo effetto. Tentò l’Eroe di strapparsi di dosso quella tunica, ma era sì aderente alla pelle che ne venivano insieme a brani le carni ; e mentre furibondo cercava una fonte ove gittarsi, veduto Lica che impaurito erasi nascosto dietro una rupe, credè ch’ei fosse reo ; lo afferrò per un piede e roteandolo come una fionda lo scagliò tre miglia lontano nel mare, ove fu cangiato in uno scoglio che si chiamò e tuttora chiamasi Lica. Ma trovando inefficace ogni rimedio, volle morir da forte com’era vissuto, e acceso il rogo preparato per arder la vittima, vi si pose sopra come vittima egli stesso, e insieme vi stese il vello del Leon Nemeo e la sua clava. Lasciò soltanto le freccie tinte nel sangue dell’Idra di Lerna all’amico Filottete che era presente, imponendogli però di sotterrarle e di non manifestarne il luogo ad alcuno. Il suo corpo fu ridotto in cenere dalle fiamme ; il suo spirito fu accolto in Cielo come Indigete Dio, ed ivi ebbe in moglie Ebe Dea della Gioventù.

Gli Astronomi antichi diedero il nome di Ercole ad una delle costellazioni boreali che è composta di 128 stelle ; e gli Astronomi moderni, incominciando da Herschel, dicono che il nostro Sole con tutto il cortèo dei pianeti è attratto da forza preponderante verso quella costellazione.

Le Belle Arti non si sono mai stancate a rappresentarci Ercole sculto, o dipinto, o inciso. Basterà rammentare l’Ercole Farnese, scultura greca ; l’Hercules furens, gruppo di Canova, ove Ercole tenendo sospeso Lica per un piede, sta in atto di scagliarlo nel mare, e l’Ercole appoggiato alla clava, inciso da Benvenuto Cellini nel sigillo di Cosimo I granduca di Toscana.

I poeti cantarono concordemente inni a quest’Eroe94, {p. 372}e dissero che era stato posto in cielo e nel numero degli Dei

« Non già perchè figliuol fosse di Giove,
« Ma per mille che ei fece illustri prove95. »

XLIX

CastoRe e Polluce §

L’ origine mitologica di Càstore e Pollùce è delle più strane e incredibili : ciò non ostante, o forse appunto perciò, è delle più famigerate presso gli Antichi. Storicamente Castore e Polluce son figli di Tindaro re di Sparta e di Leda sua moglie ; mitologicamente son figli di Giove, di cui fu detto che comparve a Leda sotto la forma di Cigno. Inventata questa trasformazione di Giove in cigno, i Mitologi fantasticarono che Leda avesse partorito due uova ; che in uno vi fossero Polluce ed Elena, e nell’altro Castore e Clitennestra. I più antichi affermarono che Polluce ed Elena, nati dallo stesso uovo, eran figli di Giove, e perciò Semidei, mentre Castore e Clitennestra, che uscirono dall’altro uovo, eran figli di Tindaro, e perciò semplici mortali. Orazio poi asserisce che Castore e Polluce nacquero dall’ uovo stesso96, senza escludere che l’un fratello fosse mortale e l’altro immortale. Quindi allorchè i poeti classici li considerano figli di Tindaro li chiamano Tindàridi, e se figli di Giove Diòscuri, essendo il vocabolo Dios uno dei greci nomi di Giove, sinonimo di Zeus. Nè questa disparità di asserzioni dovrà {p. 373}recar maraviglia : la finzione e la menzogna sono molteplici ; la verità soltanto è una. La storiella dell’uovo divenne tanto popolare che se ne formò il proverbio latino ab ovo per significare dalla prima origine, alludendosi all’origine della guerra Troiana, che derivò da un uovo, da quello cioè da cui nacque la bella Elena, la quale fu la vera causa di quella guerra, come vedremo97.

Castore e Polluce diedero il più grande e celebre esempio di amor fraterno. Erano sempre insieme in tutte le imprese per aiutarsi scambievolmente : li abbiamo trovati insieme nella spedizione degli Argonauti, nè mai si disgiunsero in qualunque altra occasione sino alla morte di Castore. Divennero eccellenti ambedue negli esercizii ginnastici : Polluce nel pugilato, e Castore nel domare i cavalli ; perciò eran considerati protettori delle palestre e dei giuochi circensi. È lodata in generale la loro abilità e valentia in questi esercizii, ma non si narrano molti fatti particolari della loro vita nel mondo.

Oltre la spedizione degli Argonauti a cui presero parte, come dicemmo, si racconta che mossero guerra agli Ateniesi per ritogliere ad essi la loro sorella Elena che era stata rapita da Teseo ; ma avendola trovata nella città di Afidna con {p. 374}Etra madre di Teseo, le condussero via entrambe senza incontrare verun ostacolo. L’impresa più utile che fecero a vantaggio della umanità fu di purgare il mare dai pirati ; quindi i Mitologi li considerarono ancora come Dei protettori della navigazione ; e perciò Orazio li invoca propizii al suo amico Virgilio che andava per mare nell’Attica.

Ebbero poi a sostenere un duello coi pretendenti delle spose che avevano scelte. Eran queste due sorelle chiamate Febèa ed Ilaìra o Talaìra, e che dai parenti erano state promesse a due fratelli Linceo ed Ida. L’esito del duello fu questo, che Linceo uccise Castore, e che Polluce, per vendicar la morte del fratello, uccise l’uccisore di esso. Ida fu poco dopo fulminato da Giove. I poeti classici lodano molto quelle due spose per l’affetto costante ai loro sposi, e principalmente Ilaira o Talaira che serbò fede sino alla morte all’ombra di Castore. Polluce, per ultimo e impareggiabil tratto di amor fraterno, volle anche comunicare la propria immortalità all’estinto fratello, e ottenne dagli Dei di star per lui la metà dell’anno nel regno delle Ombre, e che egli a vicenda stesse per sei mesi nel Cielo.

Gli Astronomi antichi aggiunsero che questi due affettuosissimi fratelli furon cangiati nella costellazione dei Gemini, o Gemelli, che è quel segno del Zodiaco in cui, secondo l’antico linguaggio astronomico, entra il sole nel mese di maggio. In questa costellazione si vedono col telescopio sino a 85 stelle, ma quasi tutte piccolissime, meno che due di prima grandezza, le quali perciò si scorgono benissimo anche ad occhio nudo. Queste furono e son chiamate Castore e Polluce ; e quindi ebbe il nome di Gemelli l’intera costellazione. Perciò questi due fratelli, oltre all’esser rappresentati con cavalli bianchi e con un’asta in mano, si vedono spesso, specialmente in pittura, con una stella sopra la fronte. Credevano gli Antichi che quando compariva questa costellazione, si rasserenasse il Cielo e cessassero le tempeste, come dice {p. 375}Orazio nell’Ode 12ª del lib. i98 ; ma è probabile che confondessero le stelle di Castore e Polluce colle stelle di Sant’Elmo (come le chiamano i marinari), fenomeno di luce elettrica che sovente si osserva sulle punte delle antenne e degli alberi dei bastimenti dopo la tempesta. Le rammenta anche il Redi nel suo Ditirambo Bacco in Toscana :

« Allegrezza, allegrezza ! io già rimiro,
« Per apportar salute al legno infermo,
« Sull’antenna da prua muoversi in giro
« L’oricrinite stelle di Santermo99.

{p. 376}Dante parla più volte della costellazione dei Gemelli nella Divina Commedia, perchè egli nacque nel mese di maggio, e perciò, secondo il linguaggio astrologico, era sotto l’influenza di questa costellazione. La rammenta da prima col nome di Castore e Polluce nei seguenti versi del Canto il del Purgatorio :

« …..Se Castore e Polluce
« Fossero in compagnia di quello specchio
« Che su e giù del suo lume conduce100
« Tu vedresti il Zodiaco rubecchio
« Ancora all’Orse più stretto rotare,
« Se non uscisse fuor del cammin vecchio. »

La chiama poi il segno che segue il Tauro, quando racconta che questa fu una delle sue stazioni nell’ascendere al Paradiso :

« ……………io vidi il segno
« Che segue il Tauro, e fui dentro da esso. »

Al qual segno o costellazione, rivolge un saluto ed un rendimento di grazie col linguaggio astrologico di quei tempi, e intanto ci fa sapere ch’ei nacque nel mese di maggio sotto quella costellazione :

« O glorïose stelle, o lume pregno
« Di gran virtù, dal quale io riconosco
« Tutto, qual che si sia, il mio ingegno ;
« Con voi nasceva, e s’ascondeva vosco
« Quegli ch’è padre d’ogni mortal vita,
« Quand’io senti’ da prima l’aer Tosco. »
(Parad., C. xxii, v. 107…..)

{p. 377}Finalmente alludendo alla favola che Castore e Polluce fossero nati da un uovo partorito da Leda, chiama la costellazione di questi gemelli il bel nido di Leda nella seguente terzina del C. xxvii del Paradiso :

« E la virtù che lo sguardo m’indulse,
« Del bel nido di Leda mi divelse,
« E nel ciel velocissimo m’impulse. »

L

Minosse re e legislatore dei Cretesi §

Dicemmo nel N° XXX che Minosse era figlio di Giove e di Europa, la quale fu rapita da Giove stesso trasformato in toro, e trasportata nell’isola di Creta. In quell’isola nacque e crebbe Minosse e divenne ottimo re e sapiente legislatore di quel popolo. Nella sua vita pubblica appartiene più alla Storia che alla Mitologia ; ed all’opposto nella vita privata, o di famiglia, più alla Mitologia che alla Storia. La Cronologia greca fissa l’epoca della sua esistenza nei secoli xiv e xiii, avanti l’era volgare. Come re e legislatore dei Cretesi è rammentato anche da Cicerone nelle Tusculane e nei libri della Repubblica ; e quasi tutti gli scrittori antichi (tranne qualche autore drammatico ateniese), si accordano a dire che fu giustissimo ; e perciò si credè che dopo la morte divenisse il primo dei tre giudici dell’Inferno pagano. Le sue leggi sono encomiate, non solo perchè regolavano equamente i diritti del mio e del tuo, ma perchè erano ancora dirette alla educazione della gioventù, imponendo di abituarla alle fatiche affinchè divenisse forte e costante, e ad obbedire alle leggi affinchè divenisse morigerata e civile.

Nella vita privata o di famiglia, per altro, egli fu poco fortunato ; ma le sue sventure domestiche furon di certo {p. 378}magnificate e accresciute dai Mitologi, poichè sono stimate favolose dagli storici e dai filosofi greci e latini. Ma di queste appunto noi dobbiamo principalmente parlare, trattando di Mitologia.

Minosse prese in moglie Pasifae, una delle figlie del Sole, dalla quale ebbe un figlio che fu chiamato Androgeo e due figlie di nome Arianna e Fedra. Dipoi i Mitologi aggiunsero, che Pasifae, avendo veduto un bel toro bianco ed essendole molto piaciuto, partorì un mostro che era mezz’uomo e mezzo toro ; il quale fu chiamato il Minotauro, parola composta dei nomi di Minosse e di Tauro, ossia toro101. Di più fu detto che questo mostro era carnivoro e pascevasi anche di carne umana. Minosse per allontanarlo dalla vista di tutti lo fece chiudere nel labirinto, ove gli erano dati a divorare i condannati a morte.

Era il Labirinto una fabbrica di un gran numero di stanze e anditi tortuosi (alcuni dicono tre mila) talmente a bella posta disposti da non poter chi vi entrava ritrovar la porta per uscirne. Gli Antichi rammentano quattro labirinti : 1° quello di Egitto, il più grande di tutti ; 2° questo dell’isola di Creta fatto a somiglianza di quello, ma molto più piccolo ; 3° il labirinto dei Cabiri nell’isola di Lenno ; e 4° quello di Chiusi, attribuito al re Porsena. Quest’ultimo, per gli avanzi che ancor ne restano, pare che fosse un ipogeo come le catacombe dei primi Cristiani : degli altri 3 è più difficile indovinare {p. 379}lo scopo o l’uso. Quello di Creta fu costruito per ordine di Minosse da Dedalo, ingegnoso architetto e meccanico, il quale costretto ad esulare da Atene sua patria erasi rifugiato nella suddetta isola, ov’ebbe in principio liete ed onorifiche accoglienze. Ma poscia caduto in disgrazia del re, perchè secondava troppo tutte le stravaganze della regina Pasifae, fu chiuso insieme col suo figlio Icaro nel labirinto. Per altro egli trovò il modo di uscirne. Fingendo di voler costruire qualche nuovo meccanismo per offrirlo alle figlie del re, si fece dare della cera e delle penne, e costruite le ali per sè e pel figlio volò via con esso traversando il mare per andar nell’Asia Minore. Aveva prima dato ad Icaro saggi avvertimenti di tenersi, volando, in una via di mezzo ; ma il giovinetto li trascurò, e per boria fanciullesca essendosi troppo avvicinato al sole, la cera delle sue ali si squagliò, e, cadute le penne, cadde anch’egli nell’acqua e rimase annegato in quel tratto del mare Egeo che bagna le isole Sporadi e la prossima costa dell’Asia Minore : il qual mare dagli antichi fu perciò chiamato Icario dal nome di questo incauto giovinetto che vi annegò102.

I classici antichi encomiano tanto l’ingegno inventivo di Dedalo, che del suo nome formarono un aggettivo che significa mirabilmente ingegnoso103, e diedero questo epiteto anche ad alcune Divinità, non che alle più straordinarie opere {p. 380}d’arte. Anche l’Ariosto chiamò Dedalo Architetto chi costruì il gran palazzo di gemme e d’oro che il Duca Astolfo trovò nel mondo della Luna. Dante nel Canto xxix dell’Inferno usò il nome di Dedalo per significar volatore, o uomo volante a somiglianza e coll’arte di Dedalo, facendo così dire a Capocchio :

« Ver è ch’io dissi a lui parlando a giuoco :
« Io mi saprei levar per l’aere a volo ;
« E quei che avea vaghezza e senno poco,
« Volle ch’io gli mostrassi l’arte, e solo
« Perch’io nol feci Dedalo, mi fece
« Ardere a tal che l’avea per figliuolo. »

Dante rammenta anche il volo d’Icaro là dove assomiglia la sua paura a quella di questo giovanetto,

« …..quando Icaro misero le reni
« Sentì spennar per la scaldata cera
« Gridando il padre a lui : Mala via tieni104. »

Alcuni Mitologi attribuiscono a Dedalo un grave delitto a cui lo spinse l’invidia, quello cioè di aver precipitato dalla fortezza di Atene il suo nipote Perdice che dimostrava con nuove invenzioni ingegnosissime di dover divenire eccellente nelle arti stesse di cui gli era stato maestro lo zio. Sin qui potrebbe il racconto esser considerato come perfettamente storico ; ma entra nel dominio della Mitologia, quando si aggiunge che Minerva protettrice degl’ingegni cangiò quest’ {p. 381}infelice giovinetto in pernice, animale che vola terra terra, perchè memore, come dice Ovidio, dell’antica caduta105

Di Minosse raccontasi ancora che liberò i mari vicini dai pirati ; ma questa impresa, frequentemente necessaria a quei tempi, è attribuita anche ad altri Eroi, tra i quali ai gemelli Castore e Polluce, come abbiamo già detto. Notabilissima per altro è la guerra che Minosse fece agli Ateniesi non tanto per la causa che la fece sorgere, quanto e più ancora per gli straordinarii effetti che ne derivarono.

Androgeo figlio di Minosse ed erede del trono era così valente negli esercizii della palestra che superava tutti i competitori nei pubblici giuochi della Grecia ; perciò fu ucciso per invidia dagli Ateniesi ; e Minosse per vendicare la morte del figlio fece loro la guerra, e avendoli vinti impose ad essi un tributo di sangue, esigendo cioè che fossero mandati in Creta 7 giovanetti e 7 giovanette Ateniesi per servir di cibo al Minotauro ; il qual tributo dovea rinnovarsi ogni 9 anni finchè il Minotauro vivesse. Per ben due volte gli Ateniesi soddisfecero gemendo a questa orribile condizione imposta loro dal vincitore. La terza volta però ne furon liberati da Teseo riconosciuto come figlio del loro re Egeo.

A questo punto cessano i fatti notabili della vita particolare di Minosse, e tutte le altre vicende della sua famiglia dipendono dalle gesta di Teseo ; perciò le rammenteremo qui appresso nel parlare di quest’Eroe.

{p. 382}

LI

Teseo §

Gli Ateniesi ambirono che il loro Eroe Teseo a cui tanto è debitrice l’Attica civiltà ne’suoi primordii, avesse un’aureola di poetica gloria non inferiore a quella di Ercole ; e perciò a forza d’invenzioni favolose splendidamente narrate dai loro egregii scrittori lo resero famoso non meno dell’Eroe Tebano106. Lo stesso Plutarco che è sì credulo e miracolaio ed inserisce nelle sue celebri Vite degli Uomini illustri tanti insulsi prodigii, scrivendo la vita di Teseo per farne il parallelo con quella di Romolo, si trova molto impacciato a sceverarne il vero dal falso o mitologico. Ecco la sua dichiarazione colle sue stesse frasi tradotte dal Pompei : « Ora mi fosse possibile purgare il racconto da quanto v’ha di favoloso e ridurlo a prendere aspetto di Storia ! Dove però non si possa renderlo in alcun modo credibile, nè voglia farlega alcuna colla probabilità, mi sarà d’uopo avere uditori benigni che accolgano senza rigore ciò che si narra intorno a fatti sì antichi. » E di certo neppur la decima parte di quel che egli narra di Teseo è da considerarsi come verità istorica, essendo tutto il rimanente da riporsi tra le favole.

Più volte prima d’ora abbiamo avuto occasione di rammentar questo Eroe : i suoi concittadini lo hanno introdotto {p. 383}in tutte le più celebri imprese di quei tempi, nella caccia del cinghiale di Calidonia, nella spedizione degli Argonauti e nella guerra delle Amazzoni in compagnia di Ercole : quindi nacque il proverbio : Non senza Teseo, per alludere a qualche persona che sempre si trova in tutte le comitive, o Comitati, che prende parte in tutte le imprese o speculazioni. Ora siam giunti a dover raccontarne per filo e per segno la nascita, la vita, la morte e i pretesi miracoli.

Non bastò agli Ateniesi che Teseo fosse figlio di un loro re, ma dissero che era figlio di Nettuno, e così lo fecero appartenere al numero dei Semidei. Per altro poco giovò a quest’Eroe l’esser figlio di un Dio, chè anzi, come vedremo in appresso, gli nocque. Contenti dalla boria che il loro Eroe fosse di origine divina, non vollero per altro minorare la fama delle sue imprese coll’attribuirne il merito ad una special protezione soprannaturale.

Egeo re di Atene, figlio di Pandione e nipote di Cecrope, aveva sposato Etra figlia di Pitteo re di Trezene nel tempo che era ospite in casa di lui ; ma dovendo partir per la guerra, lasciò ad Etra una spada che essa dovea consegnare al figlio quando fosse adulto ; al qual segnale lo avrebbe riconosciuto per suo. Questo figlio fu chiamato Teseo ; il quale nel crescere diede segni manifesti di gran forza e coraggio ; e sentendo encomiare le gesta di Ercole n’ebbe invidia, e agognava di poterlo imitare. Quando poi egli seppe la sua vera origine ed ebbe la spada lasciata dal padre, si mosse tosto per andarlo a trovare. L’avo e la madre avrebber voluto che egli andasse ad Atene per mare con viaggio più breve e più sicuro ; ma egli preferì di viaggiar per terra desiderando non già di schivare, ma di affrontare i pericoli dei masnadieri e dei mostri che infestavano quelle regioni. E qui incominciano i suoi fatti eroici ; dei quali accenneremo soltanto i più straordinarii che si distinguono per qualche singolarità da quelli degli altri Eroi.

{p. 384}Tra i masnadieri coi quali combattè è da rammentarsi l’assassino Perifete, che era armato di una clava di rame ; Teseo lo uccise, e presa quella clava la portò sempre come il suo primo trofeo, a imitazione di quel che fece Ercole della pelle del Leon Nemeo. In Eleusi vinse ed uccise nella lotta Cercione che era stimato invincibile. Avanzandosi nell’Attica incontrò il masnadiere Procuste, che costringendo i passeggieri a prendere ospizio in casa sua, li legava in un letto, e poi se eran più lunghi di quello tagliava loro le gambe che sopravanzavano, e se eran più corti li faceva giungere alla misura di quel letto tirando e dislocando le loro membra107. Teseo con un colpo di clava liberò la Terra da quel mostro di crudeltà. Preceduto dalla fama di questi ed altri mirabili fatti giunse Teseo in Atene, e serbando l’incognito (come ora direbbesi nelle gazzette), ossia senza farsi conoscere, aspettava l’occasione che il re Egeo da sè stesso lo riconoscesse per figlio.

Era giunta da qualche tempo alla corte d’Atene la Maga Medea, fuggita da Corinto dopo essersi crudelmente vendicata di Giasone, come dicemmo ; ed avendo acquistato molta autorità per mezzo delle sue malìe (o vogliam dire raggiri) sull’animo del vecchio re Egeo, gli fe’nascere il sospetto che quello straniero volesse impadronirsi del regno ; e quindi lo persuase a toglierlo insidiosamente di vita avvelenandolo in {p. 385}un pranzo. Teseo fu invitato a corte ; e nel porsi a mensa avvenne che Egeo vide la spada del giovane Eroe, e riconosciutala tosto, gittò a terra tutte le imbandite vivande, ed abbracciando Teseo lo dichiarò suo figlio. Medea prestamente fuggì e andò altrove a finire oscuramente i suoi giorni.

Trovò Teseo tutto il regno in iscompiglio ed in lutto, perchè appressavasi il tempo di mandar per la terza volta il tributo di sangue a Minosse. Il giovane Eroe, come erede del trono, credè suo dovere di liberare il suo popolo da questo vergognoso tributo, o morire. Volle esser messo anch’egli (per quanto Egeo vi si opponesse), nel numero dei giovani destinati per cibo al Minotauro. La nave che portava a Creta queste innocenti vittime aveva in segno di lutto le vele nere. Egeo ordinò che al ritorno, se era reduce il figlio, vi si mettessero di color porpureo ad annunziargli da lontano la lieta novella e liberarlo quanto prima di pena.

Giunse la nave a Gnosso capitale dell’isola di Creta il giorno avanti i funebri giuochi che Minosse faceva celebrare in onor del suo estinto figlio Androgeo ; compiuti i quali, chiudevansi le Ateniesi vittime nel labirinto. Teseo chiese ed ottenne di prender parte anch’egli a quei giuochi ; e destò ammirazione in tutti gli spettatori col suo avvenente e nobile aspetto, e più per la destrezza e il valore con cui superò i più famosi competitori ; e a tutti dispiacque, e più che agli altri ad Arianna figlia di Minosse, che quel giovane Eroe dovesse sì tosto miseramente perire. Arianna pensò di salvarlo, sperandone in premio di esser fatta sua sposa e quindi regina di Atene. Due erano i pericoli di morte per chi fosse entrato nel labirinto : quello d’incontrare il Minotauro ed esser da lui divorato, e l’altro di morir di fame per non poter ritrovare l’uscita. Dal primo, era ben sicura Arianna che Teseo avrebbe saputo difendersi ; provvide dunque al secondo con un mezzo semplicissimo a sua disposizione. Diede a Teseo un gomitolo di filo, perchè fissandone l’un dei capi {p. 386}all’ingresso del labirinto, e svolgendolo nell’avanzarsi finchè non avesse incontrato il Minotauro, potesse ritrovare, tornando indietro, la porta. L’invenzione di Arianna riuscì egregiamente. Teseo dopo avere ucciso il Minotauro, uscito in fretta dal labirinto coi giovanetti e colle giovanette Ateniesi, e trovata Arianna che l’aspettava, entrò con sì bella e giuliva compagnia nella nave che era pronta a far vela, e si diressero tutti insieme verso Atene.

L’invenzione del filo di Arianna divenne tanto famigerata, che anche nelle lingue moderne vi si allude metaforicamente nelle familiari espressioni il filo delle idee ; il filo del discorso o del ragionamento e simili. Del Minotauro e del filo di Arianna parla anche Dante nell’Inferno, ove afferma che egli trovò il Minotauro a guardia del 7° cerchio dei violenti ; ed al qual mostro, perchè lasciasse loro libero il passo, fa dire da Virgilio :

« ……………….. Forse
« Tu credi che qui sia ‘l Duca d’Atene,
« Che su nel mondo la morte ti porse ?
« Partiti, bestia, chè questi non viene
« Ammaestrato dalla tua sorella,
« Ma vassi per veder le vostre pene. »

Se gli Dei stessi del Paganesimo avevano difetti e vizii, come abbiamo notato più volte, non è sperabile di trovar perfetti i Semidei e gli Eroi mitologici. Teseo commise un atto di perfidia e di barbarie, da non potersi in modo alcuno scusare, contro la troppo semplice e pietosa Arianna, alla quale pur doveva la sua salvezza ; ed egli invece l’abbandonò sola nella deserta isola di Nasso. Fortunatamente per essa giunse il giorno stesso in quell’isola Bacco, che la fece sua sposa, come dicemmo parlando di questo Dio. Intanto Teseo si avanzava per mare senza ricordarsi di cangiar le vele alla nave. Egeo che tutti i giorni andava sopra una {p. 387}altura sporgente in mare per osservar se comparivano alla sua vista le desiate vele purpuree, segno convenuto a prenunziargli la salvezza del figlio, scorte invece le vele nere, e perciò credendolo estinto, si gettò per disperato dolore nelle onde e vi annegò. D’allora in poi dagli Antichi fu detto Mare Egeo quello che ora chiamasi l’Arcipelago. La letizia di Teseo nel giunger salvo ad Atene si cangiò subito in lutto e in rimorso. Con tal funesto augurio incominciò egli a regnare.

Molte però furono le opere egregie di lui ; ma non tutto gli andò a seconda, come vedremo. E parlando in prima dei più celebri fatti felicemente da lui compiuti, rammenteremo che egli prese vivo il cinghiale di Maratona e lo sacrificò ad Apollo ; combattè una seconda volta colle Amazzoni colle quali aveva prima combattuto in compagnia d’Ercole ; e poi, secondo quel che dice Plutarco, « uccise Tèrmero cozzando insieme col capo. » Di questo nuovo genere di duello ad imitazione degli arieti, e prescelto in questo caso da Teseo, ci dice il perchè Plutarco stesso : « perchè percuotendo Tèrmero col capo suo nel capo di coloro co’quali s’incontrava, mandavali a morte ; così pur Teseo andò gastigando i ribaldi usando contro di loro quella violenza che essi usavano contro degli altri ; onde nel modo stesso col quale ingiustamente operavano, fossero giustamente puniti108. »

Alcuni Mitologi asserirono che Teseo uccidesse ancora Falàride tiranno di Agrigento in Sicilia. Questo tiranno propose un premio a chi inventasse un nuovo e più tormentoso genere di supplizio ; e un tal Perillo valente artefice {p. 388}ateniese fabbricò un toro di rame in atto di mugghiare ; nelle interne cavità del quale dovevasi chiudere il condannato, e poi accendendo sotto il toro un gran fuoco e così arroventando a poco a poco il metallo, gli urli e gli spasimi di chi v’era dentro tormentato imitassero i muggiti del toro. A Falaride piacque l’invenzione, e per provare se faceva effetto vi fece chiuder dentro lo stesso inventore Perillo. E ciò fu dritto, come dice Dante, ossia fu pena ben meritata dall’iniquo artefice che si fece ministro di crudeltà del più efferato tiranno. Ecco come Dante riferisce questo fatto in una similitudine nel Canto xxvii dell’Inferno :

« Come ‘l bue Cicilian che mugghiò prima
« Col pianto di colui (e ciò fu dritto),
« Che l’avea temperato con sua lima,
« Mugghiava con la voce dell’afflitto,
« Sì che, con tutto ch’e’fosse di rame,
« Pure el pareva dal dolor trafitto. »

Toccò poi al tiranno Falaride a entrar dentro il toro di rame, o ciò fosse per opera di Teseo, come dicono alcuni Mitologi, o per sollevazione e vendetta popolare, come afferma Cicerone109. Il quale parla molte volte di questo toro nelle sue opere, e dice fra le altre cose, che essendo conservato in Agrigento come una rarità ed opera d’arte antica fu rapito dai Cartaginesi, e dopo la distruzione di Cartagine restituito da Scipione agli Agrigentini110.

Si raccontano ancora diverse imprese di Teseo compiute in compagnia del suo maggiore amico Piritoo ; ed ecco prima di tutto come nacque la loro amicizia. Piritoo re dei Làpiti {p. 389}sentendo tanto encomiar Teseo pel suo valore, e non stimandosi inferiore ad esso, lo sfidò a singolar combattimento : ma appena i due campioni si furon veduti nacque tra loro una tal simpatia, che, deposte le armi, si abbracciarono e divennero i più fidi amici dell’antichità. Senza citare i poeti, dirò soltanto che anche Cicerone rammenta Teseo come esempio di vera amicizia.

Quando Piritoo sposò Ippodamia, s’indovina facilmente che Teseo fosse il primo ad essere invitato alla festa nuziale ; e fu utile assai la sua presenza e l’opera del suo forte braccio per impedir che all’amico fosse tolta la sposa e la vita dai Centauri convitati anch’essi al banchetto di nozze.

Storicamente i Centauri eran popoli della Tessaglia che primi impresero a domare i cavalli e sottoporli ai loro servigii ; e chi per la prima volta da lontano li vide cavalcare, credè che uomo e cavallo fossero un solo animale mostruoso composto di queste due forme o nature111. Mitologicamente poi non solo fu detto che i Centauri erano mezzi uomini e mezzi cavalli, ma si aggiunse che eran nati dalle Nuvole ; e per quanto sia strana questa invenzione, anche Dante la riporta nella Divina Commedia, e trova il modo di farla rammentare nel Purgatorio in questi versi :

« Sì tra le frasche non so chi diceva :
{p. 390}« Ricordivi, dicea, de’maladetti
« Ne’nuvoli formati, che satolli
« Teseo combattêr co’doppi petti. »

I principali di essi invitati alle nozze di Piritoo, quando furono al termine del pranzo, essendo riscaldati dal vino, manifestarono la loro natura più bestiale che umana, tentando di rapire la sposa ed altre donne convitate : onde che nacque una tal mischia così terribile e sanguinosa, che quasi tutti i poeti (tra questi anche Dante come abbiam veduto) o la descrivono o almeno vi alludono112. Se non v’era Teseo che facesse prodigii di valore, la vittoria restava ai Centauri ; i quali invece rimasero quasi tutti o uccisi o feriti113. Non v’era però fra questi il Centauro Chirone, che fu il più umano e il più sapiente e dotto, non solo fra i Centauri (il che non sarebbe un gran vanto) ma fra tutti gli antichi Eroi ; e di lui dovremo parlare particolarmente altrove.

Dante ha posto nell’Inferno

« ….. i Centauri armati di saette
« Come solean nel mondo andare a caccia, »

a saettar colaggiù i violenti (tiranni ed assassini) immersi per pena nella riviera del sangue :

« Dintorno al fosso vanno a mille a mille
« Saettando qual’anima si svelle
« Del sangue più che sua colpa sortille. »

{p. 391}Anche nelle Belle Arti furono rappresentati i Centuari secondo le descrizioni mitologiche ; ed uno dei più celebrati è quello di Giovan Bologna sotto le Loggie dell’Orgagna in Firenze.

Tralasciando di parlare di altri fatti che nulla hanno di straordinario o singolare, la maggior prova d’impareggiabile amicizia fra Teseo e Piritoo si trova nell’essersi aiutati scambievolmente nelle più strane e perigliose imprese che o all’uno o all’altro venisse in idea di tentare. E la più strana davvero e la più pericolosa fu quella di Piritoo di andare all’Inferno per rapir Proserpina moglie di Plutone ; e Teseo ciecamente lo secondò. Ma, come dicemmo parlando di Ercole, Piritoo fu lacerato dal Can Cerbero, e Teseo dovè soltanto ad Ercole la sua liberazione dall’Inferno114.

Restano ora da raccontarsi soltanto le vicende domestiche di Teseo e la sua morte. Da prima aveva sposato Ippolita regina delle Amazzoni a lui concessa da Ercole per averlo aiutato in quella guerra. Da Ippolita (secondo alcuni chiamata Antiope) gli era nato un figlio a cui diede il nome di Ippolito. Dipoi rapì la bella Elena, ma gli fu ritolta da Castore e Polluce, come dicemmo. In appresso sposò Fedra, sorella di Arianna, da lui abbandonata nell’isola di Nasso : e qui non si sa intendere come Fedra, dopo quel che era accaduto alla sorella, non sospettasse della fede di Teseo. Ma, sposatolo, fu essa a lui causa di gravissimo lutto. Essendo già adulto Ippolito, parve da prima che Fedra, deposto il madrignal talento, come direbbe l’Alfieri, lo vedesse di buon occhio ; ma poi sembrandole altero e scortese, cangiata in odio e femminile stizza la benevolenza, lo calunniò con tal {p. 392}sopraffina malignità, che Teseo divenne crudele contro il proprio figlio ; e per non farsene micidiale egli stesso, ottenne da Nettuno (creduto suo padre) che punisse Ippolito. Lo stesso Cicerone riferisce questa favola colle seguenti parole : « Nettuno aveva promesso a Teseo di appagare tre suoi desiderii : desiderò Teseo irato la morte del figlio, ed avendola impetrata, cadde in gravissimo lutto. » Il che dice il romano oratore per dimostrare che non debbonsi mantener le promesse quando le cose dimandate sono dannose a chi le richiede115. Il modo che tenne Nettuno per appagar Teseo si fu di far comparire all’improvviso un mostro marino nel tempo che Ippolito in cocchio passava lungo la spiaggia del mare ; per la qual vista spaventati i suoi cavalli lo trascinarono furiosamente tra gli scogli ove miseramente perì. Altri Mitologi aggiungono che Ippolito fu risuscitato da Esculapio e trasportato da Diana in Italia, ove si chiamò Virbio (quasi bis vir) due volte uomo116. Teseo però {p. 393}nulla ne seppe, e scoperta la frode della moglie, rimase doppiamente afflitto. Fedra stessa, agitata dai rimorsi, si diede la morte. È questo il soggetto della celebre tragedia di Racine, intitolata Fedra.

Anche Teseo finì miseramente i suoi giorni ; in lui già avanzato negli anni si avverò la favola del Leone vecchio ; poichè discacciato dal regno da Menesteo, si ritirò alla corte di Licomede re di Sciro, ed ivi fu ucciso o col ferro, o coll’esser precipitato da un’altura in un baratro. La sua morte rimase per lungo tempo ignota, o fu udita con indifferenza. In Atene per altro dopo la morte dell’invasore Menesteo, i figli di Teseo, tra i quali il più noto chiamavasi Demofoonte, ricuperarono il regno paterno. Ci vollero per altro miracoli e risposte di Oracoli per eccitare il popolo a ricercar le ossa di Teseo e riportarle con onore ad Atene. E allora, come dice Plutarco, « gli Ateniesi pieni di allegrezza le ricevettero con splendida pompa e con sacrifizi, come se stato fosse Teseo medesimo che ritornasse. » Ogni anno poi facevangli un grandissimo sacrificio nel giorno stesso in cui egli era ritornato da Creta coi giovani liberati dal Minotauro ; ed inoltre l’onoravano agli otto pure di ogni altro mese.

LII

Atrocità Tebane §

La città di Tebe per fatti storici straordinari è meno rammentata di Atene e di Sparta, ma per racconti mitologici non cede il primato a nessun’altra città della Grecia. {p. 394}Parlando di Cadmo dicemmo della origine mirabilissima di Tebe, di cui altra non havvene che sia più maravigliosa : sappiamo inoltre che da madre Tebana nacque Bacco ; di sangue Tebano furono la Dea Leucotoe e il Dio Palemone ; di Atamante re di Tebe era l’ariete col vello d’oro ; Tebano fu Ercole, il più forte e il più famigerato degli antichi Eroi. Ora sono da raccontarsi atroci fatti della corte Tebana, fiera materia di ragionare, come direbbe il Certaldese.

Fra i successori di Cadmo, circa due secoli dopo la fondazione di Tebe, troviamo nella Cronologia Greca Laio II ; e della vita di questo re raccontansi soltanto due fatti : il primo, che egli avendo saputo dall’Oracolo di dover essere ucciso dal figlio di cui era incinta Giocasta sua moglie, diede ordine di farlo perire appena nato ; il secondo, che non ostante non potè sfuggire il suo destino, e fu ucciso dal figlio miracolosamente salvato. Ed ecco in qual modo : Nato appena il figlio, invece di essere ucciso immediatamente nella reggia, fu esposto in un lontano bosco, perchè lo divorassero le fiere, ed appeso per un piede a un ramo d’albero. Ma invece di una fiera crudele passò prima di là un pietoso pastore, che lo prese e lo portò alla sua capanna e lo tenne come suo figlio, chiamandolo Edipo, che significa piede gonfio, perchè aveva enfiato il piede pel quale fu sospeso all’albero. Cresciuto Edipo si accorse o seppe che il pastor Forba (o secondo altri Polibo) non era suo padre, e andò a interrogare intorno ai suoi genitori l’Oracolo di Delfo ; il quale gli rispose di non cercarne, perchè avrebbe ucciso il padre e sposata la madre. Ma egli non potendo tollerare un’umile ed oscura condizione di vita, si diè a percorrer la Grecia in cerca di avventure, e incontratosi in Laio in una strada stretta di una solinga campagna venne a questione col cocchiere di lui e lo uccise : e poichè Laio voleva difendere o vendicare il cocchiere, Edipo uccise anch’esso senza conoscer chi fosse. Così avverossi nella prima parte la risposta {p. 395}dell’Oracolo. E fin qui i fatti narrati potrebbero anche ammettersi come istorici ; ma quanto all’avverarsi della seconda parte della risposta dell’Oracolo, gli avvenimenti si complicano, e vi predomina l’invenzione mitologica.

Creonte fratello di Giocasta, dopo la morte di Laio prese le redini del regno ; e poichè in quel tempo infestava le vicinanze di Tebe un mostro chiamato la Sfinge, che aveva ucciso molte persone e sbigottito tutti, fu promesso con pubblico editto a chi liberasse da quel mostro il paese, la mano della regina vedova, e per conseguenza il possesso del regno, poichè non v’erano figli eredi del trono.

La Sfinge era un mostro col capo e le zampe di leone alato, e col petto e la testa di donna. Essa fermava i passeggieri e proponeva loro un enigma ; e se non lo indovinavano li strangolava ; il nome stesso di Sfinge che le fu dato dai Greci significa Strangolatrice. Era però voler del destino che se qualcuno indovinasse il suo enigma, sarebbe toccato ad essa a morire. Edipo passò di là, e la Sfinge lo fermò e gli diede a indovinar quest’enigma : Qual è quell’animale che la mattina va con quattro piedi, a mezzogiorno con due, e la sera con tre ? Edipo rispose : l’uomo ; e ne diede la spiegazione che il nostro poeta Berni ha messa in versi :

« ………… L’umana creatura
« Prima con quattro piè comincia andare ;
« E poi con due, quando non va carpone ;
« Tre n’ha poi vecchio, contando il bastone. »

La Sfinge, com’era suo fato, si precipitò dalla rupe del monte Citerone, e morì. Edipo, essendosi guadagnato il promesso premio, sposò Giocasta e fu proclamato re di Tebe. Gli nacquero in appresso due figli che furono chiamati Eteocle e Polinice, e due figlie Antigone ed Ismene.

Dopo qualche anno, una fiera pestilenza devastava il regno ; e dall’Oracolo fu risposto che per farla cessare {p. 396}conveniva bandire dallo Stato l’uccisore di Laio. Edipo si diè premura di farne le più minute investigazioni ; e dalle circostanze del tempo e del luogo in cui fu ucciso Laio, come pure dai connotati della persona dell’estinto scuoprì che ne era stato egli stesso l’uccisore ; e inoltre riandando le memorie della sua infanzia e confrontando le relazioni del pastor Forba e quelle del servo che aveva esposto nel bosco il regio infante, comprese che egli era figlio di Laio e parricida, e che Giocasta era sua madre. Allora inorridito di questo suo perverso destino, esclamò, come dice Sofocle : 0 Sole, io t’ho veduto per l’ultima volta ! e si acciecò ; e lasciato il regno ai suoi figli perchè alternativamente lo governassero un anno a vicenda, andò ramingando per la Grecia, accompagnato e condotto dalla pietosa sua figlia Antigone ; e Giocasta si diede la morte.

I tristi casi di Edipo furono il soggetto di molte tragedie ; ed ogni scrittore li modificò o alterò secondo la sua fantasia e lo scenico effetto che ne sperava : tutti però si accordano nel dire che egli morì lungi da Tebe di disagio e di cordoglio.

Intanto Eteocle come primogenito incominciò a regnare in Tebe, e dimostrò subito indole da despota e non da re che dopo un anno doveva diventar suddito ; quindi inventò pretesti per altercare col fratello e negargli alla fin dell’anno il possesso del trono. Polinice si trovò costretto ad esulare, e ricoveratosi alla corte di Adrasto re degli Argiesi ne sposò la figlia Argia, e così impegnò anche di più quel re, divenuto suo suocero, ad aiutarlo a ricuperare il regno. La guerra che ne seguì fu detta dei sette Prodi, perchè sette furono i valorosi capi o generali di questa guerra, cioè : Adrasto, Polinice, Tideo, Capaneo, Ippomedonte, Anfiarao e Partenopeo. Ma poichè i fatti d’arme di questa guerra, per quanto sanguinosi e strenui, non produssero l’effetto ultimo desiderato, e tutto terminò con un duello tra i due fratelli, ci {p. 397}affretteremo a parlar di questo, tacendo delle inutili stragi che lo precedettero, e riserbandoci in ultimo a dar notizia soltanto delle gesta e della fine di questi prodi.

Eteocle, quantunque non ignorasse questo apparato di guerra, non volle prestare orecchio a nessuna transazione o accordo ; e istigato dallo zio Creonte, che sperava di profittare della discordia dei nipoti per impadronirsi del regno, si preparò anch’egli alla guerra ; e dopo molte battaglie combattute sotto le mura di Tebe, restando sempre indecisa la sorte delle armi, consentì ad accettare un duello definitivo, o, come suol dirsi, all’ultimo sangue, con Polinice. Eteocle cadde mortalmente ferito : e in quegli ultimi istanti di vita fingendo di volersi riconciliare col fratello, ma furente in cuor suo di lasciarlo in vita vincitore e re, chiese di abbracciarlo per l’ultima volta ; e, raccolte tutte le sue forze, con un pugnale, che portava sempre nascosto fra le vesti, uccise proditoriamente Polinice, e vedendolo morto prima di lui, con questa infernale soddisfazione spirò.

I poeti inventarono che posti i corpi di entrambi i fratelli ad ardere nello stesso rogo, le fiamme della pira si divisero, segno sensibile che l’avversione degli animi loro erasi comunicata a tutte le molecole dei loro corpi. E di questo mitologico prodigio fa menzione anche Dante là dove parlando della duplice fiamma che ricuopre nell’Inferno le anime di Ulisse e di Diomede, egli dice che quella fiamma

« ……. par surger dalla pira
« Ove Eteòcle col fratel fu miso. »

Il solo Creonte gioì della morte dei nipoti, dei quali aveva fomentato l’odio e la discordia per impadronirsi del regno ; e divenne tosto uno dei più esecrati tiranni. E per primo atto inumano proibì che fossero seppellite le ceneri di Polinice, dichiarandolo traditore e ribelle. Non curando il barbaro divieto Antigone sorella e Argia vedova di Polinice, {p. 398}ne raccolsero in un’urna le ceneri e le seppellirono ; e il tiranno condannolle entrambe a morte, stimando così di render più sicuro il possesso del trono per la sua dinastia. Ma non potè co’suoi delitti esser felice com’egli credeva ; poichè avvenne che il figlio di lui Emone essendo invaghito di Antigone, e non potendo salvarla dalla crudeltà di suo padre, si uccise per disperazione. Anche Ismene volle subire la stessa sorte della sorella Antigone dichiarandosi complice della medesima. Così rimase solo Creonte nell’orrida e luttuosa reggia di Tebe.

Su questi atroci fatti esiste un poema latino intitolato la Tebaide, esistono tragedie antiche e moderne. E per parlare soltanto di queste, chi non conosce il Polinice e l’Antigone d’Alfieri, e in francese Les Frères Ennemis di Racine ? Troppo lungo sarebbe l’enumerare soltanto i poeti che rammentano queste atrocità Tebane. E basterà citar Dante che molte volte ne parla o vi allude. Oltre l’esempio riportato di sopra, l’Alighieri immaginò di avere incontrato nel Purgatorio il poeta Stazio autore della Tebaide, con cui parla di questo poema, e fa dire all’autore stesso :

« Cantai di Tebe e poi del grande Achille ; »

e da Virgilio fa chiamare Eteocle e Polinice la doppia tristizia di Giocasta, e narrare che trovansi nel Limbo

« Antigone, Deifile ed Argia
« Ed Ismene sì trista come fue. »

Dei prodi generali che aiutarono Polinice nella guerra di Tebe parleremo separatamente nel prossimo numero, perchè le loro vicende, e domestiche e guerresche, non furono d’alcun momento nel determinar le catastrofi della real famiglia Tebana che abbiamo già raccontate.

{p. 399}

LIII

I sette Prodi e gli Epìgoni §

Adrasto re degli Argiesi o Argivi aveva soltanto due figlie di nome Argìa e Deifile, le quali teneva guardate con diligentissima cura senza farle mai uscir di città, perchè l’Oracolo gli aveva predetto (o egli l’aveva sognato), che sarebbero state rapite da un leone e da un cinghiale. Ma venuti contemporaneamente alla corte Argiva Polinice e Tideo, e chiesto di sposare queste due principesse, Adrasto vi acconsentì volentieri, perchè trovò in questi sposi la spiegazione della risposta dell’oracolo (o del sogno che fosse), che tanto lo aveva tenuto in sospetto e timore per le sue figlie. E la spiegazione era questa : Poichè Polinice, essendo discendente d’Ercole, portava sulle spalle per distintivo, e quasi per manto, una pelle di leone, e Tideo come fratello di Meleagro una pelle di cinghiale, Adrasto interpretò che le parole dell’Oracolo si riferissero a questi due giovani Eroi, che gli avrebbero rapite le figlie sposandole e conducendole nei loro regni. Per altro in quel momento erano ambedue privi del regno e della patria ; Polinice, per le cause già dette nel precedente numero, e Tideo per avere ucciso un illustre personaggio della sua patria, e secondo alcuni, il proprio fratello. Ma Adrasto prese l’assunto di riconquistare ad entrambi col proprio esercito l’avito regno ; e cominciò da quello di Polinice, la causa del quale era molto più urgente e più giusta. Prima per altro di dichiarar la guerra ad Eteocle volle tentare se egli veniva a qualche equa transazione col fratello ; e vi mandò per ambasciatore plenipotenziario Tideo, l’altro suo genero. Bisogna credere che Adrasto non conoscesse bene {p. 400}l’indole di questo suo genero, affidandogli una sì delicata missione, poichè questi è quello stesso Tideo che

« …………… rose
« Le tempie a Menalippo per disdegno, »

come dice Dante, assomigliando ad esso il Conte Ugolino quando nell’Inferno rodeva il cranio all’Arcivescovo Ruggieri. Non poteva dunque Tideo aver molta attitudine a fare il diplomatico, ma piuttosto l’Antropofago : infatti invece di conciliare, inasprì sempre più, perchè non solo altercò, ma diede di piglio alla spada nella reggia stessa ed al convito di Eteocle ; e poi inseguito da una schiera di soldati, li mise in rotta ed in fuga egli solo, lasciandone molti sul terreno malmenati od estinti. Dichiarata dunque la guerra e incominciate le regolari battaglie, fece prodigii di valore, e la destra sua valeva per cento mani ; ma finalmente colpito da uno strale avvelenato morì sotto le mura di Tebe. Ebbe da Deifile un figlio che fu il famoso Diomede, il più valoroso, dopo Achille, fra tutti i capitani greci che andarono alla guerra di Troia.

Di Ippomedonte è da dirsi soltanto che egli era nipote di Adrasto e valorosissimo ; ma di lui non si narrano fatti straordinarii degni di particolar menzione. Egli pure morì alla guerra di Tebe.

Capanèo era un Argivo arditissimo, che primo inventò di dar la scalata alle fortezze. Al suo ardire univa un insolente ed empio disprezzo per gli Dei ; e giunse perfino a vantarsi di prender Tebe egli solo a dispetto di Giove, i cui fulmini, a quanto egli diceva, non gli facevano maggior paura dei raggi del Sole sul mezzogiorno. Ma Giove gli fece conoscer la differenza che v’era, fulminandolo mentre egli dava la scalata alle mura di Tebe, e precipitandolo nell’Inferno. Dante che aborre gli empi senza alcuna religione, e {p. 401}li chiama violenti contro Dio, ci narra che egli vide Capaneo nell’Inferno sotto una pioggia di fuoco che cadeva dall’alto

« ……….. in dilatate falde,
« Come di neve in alpe senza vento ; »

e aggiunge che anche laggiù quell’anima dannata sfidava il supremo dei Numi, dicendo che quantunque Giove lo sættasse di tutta sua forza,

« Non ne potrebbe aver vendetta allegra. »

A questo punto Dante fa che Virgilio gli rintuzzi severamente la sua impotente stizza con queste parole :

« O Capaneo, in ciò che non s’ammorza
« La tua superbia, se’ tu più punito :
« Nullo martirio, fuor che la tua rabbia,
« Sarebbe al tuo furor dolor compito. »

Quest’uomo bestiale aveva una moglie affettuosissima chiamata Evadne che non volle sopravvivere ad esso, e si gettò nel rogo mentre rendevansi al marito i funebri onori. Dal loro connubio era nato un figlio di nome Stènelo, che fu poi uno dei più valorosi guerrieri all’assedio di Troia. Orazio lo dice : Pugnæ Sthenelus sciens.

Poche ed incerte notizie si hanno di Partenopeo. Alcuni lo credono fratello di Adrasto, ed altri figlio di Atalanta, la famosa cacciatrice che fu la prima a ferire il cinghiale di Calidonia. Per quanto fosse valoroso, anch’egli perì nella guerra di Tebe.

Molto invece fu narrato di Anfiarao e della sua famiglia. Essendo egli indovino, previde che sarebbe stato tutt’altro che felice l’esito della spedizione contro Tebe, e per lui stesso funesto ; e perciò non voleva prendervi parte, quantunque fosse cognato del re Adrasto, avendone sposato la sorella Erìfile : quindi per fuggire qualunque molesta insistenza e sollecitazione, si nascose. Ma Polinice a cui stava a cuore {p. 402}che non mancasse in quella impresa un così saggio e provvido capitano, regalò una preziosissima collana ad Erifile pregandola di persuadere Anfiarao di accompagnarlo alla guerra. Erifile non potendo indurvi il marito colle parole, tradì il segreto di lui, scuoprendo il posto o nascondiglio ov’egli si era celato. Costretto allora Anfiarao per punto di onore e per comando del re a partir cogli altri per la guerra, e sicuro di dovervi perire, lasciò detto al figlio Alcmeone, che appena udita la sua morte lo vendicasse. Perì di fatti sotto le mura di Tebe ed in un modo straordinario e mirabile, a quanto raccontano i pœti. Mentre egli osservava gli astri, per trame, come gli Astrologi, argomento di predizioni, gli si aperse sotto i piedi la terra che lo inghiottì, e vivo precipitò nel regno delle Ombre117. Gli antichi dissero che non andò al Tartaro ma agli Elisii, e che in Grecia aveva un Oracolo dei più celebrati e rendeva responsi dei più veridici. Ma Dante che non credeva concessa all’uomo la facoltà d’indovinare il futuro, e che perciò stimava un’impostura l’arte dell’Indovino, lo pone nell’Inferno con tutti gli altri pretesi Indovini antichi e moderni. Dice di averlo veduto egli stesso, e che Virgilio glielo indicò dicendo :
« Drizza la testa, drizza, e vedi a cui
« S’aperse, agli occhi de’Teban, la terra,
« Perchè gridavan tutti : Dove rui,
« Anfiarao ? perchè lasci la guerra ?
« E non restò di ruinare a valle
« Fino a Minòs che ciascheduno afferra.
« Mira che ha fatto petto delle spalle :
« Perchè volle veder troppo davante,
« Dirietro guarda, e fa ritroso calle. »
(Inf. xx, v. 31…..)

{p. 403}Alcmeone appena udita la morte del padre, per vendicarlo com’egli desiderò, uccise la madre ; e fu come accennano i pœti antichi pio e scellerato ad un tempo118 ; e Dante esprime lo stesso concetto in una similitudine del Canto iv del Paradiso :

« Come Alcmeone che di ciò pregato
« Dal padre suo, la propria madre spense,
« Per non perder pietà si fe’ spietato. »

E nel Canto xii del Purgatorio rammentò

« Come Alcmeone a sua madre fe’caro
« Parer lo sventurato adornamento. »

E a questo adornamento diè opportunamente l’Alighieri l’epitelo di sventurato, perchè oltre all’essere stato causa della morte di Anfiarao e di Erifile, riuscì funesto anche al figlio Alcmeone che ne fu l’erede. Ne fece egli un dono alla sua prima sposa Alfesibea ; ma poi ripudiatala per isposar Callirœ, questa desiderò di possedere la famosa collana di Erifile ; ed Alcmeone per contentar la nuova sposa, pretendendo di ritogliere il prezioso monile alla ripudiata Alfesibea, fu ucciso dai fratelli di lei.

Così la discordia dei figli di Edipo produsse una serie infinita di guai e di sciagure che di conseguenza in conseguenza durarono per molti anni. Poichè Adrasto, il solo dei Sette Prodi rimasto in vita, quantunque per causa di quella guerra avesse perduto ambedue i suoi generi ed una delle sue due figlie, non che il fratello e la sorella, il cognato e il nipote ; senza contare le sventure dei sudditi e lo sperpero delle forze del regno, volle imprendere un’altra guerra contro {p. 404}Tebe coll’aiuto dei figli degli estinti Prodi. Questa seconda guerra fu perciò chiamata degli Epìgoni, ossia dei rampolli, o discendenti ; ed ebbe luogo dieci anni dopo la prima per aspettar che questi rampolli fosser cresciuti ed atti alle battaglie. Ma dei fatti d’arme e degli effetti ultimi di questa guerra scarseggiano e sono incerte le notizie : devastazioni e stragi non ne mancarono ; e v’è chi afferma che fu anche saccheggiata la città di Tebe e che Tersandro figlio di Polinice ne prendesse il governo ; e inoltre che molti Tebani prima del saccheggio preferirono di andar profughi dalla patria in cerca di nuove sedi. Quest’ultimo fatto è rammentato ancora dall’Alighieri, ov’egli parla dell’indovino Tiresia, di Manto figlia di lui, e dell’origine di Mantova patria di Virgilio. Noi avremo occasione di tenerne proposito in un altro Capitolo destinato esclusivamente a parlare degli Indovini.

LIV

Pèlope e i suoi discendenti §

Dalle atrocità degli Eraclidi convien passare agli orrori dei Pelòpidi. Questi pure furono argomento prediletto degli antichi tragici e delle antiche plebi ; ed alcuni non hanno cessato di comparire anche sui moderni teatri francesi ed italiani. Basterà citare la Pelopea di Pellegrin e l’Atreo di Crebillon e di Voltaire ; il Tieste di Ugo Foscolo, l’Agamennone e l’Oreste di Alfieri. Inoltre appartenenti a questa stirpe dei Pelopidi furono due dei principali personaggi del l’Iliade di Omero, a istigazione dei quali s’imprese e si condusse a termine la guerra di Troia. È dunque indispensabile nella classica letteratura di tutti i popoli e di tutti i tempi il conoscere almeno i fatti principali di questa stirpe funesta e troppo famosa per infami delitti.

{p. 405}Nel parlare dei dannati celebri dell’ Inferno pagano, dicemmo che padre di Pelope fu Tantalo condannato alle pene del Tartaro per avere ucciso questo suo figlio, e imbanditene le carni per cibo alla mensa dei Numi da lui convitati ; e inoltre che Pelope fu restituito alla sua pristina forma corporea e risuscitato da Giove. Ora è a dirsi che egli sposò Ippodamia figlia di Enomao, re d’ Elide e Pisa119, ed ebbe molti figliuoli e discendenti che sono in comune appellati col patronimico di Pelopidi. Ma il modo con cui Pelope ottenne la sposa non è senza delitto.

Si racconta che Enomao era riluttante dal maritare la sua unica figlia Ippodamia, perchè aveva saputo dall’Oracolo che il genero sarebbe causa della morte del suocero ; e per allontanare i pretendenti proponeva loro condizioni durissime, cioè o di superarlo nella corsa dei cocchi (ed egli co’ suoi cavalli figli del Vento era insuperabile), o di essere uccisi se perdevano. E già più d’uno aveva inesorabilmente pagato colla vita il fio della sua folle speranza. Pelope senza essere scoraggiato da sì funesti esempi, lasciò la Frigia sua patria, e volle tentare anch’egli il periglioso arringo ; ma cercò di uscirne vittorioso colla frode e col tradimento. Promettendo qualunque premio (fosse anche la metà del regno) a Mìrtilo cocchiere diEnomao, lo indusse a toglier dall’asse il ferro che riteneva le ruote del cocchio del re ; e così Enomao nella gara del corso precipitando a terra morì. Pelope rimase senza contrasto vincitore, e divenne sposo di Ippodamia e re di Elide. Quanto poi al premio promesso a Mirtilo non solo mise in pratica la massima d’insidiosa politica

« Lunga promessa coll’attender corto, »

{p. 406}ma fingendosi irritato delle indiscrete e ardite pretenzioni di lui, lo fece gittar nel mare. Per altro nell’ amministrazione del regno fu così fortunato e divenne tanto potente che estese il suo dominio su tutta quella penisola della Grecia che ora chiamasi Morea, e che dal nome di Pelope fu detta dagli antichi Peloponneso.

Da Ippodamia ebbe sei figli che tutti divennero re, ma i più noti per fama infame furono Atreo e Tieste. L’inimicizia e la perfidia impareggiabile di questi due mostruosi fratelli furono rese più orribili dalle amplificazioni degli antichi pœti. Basti il dire che Atreo sospettando che la sua propria moglie fosse segretamente d’accordo con Tieste, uccise i due più giovani figli, Tantalo e Plistene, e ne imbandì le carni a Tieste stesso, e poi perchè sapesse qual cibo aveva mangiato gli fece portare in tavola i teschi delle due misere vittime. I pœti aggiungono che in quel giorno il Sole inorridito ritornò indietro dal suo corso. All’opposto la plebe antica dilettavasi di veder rappresentato sulle scene questo ferale spettacolo. Orazio nella Pœtica dà per precetto agli scrittori di tragedie di non far cuocere al nefando Atreo le carni umane sul palco scenico alla presenza del pubblico120 ; il che fa supporre che sì orrendo e ributtante spettacolo fosse dato più volte sui teatri romani ; e Cicerone nel De Officiis riferisce che in una tragedia latina si faceva dire ad Atreo : « È sepolcro ai suoi figli il padre loro121. »

L’odio esecrando di Atreo e di Tieste non solo durò finchè vissero questi fratelli, ma si comunicò in ambedue le linee {p. 407}collaterali ai loro discendenti. Di Tieste era figlio Egisto, nato d’illegittime e vietate nozze ; e poichè fu allattato da una capra ebbe quel nome che in greco indica un tale allattamento. Di Atreo nacquero Agamennone e Menelao, e perciò furon chiamati gli Atridi. Degli Atridi si dovrà d’ora in poi parlar molto a lungo nel rimanente della Mitologia, e spesso troveremo implicato Egisto nei loro domestici casi. Infatti occorre prima di tutto di dover dire che Egisto uccise a tradimento Atreo suo zio, e quindi con Tieste suo padre s’impadronì del regno di Micene e ne cacciò Agamennone e Menelao legittimi eredi. Questi si rifugiarono a Sparta nella corte del re Tindaro, di cui sposarono le figlie Clitennestra ed Elena ; quindi colle truppe ausiliari del suocero ritornarono a Micene e ne cacciarono gl’invasori Tieste ed Egisto, ricuperando il paterno regno ; del quale per patto di famiglia divenne re il solo Agamennone, essendo Menelao erede del trono di Sparta, poichè eran già morti e divenuti Dei ed Astri Castore e Polluce.

Lasciamo che per pochi anni i due famosi Atridi godano in pace del loro regno e del fido coniugio ; ben presto saranno costretti a subire aspri travagli e amari disinganni ; e intanto prepariamo alcune altre delle molte fila ond’ è formata la lunga epica tela della guerra di Troia.

LV

Gli Antenati di Achille §

Dopo esserci contristati gli occhi e ’l petto nel leggere e nell’intendere gli orrori degli Antenati di Agamennone e Menelao, ci sorride la speranza di confortarci nel riandar la vita e le gesta degli Antenati di Achille, di quell’Erœ che fu invidiato da Alessandro Magno, perchè ebbe per banditore delle sue lodi Omero.

{p. 408}La prosapia di Achille deriva da Giove : genus ab Jove summo ; poichè Eaco suo avo era figlio di Giove e di Egina. Eaco nacque in quell’isola dell’Arcipelago che portò anticamente il nome di sua madre, e che ora con poca differenza di suono chiamasi Engía o Enghía. Quest’isola fu donata da Asopo re di Beozia a sua figlia Egina, e perciò divenne il regno di Eaco. Ma la stizzosa e vendicativa Giunone, usa a perseguitar sempre famiglie e popoli per cui Giove mostrasse qualche predilezione, mandò una sì spaventevole pestilenza in quell’isola, che morirono tutti i sudditi ed anche la regina, e vi rimase soltanto il giovinetto Eaco divenuto re senza sudditi. Giove per altro, alle preghiere del figlio, ripopolò quel regno in un modo miracoloso : fece uscire da un tronco di quercia una gran quantità di grosse formiche, le quali appena toccata terra divennero uomini tutti di ferro e di valore armati. Così raccontano i pœti, i quali erano in quell’epoca più arditi di Darwin e compagni Antropologi a far derivare gli uomini dalle bestie senza che alcuno li contraddicesse. E questi guerrieri derivati dalle formiche son quei prodi Mirmìdoni sudditi e soldati di Achille all’ assedio di Troia. Forse la radicale del loro nome, che in greco significa formica, diede motivo a inventar questa favola della loro origine ; la quale però parve sì bella che tutti i pœti l’accettarono, e Dante stesso se ne vale per una bellissima similitudine nel Canto xxix dell’ Inferno :

« Non credo che a veder maggior tristizia
« Fosse in Egina il popol tutto infermo,
« Quando fu l’ær sì pien di malizia,
« Che gli animali, infino al picciol vermo,
« Cascaron tutti ; e poi le genti antiche
« Secondo che i pœti hanno per fermo,
« Si ristorâr di seme di formiche ;
« Ch’era a veder per quella oscura valle
« Languir gli spirti per diverse biche. »

{p. 409}Eaco per la sua bontà e giustizia fu posto dopo la morte fra i giudici dell’Inferno, come dicemmo parlando delle regioni Infernali. Lasciò due figli, Telamone e Peleo. Telamone fu esiliato dal padre per avere ucciso, nel far gli esercizi ginnastici, un piccolo fratello chiamato Foco. Di Telamone abbiamo già detto che fu uno degli Argonauti ; e di altre sue imprese e vicende, come pure de’ suoi due celebri figli Aiace Telamonio e Teucro, parleremo più opportunamente in appresso. Ora convien dire di Peleo che fu il padre di Achille.

Peleo dopo la morte di Eaco abbandonò (non si sa bene per quali motivi) l’isola di Egina, e seguìto dai Mirmidoni andò nella Grecia continentale, e dopo varie vicende (variamente narrate dai tragici) potè formare un piccolo regno in quella parte della Tessaglia che era detta Ftiòtide dalla città di Ftia sua capitale. Quantunque piccolo principe meritò di sposare una Dea ; e questa fu Teti ninfa marina, dalla quale doveva nascere un figlio molto più illustre e potente del padre. Questo decreto del Destino essendo conosciuto da Giove e dagli altri Dei, trattenne ciascun di loro dallo sposar Teti, e tutti d’accordo convennero di unirla in matrimonio con quel mortale che ne fosse più degno per bontà di animo e per parentela coi Numi ; e il prescelto fu Peleo, ottimo principe e nipote di Giove. Furono queste le più splendide nozze che fossero mai celebrate sulla Terra : al banchetto nuziale erano convitati tutti gli Dei e le Dee, esclusa soltanto la Discordia. Ma questa Dea maligna e nemica di pace trovò il modo di spargere dissensioni tra i convitati gettando dall’alto sulla mensa un aureo pomo colla iscrizione : Si dia alla più bella. Ed ecco subito eccitata la gara e l’invidia tra le Dee, e cagionato un grande impæcio agli Dei, nell’esser richiesti di pronunziare un verdetto così pericoloso. Giove stesso se ne scusò prudentemente, e propose di farne giudice un semplice pastore che {p. 410}senza prevenzione alcuna dichiarasse qual Dea gli paresse più bella. Tre sole Dee si ostinarono nelle loro pretese senza voler cedere, cioè Giunone, Minerva e Venere, e consentirono di starsene al lodo dell’arbitro rusticano. Furono dunque condotte da Mercurio in Frigia sul monte Ida davanti al pastore Alessandro, in appresso chiamato Paride. Mercurio fece la relazione della causa, e ciascuna delle tre Dee perorò a proprio vantaggio, e promise al giudice un magnifico premio a causa vinta ; cioè Giunone le maggiori ricchezze del mondo, Minerva la più gran sapienza e Venere la più bella donna per moglie. Il pastore consegnò l’aureo pomo a Venere. Fu giusto giudice di certo, poichè Venere, come tutti sanno, era la Dea della Bellezza : non ostante s’inimicò le altre due Dee. In qual modo poi Venere mantenesse a Paride la promessa sarà detto nel parlar dell’origine della guerra di Troia.

Ora è a dirsi che dal matrimonio di Peleo con Teti nacque un figlio che fu chiamato Achille. La madre, come Dea, sapeva già dal libro del Fato che questo suo figlio sarebbe un fulmine di guerra ; quindi per maggior sicurezza procurò di renderlo invulnerabile tuffandolo nelle acque del fiume Stige ; ma poichè nel tuffarlo lo teneva sospeso per un piede, rimase vulnerabile soltanto il calcagno che non potè esser bagnato da quelle acque infernali. Dipoi, fanciulletto ancora, lo consegnò al Centauro Chirone perchè lo istruisse in tutte le arti necessarie ai Principi ed agli Eroi122. Ma quando sentì dichiarata contro i Troiani la guerra, l’amor materno la spinse a prendere una nuova precauzione, a trafugare il figlio nell’isola di Sciro e nasconderlo in gonna {p. 411}femminile tra le damigelle di Deidamia figlia del re Licomede. Ivi rimase Achille finchè i Greci non lo scuoprirono. Dante rammenta questo fatto in una similitudine nel Canto ix del Purgatorio :

« Non altrimenti Achille si riscosse,
« Gli occhi svegliati rivolgendo in giro,
« E non sapendo là dove si fosse,
« Quando la madre da Chirone a Schiro
« Trafugò lui dormendo in le sue braccia,
« Là onde poi gli Greci il dipartiro. »

E poichè ora siamo giunti col racconto all’ epoca in cui ebbe luogo la famosa guerra di Troia, è tempo di parlare di questa città e dei suoi re, come pure della vera causa di quella guerra.

{p. 412}

LVI

La città di Troia e i suoi re §

Dalla Grecia convien passare all’Asia Minore, in quella parte che chiamavasi Frigia, presso le coste della Propontide, dell’Ellesponto e dell’Egeo ; nella qual regione fra l’Ellesponto ed il monte Ida esisteva l’antica e famosa città di Troia. Sino al 1870 non si seppe neppur dire con sicurezza di non errare : qui fu ; di modo che taluni dubitaron perfino se la città di Troia fosse mai esistita. Lo stesso Cantù nelle prime edizioni della sua Storia Universale accennava questo dubbio senza risolverlo ; e soltanto si affermò da qualcuno che sopra una parte di quel classico terreno sorge un villaggio turco chiamato Bunar-Basci.

In questi ultimi anni però, un erudito grecista tedesco, il Dott. Schliemann avendo fatte escavazioni in quella regione perfino alla profondità di 14 metri, è giunto a dissotterrare una gran parte delle rovine di quella celebre città, ed asserisce pubblicamente per le stampe nel suo libro intitolato Antichità Troiane di essere stato il primo a scuoprire l’identità di posizione della esistente Hissarlik con l’antica e distrutta città di Troia. E poichè un inglese di nome Frank Calvert, da molti anni abitante e possidente di terreni nella regione asiatica presso lo stretto dei Dardanelli, reclamò la priorità di tale scoperta, questa è pel mondo letterario una conferma che sia ora finalmente accertata non solo l’esistenza, ma anche la precisa ubicazione della famosa città di Troia123.

{p. 413}Il nome di Troia, con cui questa città è passata ai posteri, consacrata all’immortalità dai più sublimi pœti, non era il solo nè il primo che essa ebbe ; e si trova anche chiamata Dardania, Teucria, Ilio e Pergamo. Anche Dante in una stessa terzina la chiama Troia ed Ilio, o Ilion, secondo la terminazione greca e latina ; come nel Canto i dell’Inferno, facendo dire a Virgilio :

« Pœta fui e cantai di quel giusto
« Figliuol d’Anchise che venne da Troia
« Poi che ‘l superbo Ilïòn fu combusto. »

Ed inoltre ripete ambedue questi stessi termini anche in una terzina del C. xii del Purgatorio, dicendo in propria persona :

« Vedeva Troia in cenere e caverne :
« O Ilïòn come te basso e vile
« Mostrava il segno che lì si discerne ! »

Chiunque sa quanto sia conciso l’Alighieri non potrà creder ch’egli abbia usato oziosamente questi due vocaboli come se fossero perfettamente sinonimi, e dovrà dedurre dalla Mitologia e dai classici antichi la differenza di significato di quei due termini per intendere il preciso concetto espresso da Dante : il che noi faremo ben tosto nel dar la spiegazione degli altri nomi della stessa città.

I vocaboli di Dardania, Teucria, Ilio e Troia adoprati comunemente come sinonimi della stessa città, derivano dal nome di altrettanti re Troiani : e, se di questi fosse accertata la cronologia e la Storia, sarebbe molto facile determinare l’epoca di quelle denominazioni e la diversa estensione della città in quelle diverse epoche. Ma lo stesso Cantù nella sua Storia Universale non ha potuto dare un giudizio sicuro sulla genealogia dei re di Troia e sulla verità dei fatti che di loro si raccontano. Dovendosi quindi ricorrere alle {p. 414}antiche tradizioni non bene accertate, io preferirò per lo scopo del mio racconto mitologico le splendide asserzioni di Omero, di Virgilio e di Dante alle sparute anatomie o analisi critiche di certi antichi eruditi e di taluni moderni filologi.

Ed ecco prima di tutto la genealogia dei re Troiani quale Omero fa dirla da Enea ad Achille :

« Ma se più brami di mia stirpe udire
« Al mondo chiara, primamente Giove
« Dàrdano generò, che fondamento
« Pose qui poscia alle Dardanie mura.
« Perocchè non ancora allor nel piano
« Sorgean le sacre iliache torri, e il molto
« Suo popolo le Idèe falde cuopriva.
« Di Dardano fu nato il re d’ogni altro« Più opulente Erittonio…….
« ……. D’Erittonio nacque
« Trœ re de’Troiani, e poi di Trœ
« Generosi tre figli Ilo ed Assaraco
« E il deiforme Ganimede, al tutto
« De’mortali il più bello, e dagli Dei
« Rapito in cielo, perchè fosse a Giove
« Di coppa mescitor per sua beltade,
« Ed abitasse cogli Eterni. Ad Ilo
« Nacque l’alto figliuol Laomedonte ;
« Titone a questo e Priamo e Lampo e Clizio
« E l’alunno di Marte Icetaone ;
« Assaraco ebbe Capi e Capi Anchise
« Mio genitore, e Priamo il divo Ettorre. »
(Iliad. lib. xx, traduz. del Monti).

In questi versi è considerato Dardano come fondatore e primo re della città che da lui prese il nome di Dardania. Egli era figlio di Giove e di Elettra una delle 7 figlie di {p. 415}Atlante. In tutto ciò concorda anche Virgilio, che spesse volte rammenta Dardano come autore della regia stirpe troiana124. E Dante nel narrare quali degli spiriti magni egli vide nel Limbo, comincia dalla troiana prosapia dicendo :

« Io vidi Elettra con molti compagni,
« Tra’ quai conobbi ed Ettore ed Enea,
« Cesare armato con gli occhi grifagni ; »

poichè anche Giulio Cesare dittatore discendeva dai Troiani, e il suo nome di Giulio derivava da quello di Giulo Ascanio figlio di Enea, come asserisce Virgilio125.

Nella Cronologia Greca, riportata dal Cantù tra i Documenti della sua Storia Universale, è posto il regno di Dardano dal 1568 al 1537 avanti G. C. ; ma sono ivi registrati due altri re anteriori a Dardano, cioè Scamandro e Teucro ; e da questo re si fa derivare il nome di Teucria dato alla città ed anche al territorio Troiano : tutti gli altri re per altro son quegli stessi rammentati da Omero.

Di Erittonio figlio di Dardano i mitologi non raccontano alcun fatto notabile ; e molti danno questo nome ad Eretteo re di Atene che fu figlio di Vulcano. Anche Omero, come abbiam veduto, lo dice soltanto il più opulento di ogni altro re.

Da Erittonio nacque Trœ, o Troo, onde vennero i nomi di Troia e di Troiani, come dal nome del figlio suo Ilo derivò {p. 416}quello di Ilion (in italiano Ilio) alla città stessa. Omero preferisce il vocabolo Ilion ; ma gli altri pœti usano per lo più indiscriminatamente i diversi nomi di Troia : solo alcuni intendono per Ilio l’interno della città e i cittadini126, e per Troia il fabbricato della città ed anche il territorio. Questa distinzione che riconoscesi più d’una volta nelle espressioni di Virgilio fu adottata dall’Alighieri nelle due terzine citate di sopra.

Il nome poi di Pèrgamo era dato soltanto alla parte più alta e più fortificata della città, ov’era anche il palazzo del re127 ; poichè nell’antico linguaggio Jonico quel vocabolo Pergamon significava appunto luogo od oggetto elevato ; e per questa stessa etimologia pergamo in italiano è sinonimo di pulpito.

Tra i figli di Trœ o Troo è da notarsi non solo Ilo che fu re di Troia dopo la morte del padre, ma anche Assàraco e Ganimede.

« Assàraco ebbe Capi e Capi Anchise, »

che fu genitore di Enea, come fa dire Omero da Enea stesso ; quindi Assàraco è lo stipite della stirpe e della discendenza di Enea, e perciò i Romani, discendenti dai Troiani, oltre ad esser chiamati Eneidi da Virgilio, son detti ancora Gens Assaraci, ossia discendenti di Assaraco. Quanto poi a {p. 417}Ganimede dicemmo già nel N° XV che fu rapito dall’aquila di Giove e trasportato in cielo per far da coppiere invece della Dea Ebe.

Di Ganimede hanno fatto parola quasi tutti i pœti ; ed anche nella prosa del volgo il nome di Ganimede è usato per indicare un giovane azzimato e lezioso. Dagli Antichi per altro ebbe anche l’onore di esser posto nella Costellazione detta dell’ Aquario, che è uno dei dodici segni del Zodiaco e rifulge di 127 stelle.

Dante non si è già dimenticato di rammentar Ganimede. Nel Canto ix del Purgatorio ne ricorda il ratto :

« In sogno mi parea veder sospesa
« Un’aquila nel ciel con penne d’oro,
« Con l’ale aperte ed a calare intesa :
« Ed esser mi parea là dove foro
« Abbandonati i suoi da Ganimede
« Quando fu ratto al sommo concistoro. »

Inoltre nel Canto xxiv dell’Inferno nomina la costellazione o segno del Zodiaco in cui fu cangiato Ganimede :

« In quella parte del giovinett’anno
« Che ‘lSole i crin sotto l’I]Aquario tempra,
« E già le notti al mezzo dì sen vanno. »

Laomedonte fu l’unico figlio di Ilo e il penultimo re di Troia ; e di lui parlano più a lungo i Mitologi che di tutti i suoi predecessori ; ma lo rappresentano con caratteristiche poco favorevoli, cioè come un gran mancator di fede, non però impunemente. L’ultima cinta delle mura di Troia fu ordinata da Laomedonte, ed i pœti aggiungono eseguita da Nettuno e da Apollo, esuli entrambi dal soggiorno degli Dei, privati del diritto della Divinità e ridotti alla condizione degli uomini. Compiute che furon le mura, il re spergiuro negò la pattuita mercede. Non Apollo e Nettuno soltanto, {p. 418}ma tutti gli Dei ne furono irritati, e mandarono una inondazione ed una pestilenza nella Troade. Così accadde anche allora, come avvien quasi sempre, che son puniti i popoli dei peccati del loro re128. Consultato l’Oracolo, rispose che i Troiani per liberarsi da questi mali dovevano tutti gli anni esporre a un mostro marino una fanciulla di lor nazione per esser divorata come vittima espiatoria. Sulla scelta di questa decideva la sorte, la quale dopo qualche anno cadde sopra Esìone figlia dello stesso Laomedonte. Allora soltanto il re si scosse dalla sua noncuranza, e per salvar la propria figlia promise un gran premio a chi uccidesse l’orca marina che dovea divorarla. In quell’anno stesso aveva Ercole abbandonato gli Argonauti sulle coste della Misia, come dicemmo, e percorreva quella regione limitrofa alla Troade. Avuta notizia dell’editto di Laomedonte, s’impegnò col re di uccidere l’orca, a patto però che gli desse in premio quelle polledre figlie del vento, le quali, come dice Omero,

« Correan sul capo delle bionde ariste
« Senza pur sgretolarle ; e se co’salti
« Prendean sul dorso a lascivir del mare,
« Sulle spume volavano de’flutti
« Senza toccarli. »

Laomedonte promise ; ma, uccisa che fu l’orca, non volle mantener la promessa ; ed Ercole non stette a pregar gli Dei che punissero il re spergiuro e mancator di parola ; ma col proprio braccio e coll’aiuto di Telamone e di pochi altri compagni s’impadronì di Troia, la saccheggiò, uccise Laomedonte, prese Esione liberata dal mostro e la diè per isposa a Telamone suo amico, e portò seco in ostaggio Podarce principe ereditario, che dopo il suo riscatto fu chiamato Priamo.

{p. 419}Questo vocabolo, secondo gli antichi etimologisti, significa riscattato : è dunque un soprannome col quale quest’ultimo ed infelicissimo re Troiano passò alla posterità.

Degli altri figli di Laomedonte rammentati da Omero nei versi sopracitati è notabile soltanto Titone che sposò l’Aurora, come dicemmo. Ora è da aggiungersi che avendo l’Aurora ottenuto per esso dagli Dei l’immortalità, si dimenticò di chiedere ad un tempo la perpetua giovinezza del suo sposo ; e perciò Titone invecchiò tanto che venne in uggia a sè stesso, e desiderò di morire. Gli Dei lo cangiarono in cicala, trasformazione a bella posta inventata dai poeti per significare quanto egli fosse divenuto querulo nell’estrema sua vecchiezza.

Riscattato che fu Priamo e proclamato re di Troia, sposò Ècuba figlia di Dimante re di Tracia, e da essa ebbe molti figli, di ciascuno dei quali dovrà parlarsi nel raccontare le estreme sventure della loro patria ; e prima converrà dire di quello che ne fu causa, cioè di Paride. I poeti si fanno dalla lontana, e veramente ab ovo, narrando che Ecuba quand’era incinta di questo figlio sognò di aver partorito una fiamma che incendiava tutta l’Asia. Gl’interpreti dei sogni dichiararono che il figlio nascituro sarebbe stato causa della rovina della patria. Perciò appena nato i genitori lo fecero esporre in un bosco, perchè perisse di disagio, o fosse divorato da qualche fiera ; ma invece avvenne di lui come di Edipo, che fu trovato vivo da un pastore ed allevato come suo figlio sul monte Ida. Quivi egli crebbe ignaro della sua origine, e fu tra i pastori chiamato Alessandro ; ed egli è quel desso che fu eletto per giudice della bellezza delle tre Dee, come dicemmo. In qual modo poi egli desse causa alla guerra di Troia si dirà subito nel prossimo capitolo.

{p. 420}

LVII

Origine della guerra di Troia
e preparativi per la medesima §

Dopo che Venere ebbe riportato pel giudizio di Paride il più splendido trionfo nel vanto della bellezza sopra tutte le Dee, convenne pure che pensasse a mantener la promessafatta al giudice, di procurargli cioè per moglie la più bella donna del mondo. Ma la più bella donna che allor vivesse era la spartana Elena, rapita prima da Teseo, e poi divenuta moglie del re Menelao, come dicemmo : e questa stessa, secondo le promesse di Venere, doveva divenir moglie dell’umile pastore del monte Ida. Era un tal nodo gordiano da non potersi sciogliere facilmente neppur da una Dea. In quanto al pastore fu trovato il modo di farlo riconoscere per figlio di Priamo e di Ecuba in un torneo in cui Paride vinse tutti i figli del re ; e in tale occasione investigando essi l’origine di lui, scuoprirono che egli era il loro fratello esposto da bambino nelle selve, e per tale lo riconobbero senza pensar più al sogno di Ecuba e all’interpretazione di quello.

Così Paride divenne principe reale, e perciò di nascita pari a quella di Elena ; e come fanno tutti i giovani principi andò a viaggiare negli altri Stati e a visitare le altre corti

« ….. per divenir del mondo esperto
« E degli vizii umani e del valore. »

Se allora fosse morto Menelao, nessun ostacolo esser vi poteva perchè il real principe troiano sposasse la regina vedova spartana. Ma poichè Menelao non volle morir così presto, e {p. 421}Venere era tutt’altro che una Dea sanguinaria e micidiale, ricorse alle arti sue, ed ispirò ad Elena un fatale aborrimento pel marito, talchè la dispose a ripudiarlo e fuggire da esso e seguire spontaneamente Paride a Troia. Elena inoltre, per non andar senza dote al suo nuovo marito, portò via tutti i più preziosi tesori della corte spartana. Menelao, che allora era assente, conosciuto questo fatto molto spiacevole, si affrettò a reclamare la moglie e i tesori : a quel che pare, si sarebbe poi contentato anche dei tesori soltanto, perchè vide bene che la moglie sarebbe stato meglio perderla che riacquistarla. Ma i Troiani non vollero rendere nè l’una nè gli altri. Ecco la vera causa della guerra di Troia, perchè Menelao offeso nei sentimenti di amor proprio e nell’interesse, giurò vendetta e l’ottenne.

D’accordo col suo fratello Agamennone, di lui più potente e più ardito, rappresentò a tutti i principi greci l’offesa dei Troiani come un insulto nazionale, come un’ onta all’intera Grecia ; e la maggior parte di questi principi accorse ad un generale congresso in Argo, ove mossi dalle parole e dall’autorità di Agamennone consentirono a portar guerra di esterminio ai Troiani, ed elessero Agamennone stesso Duce supremo di quell’impresa nazionale e capo di tutti i principi collegati. Ecco perchè egli è chiamato dagli Antichi re dei re, e da Dante lo Gran Duca dei Greci. Fu risoluto che il luogo di convegno per far tutti insieme il passaggio per mare nella Troade sarebbe il porto di Aulide nella Beozia in faccia all’isola di Eubea. Vi accorsero infatti principi ed armati da quasi tutte le parti della Grecia, ma non tanto in fretta, perchè molti ebbero bisogno di prender tempo per prepararsi ; altri pensandovi meglio sembravano pentiti della promessa e indugiavano a bella posta, e mancavano fra gli altri quei due famosi Eroi che meritarono in appresso, per le loro grandi gesta in quell’impresa, di esser fatti da Omero i protagonisti dei suoi due poemi l’Iliade e l’Odissea. E {p. 422}veramente di Achille non sapevasi dove fosse, ed Ulisse dicevasi divenuto pazzo

« D’uom che sì saggio era stimato prima. »

Fortunatamente essendo venuto in Aulide tra i primi Palamede figlio di Nauplio, re della vicina isola di Eubea, egli, ingegnosissimo qual era, sospettò accortamente che Ulisse fingesse di esser pazzo per non andare alla guerra e non lasciare la sua Penelope e il suo Telemaco ; e recatosi in Itaca scuoprì la finzione di lui e lo indusse a seguirlo. Ulisse poi si diede ad investigare dove fosse Achille, e il modo che tenne per trovarlo (poichè dubitava che si nascondesse in abito femminile) fu questo : Si travestì da mercante di gioie, e andò ad offrirle nelle corti alle principesse ed alle loro ancelle ; ed avendo fra i monili donneschi portato ancora una finissima armatura da guerrieri, fu questa che fece palese Achille ; il quale dimenticando il suo travestimento, su di essa fissò il suo sguardo, e a quella diè di piglio, quando appositamente Ulisse fingendo un improvviso assalto, fe’ suonare la tromba di guerra. Fu allora deciso dei futuri destini di Achille. All’eloquente invito di Ulisse s’infiammarono gli spiriti guerreschi del giovane Eroe, e ad una lunga vita effemminata ed oscura preferì una breve esistenza terrena, ma piena di gloria immortale ; nè valse a ritardarlo e trattenerlo in Sciro l’affetto di Deidamia figlia del re, che egli aveva segretamente sposata ; e dalla mollezza e dagli agi della corte di Licomede partì con Ulisse per i duri travagli della guerra.

Intanto in Aulide si erano raccolti tanti guerrieri, che per quanto fece dire Dante a Virgilio,

« ……. Grecia fu di maschi vota
« Sì, che appena rimaser per le cune ; »

{p. 423}ed eran già da 1200 le navi pronte per fare il passaggio nella Troade ; ma il vento spirava sempre contrario alla loro partenza. Allora gl’indovini Eurìpilo e Calcante dissero che per ottenere favorevoli i venti conveniva placar gli Dei con una vittima umana ; e tanto poteva le superstizione a quei tempi, che lo stesso Agamennone re dei re consentì ad immolare la propria figlia Ifigenía, e la immolò difatti, secondo che scrivono i più, e tra questi anche Dante, che rammentando nel Canto v del Paradiso questo barbaro sacrifizio, soggiunge :

« Onde pianse Ifigènia il suo bel volto
« E fe’ pianger di sè i folli e i savi
« Che udîr parlar di così fatto cólto. »

Secondo altri però la Dea Diana impedì così fatto cólto, cioè questo culto o sacrifizio, e trasportò altrove Ifigenia, e in quella vece sostituì per vittima una cerva.

Finalmente dopo avere i Greci aspettato per un anno il vento favorevole, e dopo il sacrifizio o d’Ifigenia o della cerva, gli Dei rimasero placati, i venti spirarono favorevoli, ed Euripilo

« ……. diede il punto con Calcante
« In Aulide a tagliar la prima fune. »

LVIII

Decenne assedio
e battaglie intorno alle mura di Troia §

Nel tempo che i Greci si preparavano per la guerra, i Troiani non stavano inoperosi : fabbricavano armi e addestravano armati ; rafforzavano le antiche alleanze e ne contraevano delle nuove. Priamo era già vecchio ; ma aveva un {p. 424}gran numero di figli esercitati tutti nelle armi, e più valente degli altri Ettore, il più rispettabile Eroe dell’antichità, poichè a lui non si rimprovera alcun difetto, e gli si attribuiscono in sommo grado tutte le virtù pubbliche e private, militari e civili.

Quando l’armata greca con prospera navigazione fu giunta in vista delle coste della Troade, scorse in diversi punti di quelle schierato l’esercito troiano, o ad impedire lo sbarco, o a far costar cara l’invasione. Nessuno dei Greci osava scendere a terra, perchè credevasi che primo perirebbe chi primo scendesse ; e così avvenne infatti a Protesilao, il quale, come dice Omero,

« Primo ei balzossi dalle navi, e primo
« Trafitto cadde dal dardanio ferro, »

e come altri poeti aggiungono, per mano dello stesso Ettore. È ricordata con somme lodi Laodamia moglie di lui affettuosissima, la quale desiderando di veder l’ombra del marito e poi morire, fu trovata estinta nel suo letto e fu detto che era morta dopo averlo veduto in sogno, come desiderava. Molti altri perirono in quel primo scontro, che non ebbero ugual fama, e colla loro morte pagarono il primo tributo di sangue al Dio della guerra. Ma, finalmente, respinti i Troiani, poterono i Greci, tirate a terra le navi, avanzarsi nella Troade.

Ora convien dire che ai tempi nostri non si capisce facilmente qual genere di guerra intendessero i Greci di fare ai Troiani, ossia qual fosse la loro tattica e il loro disegno, o, come suol dirsi francescamente, il piano di guerra, perchè non cinsero mai la città di Troia in modo che non potesse ricever di fuori e viveri e truppe ausiliarie, nè mai, per nove anni, assaltarono la città ; e invece facevano scorrerie sulle terre vicine, saccheggiavano le altre città e ne menavano schiavi gli abitanti ; e solo nel decimo anno tutti i loro sforzi {p. 425}si diressero contro Troia. Trovarono forse degli ostacoli che non avevano preveduti : la mancanza di provvisioni li costringeva a sbandarsi per vettovagliare, e non potevano perciò cingere talmente d’assedio la città da bloccarla ; nè fino al decimo anno osarono di assaltarla ; nè i Troiani di abbandonare il sistema difensivo. I fatti perciò e gli avvenimenti di quei primi nove anni si riducono a pochi : la noia e la stanchezza divenivano sempre più generali ed intollerabili ; e perciò inventarono giuochi, fatalità e superstizioni per tenere a bada i soldati, e pascere di speranze la loro credulità. Attribuivasi infatti a Palamede l’invenzione del giuoco degli scacchi e dei dadi, della tessera o contrassegno, delle sentinelle e delle evoluzioni militari ; e si aggiunge inoltre di quattro lettere dell’alfabeto greco. Il suo ingegno straordinario meritava però miglior sorte, poichè di lui si racconta che fu condannato a morte dai Greci per falso sospetto di tradimento ; e questo giudizio fu dichiarato iniquo da Platone stesso nel discorso che ei riferisce come fatto da Socrate ai giudici che lo condannarono 129. Fu un infame delitto di Ulisse quello di far comparir reo Palamede per mezzo di falsi documenti di corrispondenza col nemico, sotterrati a bella posta nella tenda di esso. Anche Virgilio nel libro ii dell’Eneide parla di Palamede, e ne fa da Sinone attribuire la morte all’invidia e al tradimento di Ulisse in questi termini, secondo la traduzione di Annibal Caro :

« Non so se, ragionandosi, agli orecchi
« Ti venne mai di Palamede il nome,
« Che nomato e pregiato e glorïoso,
{p. 426}« E da Belo altamente era disceso ;
« Se ben con falso e scellerato indizio
« Di tradigion, per detestar la guerra,
« Ei fu da’Greci indegnamente ucciso :
« Com’or che ne son privi, i Greci stessi
« Lo piangon tutti. A questo Palamede,
« A cui per parentela era congiunto,
« Il pover padre mio ne’miei prim’anni
« Pria per valletto nel mestier dell’armi,
« Poi per compagno a questa guerra diemmi.
« Infin ch’ei visse, e fu ‘l suo stato in fiore,
« Fioriro anco i miei giorni ; e l’opre e’l nome
« E’l grado mio ne fur talvolta in pregio.
« Estinto lui (chè per invidia avvenne,
« Come ognun sa, del traditore Ulisse),
« Amaramente il piansi. »

Ma che Ulisse avesse ciò fatto per vendicarsi di Palamede, che aveva scoperto la sua simulazione d’insania e costrettolo a partir per la guerra, non è facile dimostrarlo, in quanto che Omero non ne parla, e perciò appunto Cicerone non lo crede, e stima invece che sia questa una invenzione dei Tragici 130. Se però il fatto esiste, qualunque ne fosse il motivo, nessuno scusa nè assolve Ulisse di avere inventato una sì nera calunnia.

Immaginarono poi certe fatalità, come le chiamano i Mitologi, cioè decreti del fato, che dovevano avverarsi o compiersi affinchè Troia potesse esser presa dai Greci ; e perciò furono dette le fatalità di Troia. Se ne contano sei :
{p. 427}Fatalità. — Doveva prender parte alla guerra di Troia un discendente di Eaco ; e questa fatalità si avverò la prima colla venuta di Achille, che era figlio di Peleo e nipote di Eaco, e perciò chiamato dai poeti il Pelìde e l’Eàcide.

Fatalità. — Dovevano aversi nel campo greco le freccie d’Ercole, che quest’Eroe morendo lasciò a Filottete coll’obbligo di non manifestarle ad alcuno, come dicemmo. I Greci pregarono tanto Filottete che ei le portò in Aulide ; ma in pena di aver mancato alla promessa fatta ad Ercole, nel maneggiar quelle freccie che erano tinte nel sangue dell’Idra di Lerna, glie ne cadde una in un piede, e gli cagionò una piaga così fetente, che i Greci nell’andare a Troia lo abbandonarono solo nell’isola di Lenno. In appresso però avendo bisogno di quelle freccie, lo andarono a riprendere e lo fecero curare dai medici dell’armata Macaone e Podalirio, figli di Esculapio, che lo guarirono.

Fatalità. — Doveva divenire amico un nemico ; e questi era Tèlefo re di Misia. Telefo, quantunque di sangue greco per parte di padre perchè era figlio di Ercole, essendo divenuto re di Misia, regione limitrofa alla Troade, dovè, per ragion di Stato, fare alleanza con Priamo contro i Greci ; e l’esercito greco per assicurarsi i fianchi e le spalle, prima d’investir Troia invase gli Stati limitrofi. Telefo vinto in battaglia fu costretto a fuggir dal suo regno ; e per maggiore sciagura rimase colpito dall’asta di Achille, le cui ferite erano insanabili. Consultato l’Oracolo, gli rispose che l’asta sola che lo aveva ferito poteva sanarlo. Dovè dunque, se volle ricuperar la salute e conservarsi in vita, raccomandarsi ai nemici e sottostare a qualunque condizione. Guarito colla limatura del ferro di quell’asta rimase nel campo greco in adempimento dei patti, e divenne amico dei Greci per sentimento di gratitudine. Dante rammenta questa virtù dell’asta di Achille nei seguenti versi del Canto xxx dell’Inferno :

{p. 428}« Così od’io che soleva la lancia
« D’Achille e del suo padre esser cagione
« Prima di trista e poi di buona mancia. »

Fatalità. — Bisognava impedire che i cavalli di Reso re di Tracia, bevessero le acque del fiume Xanto ; il che significava di impedire a Reso di recar soccorsi a Troia ; ed era questa non già una superstizione, ma una necessaria precauzione di guerra. Ulisse e Diomede provvidero che si avverasse questa fatalità, uccidendo Reso prima che arrivasse a Troia e portando nelle greche trinciere i cavalli di lui.

Fatalità. — Dovevano i Greci impadronirsi del Palladio che era nel tempio di Pallade dentro alla rocca di Troia. Ulisse e Diomede essendo penetrati in Troia travestiti da mendici, uccisero alla sprovvista i custodi della fortezza e rapirono il Palladio e lo portarono nel campo greco. Questo fatto straordinario è rammentato da Virgilio ne lib. ii dell’Eneide 131, e da Dante nel C. xxvi dell’Inferno.

Dante pose nel Limbo

« ………. il grande Achille
« Che con amore alfine combatteo ; »

ma nell’Inferno il fraudolento Ulisse col suo compagno Diomede circondati ambedue dalle fiamme :

« ……… e così insieme
« Alla vendetta corron come all’ira ;
« E dentro dalla lor fiamma si geme
« L’aguato del caval che fe’ la porta
« Ond’uscì de’Romani il gentil seme.
{p. 429}« Piangevisi entro l’arte, perchè morta
« Deidamia ancor si duol d’Achille,
« E del Palladio pena vi si porta. »

Fatalità. — Dovevasi abbattere il sepolcro di Laomedonte : e questa fatalità fu compiuta per opera dei Troiani stessi il giorno avanti l’eccidio della loro città, come vedremo.

Nel decimo anno del lungo e lento assedio di Troia avvennero intorno alle mura di essa le più memorabili battaglie, che furono narrate maravigliosamente da Omero. L’Iliade ne contiene la lunga serie ; e perciò per traslato suol dirsi un’iliade di sventure a significare una lunga serie di esse. Sebbene il titolo d’Iliade che diede Omero al suo poema, derivando da Ilio, appelli in generale alle vicende di Troia, il poeta sovrano ne ristrinse così i limiti nella proposizione del soggetto :

« Cantami, o Diva, del Pelìde Achille
« L’ ira funesta che infiniti addusse
« Lutti agli Achei, molte anzi tempo all’Orco
« Generose travolse alme d’eroi,
« E di cani e di augelli orrido pasto
« Le salme abbandonò (così di Giove
« L’alto consiglio s’adempia), da quando
« Primamente disgiunse aspra contesa
« Il re de’prodi Atride e il divo Achille. »

Omero dunque cantò nell’Iliade l’ira di Achille e le funeste conseguenze di quella. Il poema comincia dal narrare la causa che produsse l’inimicizia fra Achille ed Agamennone, e termina con la morte e le esequie di Ettore. Il tempo in cui avvennero tutti i fatti ivi narrati si estende, secondo i computi degli eruditi, tutt’al più a 51 giorno.

Anche chi non abbia prima d’ora letto l’Iliade, potrà, dopo l’introduzione da me fatta di sopra a questa lettura, intender tutto il poema senza fatica. Supponendo pertanto {p. 430}che quanto prima leggerà questo poema chiunque non l’abbia ancor letto, accennerò brevissimamente i fatti principali che vi si contengono, per l’obbligo che mi corre di non lasciar lacune nel mio umile racconto.

La causa che inimicò Achille con Agamennone fu una prepotenza del re dei re. Era uso comune in quelle antiche guerre da masnadieri devastar prima ed uccidere, e poi rapire non solamente le cose ma pur anco le persone e dividersi le prede fra i combattenti. Le persone divenivano schiave ed eran trattate come bestie da soma. Finchè durò il Paganesimo, tutti i popoli antichi, anche i più civili, e gli stessi Romani, consideravano gli schiavi non come persone, ma come cose. — Aveva Agamennone una schiava chiamata Crisèide perchè figlia di Crisa sacerdote e re ; e venuto il padre a riscattarla con ricchi doni, era stato respinto da Agamennone stesso con modi aspri e minacciosi. Poco dopo infierendo una pestilenza nel campo greco, fu creduta una vendetta di Apollo per l’insulto fatto al suo sacerdote. Ciò disse l’indovino Calcante in pubblico parlamento, e quindi incoraggiato e rassicurato da Achille dichiarò che bisognava render Criseide al padre con doni ed offerte ad Apollo per placare quel Nume e far cessare la pestilenza. Agamennone s’impermalì di trovarsi costretto a render Criseide, e imbizzarrito insultò Calcante, e disse di volere un’altra schiava in compenso, diversamente toglierebbe a forza quella che più gli piacesse a qualunque degli altri capitani, foss’anche lo stesso tremendissimo Achille. Seguì allora una tale altercazione con parole e frasi sì poco parlamentari, che fu per terminare colla uccisione di Agamennone per mano di Achille, se questi non era trattenuto dalle eloquenti esortazioni del vecchio Nestore, e più ancora dalla Dea Minerva, che

« Gli venne a tergo e per la bionda chioma
« Prese il fiero Pelide, a tutti occulta,
« A lui sol manifesta, »

{p. 431}e gl’impedì di uccidere il re dei re. Obbedì Achille, ma giurò per altro di non più combatter per esso. E ritiratosi nelle sue navi con Patroclo suo inseparabile amico e coi suoi Mirmidoni non si oppose, benchè in cuor suo ne fremesse, a lasciar condur via dagli araldi mandati da Agamennone, la sua schiava Briseide, rispettando in essi il diritto delle genti, e confidando che farebber le sue vendette i nemici. Infatti i Troiani, conosciuta l’ira e la volontaria inazione di Achille, presero coraggio ad assaltare i Greci, ed in pochi giorni furon date le più straordinarie e famose battaglie che sieno mai state descritte, con vicende così mirabili che furon copiate o imitate da tutti i poeti epici. Son però belle e mirabili colla lor veste poetica : diverrebbero monotone narrandole in prosa, ora tanto più che le armi da fuoco hanno resa inutile la straordinaria forza del braccio, e che il più debole artigliere col suo cannone è più potente e più micidiale di Achille e di Diomede colle spade e colle lance.

Convien qui notare quel che i rètori hanno chiamato la macchina, cioè l’intervento personale delle Divinità nelle contese degli uomini ; e nella guerra troiana le Divinità che vi prendono parte perdono anzichè guadagnare della lor dignità. È facile indovinare che Venere favorirà i Troiani in grazia del giudizio di Paride, e che Marte campione di Venere la seconderà in tutto e per tutto ; e per le opposte ragioni Giunone e Minerva, per dispetto cioè del giudizio di Paride e per invidia di Venere, perseguiteranno i Troiani e favoriranno i Greci ; e così altre Divinità, secondo le loro simpatie o antipatie, come fanno i mortali, prenderanno parte o per gli uni o per gli altri combattenti 132.

{p. 432}Il fatto più strano che si possa immaginare si è che Venere e Marte furon feriti in battaglia da Diomede : sangue non uscì dalle loro immortali, eppure non invulnerabili membra, ma quasi sangue, cioè un certo umore che i celesti, per quanto ci assicura Omero, chiamano icòre,

« Qual corre de’beati entro le vene ;
« Ch’essi nè frutto cereal gustando,
« Nè rubicondo vino, esangui sono,
« E quindi han nome d’Immortali. »

Per quanto i capitani greci facessero prodigi di valore a gara con Diomede, la sorte era contraria al loro esercito, il quale rimaneva quasi sempre perdente e respinto : ad ogni battaglia cresceva il numero dei morti e dei feriti in grandi proporzioni, e per conseguenza lo scoraggiamento dei superstiti ed illesi. Si notò allora con dolore l’assenza di Achille, e sorse vivissimo in tutti i cuori il desiderio di lui : lo stesso Agamennone si pentì di averlo insultato. E Achille intanto nelle sue sicure tende godeva delle sconfitte dei Greci ; e per quanto Agamennone gli offrisse per mezzo dei più illustri personaggi della sua armata, oltre la restituzione di Briseide, i più ricchi doni ed una delle proprie figlie in isposa, Achille stette fermo al niego e respinse sdegnosamente qualunque proposta di conciliazione. Qualche giorno dopo, peggiorando sempre le condizioni del greco esercito,

« ………… chè quanti
« Eran dianzi i miglior, tutti alle navi
« Giacean feriti, quale di saetta,
« Qual di fendente : di saetta il forte
« Tidìde Diomede, e di fendente
« L’inclito Ulisse e Agamennòn ; »

si presentò Patroclo piangendo ad Achille, e lo pregò di permettergli almeno di combatter egli con le divine armi {p. 433}di lui per trattenere alquanto l’impeto dei Troiani che stavano per irrompere nelle greche trincee. L’ottenne ; ma la sua pietà gli costò cara, perchè dopo aver dato prove di mirabil valore facendo strage dei nemici, quand’era già stanco incontrò Ettore, e combattendo con lui rimase ucciso. Il tristo annunzio colpì talmente Achille, che dopo aver con gemiti e con pianto sfogato il suo immenso affanno rivolse contro Ettore, per vendicar l’amico estinto, tutta l’ira che aveva prima contro Agamennone. Non voleva aspettare un sol giorno le nuove armi che la madre Teti gli fece far da Vulcano (poichè delle antiche, imprestate a Patroclo, erasi impadronito Ettore) ; e appena l’ebbe indossate si mischiò tra i combattenti spingendo furiosamente il suo cocchio in cerca dell’uccisore di Patroclo. Trovatolo e costringendolo subito a combattere non volle udir patti, neppur di render la salma ai parenti e al sepolcro ; con impeto irrefrenabile lo investì, lo ferì, lo abbattè, l’uccise ; e spogliatolo delle armi e legatigli i piedi al suo carro, lo trascinò per tre volte nella polvere intorno alle mura di Troia ; e poi tornato alle sue tende lo trascinò altre volte intorno al cadavere di Patroclo, quasi che l’estinto amico dovesse esultar degli strazii del cadavere del suo uccisore. Compiuti poi solennemente i funebri onori e raccolte le ceneri del fido amico nell’urna stessa destinata ad accoglier le sue, aveva risoluto di lasciar pasto alle fiere dell’aria e della terra il corpo di Ettore ; quando la sera vede comparire nella sua tenda il vecchio re Priamo, che inginocchiatosi davanti a lui gli bacia piangendo quella mano che gli uccise il figlio, e lo prega singhiozzando di rendergli il corpo di Ettore per dargli sepoltura, offrendo per riscatto ricchissimi doni che seco aveva recati. A questa vista Achille si sente commosso e diventa un altr’uomo ; fa alzare da terra il vecchio re, lo vuol seco a mensa, lo costringe a prender seco qualche cibo e bevanda, pietosamente piange al suo pianto, e gli accorda il corpo del suo figlio senza alcun {p. 434}riscatto. Anzi per aver tempo di far lavare e sparger di balsami quel deformato cadavere, obbliga Priamo a dormir quella notte nella sua tenda, e la mattina gli fa trovare imbalsamata la salma di Ettore in un funebre carro coperto di un ricchissimo manto e gli assegna un drappello di Mirmidoni che lo accompagnino sino a Troia. Colla descrizione dei funebri onori resi ad Ettore in Troia termina l’Iliade, la quale chiudesi con le seguenti semplicissime parole :

« Questi furo gli estremi onor renduti
« Al domatore di cavalli Ettorre. »

Anche Ugo Foscolo termina il suo celebre Carme sui Sepolcri con le lodi di quest’Eroe Troiano morto in difesa della patria :

« E tu onore di pianti, Ettore, avrai
« Ove fia santo e lagrimato il sangue
« Per la patria versato, e finchè il Sole
« Risplenderà sulle sciagure umane 133. »

Parrebbe che dopo la morte di Ettore, che era il più formidabil guerriero Troiano, e sopravvivendo tuttora Achille, dovesse Troia esser presa e disfatta dai Greci in pochi giorni ; ma non fu così. Apparisce invece che per la stanchezza delle precedenti battaglie e per le gravi ferite che avevano tocche i più dei capitani di ambe le parti, vi fosse, senza bisogno di pattuirla, una tregua necessaria indispensabile. È da credersi ancora che Achille dopo essersi intenerito per Priamo s’intenerisse non meno per Polissena figlia di lui, poichè aderì alla proposta fattagli di sposarla, e per trattarne andò nel tempio di Apollo, ove Paride a tradimento lo ferì nel calcagno, sola parte del suo corpo in cui egli era {p. 435}vulnerabile, e tagliatogli quel tendine, che d’allora in poi fu chiamato di Achille, gli cagionò la morte. Dolenti i Greci di aver perduto il loro principal sostegno, gli resero onori divini, gli eressero un monumento sul promontorio Sigèo, e chiusero le sue ceneri nella stessa urna ov’eran quelle di Patroclo, com’egli avea desiderato.

Insorse quindi una grave contesa per decidere chi dovesse possedere quelle armi che furono opra di Vulcano, impareggiabili per tempra e per lavoro. Rimasero i più ostinati a contrastarsele Aiace Telamonio ed Ulisse ; quegli più prode di braccio, questi più valente di consiglio. In pubblico parlamento esposero entrambi i loro titoli ad avere la preferenza, ma vinse Ulisse col fascino della sua facondia ; e Aiace ne rimase così indignato che perdè il senno, e divenuto furibondo, mentre errava per la campagna incontrò una mandra di porci, e credendoli altrettanti greci li uccise tutti : quindi in un lucido intervallo accortosi del suo errore e della sua sventura intellettuale si tolse da sè stesso la vita colla propria spada.

Per la morte di Achille veniva a mancare nel campo greco la presenza di un Eacide, e perciò la prima delle fatalità di Troia, di cui abbiamo parlato. Ma Ulisse sapeva bene che di Achille esisteva un figlio nato da Deidamia, e vivente anche allora alla corte dell’avo suo Licomede in Sciro : quindi andò ad invitarlo a recarsi al campo di Troia per vendicar la morte del padre ; e Pirro, degno figlio di Achille, non ebbe mestieri di altre parole per seguire Ulisse ; e quantunque giunto appena alla pubertà,

« Tra giovane e fanciullo età confine,
« L’età precorse e la speranza : e presti
« Pareano i fior quando n’usciro i frutti. »

I Greci gli posero il soprannome di Neottòlemo, che significa il nuovo venuto alla guerra, il nuovo guerriero.

{p. 436}Al tempo stesso Ulisse, al suo ritorno con Pirro, passò per l’isola di Lenno per ricondurre al campo greco Filottete, abbandonato, come dicemmo, in quell’isola, ove pel dolor della sua ferita, di cui non era ancora guarito, condusse una vita piena di affanni e di privazioni. Non fu già in Ulisse commiserazione per la disgrazia di Filottete, ma calcolo di politica per aver nuovamente nel campo greco le freccie d’Ercole in adempimento di una delle fatalità di Troia. Filottete infatti non si fidava di Ulisse, e solo consentì e si risolse di andar con lui, rassicurato che fu dalle parole del giovinetto Pirro che tanto somigliava il leale e generoso Achille. Giunto nel campo greco fu guarito da Macaone e Podalirio figli di Esculapio ; e allora mise in opera subito una di quelle freccie saettando Paride, che di quella ferita morì. La qual morte del rapitore di Elena diede la maggior soddisfazione all’offeso Menelao, e tolse di mezzo un altro ostacolo a terminar finalmente in qualche modo la lunga e disastrosa guerra.

Prima però di raccontare l’eccidio di Troia, convien far parola, almeno incidentalmente, di quei principi e guerrieri, amici ed alleati dei Troiani che recaron loro soccorso personalmente e perderon per essi la vita in battaglia. Fra questi v’eran due Semidei, cioè Sarpèdone figlio di Giove e di Laodamia, e Mènnone figlio dell’Aurora e di Titone. Essendo ambedue re, il primo della Licia ed il secondo dell’Etiopia, andarono alla guerra con una schiera di lor gente, e furono entrambi uccisi in battaglia da Achille, o secondo altri da Ulisse. Dopo la loro morte accaddero dei miracoli : il corpo di Sarpèdone fu trasportato invisibilmente (si dice da Apollo per ordine di Giove) nel suo regno di Licia perchè i suoi popoli gli rendessero solennemente i funebri onori.

Dal rogo di Mènnone, mentre il suo corpo ardeva uscirono degli uccelli di una nuova specie non prima veduta, che furon chiamati uccelli Mennònidi ; ma non v’è stato mai {p. 437}da sapere a qual classe appartenessero, secondo la nomenclatura degli Ornitologi. Si racconta ancora un altro miracolo, che dalla statua di Mènnone, quando era percossa dai raggi del Sole, uscivano suoni musicali come quelli di una cetra : i sacerdoti facevan credere al volgo che lo spirito di Mènnone animando quella statua tramandasse quei suoni per salutare il Sole suo avo quando la irradiava ; ed erano essi che penetrando per occulti accessi nella cavità della statua suonavano a quelle date ore una cetra.

Non convien passar sotto silenzio la regina delle Amazzoni Pentesilèa, che Virgilio e Ovidio asseriscono essere accorsa in aiuto dei Troiani con una schiera delle sue compagne e che fu uccisa da Achille. Virgilio così la descrive nel lib. i dell’Eneide :

« Scorge d’altronde di lunati scudi
« Guidar Pentesilèa l’armate schiere
« Dell’Amazzoni sue : guerriera ardita
« Che succinta, e ristretta in fregio d’oro
« L’adusta mamma, ardente e furïosa
« Tra mille e mille, ancor che donna e vergine,
« Di qual sia cavalier, non teme intoppo. »
(Traduzione del Caro).

E Dante asserisce di averla veduta nel Limbo colle Eroine :

« Vidi Camilla e la Pentesilea
« Dall’altra parte. »

LIX

Eccidio di Troia §

L’invenzione del cavallo di legno per prender la città di Troia è non solo di nuovo genere, ma unica nel suo genere. Omero dice che fu uno stratagemma, Virgilio un’insidia e Dante un aguato. Dante, secondo il solito, ne fa soltanto un {p. 438}cenno, perchè sempre suppone noto ai suoi lettori tutto ciò che hanno scritto i classici greci e latini, e principalmente Omero e Virgilio, mentre questi non pensano e non rivolgono mai il discorso ai loro lettori, e narrano o descrivono a lungo quanto suggerisce o ispira loro la Musa, senza curarsi se a chi legge sia noto o no quel che essi dicono, o sono per dire.

Omero nel libro viii dell’Odissea, parlando del cavallo di legno, lo chiama

« ……………. l’edifizio
« Del gran cavallo che d’inteste travi
« Con Pallade al suo fianco Epeo costrusse,
« E Ulisse penetrar feo nella rôcca
« Dardania, pregno (stratagemma insigne !)
« Degli eroi per cui Troia andò in faville. »
(Traduz. di Pindemonte.)

E Virgilio nel libro ii dell’ Eneide facendo narrare da Enea la presa e l’incendio di Troia palesa pur anco il motivo per cui ricorsero i Greci a questa insidia :

« ……….. Sbattuti e stanchi
« Di guerreggiar tant’anni, e risospinti
« Ancor da’ fati i greci condottieri
« All’insidie si diero ; e da Minerva
« Divinamente instrutti un gran cavallo
« Di ben contesti e ben confitti abeti
« In sembianza d’un monte edificaro.
« Poscia finto che ciò fosse per vóto
« Del lor ritorno, di tornar sembiante
« Fecero tal che se ne sparse il grido.
« Dentro al suo cieco ventre e nelle grotte,
« Che molte erano e grandi in sì gran mole,
« Rinchiuser di nascoso arme e guerrieri
« A ciò per sorte e. per valore eletti. »
(Traduz. del Caro.)

{p. 439}Veramente benchè il cavallo contenesse molti armati (dicono trecento), e questi fossero i più prodi guerrieri capitanati dall’accortissimo Ulisse, fu un grande azzardo chiudersi come in una torre di legno nelle vicinanze di Troia, mentre il rimanente dell’esercito era già partito sulle navi e ritiratosi dietro l’isola di Tènedo, venti e più miglia distante. Nè mancò fra i Troiani chi proponesse d’incendiar quel cavallo di legno, o gettarlo nel mare, o farlo a pezzi, sospettandovi dentro un inganno dei Greci ; e per quanto gli Antichi si sieno affaticati a scusar l’opposta deliberazione, inventando superstizioni, miracoli e frodi di Sinone, non son mai riusciti a far creder perdonabile la cecità dei Troiani ; i quali non solo rispettarono come un voto sacro a Minerva quel cavallo, ma lo trasportarono nella loro fortezza, abbandonandosi spensieratamente alla gioia per la partenza dei Greci, ai conviti, all’ebbrezza ed al sonno. E nella notte usciti dal cavallo i guerrieri che vi si erano racchiusi, e tornati indietro da Tenedo i soldati della greca flotta, invadono la città sepolta nel sonno e nel vino, come dice Virgilio134, la incendiano e distruggono, uccidendo chi resisteva e facendo schiavi gl’ inermi, gl’ imbelli e le donne che non furono in tempo a mettersi in salvo altrove. Ecco in poche parole il tragico avvenimento della presa di Troia ; ma gli episodii son tanti che empirebbero un volume, e conviene almeno accennarne i principali e più famigerati.

L’episodio di Laocoonte fu reso celebre non solo da Virgilio, ma anche dalla greca scultura. Laocoonte sacerdote di Apollo fu uno di quei Troiani che volevano incendiare o in qualunque altro modo distruggere il cavallo di legno, e inoltre gli scagliò un dardo che rimase confitto nel fianco e fece risuonare le interne cavità. Poco dopo avvenne (vero o {p. 440}falso che sia) che due grossi serpenti si avvinghiarono a lui e a due suoi figli e li strangolarono tutti e tre. Fu detto subito che questo era un castigo di Minerva, perchè Laocoonte aveva violato quel dono a lei offerto in voto dai Greci. Questo fatto orribile fu rappresentato dal greco scalpello in un gruppo (esistente tuttora nella galleria del Vaticano) nel quale vedesi Laocoonte con i due suoi figli in atto di fare i supremi sforzi per liberarsi da quelli spaventevoli serpenti che li cingono con le loro spire. Può vedersene anche una copia in marmo (fatta da Baccio Bandinelli) nella galleria degli Uffizi in Firenze.

Delle astuzie poi e delle frodi del greco Sinone per farsi credere nemico dei Greci e indurre i Troiani a portare in Troia il cavallo di legno, oltre al farne la più eloquente narrazione Virgilio, ne parla anche Dante, che mette Sinone nell’Inferno tra i fraudolenti, e fa che un altro dannato altercando con esso gli rimproveri le sue frodi, dicendogli :

« Ma tu non fosti sì ver testimonio
« Là ‘ve del ver fosti a Troia richiesto.
« Ricorditi, spergiuro, del cavallo,
« E sieti reo, chè tutto il mondo sallo. »

Quanto ai principali guerrieri che entrarono nel cavallo sarà bene di conoscerne i nomi riferiti da Virgilio, per intendere qual grave perdita sarebbe stata per l’esercito greco se fossero periti tutti questi illustri Eroi,

« Che fur Tessandro e Stenelo ed Ulisse,
« Acamante e Toante e Macaone
« E Pirro e Menelao con lo scaltrito
« Fabbricator di quest’inganno, Epeo. »
(Traduz. del Caro.)

Virgilio racconta ancora con qual facilità trasportarono i Troiani in poche ore quell’immenso e pesantissimo cavallo {p. 441}pieno d’armi e d’armati dal campo greco fin dentro Troia, ed anche nell’alto della rôcca ; il qual racconto è da far maravigliare tutti i moderni Ingegneri e Meccanici, se lo credessero vero. Non ostante non sarà male il sentir come fecero i Troiani, secondo quel che Virgilio fa dire da Enea :

« Ruiniamo la porta, apriam le mura,
« Adattiamo al cavallo ordigni e travi,
« E ruote e curri ai piedi e funi al collo.
« Così mossa e tirata agevolmente
« La macchina fatale, il muro ascende
« D’armi pregna e d’armati. Ella per mezzo
« Tratta della città, mentre si scuote,
« Mentre che nell’andar cigola e freme,
« Sembra che la minacci. »

Fu in quel giorno che si avverò l’ultima fatalità di Troia, che consisteva, come dicemmo, nell’atterrare il sepolcro di Laomedonte ; il qual sepolcro essendo addossato alle mura della città in quel punto stesso ove fu necessario rovinarle per farvi passare il cavallo, venne così ad essere atterrato dai Troiani stessi.

Ma più che all’insidia del cavallo di legno è probabile che dovessero i Greci la presa di Troia al tradimento. Tal ne corse la fama che fu accolta come nunziatrice del vero anche da celebri scrittori, e tra questi dall’Alighieri. Fu detto antichissimamente che Antènore nipote di Priamo ex sorore tradisse i Troiani, e che perciò potè uscire illeso di mezzo alle argive schiere e trasportarsi in Italia, ove fondò Padova. Che anche Dante avesse di lui questa opinione lo dimostrò coll’aver dato il nome di Antenòra a quella divisione dell’Inferno in cui son puniti i traditori della patria, tra i quali trovò il Conte Ugolino. Ma gli scrittori greci per non menomare il merito dei loro Eroi nascosero più che {p. 442}poterono il tradimento, talchè a noi di quel fatto così remoto

« Debil’aura di fama appena giunge. »

Il sospetto di tradimento cresce ancora dal sapersi che Elena dopo la morte di Paride, pur restando nella corte troiana, aveva saputo trovare il modo di persuader Menelao a riprenderla per moglie al suo ritorno in Grecia, come difatti avvenne. Anche di Enea fu detto da qualche scrittore di minor conto che egli fosse stato in qualche modo d’accordo coi Greci ; ma oltre che di sì grave accusa non si trova traccia alcuna in Omero, egli è poi sì altamente encomiato come il pio Enea nel poema epico di Virgilio, che lo stesso Dante ha detto di lui :

« Ch’ei fu dell’alma Roma e del suo impero
« Nell’empireo Ciel per padre eletto. »

Di Enea dunque sarà necessario parlare a lungo in un capitolo a parte.

Fra gli episodii però dell’eccidio di Troia uno dei più lagrimevoli è quello della morte del vecchio re Priamo, che dopo aver veduti spenti i suoi più prodi e più cari figli, oltre una gran parte dei suoi sudditi, e presa e incendiata dai Greci la sua città, fu ucciso per mano di Pirro. Nè qui si arrestò la vendetta del giovane guerriero, che impadronitosi di Polissèna, causa innocente della morte di Achille, la uccise sulla tomba del padre, in sacrifizio di espiazione all’ombra di lui. Nè meno miseranda è la fine di Ecuba. Fu allora che

« Ecuba trista, misera e cattiva,
« Poscia che vide Polissena morta
« E del suo Polidoro in su la riva
« Del mar si fu la dolorosa accorta,
« Forsennata latrò siccome cane ;
« Tanto il dolor le fe’ la mente torta. »

{p. 443}Gli Antichi dissero che Ecuba per aver provato tante sciagure, piangendo sempre ed urlando per disperato dolore, fu cangiata dagli Dei per compassione in cagna ; ma parve a Dante poco dignitosa per Ecuba questa metamorfosi, e pietosamente la modificò dicendo, come abbiam riportato di sopra :

« Forsennata latrò siccome cane, »

e con tale espressione mentre alludeva alla mitologica invenzione, la interpretò al tempo stesso secondo le più comuni leggi dell’umana natura, che cioè Ecuba, oppressa in sì breve tempo da tanti atroci dolori d’animo, avesse perduto la ragione e finito i suoi giorni gemendo ed urlando. Tutti gli altri e figli e parenti di ambo i sessi della famiglia di Priamo divennero schiavi dei Greci, e principalmente di Pirro e di Agamennone : e delle loro vicende parleremo in appresso secondo l’ordine cronologico degli avvenimenti.

Le incomparabili sciagure di questa regia famiglia hanno sempre ispirato gli artisti antichi e i moderni a rappresentarle in tele e in marmi ; ed anche il vivente scultore Pio Fedi col suo mirabil gruppo di quattro statue, chiamato volgarmente il ratto di Polissena (ratto ben diverso pel significato della parola, e negli effetti, da quello delle Sabine), ha dimostrato che non è inutile neppure ai giorni nostri lo studio dei Classici e della Mitologia. In quel gruppo vedesi Pirro che si è impadronito di Polissena e la sostiene col braccio sinistro sollevata da terra e stretta al suo fianco, mentre colla destra alzando la spada minaccia Ecuba che inginocchiata e supplicante tenta invano di trattenerlo e di commuoverlo a rendergli la figlia ; e sul suolo fra i piedi di Pirro giace moribondo Polite, uno dei figli di Priamo. 135.

{p. 444}

LX

Ritorno dei Greci in patria §

Incendiata la città di Troia, e divise fra i vincitori le prede, nessun’altra maggior premura ebbero i Greci che di ritornare in patria dopo tanti anni, tanti pericoli e tante fatiche, ora finalmente lieti della vittoria e paghi della più tremenda e memorabil vendetta. Le prede non eran soltanto di schiavi e di schiave, ma anche di ricchi tesori che i Greci non avevan dimenticato di rapire dai troiani palagi prima che vi giungesser le fiamme. Furon tutti contenti della lor parte di preda ; ma la dissenzione si manifestò tra loro per decidere della partenza. Compiuta l’impresa e cessato il pericolo, ognuno si credè sciolto da qualunque vincolo di subordinazione al comandante supremo ; e lo stesso Menelao che sempre era stato così concorde col fratello Agamennone, in questo discordò da lui, e volle partire con pochi altri il secondo giorno dopo la presa di Troia. Si unirono ad esso il vecchio Nestore, Ulisse e Diomede, e veleggiarono insieme sino all’isola di Tenedo. Costì nuovamente si divisero : Ulisse tornò indietro alle spiaggie di Troia, e gli altri si diressero verso la patria, ognuno con le proprie navi ed i proprii sudditi superstiti senza dipender più dagli altrui consigli o deliberazioni.

{p. 445}Agamennone era rimasto accampato intorno alle fumanti rovine di Troia insieme con Pirro figlio di Achille e gli altri capitani che non vollero partire con Menelao. Nel tempo che ivi si trattenevano per placare con sacrifizii e rendersi propizia la Dea Minerva, accadde un altro fatto tragico e molto compassionevole in uno dei superstiti della infelicissima famiglia di Priamo. Tra gli schiavi di Pirro v’era Andròmaca, vedova del famoso Ettore. Questa aveva un figlio chiamato Astianatte, bambin leggiadro come stella, dice Omero, unica speranza della madre, unico rampollo di quell’eroe. La madre al primo romore della presa di Troia lo mandò a nascondere nel sepolcro di Ettore fuori della città ; e poi divenuta schiava di Pirro andava segretamente a portar cibo al piccolo Astianatte rimasto solo in quella tomba, e si tratteneva con lui più che poteva per fargli compagnia ed avvertirlo del pericolo che correva, se fosse scoperto. Ma Pirro se ne accorse, e salito nella tomba ov’era nascosto il bambino, lo afferrò per un piede e lo scagliò lontano nella sottoposta campagna ove morì sul colpo. Un figlio dell’ucciso Ettore che sopravvivesse al padre era sempre un imminente pericolo pel figlio dell’uccisore.

Anche questo tragico fatto fu espresso in marmo dal celebre scultore Lorenzo Bartolini in un gruppo in cui si rappresenta Pirro che tiene sospeso in aria il piccolo Astianatte, ed è in atto di scagliarlo lontano da sè, mentre l’infelice madre inginocchiata ai piè di lui lo supplica indarno per la salvezza del figlio136.

{p. 446}Quando Agamennone credè opportuno di partire, tutti i principi greci che erano rimasti con esso salparono contemporaneamente dalle spiaggie di Troia e insieme navigarono verso la Grecia finchè la tempesta non li divise ; la quale piombò loro addosso vicino all’isola di Eubea. Ivi viveva ancora Nauplio padre dell’infelice Palamede che fu calunniato da Ulisse ed ucciso ingiustamente dai Greci ; e perciò per vendicar la morte del figlio aveva Nauplio sempre cercato di nuocere in ogni modo alle famiglie ed agli Stati di quei Greci che erano andati alla guerra di Troia. Egli dunque all’avvicinarsi della greca flotta fece accendere dei fuochi sopra gli scogli Cafarei (al sud-ovest dell’ Eubea) perchè i Greci li credessero segnali di un porto amico ove ripararsi dalla tempesta, ed invece percuotendovi naufragassero ; ma non vi perì che Aiace figlio di Oileo, e tutti gli altri si salvarono, con gran dispiacere di Nauplio, principalmente perchè ne seppe scampato Ulisse, contro il quale era maggiore l’ira sua e il desiderio di vendetta. Aiace stesso Oilèo (detto anche il minore Aiace per distinguerlo dall’altro Aiace Telamonio che si uccise da sè stesso), perì, anzichè per l’insidia di Nauplio, per l’ira di Minerva e di Nettuno : Minerva sdegnata che nel tempio di lei avesse egli insultato la profetessa Cassandra figlia di Priamo ; Nettuno, perchè Aiace sbattuto dalle onde si vantò di scampare dal naufragio ad onta degli Dei e dello stesso Nettuno. Tutti gli altri guerrieri che partirono dalla Troade o con Menelao o con Agamennone, giunsero salvi nella Grecia. E qui finisce il racconto delle vicende che provò l’armata greca nel suo ritorno ; e resta solo a sapersi se questi reduci divenuti così famosi furon pur anco felici nel rimanente dei loro giorni. Alla narrazione storica generale subentrano dunque necessariamente i cenni biografici dei principali guerrieri.

E incominciando dal re dei re, troviamo che a lui più funesto che agli altri fu il ritorno in patria. Nel tempo della {p. 447}sua più che decenne assenza, Egisto suo cugino e figlio di Tieste continuando a nutrire l’odio del padre contro gli Atridi, si era insinuato nella corte di Agamennone e nell’animo di Clitennestra ; ed avendo fatto sparger voce che Agamennone fosse morto, avea persuaso la regina a sposarlo. Agamennone invece non solo era vivo, ma poco dopo, presa e distrutta Troia, si disponeva a ritornar nel suo regno. Tra le sue schiave eravi Cassandra figlia di Priamo, profetessa veridica in tutte le sue predizioni, ma per volere di Apollo con essa adirato, non mai creduta da alcuno. Non solo ai Troiani essa presagì le loro sventure, ma pur anco ad Agamennone, e neppur egli vi prestò fede ; e quindi non potè schivare la trista fine che lo attendeva nella sua propria reggia. L’iniquo Egisto sentendo imminente l’arrivo di lui, raggirò talmente il debole e corrotto animo di Clitennestra, da renderla convinta che per evitare di essere uccisi entrambi da Agamennone non v’era altro riparo che uccider lui. E il re dei re scampato da mille pericoli, il giorno stesso che giunse nel suo regno e nella sua reggia, in mezzo alle finte accoglienze, quand’era per assidersi a mensa fu ucciso a tradimento da Egisto, e Cassandra da Clitennestra, non chè tutti i più fidi compagni di Agamennone ivi presenti, dagli sgherri dell’usurpatore tiranno.

Egisto, il quale molto prima di Machiavelli sapeva che « è necessario all’usurpatore di un trono estirpare tutti i « rampolli della famiglia che regnava prima di lui, » avea tese insidie alla vita del piccolo Oreste figlio di Agamennone e di Clitennestra ; ma la sorella Elettra, più assennata e pietosa della madre, lo aveva segretamente posto in salvo nella corte di Strofio re della Fòcide. Questa saggia precauzione di Elettra, congiunta alla voce che in appresso fece spargere della morte del fratello, rese possibile la ben meritata punizione di Egisto e di Clitennestra, perchè Oreste giunto appena alla pubertà, essendo impaziente di ricuperare {p. 448}il trono di suo padre e vendicarne la morte, accompagnato dall’incomparabile amico suo Pilade, figlio di Strofio, ritornò nascostamente nella sua reggia, e non senza incontrar gravi pericoli, da cui fecero a gara a sottrarlo l’affetto della sorella e dell’amico, potè uccidere Egisto, e nel furore della vendetta, incontrata la madre che veniva in soccorso del tiranno, uccise anch’essa collo stesso pugnale grondante del sangue di Egisto. Ma accortosi di avere ecceduto nella vendetta fu invaso dalle Furie, e andò errando per lungo tempo in preda ai rimorsi, sempre accompagnato dal fidissimo Pilade, che più e più volte espose la propria vita per salvar quella dell’amico. Spinti dalla tempesta nella Taurica Chersoneto (ora Crimea) furon consegnati a Toante re e sacerdote di quella regione, il quale sacrificava all’idolo di Diana vit time umane, scelte tra i forestieri che vi approdavano nel suo Stato. Quei Mitologi i quali dicono che invece di Ifigenia fosse sacrificata una cerva, asseriscono che Diana trasportò Ifigenia a far da ministra in questi sacrifizii, e che essa, quando vi giunsero Oreste e Pilade, riconobbe il fratello, e quindi si accordò con esso e coll’amico di lui ad uccider Toante. Ciò fatto, portaron via la statua di Diana e tornarono insieme in Grecia, ove Oreste liberato finalmente dalle Furie sposò Ermìone figlia di Menelao e di Elena, e regnò non solo in Argo e in Micene, ma ancora nella maggior parte del Peloponneso. Egli ebbe un figlio chiamato Tisamène, che fu re dopo di lui ; e l’amico Pilade sposando l’eroica Elettra unì ai vincoli dell’amicizia quelli della affinità. Le vicende di Agamennone e di Oreste diedero ampio argomento a molte tragedie antiche e moderne, e tra le altre a quelle due di Alfieri che hanno per titolo il nome del gran re dei re e quello del figlio di lui 137.

{p. 449}Menelao ed Elena dopo esser partiti da Tenedo erano stati spinti dalla tempesta sino in Egitto ; e di là tornati a Sparta vissero insieme in pace più anni. Ma Elena, morto che fu Menelao, essendo odiata da tutti come causa della disastrosa guerra di Troia, fu costretta a fuggire dal regno di Sparta che era il regno dei suoi antenati, e ricoveratasi presso una sua parente a cui era morto il marito in quella guerra, fu, per ordine di essa, soffocata in un bagno da tre sue ancelle travestite da Furie.

Neottolemo, ossia Pirro figlio di Achille, tornando in Grecia co’ suoi Mirmidoni, condusse seco tra gli altri schiavi Eleno figlio di Priamo e Andromaca vedova di Ettore. Di schiava la fece divenire sua moglie, ed ebbe da essa un figlio a cui alcuni Mitologi antichi danno il nome di Molosso ; poi la {p. 450}ripudiò e la fece sposare ad Eleno, e diede ad entrambi la libertà ed una parte del regno dell’Epiro che era divenuto suo, non si sa bene se per volontà della nazione, o per conquista. Quindi sposò Lanassa nipote di Ercole, ed ebbe da essa più figli. La fine però di quest’eroe fu poco gloriosa, e non per disgrazia, ma per colpa sua. Volle rapire Ermione promessa sposa di Oreste, ed Oreste venuto alle mani con esso lo uccise.

I suoi figli e discendenti si mantennero per molti secoli nel regno di Epiro, e formarono la dinastia detta dei Pirridi o Eàcidi138, fra i quali il più celebre è quel Pirro re di Epiro che venne in Italia cogli elefanti a combattere contro i Romani in difesa dei Tarentini.

Il vecchio Nestore ritornato in Pilo sua patria e suo regno (sulle coste della Messenia nel Peloponneso) visse ancora alcuni anni in seno alla sua famiglia, in cui però mancava il figlio Antìloco, ucciso sotto le mura di Troia per mano di Ettore, o, secondo altri, di Mennone.

Diomede, il più prode guerriero dopo Achille, arrivò salvo in Argo, ma non volle ritornare nel suo regno di Etolia, perchè seppe alienato da lui l’animo di sua moglie Egialèa, ed ebbe forse paura di far la fine di Agamennone. Venne invece in Italia nella Puglia, ove sposò la figlia del re Dauno che gli diede per dote una parte del suo regno, ed ivi fondò la città di Arpi, e, secondo altri, anche Siponto, presso il monte Gargano. Egli era ancor vivo sette anni dopo, allorquando giunse in Italia Enea, ed essendo allora richiesto da Turno di unirsi con lui per distruggere quest’ultimo avanzo di Troia, ricusò dicendo che la guerra con quella nazione era stata dannosa agli stessi vincitori.

Anche Filottete invece di tornare nella sua patria venne {p. 451}in Italia e fondò nella Magna Grecia la città di Petilia, alla quale credesi corrispondere ora Policastro sul golfo di questo nome. Alcuni attribuiscono a Idomeneo re di Creta e nipote di Minosse la fondazione di questa città ; ma Omero che parla più volte con gran lode del valore di Idomeneo, quanto al suo ritorno dice soltanto che

« …………. in Creta
« Rimenò Idomeneo quanti compagni
« Con la vita gli uscîr fuori dell’arme :
« Un sol non ne inghiottì l’onda vorace. »
(Odiss., iii.)

È una invenzione dei successivi Mitologi che Idomeneo avesse fatto un voto imprudente come quello di Jefte ; e che volendo adempierlo coll’uccidere il figlio che era stato il primo a venirgli incontro, fu cacciato dai suoi sudditi e si rifugiò nella Magna Grecia, ove fondò il regno di Salento.

Resta ora soltanto a parlare del ritorno di Ulisse ; ma poichè sulle straordinarie e mirabili vicende di quest’Eroe dopo l’eccidio di Troia, Omero trovò da scrivere un intero poema di ventiquattro Canti, converrà almeno accennarne le principali in un capitolo separato.

LXI

I Viaggi di Ulisse §

« Già tutti i Greci che la nera Parca
« Rapiti non avea, ne’loro alberghi
« Fuor dell’orme sedeano e fuor dell’onde.
« Sol dal suo regno e dalla casta donna
« Rimanea lungi Ulisse. »
(Om., Odiss., i. Trad. di Pindemonte.)

{p. 452}E lungi rimase dieci anni dopo la presa di Troia senza che di lui giungesse alla sua famiglia novella alcuna. E sì che vi sarebbe stato bisogno quanto prima della sua presenza e del suo forte braccio per discacciar dalla sua reggia una turba di principi greci delle Isole Ionie, che credendolo estinto pretendevano che Penelope sua moglie si risolvesse a sposare uno di loro. Erano questi i Proci (cioè i pretendenti) di cui tanto a lungo favella Omero nell’Odissea139, narrando che divoravano le sostanze di Ulisse e passavano il tempo in conviti, in canti e in balli nella reggia di lui. Penelope, sperando sempre nel ritorno del marito, differiva di giorno in giorno a sposare qualcuno di loro ; e trovandosi finalmente costretta a determinare il tempo, promise di far la scelta di uno dei Proci dopo di aver finito un tela che avea incominciata ; ma di giorno la tesseva e di notte la distesseva, e la tela non finiva mai. Quindi passò in proverbio la tela di Penelope a significare un lavoro che non ha mai termine. In tal modo l’accorta ed affettuosa moglie tenne a bada i Proci sino al ritorno di Ulisse.

Intanto Telemaco impaziente di aver qualche notizia di suo padre, partì segretamente da Itaca accompagnato da Minerva sotto la figura di Mentore e andò a Pilo da Nestore e a Sparta da Menelao e da Elena a dimandarne ; ma dopo la tempesta che avea divisa la flotta greca nessuno seppe più nulla di Ulisse. V’ era però speranza che egli vivesse, perchè nessuno aveva detto o sentito dire che ei fosse morto. Infatti Omero dice di Ulisse,

{p. 453}« ….. che molto errò, poi ch’ebbe a terra
« Gittate d’Ilïon le sacre mura ;
« Che città vide molte e delle genti
« L’indol conobbe ; che sovr’esso il mare
« Molti dentro del cor sofferse affanni,
« Mentre a guardar la cara vita intende
« E i suoi compagni a ricondur ; ma indarno
« Ricondur desiava i suoi compagni,
« Che delle colpe lor tutti periro. »
(Odiss., i. Trad. di Pindemonte.)

I viaggi di Ulisse dopo la guerra di Troia si trovano chiamati ancora gli errori di Ulisse, perchè egli, come dice Omero, molto errò, cioè andò molto vagando senza saper dove, sospinto dalla forza del vento e delle tempeste. Solamente dall’isola dei Feaci (ora di Corfù) andò direttamente ad Itaca sua patria, com’ egli volle e desiderò da lunghi anni ; ma prima era andato sempre errando contro il suo desiderio e per necessità o forza maggiore.

Chi sente dir per la prima volta che Ulisse errò per dieci anni, crederà che egli in quel lungo spazio di tempo fosse stato chi sa quante volte agli antipodi e ritornato, e fatta più e più volte la circumnavigazione del nostro globo. Invece la navigazione di Ulisse in dieci anni non si estese al di là delle acque del Mediterraneo, qualunque sia il nome speciale che prende dallo stretto di Gibilterra alle foci del Don nel Mar d’ Azof. Ma non è da farne le maraviglie, quando sappiamo che Ulisse, come gli fa dire anche Dante, stette con Circe più d’un anno là presso Gaeta

« Prima che sì Enea la nominasse ; »

e poi fu trattenuto dalla Ninfa Calipso per più di sette anni {p. 454}nell’isola di Ogige 140, talchè restano meno di due anni per tutte le navigazioni e traversate dall’una all’altra isola o sulle coste marittime dei continenti. Nè osta a tal conclusione il viaggio che fece Ulisse all’Inferno, perchè quello fu opera d’incanto della maga Circe, ed era piuttosto uno scongiuro da Negromanti, ossia evocazione delle anime degli estinti che un’impresa propria di Ulisse. Infatti egli stesso così narra quel suo miracoloso viaggio :

« Là dal crin crespo e dal canoro labbro
« Dea veneranda un gonfiator di vele
« Vento in poppa mandò, che fedelmente
« Ci accompagnava per l’ondosa via :
« Tal che oziosi nella ratta nave
« Dalla cerulea prua giacean gli arnesi,
« E noi tranquilli sedevam, la cura
« Al timonier lasciandone ed al vento. »
(Odiss.,xi. Trad. di Pindemonte.)

E questo viaggio fu compiuto in un sol giorno prima che Ulisse abbandonasse l’isola di Circe, mentre a compierlo con mezzi umani, dove pone Omero l’Inferno, cioè ai gelidi confini dell’Oceano,

« Là ‘ve la gente de’Cimmerii alberga
« Cui nebbia e buio sempiterno involve, »

non sarebbe bastato a quei tempi un anno per andare e tornare.

Ristretti dunque gli errori di Ulisse dentro i loro veri limiti di tempo e di spazio, determiniamo i luoghi che, {p. 455}secondo Omero, egli toccò, e dove più o meno si trattenne, e poi noteremo i più mirabili casi ai quali trovossi esposto.

Lasciate le spiagge troiane col rimanente della flotta greca capitanata da Agamennone, e diviso da quella per violenza di una tempesta, Ulisse fu spinto ad Ismaro, città dei Ciconi nella Tracia, e poi nella terra dei Lotòfagi sulla costa settentrionale dell’Affrica ; quindi nel paese dei Ciclopi fra l’Affrica e la Sicilia ; di là nell’Eolia, ossia in una delle isole Eolie fra la Sicilia e l’Italia, e inoltre nel territorio dei Lestrìgoni, che non si trova ben determinato dove fosse precisamente. Giunto poi ad Ea, isola della maga Circe, presso il promontorio Circello, là sovra Gaeta, come dice anche Dante, tornò indietro e passò davanti all’isola delle Sirene lungo la costa di Napoli, e poi fra Scilla e Cariddi nello stretto di Messina, e si fermò alquanto nella Trinacria, ossia in Sicilia. Partito da quell’isola e perduti tutti i compagni che perirono in una tempesta, arrivò Ulisse nuotando all’isola di Ogige, e di là salpando in una nave da lui stesso costruita ebbe a soffrire un’altra tempesta, dalla quale con gran fatica e pericolo scampato a nuoto, giunse nell’isola dei Feaci, ultimo termine de’ suoi errori e de’suoi travagli ; poichè ivi accolto onorevolmente dal re Alcinoo e con larghissimi doni ricompensato di tutti i danni sofferti, ritornò di là comodamente in Itaca su di una nave dei Feaci stessi.

Tra i casi più straordinari e mirabili avvenuti ad Ulisse in questi diversi luoghi, Orazio chiamò speciosa miracula (splendidi prodigi)

« Antiphatem Scyllamque et cum Cyclope Charybdim, » cioè quel che avvenne ad Ulisse nel paese dei Lestrìgoni di cui era re Antifate, poi fra Scilla e Cariddi e nella caverna del Ciclope Polifemo.

Qual fosse Antifate re dei Lestrìgoni e qual sorte incontrassero i compagni di Ulisse nella città e nella reggia di quello, sarà bene sentirlo narrare da Omero stesso :

{p. 456}« Ei s’abbattero a una real fanciulla,
« Del Lestrìgone Antifate alla figlia,
« Che del fonte d’Artacia, onde costuma
« Il cittadino attignere, in quel punto
« Alle pure scendea linfe d’argento.
« Le si fero d’appresso, e chi del loco
« Re fosse, e su qual gente avesse impero
« La domandaro ; ed ella pronta l’alto
« Loro additò con man tetto del padre.
« Tocco ne aveano il limitare appena,
« Che femmina trovâr di sì gran mole,
« Che rassembrava una montagna ; e un gelo
« Si sentiro d’orror correr pel sangue.
« Costei di botto Antifate chiamava
« Dalla pubblica piazza, il rinomato
« Marito suo, che disegnò lor tosto
« Morte barbara e orrenda. Uno afferronne,
« Che gli fu cena ; gli altri due con fuga
« Precipitosa gionsero alle navi.
« Di grida la cittade intanto empiea
« Antifate. I Lestrigoni l’udiro,
« E accorrean chi da un lato e chi dall’altro,
« Forti di braccio, in numero infiniti
« E giganti alla vista. Immense pietre
« Così dai monti a fulminar si diero,
« Che d’uomini spiranti e infranti legni
« Sorse nel porto un suon tetro e confuso.
« Ed alcuni infilzati eran con l’aste,
« Quali pesci guizzanti, e alle ferali
« Mense future riserbati. Mentre
« Tal seguia strage, io, sguainato il brando,
« E la fune recisa, a’miei compagni
« Dar di forza nel mar co’remi ingiunsi,
« Se il fuggir morte premea loro ; e quelli
{p. 457}« Di tal modo arrancavano, che i gravi
« Massi, che piovean d’alto, il mio naviglio
« Lietamente schivò : m’a gli altri tutti
« Colà restaro sfracellati e spersi. »
(Odiss., x. Trad. di Pindemonte.)

Di Scilla e di Cariddi ho già parlato nel Cap. XXVIII, trattando dei Mostri marini mitologici e poetici ; e qui aggiungo soltanto l’omerica narrazione dei pericoli nei quali incorsero, nel passarvi framezzo, e Ulisse e i suoi compagni :

« Navigavamo addolorati intanto
« Per l’angusto sentier : Scilla da un lato,
« Dall’altro era l’orribile Cariddi,
« Che del mare inghiottia l’onde spumose.
« Sempre che rigettavale, siccome
« Caldaia in molto rilucente foco,
« Mormorava bollendo ; e i larghi sprazzi,
« Che andavan sino al cielo in vetta d’ambo
« Gli scogli ricadevano. Ma quando
« I salsi flutti ringhiottiva, tutta
« Commoveasi di dentro, ed alla rupe
« Terribilmente rimbombava intorno,
« E, l’onda il seno aprendo, una azzurigna
« Sabbia parea nell’imo fondo : verdi
« Le guance di paura a tutti io scôrsi.
« Mentre in Cariddi tenevam le ciglia,
« Una morte temendone vicina,
« Sei de’compagni, i più di man gagliardi,
« Scilla rapimmi dal naviglio. Io gli occhi
« Torsi, e li vidi che levati in alto
« Braccia e piedi agitavano, ed Ulisse
« Chiamavan, lassi ! per l’estrema volta.
« Qual pescator che su pendente rupe
« Tuffa di bue silvestre in mare il corno
{p. 458}« Con lunghissima canna, un’infedele
« Esca ai minuti abitatori offrendo,
« E fuor li trae dell’onda, e palpitanti
« Scagliali sul terren : non altrimenti
« Scilla i compagni dal naviglio alzava,
« E innanzi divoravali allo speco,
« Che dolenti mettean grida, e le mani
« Nel gran disastro mi stendeano indarno.
« Fra i molti acerbi casi, ond’io sostenni
« Solcando il mar la vista, oggetto mai
« Di cotanta pietà non mi s’offerse. »
(Odiss., xii. Trad. di Pindemonte.)

Ma se Ulisse nell’andare in Sicilia potè passare fra Scilla e Cariddi con la perdita soltanto di 6 compagni, nel ritorno li perdè tutti, e si trovò spinto dalla tempesta nel vortice di Cariddi. In qual modo strano e mirabile ei ne scampasse è prezzo dell’opera udirlo raccontare a lui stesso secondo che lo fa parlare Omero :

« Io pel naviglio su e giù movea,
« Finchè gli sciolse la tempesta i fianchi
« Della carena che rimase inerme.
« Poi la base dell’albero l’irata
« Onda schiantò : ma di taurino cuoio
« Rivestialo una striscia, ed io con questa
« L’albero e la carena in un legai,
« E sopra mi v’assisi ; e tale i venti
« Esizïali mi spingean sull’onde.
« Zefiro a un tratto rallentò la rabbia :
« Se non che sopraggiunse un Austro in fretta,
« Che, noiandomi forte, in vêr Cariddi
« Ricondur mi volea. L’intera notte
« Scorsi sui flutti ; e col novello Sole
« Tra la grotta di Scilla e la corrente
{p. 459}« Mi ritrovai della fatal vorago,
« Che in quel punto inghiottia le salse spume.
« Io slanciandomi in alto a quel selvaggio
« M’aggruppai fico eccelso ; e mi v’attenni,
« Qual vipistrello ; chè nè dove i piedi
« Fermar, nè come ascendere, io sapea,
« Tanto eran lungi le radici, e tanto
« Remoti dalla mano i lunghi, immensi
« Rami, che d’ombra ricoprian Cariddi.
« Là dunque io m’attenea, bramando sempre
« Che rigettati dall’orrendo abisso
« Fosser gli avanzi della nave. Al fine
« Dopo un lungo desio vennero a galla.
« Nella stagion che il giudicante, sciolte
« Varie di caldi giovani contese,
« Sorge dal foro e per cenar s’avvia,
« Dall’onde usciro i sospirati avanzi.
« Le braccia apersi allora, e mi lasciai
« Giù piombar con gran tonfo all’onde in mezzo,
« Non lunge da que’ legni, a cui m’assisi
« Di sopra e delle man remi io mi feci.
« Ma degli uomini il padre e dei Celesti
« Di rivedermi non permise a Scilla ;
« Chè toccata sariami orrida morte.
« Per nove dì mi trabalzava il fiotto,
« E la decima notte i Dei sul lido
« Mi gettâr dell’Ogigia isola, dove
« Calipso alberga, la divina Ninfa,
« Che raccoglieami amica, e in molte guise
« Mi confortava. »
(Odiss., xii. Trad. di Pindemonte).

Da questa descrizione, che è una delle quattro più maravigliose rammentate da Orazio nella Poetica, apparisce, {p. 460}che a tempo di Omero, o non era stata ancora inventata l’altra favola che Cariddi fosse un mostro marino, come abbiamo accennato nel Cap. XXVIII, o che egli non l’adottò, e preferì soltanto di abbellire poeticamente quel vortice tanto temuto dagli Antichi, come ora il Maelstrom sulle coste della Norvegia.

Di quel che avvenne ad Ulisse e ai suoi compagni nell’antro del Ciclope Polifemo la narrazione è troppo lunga in Omero, ed occuperebbe troppo spazio a riportarla qui tutta ; ma se ne trova il compendio in Virgilio, che ne pone il racconto sulle labbra di Achèmene, uno dei compagni di Ulisse :

« ……….. È questo un antro
« Opaco, immenso, che macello è sempre
« D’umana carne, onde ancor sempre intriso
« È di sanie e di sangue. Ed è il Ciclopo
« Un mostro spaventoso, un che col capo
« Tocca le stelle (o Dio, leva di terra
« Una tal peste), chè a mirarlo solo,
« Solo a parlarne, orror sento ed angoscia.
« Pascesi delle viscere e del sangue
« Della misera gente ; ed io l’ho visto
« Con gli occhi miei, nel suo speco, rovescio
« Stender le branche, e due presi de’ nostri
« Rotargli a cerco, e sbattergli e schizzarne
« In fra quei tufi le midolle e gli ossi.
« Vist’ ho quando le membra de’ meschini
« Tiepide, palpitanti e vive ancora,
« Di sanguinosa bava il mento asperso,
« Frangea co’ denti a guisa di maciulla.
« Ma nol soffrì senza vendetta Ulisse,
« Nè di sè stesso in sì mortal periglio
« Punto obliossi ; chè non prima steso
« Lo vide ebbro e satollo, a capo chino
« Giacer nell’antro, e sonnacchioso e gonfio
{p. 461}« Ruttar pezzi di carne e sangue e vino,
« Che ne restrinse. Ed invocati in prima
« I santi Numi, divisò le veci
« Sì, che parte il tenemmo in terra saldo,
« Parte con un gran palo al foco aguzzo
« Sopra gli fummo ; e quel ch’unico avea
« Di targa e di febea lampade in guisa
« Sotto la torva fronte occhio rinchiuso,
« Gli trivellammo : vendicando al fine
« Col tor la luce a lui l’ombre de’ nostri. »
(Eneid., iii. Traduz. del Caro).

Non è già che sien questi soli gli splendidi miracoli della poetica facoltà, o vogliam dire del genio inventivo di Omero : nè Orazio intese di far l’enumerazione di tutti, ma soltanto di citarne alcuni dei più straordinarii e mirabili a conferma della sua tesi :

« Non fumum ex fulgore, sed ex fumo dare lucem. »

E dovendo io riferirne qualcuno, ho preferito quelli citati da Orazio. Anzi nel parlar dei Mostri marini (V. il N° XXIII) ho detto ancora delle Sirene, ed ho riferito che lo stesso Dante trovò il modo d’inserire nella Divina Commedia il canto di una Sirena, alla quale fa dire, tra le altre cose, ch’ell’era quella stessa che attirò Ulisse a passarle vicino per udirla cantare.

Mi affretto dunque a terminar la biografia di Ulisse dicendo che, secondo Omero, Ulisse fu ricondotto dai Feaci nella sua isola nativa dopo venti anni di assenza ; ed ivi poste in opera tutte le sue più mirabili astuzie, potè finalmente coll’aiuto del figlio e di alcuni suoi sudditi che gli erano rimasti fedeli, vendicarsi dei Proci uccidendoli tutti, e poi viver tranquillo nel suo regno con la fida Penelope, {p. 462}il saggio figlio e il vecchio suo padre Laerte (chè la madre Anticlèa era già morta prima del suo ritorno 141.

Non tutti però gli antichi autori si accordano con Omero a dire che Ulisse tornò in Itaca ; anzi alcuni asseriscono che egli fu ucciso prima di giungervi, ed altri che non tornò più in patria e perì insieme co’ suoi compagni in una tempesta. E quest’ultima opinione è quella che segue Dante nella Divina Commedia. Anzi è qui da notarsi una gran diversità di opinione fra Omero e Dante rispetto alla stima da aversi dell’indole e delle imprese di Ulisse non meno che di Achille. Omero poeta pagano e cantore di Eroi mezzi barbari, ammira la forza e l’astuzia, e sceglie per protagonisti dei suoi due poemi il più forte e il più astuto dei personaggi della guerra di Troia, e giudicando soltanto dagli effetti, come soglion fare gli uomini politici, non attribuisce alcun demerito agli eccessi della forza e dell’astuzia, che le fanno divenire barbarie e frode. Ma Dante poeta e filosofo cristiano dopo aver dichiarato che

« D’ogni malizia ch’odio in Cielo acquista
« Ingiuria è il fine, ed ogni fin cotale
« O per forza o per frode altrui contrista, »

non poteva esser così indulgente come Omero per gli eccessi di Achille e di Ulisse. Ma…. (com’egli giustamente osserva),

« Ma poichè frode è dell’uom proprio male
« Più spiace a Dio ; »

dovè esser perciò assai meno indulgente con Ulisse che con Achille. Infatti gli eccessi di Achille dipendevano dall’impeto {p. 463}degli affetti, che anche nei tribunali umani sono una causa attenuante che induce i giudici a minorare la pena ; ma la malignità e la premeditazione del delitto attirano sopra il reo tutto il rigor delle Leggi. Quindi Dante, mentre condanna ambedue questi Omerici Eroi all’Inferno, assegna loro giustamente una pena molto diversa, secondo le diverse colpe : pone Achille nel cerchio della bufera con Francesca da Rimini, e Ulisse tra i rei del fuoco furo col Conte Guido da Montefeltro, il più grande ingannatore del Medio Evo. Di Achille dice soltanto :

« …… e vidi il grande Achille
« Che con amore alfine combatteo. »

Ma di Ulisse ragiona a lungo nel Canto xxvi dell’Inferno, e fa raccontare a lui stesso la sua fine (molto diversa da quella che narra Omero), affinchè sembri più vera ; ed è questa : che Ulisse volle passar le colonne d’Ercole, ossia lo stretto di Gibilterra, per andare in cerca di nuove regioni nell’Oceano atlantico ; e, quel che è più notabile, tenne presso a poco la stessa direzione di Colombo, 2600 anni prima di lui, ma piegando un poco più al sud ; e dopo 5 mesi lunari aveva già passata la linea, ossia l’equatore, quando vide in distanza una montagna bruna più alta di quante mai ne avesse vedute, e da quella nuova terra nacque un tal turbine, che fece affondar nel mare la sua nave con esso lui e tutti i suoi compagni. Queste particolarità, che son tutte d’invenzione di Dante, dimostrano che egli quasi due secoli prima di Colombo e di Paolo Toscanella supponeva l’esistenza di nuove terre in mezzo all’Oceano, ma credeva che non fossero abitate, poichè le chiama il mondo senza gente. Tutto il suddetto Canto xxvi è mirabile in ogni sua parte, e non merita meno di quelli della Francesca da Rimini e del Conte Ugolino di essere studiato e imparato a memoria. Io ne riporto soltanto le ultime terzine che contengono la narrazione della {p. 464}fine di Ulisse posta da Dante sulle labbra di Ulisse stesso ; e ciò per dimostrazione e conferma di quanto ho accennato di sopra :

« E volta nostra poppa nel mattino,
« De’remi facemmo ala al folle volo142
« Sempre acquistando dal lato mancino.
« Tutte le stelle già dell’altro polo
« Vedea la notte, e il nostro tanto basso,
« Che non usciva fuor del marin suolo.
« Cinque volte racceso e tanto casso
« Lo lume era di sotto della luna,
« Poi ch’entrati eravam nell’alto passo,
« Quando n’apparve una montagna bruna
« Per la distanza, e parvemi alta tanto,
« Quanto veduta non n’aveva alcuna.
« Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto,
« Chè dalla nuova terra un turbo nacque,
« E percosse del legno il primo canto.
« Tre volte il fe’ girar con tutte l’acque,
« Alla quarta levar la poppa in suso,
« E la prora ire in giù, come altrui piacque,
« In fin che ‘l mar fu sopra noi richiuso. »

LXII

Venuta di Enea in Italia §

Per quanto Omero parli onorevolmente di Enea nell’Iliade, e ne rammenti gl’illustri natali, dicendolo figlio della Dea Venere e di Anchise principe troiano, e divenuto in appresso {p. 465}genero di Priamo per averne sposata la figlia Creusa, e inoltre ne celebri pur anco le pugne e il valore sotto le mura di Troia, non ostante Enea, secondo Omero, è sempre un Eroe secondario, molto inferiore ad Ettore, il solo antagonista che potesse stare a fronte di Achille. Tutta la fama che rese uno dei più illustri il nome di Enea e degno di poema e d’istoria ei l’acquistò dopo l’eccidio di Troia, perchè venne in Italia e fondò un regno nel Lazio, dal quale derivò Roma che fu poi dominatrice del Mondo. Quindi Virgilio lo scelse per protagonista nel suo poema epico intitolato perciò appunto l’Eneide ; e Dante disse lui

« Ch’ei fu dell’alma Roma e del suo Impero
« Nell’empireo ciel per padre eletto. »

Ma poichè noi troviamo ad un tempo in Enea l’Eroe mitologico e lo stipite del fondatore di Roma, l’ufficio del Mitologo è compiuto dove di Enea s’impadronisce lo Storico per narrar di lui ciò che crede conforme alla verità, o almeno alla morale certezza. Noi dunque ne diremo principalmente ciò che ne tace T. Livio, e poi accenneremo brevemente quello in che egli concorda coi Mitologi e coi poeti.

Enea ebbe il titolo di Pio per aver salvato dall’incendio di Troia il vecchio suo padre Anchise portandolo sulle spalle e conducendo per mano il figlio Ascanio, mentre la moglie Creusa che li seguiva d’appresso disparve, nè mai si seppe che ne fosse avvenuto : e sebbene Enea si trattenesse alquanti mesi sul monte Ida per costruir le navi e per raccoglier compagni che lo seguissero nella sua emigrazione, non potè averne notizia alcuna. Dipoi con una flotta di 20 navi partì dalle spiaggie della Troade in cerca di nuove terre per fondarvi un regno ; e nel suo corso marittimo toccò, per quanto affermano i poeti e principalmente Virgilio, diverse terre e diverse isole, cioè la Tracia, l’isola di Delo, l’isola di Creta, le isole Strofadi, l’isola di Leucate, l’Epiro, la Sicilia, le coste {p. 466}settentrionali dell’Affrica, di nuovo la Sicilia e finalmente giunse in Italia. In questi viaggi impiegò sette anni, essendosi però fermato a lungo in più luoghi. T. Livio per altro dice soltanto che Enea profugo dalla patria dopo l’eccidio di Troia andò prima nella Macedonia, poi nella Sicilia e di là nel territorio di Laurento. Tutto ciò che di maraviglioso raccontasi di questo viaggio sino all’arrivo di Enea in Italia è dunque totalmente d’invenzione poetica, e perciò appartiene alla Mitologia, e noi dobbiamo, sia pur brevemente, parlarne.

Il prodigio di cui Enea fu testimone in Tracia è il primo non solo cronologicamente, ma pur anco per la sua importanza, poichè fu creduto degno di essere imitato dall’Alighieri, dall’Ariosto e dal Tasso. Converrà dunque prima di tutto sentirlo narrare da Virgilio stesso, o almeno dal suo classico traduttore :

« ………….. Era nel lito
« Un picciol monticello, a cui sorgea
« Di mirti in sulla cima e di cornioli
« Una folta selvetta. In questa entrando
« Per di frondi velare i sacri altari,
« Mentre de’suoi più teneri e più verdi
« Arbusti or questo or quel diramo e svelgo,
« Orribilè a veder, stupendo a dire
« M’apparve un mostro ; chè divelto il primo
« Dalle prime radici, uscîr di sangue
« Luride goccie, e ne fu il suolo asperso.
« Ghiado mi strinse il core ; orror mi scosse
« Le membra tutte, e di paura il sangue
« Mi si rapprese. lo le cagioni ascose
« Di ciò cercando, un altro ne divelsi ;
« Ed altro sangue usciane : onde confuso
« Vie più rimasi ; e nel mio cor diversi
{p. 467}« Pensier volgendo, or dell’agresti Ninfe,
« Or del scitico Marte i santi Numi
« Adorando, porgea preghiere umili,
« Che di sì fiera e portentosa vista
« Mi si togliesse, o si temprasse almeno
« Il diro annunzio. Ritentando ancora,
« Vengo al terzo virgulto, e con più forza
« Mentre lo scerpo, e i piedi al suolo appunto,
« E lo scuoto e lo sbarbo (il dico o il taccio ?)
« Un sospiroso e lagrimabil suono
« Dall’imo poggio odo che grida e dice :
« Ah perchè sì mi laceri e mi scempi ?
« Perchè di così pio, così spietato
« Enea ver me ti mostri ? a che molesti
« Un ch’è morto e sepolto ? a che contamini
« Col sangue mio le consanguinee mani ?
« Chè nè di patria, nè di gente esterno
« Son io da te ; nè questo atro liquore
« Esce da sterpi, ma da membra umane.
« Ah ! fuggi, Enea, da questo empio paese :
« Fuggi da questo abbominevol lito ;
« Chè Polidoro io sono, e qui confitto
« M’ha nembo micidiale e ria semenza
« Di ferri e d’aste, che dal corpo mio
« Umor preso e radici han fatto selva. »

Che Polidoro fosse figlio di Priamo e di Ecuba lo abbiamo accennato parlando della trista fine di questa infelice regina ; ma poichè Virgilio ne fa dare da Enea un’ampia spiegazione, io qui la riporto colle parole del suo traduttore :

« A cotal suon da dubbia tema oppresso
« Stupii, mi raggricciai, muto divenni,
« Di Polidoro udendo. Un de’figliuoli
« Era questi del re, che al tracio rege
{p. 468}« Fu con molto tesoro occultamente
« Accomandato, allor che da’Troiani
« Incominciossi a diffidar dell’armi,
« E temer dell’assedio. Il rio tiranno
« Tosto che a Troia la fortuna vide
« Volger le spalle, anch’ei si volse, e l’armi
« E la sorte seguì dei vincitori ;
« Sì che dell’amicizia e dell’ospizio
« E dell’umanità rotta ogni legge,
« Tolse al regio fanciul la vita e l’oro.
« Ahi dell’oro empia ed esecrabil fame !
« E che per te non osa, e che non tenta
« Quest’umana ingordigia ?143

Dante ha gareggiato mirabilmente con Virgilio estendendo il virgiliano prodigio di un solo albero ad un’intera selva {p. 469}infernale, immaginando cioè che in ciascun albero di quella selva fosse chiusa come nel proprio corpo l’anima di un dannato suicida. Questa scena dolorosa e funesta occupa tutto il Canto xiii dell’Inferno ; e quanto desta orrore la descrizione della selva, altrettanto muove a compassione il racconto del famoso Pier delle Vigne, Segretario dell’Imperator Federigo II, che essendo calunniato dagl’invidiosi cortigiani e imprigionato si uccise per disdegno144. Ma in qual modo si accorgesse Dante che quella selva era animata, e venisse poi a scuoprire in un di quegli alberi l’anima di Pier delle Vigne, è pregio dell’opera riferirlo colle sue stesse parole per farne il confronto colla virgiliana invenzione, e assicu- rarsi che il nostro sommo poeta gareggiando cogli antichi maestri bene spesso li vince :

« Io sentia d’ogni parte tragger guai,
« E non vedea persona che ‘l facesse ;
« Perch’io tutto smarrito m’arrestai.
« Io credo ch’ei credette ch’io credesse
« Che tante voci uscisser tra que’bronchi
« Da gente che per noi si nascondesse.
« Però disse ‘l Maestro : se tu tronchi
« Qualche fraschetta d’una d’este piante,
« Li pensier ch’hai si faran tutti monchi.
« Allor porsi la mano un poco avante,
« E colsi un ramoscel da un gran pruno ;
« E ‘l tronco suo gridò : Perchè mi schiante ?
« Da che fatto fu poi di sangue bruno,
« Ricominciò a gridar : Perchè mi scerpi ?
« Noi hai tu spirto di pietate alcuno ?
{p. 470}« Uomini fummo, ed or sem fatti sterpi ;
« Ben dovrebb’esser la tua man più pia,
« Se state fossim’ anime di serpi.
« Come d’un stizzo verde, ch’arso sia
« Dall’un de’capi che dall’altro geme,
« E cigola per vento che va via ;
« Così di quella scheggia usciva insieme
« Parole e sangue : ond’io lasciai la cima
« Cadere, e stetti come l’uom che teme. »

Anche l’Ariosto ha fatto cangiare Astolfo in mirto dalla maga Alcina ; e il Tasso molto a lungo ha descritto tutte le diavolerie della selva incantata ; ma conviene aver lette le loro descrizioni prima di quella di Dante, affinchè non perdano nulla del loro prestigio.

Un altro fatto straordinario avvenne ad Enea ed ai suoi compagni nelle isole Strofadi, e fu di trovarvi le Arpie. Noi descrivemmo questi mostri nei Cap. XLV e XLVIII, ed accennammo che oltre gli antichi poeti ne avevan parlato anche Dante e l’Ariosto. Virgilio racconta che i Troiani per non morir di fame furon costretti a cacciare le Arpie colle lancie e coi dardi, perchè sempre, com’eran solite di far dovunque, rapivano quante vivande potevano afferrare, e infettavano le rimanenti ; e aggiunge che Celeno145, la maggiore di esse, presagì ai Troiani che in pena di averle offese soffrirebbero talmente la fame da divorarsi le stesse mense. La quale strana predizione si avverò poi blandamente, perchè le mense che i Troiani divorarono furono le focacce che servivan loro di piatto e di tavola quando nelle {p. 471}spedizioni mangiavano sulla nuda terra. Dante confina questi mostruosi e sozzi volatili nella selva delle anime dei suicidi, ed accresce colla loro presenza l’orrore di quella, negli alberi della quale

« Non frondi verdi, ma di color fosco
« Non rami schietti, ma nodosi e involti,
« Non pomi v’eran, ma stecchi con tosco. »

Inoltre le Arpie sono ivi destinate a far l’ufficio di demòni, a tormentar cioè quegli zoofiti infernali, come Dante fa raccontare allo stesso Pier delle Vigne :

« Quando si parte l’anima feroce
« Dal corpo ond’ella stessa s’è disvelta,
« Minos la manda alla settima foce.
« Cade in la selva, e non l’è parte scelta ;
« Ma là dove fortuna la balestra,
« Quivi germoglia come gran di spelta ;
« Surge in vermena ed in pianta silvestra ;
« Le Arpie pascendo poi delle sue foglie
« Fanno dolore ed al dolor finestra146. »

Un ingegnosissimo episodio fu inventato da Virgilio, che cioè Enea sospinto dalla tempesta sulle coste di Barberia, avesse trovato in quel territorio, ove ora è Tunisi, la regina Didone che facea fabbricare la città di Cartagine. Secondo i Cronologisti più accreditati, Didone viveva tre secoli dopo la guerra di Troia, e perciò era impossibile che avesse conosciuto Enea ; ma per quanto vi sia questo non piccolo {p. 472}anacronismo, l’invenzione di Virgilio fu ritenuta per una verità istorica ed ebbe gran fama, perchè faceva risalire gli odii dei Cartaginesi contro i Romani sino allo stipite della dinastia del fondatore di Roma ed a quei compagni di Enea, dai quali vantavansi discesi molti dei più nobili ed illustri Romani.

Didone, chiamata altrimenti Elisa, era figlia di Belo re di Tiro e Sidone nella Fenicia ; ed ebbe per marito Sichèo che poi fu ucciso da Pigmalione fratello di lei, per impadronirsi delle ricchezze e del regno147 Ma essa potè fuggir per mare con molti tesori e molti compagni o sudditi e fondare la città di Cartagine in Affrica. Gettato su quelle coste dalla tempesta, Enea fu accolto umanamente dalla regina, la quale offrì ad esso ed ai Troiani di fare un sol popolo coi Tirii, e credendo accettata stabilmente la sua offerta, stimò rafforzato il suo nuovo regno, e lasciò correr la fama che Enea fosse divenuto sposo di lei che prima avea rifiutato le nozze con altri principi per serbar fede al cener di Sicheo148 Ma Enea chiamato dai Fati a fondare un regno in Italia, abbandonò Didone ; ed essa imprecando {p. 473}ad Enea ed a tutti i Troiani e loro discendenti, per disperazione si uccise149

Ad Enea era già morto in Sicilia il vecchio padre Anchise nella città di Drèpano (ora Trapani), ove regnava Alceste di sangue troiano. L’Ariosto ha voluto significare questa città facendo una perifrasi allusiva alla sepoltura che ivi diede Enea alla salma di suo padre ; e così la rammenta nel descrivere un viaggio di uno degli eroi del suo poema :

« Passa gli Umbri e gli Etrusci, e a Roma scende ;
« Da Roma ad Ostia ; e quindi si tragitta
« Per mare alla cittade, a cui commise
« Il pietoso figliuol l’ossa d’Anchise150.

Prima di andar nel Lazio, Enea si fermò a Cuma,

« Ove in alto sorgea di Febo il tempio,
« E là dov’era la spelonca immane
« Dell’orrenda Sibilla, a cui fu dato
« Dal gran Delio profeta animo e mente
« D’aprir l’occulte e le future cose. »

{p. 474}La Sibilla Cumana, che era solita dare agli altri le sue risposte per mezzo di foglie sparse qua e là geroglificamente nella sua caverna, ad Enea fece singolare accoglienza e si offrì di guidarlo nel regno delle Ombre per vedere e consultare l’anima di suo padre Anchise. In questo sotterraneo viaggio son descritte brevemente le Regioni infernali e lo Stato delle anime dopo la morte secondo la religione pagana ; e noi di questi soggetti importantissimi per la classica Mitologia abbiamo parlato a lungo nei Cap. XXIX, XXX e XXXI. E qui è bene osservare che di questo viaggio, che nell’Eneide di Virgilio è un episodio, Dante ha fatto il soggetto della Divina Commedia, adattando e subordinando le idee pagane di Virgilio alla teologia cristiana, e senza allontanarsi dalle dottrine di questa, descrivendo con mirabil fantasia e sapienza l’Inferno, il Purgatorio e il Paradiso.

Prima di narrare come finalmente Enea giunse nel Lazio ed in quel territorio ove dopo tre in quattro secoli sorse Roma, sarà opportuno rammentare alcuni luoghi d’Italia, che, secondo l’antica tradizione, ebbero il nome, che tuttora conservano, da qualcuno dei compagni di Enea. I più notabili sono il capo Misèno 151 e la città di Gaeta. E perchè Virgilio stesso ne dà la spiegazione, qui la riporteremo con le parole del suo celebre traduttore A. Caro :

« Nel secco lito in sull’arena steso
« Vider Miseno indegnamente estinto ;
« Miseno, il figlio d’Eolo, che araldo
« Era supremo, e col suo fiato solo
« Possente a suscitar Marte e Bellona.
« Era costui del grand’Ettor compagno,
« E de’più segnalati intorno a lui
{p. 475}« Combattendo, or la tromba ed or la lancia
« Adoperava : e poi che ‘l fiero Achille
« Ettore ancise, come ardito e fido
« Seguì l’orme d’Enea ; chè non fu punto
« Inferïore a lui. Stava sul mare
« Sonando il folle con Tritone a gara,
« Quando da lui ch’aschio sentinne e sdegno,
« (Se creder dèssi) insidïosamente
« Tratto giù dallo scoglio, ov’era assiso,
« Fu nell’onde sommerso. Al corpo intorno
« Convocati già tutti, amaro pianto
« Ed alte strida insieme ne gittaro ;
« E più degli altri Enea. »

Qui il poeta fa una lunga descrizione dei funebri onori che furon resi a Miseno, e termina dicendo :

« Oltre a ciò fece Enea per suo sepolcro
« Ergere un’alta e sontuosa mole,
« E l’armi e ‘l remo e la sonora tuba
« Al monte appese, che d’Aerio il nome
« Fino allor ebbe, ed or da lui nomato
« Miseno è detto, e si dirà mai sempre. »

E finora almeno, da quasi tremila anni, continua a dirsi così, e si dirà mai sempre, come asseriva Virgilio, finchèsarà in onore la lingua latina. Nè può credersi che sia questa una mera invenzione di Virgilio, poichè oltre i poeti Properzio, Silio Italico e Stazio, anche i geografi Solino e Mèla confermano la stessa origine del nome di questo promontorio. Non lungi dal promontorio v’ è il porto Miseno, celebre anticamente perchè vi stavan sempre due flotte bene equipaggiate ed armate, postevi dall’Imperatore Augusto a guardia dell’Italia.

{p. 476}L’altro nome, quello cioè della città di Gaeta, ha pur esso un’origine troiana ; e Virgilio così brevemente l’accenna al principio del libro vii dell’ Eneide :

« Ed ancor tu d’Enea fida nutrice
« Caieta, ai nostri liti eterna fama
« Desti morendo, ed essi anco a te diero
« Sede onorata, se d’onore a’morti
« È d’aver l’ossa consecrate e’l nome
« Nella famosa Esperia. Ebbe Caieta
« Dal suo pietoso alunno esequie e lutto
« E sepoltura alteramente eretta. »

Il nome latino Caieta divenne in italiano Gaeta, e nello stesso modo l’aggettivo Caietanus divenne Gaetano.

Anche Dante ripete che alla città di Gaeta fu dato questo nome da Enea, poichè nel Canto xxvi dell’Inferno, facendo dire ad Ulisse :

« ……………… Quando
« Mi dipartii da Circe, che sottrasse
« Me più d’un anno là presso a Gaeta.
« Prima che sì Enea la nominasse, »

volle fare intendere che Ulisse avea navigato lungo le coste d’Italia prima che vi giungesse Enea, come difatti si deduce dai poemi di Omero e di Virgilio.

Finalmente Enea entrando nella foce del Tevere, allora chiamato il fiume Àlbula, si avanzò in quella regione che doveva divenir sì celebre nella storia con la città di Roma e il popol di Quirino. Gli storici latini, incominciando da Tito Livio, concordano coi poeti, e principalmente con Virgilio, ad asserire che Enea strinse alleanza con Latino re di Laurento nel paese dei Latini, e ne sposò la figlia Lavinia ; che sostenne una pericolosissima guerra contro di Turno re dei Rutuli, pretendente e, secondo alcuni, promesso sposo di {p. 477}Lavinia, e lo vinse ed uccise 152 ; che fondò in onor di sua moglie la città di Lavinio, e che in appresso Ascanio figlio suo e di Creusa, fabbricò la città di Alba Lunga, così chiamata, secondo Tito Livio, perchè si stendeva lungo il dorso del colle Albano153 ; e finalmente che Enea morì due anni dopo, e fu adorato come un Indigete Dio. Ma dalla morte di Enea sino alla nascita di Romolo son molto scarsi di notizie, o vere o inventate, tanto gli storici quanto i poeti. Appena appena sono in grado di farci sapere i nomi dei re d’Alba, per ordine di successione sino a Numitore padre di Rea Silvia, dalla quale nacquero Romolo e Remo. E sebbene a questo punto intenda la Storia di sostituirsi alla Mitologia, la sana critica per altro ci fa conoscere che nei primi tre secoli di Roma alla verità istorica è quasi sempre frammisto il maraviglioso mitologico ; e lo stesso Tito Livio (come abbiamo osservato anche altrove), nel narrare certi fatti poco o nulla credibili, non li garantisce come veri, ma aggiunge sempre si crede, o si dice. Nella Mitologia dunque non solo {p. 478}trovansi le origini preistoriche dei popoli antichi e delle loro credenze religiose o vogliam dire superstiziose, ma pur anco le cause di certi usi od abusi od errori dei popoli pagani, anche nei tempi istorici, finchè durò il culto dei loro Dei falsi e bugiardi. Perciò nella Mitologia convien parlare pur anco delle principali superstizioni del Paganesimo, che derivarono dal culto di tali Dei : il che faremo nei seguenti capitoli.

LXIII

Della Divinazione e della Superstizione in generale §

Avevano gli antichi Pagani un irrefrenabile desiderio di conoscere il futuro, e al tempo stesso una classica illusione a credere che facilmente se ne potesse squarciare il velo. Ma appena vi furono gli stolti che ciò credetter possibile, si trovaron subito gl’impostori che asserirono di possederne il privilegio o il segreto. Così nacquero ed ebbero credito gli Oracoli ed ogni genere di Divinazione. Degli Oracoli ragionammo a lungo nel Cap. XXXII come complemento alla spiegazione delle Divinità Superiori ; ora convien parlare della Divinazione, che incominciata nei tempi preistorici fu il perpetuo corredo della pagana religione e sorgente continua di nuove superstizioni.

La parola Divinazione è di origine latina : deriva a divis, cioè dagli Dei, e sta perciò a significare l’interpretazione della volontà di essi. Quindi è fondata sulla credenza che gli Dei manifestino agli uomini la loro volontà e le loro intenzioni con certi segni sensibili più o meno evidenti. E siccome la volontà e l’intenzione di chiunque si riferisce sempre alle cose da farsi, ossia future, perciò la Divinazione fu considerata come l’arte di conoscere l’avvenire. Infatti Cicerone {p. 479}la definì : il presentimento e la prescienza delle cose future ; e subito dopo soggiunge : cosa veramente magnifica e salutare, se però esiste, e che avvicina l’umana natura all’essenza divina 154. Cicerone argomenta molto a lungo e molto sillogisticamente per dimostrare che la Divinazione non esiste 155 ; ma noi non avremo bisogno di una simile dimostrazione, dopo quanto abbiam detto parlando degli Oracoli, e dopo che gli Dei del Paganesimo furon riconosciuti falsi e bugiardi.

La Divinazione esisteva in Oriente dalla più remota antichità, e principalmente nell’India e nella Persia, da tempo immemorabile, e si mantiene tuttora anche fra i Chinesi e i Musulmani. Gli Ebrei ne appresero i riti in Egitto e ne conservarono segretamente le pratiche ad onta dei divieti della Bibbia. Dall’Asia passò in Europa. I Greci la chiamarono in loro linguaggio Mantiche, vocabolo che significa furore, esaltazione mentale ; quindi la considerarono come spirito profetico, ovvero ispirazione ; e tal significato le fu attribuito da Platone stesso156. Questo greco vocabolo in composizione con altri, diede origine a molte altre denominazioni delle diverse specie di Divinazione, e principalmente alla Negromanzia, cioè alla pretesa evocazione delle anime degli estinti.

{p. 480}In Italia furono primi gli Etruschi a porla in pratica e ne divennero solenni maestri : da essi l’appresero i Romani, i quali la estesero e l’accreditarono maggiormente applicandola con solenni formalità e pratiche religiose alla direzione pur anco ed alle risoluzioni degli affari pubblici ossia del Governo. Quindi la distinsero in naturale e artificiale. La Divinazione naturale comprendeva soltanto i vaticinii ed i sogni : l’artificiale tutte le altre specie di divinazione, che si facevano derivare dal canto e dal volo degli uccelli, dalle viscere delle vittime, dal tuono, dal lampo, dal fulmine, ecc.

Quasi tutti i diversi modi creduti efficaci per conoscere il futuro ebbero ancora diverse denominazioni. Quindi tra le scienze o arti divinatorie troviamo la Magìa, l’Astrologìa, il sortilegio, l’interpretazione dei sogni, gli augùrii, o auspicii, gli aruspicii, la negromanzia, ecc.

A queste e simili pratiche religiose del Paganesimo suol darsi comunemente il titolo di superstizioni ; perciò è da vedersi ancora qual’è l’etimologia di questa parola e quale estensione di significato le attribuivano i Politeisti romani.

La parola superstizione è di origine latina, e Cicerone la fa derivare da superstite, dicendo « che tutti coloro i quali ogni giorno pregavano gli Dei e ad essi immolavano vittime per ottenere che i loro figli fossero superstiti (cioè sopravvivessero ai genitori) furon chiamati superstiziosi157 ; » ed aggiunge poi che quel vocabolo di superstizione ebbe in appresso un più esteso significato, riferibile a tutte le stolte e vane pratiche religiose, proprie delle vecchie imbecilli che hanno un irrazionale terror degli Dei. Quindi egregiamente Bacone da Verulamio asserì che la superstizione altro non è veramente che un terror pànico.

{p. 481}Cicerone inoltre ci fa sapere che non è stato egli il primo a far questa distinzione, e che non solo i filosofi, ma anche gli antichi romani separarono la religione dalla superstizione158. E quantunque egli non enumeri per filo e per segno tutte le idee e le pratiche del culto pagano che egli credeva superstiziose, a noi basta il sapere, per l’argomento di questo capitolo, aver egli dichiarata vana e insussistente la Divinazione in tutte le sue parti, specie e distinzioni, come indicammo di sopra : il che in altri termini equivale a dire che la Divinazione di qualunque genere o specie era una vera superstizione. Ma perchè gli scrupolosi politeisti di quel tempo non credessero che dicendo egli così mirasse ad abbattere la religione, oltre all’avere accennata la distinzione che facevano non solo i filosofi ma ancora i più celebri antichi romani fra religione e superstizione, asserisce formalmente che col toglier la superstizione non si toglie già la religione, facendo intendere che invece si purifica e si nobilita eliminandone ciò che vi sia stato intruso di vano e di irrazionale dalla imbecillità degli uomini159.

{p. 482}

LXIV

Gl’Indovini dei tempi eroici §

Trattandosi in questo capitolo di quel genere di divinazione soltanto che credevasi derivare da spirito profetico negl’Indovini, che erano considerati come i profeti dei Pagani, basterà parlare di qualcuno dei più celebri dell’Epoca eroica. Tra i quali ha maggior fama Tiresia, che era Tebano e viveva ai tempi della guerra dei sette Prodi. Di lui si raccontano più mirabili fatti che di qualunque altro indovino. Basti il rammentare che fu detto e creduto che egli avendo un giorno percosso colla sua verga due serpenti che si battevano, fu cangiato in femmina, e che sette anni dopo ritrovando quegli stessi serpenti attortigliati e di nuovo percuotendoli, ritornò maschio. Questa favola fu riferita anche dall’Alighieri nel Canto xx dell’Inferno, ove Virgilio così gli dice :

« Vedi Tiresia che mutò sembiante
« Quando di maschio femmina divenne,
« Cangiandosi le membra tutte quante ;
« E prima poi ribatter le convenne160
« Li duo serpenti avvolti colla verga,
« Che riavesse le maschili penne. »

La qual favola significa che egli conosceva più d’ogni altro i pregi e i difetti delle persone di ambedue i sessi ; e {p. 483}perciò appunto inventarono i Mitologi antichi, che Tiresia fosse chiamato a decidere una questione insorta fra Giove e Giunone, se cioè fosse più felice la condizione dell’uomo o della donna ; e poichè egli diede ragione a Giove, che cioè fosse più felice la donna, Giunone per dispetto lo acciecò, e Giove in compenso gli concesse l’antiveggenza del futuro, o vogliam dire l’occhio profetico. Perciò divenne così famoso, e fu creduto infallibile, tanto che niuno osava dubitare della veracità dei suoi presagi. Avendo egli detto nel tempo della guerra dei Sette Prodi che Tebe non sarebbe vinta, se per la patria avesse sacrificato sè stesso un discendente di Cadmo, Menèceo figlio di Creonte udendo questo, non dubitò di uccidersi, o gettandosi dalle mura di Tebe, come narrano alcuni, o trafiggendosi colla propria spada 161. Quando Tiresia presagì che sarebbe saccheggiata la città, molti Tebani esularono insiem con lui ed andarono a cercar nuove terre ed una nuova patria. Credevasi inoltre che anche dopo la morte egli avesse conservato lo spirito profetico ; e Ulissè, secondo Omero, andò nel regno delle Ombre, come dicemmo parlando di quest’Eroe, per consultare l’indovino Tiresia, e da lui ottenne notizie sicure della sua famiglia, del suo regno e dei suoi futuri destini.

Ebbe Tiresia una figlia chiamata Manto, indovina anche essa, che esercitò, finchè visse, l’arti paterne, e dopo aver percorse molte regioni andò a fermarsi in un terreno paludoso in mezzo ai laghi formati dal fiume Mincio, e

« Lì per fuggire ogni consorzio umano
« Ristette co’suoi servi a far sue arti,
« E visse, e vi lasciò suo corpo vano.
{p. 484}« Gli uomini poi che intorno erano sparti
« S’accolsero a quel luogo ch’era forte
« Per lo pantan che avea da tutte parti.
« Fer la città sovra quell’ossa morte ;
« E per colei che il luogo prima elesse,
« Mantova l’appellar senz’altra sorte. »

Tale è l’origine di Mantova, che Dante fa raccontare a Virgilio stesso, ed assicurare che questa è la verità, e che qualunque altra asserzione è una menzogna.

Meno rammentato, sì dai poeti antichi che dai moderni, è Trofonio ; ma poichè ne parlano Cicerone e Plinio, e noi l’abbiamo in altro luogo incidentalmente nominato, convien darne qualche notizia. Trofonio era un insigne architetto che in Lebadia, nella Beozia, scavò un antro nel quale si chiuse, e ove rendeva oracoli a chi andasse a consultarlo ; ed ivi morì di fame. Si aggiunse dipoi che un Genio andò ad abitare e a dar responsi in quella caverna che si continuò a chiamare l’antro di Trofonio ; ma che era un luogo così orrido che chiunque vi discendeva diveniva poi tanto serio e mesto che non rideva mai più finchè vivesse. Perciò di un uomo malinconico e che sembrasse spaurato dicevasi dai Greci, come in proverbio, che era disceso nell’antro di Trofonio.

Dell’indovino Anfiarao abbiamo parlato a lungo nella guerra di Tebe ; di Calcante e di Euripilo abbastanza nella guerra di Troia, Di altri indovini antichi di minor fama fia laudabile tacerci, e concluder di tutti in generale quel che abbiamo accennato in principio, che cioè l’arte loro era un effetto d’impostura da un lato e di stupida credulità dall’altro ; e decisiva è la sentenza di Dante, che li condanna tutti quanti, antichi e moderni, all’Inferno.

{p. 485}

LXV

Le Sibille §

Venendo ora a parlar delle Sibille, non si può così facilmente dare una sentenza su queste donne straordinarie e misteriose 162. Infatti neppur Dante le ha condannate all’Inferno ; e solo ne parla incidentalmente rammentando in una similitudine la Sibilla Cumana, che dava i suoi responsi colle foglie nella sua caverna, come abbiamo detto parlando di Enea :

« Così al vento nelle foglie lievi
« Si perdea la sentenzia di Sibilla. »
(Parad., xxxiii, v. 65).

Anche gli scrittori ecclesiastici che composero polemiche e sillogizzarono contro le falsità della religione pagana parlano delle Sibille con molto riserbo ; alle quali attribuirono perfino alcune profezie sulla venuta del Messia e su diversi fatti della vita di lui 163. Quindi è che le immagini delle Sibille si trovano anche nelle Chiese, come per es. nel Duomo di Siena si vedono sul pavimento in niello o graffito dieci Sibille, sotto ciascuna delle quali è posta una iscrizione latina che accenna qual fosse la profezia a ciascuna di esse {p. 486}attribuita164. Non dovrà dunque recar maraviglia che se ne parli con tanto rispetto dagli storici latini e dallo stesso T. Livio, e che si ammetta tra i fatti istorici che Tarquinio Prisco avesse comprato da una donna misteriosa, creduta una Sibilla, i libri sibillini. I quali poi furon tenuti in sì gran conto daì Romani che ne affidarono la conservazione e la interpretazione a un Magistrato o Collegio sacerdotale, prima di dieci e poi di quindici persone ; e secondo il senso palese o supposto di questi libri si regolavano spesso in Roma i più alti affari di Stato ; e si ricorreva talvolta a consultarli quando veniva meno ogni umano consiglio, come nei casi di pestilenza o di qualche altra pubblica sventura.

Non potremo ammetter di certo che le Sibille fossero profetesse ispirate dal Dio di Abramo, nè che gli Dei falsi e bugiardi potessero accordar loro virtù profetica. Non si deve dunque cercarne la spiegazione nel soprannaturale, che può essere oggetto di fede nelle idee religiose, non già di ragionamento nelle scienze umane. Solo potremo rendercene una ragione probabile riflettendo che Sibille chiamavansi le sacerdotesse del culto di Apollo nell’ Asia Minore, le quali a guisa e somiglianza della Pitonessa del tempio di Delfo pretendevano di essere anch’esse ispirate dallo stesso Dio e di dar veridici responsi, poichè avevano imparato anch’esse quel gergo amfibologico che potea significar bianco o nero, retto o curvo a piacere degl’interpreti o degl’interessati ad intendere in un modo piuttosto che in un altro. Molti dei loro responsi eran conservati per tradizione nella memoria degli uomini, molti altri erano inventati e attribuiti alle Sibille ; e siccome si credè, e forse era vero, che alcune di {p. 487}queste Sacerdotesse preferissero una vita girovaga allo star sempre confinate nei penetrali del tempio, in quasi ogni regione fu asserito esservi stata qualche Sibilla a profetare. Quindi si raccolsero i loro responsi, veri o supposti, e una copia di queste raccolte erano i così detti libri sibillini comprati da Tarquinio. Se poi quelle donne girovaghe e misteriose che si spacciavano per Sibille fossero state o no sacerdotesse di Apollo, nessuno avrebbe potuto assicurarlo, e si credeva più facilmente l’inesplicabile maraviglioso che il dimostrabile positivo. E poichè era utile ai reggitori degli Stati per facilità di governo che il popolo fosse così credulo ed ignorante, non solo lasciavano allignare queste imposture, ma spesso le favorivano, le sanzionavano ed anche se ne impadronivano per servirsene a modo loro a dirigere o contenere il mobile volgo. Ecco perchè anche i poeti, amanti sempre e fautori del maraviglioso, encomiano come profetesse infallibili le Sibille e come veridici i loro responsi o versi sibillini, confermando così le volgari opinioni e aiutando la politica del governo e gl’interessi dei sacerdoti pagani.

Molte erano le Sibille rammentate dagli Antichi più pel luogo della loro nascita che pel nome loro o dei loro parenti ; ma dieci soltanto furon riconosciute e registrate come tali da Varrone il più celebre erudito del Paganesimo ; e sono le seguenti :

1ª La Sibilla Persica, di cui fece menzione Nicànore che scrisse le gesta di Alessandro Magno.

2ª La Sibilla Libica rammentata da Euripide nel prologo della Lamia.

3ª La Sibilla Dèlfica, di cui parlò il filosofo Crisippo in quel libro che egli compose sulla Divinazione.

4ª La Sibilla Cumea, ossia di Cuma in Italia, che è rammentata da Nevio, da Pisone e da Virgilio.

5ª La Sibilla Eritrèa, che nacque in Babilonia come afferma Apollodoro, asserendo che era sua concittadina.

{p. 488}6ª La Sibilla Samia, di cui Eratòstene lasciò scritto che ne era stata fatta menzione negli antichi annali dei Samii.

7ª La Sibilla Cumana, così detta perchè nata in Cuma, città dell’Asia Minore. La stessa fu chiamata ancora Amatea, Demòfile ed Eròfile.

8ª La Sibilla Ellespontìaca, detta ancora Marpessia, perchè nacque nel territorio della Troade vicino all’Ellesponto ed in un luogo chiamato anticamente Marpessio.

9ª LaSibilla Frigia, della quale fu detto che vaticinò in Ancira.

10ª La Sibilla Tiburtina, ossia di Tivoli, aveva nome Albunea, della quale è rammentata la grotta da Orazio in una delle sue Odi165.

{p. 489}

Parte IV

Le Apoteòsi §

LXVI

Osservazioni generali sulle Apoteosi §

Quei Mitologi che presero l’assunto di spiegare i miti della Religione Pagana per mezzo di antichi fatti istorici e di incerte tradizioni, si trovaron costretti di aggiungere nelle loro opere una parte che trattasse dell’Apoteòsi delle Virtù e dei Vizii. Riconobbero dunque che il loro sistema storico non spiegava tutto in Mitologia, e confessarono implicitamente che la massima parte delle Divinità del paganesimo erano personificazioni degli affetti dell’animo o buoni o rei. Quella che per essi è parte suppletoria, per me è stata la parte principale e fondamentale della Mitologia Greca e Romana ; e l’ho estesa anche alla spiegazione dei fenomeni fisici, secondo la mente di G. Battista Vico, il quale nel libro ii dei Principii di Scienza Nuova asserisce che i miti son tante Istorie fisiche conservateci dalle Favole. E poichè i moderni filosofi, e tra questi il Pestalozza, discepolo e seguace fidissimo del Rosmini, danno alla religione pagana il titolo di Panteismo Mitologico, è questo un altro motivo di credere che il sistema da me prescelto sia il più opportuno a spiegare i miti dei Greci e dei Romani. Per me dunque il {p. 490}parlare separatamente delle Apoteosi è un riassunto della parte fondamentale del mio lavoro, è una conferma di quanto ho dichiarato dal principio alla fine di questa Mitologia.

La parola Apoteòsi, secondo la greca etimologia, significa deificazione, e consiste nel considerare e adorare come Dei gli esseri della Natura, le esistenze create166 ; e in un significato più ristretto si riferisce particolarmente alla deificazione degli uomini dopo la morte167.

Il culto più antico di cui si trovi memoria negli scrittori fu quello del Sole e della Luna e quindi degli altri Astri ; e questo culto fu chiamato il Sabeismo, perchè ridotto a regolar sistema religioso dai Sabei, antico popolo dell’ Arabia meridionale. Fu questa pur anco la religione dei Persiani, {p. 491}come sappiamo dallo Zend-Avesta, che è il loro libro sacro, attribuito a Zoroastro. Anche a tempo di Augusto i Persiani adoravano come loro Nume supremo il Sole ; e Ovidio ci dice che gli sacrificavano il cavallo per offrire una veloce vittima al celere Dio (ne detur celeri victima tarda Deo).

Dal culto dei corpi celesti si passò presto a quello dei corpi terrestri, ossia dei prodotti della terra, e principalmente degli animali ; ed eccoci al Feticismo, che per antichità gareggia col Sabeismo, e fu principalmente professato dagli Egiziani, i quali anche al tempo di Mosè adoravano come loro Dio il bue Api, la qual goffa idolatria fu imitata dagli Ebrei nel deserto col vitello d’oro, che costò la vita, per ordine di Mosè, a tante migliaia di quegli stupidi imitatori del culto Egiziano.

Il Sabeismo sarebbe stato anch’esso, com’era in origine, una specie di Feticismo, benchè meno goffo, non meno però materiale (poichè anche gli astri son composti di materia cosmica), se ben presto non fosse invalsa l’idea e la credenza che gli astri fossero regolati e diretti nel vero o nell’apparente lor corso da Esseri soprannaturali che vi presiedevano. Così al feticismo, ossia all’ apoteosi degli oggetti materiali, fu sostituita l’apoteosi di Esseri soprannaturali rappresentanti le forze o leggi della Natura fisica che producono il movimento della materia, e che poi furono dette scientificamente di attrazione e di repulsione. Fu questo il ponte di passaggio dal culto materiale del feticismo al Panteismo mitologico, in cui si fece l’apoteosi di tutte le forze e leggi della creazione non solo del mondo fisico, ma pur anco del mondo morale. Furono allora immaginati e splendidamente dipinti con stile impareggiabile dai Greci e dai Romani i più celebri e graziosi miti di cui non perirà mai la memoria, finchè si leggeranno e s’intenderanno i loro poetici scritti e quelli dei moderni poeti che li imitarono. Ma quando nella pagana religione si giunse ad abusare dell’apoteosi col deificare per vile {p. 492}adulazione i potenti della Terra non solo dopo la loro morte, ma pur anco in vita, si cadde allora nell’abiezione del feticismo, si tolse tutto il prestigio al culto degli altri Dei ; e gli uomini ragionevoli sentirono il bisogno di una religione più pura e più razionale.

LXVII

L’Apoteosi delle Virtù e dei Vizii §

I Greci ed i Romani politeisti, oltre all’aver deificato tutti i fenomeni fisici e morali, come abbiam detto, attribuirono a queste Divinità pregi e difetti, virtù e vizii come agli esseri umani ; quindi vi furono divinità benefiche e divinità malefiche, come vi sono uomini buoni e malvagi ; ed anche le migliori divinità ebbero qualche difetto, come la stessa Minerva dea della Sapienza, della quale dissero che ambì il premio della bellezza, e, non avendolo ottenuto, si unì con Giunone a perseguitare per dispetto Paride ed i Troiani. Qual Nume dunque poteva esser perfetto, se tale non era neppur la Dea della Sapienza ? E se un Nume non è perfetto, può egli essere un Dio ? Quegli antichi Romani per altro che tanto fecero maravigliare delle loro morali virtù gli stessi Padri della Chiesa, non conobbero le assurdità della greca fantasia ; e gli antichi precetti religiosi riportati da Cicerone con antico stile nel libro ii delle Leggi, sono ben lontani dalle aberrazioni dei poeti greci e dei latini dell’ultimo secolo della repubblica, che studiarono e imitarono la greca mitologia. Da Tito Livio e da Cicerone sappiamo che esistevano in Roma sino dai primi secoli della Repubblica più e diversi tempii dedicati alla Pietà, alla Fede, alla Libertà, alla Speranza, alla Concordia, alla Pudicizia, alla Virtù militare, all’Onore, alla Vittoria ed alla Salute {p. 493}pubblica, cioè alla più felice conservazione dello Stato. Anche alla Dea Mente, ossia al Senno, fu eretto un tempio dopo la infelice battaglia del Trasimeno. Perciò queste Divinità non erano soltanto astrazioni filosofiche o personificazioni poetiche, ma facevano parte della religione del popolo, e stavano a dimostrare che quando si stabilì il loro culto pubblico e fintantochè si mantenne, il popolo credeva nell’esistenza della Virtù ; e solo dopo le orribili guerre civili, allo spegnersi della repubblica colla vita di Marco Bruto, si udì la bestemmia che egli per disperato dolore proferì nell’atto di uccidersi : « O Virtù, tu non sei che un nome vano ! »

Per lo contrario nei migliori tempi della Repubblica non troviamo facilmente che fossero eretti tempii e prestato culto pubblico a divinità viziose o credute protettrici del vizio. Gli stessi Baccanali introdotti in Roma da un Greco di oscura nascita (Grœcus ignobilis, come dice Tito Livio) e vituperosamente celebrati in adunanze clandestine furono legalmente perseguitati dal Console Postumio, e quindi proibiti dal Senato l’anno 566 dalla fondazione della città, e 186 anni avanti Gesù Cristo. Ma poi nel cadere della Repubblica e nei primi tempi dell’Impero sappiamo non solo dagli Storici, ma dai poeti stessi imperiali, che la corruzione avea dal mondo romano bandita ogni virtù religiosa e civile. Dicemmo, parlando di Mercurio, che i mercanti romani, secondo quel che afferma Ovidio nei Fasti, pregavano questo Dio a proteggerli nell’ingannare il prossimo senza essere scoperti, e a potersi godere tranquillamente il frutto delle loro ruberie. Anche Orazio mette in versi la preghiera di un ladro a Laverna, Dea dei ladri, in cui alla furfanteria è congiunta la ipocrisia colle parole da justum sanctumque videri, perchè cioè quel ladro non si contentava di rimanere impunito, ma voleva anche apparire agli occhi del mondo uomo santo e pio per ingannare più facilmente il prossimo suo. Non è noto però che la Dea Laverna avesse un pubblico tempio in Roma ; {p. 494}e degli Dei superiori adoravansi pubblicamente i pregi e le virtù, e non i vizii che erano loro dai mitologi e dai poeti attribuiti. Ma della Dea Nèmesi, Dea della vendetta, era pubblico il culto ; e fu generale tra i Pagani il sentimento che lo ispirava. Nè già si contentavano essi di lasciare le loro vendette a questa Dea, ma davano opera ad ottenerle e compierle col proprio braccio e co’propri mezzi. Vero è che in Roma nel culto pubblico e nel tempio che erale stato eretto, questa Dea fu adorata come figlia di Giove e della Giustizia, e perciò come rappresentante la giusta vendetta, ossia la punizione di quelle colpe che non cadono sotto la sanzione penale delle comuni leggi umane : riferivasi dunque piuttosto alla pubblica vendetta del Popolo Romano per mezzo della guerra, che alle vendette particolari dei privati cittadini. Ma ognuno poi l’interpretava a suo modo e secondo le sue proprie passioni ; e lo spirito di vendetta tanto potente e feroce nei secoli barbari, ben poco perdè della sua forza e della sua intensità nei secoli così detti civili, neppure dopo la promulgazione dell’ Evangelio che santificò il perdono e l’oblio delle offese.

Di tutte le affezioni dell’animo, e perciò di tutte le Virtù e di tutti i Vizii, hanno gli antichi ed i moderni poeti fatto la descrizione come di tanti esseri soprannaturali, di tante divinità o benefiche o malefiche ; e a seconda di queste descrizioni si sono aiutati gli artisti a rappresentarle in scultura e in pittura. Ma non tutte queste allegoriche divinità ebbero culto pubblico e tempii presso i Pagani : delle Virtù però molte, come abbiam detto di sopra nominandole ; dei Vizii ben pochi. Per altro pitture e statue si fecero e si fanno tuttora di qualunque Virtù e di qualunque Vizio, ed anche di qualsivoglia idea astratta, politica o religiosa. Il riferirne ed analizzarne le poetiche descrizioni antiche e moderne è ufficio dei professori di rettorica e belle lettere, e il descriverne le antiche e le moderne sculture o pitture appartiensi {p. 495}ai professori gnostici ed estetici di Belle Arti, e non al Mitologo, poichè miti speciali non vi sono in queste astrazioni, o personificazioni, o apoteosi, da raccontare.

Questa facoltà poetica di rappresentare con descrizioni o con immagini sculte o dipinte qualunque virtù, qualunque vizio, qualunque idea astratta non è già spenta negli uomini dei nostri tempi ; anzi vedesi sempre rinnuovata non solo nelle moderne poesie, ma pur anco nei monumenti ove le Virtù civili e militari, ed anche le religiose, sono rappresentate per mezzo di figure umane accompagnate da oggetti simbolici che ne suggeriscono il significato ed il nome, senza bisogno di scriverlo sulla base delle medesime o in qualche parte delle loro vesti o dei loro ornamenti. E se nei pubblici monumenti non vedonsi che personificazioni di Virtù e di novelli pregi derivati dall’incremento e dal perfezionamento delle Scienze e delle Arti, nei poeti moderni trovansi ancora descritti e personificati i Vizii del loro secolo ; e basterà per tutti citare il Giusti, che ci rappresentò quelli predominanti a tempo suo (cioè nella prima metà del presente secolo) facendone poeticamente l’apoteosi mitologica nei seguenti versi :

« Il Voltafaccia e la Meschinità
« L’Imbroglio, la Viltà, l’Avidità
« Ed altre Deità,
« Come sarebbe a dir la Gretteria
« E la Trappoleria,
« Appartenenti a una Mitologia
« Che a conto del Governo a stare in briglia
« Doma educando i figli di famiglia,
« Cantavano alla culla d’un bambino,
« Di nome Gingillino,
« La ninna nanna in coro,
« Degnissime del secolo e di loro. »
{p. 496}

LXVIII

Apoteosi degl’Imperatori Romani §

Benchè nella Greca Mitologia si trovino alcuni uomini illustri elevati agli onori divini, tali apoteosi molto differivano da quelle degl’Imperatori romani. Infatti in Grecia richiedevasi 1° che l’eroe da considerarsi come un Dio fosse figlio di una Divinità o per padre o per madre ; 2° che vivendo avesse compiute imprese straordinarie per valore o per ingegno a prò dell’umanità ; e 3° che solo dopo la morte, e quando in lui si riconoscessero le due precedenti condizioni fosse considerato e adorato qual Nume. Perciò non deificarono nè Cadmo, nè Giasone, nè Peleo, nè Ulisse, perchè non eran creduti figli di una Divinità. Nell’Impero Romano all’opposto l’apoteosi degl’Imperatori e delle Imperatrici era divenuto un vile atto di adulazione al potere assoluto e dispotico del supremo imperante o dei suoi eredi e successori, non già come in Grecia un atto spontaneo delle popolazioni memori delle virtù dei suoi uomini illustri, e grate dei benefizii da essi ricevuti. Chi poteva infatti stimar benefici Dei i proprii tiranni, e sante Dee Livia, Poppea e Messalina ?

A tempo dei re di Roma fu deificato soltanto Romolo, ma per gherminella politica dopo che i Senatori lo ebbero segretamente ucciso ; i quali non sapendo poi come acquietare il popolo che ricercava il suo re guerriero, gli fecero credere per mezzo di Procolo che fosse assunto in Cielo e divenuto un Nume, e che bisognasse adorarlo sotto il nome di Quirino. Il popolo che credeva Romolo figlio di Marte, credè facilmente questa nuova impostura come una teologica conseguenza della prima ; e il Senato fu ben contento di adorar come Dio colui che non avea potuto tollerar come re. Così {p. 497}cominciò ben presto in Roma la politica a far servir la religione agl’interessi mondani.

Da Romolo sino a Giulio Cesare non si trova altra apoteosi nella Storia romana. Neppur Numa, il piissimo Numa, l’inventore di tanti riti religiosi a lui suggeriti, come egli dava ad intendere, dalla Ninfa Egeria, fu deificato. Quasi 700 anni corsero dalla morte di Romolo a quella di Cesare, nel qual tempo il popolo romano divenne conquistatore del mondo, senza che pensasse mai a deificare alcuno dei suoi più celebri generali che a tanta gloria e potenza lo guidarono. Solamente dopo la proditoria uccisione di Giulio Cesare, il desiderio di sì cara esistenza, a cui era dovuta la prostrazione del partito aristocratico e inoltre tanti vantaggi a favore del popolo, fece nascere ed accoglier con entusiasmo l’idea di venerarlo qual Nume. Ma spenta con Marco Bruto la libertà e perduta affatto anche l’ombra di essa sotto Tiberio, le apoteosi degli Imperatori e delle Imperatrici non furono altro che solennità comandate dal Principe e servilmente festeggiate dal popolo, come abbiam detto di sopra ; e nel frasario stesso degl’Imperanti l’esser trasformati in Dei significava morire. Infatti l’imperator Vespasiano sentendosi vicino a morte disse : a quanto mi pare, divengo un Dio (ut puto, Deus fio) ; e Caracalla dopo avere ucciso il fratello Geta tra le braccia stesse della madre, ne ordinò l’apoteosi dicendo : sia Divo, purchè non sia vivo (sit divus, dum non sit vivus). Questa stessa frase nel poema dell’Ariosto adopra Ruggiero, quando per significare che avrebbe ucciso il figlio dell’Imperator Costantino egli dice : e sia d’Augusto Divo. Divi infatti chiamavansi e non Dei gl’imperatori romani deificati, come li troviamo detti anche nella raccolta delle Leggi romane dell’Imperator Giustiniano (Divus Augustus, Divus Antoninus, Divus Traianus, ecc).

Tutte le cerimonie dell’apoteosi, o consacrazione degl’ Imperatori romani, ci furono descritte estesamente non solo da {p. 498}Erodiano, ma ancora da Dione Cassio senatore, che assistè per dovere d’ufficio a quella dell’Imperator Pertinace l’anno 193 dell’E. V. Troppo lungo sarebbe il riportarle, ed anche soltanto il compendiarle ; ed inoltre stancherebbe la pazienza di qualunque lettore la descrizione di tante stupide superstizioni. Basti dunque il sapere che si fingeva che l’imperatore non fosse morto, ma soltanto malato ; e per aiutar questa finzione ponevasi in un gran letto di avorio la statua di cera del defunto invece del suo cadavere, il quale era seppellito o arso segretamente. I medici per sette giorni si recavano a visitare l’illustre infermo (vale a dire la statua di lui) e uscivano dicendo ogni giorno che l’imperatore andava sempre peggiorando. Intanto si ergeva nel Campo Marzio un grandioso rogo di legni intagliati in forma di edifizio a quattro o cinque piani, sull’ultimo dei quali ponevasi un carro dorato con la statua dell’Imperatore. Nell’interno del rogo eravi una stanza riccamente ornata di tappeti di broccato d’oro, di quadri e di statue : ivi deponevasi il feretro. Dentro e intorno al rogo spargevansi incensi ed aromi preziosi in gran quantità. Vi appiccava il fuoco l’erede del trono tenendo altrove volta la faccia. Quando le fiamme giungevano all’ultimo piano, vedevasi volar via da quello un’aquila, e dicevasi che l’augel di Giove portava in Cielo e nel consesso degli Dei l’anima dell’Imperatore. Se poi facevasi l’apoteosi di una Imperatrice, invece di un’aquila sostituivasi un pavone, uccello sacro alla Dea Giunone. In brev’ora le fiamme riducevano in cenere tutto l’edifizio, e consumavano inutilmente un tesoro che avrebbe potuto alleviar le miserie di molte migliaia di famiglie.

Si conservano tuttora circa 60 medaglie coniate in memoria di altrettante apoteosi diverse ; in ciascuna delle quali vedesi un’ara ardente ed un’aquila che ergesi a volo, ed inoltre vi si legge la parola Consecratio, che era il termine officiale latino significante l’apoteosi.

{p. 499}

LXIX

Di alcune Divinità più proprie del culto romano §

A render più completa la spiegazione della classica Mitologia, accennerò brevemente alcune feste che celebravansi più specialmente in Roma che altrove.

Nel mese di Gennaio, il cui nome facevasi derivare da quello di Giano, si celebrava nel primo giorno la festa di questo Dio, e prima ad esso sacrificavasi che agli altri Dei, perchè egli era considerato come il portiere delle celeste reggia. Da questo giorno, come al presente, incominciava l’anno civile sin dal tempo di Numa Pompilio, e inauguravasi con molta solennità, in quanto che i nuovi Consoli con purpurea veste e preceduti dai loro littori prendevano possesso dell’annuo ufficio, e tutto il popolo vestito a festa li accompagnava al Campidoglio per assistere ai riti religiosi. E poichè i Consoli furono conservati, almeno di nome, anche sotto gl’Imperatori e sino agli ultimi tempi del romano impero, le stesse cerimonie descritte da Ovidio nel libro i dei Fasti si mantennero in Roma per più di mille anni. Anzi l’uso che vi fu allora di dir l’uno all’altro parole di buon augurio si mantiene tuttora da quasi tremila anni, e non in Roma e in Italia soltanto, ma per tutta Europa e presso molti popoli delle altre parti del mondo. Era giorno solenne e lieto, come lo chiama Ovidio, non però tutto festivo, ma, come ora direbbesi, di mezza festa, e allora dicevasi intercisus o endotercisus, perchè dopo i riti solenni religiosi e civili ciascuno attendeva al proprio ufficio, o professione nelle altre ore del giorno. Credevasi di cattivo augurio che il primo giorno dell’anno si lasciasse trascorrere inerte senza adempiere pur anco gli obblighi del proprio stato.

{p. 500}Il dì 11 dello stesso mese celebravansi le Feste Carmentali, che si ripetevano il dì 15, e vi si univano anche quelle in onore di Pòrrima e Posverta. Noi abbiamo già detto nel corso di questa Mitologia che la Ninfa Carmenta era madre di Evandro, e che esulando insieme col figlio venne nel Lazio e fissò la sua dimora su quel monte che poi fu detto il Palatino. Quanto poi a Porrima e Posverta, Ovidio e Macrobio asseriscono che esse erano o sorelle o compagne di Carmenta, e che la prima, cioè Porrima, indovinava le cose accadute, e la seconda, cioè Posverta, le future. Ma queste sono deduzioni filologiche arditamente derivate dalla presupposta etimologia di quei nomi.

I Romani adoravano come Dea anche Giuturna, sorella di Turno re dei Rutuli, resa celebre da Virgilio nel suo poema dell’Eneide. Le fu dedicato anticamente un tempio nel Campo Marzio il giorno stesso delle Feste Carmentali.

Nel mese di Febbraio è da notarsi la festa della Dea Sospita, il cui nome significa salvatrice. In origine e grammaticalmente la voce sospita è un aggettivo che soleva aggiungersi dai Lanuvini alla Dea Giunone. Poi divenne un nome di una particolare Divinità ; e Cicerone nel lib. i De Nat. Deor. ci dice che la rappresentavano con una pelle di capra sulle spalle, con un’asta e un piccolo scudo e i calzari rovesciati ; ma che questa non era nè la Giunone Argiva, nè la Giunone Romana.

La Dea Fornace fu un’invenzione del re Numa Pompilio. Era veramente una Dea da quelle etadi grosse, come direbbe Dante ; ma Ovidio asserisce che i contadini furono molto lieti di questa protettrice dei loro forni, e che la pregavano devotamente :

« Facta Dea est Fornax ; læti fornace coloni
« Orant ut fruges temperet illa suas. »

Della Dea Muta non ci danno notizia che Ovidio e Lattanzio ; e dicono che era una Naiade, la quale fu privata {p. 501}della favella da Giove, perchè parlava troppo. La pregavano perchè facesse tacere le male lingue.

Le Feste Caristie erano un solenne convito fra i parenti ed affini che si riunivano annualmente in questo giorno alla stessa mensa, non solo in attestazione e conferma del loro reciproco affetto, ma principalmente per avere occasione di sopire in mezzo alla comune letizia qualche discordia che fosse nata fra taluni di loro nel corso dell’anno. Alcuni fanno derivare la voce Charistia dal greco charisma (dono) ; Ovidio dall’aggettivo chari :

« Proxima cognati dixere Charistia chari,
« Et venit ad socias turba propinqua dapes. »

Nel mese di Marzo celebravasi la festa degli Ancili. È narrato anche nella Storia Romana il miracolo dell’ancile caduto dal Cielo a tempo di Numa. L’ancile era uno scudo di figura ellittica e perciò privo di angoli, come, secondo alcuni etimologisti, significa il nome stesso. Il buon popolo di Numa non solo vide co’suoi propri occhi il miracolo, ma udì anche una voce dal Cielo che prometteva ai Romani la maggior potenza finchè avessero conservato quello scudo. E Numa ne fece costruire altri undici, non solo simili, ma tanto uguali che neppur l’artefice seppe in appresso distinguere qual fosse quello caduto dal Cielo. Si tenevano tutti custoditi con molta cura, e solo una volta all’anno nel mese di marzo i sacerdoti del Dio Marte li portavano per le vie della città cantando e saltando secondo il rito. Quei sacerdoti eran chiamati Salii dal saltar che facevano processionalmente ; e l’inno che essi cantavano essendo stato composto ai tempi di Numa, era divenuto inintelligibile a loro stessi : solo dall’esservi più volte ripetuta la parola Mamurio si credè che quel vocabolo fosse il nome dell’artefice degli undici ancili, poichè dicevasi per tradizione che egli null’altro premio {p. 502}avesse richiesto dell’ opra sua che di esser rammentato nell’inno saliare.

Vèiove significa Giove piccolo, ossia bambino, secondo gli etimologisti latini e lo stesso Ovidio. Perciò questo Dio è rappresentato giovinetto e senza i fulmini in mano, ma invece accompagnato dalla capra che fu la sua nutrice nell’isola di Creta. Aveva un tempio fra i due boschi dell’asilo di Romolo. Si celebrava la festa di Giove Bambino il dì 7 dei mese di marzo.

Anna Perenna era una Dea adorata soltanto dai Romani, perchè credevano che fosse quella stessa Anna sorella di Didone, rammentata da Virgilio nel lib. iv dell’Eneide, e dopo la morte della sorella e per varie vicende dolorosissime venuta nel Lazio. Le aggiunsero il titolo di Perenna perchè era considerata come una Ninfa del fiume Numicio. Ovidio ne dà l’etimologia latina con un giuoco di parole, facendo dire alla stessa Dea :

« Amne perenne latens Anna Perenna vocor. »

Nel mese di Aprile troviamo notata il dì 6 la Natività di Diana e il dì 7 la Natività di Apollo. Questa indicazione è conforme alla ortodossia mitologica, secondo la quale credevasi che di questi due Dei gemelli Diana fosse nata un giorno prima di Apollo.

Le feste Robigali, cioè in onore del Dio Robìgo, facevansi per implorare da questo Dio che tenesse lontana la ruggine dalle biade. Robigo in latino significa ruggine, e i Romani debbono a Numa Pompilio l’invenzione di questo Dio. Noi abbiamo notato nel Cap. XXXIII che di molti Dei si conoscono le attribuzioni dal significato stesso del loro nome ; e tra gli altri abbiamo rammentato il Dio Robigo.

Nel mese di Maggio troviamo indicato che il primo giorno di quel mese fu eretta un’ara ai Lari Prèstiti. Quest’epiteto {p. 503}di Prestiti dato ai Lari è d’origine tutta latina : deriva da prœstare opem (prestar soccorso). Sotto questo titolo erano considerati i protettori della città. Degli Dei Lari abbiamo parlato a lungo nel Cap. XXXVIII.

Nello stesso giorno si celebrava la festa della Dea Bona. Questa è la stessa che la Dea Fauna moglie del Dio Fauno, di cui abbiamo parlato nel Cap. XXXV. Fu detta la Dea Bona perchè era di una così scrupolosa modestia e castità, che si chiuse nel suo ginecèo e non volle vedere altra faccia di uomo che quella di suo marito. Perciò le matrone romane le prestavano un culto religioso in un tempio chiamato opertum (che in latino vuol dir chiuso), perchè a quei riti e in quel tempio non erano ammessi gli uomini. La Storia Romana ci narra che essendovisi introdotto il licenzioso P. Clodio travestito da donna, egli fu stimato sacrilego ; e questo scandalo fu causa che Cesare ripudiò la propria moglie, dicendo che sulla moglie di Cesare non dovevan cadere nemmeno sospetti.

Nel mese di Giugno trovasi rammentata la dedicazione del tempio a Giunone Monèta. Questo titolo di Monèta dato a Giunone è di origine latina : deriva a monendo (dall’avvertire) perchè gli antichi Romani dicevano che questa Dea li aveva avvertiti che facessero un sacrifizio di espiazione immolando una scrofa pregna. Cicerone stesso disapprova questa e simili stolte superstizioni nel lib. ii De Divinatione.

Bellona, il cui nome è di origine tutta romana, derivando da bellum cioè dalla guerra, era creduta sorella del Dio Marte ed auriga del medesimo nelle battaglie, quando egli combatteva dal suo carro. Essa pure si dilettava di sangue e di stragi, come afferma Orazio, dicendola gaudentem cruentis. Aveva un tempio fuori di Roma, ove si radunava il Senato per dare udienza a quegli ambasciatori che non erano ammessi in città. I sacerdoti di questo culto si chiamavano Bellonarii, derivando il loro nome da quello della Dea.

{p. 504}Il Dio Summàno, quantunque avesse un tempio in Roma, da prima nel Campidoglio, e poi, al tempo delle guerre di Pirro, presso il Circo Massimo, ove tutti gli anni si celebrava la detta festa il dì 20 di giugno ; e per quanto questo Nume sia rammentato da molti dei più celebri scrittori Latini, restò peraltro incerto per lungo tempo quale ufficio egli avesse. Marziano Capella, poeta latino del quinto secolo dell’ E. V. asserisce nel suo libro intitolato Satyricon che Summanus significa Summus Manium, il primo degli Dei Mani, e perciò il Dio Plutone. Cicerone e Plauto rammentano questo Dio Summano, ma non ne spiegano gli attributi : Plinio nel libro ii, cap. 52 della sua Storia Naturale, dice soltanto che a questo Dio si attribuivano i fulmini notturni, come a Giove i diurni. Ovidio poi confessa che non sa qual Dio sia (quisquis is est). Peraltro i moderni Filologi che rivaleggiano coi Paleontologi a ricostruire con frammenti fossilizzati gli esseri preistorici, si sono impossessati di questo vocabolo Summanus, e raccogliendo qualche altra indicazione che si trova di questo Dio e in Varrone e in Festo e negli Acta fr. Arval. e nel Glossarium Labronicum, concludono col Preller che Summanus è un Dio del cielo notturno, a cui si attribuivano i temporali notturni come a Giove quelli diurni. Ma questa conclusione è quella stessa di Plinio nel luogo da me citato di sopra. Non ha fatto dunque il Preller una nuova scoperta, ma soltanto ha dimostrato con qualche altro documento esser la più vera l’asserzione di Plinio168.

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LXX

Delle Divinità straniere adorate dai Romani §

Se per divinità straniere adorate dai Romani si dovessero intendere tutte quelle che non furono inventate dai Romani stessi, converrebbe dire che le più di esse fossero straniere, fatte poche eccezioni di Divinità Italiche e dell’apoteosi di qualche Virtù e di qualche Vizio, come abbiamo notato nel corso di questa Mitologia. I Romani infatti che per ordine di tempo comparvero gli ultimi nella scena politica del mondo antico e costituirono l’ultima e al tempo istesso la più potente monarchia prima che sorgesse il Cristianesimo, portarono già radicato negli animi loro e impiantarono officialmente nella loro città, sin dalla sua fondazione, il Politeismo Troiano e Greco. Racconta lo stesso Tito Livio che i Troiani profughi dalla loro città distrutta dai Greci vennero in Italia seguendo il loro Duce Enea principe troiano, creduto figlio di Venere e di Anchise ; che Enea fece alleanza con Latino re dei Latini e ne sposò la figlia Lavinia ; che Ascanio figlio di Enea e di Creusa fondò Alba Lunga ; che dalla dinastia dei re Albani discesi in linea retta da Enea, nacque il fondatore di Roma a cui si attribuì per padre il Dio Marte. Dal che si deduce che le Divinità adorate allora nel Lazio e nel territorio stesso ove sorse Roma esser dovevano per la massima parte quelle stesse dei Troiani e dei Greci al tempo della guerra di Troia, poichè Omero in tutta quanta l’Iliade ne {p. 506}rammenta sempre almeno le principali, come adorate egualmente da entrambe le nazioni. E poi, in quanto al Politeismo dei Romani, aggiungendovisi le tradizioni che l’Arcade Evandro, creduto figlio della Dea Carmenta, venuto nel Lazio prima di Enea, avea fondata la città di Fenèo su quel monte che dal nome di suo figlio Pallante fu detto il Palatino, sarà necessario ammettere che egli avesse introdotto il politeismo greco nel luogo stesso che in appresso fu il centro della nuova città di Romolo : tanto è vero che anche a tempo di Cicerone, com’egli afferma nelle sue lettere, esisteva nel monte Palatino l’antro consacrato da Evandro al culto del Dio Luperco, vale a dire del Dio Pane. Si continuarono inoltre in Roma sino agli ultimi tempi dell’impero pagano le Feste Carmentali, cioè in onore della Dea Carmenta madre di Evandro. Anche il culto di Ercole Tebano fu introdotto nella stessa regione da Evandro ed accolto dai popoli limitrofi in ringraziamento dell’averli Ercole liberati da quel mostro dell’assassino Caco,

« Che sotto il sasso di monte Aventino
« Di sangue fece spesse volte laco. »

Della qual liberazione e del qual culto non solo ragionano a lungo Virgilio nel lib. ix dell’Eneide ed Ovidio nel lib. i dei Fasti, ma anche Tito Livio nel lib. i e ix della sua Storia e Valerio Massimo in più luoghi, e ci fanno sapere che l’ara consacrata ad Ercole in Roma chiamavasi Massima, e che suoi sacerdoti erano i Potizii e i Pinarii. Lo stesso Numa Pompilio che inventò tante cerimonie e pratiche religiose, non aggiunse alcun Dio a quelli adorati al tempo di Romolo ; e solo fece credere che quanto egli ordinava gli fosse suggerito dalla Ninfa Egeria. La base adunque della religione dei Romani era il politeismo dei Troiani e dei Greci già professato da Romolo e dai suoi compagni prima di fabbricare la città di Roma. Quando dunque dai Mitologi si parla di Dei stranieri adorati dai Romani non si deve intender {p. 507}delle greche Divinità che i Romani conoscevano e adoravano sin dall’origine di Roma, ma di tutte le altre di qualsivoglia nazione delle quali era ammesso o almeno tollerato il culto in Roma, dopo che fu accordata la cittadinanza romana a tutti i popoli conquistati. Per altro raramente i poeti greci e i latini rammentano qualche divinità delle altre nazioni, e solo alcuni di loro fanno un’eccezione per le principali Divinità Egiziane, che sono Osìride, Iside ed Anùbi.

Quantunque i Greci sotto Alessandro Magno, e trecento anni dopo di loro i Romani sotto Cesare, Marc’ Antonio ed Augusto, avessero conquistato l’Egitto, poche e sconnesse notizie ci hanno tramandato gli scrittori di ambedue quelle nazioni relativamente al feticismo Egiziano ed alle idee religiose che quel popolo annetteva al suo stravagantissimo culto. L’antico Egitto rimane tuttora in molte parti, e materiali e morali, un mistero. Sono tuttora soggetto d’interminabili dispute non solo il feticismo e l’interpretazione dei geroglifici, ma pur anco le piramidi, gli obelischi, l’istmo, le oasi, il delta, le bocche o foci del Nilo e la stessa sorgente di questo fiume.

L’Egizia Dea Iside, poichè credevasi che fosse la stessa Ninfa Io trasformata in vacca da Giove, fu ben presto adorata ed ebbe un tempio in Roma, come asserisce Lucano nel lib. viii della Farsalia :

« Nos in templa tuam Romana accepimus Isim. »

Di questa Dea eran devote principalmente le donne ; tra le quali è rammentata da Tibullo la sua Delia, che passò ancora qualche notte avanti le porte del tempio d’Iside a pregar la Dea per la salute di Tibullo stesso che era infermo in Corfù. I sacerdoti Isiaci portavano il capo raso ed erano vestiti di tela di lino, e perciò si chiamavano linìgeri ; e linìgera trovasi detta la stessa Dea Iside. Lo stromento sacro per le cerimonie religiose era il sistro, formato di una larga {p. 508}lamina di metallo piegata in figura ellittica, nella quale inserivansi diverse bacchette mobili parimente di metallo ; e se ne traeva un suono musicale con studiati e regolari colpi e movimenti.

I Romani adoravano Iside sotto la forma di donna ; ma gli Egiziani sotto quella di vacca, perchè credevano che questa Dea insieme col suo fratello e marito Osiride, dopo avere insegnato a loro l’agricoltura, si fossero trasformati essa in vacca ed Osiride in bove o toro. Nè gli Egiziani si contentavano di adorare queste due Divinità sotto la forma dei suddetti animali, ma tenevano nel loro tempio e prestavano il loro culto ad un bue vivente a cui davasi il nome di Bue Api. Questo bue aveva il pelo nero, e soltanto nella fronte era bianco ed in alcuni punti della groppa. I sacerdoti Egiziani dopo tre anni lo annegavano in un lago, e poi dicevano che era morto o perduto ; di che facevasi un gran lutto con gemiti e pianti da tutto il popolo ; ma dopo tre giorni, avendo già pronto un altro bove simile, dicevano che si era ritrovato o era risuscitato ; e il popolo ne faceva maravigliosa festa. Con queste stravaganti cerimonie volevasi alludere alla favola o tradizione Egizia che Tifòne avesse ucciso segretamente il suo fratello Osiride ; e che questi poi fosse trasformato in bove. Aggiungono inoltre che Iside insieme con suo figlio Oro uccidesse Tifone in battaglia.

Osìride è chiamato ancora Seràpide ; sotto ambedue i quali nomi è rammentato dagli scrittori latini. Nel tempio d’Iside e di Seràpide ponevasi la statua del Dio Arpòcrate che era considerato come Dio del silenzio, e perciò rappresentavasi in atto di premer le labbra col dito indice della mano destra, segno usitatissimo ed espressivo d’intimazione di silenzio. Quest’atto è anche segno di stare attenti, come abbiamo in Dante :

« Perch’io, acciò che ‘l Duca stesse attento,
« Mi posi il dito su dal mento al naso. »

{p. 509}I Latini poi, e fra questi Catullo, usarono la frase reddere aliquem Harpocratem per significare ridurre qualcuno al silenzio.

Trovasi anche rammentato dagli scrittori latini il Dio Anùbi, che gli Egiziani dicevano esser figlio di Osiride, e lo rappresentavano sotto la forma di cane e talvolta di uomo, ma però sempre colla testa di cane, come se ne vedono alcuni idoletti di metallo nel Museo Egiziano. Virgilio stesso nel libro ix dell’Eneide nomina il latrator Anubis ; ma pare che, in generale, i Romani non avessero gran devozione per questi mostruosi Dei Egiziani, poichè Giovenale, nella Satira xv, così ne parla :

« Chi, o Vòluso, non sa quai mostruose
« Adora deità l’Egitto stolta ?
« Qui i coccodrilli, là di velenose
« Serpi Ibi sazia a venerar si volta ;
« Di sacri omaggi segno eziandio pose
« Caudata scimia in fulgid’oro scolta
« Là dove a Tebe diroccata accanto
« Scioglie i magici suon Mennone infranto.
« Quinci il gatto in onor, quindi è a vedere
« Fluviatil lato accor devoto incenso ;
« Si prostra al cane, di cittadi intere,
« E non anzi a Diana, il popol denso :
« Violar cipolle e porri, o far parere
« Sol d’azzannarli, fora un fallo immenso.
« O sante genti, a cui da terra sorti
« Questi Numi sì ben nascon negli orti !
(Traduz. di G. Giordani).
{p. 510}

LXXI

Decadenza e fine del Politeismo greco e romano.
Primordii e progressi del Cristianesimo. §

Nei tempi eroici della romana Repubblica (eroici non solo per valore, ma ancora per senno e per moralità), i riti degli Dei stranieri non erano ammessi in Roma, come avverte T. Livio nel lib. iv e nel xxxix della sua storia ; anzi non si adottarono neppure i più strani ed assurdi miti della greca mitologia inventati da quelle fervide e sbrigliate fantasie dei greci poeti e dei greci sacerdoti. I Romani sino al termine della seconda guerra punica furono i puritani della pagana religione, e considerarono sin dal tempo di Numa il sentimento religioso e morale come il primo fattore dell’incivilimento ; e perciò ebbero cura di tenerne lungi qualunque elemento che tendesse a viziare la moralità delle azioni, senza la quale non può esistere vera civiltà. Ma quando la romana costanza che trionfò di tutti gli ostacoli e di tutte le più dure prove non fu abbastanza forte contro le prosperità e le ricchezze, e si lasciò vincer da queste, le idee morali cominciarono ad esser neglette ed obliate, e la religione stessa perdè il suo prestigio e la sua dignità, e non servì più allo scopo altamente sociale per cui fu istituita. In Roma insiem coi vizii penetrarono le più strane idee religiose contrarie affatto alla buona morale. Aggiungendovisi poi le apoteosi degli Imperatori e delle Imperatrici, parve, com’ era veramente, prostituita la religione al potere politico e negata l’esistenza stessa degli Dei, presumendo che essi potessero accogliere nel loro numero e nel loro consesso qualunque mortale benchè scellerato ed empio, come furono i più degli Imperatori romani.

{p. 511}Contemporaneamente a queste prime apoteosi sorgeva e ben presto diffondevasi una nuova religione, i cui seguaci destarono l’ammirazione di tutti per la bontà e santità della vita : e questo parve un gran miracolo in mezzo a società così corrotta ; questo richiamò l’attenzione di tutti sulla nuova religione del Cristianesimo, perchè dagli ottimi effetti morali che quella produceva ne’suoi seguaci inducevasi la convinzione che ottime esser dovessero le massime che essa insegnava. Perciò Dante fa dire al poeta Stazio nel C. xxii del Purgatorio, relativamente a questi primi Cristiani :

« Vennermi poi parendo tanto santi,
« Che quando Domizian li perseguette,
« Senza mio lagrimar non fur lor pianti.
« E mentre che di là per me si stette,
« Io gli sovvenni, e lor dritti costumi
« Fer dispregiare a me tutt’altre sette. »

Un ragionamento simile a quello del poeta Stazio condusse alla stessa conseguenza di farsi Cristiani tutti quei politeisti che non erano affatto privi del lume della ragione ; e se alcuni furon trattenuti dalla paura delle persecuzioni, molti altri si esposero ai tormenti ed anche alla morte, e suggellaron col sangue l’attestazione della loro novella Fede. Quando poi cessarono le persecuzioni, e i re stessi e gl’imperatori divenner cristiani, si dileguò ben presto il politeismo dal mondo romano, e il Cristianesimo si diffuse pur anco fra i popoli barbari, fuor dei confini del romano impero. Ai primi del secolo IV dell’era cristiana, Costantino Magno fu il primo imperatore cristiano ; ma soltanto negli ultimi anni dello stesso secolo furono officialmente aboliti da Teodosio il Grande quasi tutti i sacerdozii del Politeismo, incluso quello delle Vestali. I più ostinati a conservare il culto dei falsi Dei furono gli abitanti delle campagne e dei villaggi o borghi, che in latino chiamavansi pagani (aggettivo derivato da pagus {p. 512}che significa borgo o villaggio), e perciò il politeismo stesso fu detto il Paganesimo ; il qual termine divenne poi, tanto in prosa quanto in poesia, più comune e più usato che gli altri due di politeismo e di gentilesimo169. Ma poichè la religione dell’Evangelo ai più santi precetti di morale univa la principal massima sociale che tutti gli uomini sono eguali, e perciò favoriva e comandava l’abolizione della schiavitù, anche i più rozzi ed ostinati contadini cominciarono ad apprezzare se non la sublimità, che non potevano intendere, almeno l’utilità di questa nuova religione ; e tutto l’impero romano, abiurato il paganesimo, divenne cristiano.

FINE

[n.p.]

Indice alfabetico §

Di tutti i termini mitologici e scientifici §

spiegati in ambedue i volumi di questa mitologia

NB. I numeri indicano le pagine. I termini derivati son distinti con caratteri italici, e posti subito dopo quei nomi da cui derivano.

Per mezzo di quest’ Indice alfabetico può la presente Mitologia far l’ufficio pur anco di Dizionario Mitologico.

[n.p.n.p.]

Errata-corrige §

A pag. 314 lin. 21 invece di Arianna  si legga Andròmeda

 » 448 » 12 » Chersoneto  » Chersonèso

 » » » 15 » vi approdavano  » approdavano

 » 451 » 27 » orme  » arme