Felice Ramorino

1897

Mitologia classica illustrata

2017
Ramorino, Felice (1852-1929), Mitologia classica illustrata, con 91 incisioni, Milano, Ulrico Hoepli, 1897, X-454 p. Source: Google Books.
Ont participé à cette édition électronique : Nejla Midassi (OCR, Stylage sémantique), Eric Thiébaud (Stylage sémantique) et Diego Pellizzari (Encodage TEI).

Introduzione §

1. Quasi tutti i popoli della terra, negli albori della vita intellettuale e sociale, crearono una quantità di favole e racconti intorno agli Dei della loro fede e agli uomini più valenti di loro stirpe; i quali racconti, propagati per tradizione orale attraverso ai secoli e alle generazioni, allargati via via con nuove aggiunte e trasformazioni, divennero il più prezioso patrimonio di que’ popoli, e come il tesoro contenente, sotto il velame della favola immaginosa, l’ espressione delle credenze, dei sentimenti, dei ricordi nazionali.

Ma niun altro popolo è stato mai così ricco e geniale nella creazione di tali racconti, quanto gli antichi Greci; la cui feconda immaginativa faceva sì che essi non concepissero i fenomeni naturali se non come animati da uno spirito quasi umano, nè i fenomeni dello spirito se non come incarnati sensibilmente.

Miti si denominarono con voce greca questi racconti, e Mitologia l’ esposizione ordinata di essi. Mito significa propriamente « parola, discorso », e designa quel che si dice o si narra intorno a un soggetto qualsiasi. In fondo lo stesso significato ha la voce leggenda, e si parla quindi spesso di leggende mitologiche; ma è invalso l’ uso di chiamare preferibilmente miti le narrazioni che riguardano gli Dei, e leggende quelle che concernono gli Eroi. La Mitologia dei Greci e dei Romani suol esser detta Mitologia classica, per distinguerla da quella d’ altri popoli.

2. La Mitologia di un popolo, non va confusa colla sua Religione; ha però con essa intimi rapporti; giacchè in sostanza la Mitologia, nella parte che riguarda gli Dei, rappresenta le credenze e la fede di quel popolo, ed è presupposta, come dalle istituzioni e dalle feste religiose, così dalle cerimonie del culto o pubblico o privato. Ben è vero che, se gli ordini sacerdotali addetti al culto delle varie Divinità in Grecia conservavano memoria abbastanza fedele dei miti relativi a quelle non lasciandoli contaminare da innesti volgari o sconcie interpolazioni, e ad es. nei misteri di Eleusi ogni sacra memoria relativa al culto di Demetra mantenevasi pura da ogni profanazione, invece la mitologia volgare, abbandonata alla fantasia del popolo, accoglieva da ogni parte mutazioni od aggiunte, che alteravano più o meno i primitivi lineamenti. Ma non è men vero che gli Dei della mitologia e le principali leggende a loro relative erano nei tempi migliori della Grecia oggetto di fede comune, a cui si piegavano anche i sommi degli uomini; onde ancora Socrate professava, davanti ai giudici, di non aver nulla di comune con Anassagora il quale aveva ritenuto il sole come una pietra e la luna come una terra; ed anche Platone si mostrava convinto della divinità di Helios e di Selene. Era dunque la Mitologia il fondo delle credenze religiose; ma nelle pagine seguenti noi faremo astrazione da questo suo aspetto, e non la considereremo se non come racconto fantastico. Breve cenno si farà solamente delle principali feste religiose celebrate in onore di ciascuna Divinità.

3. Come serie di racconti fantastici, la Mitologia ha stretto rapporto colle arti, sia colle arti della parola, segnatamente colla poesia, sia colle arti del disegno, massime la scoltura e la pittura. Dalle leggende mitiche spessissimo trassero gli artisti la loro ispirazione; anzi molti generi letterari in Grecia ebbero da quelle il primo impulso o da quelle tolsero il motivo fondamentale, e in grandissima parte gli argomenti delle rappresentazioni figurate o nelle pitture vascolari e murali, o nelle scolature di pubblici e privati monumenti si ricavarono, com’ è noto, da scene mitologiche. Le arti alla lor volta esercitarono una grande efficacia sulla mitologia; molti racconti presero la loro forma definitiva per opera dei poeti; e in più d’ un caso una statua celebre d’ una divinità fornì di quella un’ immagine si viva che divenne tradizionale e come inseparabile dai racconti ad essa relativi.

Fra i poeti antichi meritano particolarmente d’ essere ricordati Omero ed Esiodo; essi e i loro numerosi seguaci trattarono epicamente la materia mitologica; leggende locali diverse mescolarono e rifusero; ad alcuni racconti, scelti a preferenza d’ altri, diedero maggior rilievo rivestendoli di splendida forma poetica; e così la rozza materia ridussero a una serie ben ordinata e bella di poetiche narrazioni. E quanto alle opere statuarie di soggetto mitologico, chi è che, ricordando il celebre Giove di Fidia, immagine insieme di somma potenza e di mite bontà, vero aspetto del Giove supercilio cuncta moventis e pur pieno di condiscendenza alle preghiere de’ mortali, non si persuada facilmente che la rappresentazione artistica doveva rimaner viva nella fantasia de’ Greci, contribuendo a dar loro un determinato concetto delle varie Divinità?

Mitologia dunque e arti belle hanno molti punti di contatto; ed ecco perchè in questo libro l’ esposizione dei singoli miti è seguita da un breve cenno illustrato delle principali opere d’ arte che da essi trassero l’ ispirazione e vi rappresentano qualche momento importante.

4. Si può chiedere: come mai la Grecia s’ è venuta creando e per secoli ha conservato una serie così numerosa di leggende intorno ai propri Dei e Semidei, molte delle quali sono strane e contradditorie, bene spesso anche empie ed immorali? Giacchè ivi non solo gli Dei sono rimpiccioliti e fatti simili agli uomini, ma anche vengono loro attribuite sovente azioni disonorevoli e delittuose. È un problema che già gli antichi filosofi avevano tentato di risolvere; e tra gli altri Evemero del IV sec. av. C., si avvisò di spiegare la mitologia sostenendo che i miti relativi agli Dei altro non erano che storia umana avvolta nel meraviglioso, ossia che gli Dei tradizionali erano antichissimi uomini, re, principi, eroi, dall’ ammirazione dei posteri divinizzati. Tale ipotesi ripetuta anche in tempi a noi più vicini, prese, appunto dal suo autore, il nome di Euemerismo. — Altri poi per altre vie cercarono un a soluzione soddisfacente. Alcuni pensarono che la mitologia e religione pagana sia una deformazione di un primitivo sano monoteismo, deformazione dovuta alla corruttela degli uomini. L’ idea già appare nei primi scrittori cristiani, poi fu ripresa e svolta dai Filologi olandesi del XVII secolo, i quali giudicarono che nei miti classici ancor si ritrovino le traccie della rivelazione biblica, sebbene frantesa e sfigurata. Lo stesso Gladstone ai nostri giorni è di questa opinione, l’unica, secondo lui, che getti piena luce su quelle parti che rimangono mal cementate e incongrue nella ben congegnata fabbrica dei miti greci. — Un’altra dottrina è quella degli allegoristi o dei simbolisti, i quali si son dati a credere che i racconti fantastici inventati dagli Elleni o trasmessi loro dall’Oriente racchiudano, sotto il velo della favola, i dettami di un’alta e civile sapienza; laonde l’opera del moderno esegeta dovrebbe essere questa, d’interpretare le allegorie e i miti, rimettendo in luce le riposte verità e massime, dagli antichi stessi dimenticate. Dal Boccacci nostro al tedesco Creuzer è abbastanza lunga la schiera dei seguaci di questa dottrina. — In ultimo son da ricordare i nobili studi e i notevoli risultati a cui giunse nel nostro secolo, quella che chiamasi Mitologia comparata; la quale, confrontando i miti dei varii popoli di stirpe aria e risalendo al l’ origine loro comune, si avvide che buona parte dei racconti mitologici non sono altro che una deformazione di frasi immaginose, usate da principio a esprimere i grandiosi fenomeni della natura secondo l’ impressione che essi facevano nell’ infanzia dell’ umanità. Il sole che sorge, ad es., e discaccia le uggiose tenebre, veniva detto il Titano che strozza i serpenti della notte prima di trarre il suo carro su pel cielo; e si diceva pure che nello spuntar dall’ Oriente, egli abbandona la bella Aurora, cui non potrà più rivedere se non quando sarà giunto al termine della sua faticosa giornata. Un piccolo strumento composto di due pezzi di legno congegnati in modo da produr fuoco per mezzo della confricazione, strumento detto pramantha in indiano, diventa il benefico Prometeo che fura il fuoco al cielo per donarlo ai mortali. Ecco veri racconti mitici, a cui avrebbero dato origine semplicemente le personificazioni e metafore di cui abbonda un linguaggio primitivo. Filologi di grandissimo valore hanno accolto e considerano anche ora come definitiva questa soluzione del problema mitologico; la quale, a giudizio loro, dà spiegazione sufficiente anche delle stranezze e delle apparenti immoralità contenute nelle leggende classiche.

Non è nostro compito discutere intorno a queste ipotesi e ricercare se alcuna di esse sia vera ad esclusione delle altre, o se un po’ di vero siavi in tutte, come non è improbabile. Noi possiamo ritenere come certo: 1º Che quel grandioso corpo di narrazioni ed immagini onde consta la mitologia classica, non s’ è formato d’ un tratto, ma sorse a poco a poco, incominciando da poche leggende ereditate dai progenitori ariani, e diffondendosi man mano con successivi allargamenti e trasformazioni dovute a varie cause. 2º L’ origine naturalistica dei miti è ipotesi preferibile a tutte le altre; senza dubbio le primarie divinità greche e romane, come quelle degli altri popoli ariani, si connettono col grandi fenomeni della natura, come dimostra l’ etimologia dei nomi loro; la loro immagine sorse dunque dalla personificazione delle forze naturali, aggiuntavi quell’ idea del divino, ossia l’ idea della somma intelligenza e del sommo bene, che è innata nell’ uomo. 3º La varietà dei luoghi e delle genti occasionarono diversa forma e sviluppo di leggende; essendo naturale che gli abitanti dei luoghi alpestri, per lo più cacciatori e pastori, concepissero le divinità loro diversamente dagli abitanti delle coste, dediti alla navigazione e al commercio. E deità originariamente locali avvenne talvolta che assorgessero a dignità di dei nazionali. Così Era, la moglie legittima di Zeus, era in origine una divinità, venerata solamente in Argo, mentre la moglie del Zeus di Dodona chiamavasi Dione. — Anche ragioni storiche contribuirono ad alterare le leggende mitiche. La grande migrazione delle stirpi doriche nel Peloponneso, l’ urto di popoli e gli spostamenti che ne provennero, come non dar luogo a un incrocio anche delle tradizioni mitiche e a una collisione per cui alcune Divinità dovevano avere il sopravvento ed estendere il loro culto, altre rimaner soccombenti? In tal caso le deità vinte generalmente passavano in seconda linea, diventando ancelle delle deità vincitrici, o a dirittura scendendo al grado di semplici eroi. Così la vittoria di Era come moglie legittima di Giove ridusse le altre consorti di lui allo stato di concubine; e Callisto, dea della luna in Arcadia, cedendo il luogo ad Artemide, ne divenne ninfa ed ancella. 4º Causa efficacissima di evoluzione mitica, il moltiplicarsi di un mito in più altri per effetto di polionimia. Più nomi o epiteti, usati poeticamente a designare uno stesso fenomeno di natura, davan luogo a diversi racconti; così volendo esprimere il sole nascente, ora parlavasi di un figlio nato dalla Notte o dalle Tenebre, ora di un gigante che strozza i serpenti delle tenebre, ora di un altro gigante che intraprende la sua corsa faticosa, ora di un guerriero che si appresta alla sua lotta colle nuvole e colla tempesta ecc. ecc. Così in genere i diversi aspetti delle cose, specialmente il contrasto del lato buono e del cattivo, dell’ utile e del dannoso, si rispecchiavano in diverse leggende, da riferirsi a un medesimo essere mitico.

Molte cause dunque cooperarono a produrre, alterare, incrociare, rifondere, sdoppiare in mille modi i racconti della mitologia; cosicchè riesce ora pressochè impossibile ridurli sempre al loro naturale significato e tracciarne con sicurezza la storia; anche diligentissimi studi non riuscirono a diffonder piena luce che su pochi fra i principali miti dell’ antichità classica.

In conseguenza noi ci contenteremo di aver dato questi cenni generali intorno alla spiegazione del problema mitologico, e nella esposizione che segue ci atterremo senz’ altro alla forma tradizionale.

5. In origine eran cosa affatto diversa la Mitologia greca e la romana. Quel ricco sviluppo di leggende, del quale s’ è fatto parola, propriamente era solo de’ Greci. Gli Dei delle stirpi italiche conservarono per molto tempo il loro schietto essere primitivo di forze naturali divinizzate, e il concetto non venne incarnato in immagini a contorni ben netti e definiti, nè si crearono popolari racconti intorno alle vicende di lor vita, alle loro parentele, alla loro discendenza. Anzichè ad illustrare le figure degli Dei, il senso religioso degl’ Italici si applicava di preferenza a istituire ordini sacerdotali, e sacre solennità, a fissare con gran cura le cerimonie del culto e gli uffici di chi vi attendeva. Solo più tardi, allorchè i Romani vennero in diretto contatto cogli Elleni, e presero a studiarne la lingua e la letteratura, adottarono anch’ essi le credenze, le opinioni, i miti che vedevano universalmente divulgati tra i Greci, e cercarono di adattar tutto questo al concetto tradizionale che essi avevano delle varie divinità secondo le ragioni di somiglianza che pareva loro di scorgere. Così si fece come una fusione di essere mitici, il greco Zeus venne identificato coll’ italico Iupiter, Hera con Giunone, Athena con Minerva, ecc. Poche deità italiche rimasero isolate non trovandosi alcun tipo greco con cui identificarle, ad es. Giano.

Noi parleremo delle divinità romane in occasione delle greche corrispondenti; si farà un cenno separato di quelle per le quali non trovasi alcun riscontro.

6. La Mitologia si divide in due parti; la prima espone le leggende relative agli Dei, la seconda quelle concernenti gli Eroi.

Parte prima.
Gli Dei. §

Capitolo primo.
Antropomorfismo — Cosmogonia e Teogonia — Titanomachia e Gigantomachia. §

1. Prima di esporre le varie discendenze e vicende degli Dei greci e romani, giova premettere un cenno del come li pensavano e se li figuravano gli antichi, massime dopo Omero che assai contribuì ad assegnare alle varie Divinità quelle immagini e attribuzioni che divennero tradizionali.

Eran dunque gli Dei in genere concepiti come esseri simili all’ uomo, sia per l’ aspetto esteriore, sia per le qualità intellettuali o morali. È ciò che suol designarsi col vocabolo antropomorfismo. Ma l’ idea del divino importava che le qualità umane fossero per loro innalzate al più alto grado di eccellenza; quindi il corpo degli Dei era pensato come più grande, più bello, più maestoso dell’ umano; qualche volta gigantesco, onde Ares, ad es., essendo caduto in terra durante una battaglia, occupava uno spazio di sette plettri o 700 piedi (Il. 21,407). Più robuste ed agili eran le membra divine; la forza di Zeus era tale che col solo muover delle sopracciglia faceva tremar tutto l’ Olimpo. Sono bensì gli antichi Dei costretti an ch’ essi nei limiti dello spazio, ma con molte prerogative; in un batter d’ occhio percorrono immense distanze, la facoltà del vedere e dell’ udire s’ estende per loro illimitatamente, e Zeus, ad es., dall’ alto trono dell’ Olimpo scorge, senza bisogno di esser presente, tutte le azioni degli uomini in qualunque più riposto angolo della terra. Ancora essi van soggetti ai bisogni corporali del sonno e del cibo, ma loro cibo è esclusivamente il nettare e l’ ambrosia, la bevanda dell’ immortalità; e se nascono e crescono come gli uomini, hanno per sè il dono di una grande celerità; Ermes, nato al mattino, suona già a mezzogiorno colla lira da lui inventata, e dalla culla ov’ è in fasce sfugge per andare a rapire le giovenche di Apollo, e dopo nascostele, torna nella sua culla. La principal prerogativa è poi questa, che, una volta raggiunto il pieno sviluppo delle loro forze fisiche e spirituali, non invecchiano, ma rimangono sempre giovani e sono immortali. Non che siano scevri d’ ogni dolore; anzi, come il loro corpo può essere ferito, così l’ anima può essere afflitta da pene di varia natura; ma ciò non guasta la loro felicità e non toglie che essi possano sempre soddisfare i loro desideri. — Quanto alle doti dello spirito, gli Dei erano naturalmente pensati come superiori agli uomini, sia per sapere sia per potenza. A piacer loro penetravano ogni segreto della natura; potevano suscitar d’ un tratto tempeste, malattie, ecc., ed anche d’ un tratto farle cessare, e il loro potere eccedeva di gran lunga i limiti dell’ umano. Non si era pero giunti al concetto dell’ onniscienza e dell’ onnipotenza; Zeus stesso era in qualche modo limitato nell’ esercizio della sua forza, ad es. era egli stesso soggetto al fato inesorabilmente. Riguardo alla moralità attribuita agli Dei, qui si manifesta più che mai il concetto antropomorfico; giacchè sebbene fossero pensati come esseri giusti, fieramente avversi ai malvagi e vindici d’ ogni umana scelleratezza, non eran però liberi da passioni più o men disordinate, e spesso ci vengono rappresentati come invidi, gelosi, crudeli, pronti a ogni sorta di intrighi e di frodi, insonnia non immuni da quelle colpe e disordini ond’ è afflitta l’ umanità.

Nel complesso adunque si può dire che gli antichi non seppero foggiare gli Dei se non a loro immagine e somiglianza, pur concedendo loro un cotal grado di superiorità da giustificare la venerazione e il culto che erano un portato della naturale religiosità.

2. Origine del mondo e degli Dei. Il mondo, secondo Esiodo, ebbe origine dal Caos, intesa questo voce non nel senso di una rudis indigestaque moles, cioè una confusa miscela di tutte cose, che è un concetto posteriore, ma nel senso etimologico d’ uno spazio vuoto, quasi voragine immensa e tenebrosa. Dal Caos sorse primamente, non si dice come, Gea, la terra, dalla quale subito si staccò il Tartaro o Inferno; poi comparì Eros, l’ amore che unisce, ossia il principio della forza attrattiva che spinge gli elementi a combinarsi. Di poi mentre il Caos generava ancora l’ Erebo, le prime tenebre, e la Notte, i quali a lor volta ebbero figli in tutto diversi, l’ Etra e il Giorno, Gea da sè produceva Urano ossia il cielo, le montagne, e il Ponto o mare. Qui cominciano i connubi; si raccontò che Gea si fosse unita prima con Urano e poi con Ponto; evidentemente si traduceva in linguaggio mitico il fenomeno naturale della terra fecondata dall’ acque.

Prodotti dell’ unione di Gea e di Urano furono: a) i Titani; b) i Ciclopi; c) gli Ecatonchiri o Centimani, giganti dalle cento braccia. I Titani erano dodici, sei maschi e sei femmine, e venivano per lo più accoppiati a due a due. Le coppie più notevoli erano: Oceano, il gran fiume che circonda la terra ed è padre degli altri fiumi, e Teti (Tethys) l’ umidità che tutto pervade e nutre; Iperione, l’ errante dio della luce e Tea (Theia), l’ irradiante, da cui nacquero i tre esseri datori di luce, Elio il sole, Selene la luna, Eos l’ Aurora; infine Crono (Kronos) e Rea (Rhea), che sarebbero un ringiovanimento dalla coppia Urano-Gea, più tardi interpretati come il tempo (Kronos confuso con Chronos) e quella che scorre, personificazione del movimento degli esseri e della durata. Oltre queste coppie vanno ricordati tra i Titani Giapeto (Iapetos), padre di Prometeo, e due divinità che personificavano concetti morali, Temi (Themis), la legge per eccellenza, e Mnemosine (Mnemosune), la memoria. — I Cicloni, così detti dall’ unico occhio tondo, che si diceva avessero in mezzo alla fronte, erano tre, Bronte, Sterope e Arge, evidente personificazione dei fenomi elettrici, del tuono e del lampo. — Anche gli Ecatonchiri eran tre, Cotto, Briareo e Gige, e rappresentavano le forze distruttrici della natura, il terremoto e le tempeste.

In unione col Ponto Gea genero diverse divinità marine, Nereo, rappresentante del mare in bonaccia, padre delle Nereidi o ninfe marine; Taumante (Thaumas), rappresentante la maestà del mare, padre di Iride l’ arcobaleno, e delle Arpie (venti tempestosi); Forchi (Phorkys) e Cheto (Ketos), personificazione dei pericoli del mare, la cui unione produsse le terribili Gorgoni e le Graie; infine Euribia (Eurybia) che andò sposa a Creo (Kreios), uno dei Titani.

3. Fin qui la Cosmogonia e la Teogonia s’ identificano, perchè, essendo gli Dei sorti dal Caos, una personificazione delle grandiose forze della natura, il nascimento loro rappresenta anche l’ origine delle cose e dei fenomeni naturali. Ma i miti ben presto si complicano e agli Dei pur mo’ nati si attribuiscono gesta e rapporti che non hanno più evidente connessione co significato primitivo. Raccontavasi dunque che, temendo Urano di perdere la signoria dell’ universo per opera dei suoi minori figli, i Ciclopi e gli Ecatonchiri, li relego nel profondo del Tartaro (i lampi, i tuoni e le tempeste sopraffatte dal cielo sereno e stellato). Gea, addolorata per questo, sollecito i Titani perchè facessero guerra al padre. Niuno dei maggiori aveva l’ ardire di ciò fare, ma sorto il più giovane, Crono, attaccò con violenza il padre, lo domò, lo mutilò e l’ obbligò a rinunziare in suo favore al dominio del mondo. Dal sangue di Urano nacquero le Erinni (Erinyes), furie vendicatrici d’ ogni delitto di sangue, i Giganti e le ninfe Meliadi (deità dei frassini, usati a formar il fusto delle lancie).

Spodestato Urano, cominciò il regno di Crono; ma neanche questo doveva esser lungo e felice. Il padre nel momento della sconfitta gli aveva predetto che avrebbe subito la stessa sua sorte; e così avvenne. Crono temendo di essere detronizzato da uno de’ suoi figli, li ingoiava tutti appena nati; già ave va ingoiato Estia, Demetra, Era, Ades e Posidone; ma quando nacque l’ ultimo figlio, Zeus, Rea lo nascose, e invece di esso porse al padre, involta nelle fasce, una pietra, che Crono, ingannato, ingoiò. Così Zeus fu salvo; e allevato dipoi segretamente da alcune ninfe in una grotta dell’ isola di Creta, crebbe ben presto in forze e maestà, e fatto adulto mosse contro Crono, e dopo averlo obbligato a rigettar fuori i figli ingoiati che per la divinità loro erano immortali, incominciò contro di lui la tremenda lotta che doveva por fine alla sua signoria.

4. Questa lotta fu detta Titanomachia, perchè, solo alcuni dei Titani Oceano, Temi, Mnemosine e Iperione essendosi schierati dalla parte di Zeus, rimasero gli altri a difesa del fratello. Zeus si valse anche dei Ciclopi e degli Ecatonchiri, liberandoli dai ceppi a cui li aveva condannati Urano. La guerra durò più di dieci anni, e ne fu teatro la fertile Tessaglia, avendo i Cronidi con Zeus occupato il monte Olimpo, i Titani con Crono e Giapeto il monte Otri. Fu combattuta con straordinaria violenza; di qua e di là scagliaronsi rupi; Zeus ricorse anche ai fulmini fornitigli dai Ciclopi; cielo e terra e fino il Tartaro rimbombavano dell’ immenso fragore.

È evidente il significato naturalistico di questo mito; con esso rappresentavasi un gran conflitto di forze della natura; forse era ancora un’ eco di quei grandi cataclismi geologici e diluvii, di cui era viva la tradizione e si scorgono anche ora palesi le traccie nelle viscere terrestri. La Tessaglia appunto era stata scelta a teatro di questa guerra, perchè ivi erano più manifesti i segni di antiche rivoluzioni geologiche.

Alfine i Titani vennero sconfitti, e gittati in catene nel profondo del Tartaro, lasciati loro a guardia gli Ecatonchiri, divenuti omai fide sentinelle di Zeus. Crono perdette il regno della vita e dovette contentarsi d’ allora in poi, secondo alcuni poeti, di regnare con Radamante sulle isole dei beati. Zeus divenuto signore dell’ universo, divise questo dominio co’ suoi due fratelli, riservando a sè il Cielo, lasciando a Posidone il governo del mare, ad Ades quello del Tartaro; la terra rimase neutrale.

Ma il nuovo ordine di cose non fu ancora assicurato. Gea crucciata per l’ imprigionamento dei Titani, si uni col Tartaro, e dato a luce un nuovo mostro Tifeo o Tifone (Typhæus, Typhon), con cento teste di drago vomitanti fuoco, dotato di grandezza e di forza meravigliosa, lo indusse a muover contro Zeus per rovesciarlo dal trono. Di qui una nuova, terribile lotta, che fe’ tremare cielo e terra; novella immagine di sconquassi geologici dovuti alle forze vulcaniche. I fulmini incessanti di Zeus domarono alfine il mostro, che fu gettato nel Tartaro anch’ esso; o, come posteriormente narravasi, fu rinchiuso nelle viscere dell’ Etna in Sicilia, donde ancora manifesta l’ ira sua vomitando fuoco e fiamme.

Alcuni poeti parlano anche di una Gigantomachia, ossia di una lotta contro Zeus dei Giganti, nati dalle goccie di sangue sparse da Urano dopo la lotta con Crono. Fra essi erano Pallante, Efialte, Encelado, Alcioneo, Porfirione ed altri. Costoro dai Campi Flegrei in Tessaglia tentarono, si dice, dar la scalata al cielo sovrapponendo il monte Ossa al Pelio. Alla grande battaglia che seguì presero parte tutti gli Dei, aiutati anche da Eracle e da Dioniso. I Giganti sopraffatti dovettero subire la stessa sorte dei Titani. Da quel momento la signoria di Zeus durò incontrastata, e niun avversario più sorse a turbar la quiete dall’ Olimpo.

5. Qual Dio corrisponde a Crono nella mitologia dei Romani? In origine i Romani non conoscevano alcun Dio come padre di Giove Ottimo Massimo; ma allorquando le idee greche penetrarono in Roma e si vollero trovar somiglianze e stabilire identificazioni, al greco Crono fu fatto corrispondere Saturno, antico Dio della seminagione, forse perchè anche Crono in alcune località greche era stato onorato come Dio della maturità, dell’ abbondanza e lo si rappresentava con in mano un coltello a falce, come Saturno; e le feste in onor di Crono, le Cronie, avevano qualche analogia col Saturnali. Identificato quindi Saturno con Crono, si favoleggiò che questi, detronizzato da Giove, si fosse rifugiato nel Lazio, ed ivi nascostosi; donde il nome stesso di Latium, his quoniam latuisset tutus in oris ( Virg., Eneide, 8,324). Si aggiungeva che sotto il regno di Saturno, gli uomini avevan goduto il secol d’ oro in tranquilla pace e fraterna eguaglianza; cacciato Saturno, succedette un periodo di discordie e di infelicità. — Quanto alle lotte dei Titani e dei Giganti, i Romani non fecero che ripetere le cose imparate dai Greci, anzi la Gigantomachia, come più popolare, fece pressochè dimenticare la Titanomachia, o meglio, si confusero le due guerre, e spesso i vocaboli « Titani » e « Giganti » usaronsi come sinonimi.

6. Nei monumenti figurati dell’ antichità non sono molto frequenti le rappresentazioni di Crono. Generalmente veniva raffigurato con faccia torva e accigliata, con la testa coperta all’ indietro da un velo, e con una piccola falce in mano. Un busto ben conservato è quello che conservasi nel Museo Vaticano di Roma qui riprodotto (fig. 1). Nel Museo Capitolino conservasi un bassorilievo che trovavasi su un lato d’ un altare in marmo di Giove e rappresenta il tiranno seduto, a cui una donna in piedi, la moglie Rea, porge un involto che il tiranno sta per accogliere nella destra mano. Si ricorda l’ inganno fatto a Crono da Rea, quando gli presentò una pietra in luogo del neonato Zeus.

Assai più frequente, sia nei poeti sia negli artisti, il ricordo delle lotte dei Titani e dei Giganti, i quali miti offrivano facile argomento a rappresentazioni piene di energia e di vita. Fra le descrizioni poetiche di queste lotte chi non ricorda quella che si legge nella Teogonia di Esiodo, (v. 629 e seg.), così mirabile per grandiosità e forza? E per tacere di tante allusioni che trovansi in molti autori e greci e latini, dove generalmente le due guerre si fondono in una, chi non ripensa la IV ode del libro terzo d’ Orazio, ove il racconto della lotta titanica è seguita da quella savia riflessione:

Vis consili expers mole ruit sua:
Vim temperatam Di quoque provehunt,
In maius; idem odere vires
Omne nefas animo movente s? 1

Ancora nei tardi secoli della decadenza latina, il poeta Claudio Claudiano compose un poemetto sulla Gigantomachia, il quale è a dolere non sia giunto intiero a noi.

Fra l’ opere d’ arte, si potrebbero citare molte pitture vascolari e rilievi marmorei che ancora conservansi e rappresentano questa o quella scena della Gigantomachia. Si noti che mentre nei lavori più antichi, i Giganti non hanno figura diversa dagli altri Dei ed eroi, a cominciare dall’ età di Alessandro Magno vennero raffigurati come aventi in luogo di gambe due serpenti che terminano dalla parte della testa. Un celebre cammeo del Museo Nazionale di Napoli rappresenta Giove su un carro tirato da quattro cavalli, in atto di scagliare il fulmine su un gigante a gambe serpentine, mentre un altro Gigante simile giace a terra morto. Splendida è la rappresentazione che si scorge in un bassorilievo di un sarcofago nel Museo Vaticano, dove si vedono i Giganti volgersi minacciosi al cielo, in atto alcuni di lanciar sassi, altri di strappar rami di albero per servirsene nella pugna; a cui fan contrapposto alcune figure di Giganti o già prostrati a terra o cadenti.

Noi presentiamo nelle fig. 2 e 3 due gruppi ricavati da rilievi marmorei di un altare di Giove in Pergamo, ora nel Museo di Berlino. In uno si vede Giove coll’ aquila nella sinistra, e nella destra un fulmine in atto di scagliarlo contro un gigante, mentre a sinistra un altro gigante, già fulminato, si solleva a stento da terra in atto di chieder grazia. Il secondo gruppo (fig. 3) rappresenta Atena, la figlia di Giove, come vincitrice in lotta contro un gigante e vicina a esser incoronata da una Niche; in fondo si scorge la figura di Rea che invoca pietà per i suoi figliuoli.

Già si è detto che vinti i Titani, e ottenuta la signoria dell’ universo, Zeus la divise co’ suoi due fratelli, Ades e Posidone, riservando a sè il cielo e affidando a loro le regioni del mare e dell’ interno. Questo assetto diventò definitivo, e rimase fin che fu vivo il Paganesimo. Tutte le Divinità greche erano dunque raggruppate intorno a Zeus, detto padre degli Dei e degli uomini. Le Divinità si distinsero in maggiori e minori. Per lo più si annoveravano a dodici le maggiori, comprendendovi, oltre Zeus, il fratello Posidone, le sorelle Era, Estia e Demetra, i figli Ares, Efesto, nati da Era, Apollo ed Artemide nati da Leto, Atena uscita dal cervello di Zeus, Ermes nato da Maia e Afrodite nata da Dione. Salvo Posidone, tutte queste divinità, insiem con altre, si favoleggiava abitassero sull’ Olimpo, donde già i Cronidi avevano sostenuto la lotta contro i Titani; e l’ Olimpo con le sue alte vette si pensava toccasse il cielo e ivi sorgessero i palazzi degli Dei fabbricati da Efesto. Gli Dei minori poi erano innumerevoli e avevano sede parte nell’ Olimpo parte in terra, in mare e nell’ inferno.

A parlare ordinatamente di tutti questi Dei, li divideremo in tre ordini, gli Dei del cielo, gli Dei dell’ oceano e delle acque e gli Dei della terra e dell’ inferno.

Capitolo secondo.
Gli Dei del Cielo. §

A. Divinità primarie. §

I. Zeus-Iupiter. §

1. Il Dio supremo del mondo, il Dio per eccellenza, era per i Greci Zeus, per i Latini Iupiter. La parola Zeus, ossia Djeus (genitivo Diós) si connette colla indiana Djaus, che vuol dire: cielo, giorno; e dalla stessa radice deriva pure il lat. Iov di Iov-is, nomin. Iov-pater, Iu-piter (ind. Djaus-pitar = padre del giorno). Adunque l’ idea della suprema Divinità si è nelle origini associata al fenomeno naturale della luce, del giorno e del brillar del cielo. Da questo concetto di Dio celeste derivano appunto le attribuzioni varie di Zeus. Egli presiede ai fenomeni atmosferici; raccoglie le nuvole e le sperde; comanda alle tempeste; fa balenar i lampi e rumoreggiar il tuono, e quando gli talenta, scaglia colla potente destra il fulmine distruggitore; d’ altro lato egli è che manda la pioggia benefica a fecondar la terra e maturarne i frutti. Insomma, per dirla con un’ espressione popolare che designa appunto un alto grado di potenza, egli è che « fa la pioggia e, il bel tempo ». A queste attribuzioni si connette l’ Egida o scudo di Zeus; in origine null’ altro che un manto di nembi, scuotendo il quale n’ uscivano procelle e tempeste, più tardi creduto la pelle della capra Amaltea cinta tutt’ intorno di serpenti, sul cui mezzo Giove aveva fissato il volto della Gorgone per atterrire i suoi avversari.

2. Alle attribuzioni fisiche del sommo Iddio fanno riscontro le morali. Egli vien detto « padre degli Dei », perchè, sebbene ultimo nato nella sua divina famiglia, ha però l’ autorità suprema su tutti gli Dei e n’ è il capo riconosciuto. In lui risiede la sapienza; egli è potente e, solo fra gli Dei, libero nel suo agire, non avendo altro limite alla volontà sua che il potere inesorabil del fato (la Moira). Ha il supremo governo del mondo, ed è egli il custode dell’ ordine e dell’ armonia che regna nelle cose. Degli uomini è padre come degli Dei; ad essi dispensa con mano giusta i beni e i mali; a tutela dell’ ordine, egli delega al re per qualche tempo una parte dell’ autorità sua sugli uomini, e li punisce se sgovernano; sorveglia le popolari adunanze ispirando buoni consigli e impedendo i disordini. Poichè il giuramento molto contribuisce a mantener l’ ordine, egli lo custodisce come Zeus Horkios (deus Fidius presso i Romani), e punisce lo spergiuro. Il sacro dovere dell’ ospitalità è pure tutelato da Zeus Xenios (Hospitalis); a nome di lui si presentano i mendicanti e i forestieri, ed egli punisce chi trascura di accoglierli e ospitarli benignamente. Come dello stato così Zeus è anche il protettore della famiglia; ogni capo di famiglia era come un sacerdote di Giove, e in nome de’ suoi dipendenti offriva a lui regolari sacrifizi. Insomma Zeus era il Dio Sovrano, il Dio per eccellenza; e il concetto che se n’ aveva non differiva gran fatto dall’ idea di Dio che si ha anche ora presso i volghi cristiani.

Un altro particolare. Poichè i fenomeni celesti eran creduti segni col quali la divinità si rivelava agli uomini, Zeus, come dio supremo, doveva essere naturalmente la fonte più alta di divine rivelazioni. In vario modo credevasi manifestasse la sua volontà, per via del tuono e del lampo, per mezzo del volo degli uccelli, per mezzo dei sogni, ecc. Era ritenuto anche il principal dio degli oracoli, ed aveva anche i suoi oracoli egli stesso, principalissimi quei di Dodona in Epiro e di Olimpia, e manifestava poi anche l’ avvenire per mezzo del suo prediletto figlio Apollo.

3. L’ alto concetto che della suprema loro divinità avevano gli antichi, non impedi che si diffondessero e moltiplicassero intorno a Zeus leggende antropomorfiche, nelle quali egli compariva come un uomo con tutte le debolezze e i vizi dell’ umanità. Figlio di Crono e di Rea, egli fu bambino, e debole, impotente come tutti i bambini degli uomini. A stento sottratto da Rea alla crudeltà di suo padre, venne allevato, in un antro segreto dell’ isola di Creta, per cura della ninfa Adrastea, e ricevette il latte dalla capra Amaltea; e perchè i suoi vagiti non giungessero alle orecchie di Crono, i Cureti, sacerdoti di Rea, facevano un gran fracasso intorno alla culla di lui, battendo le spade contro gli scudi. Divenuto poi adulto, e potente, Zeus non disdegnò, secondo la leggenda, di cercar sollazzo negli amori di molte donne e immortali e mortali, destando così la gelosia di Era sua legittima moglie. Prima egli ha rapporti con l’ Oceanide Metis (l’ assennatezza), ma ben presto temendo nascesse da lei un figlio che gli togliesse la signoria dell’ universo, l’ ingoia, ed esce poi dal suo cervello, bella ed armata, Pallade Atena (Pallas Athena). Dopo egli conobbe Temi (Themis), appartenente alla famiglia dei Titani, da cui generò le Ore e le Parche. Il Zeus di Dodona ebbe in moglie Dione, la madre di Afrodite; quello d’ Arcadia ebbe Maia da cui nacque Ermes (Hermes). Inoltre, con Demeter Zeus generò Persefone (Persephone, Proserpina, dea della vegetazione), con Eurinome (Eurynome, una oceanide) le Cariti o Grazie, con Mnemosine (Mnemosyne) le Muse, con Leto (Latona) Apollo ed Artemide. Era, la sorella e moglie legittima di Zeus, non gli diede che due figliuoli, Ares (Marte) ed Efesto (Hephaistos, Vulcano). Tra le donne mortali amate da Zeus, la più celebre è Semele, figlia di Cadmo il re Tebano, come madre del dio Dioniso (Dionysus, Bacco), poi Alcmena che die’ alla luce Eracle (Herakles, Ercole); delle altre, Leda, Danae, Europa, Io, si riparlerà nella parte seconda.

Rispetto a questi molteplici amori attribuiti dalla leggenda a Zeus, son da notare due cose: prima che spesso il linguaggio mitico presenta in forma di amore e di generazione la produzione di certi fenomeni naturali: ad es. l’ unione di Zeus con Leto e la generazione di Apollo e Artemide significa l’ unione del cielo e della notte, da cui provengono i raggi del sole e quelli della luna; l’ amore di Zeus con Demeter, la dea delle biade, rappresenta l’ unione primaverile del cielo e della terra, che dà origine alla vegetazione. In secondo luogo ciascuna località ove Zeus era oggetto di culto aveva le sue proprie leggende, identiche nella sostanza ma varie nei particolari; diffusesi poi a tutta la nazione, queste leggende vennero considerate come diverse, e così le invenzioni relative al supremo Dio vennero a essere moltiplicate.

4. Il culto di Zeus si estese in tutte le provincie dell’ Eliade, essendo riconosciuto come il Dio di tutta la nazione. Tuttavia alcune località acquistarono importanza maggiore dell’ altre; di tutte la più antica era Dodona, città della Tesprozia in Epiro, dove già era oggetto di culto Zeus quando non eravi ancora in tutta la Grecia alcun tempio a lui dedicato. Ivi era una sacra foresta di annose quercie, le cui foglie agitate dal vento, esprimevano col loro fremito misterioso gli oracoli divini, che dai sacerdoti venivano interpretati. Anche sulla cima del monte Tomaro, a’ cui piedi giaceva Dodona, era venerato Zeus, come del resto quasi tutte le alture erano anticamente sedi del culto di questo dio celeste; ciò sia nella Grecia continentale sia in Creta e in altre isole. Ma il luogo più celebre di tutti pel culto di Zeus divenne la città di Olimpia in Elide, ove ogni quattr’ anni (il periodo detto perciò Olimpiade) si radunavano i Greci di tutte le provincie per celebrarvi i giochi Olimpici in onor di Giove. Ivi, tra molte altre opere d’ arte, era la famosa statua di Fidia, della quale parleremo fra poco.

5. Al Zeus greco corrisponde il Iupiter dei Latini. Anche questi era il Dio del cielo e dell’ atmosfera, quindi della luce, della pioggia e della tempesta, e pero invocato col titoli di Diespiter, padre del giorno, e Iupiter Lucetius, Giove dator della luce. Presiedeva all’ agricoltura, e come sovrano delle lotte fra gli elementi della natura, anche alle battaglie. Dal lato morale, anche Iupiter era il dio tutelare dell’ onestà, della giustizia, della lealtà, ed era detto Dius Fidius, e la Fides era un’ attribuzione di lui. Con lui si confondeva il dio Terminus che custodiva i limiti delle proprietà prediali. Il culto di Giove si diffuse fin dai primi tempi di Roma, e col titolo di Giove Ottimo Massimo ebbe dai Tarquinii l’ onore di un celebre tempio sul monte Capitolino. Più tardi al culto di Giove si uni quello di Giunone e Minerva, e in onore di questa triade Capitolina si istituirono i Ludi Romani con giochi e spettacoli scenici. Quando poi gli imperatori introdussero in Roma il culto degli Dei asiatici, altre divinità orientali si fusero con Giove; e si ebbe quindi un Iupiter Optimus Maximus Heliopolitanus, ossia il dio di Eliopoli in Egitto, raffigurato come un giovane che tiene una mano sul timone del carro solare, ed ha nell’ altra il fulmine e delle spighe di grano; e un Iupiter O. M. Dolichenus, il dio guerriero di Dolica in Siria, dall’ aspetto fiero e armato alla romana, protettore dei soldati nel basso Impero.

6. La figura di Zeus-Iupiter nella letteratura e nell’ arte. Cenni del Dio supremo e rappresentazioni più o meno compiute della sua figura è naturale che ricorrano assai di frequente nelle opere letterarie e nelle artistiche. È celebre la pittura Omerica (Il. 1,528) del figlio di Crono che china i neri sopraccigli; onde sull’ immortal capo di lui ondeggiano le chiome divine, e il grande Olimpo ne trema. Più materiale è l’ immagine che ci dà lo stesso poeta della forza di Zeus mettendogli in bocca queste parole: « Orsù, dic’ egli agli altri Dei quando proibisce loro di prender parte alla battaglia che si combatteva presso Troia (Il. 8, 18 e seg. ), fate questa prova: appeso giù dal cielo un canapo d’ oro, attaccatevi tutti a quello quanti siete, Dei e Dee; voi non riuscirete, per quanto vi stanchiate, a tirar giù dal cielo me Zeus, il supremo reggitore; ma se io volessi tirar su, potrei tirar su voi insiem colla terra e col mare, e legar indi la corda alla più alta rupe dell’ Olimpo, sì che tutto l’ universo rimarrebbe penzoloni; tanto io sono più forte degli Dei e degli uomini ». In senso elevato cantaron di Zeus i grandi poeti lirici dell’ Ellade, e inni speciali composero Terpandro, Alcmano, Simonide, Pindaro. Più di tutti celebrò le lodi del Dio ottimo e sapientissimo il tragico Eschilo, talchè si più dire egli rappresenti la fede greca nel suo momento più alto e più bello. Anche la filosofia si valse di questo concetto e invocò il nome di Zeus, ma ben presto le idee panteistiche guastarono l’ immagine dei prischi tempi, facendo di Zeus l’ anima dell’ universo e ornandolo dei più contrari attributi: così presso gli Stoici e gli Orfici. — Dei Latini basti ricordare il solo Orazio, il cui Giove clarus Giganteo triumpho, Cuncta supercilio movens2 (Od. 3,1,7) è un pallido riflesso del Zeus omerico; ma che bene ha saputo esprimere il governo del mondo in questa strofa:

Qui terram inertem qui mare temperat
Ventosum et urbes regnaque tristia
Divosque mortalesque turbas
Imperio regit unus aequo
(Od. 3, 4, 45 sg.)3.

Venendo alle rappresentazioni figurate di Zeus, è naturale che di esse e specialmente di statue se ne trovasse in antico un numero incalcolabile, chi pensi alla grande diffusione del culto e al numero grandissimo di templi dedicati a questa divinità in tutta la Grecia. Ma il monumento più grandioso e degno di ammirazione era la statua fatta dal celebre Fidia (500-432 av. C.) e collocata nel tempio di Olimpia. Così la descrive il Gentile nella sua Storia dell’ arte greca (p. 108): « Il Dio, di forme gigantesche, sta va seduto in trono, toccando quasi del capo il soffitto del tempio. La parte superiore del corpo nuda, l’ inferiore avvolta in un manto a larghe pieghe fluenti sino ai piedi; nella mano sinistra reggeva lo scettro sormontato dall’ aquila; nella destra una piccola Nike alata volgentesi a lui con una benda, simbolo di vittoria, quasi significasse: da te vien la forza, da te il vincere. Nel volto era mirabilmente armonizzata la significazione della potenza divina e della benignità: la fronte ampia, serena, l’ occhio grande, la dolce linea delle labbra, la molle pienezza delle guancie, le chiome e la barba fluenti in lunghe ciocche componevano l’ espressione di mitezza e insieme di pensosa maestà; il petto largo e poderoso diceva la forza. La statua era crisoelefantina, d’ avorio i nudi, d’ oro con ismalti colorati il manto. Il trono era pur esso un’ opera immensa in cui alla ricchezza dei legni preziosi, dell’ oro, delle pietre, dell’ avorio univasi una miracolosa varietà ed abbondanza di rappresentazioni e di forme con rilievi, statue e pitture ». Questo capolavoro dell’ arte ellenica ancor si trovava in Olimpia sul finire del 4º secolo dopo C. Ai tempi di Teodosio, cessate del tutto le feste olimpiche, credesi la statua fosse trasportata ad ornare Costantinopoli e ivi sia perita in un incendio. Per farsene un’ idea ora, oltre la descrizione che ne ha lasciata scritta Pausania, valgono le riproduzioni su monete di Elide coniate ai tempi di Adriano (fig. 4); in una è l’ immagine di tutta la statua col trono, in altra solo del capo. — Nei secoli seguenti l’ ideale di Fidia parve non abbastanza interessante; si desiderava un’ espressione più spirituale e si cercava ottener cui con maggior finitezza di particolari. Un notevole esempio di questo più recente ideale è il busto marmoreo del Museo Pio Clementino, detto « Giove di Otricoli » (fig. 5). La ricca chioma che si drizza sopra la fronte e scende egualmente ai due lati dà al viso un cotale aspetto leonino e un’ espressione di grande forza mentre la bocca lievemente aperta e le linee serene del volto accennano a una dolce mitezza. Celebre è anche la statua detta di Verospi nel Museo Vaticano, la quale rappresenta Giove seduto col fulmine nella destra, e colla sinistra in energico atteggiamento appoggiata sullo scettro. Anche in altri Musei trovansi belle statue di Giove o in marino o in bronzo. In tutte si nota la ricca chioma, la barba folta e ricciuta, il largo petto, indizio di forza; costanti attributi sono lo scettro del potere, il fulmine, l’ aquila, la patera sacrificale come segno di culto, una palla sotto o vicino al trono, come segno dell’ universo da lui governato, infine la Niche o Dea della vittoria. Spesso la sua chioma è ornata o d’ una corona di quercia, perchè la quercia era a lui sacra, o d’ un ramo d’ olivo, o d’ una benda indizio del potere regio.

II. Era-Giunone. §

1. Figlia maggiore di Crono e di Rea, sorella e moglie di Zeus, Era è la divinità femminile del cielo, come Zeus ne è la divinità maschile. Gli attributi di lei corrispondono esattamente a quelli di Zeus; anch’ essa presiede ai fenomeni atmosferici e celesti, anch’ essa scatena le tempeste ma con minor violenza di Zeus; anch’ essa divide con Zeus gli onori del regno celeste. I rapporti coniugali di Era con Zeus formavano il nucleo dei miti ad essa relativi ed offrirono copiosa materia ai poeti. Specialmente erano celebrate le sacre nozze delle due deità celesti, da cui si faceva dipendere tutta la feracità della terra. La memoria n’ era solennemente festeggiata in primavera, specialmente nelle località devote al culto di Era, come Argo, Micene, l’ Eubea, Samo ed Atene, con speciali sacrifizi e cerimonie nuziali. Molto spesso anche si compiacquero i mitografi di raccontare i coniugali dissensi della celeste coppia; Era veniva dipinta come gelosa e maligna e tale che non esitava a perseguitare accanitamente le donne amate da Zeus e la loro discendenza; do ve ricordiamo che il primitivo significato dei miti, spesso abbastanza trasparente, toglie a questi racconti quel che di strano e d’ immorale che a prima vista presentano. Così Io, amata da Zeus e mutata da Era in vacca e data a custodire ad Argo dai cent’ occhi, non è altro che la luna errante nelle regioni celesti (la vacca cornuta simbolo della luna parziale), e Argo è appunto il cielo stellato attraverso il quale essa compie la sua peregrinazione. Anche l’ essere Era una deità della tempesta spiega come sia stata pensata madre di Ares, e il suo culto si connettesse con giuochi di guerra, ed essa serbasse un’ accanita ostilità contro i suoi nemici, ad es. nella guerra troiana contro i Troiani.

2. Ma il carattere morale di Era ricevette nelle leggende greche maggiore sviluppo che il suo carattere fisico. Essa era specialmente celebrata come rappresentante del vincolo coniugale, e la nobiltà della donna che serba costante fede al marito trovava in lei la sua più alta espressione. Quindi essa era considerata come protettrice del matrimonio e delle mogli, datrice di fecondità, e come madre di Ilitia (Ilithyia) era venerata quale dea della maternità.

3. In origine il culto di Era non era molto diffuso. La culla di questo culto fu la città di Argo, onde la Dea era preferibilmente chiamata l’ Argiva. Argo, Micene e Sparta, seconde Omero eran le sue città predilette. Diffusosi il concetto di dea protettrice del matrimonio, anche il culto naturalmente si allargò sempre più. Da tempo antichissimo era essa venerata in Beozia e nelle isole di Eubea e di Samo. Il suo principal tempio era il così detto Ereo (Heraion), edificato verso il 423 av. C. tra Argo e Micene. Ivi trovavasi la più bella e preziosa statua della Dea, fatta da Policleto di Sicione, artista poco più giovane di Fidia, statua crisoelefantina, in oro e avorio come il Giove di Fidia, e a questo creduta pari per bellezza.

4. Giunone è la dea romana che s’ identifica con Era (Iuno = Iovino, nome femminile di Giove). Dapprima era confusa con Mater Matuta, vecchia divinità italica della luce matutina; ma ben presto furono dimenticati i caratteri fisici, ed essa divenne semplicemente la protettrice delle matrone romane, cui essa assisteva in tutti gli atti della vita. Anzi ciascuna donna di Roma si diceva aver la sua Giunone, come ogni uomo aveva il suo Genio. Varii erano poi gli epiteti dati a Giunone secondo il momento della vita affidato alla sua tutela; Iuno Lucina presiedeva all’ atto del nascere, ed era invocata da chi stava per divenir madre; Iuno Pronuba presiedeva alle nozze (dal latino nubere, sposarsi, detto delle donne); Iuno Domiduca (domum ducere condurre a casa) conduceva la fidanzata alla casa dello sposo, ecc. Questo di speciale ebbe la romana Giunone, che divenne anche protettrice dell’ intero stato, col nome di Iuno Regina. Aveva la sua cella nel tempio Capitolino, accanto a quella di Giove. La festa principale della Dea era quella detta Matronalia, che si celebrava il primo di Marzo. Quel di tutte le matrone romane recavansi processionalmente al tempio dedicato alla Dea sul monte Esquilino per offrirle doni e sacrifizi. Alla Iuno Lucina era dedicato il primo d’ ogni mese. — Ancora è da ricordare la Iuno Moneta, così invocata in ringrazi amento d’ un avviso (monere — avvisare) che si credeva aver ricevuto da lei in occasione d’ una pubblica calamita. Per confusione di parole, se n’ era poi anche fatta una protettrice della moneta e della zecca romana.

5. Molti busti e statue di Era e Giunone ci sono stati trasmessi dall’ arte antica, e formano ancor oggi l’ oggetto dell’ ammirazione per una perfetta rappresentazione della bellezza matronale. Prima va ricordata una testa del Museo di Napoli (fig. 6) che probabilmente venne modellata sul capolavoro sopra menzionato di Policleto. Poi è degna d’ ammirazione la testa colossale detta l’ Era Ludovisi (fig. 7), vero tipo di bellezza femminile, piena di grazia e dignità. Il Goethe soleva paragonarla a un canto d’ Omero. La statua dell’ Era Barberini (fig. 8), ora in Vaticano, è celebre anche per le ricche pieghe del manto ond’ è adorna. Del tutto diversa la così detta Giunone di Lanuvio (fig. 9), pure conservata in Vaticano, rappresenta la Dea coperta d’ una pelle di capra, con lancia e scudo, in atteggiamento guerriero. Distintivi della figura di Era sono: il mento alquanto pronunziato, indizio di ferma volontà, le labbra sporgenti, grandi occhi, alta e nobile fronte. Le si attribuisce solitamente lo scettro e il diadema, come simbolo della regal potestà, spesso il velo di sposa, la patera dei sacrifizi in mano, un melograno come simbolo dell’ amore; ai piedi le si pongono il pavone e l’ oca, animali a lei sacri, spesso anche il cuculo come messaggiero della primavera.

III. Pallade Atena-Minerva. §

1. Secondo la teogonia di Esiodo, Pallade Atena era figlia di Zeus, essendo balzata fuori tutta armata, come già si disse, dal cervello ili lui, dopochè egli aveva ingoiato la sua prima sposa Metis. Gli è il cielo temporalesco, gravido di nubi, che in mezzo a procelle e lampi partorisce la dea del cielo luminoso, dell’ etra raggiante che si manifesta nel bagliore improvviso del lampo. Difatti si favoleggiava che al momento del nascere di Atena tutta la natura si fosse commossa, avesse tremato la terra, il sole avesse interrotto il suo corso. In conseguenza Atena era deità bellicosa, come quella ch’ era nata in mezzo alle lotte celesti e coll’ arme in pugno; ma era anche contemporaneamente dea della quieta e serena luce celeste, quindi della pace, della saggezza, quasi la personificazione della prudenza di Giove. Come dea guerresca, Atena porta oltre le solite armi, l’ elmo, l’ asta lo scudo, anche l’ egida col Gorgoneo. È l’ egida stessa appartenente a Giove, ma che viene poi assegnata costantemente ad Atena; si diceva fosse la pelle della capra Amaltea con in mezzo l’ orribil testa della Gorgone Medusa. Era costei, secondo la leggenda, una giovine mortale che avendo osato paragonarsi in bellezza ad Atena, ebbe i capelli cangiati in serpi, il corpo fatto squamoso, lo sguardo reso si terribile, da impietrare chi la riguardasse. Quando Perseo l’ uccise, Atena n’ avrebbe presa la testa, irta di serpi, per fissarla nel centro della sua egida, a terrore de’ nemici suoi. In fondo tutto ciò rappresenta la nube temporalesca che nasconde la luce del giorno e atterrisce gli uomini, ma vien dissipata dalla serena luce.

2. I caratteri morali di Atena sono connessi col fisici; ella rappresenta la luce dell’ intelligenza, che guida gli uomini sia in guerra sia in pace, ed è loro datrice di ogni bene. Essa dirige gli eserciti agli assalti, ma a differenza di Ares, Dio, come vedremo, della guerra brutale, essa ispira i movimenti più ragionevoli e i più accorti stratagemmi di guerra. Omero ce la descrive consigliatrice e protettrice anche di singoli guerrieri, Ulisse, Achille, Diomede. Fu lei che insegnò ad aggiogare i cavalli, e a usar i cocchi in battaglia; essa invento la tromba di guerra e il flauto. In tempo di pace, Atena è la dea protettrice delle città e degli stati (detta perciò Athena Polias, da polis, città, stato); essa favorisce la coltura, inventa per l’ uomo le cose più utili alla vita, l’ aratro, il telaio, ecc., e insegna l’ arti tutte o le industrie. Infine come Atena Igiea (Hygieia), purifica l’ aria, ne allontana i germi contagiosi e protegge la salute pubblica.

3. Una Dea così benefica all’ umanità doveva avere un culto molto diffuso; e infatti era essa venerata ad Argo, a Corinto, in Isparta, in Arcadia, poi in Beozia, in Tessaglia, nell’ isola di Rodi; ma il luogo dove questo culto raggiunse il massimo sviluppo, la vera patria di Pallade Atena fu la città che ebbe nome da lei, anzi l’ intiera regione Attica. Per il possesso di questa terra aveva la Dea gareggiato con Posidone il re del mare, avendone Zeus assegnata la signoria a chi le facesse il dono più utile. Ora Posidone le aveva donato il cavallo, ma Atena l’ albero dell’ ulivo; onde era rimasta vincitrice. Gli Ateniesi poi in particolare tenevano la Dea in grande venerazione. Nell’ Acropoli v’ erano due templi a lei dedicati, l’ Eretteo e il Partenone. L’ Eretteo sorgeva dal lato di settentrione, precisamente là dov’ era la sacra pianta d’ olivo donata dalla Dea e vi si conservava una statua di lei che si diceva caduta dal cielo. Rifatto nell’ età di Pericle constava di tre celle fra loro raggruppate, e destinate alle tre Divinità, Atena Polias, Posidone e Pandroso. Il Partenone, il più grande fra gli edifizi dell’ Acropoli ateniese, imponente anche ora nelle sue rovine, era dedicato ad Atena Parteno (Parthenos = vergine). Rifatto anch’ esso nell’ età di Pericle, venne riccamente ornato di bassorilievi per opera del gran Fidia4, il quale pure compose la statua della dea posta in fondo alla cella; statua di cui diremo più sotto. La venerazione delle genti Attiche per Atena aveva una splendida manifestazione nelle feste Panatenee celebrate nel terzo anno di ogni Olimpiade. Oltre a spettacoli ginnici, corse a piedi, a cavallo, colle fiaccole, certami musicali e poetici, aveva luogo allora una solenne processione alla quale prendevano parte elette rappresentanze di tutte le tribù attiche, e riusciva una solenne testimonianza della gratitudine che si professava verso Atena datrice d’ ogni ricchezza e d’ ogni virtù. Queste erano le grandi Panatenee; v’ erano anche le piccole Panatenee, che si celebravano ogni anno, ma senza processione.

4. L’ italica Minerva o Men-er-va era una dea della mens o dell’ intelligenza come Pallade Atena; quindi venne ben presto con essa identificata; con questo però che in Minerva prevaleva il concetto di una dea pacifica, protettrice delle arti e delle scienze, come pure di tutti i lavori femminili. Una Minerva guerriera non fu pensata che tardi, per analogia d’ Atena; ad essa ad es. Pompeo edificò nel 693/61 un tempio nel campo Marzio quando tornò vittorioso dall’ oriente, e un altro glie ne innalzo Augusto dopo la battaglia di Azio. Come dea della pace, Minerva era venerata insieme con Giove e Giunone, ed aveva la sua cella nel gran tempio di Giove Capitolino. Altri templi a lei dedicati sorgevano sull’ Aventino e sul Celio; presso il primo avevano il locale per le adunanze loro i poeti; il secondo aveva nome da Minerva Capta o Capita, ossia l’ ingegnosa, essendo la testa sede dell’ intelletto.

In onor di Minerva si celebravano a Roma feste in Marzo e in Giugno; duravan cinque giorni, ed eran dette Quinquatrus perchè cominciavano il 19 del mese, che era il 5º giorno dagli Idi. La più solenne era la festa del Marzo a cui prendevan parte tutti quelli che esercitavano professioni liberali, oratori, artisti, medici, soprattutto i maestri e gli scolari. In que’ giorni si faceva vacanza, e si pagava ai maestri il loro onorario (Minerval). La festa minore, del Giugno, era particolarmente la festa dei musici, e soprattutto dei suonatori di flauto (tibicines). In occasione dei Quinquatrus maggiori si davano per quattro giorni spettacoli di lotte gladiatorie, perchè, come Ovidio dice: ensibus exsertis bellica Dea laeta est (Fast. 6,814)5, un ricordo dunque della Minerva guerriera.

5. Numerosissimi cenni di Atena-Minerva, e parziali racconti de’ suoi miti troviamo nella letteratura greca e latina. Bella la pittura che nella settima Olimpica ci fa Pindaro della Dea che « fuor d’ un salto balza armata dal cervello di Giove, un alto grido tonando, a cui la Terra madre e il cielo inorridi » (traduz. Fraccaroli). Le attribuzioni e le benemerenze di Minerva ben discorse Ovidio nel terzo de’ Fasti ricordando le feste dei Quinquatrus; e lo stesso poeta nel sesto delle Metamorfosi con l’ usata vivacità e freschezza di colori narra l’ avventura di Aracne che avendo voluto competere colla Dea nell’ arte del ricamo fu da lei punita e mutata in ragno.

Ben più numerose le rappresentazioni relative a Minerva nei monumenti figurati. Fin dai tempi più antichi, prima che si usassero statue di bronzo o marmo, gli artisti fabbricavano immagini di Pallade in legno, generalmente colla lancia in mano e atteggiamento guerriero. Tali immagini si vestivano con paludamenti più o men ricchi e si conservavano con religiosa venerazione nelle città; le considera vano come una difesa e una garanzia contro i nemici esterni, e li chiamavano Palladii, favoleggiando anche per lo più che fossero venuti giù dal cielo. È noto che i Troiani cominciarono a disperare della loro salvezza quand’ ebbero perso il Palladio, tolto loro con uno stratagemma dai Greci. Un Palladio conservavano anche nel tempio di Vesta i Romani, credendolo appunto il Palladio troiano, e Cicerone lo chiama in un’ orazione: pignus nostrae salutis atque imperii6. — Nell’ età classica dell’ arte, gareggiarono gli artisti greci nel rappresentare la Dea, ma furono tutti superati da Fidia, il quale non solo curo l’ ornamentazione plastica del Partenone con rilievi concernenti i miti relativi ad Atena e le cerimonie del culto di lei, ma compose l’ ammirata statua che custodivasi nella cella, detta appunto Atena Parteno. « Rappresentava (così il Gentile , op. cit. p. 101) la vergine dea protettrice di Atene nella serena maestà della pace dopo la vittoria. Ritta, avanzava di alcun poco il piede destro; la copriva un semplice chiton, che a larghe pieghe scendeva ai piedi; nuda le braccia e il collo; il petto coperto dell’ egida, nel cui mezzo effigiato il capo anguicrinito della Medusa; la testa difesa coll’ elmetto attico, adorno sul dinanzi da una figura di sfinge, e sul lati da due grifoni in alto rilievo, simbolo quello della imperscrutabile sapienza della dea, questi della vigilante sua custodia, come guardiana del pubblico tesoro deposto nel tempio. La mano sinistra posava leggermente sull’ orlo superiore dello scudo, e insieme reggeva l’ asta che come abbandonata le si reclinava alla spalla; di sotto allo scudo ergeva il collo un serpente accovacciato. La mano destra si stendeva innanzi sostenemmo sulla palma una statuetta della Vittoria alata. Così era raffigurata la dea come se reduce dalla battaglia si raccogliesse nella tranquillità del tempio a deporre l’ asta e lo scudo, quando la Vittoria vola a porgerle corona. Il serpente accovacciato fra i piedi e lo scudo è simbolo di Erittonio, mitico re dell’ Attica, od anche del popolo ateniese prosperante sotto la protezione della Dea ».

La statua era preziosissima, alta ben dieci metri, tutta in avorio e oro, con due gemme per occhi e adorna anche nella base di rappresentazioni mitiche. Nello scudo Fidia aveva effigiato anche la propria figura; il che considerato come atto di empietà fu poi cagione della condanna di lui. — Un’ altra celebre statua di Fidia era la così detta Atena promachos o propugnatrice, statua colossale, posta sulla spianata dell’ Acropoli e che sopravanzava col cimiero e colla punta dell’ asta il fastigio dei vicini edifizi, ed appariva visibile fin dal promontorio Sunio. — Questi capolavori più non esistono; ma dell’ Atena Parteno abbiamo delle sicure imitazioni, ad es., quella riprodotta nella fig. 10, che è una statuetta alta un metro, trovata nel 1880 ad Atene. Altre risentono più o meno dell’ influenza dell’ opera fidiana, ad es. la così detta Minerve au colier che è nel Museo del Louvre. Noi riproduciamo nella fig. 11 una statua che è nel Museo nazionale di Napoli; figura Atena coll’ elmo attico come quella di Fidia, ma indosso invece di una tunica ha un pallio ricco di ben disposte pieghe, maestoso e nobile il portamento. La fig. 12 rappresenta una imitazione in bronzo d’ un palladio. La fig. 13 è riproduzione di una statua del Museo Capitolino; non più l’ elmo attico tondo, ma l’ elmo corinzio, l’ egida ridotta a una specie di corsetto colla testa di Medusa in mezzo quasi fibbia; ciò in conformità della maniera usata dagli artisti meno antichi; l’ atteggiamento vivace ricorda la statua ch’ era nel frontone orientale del Partenone, rappresentante l’ improvvisa comparsa di Atena fra gli Dei.

Le statue romane di Minerva erano affatto simili alle Greche. Ricorderemo solo la così detta Pallade del Giustiniani trovata dove ora è la chiesa di S. Maria sopra Minerva a Roma e conservata nel Museo Vaticano.

In tutti questi monumenti la figura di Atena appar contrassegnata da una grande dignità di linee, qual convenivasi alla casta e vergine Dea, e ad un tempo da tutto quel che indica ferma volontà e forza. Delle bestie che son messe in rapporto con lei, van ricordati specialmente il serpente, la civetta e il gallo. Suoi attributi sono l’ egida, la lancia, l’ elmo.

IV. Apollo. §

1. Febo Apollo era detto, come Artemide, figlio di Zeus e di Leto o Latona. Narravasi che perseguitata dalla gelosia di Era, la povera Leto fosse stata costretta a peregrinare di terra in terra prima di trovar un luogo sicuro dove dare alla luce i figli suoi. Finalmente ebbe ospitalità nell’ isola di Delo, ed ivi alle falde del monte Cinto partorì Apollo (detto perciò Delio, Cinzio) ed Artemide. Delo che prima era un’ isola non fissa, divenne d’ allora in poi una stabile terra perchè Posidone la assicurò con potenti colonne al fondo del mare.

Febo Apollo è il Dio raggiante, il dio della benefica luce, il sole che vien fuori dal grembo della notte (Latona, la nascosta), e Delo, che vuol dire « quella che mostra » è il luogo adatto per questa epifania della luce. E come la luce combattè e disperde le tenebre, così è naturale che Apollo pugnasse contro i tenebrosi nemici; la leggenda ce lo rappresenta fin da giovinetto in lotta contro il gigante Tizio (Tityos), nato dalla terra, che avendo osato offendere Leto fu da Apollo ucciso; e contro il serpente Pitone (Python), mostro parimente nato dalla terra, che infestava la pianura di Crisa nelle vicinanze di Delfo. Una simile vittoria di un Dio contro un serpente, ricorre in tutte le mitologie e simbolizza il trionfo del giorno sulle potenze delle tenebre. Apollo avendo colle sue freccie ucciso Pitone, n’ ebbe il soprannome di Pizio, e Delfo divenne d’ allora in poi sede principale del culto di questo Dio. Molte altre leggende si raccontavano di Apollo, tutte riferibili agli effetti della luce e del calore solare. E per i benefizi da lui apportati alla vegetazione, Apollo era venerato come Targelio (Thargelios), il calore fecondo che matura i frutti della terra (di qui il nome del mese Targelione, o Maggio); era soprannominato da alcuni Sminteo (Smintheus, da sminthos, topo), perchè distruttore dei topi che rodono le biade; da altri Parnopio (Parnopios da parnops cavalletta) perchè difesa contro le cavallette. Nota leggenda era quella che faceva Apollo servo pastore di Admeto re della Tessaglia, o di Laomedonte re della Troade; espressioni allegoriche della sorte cui sembrava condannato il sole nella stagione invernale, la quale pareva in certo modo esigliarlo e renderlo schiavo. Ma la buona stagione ritorna; e il dio trionfante è detto vincitore del lupo, animale dei paesi freddi e che domina d’ inverno; onde il soprannome di Apollo Licio (Lycius, da lycos, lupo). D’ altra parte il sole estivo è pur dannoso alle bestie e alle piante col soverchio ardente calore. Espressione di questo pensiero è il mito di Giacinto (Hyacinthus), il bel giovane Spartano, amato da Apollo per la sua straordinaria bellezza, e da lui ucciso con un involontario colpo di disco mentre giocava; dal sangue dell’ ucciso, Apollo avrebbe fatto nascere il noto fiore che ne porta il nome (il disco del sole dissecca all’ esterno la pianta, ma questa rigermoglia e rifiorisce). È adunque palese il significato naturale e il valore fisico di Febo Apollo.

2. Di qui si spiegano anche le varie attribuzioni morali di Apollo. Egli è un Dio benefico e datore di ogni felicità ai mortali, ma ha anche il suo carattere bellicoso e funesto. È persino Dio della morte; manda pestilenze ed è cagione di morti improvvise. A Troia, quando i Greci negarono al suo sacerdote Crise i dovuti onori, Apollo si appostò lontano dalle navi, e per nove giorni volarono le sue pestifere saette nel campo greco seminando la morte e la desolazione. Però se apporta questi mali, Apollo sa anche guarirli; ed ecco riappare il carattere benefico del Dio; egli è anzi il Dio salutare per eccellenza, protettore e degli armenti e degli uomini, quegli che allontana i mali, il medico; onde la leggenda lo fe’ padre di Asclepio o Esculapio e lo identificò con Peone il medico degli Dei. E non solo dei corpi, ma è egli anche medico dell’ anime, che ei guarisce dal male morale colle pratiche della purificazione. Dissipa le tenebre dell’ ignoranza e del peccato, come dissipa quelle della notte; e persino i perseguitati dalle Furie solio da lui compassionati e difesi; di che la leggenda di Oreste offre un bellissimo esempio.

E poichè tra le cose che più calmano lo spirito e gli infondono una tranquilla pace è la musica, niuna meraviglia che Apollo sia stato anche pensato come inventore della musica. Il suo istrumento era la cetra o forminx, ed ei la sonava con grande abilità a sollazzo degli Dei immortali, durante i loro conviti. Dirigeva anche il coro delle Muse, figlie di Zeus e di Mnemosine; di qui il titolo di Apollo Musagete (Mousagetes, conduttore delle Muse); e celebri cantori dell’ età mitica, come Orfeo e Lino, furono detti suoi figliuoli.

Ma la più grande importanza presso tutte le stirpi greche e fino ai più tardi tempi l’ acquistò Apollo per l’ attribuitogli potere divinatorio. Era creduto il profeta di Giove, e i suoi oracoli, considerati come l’ espressione infallibile della segreta volontà del supremo Iddio, ebbero una notevole efficacia e nella politica degli Stati e altresì nei destini delle famiglie. Di oracoli d’ Apollo in antico ve n’ erano parecchi, ad es. uno nelle vicinanze di Colofone, un altro presso Mileto, altri nella Troade, nella Licia e in più luoghi del continente ellenico; ma il più celebre senza contrasto era l’ oracolo di Delfo. Ivi la Pizia, sacerdotessa del Dio, assisa su un tripode sopra una apertura del terreno da cui esalava un vapore innebriante, era invasa da una specie di estasi, durante la quale, in mezzo a moti convulsivi del corpo, la schiuma alla bocca, articolava oscure sillabe, da cui poi i sacerdoti ricavavano il divino responso. L’ oracolo di Delfo, sebbene fosse già scaduto d’ importanza fin dal primo secolo avanti Cristo, continue però a godere riputazione anche nei primi secoli del Cristianesimo, e ancora Giuliano l’ Apostata lo consultò.

3. Il culto di Apollo era diffusissimo fra i Greci, come generale doveva essere la venerazione verso una divinità datrice di tanti beni fisici e morali. La città di Delfo però era il luogo principale di questo culto. Ivi sorgeva uno splendido tempio che rifatto al tempo dei Pisistratidi in seguito ad un incendio, vide accumularsi, per donativi dei fedeli, ingenti ricchezze che si calcolavano a 10000 talenti, ossia quasi 60 milioni di lire. Nelle vicinanze di Delfo, al terzo anno di ogni Olimpiade avevano luogo i giochi Pizii. — Non meno celebre pel culto di Apollo, era l’ isola di Delo, dove il Dio era nato. Il terreno dell’ isola era considerato come sacro e nessun morto poteva esservi seppellito. Una città sacra trovavasi ai piedi del monte Cinto. Anche ivi si celebravano ogni quattro anni feste solenni con varii giochi, che dicevansi istituiti già da Teseo.

4. L’ Apollo della mitologia romana non è una deità italica, ma è lo stesso Apollo greco, molto per tempo accolto nel Panteon di Roma. Le colonie greche dell’ Italia meridionale furono il tramite per cui il greco Apollo penetra fra i Latini. E vi penetrò prima come dio della divinazione, poi come medico e musico. Da lui si credettero ispirati gli oracoli Sibillini che cominciarono a diffondersi ed essere oggetto di culto fin dal tempo di Tarquinio Superbo; e del resto si diffuse presto la fama anche dell’ oracolo di Delfo, che in solenni occasioni si mandava a consultare. Ad Apollo come medico si eresse un tempio in Roma fin dal 325/429, in occasione d’ una grave epidemia. E da allora si estese il culto sempre più. Al tempo della guerra annibalica, e precisamente l’ anno 542/212, vennero istituiti i giochi in onore d’ Apollo (ludi Apollinares) a imitazione dei giochi pitici. Più tardi un vero slancio ebbe il culto Apollineo per opera di Augusto, che attribuiva la vittoria d’ Azio principalmente all’ aiuto dato da questo Dio; onde gli eresse uno splendido tempio sul Palatino cui adornò colla celebre statua di Scopa rappresentante Apollo Citaredo.

5. Nelle opere letterarie frequentissima è la menzione di Apollo, come ispiratore di ogni bellezza poetica e reggitore del coro delle Muse. Antichissimo è l’ inno omerico ad Apollo, che contiene molti e interessanti particolari tolti dalle leggende del Dio. Con esso si può confrontare l’ inno di Callimaco a Delo perchè contiene cenni delle stesse leggende, nella loro forma ammodernata. Del divino suono della cetra di Apollo dà una bella descrizione Pindaro nella prima Pitica, ricordando come a quel suono si spegne il fulmine, l’ aquila vinta dalle cadenze si addormenta sullo scettro di Zeus, Ares lascia in disparte le lancie e tutti gli Dei sentono molcersi il cuore. Dei poeti latini ricordisi Orazio, che nel Carme Secolare inneggia appunto a Febo e alla sorella Diana, pregando concedano buoni costumi alla docile gioventù, placidi riposi alla vecchiaia, e a tutta Roma eterna pace e grandezza e gloria. Ricordisi Ovidio che nel primo delle Metamorfosi, racconta con soavi versi la leggenda dell’ amore di Febo Apollo per Dafne ritrosa, e il mutamento di costei nella pianta di lauro, da quel momento divenuta sacra al Dio. Così lo fa parlare di sè stesso:

………………………….… mihi Delphica tellus
Et Claros et Tenedos Patareaque regia servit;
Iuppiter est genitor: per me quod eritque fuitque
Estque patet; per me concordant carmina nervis…
Inventum medicina meum est, opiferque per orbem
Dicor et herbarum subiecta potentia nobis … 7

All’ arte statuaria offrirà Apollo un magnifico terna, solendo essere rappresentato in figura d’ un giovane bello di forme, accoppiante la grazia alla forza. Si segnalò in questa rappresentazione specialmente la giovane scuola Ateniese, a cui appartennero Scopa e Prassitele, fioriti dal fine della guerra peloponnesiaca all’ età di Alessandro Magno. Scopa compose un Apollo Citaredo, ammirato per la sua bellezza nei secoli seguenti e da Augusto trasportato a Roma dopo la vittoria di Azio per collocarlo nel nuovo tempio sul Palatino, onde ebbe anche il nome di Apollo Actius o Palatinus. Si crede che di esso fosse una riproduzione la statua di Apollo Musagete che conservasi in Vaticano (fig. 14); « il nume in lunga veste fluente fino ai piedi, coronato d’ alloro, toccante le corde della cetra, ha un volto di femminea bellezza, esprimente entusiastico rapimento » ( Gentile, Op. cit., p. 126). Non meno bella è una statua del Museo Capitolino, rappresentante Apollo nudo che riposa dal suono della cetra (fig. 15). Prassitele ideò un Apollo in nuovo atteggiamento, cioè in atto di uccidere una lucertola e compose la statua detta Apollo Sauroctonos (fig. 16), che è in Vaticano. « Un adolescente di bellissime forme si appoggia col braccio sinistro ad un tronco; la mano destra armata d’ una punta, mira una lucertola che striscia sul tronco; lo sguardo accompagna la direzione della mano » ( Gentile, p. 130-1). Ma la statua più celebre d’ Apollo è il così detto Apollo di Belvedere (fig. 17) che pure è in Vaticano. Fu trovata in principio del XVI secolo e restaurata dal Montorsoli, il quale aggiunse di suo il mozzicone d’ arco nella mano sinistra; ma non si è ben certi rispetto alle opportunità di questo ristauro e rispetto all’ idea generale del lavoro. Mirabile la bellezza della figura in quella disdegnosa coscienza di sè che mostra avere il Dio vittorioso8.

I simboli di Apollo sono per lo più l’ arco e le saette, riferentisi al dio solare che ferisce col dardo de’ suoi raggi (cfr. l’ espressione lucida tela diei di Lucrezio); oppure la cetra e la corona d’ alloro, quali ben s’ adattano al dio musicale, o infine il tripode proprio del dio augure e divinatore. Fra gli animali erano a lui sacri il lupo, il cervo, il cigno, il delfino.

V. Artemide-Diana. §

1. Figlia di Zeus e di Leto, Artemide partecipa della natura di suo fratello Apollo, di cui è, in certa guisa, la forma femminile. Essa è la dea della luce lunare, come Apollo è dio solare. E poichè la tranquilla luce notturna, cui spesso s’ accompagna la rugiada, e le varie fasi della luna hanno o si è sempre creduto avessero grande influenza su tutta la natura, Artemide era pensata come dea grandemente benefica. Ma aveva anche il suo lato sinistro. Armata di areo e freccie (i raggi lunari), essa adopera l’ armi sue contro gli esseri catti vi o mostruosi ch’ essa odia. Specialmente si diletta della caccia, e traverso a ombrose montagne, in luoghi deserti e boscosi, scortata da un coro di ninfe leggiadre, preceduta dagli ardenti cani, essa insegue le fiere selvaggie, e le colpisce colle sue freccie infallibili. Si vendica anche fieramente dei rinomati cacciatori che con lei vogliono gareggiare; e ne provo, fra gli altri, lo sdegno Orione che ucciso dalle sue freccie fu trasformato nella costellazione del suo nome. Quando poi è finita la caccia, la Dea si compiace tuffar le sue belle membra dentro qualche fresco corso d’ acqua, circondata dalle sue ninfe, tra le quali primeggia per l’ alta statura. Ma guai al malcapitato cui prenda vaghezza di contemplare le nude forme della bagnante; niuno lo salverebbe dalla sua ira. Ben sel seppe il cacciatore Atteone, il quale per aver visto Artemide nel bagno fu trasformato in cervo e fatto sbranare dà suoi proprii cani, che la dea aveva contro lui aizzati.

2. Dal lato morale, Artemide divenne la dea della castità. Era la protettrice delle giovani donzelle fino al momento del matrimonio, e anche de’ giovanetti; in qualche luogo era anche venerata come dea della maternità, col titolo di Ilizia (Ilithyia). La bella leggenda del giovane Ippolito, caro ad Artemide per la sua castità, dà una chiara idea del concetto che di questa divinità s’ eran formati i Greci. Era poi anche messa in rapporto con Apollo e le Muse, e detto che si compiacesse dei canti e degli inni. Infine aveva un’ importanza politica, come protettrice della giustizia nelle città.

3. Il culto di Artemide era per lo più connesso col culto di Febo-Apollo e di Leto (Latona); e a Delo, come a Delfo e altrove, avevano templi in comune. Come dea della libera natura, essa aveva un culto speciale in Arcadia, regione di alte montagne, di valli profonde, di torrenti impetuosi e di tranquilli laghi. Ivi i tempietti a lei dedicati erano numerosissimi. In alcuni luoghi, per es., a Braurone nell’ Attica e a Sparta, Artemide sotto il nome di Ortia (Orthia), veniva placata in antico con sacrifici umani; più tardi quando questi furono aboliti, a Sparta si continuo a flagellare a sangue alcuni fanciulli nell’ annual festa della Dea. Con questa divinità sanguinaria si connette la leggenda di Ifigenia, la figlia di Agamennone, che doveva essere sacrificata in Aulide prima della partenza dei Greci per Troia. E poichè anche gli Sciti della Tauride onoravano una loro dea con sacrifizi umani, fu con questa confusa l’ Artemide Ortia, e ne nacque la leggenda che la Dea avesse ella stessa salvato Ifigenia nel momento che doveva essere sacrificata, sostituendole una cerva, e l’ avesse di poi portata con sè nella Tauride per farne là una sua sacerdotessa. In seguito Ifigenia aiutata dal suo fratello Oreste avrebbe rapito e portato in Grecia la statua di Artemide Taurica.

Affatto diversa poi dall’ Artemide Ellenica era quella venerata ad Efeso nell’ Asia Minore. Era considerata come la madre universale della natura, la cui azione fecondatrice si esercita sulla nascita e sulla vita delle piante, degli animali e degli uomini. Ancora nei tempi cristiani era oggetto di culto; negli Atti degli Apostoli, si racconta di un tumulto sorto ad Efeso contro la predicazione di Paolo, gridandosi: Magna Diana Ephesiorum « grande è la Diana di Efeso ».

4. Diana era appunto la Deita italità con cui si identificò l’ Artemide dei Greci. In origine Diana era il femminile di Ianus, una potenza celeste, dea lunare, connessa anche presso gli Italici colla vita libera della selvaggia natura e colla caccia, e fatta protettrice delle donne. Un antichissimo tempio in onor di lei era in un bosco presso Aricia sul lago di Nemi, ov’ essa era chiamata Diana Nemorensis; un altro sul monte Algido presso Tuscolo; ma più celebre di tutti fu il tempio eretto da Servio Tullio sul Monte Aventino, che era tempio comune della lega de’ Latini; dove agli idi d’ Agosto (il di 13), anniversario della dedica del tempio, si offriva un solenne sacrificio in onor di Diana, ed era giorno festivo per gli schiavi. — Quando più tardi Diana fu confusa con Artemide, il culto di lei anche a Roma fu connesso con quello di Apollo, ad es., nei ludi secolari.

5. Oltre gli inni Omerici e Callimachei, molte opere della greca letteratura ricordano Artemide e le leggende che vi si riferiscono. Ma le lodi più belle, più sentite di Diana furono scritte dai Latini. Il 34o carme di Catullo, è una preghiera innalzata a Diana da un coro di fanciulli e fanciulle; ivi è salutata « signora dei monti, delle verdeggianti selve, delle strade più riposte e dei fragorosi torrenti »; da lei si riconoscono i prodotti annui della terra, ricchezza degli agricoltori; le si rivolge preghiera che conservi la sua tutela alla stirpe di Romolo. Anche Orazio ha tra le sue odi degl’ inni a Diana; dove però essa è per lo più congiunta con Apollo e anche con Latona, come nella 21a ode del I libro che comincia:

Dianam tenerae dicite virgines
Intonsum pueri dicite Cynthium
     Latonamque supremo
            Dilectam penitus Iori9 .

Anche il carme secolare, come già si disse, è in onor di Apollo e di Diana regina delle sei ve; la quale ultima è invocata come Ilizia perchè benedica la maternità delle donne romane e faccia prosperare le novelle generazioni. Una bella pittura di Diana al bagno la troverà chi scorra il terzo delle Metamorfosi di Ovidio, là dove raccontasi la sorte toccata all’ indiscreto Atteone.

Venendo all’ arti del disegno, molte rappresentazioni di Artemide troviamo nelle pitture vascolari e nelle statue pervenute a noi. Riproduciamo nella fig. 18, una statua trovata a Pompei e conservata ora nel Museo Nazionale di Napoli, rivestita d’ una ricca tunica, a molte pieghe che scende sino ai piedi; e nella fig. 19 la celebre Artemide del Museo del Louvre, con tunica succinta, la faretra sul dorso, il portamento snello e veramente conveniente a cacciatrice; infine nella fig. 20 un’ altra statua pure del Louvre, che figura la bella Dea, in atto di affibbiarsi il pallio sulla destra spalla. Generalmente si assegnano ad Artemide areo, freccie e lancia, anche la fiaccola, come a Dea che porta luce e vita. Le eran sacre tra le bestie il cervo, il cane, l’ orso e il cinghiale.

VI. Ares-Marte. §

1. Venendo ai figli di Zeus e di Era, il primo è Ares, dio della guerra. A differenza di Atena, che rappresenta la prudenza e l’ avvedutezza nei rapporti guerreschi, Ares compiacevasi della guerra nel suo lato più brutale, come strage e spargimento di sangue. Secondo il suo significato naturale, Ares era probabilmente l’ uragano che si scatena con furioso irresistibile impeto; difatti era detto di lui che sua patria e suo soggiorno prediletto fosse la Tracia, la regione onde pel continente ellenico soffiava il vento Borea e venivano le tempeste. Nemico della serena luce del sole e della calma dell’ atmosfera, avido di disordine e di lotta, Ares era detestato dagli altri Dei; lo stesso Zeus lo aveva in odio. Egli, secondo canta Omero, non d’ altro più compiacevasi che del selvaggio grido di guerra; armato dalla testa ai piedi, coll’ elmo dal cimiero ondeggiante, alto vibrando la sua lancia, colla sinistra imbracciando lo scudo, scorreva pel campo di battaglia seminando strage e morte. Aveva per compagni la terribile Enio (Enyo), dea della strage in guerra, e Dimo e Fobo, cioè il Timore e lo Spavento; anche Eris, la contesa, erane inseparabile. Non ostante tanto impeto e furia, venne pero vinto in guerra da Atena; espressione simbolica del maggior valore che ha in battaglia il prudente coraggio in confronto della forza selvaggia e temeraria. E quando cadde Ares ferito da Atena, ricoperse del suo corpo uno spazio di sette iugeri, mentre la sua capigliatura si lordò di polvere. Altra volta, preso ferito per opera di Atena, emise un grido pari al clamore di nove o diecimila uomini in procinto di attaccar battaglia.

In connessione con questo carattere selvaggio di Ares, son le leggende che lo fan padre del brigante Cicno (Kyknos) il quale, appostandosi nelle strade pubbliche, tagliava la testa ai viandanti, finchè fu ucciso da Eracle; e del selvaggio re tracio Diomede che pasceva i suoi cavalli con carne umana, finchè fu ucciso anch’ egli da Eracle e dato in pasto a’ suoi cavalli istessi; e del re Tessalo Flegias (Phlegyas) che volendo incendiare il tempio di Apollo cadde sotto le freccie di questo Dio (personificazione del lampo che nasce dalla nube tonante). Anche le guerriere Amazzoni eran dette figlie di Ares.

Men rozzo si mostrò Ares ne’ suoi rapporti con Afrodite, secondo la leggenda riferita nell’ Odissea. I due essendosi trovati in segreto convegno nella casa di Efesto, questi, avvertito da Elios, il sole che tutto vede, comparve improvvisamente e con una rete dalle maglie litte ed invisibili accalappiò l’ imprudente coppia, onde n’ ebbero sollazzo tutti gli Dei e le Dee chiamati da Efesto a contemplare il gustoso spettacolo. Secondo altri, Afrodite era la moglie legittima di Ares che per lei genero Armonia, la progenitrice della stirpe Tebana.

2. Non molto diffuso era nella Grecia il culto di Ares. Aveva però templi a Tebe e Argo, in unione con Afrodite. Anche Atene aveva eretto un tempio a lui, ritenendolo il fondatore dell’ Areopago (areios pagos), il celebre tribunale che giudicava dei delitti di sangue. Culto speciale aveva in Tracia, abitata da genti rozze e dedite alla guerra, le quali lui veneravano come il sommo degli Dei.

3. Il Dio italico identificato con Ares è Marte. Ma è da notarsi che in origine Marte non era già dio della guerra, ma piuttosto il dio della primavera che vittoriosamente lotta contro il tristo inverno. A lui si attribuiva la fecondità della terra e la prosperità del bestiame, e gli si volgevano preghiere perchè tenesse lontano il cattivo tempo e i germi morbosi. Solo nella bellicosa Roma, Marte divenne dio guerriero, e diventò anche il dio più ragguardevole dello stato, dopo Giove. Numa istituì in onor di lui il sacerdozio dei Salii. Narravasi che un di mentre Numa pregava per la salvezza dello stato, Giove, a dar segno della sua grazia, avesse lasciato cadere giù dal cielo uno scudo di bronzo (ancile), e intanto avesse avvertito Numa che quanto si fosse conservato quello scudo, tanto avrebbe durato l’ impero di Roma. Numa, riconosciuto quello scudo come lo scudo di Marte, a meglio conservarlo, ne fece fabbricare altri undici somigliantissimi a quello, tanto da non poteri distinguere. I dodici ancilia così ottenuti furono affidati appunto ai Salii, che erano dodici di numero, persone appartenenti alle più ragguardevoli famiglie di Roma. Ogni anno nel mese di Marzo, sacro al dio Marte, i Salii percorrevano processionalmente la città portando i dodici scudi, e intrecciavano danze guerresche e cantavano inni appositamente composti. Da quel tempo il culto di Mars pater acquistò sempre maggior popolarità. Lo si invocava dai generali d’ esercito prima di intraprendere qualsiasi spedizione militare; si credeva che invisibilmente accompagnasse anche gli eserciti nelle loro marcie, onde era detto Mars Gradivus; dopo la vittoria, gli si rendevano azioni di grazie offrendogli una parte del bottino; in caso di disdette, attribuite a’ suoi sdegni, si cercava ammansirlo con grandi sacrifizi di espiazione. Si facevan compagne di Mars alcune divinità allegoriche, come Bellona, sua sorella, dea di guerra, corrispondente alla greca Enio; Metus e Pallor, la paura e il pallore che ricordano le deità greche Dimo e Fobo; Honos e Virtus, l’ Onoratezza e il Valore; Victoria, la Vittoria; Pax, la Pace, tutte onorate in Roma di templi e di culto. Il campo di Marte (campus Martius), vasta piazza sulla riva sinistra del Tevere, destinata a esercizi ginnastici e militari, prendeva suo nome appunto dal Dio Marte ed era a lui consacrato. Tra i templi dedicati a Marte, merita special menzione il tempio di Marte Ultore che Augusto fece edificare nel suo foro, a ricordare la vittoria riportata sugli uccisori di Cesare.

4. L’ Iliade e l’ Odissea son l’ opere dove s’ incontra una più viva rappresentazione del dio Ares. V’ è ben tra gli omerici un inno dove Ares è invocato come un dio che pugna per cause della più alta importanza, è chiamato protettore dell’ Olimpo, padre dei trionfi bene acquistati, soccorritore di Temi, cioè della Giustizia. Ma è questo un inno filosofico, composto certamente in tempo molto posteriore a quello degli altri inni omerici. Di Mars o Mavors o Gradivus si fa parola ben di frequente negli scrittori latini, ma non si tratta che di rapidi cenni. Lo mette in scena Claudio Claudiano nel carme contro Rufino, dove dice che, invocato da Stilicone perchè venga a difendere i suoi Traci, sorge dalle rupi nevose dell’ Emo e gridando così eccita i suoi ministri:

Fer galeam, Bellona, mihi nexusque rotarum
Tende, Pavor; frenet rapidos Formido iugales.
Festinas urgete manus. Meus ecce paratur
Ad bellum Stilicho, qui me de more trophaeis
Ditat et hostiles suspendit in arbore cristas.
Communes semper litui, communia nobis
Signa canunt, iun ctoque sequor tentoria curru10 .

Detto questo, Marte scende nel campo con Stilicone e comincia a far strage dei comuni nemici.

Nelle arti figurative sono invece frequenti le rappresentazioni di Marte, giacchè ne è compresa la figura in molte scene di guerra, segnatamente in pitture vascolari o murali; ed anche l’ avventura di Ares e Afrodite fornì argomento a molti lavori. La statuaria soleva rappresentarlo in figura di un giovane gagliardo, bello di forme, fiero nel portamento, con elmo, lancia e scudo. Nella fig. 21 riproduciamo una statua del Museo di Laterano in Roma, la cui mano sinistra probabilmente teneva una lancia che ora è perduta. È della scuola di Policleto. Invece alla scuola di Lisippo (356-323 av. C.), apparteneva la celebre statua di Ares che è nella villa Ludovisi, pure a Roma (fig. 22). Il Dio vi è rappresentato in atto di riposo dopo la battaglia, ed ha aspetto più dolce del consueto; sotto il destro ginocchio scherza un amorino tutto trionfante d’ aver soggiogato anche il fiero Marte.

Animali sacri a Marte erano il lupo, il cavallo, il picchio.

VII. Efesto-Vulcano. §

1. L’ altro figlio di Zeus e di Era è Efesto (Hephaestos), Dio del fuoco. Si pensi quanta importanza ha nella natura questo elemento, che non solo apparisce nel cielo come raggiante e riscaldante, ma anche esce fuori dalle viscere della terra per la via dei vulcani, e, dominato dall’ uomo, torna utile nell’ azienda domestica e rende possibile la lavorazione dei metalli, ond’ esso è condizione indispensabile per lo sviluppo dell’ arte e della civiltà. Non farà meraviglia che fin dai più antichi tempi questo elemento fosse divinizzato, e l’ ammirazione riconoscente degli uomini ne formasse oggetto di culto. E poichè il fuoco vien dal cielo, per questo Efesto era stato detto figlio di Zeus. Lo si pensava zoppo; immagine dei movimenti vacillanti della fiamma. Narravasi poi che Era, vergognandosi della bruttezza di lui, lo aveva gettato dal cielo giù nel mare; ma che le Oceanidi Eurinome (Eurynome) e Tetide (Thetis) ebbero compassione di lui e lo accolsero e custodirono per nove anni in una profonda grotta del mare, dove egli attendeva a fabbricare oggetti d’ arte. Secondo un’ altra leggenda, era stato Giove stesso che adirato contro Efesto per aver voluto dar aiuto ad Era in una contesa dei due coniugi, l’ aveva afferrato pei piedi e scaraventato giù dal cielo; l’ infelice era precipitato per un giorno intiero, e infine era caduto nell’ isola di Lenno; i cui abitanti, i Sintii lo curarono finchè fu guarito. In questi racconti della caduta di Vulcano, è facile riconoscere un ricordo e un’ espressione in linguaggio mitico della caduta del fuoco dal cielo in terra, in forma di fulmine.

Anche il fuoco sotterraneo, il fuoco vulcanico era messo in relazione con Efesto; là, nell’ interno dei vulcani si diceva che egli avesse le sue grandi officine per lavorare i metalli. Così il monte Mosiclo (Mosychlos) nell’ isola di Lenno, l’ Etna in Sicilia erano le sedi principali di Efesto. Ed essendosi osservato che nelle vicinanze dei vulcani il vino si fa migliore, di qui la leggenda dell’ intima amicizia tra Efesto e Dioniso.

Gli antichi poeti magnificavano le opere di questo divino artefice. Oltre allo splendido palazzo di bronzo che egli aveva fabbricato per sè sull’ Olimpo, aveva anche edificato immortali abitazioni per gli altri Dei; poi si consideravano come opere sue l’ egida di Giove e il suo scettro, il tridente di Nettuno, lo scudo di Eracle, lo scettro di Agamennone, l’ armatura d’ Achille, ecc.

2. Il dio del fuoco, il fabbro divino, autore di tante opere in ferro e bronzo, era naturale fosse pensato come protettore delle arti e specialmente dell’ industria metallurgica. Si diceva dunque ch’ egli avesse inventato la lavorazione dei metalli e ammaestratine gli uomini; lo si faceva patrono di tutti gli artisti ed operai che per l’ opera loro hanno bisogno del fuoco. Per questo era messo in intimo rapporto con Atena, la dea delle arti, e si capisce come queste due divinità avessero culto comune in Atene, sede principale dell’ arte e della coltura greca. Anche le leggende di Lenno avevan data ad Efesto in moglie Afrodite, ed altre leggende, registrate già da Omero ed Esiodo, gli facevan compagna una delle Grazie, a significare che dall’ arte non può disgiungersi il sorriso della bellezza e l’ incanto della grazia.

3. Non molto esteso era nella Grecia il culto di Efesto. Il luogo principale dov’ era venerato era l’ isola di Lenno; ivi, come già dicemmo, si credeva ch’ egli abitasse nel monte Mosiclo ed avesse a compagni di lavoro i Cabiri, i quali in conseguenza corrispondevano ai Ciclopi dell’ Etna. Già abbiamo ricordato il culto di Efesto in Atene, accomunato con quello di Atena. Nelle Efestee, (o feste in onor di Efesto) aveva solitamente luogo la corsa colle fiaccole accese, riportando il premio quegli la cui fiaccola era ancor viva nel giungere alla meta; gioco che doveva ricordare la gioia provata dai primi uomini al ritrovamento del fuoco. In Occidente, la regione dell’ Etna, la Campania del Sud e in genere le terre vulcaniche erano naturalmente sede del culto di Efesto. Specialmente l’ isola di Lipari, una delle Eolie, era detta l’ isola di Efesto; ivi era una grande officina dove lo si sentiva co’ suoi Ciclopi a batter colpi e attizzar vampe di fuoco.

4. I Romani, com’ è noto, chiamavano questo dio Vulcano (Vulcanus), o secondo una grafia più antica, Volcanus, o anche Mulcibero (Mulciber), come colui che presiede alla fusione dei metalli (mulcere, render molle, fondere). Questo Dio benefico, principe del fuoco terrestre, utile alla vita e alla civiltà, era nelle antiche leggende italiche fatto sposo di Maia antica deità latina, sopranomata Maia Volcani e onorata con un sacrifizio il 1º Maggio; qualcosa di simile alla unione di Efesto con Afrodite. Le feste di Vulcano, le Vulcanalia, avevan luogo durante il caldo mese d’ Agosto. Il santuario principale del Dio a Roma era il Vulcanal, non un tempio ma una specie di focolare pubblico, posto su un’ area alquanto elevata, al di sopra del Comitium dove si riunivano le assemblee del popolo. Un vero tempio di Vulcano era nel campo Marzio, probabilmente nelle vicinanze del Circo Flaminio, dove il 23 Agosto, in occasione delle feste Vulcanalia, avevan luogo i giochi Circensi. Un altro giorno festivo di Vulcano era il 23 Maggio, nel quale le trombe ed altri arnesi usati nel culto venivano lucidati ed offerti a Vulcano (ciò si diceva tubilustria: analoga cerimonia si faceva il 23 Marzo per Minerva). — Vulcano era poi anche considerato dai Romani, come Dio degli incendi; ed a lui si attribuiva sia l’ origine dell’ incendio e l’ opera distruttrice di esso, sia lo spegnimento. Onde si ponevan le case sotto la sua protezione, e insieme sotto la protezione della Stata Mater, la madre che arresta il fuoco, a cui fu eretta una statua nel foro vicino a quella di Vulcano; e molte altre con tempietti trovavansi nelle varie regioni della città.

5. L’ immagine di Efesto-Vulcano ricorre spesso nella poesia epica, dove si parla di grandi opere costruite dal divino operaio. Così Omero nell’ Iliade (lib. 18o), Virgilio nell’ Eneide (8,416 e segg.), Claudio Claudiano nel poemetto sul terzo consolato di Onorio (v. 191), si compiacquero a descrivere lo stridente lavorio dell’ officina di Vulcano, lo scorrer del bronzo fuso e dell’ oro nelle forme, il ferro battuto da pesanti magli mossi dai Ciclopi. Altri narrarono altre parti delle leggende di questo Dio. L’ aneddoto di Venere, sorpresa da Vulcano con Marte, narrato nel famoso passo dell’ Odissea (lib. 8o) ispirò pure una bella pagina ad Ovidio (Metamorfosi 4,170 e segg.) In rapporto con Venere e le Grazie Vulcano ci è presentato da Orazio là ove dice (Od. 1,4,5):

Iam Cytherea choros clucit Venus imminente Luna
          Iunctaeque Nymphis Gratiae decentes
Alterno terram quatiunt pede, dum graves Cyclopum
           Volcanus ardens visit officinas11 .

Nell’ arti figurative Vulcano è sempre rappresentato come un uomo in età matura e nella pienezza delle sue forze, quindi barbuto. Per lo più non si tien conto del difetto di esser zoppo; la vista ne sarebbe stata disaggradevole. Pero zoppa era la statua fatta da Alcamene, di cui parla Cicerone nel primo libro De Natura Deorum, § 83: in quo stante alque vestito leviter apparet claudicatio non deformis12. Del resto lo si figurava in berretta e abito da operaio (exomis, sorta di tunica che lasciava nuda la spalla destra), e con gli arnesi dell’ arte sua. Si hanno ben pochi monumenti antichi di Efesto. La fig. 23 è ricavata da un busto che conservasi in Vaticano.

VIII. Ermes-Mercurio. §

1. Ermes, figlio di Zeus e di Maia figlia d’ Atlante, nacque in una caverna del monte Cillene in Arcadia (ond’ egli è detto il Cillenio). Curiose le leggende relative a questo Dio, raccolte nell’ inno a lui dedicato, che va tra gli Omerici. Poco dopo la nascita, egli avrebbe dato prove manifeste della destrezza ed abilità che costituivano il fondo della sua indole. Giacchè, nato al mattino, verso il mezzogiorno esce dalle fasce, e del guscio di una tartaruga, trovata dinanzi alla caverna, si forma una lira, e suona e canta. Verso sera va nella Pieria, dove Apollo stava pascolando le greggi degli Dei, e gli ruba cinquanta giovenche, e via le conduce e le nasconde con tal arte che non se ne può scoprir traccia; poi torna zitto zitto a Cillene e si riacconcia nelle sue fasce. Ma Apollo non poteva ignorare la cosa, ed ecco se ne viene alla grotta di Cillene per obbligare Ermes a restituire il mal tolto. Ermes fa lo gnorri e ricisamente nega il fatto; onde Apollo a forza lo dove condurre davanti il trono di Zeus, lasciando a questo di decidere la contesa. Anche allora stava Ermes in sul niego, ma Zeus, capita la cosa, gli diè ordine di cercare insieme con Apollo le giovenche e restituirgliele. Così vien fatto. Apollo poi udito Ermes sonar la lira, tanto se ne compiacque che, pur di averla, gli lasciò le cinquanta giovenche. Così Ermes diventò dio pastore, ed Apollo d’ allora in poi prese diletto dell’ arte musica. A dar segno di una compiuta riconciliazione, Apollo donò al fratello la verga d’ oro a tre rampolli, datrice di benessere e prosperità, e d’ allora in poi vissero in rapporti di intima amicizia, benefici entrambi all’ umanità, Apollo rappresentante del lato più alto dell’ intelligenza, Ermes del senno e della scaltrezza pratica. Tale la leggenda di Ermes narrata nell’ inno omerico. Incerto il significato naturale di questo mito. Secondo alcuni Ermes non è altro che il crepuscolo. Le giovenche di Apollo da lui rubate sarebbero i raggi solari che il crepuscolo della sera par nasconda in qualche abisso da cui viene il domane a riprenderli il sole. Secondo altri, egli sarebbe invece un Dio del vento; è inventore della lira, perchè risuonano le foreste, risuona la terra della musica dei venti; le vacche d’ Apollo son le acque del cielo, che il vento fura nascondendole nella nuvola; ma Zeus poi l’ obbliga a restituirle gratificando i mortali della benefica pioggia.

Un altro mito relativo ad Ermes è l’ incarico datogli di liberare Io, amata da Zeus, cui Era gelosa aveva trasformata in vacca e data a custodire ad Argo dai cent’ occhi. Ermes uccise Argo e di qui il suo titolo di Argifonte (Argiphontes). Per gli uni Io è la luna, e Argo dai cent’ occhi la notte stellata, cui il crepuscolo del mattino uccide. Secondo gli altri, Argo è il sole stesso onniveggente che guida al pascolo le vacche celesti ossia le nuvole gravide di pioggia. Il vento tempestoso uccide Argo, cioè oscura il sole e fa che la nuvola scorra qua e là per le regioni del cielo.

2. Varie sono le attribuzioni di Ermes; le une hanno rapporto col mondo umano, le altre col mondo sovrannaturale. Cominciando da queste ultime, Ermes era anzitutto il messaggiero degli Dei e l’ esecutore dei loro ordini. Veloce più del vento, co’ suoi alati calzari narravasi che percorresse e terre e mari, ad annunziare alle genti la volontà di Giove o degli altri Dei. Così fu mandato alla ninfa Calipso per trasmetterle l’ ordine di Zeus circa il rilascio di Ulisse; fu mandato ad Egisto per avvertirlo di non uccidere Agamennone; fu mandato ad Enea per indurlo a subita partenza da Cartagine. Già abbiamo ricordato l’ incarico più difficile datogli da Zeus di uccidere Argo dai cento occhi, custode di Io. Come messaggiero ed araldo degli Dei, Ermes portava sempre il caduceus. Era la verga stessa donatagli da Apollo, e constava di tre rampolli, di cui uno era il manico, gli altri due si raccoglievano in nodo sul primo; più tardi si trasformò in una bacchetta, con due serpenti intorno attorcigliati.

Siccome i sogni si credeva venissero da Zeus, così Ermes, come messaggero di Zeus, era anche apportatore dei sogni e conciliatore del sonno; onde gli si rivolgevano speciali preghiere prima di andare a letto.

Infine, sempre nei rapporti soprannaturali, Ermes avea la qualità di psicagogo o psicopompo, ossia conduttore delle anime, in quanto guidava le anime dei trapassati nel regno delle ombre, e in certe occasioni anche, per via di oracoli e di scongiuri, le faceva tornare alle regioni superiori.

Nei rapporti naturali, Ermes era venerato anzitutto come datore di prosperità e ricchezza nelle varie congiunture della vita; pastore egli stesso, curava la fecondità e il benessere delle greggi; maestro di scaltrezza, era l’ aiuto del commercio e dei traffici. Alia sua protezione si attribuiva ogni guadagno, anche nel gioco; e come a ciò giovano spesso le ciurmerie e gli inganni, così anche di tali cose si faceva Ermes patrono. — E poichè i traffici della vita commerciale voglion sicurezza di strade e di viabilità, Ermes era anche il protettore dei viandanti. Onde l’ uso e la denominazione delle erme, ossia di quelle pietre quadrate, sormontate da una testa o anche da due addossate, che si collocavano nei crocicchi e nelle vie principali in omaggio del Dio e a indicazione delle strade ai viatori.

Come giovane destro e aggraziato poi Ermes era anche il patrono dell’ educazione ginnastica, e appellavasi palaestrita. Non era egli corridore valente tra i valenti? e abilissimo lanciator di dischi e pugilatore? Quindi lo si credeva fondatore degli stadi e de’ ginnasi, i quali solevano ornarsi di imagini sue. Infine, come facondo oratore, era il dio che dava facilita d’ eloquio a chi l’ invocava nel momento del bisogno, e in genere proteggeva tutte le invenzioni dell’ ingegno ed era ispiratore di prudenti deliberazioni.

3. Ermes era oggetto di special culto in Arcadia dov’ egli credevasi nato, poi anche in Attica e nelle isole di Lenno, Imbro e Samotracia, terre ricche di greggi e di pascoli. In Samotracia era venerato col nome di Cadmilo o Casmilo, e considerato come datore di fecondità.

4. Il Mercurio dei Latini, dalla voce mercari, negoziare, era semplicemente il Dio dei commerci e aveva pochi tratti comuni coll’ Ermes greco. Il suo culto erasi introdotto insieme con quel di Cerere pochi anni dopo la cacciata dei Tarquinii, in occasione di una grande carestia, ma sembra sia rimasto sempre plebeo. La società dei mercanti onorava in lui il suo patrono e celebrava una festa agli idi di Maggio in onor di lui e della madre Maia. Più tardi Mercurio si identificò con Ermes, ma si avverta che il bastone da araldo, il caduceo, non fu mai adottato dagli araldi romani, i Feciali.

5. Oltre l’ inno omerico già ricordato, presso altri poeti greci si parla di Ermes e si raccontano le leggende a lui relative; un inno di Alceo che ne cantava la nascita a Cillene s’ è disgraziatamente perduto, salvo pochi frammenti. Bella è l’ ode decima del libro 1o d’ Orazio, che ben riassume gli attributi di Mercurio, chiamandolo facondo nipote d’ Atlante e civilizzatore degli uomini, lodandolo come deorum nuntium, curvae lyrae parentem, callidum quicquid placuit iocoso condere furto13, ricordandolo infine come psicopompo, e regolatore dei sogni, gradito a tutti gli Dei sia del cielo sia dell’ inferno.

La rappresentazione plastica di Ermes ha preso diverse forme secondo il concetto mitologico-simbolico che l’ artista intendeva seguire. Ora apparisce come pastore e porta un montone (Ermes crioforo), immagine che nei tempi cristiani servi di modello a figurare il Buon Pastore; ora apparisce palestrita e vien munito strigile, ora è commerciante, ed ha la borsa in mano; ora infine è messaggero ed araldo di Zeus coll’ ali ai piedi e sul petaso e in mano il caduceo. In origine lo si figurava come un uomo nel pieno vigore delle sue forze e barbuto; più tardi prevalse l’ idea di figurarlo nel fiore della gioventù e senza barba. A quest’ ultimo tipo appartiene la celebre statua di Prassitele scoperta nel 1877 ad Olimpia. Disgraziatamente alla statua trovata mancavano le gambe e le parti anteriori delle braccia; ma altre parti trovate in seguito, e la descrizione di Pausania, permisero di restaurarla quasi con certezza. La fig. 25 riproduce l’ intiera restaurazione, e la fig. 24 ne presenta con più precisione la testa. Il Dio, raffigurato in pienezza di gioventù, con forme robuste ed eleganti, porta sul sinistro braccio un piccolo Dioniso, mentre si appoggia col gomito ad un tronco; nella mano destra tiene un grappolo d’ uva che la vedere al fanciullo, verso cui si volge con dolce sorriso il suo sguardo. Belle le fattezze del volto, e hanno una cotal finezza d’ espressione come se nel marmo fosse infusa una piacente commozione dell’ animo ( Gentile, op. cit. p. 132).

Un’ altra splendida statua di Ermes è quella in bronzo, trovata in Ercolano, che ora trovasi nel Museo Nazionale di Napoli, e rappresenta (fig. 26) il messaggiero degli Dei che per breve riposo s’ è messo a sedere su una rupe. Le ali ai piedi sono ivi assicurate per mezzo di nastri.

IX. Afrodite-Venere. §

1. In Omero Afrodite è figlia di Zeus e di Dione, quella che a Dodona era venerata come la sposa di Zeus. Ma questa leggenda cedette il luogo ad un’ altra, a cui i poeti posteriori con predilezione si attennero; secondo la quale Afrodite sarebbe nata dalla schiuma del mare (la voce greca afro vuol dir schiuma); e la prima terra, a cui approdò sarebbe stata l’ isola di Cipro, dove essa era venerata con culto speciale. Di qui gli epiteti di Anadiomene (anadyomene, sorta su, intendi: dal mare) e Ciprogenia (Cyprogeneia, nata a Cipro). Essa era immaginata bella e fiorente, tutta riso il sembiante, tutta oro l’ abbigliamento; spirava dalla sua persona soave odore d’ ambrosia, e allorchè ella si toglieva e dispiegava il cinto della sua bellezza, ogni cosa piegavasi all’ incanto che emanava dal suo corpo. S’ indovina il significato primitivo di questa dea della bellezza; non è altro che l’ aurora, figlia del cielo, la quale sorride dall’ oriente e allieta di sua luce tutta la natura. Ma a questo concetto primitivo si mescolò ben presto in Grecia un altro concetto, quello della forza d’ amore che penetra tutto l’ universo e lo feconda. In Oriente, e precisamente in Fenicia, questo concetto era stato personificato nella dea Astarte; il culto di costei si diffuse insieme col commercio fenicio, e i Greci accogliendolo ne confusero l’ immagine con quella della loro Afrodite, la quale divenne così la dea della bellezza e dell’ amor sessuale. Presto si distinsero tre aspetti di questa deità; contrassegnati col nomi di Afrodite Pandemo, Afrodite Urania e Afrodite Pontia; la prima era l’ Afrodite terrena, protettrice anche di amori volgari; la seconda era la dea dell’ amore celeste, datrice di ogni benedizione; la terza era l’ Afrodite marina, patrona della navigazione e dei naviganti. Così il dominio di Afrodite si estendeva su tutta quanta la natura.

La bellissima fra le Dee esercitava su tutti gli esseri, divini ed umani un fascino irresistibile. Quindi molte leggende di dei od uomini presi d’ amore per Afrodite; anche molto varie secondo le tradizioni locali e difficili a riassumersi. Come sposo di Afrodite or si nomina Ares, ora Efesto; più spesso il secondo, torse perchè non mancava di attrattiva per ragioni di contrasto, l’ immagine della bella Afrodite a fianco dello zoppo e odioso Dio del fuoco. Ma di questo matrimonio non si citano figli; bensì di Afrodite e di Ares, e sarebbero Eros e Anteros, personificazioni dell’ amare e dell’ essere amato, poi anche Dimo e Fobo, il timore e la paura. In altre leggende Afrodite è messa in rapporto con Dioniso e con Ermes. Spesso poi di essa si dice che esercito la sua forza sul mortali. Aiutò Paride a rapir Elena e così contribuì ad accendere la guerra troiana; era ciò un compenso per la celebre sentenza da lui Paride pronunziata, allorquando dovendo scegliere la più bella delle tre dee, Afrodite, Era ed Atena, aveva conferito alla prima il premio della bellezza. Amò poi il duce troiano Anchise e n’ ebbe il figlio Enea. Altri mortali aiutò in cose d’ amore, come Peleo invaghito della ninfa marina Tetide; e altri per contro fieramente punì perchè erano restii all’ amore, come Ippolito che rese infelice facendo che la matrigna Fedra innamorasse di lui, e il bel Narciso il quale sdegnava l’ amore della ninfa Eco, facendo che si invaghisse perdutamente di sè stesso.

Merita un cenno speciale la leggenda dell’ amore di Afrodite per Adone, figlio di Fenice e di Afesibea. Era questa leggenda d’ origine asiatica, e sebbene più volte e in più modi trattata e ampliata dai poeti greci, nondimeno lascia trasparire il suo senso primitivo naturalistico. Raccontavasi dunque che il bel giovane, onde Afrodite era innamorata, morisse durante una caccia, ucciso da un cinghiale. Ella, addoloratissima, prego Zeus di richiamarlo in vita; ma intanto se n’ era anche invaghita Persefone dea dei morti e nol voleva rendere. Alfine Zeus sentenziò che per una parte dell’ anno rimanesse Adone nel regno delle ombre, e nel resto dell’ anno tornasse tra i vivi. Evidentemente la bestia setolosa che uccide Adone non è altro che un simbolo dell’ inverno, il cui freddo soffio fa spegnere la vita della natura e Adone è la natura stessa che ripiglia vigore al ritorno periodico della primavera.

Fan corteggio ad Afrodite le Ore e le Cariti (Grazie), inoltre Ero, Poto (Pothos) e Imero (Himeros) personificazioni dell’ amore e del desiderio; a cui si aggiunga Imene (Hymen o Hymenaios), il Dio delle nozze.

2. Il culto di Afrodite ebbe una straordinaria estensione in tutte le regioni ove le stirpi elleniche si stanziarono e dominarono. Essendo di origine orientale, prese possesso primamente delle grandi isole dell’ Egeo, e più di Cipro che si diceva la culla della Dea, e in Cipro specialmente delle città di Pafo e Amatunte che erano più in rapporto col Fenici. Da Cipro questo culto si estese in Panfilia, nella Lidia e nella Caria, nelle coste occidentali dell’ Asia Minore, nelle coste del Mar Nero, poi ancora nelle Cicladi, specialmente nell’ isola di Delo, infine in Attica e Beozia. Altra terra celebre per il culto di Afrodite fu l’ isola di Citera, onde essa ebbe il soprannome di Citerea, e di qui si estese nelle coste e nell’ interno del Peloponneso. Altro centro la città di Corinto, donde si diffuse in città vicine, Argo, Trezene, Epidauro e Sicione. Poi si estese anche in Occidente; specialmente è celebre il tempio di Afrodite eretto sul monte Erice, oggi S. Giuliano (presso Trapani), in Sicilia; dal qual luogo il culto si estese ad altre città siciliane e italiche.

3. Venere era un’ antica deità italica, la dea della primavera, del sorriso della natura, onde a lei era sacro il mese dei flori, Aprile. Il nome stesso di Venere significa bellezza e grazia (cfr. venusto, venustà). Però in Italia questa Deità ebbe anche un’ importanza politica, credendosi ch’ ella esercitasse una benefica influenza sulla concordia fra i cittadini e sulla socievolezza tra gli uomini. Dall’ importanza che il culto di una tal dea aveva presso i Latini, provenne che quando Venere si fuse con Afrodite, e le leggende di questa furono accolte in Occidente, facile ascolto trovò anche la leggenda di Enea, detto figlio di Venere, e imaginato come fondatore della stirpe romana.

In Roma v’ erano tre santuari di Venere, quello della dea Murcia, della Cloacina e della Libitina. Murcia vale colei che ammolce, quindi la dea che accarezza l’ uomo e ne seconda le voglie; più tardi si identificò Murcia a Murtea, e si pensò a una dea del mirto (simbolo di casto amore); un tempio in onor di costei sorgeva a piè dell’ Aventino presso il Circo Massimo, che si voleva fabbricato dai Latini ivi stanziati per opera di Anco Marzio. Il tempio di Cloacina trovavasi vicino al Comitium, forse in quel punto ove la cloaca maxima entrava nell’ area del foro, e ricordava la riconciliazione tra Romani e Sabini dopo il ratto delle Sabine. Infine Libitina era dea dei morti; nel suo tempio (n’ è ignoto il luogo) conservavansi gli arredi necessari per i trasporti funebri. Nè faccia meraviglia che la dea del piacere (libet) di venisse dea dei morti; spesso nell’ antica mitologia la vita più rigogliosa è messa in qualche rapporto colla morte, e anche qui può dirsi che gli estremi si toccano. — A queste forme più antiche del culto latino di Venere se n’ aggiunsero col tempo delle altre, segnatamente quello della Venus Victrix, onorata di un tempio sul Campidoglio, e della Venus Genetrix, venerata soprattutto da Giulio Cesare che faceva discendere da lei per via di Enea la sua famiglia, e che a lei votò un tempio dopo la vittoria di Farsalo; questo tempio fu costruito con grande splendidezza e dedicato nel settembre del 708 di R. (46 av. C.). Il culto si diffuse anche più per tutta Italia al tempo dell’ impero, e furono anche unite insieme le due grandi deità Venere e Roma, alle quali uno splendido tempio doppio fu eretto in Roma da Adriano.

4. Il nascimento e la storia di una dea così bella e cara agli uomini ispirarono molti antichi poeti, sicchè più volte ne toccarono nelle loro opere. Oltre l’ inno omerico ad Afrodite, son da ricordare gli autori che celebrarono specialmente l’ Afrodite Urania, la regina dell’ amore, sovrana del cielo, della terra e del mare. Tali i filosofi Parmenide ed Empedocle, dopo loro i tragici Eschilo ed Euripide e più altri. Bellissima l’ invocazione a Venus Genetrix con cui Lucrezio cominciò il suo poema della natura; nè meno degno d’ ammirazione l’ elogio che di Venere scrisse Ovidio nel quarto dei Fasti (v. 90 e sgg.), imitando in parte Lucrezio. Del resto non v’ è pittura della primavera che non contenga le lodi di Venere; ricordiamone una sola, quella d’ Orazio (Carm. 1, 4, 5), dove tra le particolarità della dolce stagione è annoverata anche la danza delle Grazie, diretta da Venere; il luogo fu già da noi citato dove si discorreva di Vulcano (pag. 90).

Venendo all’ arti figurative, assai frequentemente l’ immagine di Afrodite fu presa a rappresentare dagli artisti antichi, offrendo un tema dei più attraenti la perfetta bellezza femminile congiunta colla più squisita grazia. Da principio si soleva rappresentare vestita e anche velata; tale era ad es. la statua che trovavasi nell’ Acropoli di Atene, opera dello scultore Calamide, contemporaneo di Fidia. La scuola più giovane preferì rappresentare Venere in tutta la bellezza delle nude forme, immaginandola nell’ atto che essa doveva uscire dalle onde alla vita. Celebre tra l’ altre la Venere scolpita da Prassitele per quei di Cnido, posta nel loro tempio di Afrodite Euploia (favorevole alla navigazione), della quale i Cnidii andavano così orgogliosi che ne riportarono l’ immagine anche sulle loro monete. La fig. 27 presenta una testa che è una riproduzione di quella di Prassitele e trovasi a Berlino. Il capolavoro di Prassitele ispiro in seguito parecchi altri statuari; tra gli altri l’ autore della statua che è detta Venere di Milo, perchè fu trovata nel 1820 nell’ isola di Milo, e che trovasi ora nella Galleria del Louvre a Parigi (fig. 28). Sebbene ora manchino le braccia, è sempre un gran bel lavoro, in cui tu non sai se debba ammirar più l’ espressione stupenda della testa o la incantevole proporzione delle membra. Connesse col capolavoro di Prassitele sono anche la Venere trovata nell’ anfiteatro di Capua, ora nel Museo di Napoli, e la celebre Venere del Medici della Galleria degli Uffizi a Firenze. Quest’ ultima appartiene alla giovane scuola attica fiorita verso lo scorcio del secondo secolo av. C. Fu per qualche tempo attribuita allo scultore Cleomene, ma falsamente.

Cogli scultori gareggiavano nelle rappresentazioni di Venere pittori e incisori. Apelle tra gli altri si segnalò per la pittura della Venere Anadiomene che prima si trovava nel tempio di Esculapio a Coo, ma per opera di Augusto tu portata a Roma e posta nel tempio di Giulio Cesare, il discendente di Venere.

Tra le bestie erano sacri a Venere la colomba, il passero e il delfino; tra le piante il mirto, la rosa, il pomo, il papavero e il figlio.

X. Estia-Vesta. §

1. Estia (Hestia) era detta figlia maggiore di Crono e Rea, quindi sorella di Zeus e di Era; è da notarsi pero che nei poemi omerici non è mai menzionata questa divinità; primi a parlarne furono Esiodo e l’ autore degli inni omerici, forse perchè il culto se ne diffuse relativamente tardi. Estia rappresentava il focolare domestico, come centro di tutta la vita della famiglia. Il fuoco in antico non solo serviva ai bisogni della vita materiale, ma anche ai sacrifizi religiosi, che il capofamiglia offeriva agli Dei nelle preghiere fatte in comune; presso il focolare della casa eran le statue degli Dei, ivi il ritrovo di tutti i membri della famiglia, ivi, per dir così, il tempio della religione domestica. Estia che rappresentava tutto ciò, era quindi la divinità principale della famiglia; era la sua protettrice, ed aveva parte importantissima in tutti i sacrifizi e in tutte le cerimonie religiose che in casa si effettuavano.

Nè solo era Estia la protettrice della famiglia, ma poichè lo Stato è una grande famiglia, così essa era per gli antichi anche patrona dello Stato, e a lei era in Grecia dedicato il Pritaneo, residenza del governo; ivi era un altare, su cui ardeva in di lei onore continuamente il fuoco. Da questo prendevano con sè un po’ di fuoco quelli che andavano a colonizzare altre terre, per mostrare che essi mantenevano sempre un cotal legame colla madre patria.

Infine, siccome tutti gli Stati greci sentivano di essere fratelli e non trascuravano occasione di esprimere questo sentimento di nazionalità, così l’ Estia del tempio di Delfo divenne per loro rappresentazione sensibile dell’ unità nazionale. Ivi pure si manteneva di continuo un vivo fuoco in onor della Dea.

Come puro è il fuoco, così Estia doveva essere concepita casta e illibata; difatti si diceva ch’ ella aveva voluto rimaner vergine, e che anche sollecitata di nozze da Posidone ed Apollo, aveva opposto un deciso rifiuto. Anche le donne che attendevano al culto di lei dovevano esser vergini o almeno di casta vita.

2. Il culto di Estia era diffusissimo in Grecia e nelle colonie: ma non le si erigevano templi speciali, giacchè ogni casa ed ogni città era un tempio per lei; anzi essa aveva posto anche nei templi degli altri Dei, e nessun sacrificio aveva luogo senza che cominciasse e finisse con una libazione ad Estia; sicchè essa aveva la sua parte in tutti i banchetti festivi e in tutte le cerimonie religiose era nominata la prima, onde il proverbio « cominciare da Estia », e la leggenda che Estia nella divisione del mondo, dopo la vittoria sul Titani, avesse per sè chiesto eterna verginità e le primizie d’ ogni sacrifizio.

3. La dea dei Romani corrispondente ad Estia era Vesta, affine anche nel nome. Vesta pure era la dea del focolare domestico, conservatrice di pace e concordia nella famiglia; venerata insieme cogli Dei Penati, del quali riparleremo. Ma più di tutto la Vesta dei Romani fu oggetto di venerazione come dea protettrice dello Stato. Il più antico tempio di lei, che si credeva fondato da Numa Pompilio, sorgeva alle falde del Palatino vicino al Foro. Era un tempietto rotondo, propriamente null’ altro che un focolare col suo tetto; ivi ardeva continuamente il sacro fuoco, simbolo della vita dello Stato. A tener vivo questo fuoco attendevano le vergini Vestali, prima quattro di numero, poi sei. Lo spegnersi della sacra fiamma era ritenuto segno di sventura, e l’ ancella colpevole di questa trascuranza era aspramente punita. Le Vestali erano scelte dal Pontefice Massimo, tra il sesto e il decimo anno di vita, e dovevano restar trent’ anni addette al servizio divino mantenendo la più illibata castità; dopo potevano tornare alla vita privata e anche prender marito, ma in genere rimanevano tutta la vita al servizio di Vesta. Abitavano nel così detto Atrium Vestae, di cui non molti anni fa fu ritrovato e rimesso a luce il sito preciso. Ivi si son trovate parecchie statue di Vestali, da cui si rileva qual ne fosse il portamento (fig. 29). — Un altro antico santuario di Vesta trovavasi in Lavinio, la metropoli dei Latini, dove i consoli, i pretori ed i dittatori entrando in carica, recavansi a offrir sacrifizio. — L’ annua festa in onor di questa Dea, detta Vestalia, aveva luogo il 9 Giugno. Allora si ponevano sul focolare varii cibi e si conducevano al tempio di Vesta asini da macina inghirlandati e con pani appesi all’ intorno, per indicar che la Dea manteneva alla famiglia il giornaliero nutrimento.

4. Non molto frequente è la rappresentazione della figura di Vesta nell’ arte statuaria. La causa dev’ essere in parte quella espressa da Ovidio nel sesto dei Fasti, dove parlando del tempio tondo di Vesta a Roma soggiunge:

Esse diu stultus Vestae simulacra putavi
        Mox didici curvo nulla subesse tholo.
Ignis inextinctus templo celatur in illo
         Effigiem nullam Vesta nec ignis habet14 .

Le poche volte che si scolpi l’ immagine di Vesta, si soleva raffigurarla seduta o in piedi in atto tranquillo, compiutamente vestita e con l’ espressione di una severa onestà. Noi riproduciamo nella fig. 30 una statua del Museo Torlonia di Roma, detta comunemente la Vesta del Giustiniani. Ma a dir vero, non è ben certo se rappresenti Vesta, mancando gli oggetti che solevano caratterizzarla, la tazza del sacrifizio, la fiaccola, il simpulum (specie di chicchera con lungo manico usata nei sacrifizi), lo scettro. È anche da notare che l’ indice della mano sinistra è un ristauro moderno, e forse non giusto perchè probabilmente la sinistra mano di questa statua teneva uno scettro.

XI. Giano. §

1. Tra le primarie divinità del cielo dobbiamo anche annoverare due Dei esclusivamente romani, che non hanno il loro corrispondente nella mitologia greca, e sono Giano e Quirino.

Ianus non è che la forma maschile di Diana, la luna, quindi era in origine una divinità della luce celeste, una divinità solare; ma perchè il sole è in certo modo il portinaio del cielo, le cui porte apre al mattino, richiude alla sera, così Ianus divenne semplicemente il Dio del principio e dell’ origine, il Dio che apre e chiude, che presiede a ogni entrare e a ogni uscire. Tutto quello che esiste, in cielo, nel mare, sulla terra, tutto si diceva chiuso e riaperto per opera di Giano; onde era invocato cogli epiteti Patulcius e Clusius (da patere, essere aperto, e claudere, chiudere). Sulla terra era specialmente signore di tutti i passaggi, delle porte grandi e piccole (da Ianus, ianua — la porta). Gli archi di passaggio, a forma di volta, simbolo della volta celeste, si chiamavano appunto iani. E perchè ogni passaggio ha due aspetti, il davanti e il di dietro, quindi l’ idea di figurarsi Giano con due faccie, una davanti, una dietro, ed era detto Giano Gemino, Giano bifronte.

Dall’ essere poi Giano il dio d’ ogni principio, ne vennero diverse attribuzioni. A lui erano sacri gli inizii di ogni periodo di tempo. Egli iniziava il nuovo anno, di cui il primo mese era denominato da lui, Januarius, Gennaio. E il primo dì dell’ anno (Kalendae Ianuariae) era la festa del Dio; quel giorno si ornavano le porte di ogni casa con corone e rami d’ alloro, gli amici e i parenti si visitavano, si facevano gli augurii, e si regalavano a vicenda di monete e di dolci (strena, la strenna); a Giano si facevano sacrifizi di focaccie, vino, incenso. Anche il primo di degli altri mesi era in qualche modo dedicato a Giano, e si rinnovavano in onore di lui sacrifizi e preghiere. Infine anche la prima ora d’ ogni giorno era sua, ond’ egli era invocato come padre matutino (cfr. Oraz., Sat., 2,6,20).

Parimente ogni inizio dell’ umana attività era sacro a Giano. Il principiar bene era per gli antichi un buon augurio per proceder bene nell’ impresa. Quindi nulla s’ incominciava senza chiedere la protezione di Giano, e anche qualsiasi cerimonia religiosa, in onor di qualsiasi divinità, doveva essere preceduta da una preghiera a Giano. Tra i fatti più notevoli della vita pubblica era l’ uscita di un esercito per una spedizione di guerra; in quest’ occasione il comandante dell’ esercito faceva un sacrifizio a Giano, e da quel momento per tutta la durata della guerra si tenevano aperte le porte di un certo tempio di lui, per indicare che il Dio era uscito coll’ esercito e lo accompagnava colla sua protezione. Analogamente ogni magistrato, entrando in carica, chiedeva l’ aiuto di Giano; le curie, inaugurando ogni loro adunanza, prendevan le mosse da una preghiera a lui; e dei pari nella vita privata ogni atto si iniziava pregando lui che come Ianus Agonius presiedeva a tutti i lavori degli uomini. Anche per la procreazione dei figliuoli era invocato col nome di Ianus Consivius.

Giano era ancora ritenuto come l’ origine delle fonti, dei fiumi, delle correnti; onde alcune leggende locali gli davano in moglie la dea delle fonti Iuturna, e lo facevan padre di Fontus, venerato sui Gianicolo, e del dio Tiberino. Si credeva che egli avesse la potenza di far scaturire d’ improvviso sorgenti dalla terra; e raccontavasi che quando i Sabini, dopo il ratto delle lor donne, facevan guerra ai Romani, e per una porta aperta cercavano penetrare nella città Palatina, zampillo d’ un tratto, per opera di Giano, una sorgente d’ acqua solforosa che impedi il loro avanzarsi e li obbligò alla ritirata.

2. Al culto di Giano non occorrevano, si può dire, templi speciali; essendo dedicate a lui, come si disse, le porte, i passaggi, gli archi della città. Segnatamente si avevano per sacri a Giano quegli archi che erano nelle vie o nei crocicchi più frequentati e avevano due o più porte. Questi erano sempre adorni colla statua del Dio. Tra essi il più antico e il più importante era quelle situato su quella frequentatissima strada che dal vecchio foro conduceva al foro di Cesare. Lo si diceva eretto da Numa, ed era appunto il tempio le cui porte si tenevan chiuse in tempo di pace e aperte in tempo di guerra. Un altro tempio di Giano egualmente antico e ragguardevolo trovavasi sul Gianicolo, dove si diceva che Giano avesse avuto sua sede prima che fosse Roma.

3. Chi voglia leggere artisticamente riassunte le attribuzioni e le leggende di Giano, ricorra al primo libro dei fasti d’ Ovidio; ivi; a proposito delle feste di capo d’ anno, si discorre largamente di lui.

L’ arte statuaria, già s’ è detto, volendo figurar Giano, costantemente s’ attenne altipo bifronte. Non che questa sia stata un’ invenzione degli artisti romani; anzi i Greci in più casi avevano ricorso a una simile immagine, per es., nelle doppie erme e nella figura di Argo; e una doppia erma che si credeva opera di Scopa o di Prassitele, portò Augusto a Roma dall’ Egitto, per servire come immagine di Giano. È dunque probabile che gli artisti romani abbiano tolto il modello dalle cose Greche. Dapprima si foggiavano le due faccie barbute entrambe; più tardi si usò anche accoppiare una faccia barbuta ad una sbarbata. Non avendo altri monumenti di Giano, riproduciamo (fig. 31) un’ antica moneta romana con la figura di Giano bifronte. — Si assegnano a Giano come attributi suoi un bastone e una chiave, come Ovidio dice:

Ille tenens baculum dextra clavemque sinistra15 .
XII. Quirino. §

Era un’ antica divinità dei Sabini, corrispondente al Mars dei Latini, e prendeva nome dalla città sabina di Cures, i cui cittadini erano detti Quirites. Era come Mars, un dio della primavera e della guerra insieme. La fusione dei Sabini stanziati sul Quirinale col Latini del Palatino, fece che si adottasse questo Dio nel culto comune insieme con Iupiter e Mars, formando una triade che si riteneva protettrice dello stato di Roma. Numa assegnò a questo Dio un sacerdote speciale, il flamen Quirinalis, e Tullo Ostilio creò per lui un secondo ordine di Salii. La festa animale di Quirino, detta Quirinalia, aveva luogo il 17 Febbraio. Un antico tempio in onor di lui sorgeva sul Quirinale; il qual tempio fu rifatto nel 411 di R. (293 av. C.) da L. Papirio Cursore e ornato delle spoglie Sannitiche e del primo orologio a sole. — Più tardi Quirino venne a confondersi con Romolo, il primo re di Roma divinizzato, e ne nacque così il dio Romulus Quirinus, considerato come eroe della stirpe comune a quella guisa che la formola Populus Romanus Quirites o Quiritium, designante in origine la doppia popolazione, venne in seguito a indicare i cittadini di Roma senza distinzione.

B. Divinità secondarie del Cielo. §

I. Corpi e fenomeni celesti divinizzati §
a) Elio-Sole. §

1. Tra i primi corpi celesti che l’ immaginazione popolare doveva annoverare fra gli Dei, v’ era naturalmente il sole; di qui il dio Elio (Helios). Gli antichi se lo figuravano come un bel giovane cogli occhi lucenti, colla chioma tutta a ricci splendenti, e coperto d’ un, elmo d’ oro. Lo si diceva figlio del Titano Iperione (Hyperion) e di Tea (Theici) o, secondo altri, di Eurifaessa (Euryphaëssa, la largisplendente), come le sue due sorelle Selene ed Eos (la luna e l’ aurora). Perciò venne spesso dai poeti chiamato « il Titano ». Ebbe in moglie Perse o Perseis, colla quale generò Eeta (Aeetes), quello che è noto nella favola degli Argonauti, come re della Colchide, e la maga Circe.

La giornaliera occupazione di Elio era quella di portar la luce del giorno agli Dei e agli uomini, uscendo al mattino dall’ oceano d’ oriente là dove abitano gli Etiopi, per traversar la volta celeste e rituffarsi la sera nell’ oceano, presso quella regione dove si diceva ch’ egli avesse uno splendido palazzo e i celebri giardini custoditi dalle Esperidi. A far questa traversata l’ immaginazione popolare avevagli assegnato un carro tirato da quattro focosi destrieri; nè a tutta prima si pensò al modo come Elio dovesse di notte tornare a oriente per rinascere il giorno successivo; più tardi si favoleggiò ch’ egli durante la notte navigasse sull’ oceano entro un battello d’ oro fabbricatogli da Efesto, e così tornasse al paese degli Etiopi dove il carro e i cavalli già lo attendevano.

È assai nota la leggenda di Fetonte (Phaëthon), detto figlio di Elio e di Climene; il quale avendo chiesto al padre di guidare una volta il suo carro, e il padre avendo imprudentemente consentito, si pose all’ opera; ma incapace di reggere i fervidi cavalli, s’ avvicinò troppo alla terra; allora gravi guai successero, montagne in fiamme, fiumi essiccati, gli Etiopi diventarono troppo mori, il Nilo nascose d’ allora in poi le sue sorgenti; finalmente Giove fulminò il malcapitato Fetonte, che inflammato precipito nell’ Eridano, dove le ninfe lo seppellirono, e le sorelle, le tre Eliadi, Egle, Lampezia, e Faetusa lo piansero finchè furono convertite in pioppi e le lagrime loro in ambra. Il mito in sostanza, significa l’ azione rovinosa del sole d’ estate i cui effetti possono essere temperati solo da Giove con opportuni temporali.

2. Il dio Elio aveva anche il suo lato morale; egli è colui che tutto vede e ascolta; colla sua luce penetra nei più segreti luoghi, discopre quel che è nascosto e castiga anche i colpevoli. Perciò era invocato nei giuramenti e nelle proteste. I filosofi ne fecero anche il principio d’ ogni sapienza.

3. Elio era venerato come dio potente in molti luoghi, segnatamente in Corinto e nelle sue colonie, in Sicione, in Argo, in Arcadia, sul monte Taigeto tra la Laconia e la Messenia, in Elide, e più di tutto nell’ isola di Rodi, dove si celebrava con gran pompa un’ annua festa con giochi ginnastici e musici, festa che per Rodi aveva la stessa importanza delle Panatenee in Atene, delle Olimpie in Elide. — Una particolarità del culto del sole, erano gli armenti a lui sacri. Nell’ isola Trinacia, (la terra dalle tre punte, la Sicilia?), erano sette greggi di giovenche e altrettanti di elette pecore, ciascun gregge di cinquanta capi, il cui numero mai non cresceva nè scemava, affidati alla custodia di due ninfe Faetusa e Lampezia (la rilucente e la splendente), figlie di Elio e di Neera. Anche in altri luoghi, dove Elio era venerato, trovavansi greggi a lui sacre. Forse in origine erano immagine dei giorni dell’ anno, i quali in antico erano ripartiti in 50 settimane di sette giorni e sette notti.

4. Il culto del sole presso i Romani era d’ origine sabina; quindi il luogo suo era presso il tempio di Quirino, sulla facciata del quale perciò appunto fu, nel 293 av. C., costrutto il primo orologio a sole. Si credeva in Roma come in Grecia, che il Sole rivelasse i segreti, quindi era sopranomato Sol Index, il sole indicatore. L’ immagine del carro solare trovò anche facile diffusione, quindi a lui si consacrarono le corse del circo, e un tempio gli si eresse in mezzo al circo stesso. E del dio Sole si ripeterono le stesse favole riferite in Grecia di Elio. Fu presto confuso con Apollo.

5. Lungo sarebbe il ricordare quante volte i poeti antichi rappresentarono il dio Elio e ne riferirono la storia. Specialmente trovansi immaginose descrizioni del levare e del tramontare del sole. Euripide ad es., nel Ione dipinse mirabilmente il sorgente astro di Elio che indora le cime delle montagne, mentre le stelle rapidamente se ne fuggono per rifugiarsi nel grembo della sacra notte; immagine che si trova anche in pitture vascolari dell’ età di Fidia, rappresentato il sole sul suo carro e le stelle in figura di giovanetti aerei che fuggono. Ne meno belle le descrizioni del tramonto; si dice che il sol cadente stende la nera notte come un oscuro manto sulla terra, ovvero che al voltarsi del cielo precipita la notte dall’ oceano involgendo di sua grand’ ombra la terra (es. Virg. Eneide, 2,250), o anche alla notte si assegnano de’ cavalli ma neri, ecc. La leggenda poi di Fetonte si ritrova in parecchi autori, già in Esiodo, poi in Eschilo, in Euripide, in Ovidio, in Manilio, in Claudiano. Il racconto ovidiano contenuto nel primo e nel secondo delle Metamorfosi, va certamente segnalato tra tutti gli altri per ricchezza di particolari, vivacità di colorito, armonia di verso.

L’ arte statuaria più volte ricorse alla figura del Sole e del suo carro, specialmente come motivo di decorazione; ad es., nel frontone orientale del Partenone, ad una estremità erano scolpiti i cavalli di Elio emergenti dalle onde, come nell’ estremità opposta erano i cavalli di Selene che all’ apparire del raggio diurno si tuffano nel mare. La fig. 32 riproduce un rilievo trovato a Troia dallo Schliemann; il Dio è sulla sua quadriga col lungo abito proprio del cocchiere, e la testa coronata di raggi. — Più che mai a Rodi si vedevano statue del Sole. Celebre è il così detto « colosso di Rodi », una delle sette meraviglie del mondo antico, opera di Care di Lindo, allievo di Lisippo; era una statua colossale in bronzo, eretta nel 291 av. C., ammirata per la intelligente proporzione delle membra; ma soli 60 anni dopo eretta, fu distrutta da un terremoto. — Anche la caduta di Fetonte trovasi rappresentata più volte nei bassorilievi, specialmente di sarcofagi.

b) Selene-Luna. §

1. La luna colla sua notturna peregrinazione pel cielo, colle sue diverse fasi, colla pallida luce che dà un aspetto così fimtastico alle cose, doveva certo, non meno del sole, parer Dea ai volghi immaginosi dell’ antichità. Se la figuravano colle braccia bianche, con la testa bellamente ricciuta e ornata d’ un diadema di raggi; la chiamavano l’ occhio della notte, e dicevano che la sera sorgeva dai flutti dell’ oceano per percorrere la volta celeste sul suo carro tirato da due cavalli bianchi. Si favoleggiò pure de suoi segreti amori. Tra le altre è celebre la leggenda di Endimione (Endymion), leggenda che viveva segnatamente nella Caria e in Elide. Era Endimione un bel giovane, forse il genio della notte e del profondo sonno notturno; egli sempre dormiva in una grotta del monte Latmos, e ogni notte veniva Selene a visitarlo e a pascersi della sua bellezza e a baciarlo dormente. — In tempi posteriori Selene fu identificata con Artemide, con Ecate e Persefone. — Non sembra che Selene sia mai stata oggetto di culto speciale.

2. Alla Selene greca corrisponde l’ italica Luna, oggetto di culto specialmente fra i Sabini e gli Etruschi. Un tempio a Luna Noctiluca sorgeva sul Palatino, e un altro antichissimo santuario di lei era sull’ Aventino, fondato da Servio Tullio. Come Dea mensile era festeggiata l’ ultimo giorno di Marzo, come Ovidio nei Fasti ricorda.

3. Innumerevoli cenni della dea Selene negli autori; con lei vengono paragonate spesso le belle donne; di lei si loda la candida luce. Un frammento di Saffo ci parla degli astri che intorno alla bella Selene, quando ella nella sua pienezza splende argentea, nascondono la loro viva luce; pensiero imitato da Orazio, ove paragona lo splendore della famiglia Giulia alla luna che brilla in cielo inter minores ignes (Carm. 1, 12, 48). Anche nell’ arti figurative è abbastanza frequente la rappresentazione della luna, comunemente sul suo carro, tirato da due cavalli o da giovenchi; tale ad es., la già ricordata figura di Selene posta a riscontro di quella di Elios, sul frontone orientale del Partenone. Anche veniva figurata come una bella donna a cavallo; tale la fece Fidia nella base del suo Giove d’ Olimpia; tale trovavasi nell’ altare di Pergamo e in molte pitture vascolari. Frequentissima sui sarcofagi e sul monumenti sepolcrali l’ immagine di Endimione dormente visitato da Selene. Essa è contrassegnata dalla mezzaluna sulla fronte; generalmente ha velata la parte posteriore della testa e porta una fiaccola in mano.

c) Eos-Aurora. §

1. Eos, l’ Aurora, era, come Elio e Selene, figlia di Iperione e di Tea. Rappresentava la prima luce del giorno, quindi era una deità bella e benefica. Le braccia aveva rosee; rosee le dita; dicevasi che lieta e robusta si levasse ogni mattina dal suo letto, e vestitasi del suo mantello d’ oro, si affrettasse a bardare i suoi cavalli Lampo e Faetonte (splendore e scintillio) per gratificare della diurna luce Dei ed uomini, prevenendo il carro del sole, e spargendo di rose il suo cammino. Il linguaggio mitico è qui trasparente, non essendo altro in fondo che una poetica pittura del sorger dell’ aurora. Si aggiungevan leggende circa, i mariti di questa Dea. Il primo era stato Astreo, pel quale essa divenne madre dei venti Borea, Zefiro, Euro e Noto (i venti di nord, ovest, est e sud), espressione mitica del fatto che al primo apparir dell’ aurora suol sorgere il vento. Ma poichè il titano Astreo avendo combattuto contro Giove, fu relegato cogli altri nel Tartaro, dicevasi che Eos avesse scelto a sposo il bel cacciatore Orione; ma neanche questa scelta fu fortunata, perchè Orione fu ucciso dagli strali di Artemide. Allora ella sposò il re de’ Troiani Titone. Per lui chiese e ottenne in dono da Giove l’ immortalità; se non che, essendosi scordata di chiedere anche una perpetua giovinezza, ne venne ch’ egli invecchiò perdendo ogni bellezza e ogni attrattiva. Figlio di Titone e di Eos fu Mennone, principe degli Etiopi, quello che essendo venuto in soccorso dei Troiani fu ucciso da Achille. D’ allora in poi piange Eos incessantemente il perduto figlio, e le sue lagrime cadono sulla terra in forma di rugiada. Il mito di Titone, vecchio tutto rughe, non più capace d’ altro che di far sentir la sua voce, come una cicala, era un’ allegoria del giorno che è bello e fresco la mattina, poi dai dardi cocenti del sole vien fatto vecchio, secco e deforme. Il figlio di lui Mennone, bellissimo tra gli eroi di Troia, era forse l’ immagine del giorno nuovo, ringiovanito, somigliante alla sua madre Eos. — Tali le principali leggende relative a questa Dea. La quale non ebbe in nessun luogo un culto speciale.

2. All’ Aurora de’ Latini si riferirono i miti stessi della greca Eos, facendola pure sorella del Sole, sposa di Titone antico. Ma oggetto di culto con questo nome non è stata mai. Bensi antica deità, venerata dagl’ Italici fu Mater Matuta, il cui nome è connesso con mane e matutinus. Era una dea della prima luce, quindi anche del nascimento, e la sua festa chiamavasi Matralia, ed aveva luogo in Roma l’ 11 Giugno. Era però anche considerata come dea marina e dei parti, e venne perciò identificata poi colla greca Leucotea (Leucothea), come il dio Portunus, venerato insieme con Mater Matuta, fu identificato con Melicerte, figlio di Leucotea. Antichi templi in onor di Matuta trovavansi a Satricum tra i Volsci, a Cales in Campania, in un bosco di Pesaro nell’ Umbria (od. Marche). Servio Tullio ne eresse anche uno in Roma nel Foro Boario, tempio che Camillo ricostrui dopo la distruzione di Veio.

3. La bella Aurora, dalle dita rosee, dal manto d’ oro, è descritta spesso dai poeti, ma più come fenomeno nattirale che come dea. Tale ad es. il virgiliano: aethere ab alto Aurora in roseis fulgebat lutea bigis16, e l’ ovidiano: ecce vigil rutilo patefecit ab ortu Purpureas Aurora fores et plena rosarum Atria17, e molti altri simili. Il dolore dell’ Aurora per la morte di Mennone suo figlio, bene è ricordato in un episodio del 13o delle Metamorfosi, dove, riferita la preghiera da lei rivolta a Giove perchè qualche funebre onore concedesse al defunto, si descrive con vivi colori la trasformazione delle faville uscite dal rogo di Mennone negli uccelli detti Mennonidi, i quali appiccan battaglia col rostri e cogli adunchi artigli e cadon sul rogo stesso, vittime in onore del morto, mentre l’ Aurora:

…………………………… pias
Nunc quoque da t lacrimas et toto rorat in orbe18 .

Su vasi e su gemme incise non di rado troviamo la rappresentazione di Eos. Ora figura su una quadriga, ovvero è in atto di bardare i cavalli del sole, o fornita d’ ali vola per l’ aria intanto che da un vaso versa sulla terra la rugiada. Nel grande rilievo dell’ altare di Giove in Pergamo, ora nel Museo di Berlino, rappresentante la Gigantomachia, si vede Eos a cavallo che precorre e preannunzia il giovane Elio.

d) Gli astri. §

1. Alcuni tra gli astri devono essere annoverati fra gli Dei della mitologia. Tali anzitutto le stelle del mattino e della sera, che da principio erano credute stelle diverse, denominate Fosforo (Phosphoros) e Espero (Hesperos), presso i Latini Lucifer o Iubar e Vesper o Vesperugo. Fosforo, detto figlio di Eos e d’ Astreo, o secondo altri di Cefalo, dicevasi avesse gareggiato di bellezza con Afrodite, oppure che Afrodite l’ avesse rapito giovane e fattolo guardiano del suo tempio; onde si spiega il virgiliano: Lucifer… quem Venus ante alios astrorum diligit ignes19. Anche Espero era stella cara a Venere, ma si credeva avesse il compito speciale di guidare i cortei nuziali e accompagnare la nuova sposa a casa dello sposo, come si vede dal 62o Carme di Catullo. L’ arte soleva rappresentare questi due astri in figura di due bei garzoni, con fiaccole in mano.

2. Molte leggende correvano intorno ad Orione, già da noi menzionato come sposo di Eos, e come cacciatore, emulo di Artemide e da’ suoi strali ucciso. Dopo questo, si diceva fosse stato trasformato nella costellazione di Orione, quella che appare sul nostro orizzonte dal solstizio d’ estate al cominciare del verno. Nel fatto i miti stessi hanno la loro spiegazione nei fenomeni relativi a detta costellazione; così l’ apparire di Orione nell’ estate al primo mattino nel ciel d’ oriente e il subito suo impallidire al sorgere del sole, destò l’ immagine dell’ amor di Eos per lui; invece al principio dell’ inverno il suo levarsi di sera e l’ essere visibile tutta notte, splendido fra gli altri gruppi di astri, die’ luogo alla leggenda del terribile cacciatore notturno, emulo d’ Artemide. Lo si figurava come un enorme gigante, che a volte cammina nel mezzo del mare, e pur leva la testa fino alle stelle, armato di aurea spada. Il cane del cacciatore Orione era la brillante stella Sirio, la cui comparsa annunziava la stagione canicolare, ossia la stagione più calda dell’ anno.

3. Anche la costellazione delle Pleiadi, fu oggetto dei mitologici racconti. Essa si leva nel bello del maggio, annunciando la prossima raccolta e sparisce in autunno, quand’ è la stagione del seminare. Son sette stelle in tutto, le quali eran dette figlie di Atlante. La più vecchia e la più bella era Maia, quella che a Zeus diede un figlio in Erme. Dai Latini eran denominate Vergiliae, forse per il rapporto loro colla primavera (ver).

4. Non men celebri erano le Iadi (Hyades), la costellazione delle pioggie e delle tempeste marine. Secondo una leggenda, erano cinque sorelle, le quali tanto piangevano per la morte di un loro fratello Iade (Hyas), che gli Dei per compassione le mutarono in stelle. Il loro nome derivano gli uni da un verbo greco che vuol dire « piovere »; altri ricordando che dai Latini eran dette Suculae, porcellini, lo connettevano col nome che significa « porco »; e pensavano che la celeste costellazione fosse stata immaginata come una mandra di porcellini, che sarebbe simbolo di fecondità.

5. Infine è da notare Arctos, l’ Orsa, detta anche il Carro. La leggenda la identificava con Callisto, una ninfa Arcade, del seguito di Artemide, amata da Zeus epperò perseguitata da Artemide per ayer offeso la legge della castità, e da Zeus portata in cielo. I Latini chiamavano questo gruppo septemtriones, i sette buoi aratori, perchè il girar che fan queste stelle intorno al centro polare aveva destato l’ immagine dei buoi che arino un campo girando a tondo.

6. Sull’ altare di Pergamo si trovan rappresentate alcune stelle come combattenti dalla parte di Zeus contro i Giganti. Artifizio a cui si ricorse per riempire in qualche modo il largo spazio che veniva a rimaner vuoto dalla parte del cielo.

e) I Venti. §

1. Erano anch’ essi oggetto di culto; segnatamente chi doveva intraprender viaggi di mare, soleva propiziarseli con preghiere e sacrifizi. Già si disse che i quattro venti principali erano detti figli di Eos e di Astreo. Il più temuto era Borea od Aquilone, il vento nord, il cui soffio faceva tremar la terra e agitar la superficie del mare. Per questo era detto rapitor di fanciulle, e un’ antica leggenda attica raccontava appunto di Orizia (Oreithyia) figlia di Eretteo, rapita da Borea mentre stava giocando sulle rive dell’ Ilisso, onde essa divenne madre dei Boreadi Calai e Zete, ricordati nella storia degli Argonauti. Leggasi su ciò la narrazione scritta da Ovidio nell’ ultima parte del sesto delle Metamorfosi. D’ altra parte, l’ avere Borea distrutto la flotta di Serse al tempo della guerra Persiana, gli dava diritto alla gratitudine degli Ateniesi; i quali perciò lo onorarono con un tempietto e un altare a lui dedicato. — Non meno potente e miracoloso era creduto il vento del sud, Noto o Austro, apportatore di piogge e tempeste che rendevano il mare innavigabile e tutto involgevano di densa tenebra. Ricordisi l’ Oraziano:

                                rabiem Noti
Quo non arbiter Hadriae
           Maior, tollere seu ponere vult freta 20,

e la viva pittura che ne fe’ Ovidio nel primo delle Metamorfosi (v. 264 e segg.). — Invece tutto favorevole era il vento Zefiro, o il vento di ponente, nuncio della primavera, detto Favonius dai Latini, al cui soffio maturavan le sementi; quindi era venerato come Dio benefico. — Infine Euro, detto anche Vulturnus, vento di est, o più precisamente di sud-est, spirava solitamente al solstizio d’ inverno, ora asciutto ora umido aquosus Eurus ( Orazio Epod. 16, 54). Secondo una nota leggenda, tutti questi venti abitavano tutti riuniti nella Tracia, ovvero si credevano racchiusi in una caverna, di una certa isola Eolia, sotto la custodia di Eolo loro re, il quale ricevutone l’ ordine da qualche Dio, apriva loro un passaggio e lasciava che si scatenassero sulla terra.

2. Importanti per la caratteristica dei quattro venti principali e di altri quattro venti secondari sono i rilievi di quell’ antico monumento ateniese che ancor si conserva, ed è conosciuto sotto il titolo di « Torre dei venti ». È una specie di torre ottagonale, sul cui fregio trovansi in mezzo rilievo scolpite otto figure rappresentanti otto venti. Un tempo sulla cima del capitello, al centro del tetto, era anche un tritone mobile che girando secondo il vento ne indicava la direzione con un bastone rivolto in basso verso la figura corrispondente del fregio. Tale costruzione era dovuta all’ opera di Andronico Cirreste, ed era chiamata Orologio. Gli otto venti raffigurati a mo’ di uomini con l’ ali alla testa e alle spalle, e la bocca semiaperta e le guancie gonfie per il soffiare, erano oltre i quattro già detti, Caecias o nord-est o greco, detto anche Aquilo, l’ Apeliotes o subsolanus, vento d’ est, il Lips o Africus, vento di sud-ovest o libeccio, e lo Schiron o Iapyx od Onchesmites, vento di ovest-nord-ovest (soffiava dalla Iapigia verso la Grecia, e da Onchesmo città dell’ Epiro verso le terre orientali dell’ Ellade).

II. Divinità secondarie che formavano il corteo degli Dei del cielo, o compagne o ministre esecutrici della loro volontà. §
a) Le Muse. §

1. Secondo Esiodo erano figlie di Zeus e di Mnemosyne, la memoria, e nate nella Pieria, terra posta sulle pendici orientali dell’ Olimpo in Tessaglia. Amanti del canto e sempre liete, erano esse divinità benefiche, che facevan cessare ogni angustia e dimenticar ogni male. Pindaro raccontava che dopo la vittoria sul Titani, i Celesti pregarono il padre Giove affinchè pensasse a crear tali esseri, che fossero in grado di eternare coll’ arte del canto le grandiose gesta degli Dei; e che allora Zeus genero con Mnemosine le nove Muse, le quali sanno cantare il presente, il passato e l’ avvenire e col loro dolci canti, che Apollo suole accompagnare con la cetra, rallegrano l’ animo degli Dei, allorquando questi sono adunati nell’ alto palazzo di Zeus sull’ Olimpo. — In origine le Muse erano ninfe delle sorgenti. Dalle alture dell’ Olimpo molti ruscelletti scorrevano giù con dolce mormorio, e può ben essere che l’ impressione di questa musica della natura, abbia evocato l’ immagine di deità amanti del canto e compiacentisi dei luoghi solitari, ombrosi e irrigati da limpidi ruscelli.

Due regioni greche furono particolarmente celebri pel culto delle Muse, una era la regione dell’ Olimpo colla Pieria, e altre località come Libetra e Pimplea, dove pure dicevasi fosse nato il poeta Orfeo, l’ altra era un bosco del monte Elicona nella Beozia meridionale, nelle cui vicinanze trovavasi la fonte Aganippe, mentre un’ altra fonte, scaturita per un calcio del cavallo Pegaso, detta perciò la fonte del cavallo, Ippucrene, addita vasi più su, verso la cima del monte. Anche il monte Parnasso presso Delfo nella Focide era sacro ad Apollo e alla Muse; ivi presso scaturiva la sacra fonte Castalia.

Propriamente le Muse si piacevano solo del canto, ma presto furono pensate anche come sonatrici di qualche istrumento, e come tali si vedono spesso rappresentate nelle opere d’ arti, specialmente nelle pitture vascolari. Nei tempi più antichi compaiono sempre come un coro; solo più tardi a ognuna delle nove Muse (giacchè nove è il numero più frequente, ma non mancano località e leggende in cui si parla d’ un numero diverso) fu assegnata una provincia speciale e il patrocinio di un particolar genere letterario. Allora Clio divenne la Musa della poesia narrativa e della storia, Calliope dell’ elegia, Urania della poesia astronomica e in genere della didascalica, Melpomene e Talia della tragedia e della commedia, Tersicore della lirica corale e della danza, Erato della poesia amorosa, poi anche della geometria e della mimica, Euterpe della poesia lirica e dell’ aulodia (il suono del flauto), infine Polinnia (Polyhymnia) rappresentava l’ innografia (religiosa), con un carattere non ben definito, spesso confusa con Mnemosine.

2. Presso i Romani si veneravano certe ninfe fontane dette Camene o Casmene, Carmene, alle quali si attribuiva l’ arte del canto e del divinare. Celebre tra esse la ninfa Egeria per i rapporti che ebbe col re Numa. Pare fossero tutt’ uno colle ninfe Carmentes che formavano il corteo di Carmenta, la madre di Evandro; rappresentavano il canto degli oracoli, dei Fauni, dei vati. Allorchè la greca mitologia invase Roma, colle antiche Camene si identificarono le Muse, sebbene il canto dei vaticinii fosse ben diverso dal canto veramente poetico.

3. Quante volte si menzionino le Muse nelle opere poetiche dell’ antichità non occorre dire; noto è che i poeti epici solevano cominciare i loro poemi dall’ invocazione delle Muse, uso che è stato accolto anche dai moderni; e negli epiteti di cui si servivano, mettevano in rilievo or la dolcezza del canto loro, or la bellezza del loro volto, ora l’ eleganza degli ornamenti. Frequenti poi le raffigurazioni delle Muse o in istatue o in rilievi vari o su monete o su gemme; sopratutto le statue erano numerose, giacchè se n’ adornavano non solo i templi di esse Muse, ma anche i teatri, le biblioteche, ecc. Ogni musa aveva i suoi distintivi, Clio un rotolo di carta e uno stilo; Calliope pure uno stilo o una cassa di libri, non sempre facile a distinguersi da Clio; Urania un globo celeste e una bacchetta; Melpomene e Talia le maschere tragica e comica; Tersicore la lira ed illungo abito dei citaredi; Erato anch’ essa un grosso istrumento a corda e abito svolazzante; Euterpe il doppio flauto; Polinnia infine non aveva distintivi speciali ma era riconoscibile dall’ abito grave e avvolgente, dall’ aspetto serio. — Tra i monumenti ancora superstiti meritano il primo posto quelli che si trovano in Vaticano; ad essi si riferiscono le nostre figure di Melpomene, Talia, Polinnia e Euterpe (fig. 33, 34, 35, 36). La Polinnia vaticana rappreseuta la Musa del Pantomimo, quale fu concepita nell’ età romana. Riproduciamo un’ altra Polinnia del Museo di Berlino (fig. 37), statua d’ insigne bellezza, che la raffigura in atto di pensar nuovi inni.

b) Le Cariti o Grazie. §

1. Figlie di Zeus e di Eurinome, secondo Esiodo, eran le Cariti, che rappresentavano tutto quel che v’ ha di bello e di grazioso sì nella natura sì nei costumi e nella vita degli uomini. Secondo la leggenda più comune, eran tre di numero, e si chiamavano Aglaia, Eufrosine e Talia. Esse erano venerate come datrici di tutto quello che abbellisce e rende gradevole la vita. Senza di esse, neppur gli Dei potevano godere una piena beatitudine. Musica, eloquenza, poesia, arti dalle Cariti ricevevano la loro più alta consecrazione, e da loro pure derivavano la sapienza, la virtù, l’ amabilità, in genere tutte le qualità che rendono l’ uomo simpatico a’ suoi simili.

Le Cariti erano oggetto di culto fin da antichi tempi in Orcomeno di Beozia dove un santuario era loro dedicato, in Sparta, in Atene, anche nell’ isola di Paro e altrove. Le feste in loro onore, le Caritesie, erano accompagnate da gare musicali e poetiche. Spesso erano messe in relazione con Apollo e le Muse, in compagnia delle quali solevano cantare e danzare; ma per lo più eran dette formare il corteo di Afrodite.

2. Presso i Romani si veneravan le Grazie, identiche affatto alle Cariti, da cui n’ era stata tolta l’ idea.

3. Che queste Deità siano spesso menzionate dai poeti è cosa ben naturale. Pindaro nella 14a Olimpica volgendo loro la parola ne fa un bell’ elogio: « O Cariti, dic’ egli, udite la mia preghiera; giacchè tutto quanto v’ è di piacevole e di dolce fra gli uomini dal vostro intervento dipende, e se v’ è alcun savio, alcuno bello, alcuno illustre, è da voi; e neanche gli Dei senza le sante Cariti non possono attendere alle danze e ai conviti; chè son esse in cielo d’ ogni opra dispensiere, e posta lor sede presso il Pizio Apollo dall’ arco d’ oro, eterne lodi cantano del padre dell’ Olimpo ». Ricordiamo anche le Gratiæ decentes di Orazio, che in primavera facendo colle ninfe corteo a Venere, alterno terram quatiunt pede21.

L’ arte si compiacque rappresentare le Cariti e le Grazie come fanciulle d’ ogni bellezza adorne, con fiori in mano, segnatamente rose e mirti; talvolta anche con strumenti musicali o con dadi da giuoco; per lo più si figuravano con mani e braccia a vicenda graziosamente intrecciate. In antico le Grazie si rappresentavano vestite; tali ancora nell’ antico rilievo del Museo Chiaramonti in Vaticano; appresso si ridussero gli abiti a leggeri veli, e infine verso l’ età di Scopa e Prassitele invalse l’ uso di rappresentarle nude. Il gruppo delle tre Grazie in grazioso abbraccio unite, fu riprodotto più volte e in più atteggiamenti diversi; n’ è esempio, sebbene molto sciupato, quello che si conserva in Siena, dal quale Raffaello trasse l’ ispirazione pel suo celebre quadro.

c) Temi e le Ore. §

In intima connessione colle Cariti sono le Ore, dette figlie di Zeus e di Temi (Themis). Esse rappresentavano il regolare corso della natura nella vicenda delle stagioni; e ben con ragione è stata pensata come loro madre Temi, personificazione dell’ ordine universale, rappresentante della legge, che regola i rapporti fra i varii esseri, epperò convocatrice delle assemblee dei celesti in esecuzione degli ordini di Giove, e presidente delle assemblee dei popoli sulla terra. Le Ore alla lor volta, come ministre di Zeus, erano da Omero dette le portinaie del cielo; ora ne richiudon le porte di dense nubi circondandolo, or di nuovo le riaprono disperdendo le nuvole. In altri termini esse presiedono al corso delle stagioni; fanno essere a loro tempo i flori e i frutti, in genere regolano tutti gli esseri portandoli a compimento nel tempo adatto. Nel mondo morale son esse come Temi protettrici dell’ ordine morale nei rapporti tra gli uomini, ed ogni cosa nobile, bella e buona è posta nella loro dipendenza. Non solo erano credute ministre di Zeus, ma anche di altre Divinità, come Era, Afrodite, Apollo, le Muse. Le Ore erano tre di numero; ma i nomi son riferiti diversamente nelle varie leggende locali; in Atene si chiamavano Talio (Thallo), Auso (Auxo) e Carpo, ossia la fioritura della primavera, lo sviluppo dell’ estate e la fruttificazione dell’ autunno; ma i nomi più comunemente accolti eran quelli dati da Esiodo, Eunomia, Diche e Irene, ossia l’ ordine legale, la giustizia, la pace, prevalendo in questa forma di leggenda il concetto morale di queste Deità.

Più tardi, nell’ età ellenistica e romana, identificandosi sempre più le Ore colle stagioni dell’ anno, se ne portò il numero a quattro.

2. Alle Ore dei Greci non corrispondono speciali deità presso i Romani; si può però ricordare che in luogo di Irene, essi veneravano quella che chiamavano Pace (Pax). Augusto le dedicò un altare nel Campo Marzio e ivi venivasi a offrir sacrifizio tre volte l’ anno. Dopo fu eretto da Vespasiano uno splendido tempio nelle vicinanze del Foro; era adorno di parecchie opere d’ arte ed era annoverato tra i più bei monumenti eretti dalla dinastia dei Flavii.

3. Pindaro nella 13a Olimpica loda Corinto dove han culto le Ore; in essa, dice, abita Eunomia, fondamento sicuro della città, e la sorella Dice e Irene, di opulenza dispensiere agli uomini, auree figlie della prudente Temi. Così altri poeti ricordano con parole d’ elogio le tre graziose vergini. — L’ arte rappresentò le Ore in figura di gentili fanciulle, ornate di flori, frutta e corone, e con altri attributi, secondo le stagioni volute rappresentare. La nostra fig. 38 tolta da un rilievo del Museo Campana, ora a Parigi, rappresenta appunto due Ore con frutti varii, vegetali e animali. — Tra le Ore fu poi prediletta dagli scultori Irene che come datrice di pace e di ricchezza era anche oggetto di maggior venerazione. È celebre la statua di Irene scolpita da Cefisodoto, della giovane scuola ateniese, di cui credesi un’ imitazione l’ opera da noi riprodotta nella fig. 39 che è nella Gliptoteca di Monaco. « Raffigura una donna di nobile bellezza appoggiata colla destra ad un alto scettro, e reggente sul braccio sinistro un fanciullino che a lei stende la mano con atto di amorosissima grazia (è Pluto la ricchezza). V’ è nel gruppo, insieme con certa nobile grandezza, un’ affettuosa intimità e soave tenerezza materna » ( Gentile, op. cit. p. 125). Anche la Pax presso i Romani era rappresentata per via di statue; n’ eran distintivi un ramo d’ olivo, il caduceo, e la cornucopia significativa della ricchezza onde la pace è apportatrice.

d) Niche-La Vittoria. §

1. Niche non è che la personificazione del potere irresistibile e vittorioso di Zeus, e gli è difatti inseparabile compagna nelle lotte contro i Titani e i Giganti. Essa era pero anche in intima relazione con Pallade Atena, che dopo Zeus rappresentava la più alta potenza; infatti Atena stessa era venerata dagli Ateniesi col nome di Atena Niche, e a costei era dedicato un grazioso tempietto al lato occidentale dell’ Acropoli, quello detto di Niche Aptero (la Vittoria senz’ ali, così immaginata coll’ idea che non potesse mai più abbandonare Atene). In genere poi Niche divenne fra i Greci simbolo di ogni vittoria e di ogni prospero evento sia degli Dei sia degli uomini, invocata non solo in occasione di guerre ma anche nei certami ginnici e musici, tanto frequenti in antico.

2. Alla Niche dei Greci risponde presso i Romani la dea Victoria, dea naturalmente loro molto cara e oggetto di ferventissimo culto. Già i Sabini avevano una divinità Vacuna, che doveva essere affine alla Vittoria, e un’ altra pure affine era Vica Pota ( Cic. de Leg. 2, 28 spiega: colei che vince e s’ impadronisce) venerata nell’ antica Roma; sicchè il culto greco della Vittoria trovò in occidente un terreno assai adatto ove stabilirsi e diffondersi. Sede di questo culto era il Campidoglio, ov’ era anche un santuario in onor di Iupiter Victor. Sul Campidoglio i capitani vincitori solevano erigere statue alla Vittoria, in ricordo delle loro gesta, e Silla istituì anche giochi speciali dopo la vittoria alla porta Collina; altri ne istituì Cesare dopo la vittoria di Farsalo. Più di tutte è da ricordare la statua di bronzo eretta da Augusto nella Curia Iulia dopo la vittoria d’ Azio; la quale statua diventò rappresentante della dea protettrice del Senato, che nella Curia Iulia radunavasi, e durò come tale fi no agli ultimi tempi del Paganesimo, difesa con zelo dai sostenitori della morente religione contro gli attacchi dei Cristiani che la volevano rimuovere.

3. L’ arte greca e romana soleva per lo più rappresentare la Vittoria alata con un ramo di palma e corona d’ alloro. Preziosa reliquia di scalpello antico è una statua trovata negli scavi d’ Olimpia nel 1875. È essa una Niche alata, che i Messenii e quei di Naupatto, per riportata vittoria, come l’ iscrizione dice, avevano fatto eseguire da Peonio di Mende della scuola di Fidia e consecrata in Olimpia. La riproduciamo nella fig. 40, ma completata per congettura, giacchè l’ originale mancava dell’ ali, aveva tronche le braccia e la gamba sinistra, e mancava pure della testa; quest’ ultima fu ritrovata di poi sebbene col viso tutto guasto. È mirabile l’ atteggiamento della dea, in atto di scendere a volo sulla terra, già col piè destro al suolo; le belle forme del corpo si disegnano sotto gli svolazzi delle vesti; v’ è movimento ardito e leggerezza. — Un’ altra grande statua è la Niche proveniente dall’ isola di Samotracia, ora al Museo del Louvre, che noi riproduciamo alla fig. 41. Anche essa è tronca in qualche parte, ma si può completare colla immagine che ne fu riprodotta in monete locali (fig. 42); colla mano sinistra sosteneva l’ asta di bandiera di una nave vinta, e colla destra una tromba per annunziare la vittoria. Base della statua una prora di nave. Era questa la statua eretta a ricordo della vittoria riportata da Demetrio Poliorcete sopra Tolomeo I (306 av. C.).

e) Iride. §

1. L’ arcobaleno è sempre stato un simbolo dei rapporti fra cielo e terra; quiudi era naturale che Iride, la sua mistica rappresentante, fosse concepita come una messaggiera degli Dei; tale apparisce già in Omero. Essa va con velocità straordinaria da un capo all’ altro del mondo, penetra anche nelle profondità del mare e fino allo Stige; per lo più in servigio di Zeus e di Era, ma anche talvolta di altri Dei. Nè solo è messaggiera, ma anche guida e consigliera. In Esiodo è fatta figlia di Taumante e dell’ Oceanina Elettra, sorella delle Arpie. È da notare che nella mitologia posteriore Iride diventa quasi esclusivamente messaggiera di Giunone, ed Ermes ne prende il posto nei rapporti cogli altri Dei.

2. Veloce come il vento e le procelle è detta Iride dai poeti che ne descrivon la figura, e ha l’ ali d’ oro, ed è tutta piena di rugiada, tra le goccie della quale scherza il sole dipingendola a mille colori. Così Virgilio nel quarto dell’ Eneide (v. 700):

         Iris croceis per caelum roscida pennis
Mille trahens varios adverso sole colores22 .

Talvolta è fatta apportatrice di pioggia, onde Ovidio (Metam. I, 270)

         Nuntia Junonis varios induta colores
Concipit Iris aquas aliment aque nubibus ad fert23 .

Anche la statuaria soleva rappresentarla alata, e molto simile a Niche; portava però il caduceo e questo la contraddistingueva. Tra i monumenti superstiti ricorderemo la figura di Iride che è nel fregio orientale del Partenone dov’ essa è vicino ad Era; un’ altra Iride, ma di men sicura identificazione, era nel frontone orientale dello stesso tempio dov’ è rappresentato il nascimento di Minerva. Quest’ ultima figura è senz’ ali.

f) Ebe, la Gioventù. §

1. Ebe, figlia di Zeus e di Era, era una personificazione della fiorente giovinezza. Nell’ Iliade essa figura come la coppiera degli Dei d’ Olimpo, essendo lei che durante i loro festivi banchetti versa il nettare. Fa anche altri servigi e ricorda le ragazze delle case patriarcali dell’ età eroica, che usavano appunto prestare i loro servigi ai membri maschi della famiglia e agli ospiti. Più tardi, assunto Ganimede all’ ufficio di coppiere celeste, Ebe apparisce come sposa e moglie di Ercole, ma sempre fiorente di giovinezza e di beltà, e rappresentante anche dei godimenti che con queste doti si connettono. Nel culto Ebe or è messa in rapporto con Era, onde ad es., nell’ Ereo di Mantinea la statua di lei, di mano di Prassitele, era messa accosto a quella della moglie di Zeus; ora è congiunta con Eracle come nel Cinosarge (Ginnasio di Eracle ove insegnò Antistene Cinico) di Atene, e in altre città, specialmente Fliunte e Sicione.

2. La divinità romana corrispondente a Ebe appellavasi Juventas o Juventus. Ma questa aveva significato politico, rappresentando l’ eterna giovinezza dello Stato. Per questo era dedicata a lei una speciale cappella nel tempio di Giove Capitolino. Era poi anche naturalmente la dea dei giovani e della età giovanile; di qui l’ uso che, allorquando i giovani romani assumevano la toga virile, si recassero in Campidoglio per pagare un tributo alla dea Juventas e rivolgere a lei e a Giove una pieghiera. Anche speciali sacrifizi a Juventas avevano luogo in principio d’ anno. Un tempio particolare a lei fu dedicato nel 193 av. C. presso il Circo Massimo, e un altro nell’ età di Augusto sul Palatino.

3. Orazio nella ode 30a del libro I progando Venere affinchè venisse, lasciata la sua diletta Cipro, a visitar la casa della sua amata Glicera, enumera tra i seguaci di lei non solo l’ Amore e le Grazie e le Ninfe, ma anche la Juventas e Mercurio; e dice la Juventas, parum comis sine te24, volendo esprimere l’ intima unione che vi dev’ essere tra gioventù e bellezza perchè ne fiorisca l’ attrattiva e l’ amore. — Del resto nella statuaria antica non si trovano rappresentazioni di questa Dea; raffigurata la troviamo solo in pitture vascolari e in rilievi, specialmente dove si rappresentano le nozze di Ebe e di Eracle. Uno scultore moderno tentando questo argomento compì uno de’ suoi capolavori, e questi è il Canova (1757-1822). La sua Ebe è una bella fanciulla in atto di versare il nettare.

g) Ganimede. §

1. Come Ebe, così Ganimede (Ganymedes) aveva in Olimpo il compito di far da coppiere agli Dei. Omero dice che era figlio del re Troiano Tros, e che per la sua grande bellezza fu da Giove assunto in cielo, reso immortale e adibito all’ ufficio che s’ è detto. Più tardi si favoleggiò che Giove avesse mandato l’ aquila sua perrapire il formoso giovanetto. Altri fecero ancora un passo avanti e raccontarono che il sovrano dell’ Olimpo si fosse trasformato in aquila, per rapire egli stesso l’ amato garzone.

2. I poeti greci più volte ricordano il mito di Ganimede, segnatamente i poeti erotici, come Ibico di Reggio, Fanocle di Alessandria, riferendo la leggenda nella ultima sua forma, secondo la quale Ganimede era amato da Giove. Anche questo è il racconto a cui si attiene Ovidio nel decimo delle Metamorfosi (v. 152-161); il quale fa che Giove si trasformi in aquila per rapire l’ amato giovane.

L’ arte antica più volte trattò questo terna. Celebre era il gruppo in bronzo di Leocare, scultore ateniese del 4º sec. av. C., del quale si crede un’ imitazione la statua ora conservata nel Museo Vaticano, che noi riproduciamo alla fig. 43. L’ aquila colle ali spiegate alzasi a volo tenendo afferrato il giovine cogli artigli, dai quali le carni sono protette per mezzo della clamide fluente. Il volto di Ganimede non esprime spavento, ma quasi un intimo compiacimento del destino a cui è serbato; a terra è caduta la zampogna pastorale e un cane guarda in alto abbaiando. La difficoltà di rappresentare una figura librata nello spazio è stata vinta dall’ artista con ingegnosa accortezza, in quanto che diè al gruppo per appoggio il tronco d’ un albero, lasciando supporre che il giovane pastore riposasse a piè del tronco quando l’ aquila venne a ghermirlo. — Altro motivo artistico frequente nella statuaria antica è quello di Ganimede raffigurato in atto di carezzare l’ aquila di Giove. Serva di saggio la statua del Museo di Napoli, che noi riproduciamo nella fig. 44.

h) Eros, l’ Amore; e altre divinità del corteo di Afrodite. §

1. Eros, la divinità dell’ Amore, ebbe pei Greci un doppio significato; giacchè da una parte era il Dio cosmogonico, già da noi ricordato, rappresentante della forza di attrazione che spinge le cose ad unirsi; dall’ altra, era figlio di Afrodite e di Ares e rappresentava la passione d’ amore. Lo si immaginava come un giovinetto di ammagliante bellezza, munito di un arco col quale egli soleva lanciar le sue freccie infallibili producendo in chi voleva, o Dei od uomini, la piaga d’ amore. Alla forza di Eros, dicevasi, neppur Zeus può sottrarsi; con che si veniva a indicar l’ amore come la più forte e temibile potenza della natura. — Come Dio, Eros era oggetto di culto, accosto ad Afrodite, specialmente a Tespia e a Pario sull’ Ellesponto. A Tespia ogni quattr’ anni avevano luogo feste, le Erotidie, che erano le più importanti della Beozia, con certami ginnastici e musici. — Oltre l’ amor sessuale, Eros rappresentava ancora presso i Greci l’ affezione e l’ amiciziatra giovani ed uomini; quindi lo si venerava nei Ginnasi insieme con Ermes ed Eracle, e nell’ Accademia Attica insieme con Atena. Gli Spartani e i Cretesi solevano sacrificare a lui prima della battaglia, perche ispirasse a tutti la concordia e l’ affetto reciproco.

2. Con Eros sono nominati spesso dagli antichi altri esseri che rappresentano pure sentimenti dell’ animo; essi sono prima: Imero e Poto (Himeros, Pothos), ossia il desiderio e la brama; poi Imeneo (Hymenaeos), il matrimonio; infine Antero (Anteros), il ricambio d’ amore. I primi non sono che personificazioni allegoriche e non furono oggetto di vero culto. Il più notevole è l’ ultimo che si diceva figlio di Afrodite come Eros. Raccontavano che il piccolo Eros non volendo crescer su bene, sua madre, per consiglio di Temi (l’ ordin di natura) gli diede questo fratello perchè giocasse con lui; d’ allora crebbe Eros, ed era lieto semprechè il fratello si trovasse presso lui, triste quand’ era assente. La natura dei sentimenti d’ amore non poteva essere significata con più grazia.

3. Presso i Romani il dio d’ Amore chiamavasi Amor o Cupido; ma non era in fondo che una ripetizione dell’ Eros greco, nè apparisce mai che abbia avuto l’ onore di un pubblico culto.

4. La figura di Eros e i miti ad essa relativi offrivano agli artisti della parola e del disegno una messe inesauribile di argomenti e di motivi. Specialmente i poeti lirici, e sovra tutti i poeti d’ amore, come Saffo e Anacreonte, inneggiano ad Eros; ma anche i tragici hanno spesso occasione di ricordare la potenza stragrande di questo Dio, e persino i filosofi ricamarono intorno al mito di Eros le loro più belle teorie; basti ricordare il Simposio di Platone. Fino ai più tardi tempi della poesia e dell’ arte ellenistica e romana fu predominante la figura di quel volubile e scaltro giovanetto, che tiranneggiava Dei ed uomini, e compiacevasi a stuzzicar tutti gli esseri in mille guise, come appare specialmente dalle ultime poesie che vanno tra quelle di Anacreonte. Fra così ricca letteratura, basti ricordare la graziosa allegoria di Amore e Psiche, quale si legge nelle Metamorfosi di Apulejo, scrittore del 2º sec. dell’ e.v. Psiche era una bellissima fanciulla, che per la sua bellezza destò la gelosia di Venere; questa allora ordinò a suo figlio che eccitasse in lei amore per un basso e volgare nomo. Amore si muove per eseguir l’ ordine; ma vista la fanciulla, si innamora egli stesso di lei, e vive con lei in felice unione, in una valle paradisiaca, in un palazzo fatato, dove nulla manoa alla loro felicità; soltanto Psiche ha l’ obbligo di non vedere cogli occhi del corpo quel essere divino che ogni notte viene a visitarla. Senonchè, aizzata dalle sue sorelle che le insinuano nell’ animo il veleno della diffidenza, Psiche trasgredisce il divieto, ed ecco d’ un tratto sparisce Amore ed ella rimane colla sua desolazione. Allora cominciano per lei le più crudeli ansie; cerca invano per tutta la terra il perduto bene; invano supplica gli Dei; lo sdegno di Venere non è ancora ammansito, ella la obbliga ai più duri servigi, che la povera Psiche non sarebbe in grado di prestare se non fosse da invisibili potenze aiutata. Infine, essendo essa discesa all’ inferno per farsi dare da Persefone certa scatola voluta da colei che era la sua signora, e avendola per curiosità aperta, stava per essere soffocata dal vapore Stigio che ne emanava, quando accorse Amore in suo aiuto; allora le sue sofferenze furon finite, perchè Amore ottenne da Giove che Psiche fosse accolta in cielo tra gli immortali, dove essa vive eternamente con lui congiunta dopo essere divenuta madre della Voluttà. Questa la graziosa leggenda Apuleiana, di cui già si trovano cenni in altri scrittori e opere d’ arte anteriori, e che anche dopo continuo, in diverse guise rimaneggiata, a formare il soggetto di diverse opere.

La statuaria, seguendo le fantasie dei poeti, prese anch’ essa a rappresentar Eros in figura di un giovinetto pieno di bellezza e di grazia. Specialmente si segnalarono gli scultori Scopa e Prassitele; del primo era celebre il gruppo di Eros, Irneros e Pothos posto nel tempio di Afrodite in Megara; l’ Eros del secondo che era in Tespie di Beozia era considerato come una delle più belle statue di tutta l’ antichità. L’ imperatore Nerone la portò poi a Roma, dove perì in un incendio, sotto Tito. L’ arte posteriore prese a raffigurare il Dio d’ amore in età di fanciullo, adattandosi questa meglio alla rappresentazione delle varie gherminelle a lui attribuite. Attualmente parecchie statue o statuette d’ Eros esistono ancora, di scalpello antico. Tra le più notevoli è il torso che si trova nella Galleria delle Statue in Vaticano (fig. 45); bellissimo anche l’ Eros in atto di tender l’ arco che è nel Museo Capitolino (fig. 46). Vi sono anche parecchie rappresentazioni di Amore e Psiche; celebre fra tutte il gruppo che è in Vaticano, il quale li rappresenta in atto di abbracciarsi e baciarsi. — Nelle opere antiche Eros apparisce solitamente alato, e suoi attributi son l’ arco e le freccie; talora anche la fiaccola accesa. Tra i flori gli era sacra la rosa, perciò spesso lo si trova coronato di rose.

Imeneo, personificazione delle gioie nuziali, solo in tempi relativamente tardi fu oggetto di rappresentazione letteraria e artistica. Degli inni nuziali con invocazione di Imeneo, son notissimi i carmi 61o e 62o di Catullo col ritornello « O Hymenaee Hymen, o Hymen Hymenaee. » La statuaria lo rappresentava come un bel giovane, qualchevolta alato come Eros, ma più grande e più serio. Suo attributo cos tante la fiaccola nuziale.

Per ultimo nella fig. 47 riproduciamo un rilievo del Museo di Napoli rappresentante i due fratelli Eros e Anteros, in atto di contendere per la palma della vittoria; un’ imitazione probabilmente d’ un altro rilievo che, secondo Pausania attesta, trovavasi nel Ginnasio di Elide.

III. Divinità della nascita e della salute. §
a) Ilizia. §

1. Ilizia (Eileithyia) era presso i Greci la Dea del parto. Nell’ Iliade si parla di più Ilizie, e son dette figlie di Era, e rappresentano le doglie del parto. Più comunemente Ilizia figura come una sola, e vien messa in rapporto con Era come dea della maternità. Siccome però anche altre dee, Artemide, Afrodite, Atena, Demetra, erano venerate come dee del nascimento, così la genealogia e le leggende relative ad Ilizia presero forme assai differenti secondo i tempi e i luoghi. Oggetto di culto era llizia specialmente nelle isole di Creta e di Delo, ma aveva anche santuari ad Atene, Tegea, Argo, Sparta, Messene, ecc.

1. I Romani veneravano come dea del nascimento, già s’ è detto, Giunone Lucina; ma nei loro libri di preghiere trovavansi menzionate anche altre Deità o altri epiteti riferentisi al parto; prima una Nona, una Decima, una Partula come deità invocate nel nono o nel decimo mese di gestazione e nel momento del parto; poi una Candelifera, riterentesi all’ uso di accendere una candela nel momento della nascita; e le già nominate Carmentes che con scongiuri e formole magiche aiutavano il parto; infine anche la ninfa Egeria, e una Natio, deità quest’ ultima venerata specialmente in Ardea ( Cic. De Nat. Deorum 3, 47). Quando le idee greche penetrarono in Roma, anche la parola Ilithyia venne adottata come epiteto sia di Giunone sia di Diana. Si ricordi il passo del Carme Secolare di Orazio, ove a Diana si rivolge la preghiera:

Rite maturos aperire partus
Lenis, Ilithyia, tuere matres
Sive tu Lucina probas vocari
                     Se u Genitalis25 .

La figura di Ilizia sole va dagli artisti greci essere rappresentata come una donna tutta vestita, con una mano distesa in atto di porgere aiuto e una fiaccola nell’ altra mano, come simbolo del nascere che è un venire alla luce del mondo.

b) Asclepio-Esculapio. §

1. Asclepio era nato, dicevasi, da Apollo e da Coronide, una figlia del re tessalo Flegias, ed era il Dio delle guarigioni, il Dio della salute. In altri termini la buona salute attribuivasi alla benefica natura, ai miti raggi del sole, e Coronide aveva nome da corone, la cornacchia, uccello di lunga vita. Conformemente a questo significato naturale del mito, Asclepio si diceva nato o in questo o in quel luogo, ma sempre in mezzo alla vergine natura, fra il tepore d’ un sole primaverile e in mezzo al dolce mormorio delle acque correnti. Narravasi poi, che essendo stata Coronide, per colpe sue, condannata a morire sotto gli strali di Artemide prima che avesse dato alla luce il figlio d’ Apollo, allorquando già il cadavere suo veniva bruciato sul rogo, Apollo stesso intervenne per salvare il bambino ancor vivo e farlo uscire dal seno della madre; poi lo affidò al centauro Chirone che lo allevo sul Pelio e gli insegnò a sanar tutti i mali. Asclepio divenne così benefattore dell’ umanità; ma volle anche far più del dover suo, volle anche risuscitare un morto; allora Zeus adirato per questo sconvolgimento dell’ ordine naturale lo fulminò; e Apollo alla sua volta, per vendicare il figliuolo, uccise i Ciclopi, fabbricatori dei fulmini di Zeus, e sdegnato abbandonò per qualche tempo il Cielo. — In altri miti parlavasi della famiglia di Asclepio. Si diceva avesse in moglie Epione, ossia quella che lenisce, che mitiga, che risana; e tra i suoi figli, oltre i due celebri medici ricordati da Omero, Podalirio e Macaone, annoveravasi Igiea (Hygieia), la dea dell’ igiene, poi Iaso, Panacea, Egle (Aegle), Acheso, tutti nomi che alludono ai medicamenti e all’ arte salutare.

2. Asclepio era oggetto di culto in molti luogi della Grecia; il sito più celebre era Epidauro nell’ Argolide, dov’ era un rinomato santuario (Asclepieo); di qui il culto si diffuse non solo a Sicione, Atene e i paesi vicini, ma anche a Cirene, a Pergamo, e, come vedremo, anche a Roma. Presso i santuari di Asclepio generalmente erano istituiti degli ospedali, dove accorrevano a frotte i malati per ottenere la guarigione. Si curavano con atti chirurgici, con empiastri, con beveroni, ma più spesso con la recitazione di formole magiche e col metodo dell’ incubazione. Consistera questo nel portare il malato nel tempio, ed ivi dopo preghiere e sacrifizi farlo addormentare; allora in sogno doveva apparirgli il Dio che gli suggeriva il rimedio al suo male.

3. Presso i Romani, prima che s’ introducesse la religione di Esculapio, si veneravano come datrici di salute, prima una Strenia o Strenua, antica deità sabina, in onor di cui era stato eretto un santuario con un sacro bosco nelle vicinanze del Colosseo, poi una Salus, onorata già nei primi secoli con templi e feste, appresso divenuta una divinità importantissima della religione ufficiale come Salus publica populi Romani e come Salus Augusti o Augustorum, identificata in seguito con la greca Igiea; infine una dea Carna o Cardea, a cui si attribuiva la virtù di cacciar via le streghe, che venivan di notte a succhiare il sangue ai bambini, ed era in genere ritenuta come protettrice del benessere fisico. — Il culto di Esculapio si introdusse in Roma l’ anno 463 di R. (291 av. C.) in occasione di una fierissima pestilenza. Per suggerimento dei libri sibillini, avendo i Romani mandato una deputazione ad Epidauro per condur seco Esculapio, narravasi che il Dio in forma di serpente spontaneamente fosse venuto dietro ai legati romani e salito sulla nave che doveva portario a Roma. Ivi poi sbarcato scelse sua sede nell’ isola Tiberina in mezzo al Tevere, e subito pose termine all’ epidemia. Là sorse ben presto un tempio e tutta l’ isola divenne sacra ad Esculapio; là accorrevano i malati per ottener guarigione e venue in uso pure il metodo dell’ incubazione. La venerazione per Esculapio, aiutata dalla superstizione e dai pregiudizi, durò fino ai più tardi tempi del Paganesimo, e ancor nelle età già cristiane gli ultimi difensori della morente religione contrapponevano la figura di Esculapio a quella del Cristo, chiamandolo re, salvatore, amicissimo degli uomini, e adducendo le guarigioni miracolose da lui operate, le sue epifanie, i suoi oracoli.

4. Tra le opere letterarie ove si parla di Asclepio, è degnissima di speciale menzione la terza Pitia di Pindaro, ove a proposito di Ierone re di Siracusa ch’ era infermo, il poeta ha occasione di esporre il mito di Asclepio, e lo fa, come suole, bellamente intrecciando auree sentenze al racconto. Narrazione vivace di colorito leggesi pure nel 15o delle Metamorfosi Ovidiane, ove si racconta la venuta di Esculapio a Roma. Bella ed evidente la pittura ch’ egli fa del Dio:

Baculum tenens agreste sinistra 26

e in atto di

Caesariem lo ngae dextra deducere barbae27 .

L’ arte statuaria soleva rappresentare Esculapio come un uomo in età matura, barbuto, e con tratti nobili quali si convenivano a un generoso benefattore dell’ umanità. Attributo suo costante una serpe, come simbolo della forza vitale che si ringiovanisce; e questa serpe o si rappresentava carezzata da lui, o avvolgentesi intorno ad un bastone da lui tenuto. Tale si scorge in una statua del Museo di Napoli, che noi riproduciamo alla fig. 48. Altre volte si vedono assegnati ad Esculapio una coppa con bevande medicinali o un ciuffo d’ erbe o un pinolo, talvolta anche un cane, alla cui lingua come a quella del serpente gli antichi attribui vano virtù di guarire. Molte statue esistevano in antico di questo Dio, notevole tra l’ altre quella in oro e avorio di Epidauro, della quale si ha la riproduzione in monete del tempo; molte esistono anche ora, sparse nei Musei d’ Europa; anche gli scavi fatti, non è molto, a Epidauro e ad Atene, dove al sud dell’ Acropoli esisteva anche un celebre Asclepieo, hanno messo in luce parecchi monumenti che si riferiscono ad Asclepio e al suo culto.

Non infrequenti le rappresentazioni di Igiea, la figlia (o secondo alcuni, moglie) di Asclepio, in figura di una giovane donna, sana e robusta e nell’ atteggiamento simbolico di dar da mangiaro a un serpente.

IV. Divinità del Destino. §
a) Le Moire-Parche. §

1. Era una persuasione comune e radicata presso gli antichi, che l’ umana vita fosse soggetta al destino, che al momento della nascita di ognuno già fossero decretate le vicende della sua vita fi no al momento del morire. E questo dicevasi talvolta effetto della volontà di Zeus o in genere degli Dei, tal altra si concepiva il destino come qualcosa di superiore alla stessa volontà divina, potenza a cui Zeus stesso non valeva a sottrarsi. Di qui il concetto delle Moire, rappresentanti appimto il destino assegnato a ciascuno. In Omero si menziona solo una Moira, ma già Esiodo espone nella Teogonia la leggenda più comune, secondo la quale le Moire erano tre, figlie della Notte, e si chiamavano Cloto (Clotho), Lachesi (Lachesis) e Atropo (Atropos), cioè la filatrice, la sorte, e l’ inflessibile; la prima occupata a filar lo stame della vita di ognuno, la seconda rappresentante ciò che v’ è di casuale in essa vita, la terza significante l’ inevitabile necessità del morire quand’ è sonata l’ ora. Le Moire, come figlie delle tenebre, erano sorelle delle Erinni, le dee della vendetta che perseguitano il colpevole fino alla morte. Come esecutrici della volontà divina, erano messe in rapporto con Zeus reggitore dell’ ordine supremo, o con Apollo il suo profeta; quindi l’ uno e l’ altro eran detti Moirageti, capi delle Moire.

2. Presso i Romani il destino era espresso con Fatum, la parola divina; e di questa voce s’ usava il plurale fata (anche, in linguaggio popolare, fati o fatae) per indicare la sorte assegnata a ciascuno. Esseri poi corrispondenti alle Moire erano le Parche, propriamente dee della nascita, come le Carmentes; due di numero in origine, Nona e Decuma, dette così dagli ultimi mesi della gestazione; a cui più tardi se n’ aggiunse una terza, Morta come dea della morte; così alle tre Parche si poterono assegnare le stesse attribuzioni delle greche Moire. Si noti poi che dall’ età Augustea invalse l’ uso di usar la voce Fata a designar le parche stesse; di qui la spinta alle fantasie medievali di immaginare l’ esistenza delle fate e tessere intorno a loro tanti racconti meravigliosi.

3. Bellissima pittura delle Parche quella che si legge nell’ Epitalamio di Peleo e Tetide di Catullo (v. 307 e segg.):

His corpus tremulum complectens undique vestis
Candida purpurea talos incinxerat ora,
At roseo niveae residebant vertice vittae
Aeternumque manus carpebant rite laborem.
Laeva colum molli lana retinebat amictum,
Dextera tum leviter deducens fila supinis
Formabat digitis, tum prono in pollice torquens
Libratum tereti versabat turbine fusum,
Atque ita decerpens aequabat semper opus dens
Laneaque aridulis haerebant morsa labellis,
Quae prius in levi fuerant extantia filo:
Ante pedes autem candentis mollia lanae
Vellera vir gati custodibant calathisci28 .

L’ arti figurative non cominciarono che tardi a rappresentar le Moire; il tipo che divenne prevalente fu quello di tre donne che filano, ovvero di donne che annunziano la ventura e pero tengono in mano un rotolo di carta, talvolta in atto di scrivervi su.

b) Nemesi; Tiche-Fortuna e Agato-demone,Bonus eventus. §

1. Tra le Deità che avevano rapporto colle sorti dell’ umana vita, va ricordata Nemesi, la quale rappresentava una santa indignazione per ogni disordine morale, per ogni cosa che turbasse il normale equilibrio della società, per es. la felicita soverchia degli uni o la tracotante prepotenza d’ altri; in tal casi la dea Nemesi non ave va riposo se non quando l’ equilibrio fosse ristabilito. Omero non la conosceva ancora questa Dea; in Esiodo stesso non ne è il concetto così ben definito come nella letteratura posteriore. Solo tardi si svolse chiara l’ idea della Nemesi, specialmente come punitrice e vendicatrice di ogni umana scelleratezza. Era oggetto di culto specialmente a Ramnunte nell’ Attica, dove la si diceva figlia dell’ Oceano e madre di Elena; più Nemesi, in figura di demoni alati, si veneravano anche a Smirne.

Questa divinità fu pure accolta fra i Romani, e, come attesta Plinio, le fu anche eretta una statua in Campidoglio.

Gli scrittori greci che hanno un’ intonazione morale, spesso fanno cenno di Nemesi e delle misure da lei prese contro persone troppo felici e per ciò presuntuose; ad es. Erodoto, Pindaro, ecc.; ancora nel 2º sec. dopo C. un poeta cretese, Mesomede, compose un inno a Nemesi, e molte poesie a lei dedicate leggonsi nell’ Antologia. Fra i Latini, va ricordato Catullo che in uno de’ suoi poemetti scherzosi, volgendo la parola ad un amico, gli dice:

Nunc audax cave sis, precesque nostras,
Oramus, cave despuas, ocelle,
Ne poenas Nemesis reposcat a te.
Est vemens de a; laedere hanc caveto29 .

In arte si rappresentava Nemesi in modo affatto simile ad Afrodite vestita; ma nessuna statua fra le tante a noi giunte è stata con sicurezza riconosciuta per figura di Nemesi.

2. Tiche (Tyche), la dea della buona fortuna, secondo la leggenda più comune, era figlia dell’ Oceano e di Teti (Tethys). Come protettrice e conservatrice degli stati, era essa venerata e onorata di templi e statue in molte città della Grecia e dell’ Asia. Col tempo si mutò il concetto di lei; e divenne significativa tanto della prospera quanto dell’ avversa fortuna.

Alla Tyche Greca risponde la Fortuna dei Romani, ma solo nell’ ultimo senso sopra indicato, giacchè a rappresentare la prospera sorte essi escogitarono la dea Felicitas, che fu pure oggetto di pubblica venerazione. Fondatore del culto della Fortuna in Roma si crede sia stato Servio Tullio, quel re che era stato egli stesso tanto fortunato; egli edificò alla Dea col titolo di Fors Fortuna un tempio, e istituì una solenne festa annua che ricorreva il 24 Giugno. Questo culto si estese sempre più in seguito e la Fortuna fu onorata con più epiteti, o riferentisi alla vita pubblica, come Fortuna Publica, Fortuna populi Romani, o alla vita di qualche ordine sociale, come Fortuna muliebris, Fortuna Equestris, o a speciali famiglie, come Fortuna Tulliana, Torquatiana, Flavia, Augusta, ecc., o infine a varii casi della vita, come F. respiciens, obsequens, redux, manens, ecc. Anche fuori di Roma la Fortuna era oggetto di culto; celebritra gli altri i templi di Preneste e di Anzio. Il primo tempio alla Felicitas fu eretto da Lucullo nell’ età di Silia e venne arricchito di molte opere artistiche provenienti dal bottino di Memmio; dopo ne furono eretti altri, di cui uno persino in Campidoglio.

Tiche e la Fortuna non di rado sono menzionate nelle opere letterarie; basti ricordare l’ inno a Tiche composto da Pindaro, di cui però si conservano ora pochi frammenti, e la bellissima ode 35a del libro primo di Orazio alla Fortuna d’ Anzio, dove la loda come pronta a esaltare gli umili e deprimere i superbi, la dice invocata si dagli agricoltori, che dai naviganti, temuta dai popoli come dal re, e così ne descrive il corteo:

Te semper anteit saeva Necessitas
Clavos trabales et cuneos manu
      Gestans aë na , nec severus
            Uncus abest liquidumque plumbum,
Te Spes et albo rara Fides colit
Velata panno nec comitem abnegat
      Utcumque mutata potentes
             Veste domos inimica linquis30 .

Nella statuaria è frequente la rappresentazione della Fortuna. Varii attributi le si assegnavano; il più importante era un timone che la contraddistingueva come governatrice delle umane sorti; poi la si figurava con una cornucopia, ovvero con un giovane Pluto, dio della ricchezza, in braccio. La fig. 49 riproduce una statua bellissima che è nel Braccio nuovo del Vaticano. La fig. 50 è pure ricavata da una statua del Vaticano; è copia di un antico lavoro di Eutichide di Sicione che trovavasi ad Antiochia; come protettrice di città la dea porta in testa una corona murale; nella mano destra tiene un mazzo di spiglie e sotto a’ suoi piedi comparisce la figura del fiume Oronte. Solo in tempi posteriori, a indicare l’ incertezza della Fortuna, invalse l’ uso di rappresentarla su una palla o su una ruota.

3. Il destino riservato a ciascun uomo, a ciascuna famiglia, a ciascuna città è così importante ed ha un fondo così oscuro e impenetrabile, che gli antichi sentirono il bisogno di affidarlo ad altri esseri ancora, oltre i nominati; e immaginarono che ciascun individuo sia assistito, guidato nelle varie congiunture della vita da un Dio speciale; questi Dei speciali i Greci li chiamavan Demoni, gli Italici Genii; e così popolaron di Dei le case, le città, le campagne) da loro si aspettavano prosperità di eventi, e ricchezza di prodotti, a loro s’ offrivano, nel di natalizio di ognuno, vino, focacce, profumi, corone. Specialmente era venerato il demone del raccolto annuale, detto Agatodemone, in latino bonus eventus, onorato sopratutto nel tempo della svinatura, ma invocato anche in altre congiunture, onde le formole d’ augurio: quod bene eveniat…; quod bonum faustumque sit… ecc. L’ arte diè rappresentazione sensibile a questi esseri o ricorrendo semplicemente al simbolo del serpente che indicava fortuna, o raffigurandoli in forma di giovani colla cornucopia e la tazza in una mano, un papavero e delle spiche nell’ altra.

Capitolo terzo.
Gli Dei del mare e delle acque. §

Nel concetto degli antichi tutte le acque della terra, salse e dolci, costituivano un solo regno della natura; un regno, a vero dire, molto importante, per la considerazione dei grandi e molteplici effetti che le acque producono, feracità di terreni irrigati, meraviglie dell’ immenso mare o in tempesta o in bonaccia, facile comunicazione di luoghi lontani per via della navigazione, e, effetto spaventoso dagli antichi attribuito al mare, i terremoti. Quindi niuna meraviglia che il regno acqueo abbia dato occasione a immaginare innumerevoli esseri e racconti, specialmente in Grecia, paese così riceo di acque correnti e da tutte parti a contatto col mare.

I. L’ Oceano e la sua stirpe. §

1. Nella teogonia greca, il più antico Dio dell’ acque era l’ Oceano. Egli con Teti (Tethys) formava la coppia più antica di Titani, come già si disse (pag. 11), e raccontavasi che non avendo preso parte alla grande lotta contro la dominazione di Zeus, non ebbe la sorte degli altri Titani, ma potè rimanere in pace e in piena indipendenza al governo del suo umido regno. La sua abitazione collocavasi all’ estremo Occidente, là dove si credeva che fosse l’ origine delle cose. L’ Oceano era detto padre di tutti i fiumi e di tutte le sorgenti della terra; in altri termini, si credeva che i fiumi avessero tutti origine dal gran mare da cui gli antichi immaginavano circondata la terra, e che scorrendo prima sotterra, a un tratto comparissero alla superficie là dove era la loro sorgente.

I fiumi poi, benefici portatori di lecondità alle terre, erano fra i Greci, oggetto di un vero culto. Avevano i loro templi i loro sacerdoti, i loro sacrifici; il loro corso era sacro, nè era lecito mai passarii senza una preghiera, nè costruirvi ponti o altre opere manuali senza cerimonie d’ espiazione. Naturalmente ogni fiume aveva il suo culto locale; ma alcuni ebbero celebrità maggiore e un culto esteso a molte località; primo di tutti l’ Acheloo, il più grande dei fiumi greci, detto perciò il re dei fiumi, venerato così a Atene e in Acaia ed Acarnania, come nell’ isola di Rodi e in Sicilia. Celebri pure l’ Asopo, nominato a Sicione, Egina, Tebe come capostipite d’ una diffusissima stirpe; l’ Alfeo, il fiume principale del Peloponneso; e fuori della Grecia il Nilo, il Fasi, l’ Istro, l’ Eridano. Anche le sorgenti erano venerate, or come irrigatrici, or come risanatrici dell’ aria, or semplicemente come chiare, fresche e dolci acque che dànno allegria ai boschi, ai monti, alle valli. L’ immaginazione le popolava di ninfe. Basti ricordare fra esse la sorgente Amaltea che die’ il nome al corno dell’ abbondanza, e la sorgente Aretusa, che la favola diceva amata da Alfeo e seguita da lui sotto al Mar Ionio fino in Sicilia.

Gli Dei fluviali si credeva abitassero nelle profondità del fiume stesso, ovvero in grotte vicino alle sorgenti; e secondo la grossezza del fiume, venivano immaginati come giovani ovvero come uomini maturi come vecchi. Tutti, conforme alla natura dell’ elemento loro, avevano il dono di mutarsi in più guise, e per solito avevano anche la virtù della divinazione.

2. Anche per i Romani erano oggetto di venerazione le fonti e i fiumi. Origine di tutte le fonti credevasi Fontus o Fons, figlio di Giano, in onor del quale si celebra va una festa il 13 ottobre, detta Fontanalia. Tra tutti i fiumi era naturalmente veneratissimo il Tevere, detto Divus o Pater Tiberinus, al quale i pontefici e gli auguri rivolgevano annue preghiere per la salvezza della città. È nota la leggenda secondo la quale Rea Silvia, madre di Romolo, getta.ta nel fiume per ordine dello zio Numitore, fu dal Dio accolta benignamente e fatta sua sposa. Nè solo i fiumi, ma anche l’ acque correnti di minor mole divenivan sacre ai Romani, la cui immaginazione le popolava di graziose ninfe; celebre fra tutte la ninfa Egeria, quella che è ricordata nella tradizione come amante segreta e ispiratrice del re Numa.

3. L’ arte antica aveva immaginato i fiumi ora in figura di animali, serpenti, tori, cinghiali, ora in figura di uomini, ora in figura parte animalesca, parte umana. Specialmente è freguente la forma di toro, onde gli epiteti dati ai fiumi di tauromorfi dai Greci e tauriformes dai Latini (così Orazio dell’ Ofanto, Od. 4, 14: sic tauriformis volvitur Aufidus, ecc.). Anche quando hanno figura d’ uomo, gli si apponevano due corna sulla fronte, ad es., Ovidio così dipinge Aci trasformato in fiume (Met. 13, 894): incinctus iuvenis flexis nova cornua cannis31. A queste stesse immagini s’ ispirò la statuaria che soleva rappresentare i fiumi in figura di uomini, colla barba fluente e due piccole corna in fronte; per lo più appoggiati a un’ urna da cui esce abbondevole corso d’ acqua, e forniti di cornucopie a indicare l’ abbondanza che è frutto dell’ irrigazione fluviale. Fra tante antiche statue a noi giunte, citiamo il bellissimo Nilo che è nel Braccio Nuovo del Vaticano (fig. 51). Folleggiano ai piedi e sul corpo maestoso del Dio sedici genii, rappresentanti le sedici braccia che l’ acqua cresce ogni anno al momento della benefica inondazione. In Vaticano pure si ammira una bella statua del Tigri, la cui testa fu ristaurata da Michelangelo.

II. Ponto e la sua stirpe. §

Vedemmo nella Teogonia che il Ponto, ossia il mare, era stato in origine prodotto spontaneo di Gea, la Terra; e che di poi unitosi colla stessa Gea, si credeva avesse generato Nereo, Taumante, Forchi e Cheto; altrettanti aspetti diversi del mare, dei quali diremo partitamente.

a) Nereo e le Nereidi. §

1. Nereo rappresentava il lato bello, piacevole e benefico del mare; gli antichi se lo figuravano come un buon vecchio, pieno di senno e di esperienza, che colle sue figliuole abitava nel fondo del mare in una scintillante spelonca. Come tutti gli Dei delle acque, aveva Nereo il dono di predire l’ avvenire. Non sempre, a dir vero, offriva volontieri l’ opera sua a chi ne lo richiedeva; quando Eracle nel suo viaggio ai giardini delle Esperidi andò a visitarlo per domandargli il modo migliore di venire in possesso degli aurei pomi, egli si schermiva e cerco sottrarsi tramutandosi in mille guise, ma infine, poichè Eracle tenevalo stretto, dovette cedere e dargli la desiderata risposta. Invece con Paride si mostrò subito compiacente, vaticinandogli spontaneamente quel che doveva avvenire.

Le Nereidi, o figlie di Nereo, e dell’ Oceanina Doride erano, secondo i più antichi, cinquanta di numero, secondo leggende posteriori, cento. Eran esse le belle e graziose ninfe del mare, amiche dei naviganti, a sollazzo dei quali folleggiavano rumorosamente sull’ onde od anche li aiutavano nei pericoli. Tra esse meritano essere ricordate Anfitrite, che andò sposa a Posidone, e Tetide (Thetis), direttrice del coro delle Nereidi, così avvenente che Zeus stesso l’ amava, ma essa preferi darsi in isposa a Peleo, figlio di Eaco, perche un oracolo aveva predetto che il figlio nato da lei sarebbe divenuto più grande del padre. Sia ricordata anche la bianca Galatea, che divenne amante del Ciclope Polifemo, ed era la prediletta nelle leggende della Sicilia e della Magna Grecia.

2. Nereo veniva in arte rappresentato come un vecchio dai ricci canuti, per lo più munito di scettro o di tridende. Più frequenti le rappresentazioni delle Nereidi, e come le dipinge Ovidio nel secondo delle Metamorfosi:

                        … pars nare videtur
Pars in mole sedens virides siccare capillos,
Pisce vehi quaedam; facies non omnibus una,
Non diversa tamen, qualem decet esse sororum32 .

così le vediamo anche riprodotte ne’ monumenti figurati, sopratutto nelle pitture vascolari. Per lo più son poste a cavallo di delfini e tritoni e altri marini mostri, formando gruppi diversi, in diversi atteggiamenti. Un marmo, forse il più importante, che rappresenta una Nereide su un cavallo marino, trovasi nella Galleria degli Uffizi a Firenze.

b) Taumante. §

Il secondo figlio del Ponto è Taumante, che rappresenta gli aspetti meravigliosi del mare, e specialmente quei meravigliosi fenomeni celesti, a cui si attribuiva origine marina. Secondo Esiodo, Taumante coiroceanina Elettra genero Iride, cioè l’ arcobaleno, divenuta messaggiera degli Dei, e le Arpie (Harpyiae), le dee della bufera rapace e impetuosa. Queste ultime erano credute esseri alati col viso di donna e il corpo pennuto di uccello con lunghi artigli. Specialmente si parla di loro nella leggenda degli Argonauti, dove figurano persecutrici di Fineo, il cieco indo vino Trace, a cui insozzano e rubano il cibo. In altre leggende appariscono come genii della rapida morte che afferra la sua preda coll’ impeto della tempesta. In Esiodo se ne nominano due, Aello e Ocipete (Ocypete), più comunemente se ne noverano tre o anche più.

Il virgiliano:

Virginei volucrum vultus, foedissima ventris
Proluvies uncaeque manus et pallida semper
Ora fame, 33

a cui fa riscontro il dantesco:

Ali hanno late e colli e visi umani
Pie ’ con artigli e pennuto il gran ventre, 34

costituiscono la più viva pittura poetica di questi esseri mostruosi. Una rappresentazione monumentale delle Arpie si trova nel Museo Britannico, tolta da un sepolcro trovato a Xanto nell’ Asia Minore. Ivi le Arpie hanno la solita figura, ma sono in atto di portar via le anime dei trapassati.

c) Forchi e Cheto. §

A differerenza degli altri figli di Nereo, questa coppia rappresenta quella segreta terribile forza, per cui il mare si popola di mostri, e atterrisce l’ animo di chi su di esso si avventura. Forchi (Phorkys) era il signore e capo di tutti i mostri marini, che eran detti il suo esercito, e la sua sposa Cheto (Ketos) rappresentava il mare come patria di questi mostri. Da essi gli antichi Mitologi dissero nati parecchi mostri, specialmente le Gorgoni, le Graie e il serpente Ladone custode dei pomi delle Esperidi. Forchi si diceva anche padre di Toosa, la ninfa rappresentante l’ impetuoso flutto marino, che per via di Posidone divenne madre dei Ciclope Polifemo.

III. Posidone-Nettuno. §

1. La personalità più spiccata nel regno delle acque, il vero Dio e re del mare, era Posidone. Giù s’ è visto nella Teogonia ch’ egli era figlio di Crono e di Rea e però fratello di Zeus, e che allorquando dopo il trionfo di Zeus, i Cronidi si divisero la signoria dell’ universo, toccò a lui il regno del mare. E nel profondo del mare si pensava che abitasse in uno splendido palazzo; e di là movesse su un cocchio tirato da terapestosi cavalli, dall’ unghie di bronzo, per scorrere sopra i flutti. Irapetuoso è egli e potente come l’ elemento che ei governa; allorch’ egli col suo tridente, l’ insegna della regale dignità, si tuffa nelle onde, levansi i flutti con impeto, e scon-quassano le navi e si riversano sul lido. Così egli provoca le tempeste e spezza le rupi e scuote la terra, e fa sorgere isole nuove dalla profondità delle acque. Ma basta anche uno sguardo o un cenno di lui per rabbonire il mare minaccioso e ridonar la calma.

Molte leggende si riferiscono a Posidone, originate dalla natura del mare, e dai rapporti di questo coll’ uomo. Prima di tutto egli era fatto padre di parecchi giganti e mostri, per es., di Polifemo, l’ accecamento del quale tirò su Ulisse l’ odio del Dio; così pure era padre del gigante Anteo, con cui Eracle ebbe a sostenere aspro combattimiento, e d’ altri ancora; tutti miti che sono un riflesso della natura tempestosa del mare. E altri mostri marini appariscono anche in altri racconti. Così quando Posidone in compagnia di Apollo ebbe fabbricate le mura di Troia, e Laomedonte li frodò della pattuita mercede, fu lui che mandò un terribile mostro che distruggeva i raccolti e uccideva uomini, finchè per ammansirlo gli si dovette dare in pasto la figlia del re, Esione, che fu poi liberata da Eracle. Un fatto analogo si ha nella leggenda di Andromeda esposta pure a un mostro marino e liberata da Perseo; leggenda di cui riparleremo. Invece la natura benefica del mare, che insinuandosi dentro terra produce facilita di commerci e ricchezza, si riflette in altri racconti. Molte città greche vantavano per fondatore un figlio di Posidone; si raccoutava avesse egli in più luoghi gareggiato con altre divinità per la signoria di alcuna terra, ad es., per l’ Attica con Atena, per l’ Argolide con Era, ecc.

2. Il potente Dio del mare, è naturale fosse in grande venerazione presso i Greci; sopratutto la gente di mare, commerciauti, navigatori, pescatori lo avevano per patrono e non intraprendevano viaggi seuza offrirgli sacrifizio, nè tornavano incolumi ai patrii lidi senza ringraziarlo. Il suo culto era sparso largamente, ma più fioriva nelle terre delle coste e nelle isole. Nell’ interno son da ricordare pel culto di Posidone la Tessaglia, che a lui attribuiva la sua liberazione dalle inondazioni del Peneo, in quanto che con un colpo del suo tridente aveva egli aperto la scogliosa valle di Tempe e dato uno sfogo alle acque del fiume; poi la Beozia, ricca d’ acque; poi varie regioni del Peloponneso, fra cui l’ Arcadia. Tra le città della costa, la più celebre pel culto di Posidone era Corinto; in onor di lui appunto vennero ivi istituiti i giochi Istmici, che divennero una festa nazionale di tutta la Grecia. Tra l’ isole ricordiamo Egina, Eubea, Teno una delle Cicladi, e Rodi.

Bestia prediletta di Posidone era il cavallo; forse l’ onde marine accavallantisi spumeggianti han fatto pensare a ciò; anzi si diceva che Posidone avesse creato lui il cavallo in occasione della sua contesa con Atena per il possesso dell’ Attica (cfr. pag. 43). Nelle leggende di Corinto narravasi che Posidone, per mezzo di Medusa, fosse padre del noto cavallo alato Pegaso. Per questo rapporto fra il Dio del mare e il cavallo, là dove erano più in pregio i cavalli, ivi il Dio era più venerato; quindi negli stadi gli si erigevano altari, ed egli era ritenuto come il protettore delle corse e dai corridori prima del cimento onorato di preghiere e sacrifizi. — Oltre il cavallo, anche il delfino era sacro a Posidone, e tra gli alberi il pino, o per il suo color verde cupo somigliante al color del mare, o più probabilmente per l’ utilità sua nella fabbricazione delle navi.

3. Nettuno (Neptunus) era il Dio romano rispondente a Posidone; ma presso una gente non essenzialmente marittima, il Dio del mare non doveva essere di grande importanza. Quando poi si identificò Nettuno con Posidone, la qualità che più venne a essere rilevata si fu quella di Dio dei cavalli e delle corse. E difatti l’ unico tempio che in Roma era eretto a Nettuno, trovavasi presso il Circo Flaminio; mentre nel Circo Massimo veneravasi l’ antico Dio latino Consus che si riteneva per un Neptunus equester. Ai tempi di Augusto, Agrippa, dopo vinta la flotta di Sesto Pompeo e quella di Antonio e Cleopatra, eresse, in memoria di queste vittorie, un altro santuario a Nettuno nel Campo Marzio.

I Romani davan per moglie a Nettuno la dea marina Salacia (da salum, mare; altri nominano come moglie Venilia, cui Virgilio fa madre di Turno re dei Rutuli.

4. La più bella rappresentazione poetica del potere di Nettuno leggesi nel primo dell’ Eneide, dove, descritta la tempesta suscitata dall’ ira di Giunone contro i Troiani, si racconta come Nettuno, accortosi di quello scompiglio del suo regno, sollevò sull’ onde la sua placida testa, e veduto di che si trattava, chiamò a sè Euro e Zefiro per rimproverarli della licenza che si eran presa e rimandarli alla loro sede; poi

        … dicto citius tumida aequora placat
C ollectasque fugat nubes solemque reduci t; 35

e come una folla tumultuante se vede comparire un grave e autorevole personaggio facilmente si queta e porge ascolto alle parole di lui, così

   … Cunctus pelagi cecidit fragor, aequora postquam
Prospiciens genitor coeloque invectus aperto
F lectit equos, curr uque volans dat lora secundo36 .

La statuaria soleva rappresentar Posidone, in figura somigliante a quella del fratello Zeus, barbato il viso, la chioma ricciuta che fluisce intorno alla faccia coprendo le orecchie, un insieme di maestà e di forza; si dava però al volto una espressione più seria, senza quell’ amico sorriso che indica la benevolenza. Solitamente poi si raffigurava Posidone in una positura speciale, facendo appoggiare una delle gambe su qualche rialzo. Attributi costanti il tridente e il delfino o qualche altro mostro marino. La più antica statua di Posidone a noi giunta è quella che era nel frontone occidentale del Partenone, dov’ era rappresentata la gara fra lui ed Atena; ma ci è giunta disgraziatamente in frantumi. Nella fig. 52 si riproduce il Posidone che è nel Museo Laterano di Roma; corrisponde al tipo che prevalse nei tempi più recenti dell’ arte antica.

IV. Anfitrite. §

Già fu ricordata come una delle Nereidi, sposa di Posidone; era dunque nel regno dell’ acque quello che Era nel regno dei cieli. Narrava la leggenda, che Posidone l’ aveva vista a danzar colle sorelle nell’ isola di Nasso, e di là aveala rapita. Altri raccontavano ch’ essa eragli sfuggita e s’ era nascosta nell’ Atlante, ossia nelle ultime profondità del remoto mare, ma ivi la scopri il delfino di Posidone e gliela ricondusse. Del resto in Omero Anfitrite è semplicemente una personificazione dei romoreggianti flutti marini, ed è dipinta nell’ Odissea come colei che spinge le onde contro gli scogli e si compiace circondarsi di delfini, cani e altri mostri marini. Solo più tardi venne messa in costante rapporto con Posidone e venerata come la sua sposa.

Ai Romani, il culto di Anfitrite rimase come estraneo; la moglie di Nettuno, già s’ è detto, chiamavasi Salacia. Quando i poeti latini usano la voce Amphitrite, la prendono in senso di « mare » ( Ovid. Met. 1, 14).

In arte, soleva Anfitrite essere rappresentata come una figura giovane e bella, o seduta in trono vicino a Posidone o su mi carro con lui, circondata e corteggiata da Tritoni e Nereidi in groppa a cavalli, tori ed altri animali marini; generalmente tra le chiome disciolte sulle spalle porta i regali attributi del diadema e dello scettro. A volte son rappresentate le nozze di Posidone e Anfitrite, come in un celebre gruppo a rilievo della Gliptoteca di Monaco, che si crede una riproduzione d’ un originale di Scopa.

V. Tritone e i Tritoni. §

1. Anche Tritone era nell’ antica Mitologia un’ immagine del flutto rumoreggiante. Era detto l’ unico robusto figliuolo di Posidone e Anfitrite, che con loro abita nel palazzo d’ oro in fondo al mare. L’ immaginazione popolare figuravaselo in forma d’ uomo nella parte superiore del corpo, e in forma di pesce dalla coda biforcuta nella parte inferiore; più tardi vi s’ aggiunse anche il petto e le zampe anteriori di cavallo, creando quei mostri a tre nature che furono detti Centauri di mare o Ittiocentauri (ichthyocentauri). A quest’ essere mostruoso attribuivasi grande potenza; specialmente quand’ egli soffiava a tutta forza dentro una conchiglia marina, s’ agitavano i flutti e sorgeva la tempesta; altre volte invece dava luogo a un suono dolce che quietava il mare agitato. — Cominciando dal quarto secolo av. C., in luogo di un unico Tritone, si pensò a tutto un genere di esseri simili al figlio di Posidone; e così a poco a poco si venne diffondendo la credenza in un coro di Tritoni, rappresentanti nel regno marino quel che i Satiri o i Centauri nel regno terrestre; classe di esseri che vive sulle onde, tra i mostri marini e le Nereidi, tra le quali si compiacciono di folleggiare, mentre dan di fiato anch’ essi alla vuota conchiglia.

2. Rappresentazioni dei Tritoni nell’ opere poetiche dell’ antichità ricorrono assai di frequente, per lo più non si menziona Posidone senza accennare un numeroso corteggio di Tritoni, Nereidi e mostri. Il Tritone mezzo uomo e mezzo pesce è descritto minutamente già in Apollonio di Rodi, e da lui trasse Virgilio il suo:

                … immanis Triton… caerula concha
Exterrens freta, cui laterum tenus hispida nanti
Frons hominem praefert; in pristini desinit alvus;
Spumea semif ero sub pectore murmurat unda37 .

Il suono della conchiglia che rabbonisce le onde agitate è ben descritto da Ovidio nel primo delle Metamorfosi, dove si racconta il diluvio di Deucalione. Il ceruleo Tritone avuto l’ ordine di soffiar nella sua tromba per ritirar l’ acque ai loro luoghi,

                             … cava bucina sumitur illi
Tortilis, in latum quae turbine crescit ab imo,
Bucina, quae medio concepit ubi aëra ponto
Litora voce replet sub utroque iacentia Phoebo.
Tum quoque ut ora dei madida rorantia barba
Contigit et cecinit iussos inflata receptus,
Omnibus audita est telluris et aequoris undis;
Et quibus est undis audita, coercuit omnes.
Flumina subsidunt collesque exire videntur;
Iam mare litus habet, plenos capit alveus amnes,
Surgit humus, crescunt loca decrescentibus undis38 .

L’ arte statuaria ricorreva spesso alle rappresentazioni di Tritoni o per motivo ornamentale delle statue di Posidone e Anfitrite, o per lavori di fontane e simili; l’ arte decorativa poi fece grand’ uso di Tritoni, e se ne vedono a centinaia in pitture vascolari o murali, in rilievi di terracotta, in vasi cesellati, ecc. Un gruppo degno d’ essere ricordato è quello che conservasi nel Museo Vaticano, rappresentante un ittiocentauro in atto di trascinar seco una Nereide riluttante.

VI. Proteo. §

Era Proteo un servo di Posidone, da lui incaricato di custodirgli il gregge delle foche e dell’ altre bestie marine. Abitava nelle profondità del mare, ma compiacevasi anche di cercar riposo sul lido; e sopratutto nell’ ore calde d’ estate narravasi che conducesse il suo gregge a meriggiare nell’ isola di Faro, ed egli stesso ivi in una caverna presso il lido si abbandonasse al dolce sonno. Come Nereo, e in genere tutte le divinità del mare, aveva il dono del vaticinio; ma non si induceva a predire la ventura se non costretto a forza; chi voleva consultarlo doveva coglierlo all’ impensata nell’ ora del sonno diurno e stringerlo in duri lacci e tenerlo serrato perchè non isfuggisse, giacchè egli tutto tentavà, assumeva mille forme, di leone, di drago, di fuoco ardente, di pianta gigantesca, di acqua scorrevole; se con tutto ciò non riusciva a slacciarsi, allora, e solo allora, manifestava la ben nota a lui volontà divina. Questo è narrato e descritto con vivaci colori da Omero nel quarto dell’ Odissea, dove Menelao parla del proprio viaggio in Egitto; e il passo fu abilmente imitato da Virgilio, nel quarto delle Georgiche, ove narrasi la favola del pastore Aristeo.

VII. Glauco Ponzio. §

Tra le divinità minori del mare, va annoverato il Dio Glauco che propriamente rappresenta il color del mare quando il cielo sereno si rispecchia nell’ acqua tranquilla. Era un Dio molto popolare tra marinai e pescatori. Speeialmente si parlava molto di lui nella regione di Antedone, città della Beozia orientale sull’ Euripo. Quivi era viva la leggenda che egli fosse da principio pescatore; e che un giorno, fatta la sua pesca, avendo posto giù i pesci semivivi sull’ erba, vedesse con sua meraviglia che al contatto di un certa erba ripigliavan vita e risaltavan nel mare; allora mangiò egli stesso di quest’ erba e ne senti subito una tale sovreccitazione che si gettò in mare, dove benignamente accolto da Oceano e Teti, e purificatosi di tutte le debolezze umane, venne assunto tra gli Dei marini. D’ allora in poi fu venerato comò protetto re dei pescatori, dei palombari, dei naufraghi e attribuitogli anche il dono della protezia. Questo culto da Antedone si diffuse a molte altre città litoraneo della Grecia e delle isole.

La leggenda di Glauco Ponzio divento argomento predilotto della poesia. Pindaro ed Eschilo, sollecitati da quel diantedone, come dice Pausania (9, 22, 7), onorarono la storia di Glauco col loro versi; nell’ età alessandrina Callimaco, Euante ed altri presero a ritrattar questo tema; fra i Romani, Cicerone giovane scrisse su ciò un poemetto e Ovidio nel 13o delle Metamorfosi, verso la fine, fa raccontare a Glauco stesso in bellissimi versi la sua storia. Glauco die’ anche argomento a componimenti burleschi, come drammi satirici, mimi, ecc.

La fig. 53 riproduce un celebre busto trovato a Pozzuoli, ora in Vaticano, che s’ è voluto riferire a Glauco; ma la identificazione è incerta; potrebbe anche essere una personificazione di qualche parte di mare, per es., del golfo di Baia.

VIII. Ino, Leucotea e Melicerte. §

1. Come Glauco, così Ino era donna mortale, ma ottenne la divinità per essersi buttata a mare affidandosi alle deità marine in un momento di pericolo. Era essa figlia di Cadmo, sorella di Semele, la madre di Dioniso, e moglie del re Atamante di Orcomeno. Alla morte disgraziata di Semele, Ino si assunse la cura di allevare il piccolo Dioniso; perciò incorse nello sdegno di Era che prese a perseguitar lei e i suoi due figli Learco e Melicerte. A dare sfogo a questo sdegno, Era inspirò una pazzia furiosa ad Atamante, il quale uccise Learco e inseguì Ino che tentava salvare l’ altro figlio, finchè tutte due si gettarono in mare da un alto scoglio, fra Megara e Corinto. Dice Dante:

Nel tempo che Giunone era crucciata
   Per Semele contra il sangue tebano,
   Come mostrò una ed altra fiata,
Atamante divenne tanto insano
   Che veggendo la moglie con due figli
   Andar carcata da ciascuna mano,
Gridò: « Tendiam le reti, si ch’ io pigli
   La lionessa e i lioncini al varco; »
   E poi distese i dispietati artigli,
Prendendo l’ un che avea nome Learco,
   E rotollo, e percosselo ad un sasso;
   E quella s’ annegò con l’ altro carco.
(Inf. XXX, princ.).

Dante fa che s’ anneghi; ma la leggenda antica narrava che le deità marine, accolta benevolmente la disperata donna e l’ innocente fanciullo, all’ una e all’ altro diedero l’ immortalità, lasciando che lei vivesse felice tra le Nereidi, e Melicerte col nome di Palemone, o protettore dei porti, fosse associato nel culto a Posidone. Così spiegavasi la venerazione per Ino Leucotea e Melicerte Palemone, diffusasi dalle regioni dell’ istmo a molte altre terre ed isole greche. Eran considerati come genii benefici del mare, pronti ad aiutare i naufraghi e chiunque aveva bisogno di loro.

2. Allorquando la mitologia greca penetro in Roma, volendosi con qualche Dio italico identificare Ino e Palemone, si scelsero Mater Matuta già da noi ricordata come dea del mattino, e Pater Portunus dio dei porti. Allora si creò la storia, che la principessa figlia di Cadmo dopo il suo salto in mare sarebbe stata accolta dalle Nereidi e condotta all’ imboccatura del Tevere, dov’ essa avrebbe ritrovato la sorella Semele, onorata in Ostia in seguito alla diffusione dei Baccanali, sotto il nome di Stimula; ivi le Menadi aizzate da Giunone avrebbero voluto strapparle il fanciullo; ma essa sarebbe fuggita a Roma dove Ercole la aiutò e Carmentis le offrì ospitalità; ond’ ella poi non si mosse più da Roma.

3. La favola d’ Ino molto piacque ai poeti per la pietà che destava il caso della madre sventurata e la felice sorte toccatale di poi, onde più volte la illustrarono; Euripide ne fe’ una tragedia, imitata dai tragici latini Livio, Ennio, Accio; Ovidio ne tessè un vivo racconto nel quarto della Metamorfosi (v. 481 e sgg.) attenendosi alla tradizione ellenica, mentre la espose modificata in senso romano nel 6o dei Fasti all’ 11 Giugno, giorno della festa detta Matralia in onore di Mater Matuta. — In arte Palemone era rappresentato come un bellissimo giovane portato in groppa da un delfino, ovvero in braccio alla madre in atto di essere presentato a Posidone che con paterna benignità l’ accoglie.

IX. Le Sirene. §

1. Son le Muse del mare, che col loro dolci canti ammaliano i naviganti, e facendo loro dimenticare e patria e moglie e figliuoli li attirano a sè e rovinano; immagine viva dei pericoli che spesso si incontrano anche in un mare tranquillo, sorridente, invitante; blanda pericla maris, terror quoque gratus in undis, come dice Claudiano39. Si dicevano figlie del fiume Acheloo e di Mnemosine o di Tersicore o di Calliope; ma in altre leggende figuran figlie di Forchi e Cheto. È nota l’ avventura di Ulisse in Omero; per non lasciarsi ammaliare dalle lusinghe delle Sirene dovè turarsi gli orecchi con cera e farsi legare al fondo della nave. Omero ne contava due sole; ma in leggende posteriori se ne nominavan tre o quattro, e si introdussero anche in altri racconti come in quello degli Argonauti e del ratto di Proserpina. Si disse che Demetra appunto aveva dato loro il corpo d’ uccelli in punizione di non aver aiutato la loro compagna di gioco nel momento che il re dell’ Inferno stava per rapirla. Anche si favoleggiò d’ una contesa fra le Sirene e le Muse, nella quale le prime sarebbero state vinte. Il luogo ove solitamente si diceva che stessero le Sirene, eran le coste occidentali della bassa Italia, o le incantevoli regioni tra Napoli e Sorrento, o vicino allo stretto di Messina.

2. La poesia si compiacque del mito delle Sirene, immagine del fascino che l’ arte esercita sull’ animo dell’ uomo; perciò non solo si trattò poeticamente la leggenda, come fecero Omero nell’ Odissea, Apollonio di Rodi nel Poema degli Argonauti, ma si fè servire il mito a onorare i più rinomati artisti della parola e del canto; così Svetonio disse d’ un celebre grammatico: Cato grammaticus, latina Siren, qui solus legit ac facit poetas40. — Quanto alla figura, le Sirene erano immaginate col visi di donzella e col corpo d’ uccello. Ovidio nel quinto delle Metamorfosi (v. 552 e sgg.) spiega la cosa ricordando che dopo il ratto di Proserpina, la ricercarono invano per tutta la terra e allora desiderarono potersi librare sull’ ali per ricercarla anche in mare, in che:

         … faciles que Deos habuistis et artus
Vidistis ve stros subitis flavescere pennis41 .

Tali solevan rappresentarle le arti figurative, con tendenza però a dar maggior rilievo alla parte femminea non lasciando d’ uccello che le ali e le estremità inferiori. È a notare che per esser fatale il canto delle Sirene, divennero esse quasi Genii della morte, onde invalse la consuetudine di riprodurne le figure sul monumenti sepolcrali.

Capitolo quarto. Le Divinità della Terra e dell’ Inferno. §

Non meno della luce e dell’ acqua, in religione naturalis tica ha importanza la terra. Non è essa colei dal cui grembo fecondo esce ogni rigoglio di vegetazione, onde l’ annua produzione di que’ frutti che allietano l’ umana famiglia e le dànno sostentamento e ricchezza? Non è essa d’ altra parte tomba aperta ad ogni essere di cui cessa la vita? E dove, se non nel seno ascoso di lei, si ripongono quelle energie che rimangono assopite nella stagione hivernale per riprender vigore in primavera? È dunque naturale che, indotti da queste riflessioni, gli antichi abbiano creata tutta una serie di divinità connesse colla terra, le une liete riferentisi alla prosperità dei prodotti e alla fecondità delle greggi, le altre tristi, dominatrici del mondo di sotterra. Il culto di queste divinità doveva risentirsi di questo doppio aspetto, ed estrinsecarsi in feste di gioia per le une, di dolore per l’ altre; e così fu. E poichè la gioia e il dolore solevano dagli antichi esprimersi in modo passionato e rumoroso, di qui il culto e le leste dette orgiastiche (da una parola greca che significa sovreccitazione dell’ animo). È poi da notarsi che il concetto di tali divinità, e specialmente delle sotterranee, inchiudendo qualcosa di segreto e di inesplicabile, suggeri agli antichi Greci quella forma di culto ch’ ebbe nome di misteri, a cui erano ammessi solo gli iniziati, e che contribui a mantenere un’ idea più elevata del divino in mezzo alle grossolanità del politeismo volgare. A tali misteri rimase estraneo sempre il culto delle genti italiche.

I. Gea — La Terra. §

1. Come si credesse sorta la terra dalle tenebre del Caos, come essa avesse da sè prodotto Urano e Ponto, e di poi con essi congiunta avesse dato a luce i Titani, i Ciclopi, gli Ecatonchiri, ed alcune deità marine, già s’ è detto nella Teogonia. Coll’ andar del tempo si disegnò meglio nella mente dei Greci la figura di Gea come madre di tutti gli esseri, non mai stanca di produrre nuovi mostri, come nutrice delle sue creature, tutta intesa a farle crescere vigorose, e quindi datrice di prosperità. Ma anche d’ altro lato fu pensata Gea come tomba universale delle cose, che ogni essere vivo inesorabilmente rievoca a sè e accoglie nel suo segreto grembo, quindi divinità ctonica, ossia del mondo di sotterra. Questi concetti essendo comuni con altre divinità, n’ è venuto che spesso Gea venne identificata con altri, ad es. con Rea, Estia, Demeter e Temis.

In alcuni luoghi della Grecia Gea ottenne uno special culto, tra gli altri in Atene dov’ era venerata specialmente come curotrofo ossia allevatrice di bambini: le leggende locali la facevano anzi madre di Erittonio, il progenitore della stirpe Attica. Anche come Dea dei morti, Gea veniva in Atene onorata di feste e cerimonie speciali.

2. Alla greca Gea corrispondeva presso gli Italici la dea Tellus. Anch’ essa era considerata come la madre degli esseri, quindi invocata come Tellus Mater insieme con Iupiter il padre celeste, ad es. nei giuramenti, la cui formola era: Tellus Muter teque Iupiter obtestor ( Macrob. 3, 9, 12). Essendo poi essa il solido corpo terrestre, condizione d’ ogni stabilita delle cose, era invocata in occasione di terremoti col titolo di Tellus stabilita. Era anche Dea dei matrimoni, a cui si rivolgevano preghiere insieme con Giunone Pronuba, e infine come Dea dei morti era invocata insieme cogli Dei inferi. Un tempio alla madre Terra fu eretto in Roma 485/268 dal console P. Sempronio, e sorgeva sulla piazza dov’ era prima la casa di Sp. Cassio. In onore di Tellus e di Cerere si celebravano solenni feste al tempo della seminagione e di primavera al germogliar delle biade. Altra festa importantissima quella detta Paganalia in Gennaio, celebrata in ogni pagus o gruppo di più villaggi, con solenni preghiere a Tellus e Ceres per la prosperità della campagna.

3. Già i più antichi poeti, Omero, Esiodo fanno cenno di di Gea o le rivolgon preghiere; uno degli inni Omerici è a lei dedicato; un altro inno dodoneo presso Pausania (10, 2, 10) in un verso diceva: « Frutti produce la terra, quindi chiamatela la madre Terra ». Varrone comincia il suo lavoro di cose agricole con un’ invocazione a Giove e a Tellus. — La statuaria antica rappresentava Gea come una mezza figura di donna che sorge dal suolo; tale si vede in un rilievo che è nel Museo Chiaramonti in Vaticano raffigurante Gea in atto di presentare suo figlio Erittonio ad Atena. Più tardi si rappresentava come una donna distesa al suolo, contorniata di bambini, una cornucopia in una mano, un vitello giacente da lato, a significare la prospera agricoltura. Una bellissima statua sedente, colla scritta Tellus, fu trovata a Roma nel 1872.

II. Rea-Cibele o la Gran Madre. §

1. Rea, come figlia di Urano e di Gea, moglie di Crono e madre dei Cronidi, specialmente di Zeus, ci è già nota dalla Teogonia. Era essa oggetto di culto segnatamente nell’ isola di Creta, dove si diceva che ella avesse fatto allevare il figlio Zeus in una caverna del monte Ida (cfr. pag. 23). Perciò era detta la madre Idea o montana, e rappresentava la natura montagnosa che ne’ suoi cupi recessi alberga e feconda tanta parte della vita universale. Un tale culto di Rea si diffuse anche in altre terre, ad es. in Arcadia, in Messenia, nell’ Elide; ma sopratutto ebbe larga diffusione in Asia Minore, dove Rea si identificò colla deità Frigia Cibele, un simbolo asiatico della fecondità della natura, venerato nella Lidia e nella Frigia col nome di « Gran Madre ». La vera patria di questa religione era la città di Pessinunte, situata nella Frigia maggiore, presso il fiume Sangario (od. Sakaria); nelle vicinanze di questa città erano sacri a Cibele il monte Dindimo, onde essa era detta Dindimene, e il villaggio Berecinto, che le die l’ epiteto di Berecinzia (Berecyntia). Qui favoleggiavasi che la Dea amasse andare attorno su un carro tirato da leoni, o pantere, e col corteo de’ suoi sacerdoti detti Coribanti (rispondenti ai Cureti di Creta), i quali forniti di timballi e concavi dischi metallici e corni e flauti, si abbandonavano ad una musica strepitosa ed orgiastica.

I miti che si riferiscono a questa Dea portano pure un carattere selvaggiamente fantastico come tutto il suo culto. Conosciutissimo il mito di Atti (Attis o Atys) l’ amante di lei. Era costui un giovane Frigio di così eccezionale bellezza che la Gran Madre lo volle per isposo. Dapprincipio egli corrispondeva all’ amore di lei, ma poi le fu infedele, e voleva spo sarsi colla figlia del re di Pessinunte. Allora lo colpi la vendetta dell’ adirata Dea. Giacchè quando era apparecchiato il banchetto nuziale e tutti i convitati erano insieme adunati, essa penetrò tra loro, li riempi tutti di timor panico e di alienazione. Atti fuggi sul monti e in un eccesso di furore si uccise. Di che afllittala Dea, ordinò in onor di lui una cerimonia funebre da celebrarsi nell’ equinozio di primavera. I Coribanti fra urli selvaggi e strepitando col tamburi e co’ dischi, movevano alla volta della montagna come per cercare Atti; finalmente si fingeva trovarlo o si trovava un’ immagine che lo rappresentava, e allora i Coribanti si abbandonavano a una gioia sfrenata e danzavano e coll’ armi si ferivano a sangue. Questo giovane Atti che muore e rinasce, come l’ Adone del culto di Afrodite, simboleggia la natura che sorge a vita florida e rigogliosa e poi tosto appassisce e muore.

La religione di Cibele ebbe una grande diffusione prima nelle provincie greche dell’ Asia, poi anche nella Grecia continentale. Nella Troade questo culto trovava un terreno favorevole nelle vicinanze del monte Ida che ricordava l’ Ida cretese. Ivi in luogo dei Coribanti, formavano il corteggio della Gran Madre i Dattili Idei, artisti lavoranti in bronzo e creduti inventori di ogni specie di arti utili, tra l’ altre del suono e del ritmo musicale. Culto ebbe anche Cibele a Magnesia, a Smirne, a Mileto, Efeso, a Cizico sul Mar Nero, poi ad Olimpia, in Laconia, in Beozia e altrove.

2. Al tempo della seconda guerra punica fu introdotto anche in Roma il culto della Gran Madre. Per consiglio dei libri sibillini fu mandata un’ ambascieria ad Attalo re di Pergamo che allora dominava pure nella Frigia; Attalo cousegnò di buon grado la nera pietra che era considerata come l’ idolo di Cibele, e che forse era una pietra meteoritica da secoli conservata nel tempio di Pessinunte. Fu portata a Roma ove giunse nell’ aprile dell’ anno 550/204 e venne accolta in mezzo a solenne processione dai Romani, che d’ allora in poi la tenuero in grande venerazione. Una gran festa detta Megalesia fu istituita a ricordare il giorno d’ arrivo della Dea; le fu subito votato un tempio, che fu dedicato nel 563/191 poco lungi da quello di Apollo Palatino, tempio che più volte fu distrutto e ricostruito, tra gli altri da Augusto. Anche in Roma i sacerdoti di Cibele, detti Cureti, o Coribanti o Galli davano annuo spettacolo della sovreccitazione orgiastica con cui onoravan la Dea tra strepiti e ululati.

3. Poetica descrizione della Dea Cibele e del suo corteggio leggesi nel secondo libro del poema di Lucrezio Sulla natura e nel quarto dei Fasti di Ovidio. L’ uno e l’ altro accennano alla Dea portata sul carro tirato dai leoni, colla fronte cinta d’ una corona murale, a indicare ch’ essa era fondatrice e conservatrice delle città, e al suo corteggio di Coribanti che

Tympana tenta tonant palmis et cymbala circum
Concava, raucisonoque minantur cornua cantu
Et Phrygio stimu lat numero cava tibia mentis42 .

Le rappresentazioni figurate sono rare; tra le più. note è quella che si riferisce all’ introduzione del culto in Roma (fig. 54). In Vaticano v’ è una statua che rappresenta Cibele in trono, e un’ altra è nella villa Pamfili presso Roma rappresentante la Dea seduta su un leone. Il tamburello è l’ attributo costante di questa Divinità.

III. Dioniso-Bacco. §

1. Uno fra i più importanti Dei terrestri fu pei Greci antichi Dioniso. Era il dio del vino e della viticoltura, ma in senso più generale rappresentava quell’ energia della natura la quale, per effetto del calore e dell’ umido, porta a maturità i frutti delle piante; era quindi una deità benefica per gli uomini, e a lei si riferivano tutti i benefici dell’ agiatezza, della coltura, dell’ ordine morale e civile. — Ma poichè la detta energia ha la sua sosta e quasi una temporanea cessazione nell’ in verno, così l’ immaginazione antica era naturalmente portata a concepire un Dioniso sofferente e perseguitato. Di qui i molti miti riferentisi a questo Dio, nei quali, a dir vero, agli elementi greci s’ intrecciarono molti altri di origine tracia o lidia o frigia.

Luogo di nascita di Dioniso era creduta la città di Tebe; e sua madre era Semele, una delle figlie di Cadmo, amata da Zeus. A costei l’ amore di Zeus fu fatale, perche indotta dalla gelosa Era a chiedere la grazia di poter vedere l’ amante in tutta la sua maestà fra tuoni e lampi, fu involta dalle flamme di Zeus, ed ivi morì. Zeus però salvò il figlio che non era ancor nato, e perchè non aveva raggiunto la maturità, se lo cuci in una coscia, e lo diede poi a luce a suo tempo; di qui dicevasi che Dioniso avesse avuto un doppio nascimento. Zeus poi consegnò il neonato ad Ermes perchè lo portasse alle ninfe di Nisa che s’ incaricavano di allevarlo; secondo altra leggenda la sua prima nutrice fu Ino, la sorella di Semele; in ogni caso è sempre un essere acqueo quello cui Dioniso vien affidato dopo il bruciamento di Semele, il che fa palese il significato naturale del mito; Semele è la terra che vien bruciata dai raggi estivi del sole, ma il frutto delle sue viscere, il calore vivificante e maturante, è salvo e mantenuto in vita dalle ninfe dell’ acqua ossia dalle nuvole irrigatrici. — Cresciuto nella solitudine dei boschi ed educato principalmente per cura di Sileno, Dioniso pianta la vite, e s’ innebria dell’ umor che da essa cola e allora compiacesi di girare di luogo in luogo, incoronato d’ edera e alloro, con un numeroso corteo di ninfe, satiri e altri genii de’ boschi, e le foreste e i campi risuonano delle grida di giubilo emesse dall’ allegra comitiva. Così Dioniso va estendendo di regione in regione la viticultura e anzi, vero colono dell’ umanità, insegna agli uomini a lavorar la terra, fonda nuove città, si fa maestro di più miti costumi e di una vita più socievole e più lieta. — Una bella leggenda, adatta a far vedere quanta efficacia si attribuisse dagli antichi all’ uso del vino, e quanta fosse la potenza di Dioniso, è quella dei pirati Tirreni. In occasione d’ un viaggio dall’ isola di Icaria a quella di Nasso, Dioniso che aveva assunto la forma d’ un bel ragazzo col capelli ricciuti e il mantello di porpora, fu preso da alcuni pirati Tirreni che ideavano portario con sè e andarlo a vendere in Italia. Ma, oh portento! a un cenno del divino fanciullo, cadono i ceppi che l’ avvincono, tralci di vite e rami d’ edera s’ avviticchiano intorno all’ albero della nave e intorno alle vele, e giù ne cola il prezioso liquore, mentre un coro di ninfe invisibili intuona un canto di festa. Compariscono davanti ai marinari attoniti leoni e pantere, ond’ essi spaventati si buttano in mare, e in quell’ istante son trasformati in delfini, salvo uno che, indovinando un essere divino nel fanciullo, s’ era opposto al mal governo che di lui avevan preso a fare i compagni. — E così anche in altri casi Dioniso diè a vedere quanto fosse terribile la sua vendetta contro quelli che non lo riconoscevano e tentavano impedire le sue feste orgiastiche. Sono celebri le leggende di Licurgo e di Penteo. Licurgo era un re della Tracia, figlio di Driante (la selva), il quale cacciò le nutrici di Dioniso dalla campagna di Nisa, dov’ egli era stato allevato, onde il Dio stesso non potè salvarsi che saltando in mare dove lo accolse Tetide; ma Licurgo fu accecato da Zeus ed ebbe accorciata la vita, come in Omero si narra, ovvero, come più tardi si favoleggiava, impazzì e colla propria accetta uccise suo figlio scambiandolo per un tralcio di vite, e fu poi sbranato sul monte Pangeo da selvaggi cavalli aizzatigli contro da Dioniso. Licurgo è il lungo inverno di Tracia, che si oppone alla propagazione della vite, ma alfine deve cedere al calore della natura e alla operosità dell’ uomo. — Penteo era re di Tebe, figlio di Echione e di Agave di Cadmo, di forme gigantesche e di indole selvaggia. Costui volle opporsi alle feste Dionisiache, che il coro delle Baccanti stava celebrando sul monte Citerone. Ma sua madre che trovavasi tra le Baccanti, invasata da sacro furore, l’ uccise avendolo scambiato per un cinghiale. — Anche le figlie di Minia, re di Orcomeno, avendo osato disprezzara Dioniso e rifiutarsi di celebrarne le feste, furon mutate in pipistrelli.

In altro ordine d’ idee, merita un cenno la leggenda di Arianna, la qual fa parte delle tradizioni locali proprie dell’ isola di Nasso. Questa figlia di Minosse cretese, era renuta via da Creta seguendo Teseo cui essa aveva aiutato a uscir dal labirinto, dopo ucciso il Minotauro; ma nell’ isola di Nasso, mentr’ era addormentata, Teseo l’ abbandonò e senza di lei salpo colle navi alla volta dell’ Attica. Chi può ridire il dolore della infelice Arianna quando, svegliatasi, si vide sola in un’ isola deserta, abbandonata da colui ch’ ella aveva tanto amato? Diè in ismanie, corse al lido per veder se ancor si scorgeva la nave di Teseo, levo al cielo le più strazianti querele, ma tutto fu inutile. Or ecco, in mezzo al suo abbattimento, sente risuonar le selve d’ un lieto frastuono, e presto vede con meraviglia accostarsi il corteo di Dioniso. Questi vedutala se n’ innamora e la fa sua sposa, ottenendole da Zeus l’ immortalità. Ella gli fu d’ allora in poi compagna fedele nelle sue peregrinazioni, e insieme venivano venerati nelle feste del culto.

Perchè di Dioniso si abbia un concetto adeguato, conviene ancora considerare il rapporto in cui veniva messo con Demetra ed Apollo. Come Dio del vino e della frutticultura in genere, Dioniso era il riscontro di Demetra, dea delle biade; veniva detto talvolta l’ umido, come si sopranomava Semele sua madre l’ umida, alludendosi all’ umor terrestre che fecondato dal calore fa crescere piante e frutti, e, per i benefici effetti dell’ agricoltura sulla civiltà degli uomini, Dioniso valeva anche come il civilizzatore, l’ ordinatore, quasi identificato con Demetra legislatrice; certo a lei molte volte congiunto nel culto. Anche con Apollo aveva stretti rapporti, perchè come il vino eccita l’ animo, desta la voglia del canto, l’ ispirazione della poesia e discaccia le preoccupazioni, così Dioniso si faceva amante del canto e delle Muse, volonteroso compagno delle Grazie e di Afrodite, medico del corpo e dell’ anima, e gli si attribuiva altresi l’ arte del divinare. Onde ci fu persino qualcuno, nei tardi tempi, che considerava Apollo e Dioniso come identici.

Un Dio così popolare e leggendario doveva tener desta l’ immaginativa anche fra le generazioni meno antiche. Dopo la spedizione di Alessandro Magno in India, essendosi il culto di Dioniso diffuso fino all’ estremo Oriente, sorse la leggenda d’ un Bacco Indiano o conquistatore dell’ Oriente. Già prima lo si era fatto peregrinare fin nella Persia, nella Media, nell’ Arabia; ora si favoleggiò ch’ egli si fosse recato fino in India, e là avesse propagato il suo culto, per poi tornar trionfante in Occidente. — Altro indirizzo presero le leggende relative a Dioniso in mano agli Orfici, che mescolando tradizioni asiatiche e greche, cercavano con esse dar veste simbolica ai loro principii filosofici. Per loro Dioniso detto Zagreus, il lacerato, era il primo Dio; era detto figlio di Zeus e di Persefona; e si narrava che essendo egli destinato al dominio supremo del mondo, i Titani aizzati da Era, lo presero fanciullo e tagliarono a pezzi e divorarono, ma Era ne portò il cuore a Zeus, e questi lo inghiotti, e più tardi diè alla luce un altro Dioniso, il Tebano, mentre intanto fulminò i Titani. Dal cenere di questi nacquero gli uomini, e di qui la lotta tra il bene e il male nell’ animo umano, provenendo il bene dall’ elemento dionisiaco che è in noi, e il male dal titanico. Queste e altrettali leggende costituivano il fondamento della teologia e dei misteri orfici.

2. Il culto di Dioniso era straordinariamente diffuso in tutte le regioni della Grecia e nelle isole e nell’ Asia Minore; celebravasi con leste rumorose ed orgiastiche, più o meno selvaggiamente secondo i luoghi e l’ indole della gente. Per lo più le feste avevau luogo ogni due anni (secondo il computo antico dette trieterica sacra, feste triennali); esi celebravano in regioni montuose e di notte al lume delle fiaccole. Uno stuolo di donne e fanciulle (giacchè gli uomini erauo esclusi), dette Menadi o Tiadi (Thyiades) o Baccanti o Lene (Lenai) o Bassaridi, agitando tirsi (thyrsus, asta con la punta ricoperta di pampani o di edera) e fiaccole, ricingendosi il corpo con serpi, tra una musica assordaute di tamburelli e di flauti facevano una processione rumorosa detta tiaso (thiasus), danzando e abbandonandosi a movimenti incomposti, quali suggeriva la sovreccitazione da cui erano invasate. Intanto cantavano inni a Dioniso, gridando Evoè, Evoè, e invocandolo con diversi epiteti, Bromio, Bacco, Iacco, Iobacco, ecc., e tra altre stravaganze laceravano fiere del bosco, cerbiatti, lupicini, capretti e ne mangiavano la carne sanguinosa. Era tutto ciò un ricordo e un simbolo dello scempio che l’ inverno fa di tutti i prodotti onde la terra si ammanta. Invece di primavera si festeggiava il ritorno di Dioniso con spargimento di flori e lieti canti.

Giova ricordare le feste Dionisiache, ossia feste in onor di Dioniso che si celebravano in Atene. Erano le seguenti: 1º Le piccole Dionisie, o le feste rurali di Dioniso; avevan luogo sul finir di Novembre o in principio del Dicembre; si faceva una processione col sacrifizio di un capro. Alla lesta congiungevansi sollazzi campagnuoli d’ ogni specie, con danze burlesche e motti spiritosi, origine della poesia drammatica. Divertimento prediletto di queste feste le Ascolie, o la danza sugli otri. 2º Le Lenee, o festa del torchio; aveva luogo in Atene nel Gennaio. Presso il Leneo, uno dei due templi di Dioniso, facevasi una solenne processione; si teneva un gran banchetto in campagna pel quale la città provvedeva la carne; si beveva del mosto; si allestivano rappresentazioni teatrali. 3º Le Antesterie; si celebravano nel mese Antesterione (Febbraio-Marzo) e duravano tre giorni; nel primo festeggiavasi la svinatura o lo spillare il nuovo vino che allora aveva finito di fermentare; nel secondo giorno, la festa del boccale, si faceva un solenne banchetto bevendo a gara il vino spillato; il terzo giorno era detto festa della pentola, perchè si esponevano pentole con legumi cotti che dovevano servire come offerta alle anime dei defunti che secondo la credenza comune quel giorno venivano sulla terra. 4º Le grandi Dionisie, o le Dionisie cittadine, erano la principal festa della primavera per gli Ateniesi e si celebrava con grande pompa. Durava più giorni e attirava una grande folla dai paesi vicini. In una grandiosa processione portavasi dal Leneo a un altro tempio, poi di nuovo al Leneo, una piccola immagine in legno del Dio, fra mezzo a lieti cori inneggianti a Dioniso liberato. Si aggiungevano banchetti, festini; e negli ultimi giorni si rappresentavano tragedie e commedie, e si distribuivano solennemente le pubbliche onorificenze a chi se n’ era reso degno.

3. Antica Deità italica rispondente; i Dioniso era Liber, o Liber pater, generalmente associato con Cerere (= Demetra) e Libera (= Persefone). Era il Dio del vino, della vendemmia e in genere di ogni produzione terrestre e animale; durante le feste di lui i devoti solevano abbandonarsi ad un’ allegria libera (donde il nome), con canti e motti pungenti e versi fescennini. Queste feste si chiamavano Liberalia, e si celebravano a mezzo Marzo per chiedere la prosperità della campagna, e nella stagione della vendemmia per lesteggiare il raccolto fatto. È però da notare che le feste italiche non avevano quel carattere romoroso ed orgiastico che il culto di Dioniso ebbe in Grecia. Solo più tardi, per l’ influenza greca s’ introdussoro in Rorna le cerimonie misteriose e immorali dei Baccanali, ma lo Stato non le riconobbe anzi cercò impedirle o almeno frenarne la licenza.

4. Dire quanta parte abbia avuto Dioniso nell’ antica letteratura, non si può in poche linee, tante sono le opere da questo Dio e dal suo culto ispirate. Già il ditirambo, la commedia, la tragedia e il dramnia satirico devono l’ origine loro ai riti bacchici; ma poi molti scrittori, dall’ autore degli inni omerici a Nonno di Panopoli, dai primi drammaturghi latini a Claudiano hanno cantato qua e là le lodi di questo Dio straordinario. Ricordiamo solo che Eschilo compose una trilogia intorno al mito di Licurgo, e trattò in un’ altra tragedia il mito di Penteo; al quale pure si riferisce la bellissima tragedia di Euripide intitolata, « le Baccanti »; ricordiamo le molte poesie liriche ove si loda il Dio del vino, specialmente le Anacreontiche; ricordiamo la festa bacchica così ben descritta da Aristofano negli Acarnesi; ricordiamo la grande opera in 48 libri, in cui il citato Nonno, autore dei bassi tempi, raccolse tutte le leggende bacchiche a lui note, col titolo: Dionisiache o Bassariche. Tra le cose latine, leggasi la 19a ode del 2o libro di Orazio, che in versi caldi e appassionati riassume le principali leggende hacchiche e ha molti punti di contatto colle Baccanti d’ Euripide; ricordisi il ben descritto incontro di Bacco e d’ Arianna nell’ epitalamio catulliano di Peleo e Tetide, dove le baccanti

.… pars tecta quatiebant cuspide thyrsos
Pars e divolso iactabant membra inveneo,
Pars sese fortis serpentibus incingebant,
Pars obscura cavis celebrabant orgia cistis…
Plangebant aliae proceris tympana palmis
Aut tereti tenuis tinnitus aere ciebant,
Multis raucisonos efflabant cornua bombos
B arbaraque horribili stridebat tibia cantu. 43

Infine ricordisi Ovidio che nel terzo delle Metamorfosi e in principio del quarto descrive la strage di Penteo e la trasformazione dei pirati Tirreni in delfini e delle Miniadi in vipistrelli.

Numerosi monumenti a noi giunti contengono rappresentazioni figurate di Dioniso. L’ arte più antica soleva presentarlo con aspetto maestoso sebben collo sguardo sfolgorante di gioia, quindi si faceva il viso barbato; veggasi la statua dei così detto Sardanapalo in Vaticano (fig. 55), un bel saggio di tal tipo. Più tardi si prese a dare alla figura di Dioniso un aspetto giovanile, quasi femmineo; è il tipo che prevalse dal tempo di Prassitele in poi. A questo appartiene il celebre Dioniso che conservasi nel Museo del Louvre a Parigi; e anche il bellissimo Torso del Vaticano (fig. 56, in cui la testa, le braccia e le gambe sono ristaurate) doveva essere della stessa categoria. La fig. 57 riproduce la testa di un Dioniso giovanile che è nel Museo Capitolino; un viso pieno d’ espressione e di bellezza; dapprima era stato preso per un’ Arianna, ma a torto. In tutte queste statue e in altre molte apparisce Dioniso con una folta chioma, tutta a riccioli pendenti sulle spalle, per lo più una corona d’ edera o di tralci di vite. Sul corpo è posta una pelle ferina a tra verso il petto; in molti casi l’ unico vestimento. In mano il tirso e una coppa. Si figurano anche delle belve in compagnia di Dioniso, per lo più leoni e pantere; oltre queste erano sacri a questo Dio il toro e il capro, simbolo della fecondità; tra le piante, oltre la vite e l’ edera, anche l’ alloro.

Tra le figure che appaiono nelle leggende bacchiche, la più frequentemente riprodotta dagli artisti era Arianna. Celebre l’ Arianna addormentata del Museo Vaticano che noi riproduciamo colla fig. 58; essa è di rara bellezza e probabilmente da ricondurre a un’ originale greco.

Anche è frequente la rappresentazione della Menade o Baccante. Scopa n’ aveva fatto un tipo che divenne celebre: la sua figura era in atto di ebbra agitazione, il capo arrovesciato all’ indietro, le chiome al vento, le vesti scomposte, le mani pronte a dilacerare un capretto. Figure analoghe si ritrovan frequenti su varii monumenti, specialmente in basso rilievo. La fig. 59 riproduce una baccante giusta un rilievo marmoreo del Museo Capitolino.

IV. Le Ninfe. §

1. Tra le divinità minori della Terra vanno annoverate le Ninfe, che noi vedemmo far parte del corteo di Bacco, ed anche di Artemide cacciatrice e di Afrodite. Erano immaginate come belle e graziose donzelle, che si dicevano abitare nè più ameni boschetti, alle fonti dei ruscelli, nell’ ombrose foreste montane, nell’ isole deserte, in genere nei luoghi più belli e dove la natura è più rigogliosa. Quivi passavano la vita deliziosamente, o attendendo a filare o a tessere, ovvero intrecciando liete danze con suoni e canti, o tuffando le loro tenere membra nelle fresche e limpide acque di solitari laglietti e torrenti. Talvolta s’ attruppavano al seguito delle maggiori divinità della natura, e o cacciavano con Artemide, o scorrevano di luogo in luogo con Dioniso o si trovavano in intimi colloqui con Apollo e con Ermes, o si ingegnavano sfuggire agli inseguimenti dei procaci Satiri. Degli uomini in genere evitavano il contatto, preferendo la loro solitudine; ma non mancarono leggende in cui narravasi qualche avventura di uomini, specialmente di eroi, colle ninfe. Spesso di bambini morti si diceva fossero stati rapiti dalle ninfe; esse si lasciavano amare dai mortali, ma ne esigevano una irreprensibile fedeltà; onde ad es. Dafni, il bel pastore siciliano, orgoglio della sua isola, amico di Artemide e Pane, sposo felice di una ninfa, poichè l’ abbandonò per essersi lasciato sedurre dalla figlia d’ un re, perde la luce degli occhi o secondo altri, perde la luce della sua vita cioè l’ amor di quella ninfa, per la quale invano ora spasimava, lamentando finchè visse, in dolci canti la sua sorte infelice. A volte si attribuiva a opera delle ninfe una alterazione o sovreccitazione a cui taluno si trovasse in preda; i così colpiti erano dai Latini chiamati linfatici (lymphatici da lympha = nympha).

Secondo il regno della natura in cui si pensava esercitassero il loro dominio, le ninfe erano distinte nolle seguenti categorie:

1º Ninfe dell’ acque. In largo senso comprenderebbero anche le Oceanine e le Nereidi; ma comunemente invece si intendeva solo le Ninfe d’ acqua dolce, e si chiamavan Naiadi. Eran loro che nutrivan le piante e quindi anche le bestie e l’ uomo; perciò erano tenute in grande venerazione. Come le Nereidi avevano il dono della divinazione ed erano amiche del canto e della poesia.

2º Le Ninfe dei monti, dette Oreadi, abitatrici dei monti, delle valli, dei burroni. Se ne distinguevano più famiglie secondo i luoghi, come le Idee in Creta, le Peliadi sul monte Pelio, le Citeronie sul Citerone, ecc. La ninfa più celebre di questa categoria era Eco, la personificazione di questo fenomeno acustico così frequente nelle valli profonde e tra catene di monti. Si narrava ch’ ella amasse alla follia il bel Narciso, figlio dei fiume Cefiso, il quale invece non voleva saperne di lei; ond’ essa, consumata dal dolore, si ridusse a non esser più altro che voce. Ma Narciso fu punito da Afrodite, perchè accostatosi per dissetarsi a una chiara fontana sull’ Elicone, s’ innamorò dell’ immagine sua riflessa nello specchio dell’ acqua, e poichè l’ oggetto del suo amore non si poteva in verun modo raggiungere, così ei morì consunto dal dolore. Il fiore a cui diè nome è rimasto come simbolo di una bellezza senza cuore.

3º Le Ninfe delle piante, dette Driadi (Dryades) o Amadriadi (viventi insiem colle piante). Queste si credeva non fossero già immortali, ma si diceva che col morir d’ ogni pianta avesse termine anche la vita della sua ninfa.

2. Le Ninfe erano oggetto di culto in molte regioni della Grecia, specialmente là dove una natura rigogliosa e tranquilla suggeriva l’ idea che ivi fosse un soggiorno prediletto alle Ninfe; di tali luoghi molti ne offriva la Grecia, in Tessaglia, in Arcadia, in Elide, in molte isole, ecc. Inoltre a loro si credevan sacre le caverne, le grotte, dove si sentiva scorrer l’ acqua, dove lo spirito della natura sembrava manifestarsi nelle forme più mirabili della sua attività. In certi punti si eressero Ninfei, o tempietti speciali dedicati al culto delle Ninfe. Col tempo se ne eressero anche nelle città, e Roma stessa ne ebbe. Alle Ninfe si offerivano in sacrifizio capretti, agnelli, miele, olio e vino.

3. Le Ninfe e le leggende ad esse relative ricorrono sovente nelle opere letterarie. Specialmente la poesia bucolica aveva frequenti occasioni di descrivere scene della natura che sempre s’ avvivavano colla presenza delle ninfe. Le leggenda di Dafni è ricordata più d’ una volta da Teocrito ne’ suoi idillii, e diè poi argomento a un celebrato romanzo attribuito a Longo. La favola di Narciso trovò un narratore pieno di grazia in Ovidio che l’ espose nel terzo delle Metamorfosi.

La statuaria antica spesso rappresentò ninfe, in figura di graziose fanciulle, per lo più leggermente vestite, e ornate di flori e corone. Frequenti sopratutto i rilievi dov’ esse son rappresentate in atto di danzare guidate da Ermes, al suono della zampogna di Pane. Le Naiadi hanno particolari attributi riferentisi all’ acqua, come rane, vasi da attinger acqua, conchiglie. — Non infrequenti sono anche le statue di Narciso; una bellissima possiede il Museo di Napoli, in bronzo, in atto di ascoltare la voce di Eco (fig. 60); un’ altra è nella Galleria degli Uffizi a Firenze, bella figura di giovane i cui lineamenti sono improntati a dolce malinconia.

V. I Satiri. §

1. Come le Ninfe rappresentavano femminilmente la vita della natara nelle sue varie forme, così i Satiri erano i rappresentanti maschili di questa medesima vita; erano quindi genii dei boschi, delle acque, dei monti, e formavano insieme colle Ninfe e colle Baccanti il corteo di Dioniso. L’ immaginazione popolare li concepiva come esseri sensuali, procaci, maliziosi; e, conforme a questa bestiale natura, attribuiva anche alla loro figura un che di bestiale, naso rincagnato, capelli arruffati, orecchie caprine, e una codetta dietro o da cavallo o da capra, con tutte le altre membra umane. Vivevano abitualmente nei boschi e sul monti, cacciando, danzando e sonando (strumenti loro erano la zampogna, il flauto, il tamburello, le nacchere), inseguendo le ninfe, chiassando e bevendo in compagnia di Dioniso. La danza dei Satiri dicevasi con vocabolo speciale: sicinnide. Verso gli uomini, il popolo riteneva i Satiri piuttosto ostili che amici; si dice va assalissero d’ improvviso gli armenti e uccidessero le bestie, perseguitassero le donne in forma di spiriti folletti, spaventassero la gente.

2. Ebbero i Satiri una ben notevole importanza nella letteratura greca, perchè l’ intervento loro nelle feste Dionisio ha dato occasione alla creazione di quel genere drammatico che fu denominato « Il dramma dei Satiri » (satyricum drama); nel quale sotto la maschera di Satiri venivano messi in parodia gli Dei ed Eroi celebrati dall’ Epopea e dalla Tragedia, rilevando i fati più comici delle loro leggende o quelli che più facilmente si potevano volgere a riso. Il Ciclope d’ Euripide è un bel saggio di queste composizioni, che il popolino in Grecia preferiva alla serietà della tragedia. E dei drammi satirici, detti anche « Satiri », se ne composero altresi nella età alessandrina, per es., da Timone di Fliunte, non più in verità per rappresentarli ma semplicemente per lettura. Oltre che in questi speciali componimenti, anche altrove son menzionati spesso i Satiri sia dai Greci sia dai Latini; questi ultimi li designavano per lo più coll’ epiteto « capripedi » alludendo ai piedi di capra che la immaginazione popolare attribuiva loro.

Alle arti figurative pure i Satiri offrirono frequentissimamente argomento di rappresentazione. Qualunque scena di paesaggio, di vendemmia, qualunque scena bacchica importava un certo numero di Satiri ne’ più svariati atteggiamenti. Un antico erano rappresentati barbuti e vecchi, anche deformi, ma a poco a poco, specie per opera della giovane scuola attica, prevalse un tipo di Satiri più giovani e più belli. Ora si raffiguravano come occupati in esercizi musicali; tale ad esempio, il Satiro del Museo Capitolino (fig. 61) che è appoggiato ad un tronco e tiene nella mano destra un flauto; si crede che sia copia di un capolavoro di Prassitele. Altre volte si rappresentano come guardiani del piccolo Dioniso, ora danzano colle Menadi in bacchici atteggiamenti, ora raccolgon l’ uva, la torchiano, bevon vino e s’ abbandonano a una festosa ebbrezza. Molte statue di Satiri trovansi nei varii Musei d’ Europa, ricordiamo i così detto « Fauno Barberini » della Gliptoteca di Monaco, un Satiro ebbro vinto dal sonno, forse originale greco; ricordiamo il Fauno danzante della Villa Borghese a Roma, ricordiamo un Satiro in bronzo del Museo di Napoli pieno di vita, ecc. La fig. 62 riproduce un’ altra statua del Museo Capitolino che è in rosso antico. Anche le pitture murali di Pompei hanno frequenti rappresentazioni di Satiri.

VI. Sileno, e i Sileni. §

1. Era Sileno, secondo la comune leggenda, un vecchio Satiro che ebbe in cura Dioniso bambino e lo allevò e divenne poi fedele compagno de’ suoi viaggi. Più tardi lo si immaginò come un vecchio dal naso rincagnato, la testa calva, irsuto il petto e le membra, grasso e tondo come un otre di vino; e si diceva che incapace di reggersi in piedi, seguisse Dioniso a caval d’ un asino e sorretto da giovani Satiri. Gli orfici poi si formarono un altro concetto di Sileno, pensandolo come un saggio vecchio, che sdegna i beni terrestri e non trova soddisfazione che nella propria saggezza; uomo dotato anche della virtù di prevedere il futuro.

Ma l’ antica mitologia non parla solo di un Sileno, bensì di una moltitudine di Sileni. Probabilmente si son qui fuse diverse leggende di diversi luoghi. Mentre i Satiri eran genii dei boschi e dei monti, i Sileni, di cui parlano per lo più le leggende asiatiche, erano genii dell’ acqua che corre e irriga e feconda; difatti si pensavano con orecchie e code di cavallo, e il cavallo è spesso messo in rapporto colle deità acquee. Ai Sileni poi s’ attribuivano, oltre la scurrilità e procacità dei Satiri, l’ arte della divinazione e alcune invenzioni musicali. Ma nonostante queste differenze, in processo di tempo Satiri e Sileni si confusero.

Tra i Sileni meritano special menzione Marsia e Mida. Marsia, insiem con Iagnide suo padre e Olimpo suo alunno, era detto inventore del suon dei flauti, genere di musica che la religione di Cibele mise in onore. In Attica narravasi che egli avesse soltanto trovato in terra e fatto suo il flauto che Atena, la vera inventrice, aveva gettato via perchè le sformava il viso. Si narrava poi che Marsia avendo osato venire a gara con Apollo il citarista, a condizione che il vincitore potesse fare dell’ altro tutto quel che gli talentasse, fu vinto; e allora Apollo lo legò a un albero e lo scorticò. — Mida era il fondatore mitico del regno della Frigia; era detto figlio di Cibele, la quale avevalo immensamente arricchito. Ma avvenne a lui quel che suoi avvenire tra gli uomini; quanto più era ricco, tanto più era avido di nuove ricchezze, e questa passione lo portò a commettere una grande sciocchezza. Un giorno il vecchio Sileno, ebbro e stordito, erasi sviato dal cammino che il corteo di Bacco percorreva in Frigia ed era capitato in un giardino del re Mida; questi lo accolse benignamente, e dopo dieci giorni di banchetti e feste lo accompagnò nei campi di Lidia e lo restituì al giovinetto Bacco. Di che lieto il Dio, volle compensar Mida promettendo di soddisfare qualunque desiderio egli fosse per esprimere. Mida, spinto dalla sua avarizia, chiese si convertisse in oro ciò che egli toccasse col suo corpo. Fu soddisfatto; ma il piacere divenne per lui ben presto un intollerabile tormento; giacchè in oro mutavasi perfino il pane che ei vole va mangiare e l’ acqua che voleva bere. Pregò Dioniso gli ritogliesse il triste dono, e Dioniso consentì invitandolo a bagnarsi nel fiume Pattolo, le cui sabbie d’ allora in poi divennero aurifere. — Un’ altra leggenda relativa a Mida era quella che lo faceva arbitro in una contesa musicale tra Pane ed Apollo; si narra va che avendo egli sentenziato in favor di Pane, Apollo si vendicò facendo che le orecchie di lui divenissero asinine. Pieno di onta Mida voleva occultarle, ma un servo se n’ accorse; questi non osando propalare tale deformità e pur non potendo tenerla nascosta, scavo in terra una fossa e mormorò dentro di quella quali orecchie avesse visto al suo padrone; poi rigetto la terra nel fosso. Sorto da quel punto un boschetto di tremule canne, queste agitate da leggieri venticelli, ripetevano le parole mormorate dal servo svelando le orecchie asinine del re Mida.

2. Sileno, maestro di sapienza e indovino, è il tema della sesta ecloga di Virgilio. La pittura che il poeta fa di lui ebbro e immerso nel sonno, è vivissima; poi lo descrive mentre canta, e i Fauni e le fiere stesse s’ affollano a udirlo e danzano intorno ritmicamente; e riferisce il suo canto che ha ad argomento l’ origine delle cose e degli animali e il diluvio di Deucalione e il furto di Prometeo e più altre leggende della Mitologia. — I racconti di Marsia e Mida hanno avuto la loro più bella forma poetica da Ovidio, il quale discorre del primo nel sesto delle Metamorfosi, descrivendone il supplizio con tal forza ed evidenza da destar raccapriccio; e parla dell’ ultimo nell’ undecimo raccontandone la istoria con l’ usata vivacità di colori.

Nell’ arte statuaria devonsi distinguere due tipi diversissimi di Sileno, il Sileno educatore e il Sileno ebbro. Del Sileno educatore un bel saggio si ha nella statua del Louvre qui riprodotta alla fig. 63. L’ altro tipo è più frequente e allora il Sileno, come altre figure del corteo bacchico, porta il tirso e una corona d’ edera e pampini.

La fig. 64 ci dà un saggio della rappresentazione di Marsia. È una celebre statua del Museo Lateranense, creduta imitazione di un’ opera di Mirone contemporaneo di Fidia. Marsia è raffigurato in atto di guardare con meraviglia e curiosità insieme il flauto gettato via da Minerva. Anche il Marsia appeso all’ albero e scorticato da Apollo offrì argomento a lavoro di scultura del 2º secolo av. C.; un torso trovasi a Berlino, il quale forse è parte di un gruppo a cui apparteneva anche i così detto « arrotino » della Galleria degli Uffizi a Firenze.

VII. Genii dei boschi. §

a) Pane. §

1. Antichissima deità greca dei boschi e dei pascoli era Pane, in origine venerato solamente dagli abitanti della montuosa regione dell’ Arcadia e da altre popolazioni dedite alla pastorizia, ma che più tardi fu riconosciuto da tutta la nazione ellenica e ottenne un culto diffusissimo. Lo si diceva comunemente figlio di Ermes e della ninfa Penelope, figlia di Driope; narra vasi che è fosse nato co’ piedi di capra, con due corna sulla fronte e una lunga barba e col corpo tutto peloso. La madre rimase spaventata quando lo vide, ma il padre presolo e avvoltolo in pelli di lepre lo portò all’ Olimpo per farlo vedere agli altri Dei. Questi ne presero un grau piacere, specialmente Bacco. Dal qual fatto, di essersi tutti gli Dei rallegrati di Pane, derivavano gli antichi il suo nome (pan=tutto); laddove in verità esso proveniva da una radice significante pascolo, pascolare. Allevato e cresciuto in Arcadia, tra que’ monti che alzano al cielo la loro cima coperta di neve, tra quelle profonde valli solcate da deliziosi ruscelli, tra quei folti cespugli, tra quelle verdi praterie, là Pane compiacevasi di passar la sua vita. Di giorno aggiravasi colle ninfe, cacciando, scorrendo or lungo i borri, or sulle cime de’ monti; alla sera ritiravasi nelle sue caverne e si poneva a sonar la zampogna, e le Oreadi cantavano danzando le lodi degli Dei, e l’ eco rispondeva di valle in valle, e gli uomini rimanevano attoniti all’ udire queste divine armonie. E danzava egli stesso, Paue, alla maniera de’ pastori, pieno l’ animo di lieta allegrezza. L’ invenzione della zampogna, attribuita a Pane, diè anche occasione a una graziosa leggenda. Si favoleggiò ch’ egli fosse innamorato di una ninfa, chiamata Siringa; ma questa era restia e lo sfuggiva, preferendo la vita libera de’ monti al modo di Artemide. Un di ch’ ella era per essere presa da lui che rincorrevala, pregò Gea l’ aiutasse; questa la mutò in canna: onde Pane in luogo della ninfa strinse canne palustri; ma il lamento armonioso che usciva da esse suggeri al Dio l’ idea di unire più canne digradanti e formarne così uno strumeuto musicale, strumento che dal nome dell’ amata chiamò siringa (voce greca che val « zampogna »).

Ma se la silvestre natura risuona di lieti canti e rallegra l’ animo di chi vive in essa, ha anche i suoi solenni silenzi e nella vasta solitudine avvien che produca un vago sentimento di paura. Di qui altre favole relative a Pane. Dicevasi che a mezzo il giorno, quando il sole dardeggia, e tutto intorno tace, Pane allora amasse la solitudine e il riposo; in quell’ ora nessun pastore osava sonare perche guai a chi avesse disturbato il sonno di lui! D’ altra parte quel vago senso di paura onde suol esser preso il viatore solitario nelle regioni deserte e tra i folti boschi, attribuivasi pure a Pane; e però ogni improvviso terrore, di cui il motivo s’ ignorasse, chiamavasi timor panico, raccontando che Pane si divertiva a spaventare i viaggiatori con ogni maniera di voci strane e rumori inaspettati. Di qui si formò più tardi la leggenda, che Pane avesse molto aiutato Zeus nella lotta contro i Titani, giacchè appena egli aveva cominciato a sonare una tromba di conchiglia da lui trovata, i Titani erano stati invasi da un così grande terrore da non osar più continuare la pugna.

Come tutti i genii dei boschi, anche Pane aveva il dono della divinazione; in Arcadia vi era anche un oracolo di Pane, e la ninfa Erato, la sposa di Arcade, era detta la sua profetessa. Secondo alcuni, Apollo stesso avrebbe imparato la mantica da lui. In rapporto con Apollo fu pensato anche per via della musica; anzi si narrò anche d’ una gara musicale con Apollo, sedendo giudice il Tmolo, monte della Lidia; una evidente ripetizione della gara tra Marsia ed Apollo.

L’ elemento orgiastico, la tendenza al chiasso e a una selvaggia eccitazione d’ animo che è inerente alla natura di questo Dio, offrì occasione a immaginare altri atteggiamenti e altre leggende di lui. Già da tempi abbastanza antichi fu pensato in rapporto con la gran Madre e se ne fece un compagno di lei. Così pure fu messo in relazione con Bacco e fatto partecipare alle peregrinazioni bacchiche; si diceva che nella spedizione contro gli Indiani molto aveva giovato diffondendo il timor panico; anche come amante delle Ninfe e delle Menadi, come celiatore e bulfone gareggiava col Satiri e facilmente potè essere con loro scambiato. Anzi l’ immaginazione fu tratta a creare tutta una famiglia di Pani o Panischi, genii dei boschi, dalla figura mezzo umana mezzo caprina, i quali dicevasi molestassero gli uomini con chiassi strani, incubi, cattivi sogni; del resto vivevano in comunella col Satiri, su pei monti e nelle foreste.

Per altra via s’ avviò il concetto di Pane per influenza delle idee filosofiche; giacchè indotti dal significato della voce Pan, che val « tutto », gli Orfici ne fecero un Dio tutto, creatore e signore dell’ universo.

2. Il Dio Pane era venerato specialmente dai pastori, dai cacciatori, dai pescatori che lo avevano per loro protettore. Le cime delle montagne, le caverne erano specialmente a lui sacre; sopratutto in Arcadia dove le alture del Menalo, di Tegea, del Liceo, di Cillene erano sedi di culto. Il santuario principale poi era ad Acachesio, città pure dell’ Arcadia. Fuori di questa regione, Pane era venerato in Beozia, in Macedonia e altrove. In Atene s’ introdusse questo culto poco dopo la guerra persiana. Raccontavasi che quando l’ oste nemico avvicinavasi, gli ambasciatori mandati da Atene a Sparta per chiedere aiuto, giunti ai confini dell’ Argolide e dell’ Arcadia udirono la voce di Pane, la quale li invitava ad annunziare agli Ateniesi ch’ egli era loro bene amico sebben essi poco di lui si curassero. Difatti nelle battaglie di Maratona e di Salamina la causa prrcipita della vittoria fu il timor panico onde i nemici furono presi. D’ allora in poi una grotta nelle vicinanze di Atene fu consacrata a Pane, ed ivi venne egli onorato con annui sacrifizi e una corsa di fiaccole.

Gli animali che solitamente si offrivano a Pane erano vacche, capre e pecore; gli si porgevano anche offerte di miele, latte e mosto.

3. Un antico inno che è tra gli Omerici, il 19o, è un bel monumento in onore di Pane; descritta con colori vivaci l’ alpestre natura della regione Arcadica, il poeta ricorda le occupazioni di Pane e un lieto canto innalza al Dio sonatore e danzatore. Gli scolii alla Terza Pitia ricordano una poesia perduta di Pindaro a Pane in cui lo si invocava come signore dell’ Arcadia, custode dei sacri antri, compagno della Gran Madre, dolce cura delle Cariti. Inni a Pane si scrissero anche più tardi, seguendo il nuovo concetto delle scuole filosofiche; uno ne scrisse il poeta Arato; un altro è tra gli inni Orfici. Anche non è infrequente la menzione di Pane tra i poeti latini. A tacere d’ Ovidio che la bella leggenda della ninfa Siringa racconta nel primo delle Metamorfosi, e ricorda la gara musicale tra Pane e Apollo nell’ undecimo a proposito del re Mida, e anche altrove menziona il culto di Pane, come nel secondo dei Fasti (vv. 271 e sgg.), nessuno può dimenticare la vivissima pittura di Pane sonante che leggesi nel quarto libro del poema di Lucrezio, ov’ è detto che egli:

Pinea semiferi capitis velamina quassans
Unco saepe labro calamos percurrit hiantis
Fistula silvest rem ne cesset fundere musam. 44

Anche Silio Italico nel 13o delle Puniche ha una rappresentazione veramente scultoria di Pane, facendolo vedere cinto le chiome e le tempia di una corona di pino, con le due corna rosse che scappan fuori della fronte, le orecchie dritte, il mento pieno di ispida barba; in mano un baston da pastore e il lato sinistro del corpo velato da una pelle di daino. Non v’ è balza così ripida e impraticabile, dice, dov’ ei, librando il corpo e simile a uno che voli, non ponga il suo piè caprino. Talvolta piegandosi a mezzo, riguarda sorridendo gli scherzi dell’ irta coda e stendendo la mano sulla fronte fa ombra agli occhi e perlustra i pascoli intorno intorno.

Nell’ arti figurative è da distinguere una figura più antica di Pane ed una più recente. Nei migliori tempi dell’ arte greca Pane era rappresentato in figura puramente umana, salvo che s’ aggiungevano le corna nascenti ai due lati della fronte. Più tardi lo si figurò con corna più sviluppate, lunga barba e piedi caprini. Esempio ce n’ offre la fig. 65 che è tolta da una pittura murale trovata ad Ercolano. Gli attributi comuni di Pane erano la corona di pino o un ramo di pino in mano, il baston da pastore e la zampogna.

b) Silvano. §

È il Dio italico col quale fu identificato il greco Pane, sebbene la corrispondenza non sia completa; ed era Dio delle selve come il nome stesso dice; amico quindi degli uomini, in vantaggio dei quali fa crescere le piante e anche gli armenti; protettore dei pastori e dei cacciatori, come Pane. D’ altro lato anche i rumori delle foreste eran da lui, ed egli pure, divertivasi a incutere spavento nell’ animo del viaggiatore solitario. Ma oltre al regno delle foreste, Silvano era creduto presente anche nelle piantagioni fatte dall’ uomo, nei giardini e frutteti. E, concetto tutto italico, Silvano veniva pure venerato come Dio dei confini, quindi patrono della proprietà prediale, simile al Dio Terminus; in questo senso parla vasi di un Silvano Orientalis essendochè al confine di due poderi, ivi hanno principio (oriuntur) i poderi stessi; e veniva sopranomato Sanctus.

A Silvano erano sacri certi boschi, ad es. quello di cui parla Virgilio nell’ ottavo dell’ Eneide (v. 597) nelle vicinanze di Cere. Un tempio sull’ Aventino venne eretto da Traiano imperatore a Santo Silvano Salutare.

Silvano è menzionato spesso dai poeti, tra altri Dei della campagna, come Pane, Priapo e le ninfe. In arte lo rappresentavano come un vecchio con una corona di pino in testa e un ramo della stessa pianta nella mano sinistra, la quale talvolta sostiene anche una pelle ferina piena di frutti; nella destra un coltello da giardiniere. Spesso anche gli si dava un cane per compagno.

c) Fauno e Fauna. §

1. Affine a Silvano è Fauno, uno dei più antichi e popolari Dei d’ Italia. Più tardi fu identificato con Pane e fatto venire in Italia dall’ Arcadia; ma in verità era d’ origine schiettamente italica, come indica il nome stesso, significante « il dio propizio » (da faveo; cfr. faustus, e il vento primaverile Favonius). Era Fauno il genio benefico dei monti, della campagna, del bestiame; venerato specialrnente dai pastori i quali riconoscevano in lui il fecondatore del gregge e il difensore contro i lupi, onde i due epiteti inuus e lupercus. Si diceva, come di Pane, ch’ egli amasse il soggiorno de’ boschi, dei segreti antri, delle fresche fontane, dove attendeva a cacciare e a rincorrer le Ninfe. Anch’ egli si divertiva a spaventar la gente, e dicevasi che di notte penetrasse nelle case e tormentasse gli uomini o con cattivi sogni o con apparizioni patirose; in tal senso era detto Incubus. Aveva pure il dono di predir l’ avvenire o per via di segni diretti, come rumori nei boschi, volo d’ uccelli e simili, o indirettamente per via di sogni. Per questo rispetto aveva il soprannome di Fatuus o Fataelus (da fari, parlare). Un celebre oracolo di Fauno era in un bosco di Tivoli presso la fonte Albunea, quello al quale ricorse Latino al tempo della venuta di Enea in Italia, secondo il racconto di Virgilio nel settimo dell’ Eneide (vv. 79-95). — In processo di tempo al concetto di un unico Faunus si sostituì il concetto di una moltitudine di Fauni, com’ era avvenuto per Sileno, Pane, ecc.; e allora questi Fauni furono identificati col Satiri, salvochè si rilevò meglio il loro carattere divinatorio; e ne venne che fossero chiamati anche versi faunii o saturnii quelli nei quali si diceva che essi significassero le loro predizioni.

Al maschio Faunus corrisponde la dea Fauna, cioè la propizia, la buona, detta anche Fatua come divinatrice e Maia o Bona Dea, cioè la dea che accresce, che aumenta i prodotti della terra e la ricchezza degli uomini.

2. Fauno era oggetto di culto antichissimo in ltalia, e per lo più lo si onorava nell’ aperta campagna o in caverne o in boschi o per via di piante a lui consacrate. La principal festa in onor di lui, detta Faunalia, aveva luogo il cinque Decembre, dunque al principio dell’ inverno; si sacrificava un capro e si facevano offerte di latte e vino. La festa che aveva luogo in campagna dava occasione a lieta allegria, e anche agli schiavi si concedeva qualche libertà. Un’ altra festa importante e antica, erano i Lupercalia, che celebravansi il 15 Febbraio a Roma. Il santuario di Faunus Lupercus era in una grotta del Palatino detta appunto Lupercal, quella stessa che l’ arcade Evandro venuto nel Lazio e benignamente accolto dal re degli Aborigeni, Fauno, si diceva avesse consacrato al dio Pane. In questo santuario si cominciava la festa sacrificando dei capri; dopo di che i sacerdoti di Fauno, i Luperci, cingendosi il nudo corpo con le pelli di alcuni dei capri sacrificati e tagliate le altre in striscie, percorrevano la città palatina e il Foro, e percotevano con quelle striscie la gente che si faceva loro incontro. Era questa una cerimonia d’ espiazione che si credeva douasse prosperità e fortuna; e tra l’ altro le donne sterili solevano offrirai spontanee alle sferzate dei Luperci, perchè credevano far cessare così la sterilità. Appunto perchè giorno destinato alla purificazione del paese, quel giorno dicevasi dies februatus (da februare, purgare) e di qui anche derivò il nome del mese Februarius, Febbraio.

La Dea Bona o Fauna aveva essa pure il suo santuario e il suo culto. È da ricordare specialmente la festa che in onor di lei le donne celebravano nella notte dal 3 al 4 Dicembre nella casa del Console o del Pretore urbano. Vi si facevano preghiere e sacrifizi a favore di tutto lo Stato, e i maschi ne erano severamente esclusi.

3. Il poeta che alla figura di Fauno ha saputo dar miglior risalto è Orazio nella 18a ode del terzo libro. È un’ ode scritta nella quiete della villa Sabina e in occasione delle teste Faunali del Dicembre. Vi si rispecchia la gioia onde la natura è animata quel giorno; montre dall’ altare del Dio esce fuori abbondante il fumo del sacrifizio e in larga copia si versa il vino nel cratere, scherzano i greggi sul campo erboso, tutto è in festa il villaggio, gli agnelli fatti audaci non temono l’ avvicinarsi de’ lupi, i contadini premono in liete danze quella terra che gli altri giorni scavano con tanta fatica.

I Fauni in arte non differivano punto da Pane. Un bel Fauno in marmo rosso, dell’ età imperiale, s’ ammira anch’ oggi nel Museo Capitolino. La Dea Bona poi si rappresentava con uno scettro nella mano sinistra, a significare la sua regal signoria sulla terra e sugli esseri che vi abitano.

VIII. Priapo. §

Era il Dio della generazione, e in genere il Dio della più rigogliosa fertilità in tutta la Natura. In origine il culto di questa divinità era ristretto alle città dell’ Ellesponto e della Propontide, poi si estese nella Lidia, nelle isole dell’ Egeo e in Grecia, di là passò anche in Italia e a Roma. Priapo era detto figlio di Dioniso e di Afrodite, da lui si faceva dipendere la prosperità degli armenti, l’ abbondanza della pesca, la buona riuscita delle api; sopratutto era riguardato come protettore dei giardini e delle vigne. La bestia che si sacrificava a Priapo era un asino, e curiose storielle si raccontavano per spiegare perchè questo animale fosse a lui inviso. Gli si offrivano anche le primizie delle frutta e bevande di latte e miele.

L’ immagine di Priapo era diversa secondochè si poneva nei giardini a difesa contro gli uccelli e i ladri, ovvero era destinata ad un culto speciale. L’ immagine dei giardini era quale la descrive vivamente Orazio nell’ 8a satira del primo libro, una specie di erina in legno con una roncola in mano contro i ladri e un fascio di canne in testa che stormissero al vento, spavento agli uccelli. Riguardato come seguace di Bacco o di Venere, si raffigurava come un vecchio barbuto, con un lungo abito, berretto in testa all’ asiatica, molte frutte e grappoli in grembo. Come simbolo della eterna forza rigenerativa della terrestre natura, l’ immagine di Priapo si collocava anche sulle tombe.

IX. Divinità italiche della Campagna. §

a) Saturno e Opi. §

1. Prima di venire a tratteggiare la figura di Demetra o Cerere, la grande dea delle biade, occorre ricordare alcune divinità minori dell’ agricoltura e della pastorizia, che erano osclusivamente proprie dei Romani; e prima ricordiamo la coppia Saturno e Opi, che è tra le più antiche e popolari in Italia. Saturno era il dio della seminagione (a sationibus); ma in genere lo si considerava come il fondatore e il protettore dell’ agricoltura italica, onde anche la prosperità dei frutteti e delle vigne si faceva dipendere da lui. Allorquando le idee greche penetrarono in Roma, Saturno venne identificato con Crono e allora sorse la leggenda che privato del trono da Giove, dopo lungo peregrinare fosse venuto in Italia ed ivi si fosse nascosto in quella terra che da questo fatto avrebbe avuto il nome di Lazio (a latendo). Si aggiungeva, che accolto benignamente da Giano, avrebbe posto sua sede ai piedi del Colle Capitolino. A lui s’ attribuiva il merito d’ aver raccolto gli uomini in sedi fisse e regnato su loro per lungo tempo (l’ età d’ oro dell’ umana vita). — Intimamente legata con Saturno era Ops ed Opis, sua moglie, Dea dell’ abbondanza, identificata colla madre terra produttrice di ogni umana agiatezza (opes). E per l’ intima connessione che si poneva tra i prodotti della terra e la prosperità del genere umano, Saturno e Opi valevano anche come Dei del matrimonio e del l’ allevamento de’ figliuoli.

2. Il culto di Saturno e Opi era antichissimo. Il tempio principale di Saturno, in cui anche Opi era venerata, trovavasi sulla discesa dal Campidoglio al Foro. Fu cominciato da Tarquinio Superbo, ma non terminato che nei primi anni della repubblica. Sotto il tempio v’ era una camera dove si custodiva il tesoro dello Stato, il così detto aerarium. Di questo tempio sono in piedi ancor adesso otto colonne. Antica e celebre festa in onor di Saturno era quella dei Saturnali. Aveva luogo dal 17 al 19 Dicembre. In quei giorni una sfrenata allegria dominava in tutta Roma, ricordo dell’ aurea felicità goduta sotto Saturno; non differenza d’ ordini sociali rispettavasi; tacevano i tribunali e le scuole, e si tenevan chiuse le botteghe; la gente s’ abbandonava a ogni sorta di scherzi e si permetteva ogni licenza. Il giorno più bello della festa era il 19 Dicembre, particolarmente dedicato alla dea Opi (Opalia), nel quale gli schiavi godevano piena libertà, si vestivano degli abiti dei padroni ed erano serviti a tavola dai padroni stessi, e mangiavano e bevevano quanto piaceva loro. Gentile usanza, per via della quale almeno un giorno dell’ anno quella tanto maltrattata classe d’ uomini aveva modo di dimenticare la propria miseria! Quel giorno i ricchi Romani solevano tener tavola bandita per chiunque si presentasse nelle loro case, e andavano a gara per usare i più splendidi trattamenti ai loro ospiti. S’ aggiungevano infine a rallegrare il popolo i giochi del Circo. Insomma era tutta una festa di gioia per la città e più specialmente per le classi diseredate.

3. Nella letteratura Saturno figura più come il padre di Giove da lui cacciato dal trono celeste che non come Dio della seminagione e dell’ agricoltura. Tale ad es. presso Virgilio nell’ 8o dell’ Eneide, dove Evandro informa Enea dei primi re ed abitatori d’ Italia (v. 314 e sgg.). In arte Saturno è sempre rappresentato come un vecchio e suo costante attributo è il. coltello da giardiniere o una piccola falce.

b) Vertunno e Pomona. §

1. Altra coppia di dei italici, rilerentisi ai prodotti della terra. Vertumnus o Vertumnus da vertere (annus vertens, la stagione che cambia), era il Dio dei mutamenti di stagione, e specialmente dell’ autunno e dei frutti che in autunno maturano. Gli si attribuiva il dono di poter assumere le più diverse forme, di fanciulla, di uomo, di guerriero, di cacciatore, di giardiniere, di pescatore, ecc. Pomona pure, da pomum frutto, era la dea dei giardini e degli alberi da frutta. Armata della sua piccola falce, essa si compiace di vagar per la campagna e i frutteti, e qui potar rami di soverchio rigogliosi, là fender la corteccia per innestare; non altro brama, non d’ altro vive. La leggenda narrava che l’ agreste ninfa da molti era stata ricercata d’ amore, ma tutti aveva da sè respinto. Vertunno che n’ era innamorato piu degli altri, le comparve in mille guise, or come mietitore, or falciatore, or potatore di viti, or pescatore, sempre senza frutto; infine prese forma d’ una vecchia, entrò nel suo orto, lodo frutti maturi curati da lei, con dolci parole rimproverolla della fierezza sua, e a un tratto prendendo figura d’ un bel giovane seppe farla sua. Così Pomona dicevasi fatta sposa a Vertunno.

2. Una statua sacra a Vertunno era a Roma nel vicus Tuscus, via molto frequentata tra il Foro, il Velabro e il Circo Massimo. Perciò alcuni lo dicevano d’ origine Etrusca. Un’ altra Cappella dedicata a Vertunno era sulle pendici dell’ Aventino, ed ivi ogni anno il 13 Agosto si faceva un’ offerta di primizie a onor di lui. Tanto egli quanto Pomona avevano il proprio sacerdote o flamine.

3. Una poetica descrizione di Vertunno ci è data da Properzio nella seconda elegia del quinto libro, dove fa parlare la statua stessa del vico Tusco; e la graziosa istoria dell’ amore di Vertunno e Pomona forma argomento di un bell’ episodio nel decimoquarto delle Metamorfosi (623 e sgg.). In arte Vertunno era rappresentato come un giardiniere o frutticultore, la falciuola in mano, il grembo pieno di frutta. Così Pomona.

c) Flora. §

1. Anche questa era un’ antichissima deità italica, molto venerata già presso i Sabini. Era la dea della fioritura e dei flori, fenomeno della natura come ricco di bellezza così importante di effetti, giacchè una buona fioritura è la condizione prima di una buona annata. Ed essendo dea dei flori, Flora proteggeva anche le api e l’ agricoltura. Poi anche il florire della giovinezza e l’ età più gaia dell’ uomo, per ragion di somiglianza, era sotto il patrocinio di Flora. Infine come Flora mater era invocata anche dalle donne che speravano diventar madri. — Due templi erano a Roma dedicati a Flora, uno sul Quirinale forse di origine Sabina, un altro presso il tempio di Cerere al Circo Massimo. Aveva il suo sacerdote, flamen floralis, e solennissime feste si celebravano in onor di lei dai 28 Aprile al 1º Maggio, le così dette Floralia. Erano feste rallegrate dal sorriso dei flori; s’ incoronavano le porte delle case, si portavano corone in testa, e tra i copiosi flori i devoti della Dea raccolti nel tempio di lei presso il Circo abbandonavansi a giochi festosi, e a spassi talvolta licenziosi. Nel Circo allora si faceva caccia non già di bestie selvaggie, ma di lepri, cavriuoli e simili. Durante queste feste, a partire dalla seconda metà del 6º secolo di R., invalse anche l’ uso di rappresentare i così detti mimi, spettacoli d’ indole gaia e licenziosa.

2. Nel quinto dei Fasti d’ Ovidio si parla di Flora; ed ella stessa descrive il suo carattere e spiega come siano nate le leste celebrate in suo onore. In arte soleva costei rappresentarsi come una giovane nel fiore dell’ età, con corone di flori in testa e mazzi in inano. Una bella statua piena di vita, è la Flora del Museo Nazionale di Napoli, la quale proviene dalle terme di Caracalla in Roma (fig. 69).

d) Pale. §

1. Antica Dea (secondo alcuni, Dio) pastorale delle popolazioni italiche, con cui va connesso il nome del Palatium o monte Palatino, sede in origine di una tribù di pastori latini, i quali formarono il primo nucleo della città di Roma. A Pale innalzavano le loro preci i pastori perchè concedesse fecondità e salute ai loro armenti. La festa annua di Pale cadeva il 21 Aprile, e dicevasi Palilia o Parilia. Questo giorno si riteneva anche anniversario della fondazione di Roma. Le Palilie erano feste campestri e consistevano in una serie di atti rivolti a purificare il bestiame e chiedere la protezione della Dea. I sacrificii erano incruenti, e consistevano in focaccie di miglio, vivande e latte tepido. Usanza caratteristica, si facevan fuochi di paglia e su questi saltavano tre volte i pastori e facevan anche saltare il gregge; questo si credeva atto a purgare uomini e bestie. Gli uomini del resto chiedevan perdono delle profanazioni recate inavvertitamente alle fonti sacre, ai boschi, ai pascoli e pregavano per la salute e la prosperità delle loro greggi.

2. La Dea Pale è menzionata qua e là dai poeti latini cogli epiteti « grande, veneranda, canuta, longeva » ecc. ma chi ne parla più a lungo è Ovidio nel quarto dei Fasti ove spiega e descrive le teste del 21 Aprile. L’ arte non si sa che abbia mai preso a rappresentar questa Dea.

e) Termine. §

1. Veramente non era un Dio della campagna; ma indirettamente aveva relazione con essa perchè rappresentava divinizzato il concetto dei limiti delle proprietà prediali; quindi era il patrono della proprietà privata, ed a lui sacre erano quelle pietre che segnavano i confini tra i varii poderi e si dicevano per l’ appunto termini. Nella coscienza dei Romani era così vivo il rispetto della proprietà individuale, che vollero consecrati a un Dio i confini che la segnavano. Si faceva una festa annua, il 23 Febbraio, detta Terminalia, in occasion della quale si incoronavano i termini e si offrira al Dio una focaccia o anche un agnello o un porcellino. Oltre ciù ogni impianto o mutazione di termini era sempre accompagnato da cerimonie religiose con invocazione del Dio.

Ma il Dio Termine non aveva solo giurisdizione in cose private; erano sotto la sua protezione anche i confini dello Stato; come tale aveva una cappella nel tempio di Minerva sul Campidoglio, ed auche nel tempio di Giove era una statua di Termine; giacchè narravasi che allorquando si volle edificare il gran tempio di Giove Capitolino in uno spazio dove già sorgevano tempietti di varie divinità, queste furono interrogate se volessero cedere il luogo a Giove; or tutte accondiscesero salvo Termine, la cui cella dovette perciò essere acclusa nell’ area del nuovo edificio.

2. Di Termine parla Ovidio nel secondo dei Fasti, e spiegando le feste in di lui onore, e ripetendo in forma poetica la preghiera che gli si innalzava, viene così a rilevare assai bene il concetto di questo Dio; ma non sappiamo che lo si immaginasse in una particolar figura, nè che l’ arte l’ abbia rappresentata.

X. Demetra-Cerere. §

1. Ed eccoci alla più grande delle divinità greco-italiche riferentisi alla terra produttrice. Demetra, che vuol dire la madre terra, era figlia di Crono e di Rea, perciò sorella di Zeus; essa era propriamente la dea delle biade, ma in genere le si attribuiva una sovranità assoluta su tutto ciò che concerne l’ agricoltura, che essa stessa aveva insegnato agli uomini. E poichè l’ agricoltura suppone un cotal grado di civiltà; così era naturale s’ attribuisse a Demetra il merito di aver incivilito gli uomini e di averli ridotti dalla condizione di rozzi cacciatori e pastori a uno stato civile con sedi fisse e città ordinate. Così Demetra veniva a far riscontro a Dioniso, la cui missione civilizzatrice già è stata da noi rilevata; il che ha portò occasione a mettere in rapporto le due divinità, e infatti Dioniso-Bacco fu nei misteri venerato come figlio di Demetra e sposo di Cora-Persefone. E poichè d’ ogni società civile il primo fondamento è la famiglia, così Demetra veniva anche considerata come la Dea che dà stabilità ai matrimonii; e per altro rispetto era pure patrona e direttrice delle popolari adunanze.

Tra le sacre leggende che si connettono col nome di questa Dea, nessuna è più conosciuta e più importante per capire il culto di lei, che il ratto di Persefone (Proserpina) o Cora sua figlia. Un giorno Persefone, in compagnia delle Oceanine sollazzavasi in un verde prato ed era tutta intenta a cogliere i più bei flori; in un momento ch’ ella erasi scostata dalle compagne e dalla madre per cogliere un bel narciso, eccoti all’ improvviso aprirsi davanti a lei la terra e sbucarne fuori Ade o Pluto sulla sua carrozza tirata da cavalli immortali; costui afferra non visto la giovinetta, e non distolto dalle sue pietose grida, la pone in carrozza e via sprofondasi nelle viscere della terra e la trasporta in Inferno per farne la sua sposa. Tutto ciò avveniva non senza il consenso di Zeus. Demetra aveva udito a distanza le grida della figlia, ma non sapeva che cosa fosse accaduto. Poichè vide ch’ ella non rispondeva più alla sua chiamata, e nessuno sapeva darle notizie, cominciò a ricercarla da per tutto, e, accese fiaccole, errò nove giorni e nove notti senza prender cibo, senza prender riposo, per tutti i paesi della terra, invan cercando con sempre crescente ansia le traccie della smarrita figliuola. Alla fine Elio che tutto vede e tutto sente, le rivelò la verità, nè tacque che Ade aveva rapito Persefone col consenso di Zeus. Allora Demetra crucciata contro il re degli Dei appartossi dall’ Olimpo, e prese a vivere in luoghi solitari immersa nel suo dolore, mentre intanto cessava la fertilità della terra e una universale carestia minacciava di sterminare l’ umana schiatta. Invano Zeus le inviò i suoi messi per ammansir la corrucciata e indurla a tornar nell’ Olimpo; essa giurò non avrebbe ridonato fertilità alla terra finchè non le fosse restituita l’ amata figliuola. Zeus fu obbligato a mandar Ermes nell’ Inferno per indurre Ade a restituir Persefone; ma questa aveva già gustato il melograno, simbolo d’ amore, datogli da Ades e non poteva più tornare definitivamente alla madre. Finalmente si convenne che per due terzi dell’ anno Persefone tornasse sopra la terra ad allietare della sua presenza la madre, e il resto dell’ anno vivesse in inferno col suo sposo e signore. Così avviene che ogni anno all’ apparir della primavera Persefone torna sulla terra e vi rimane fino al tardo autunno, per poi ridursi novellamente d’ inverno alla stanza infernale. Chi non riconosce in Persefone la personificazione della vegetazione, figlia della terra che comparisce in primavera ad allegrare gli uomini e d’ inverno sparisce? Si confronti il mito di Adone amato da Venere, mito che ha lo stesso significato.

Un’ altra leggenda çonnessa coll’ origine dei misteri Eleusini è la seguente. Allorquando Demetra errava corrucciata pel mondo in cerca di sua figlia, capito ad Eleusi. Ivi, in forma di povera vecchierella, sedutasi sulla via presso il pozzo delle Vergini, al rezzo d’ un olivo fronzuto, ad alcune ragazze venute ad attingere acqua chiese soceorso ed asilo. Erano esse le figlie di Celeo, re d’ Eleusi. Costoro, tornate a palazzo, indussero la loro madre Metanira ad accogliere la vecchia affidandole la cura dell’ ultimo figlio suo Demofoonte. Così Demetra entrò nella reggia di Celeo. Il suo aspetto era più che di donna, e la regina stessa sentivasi inclinata a una cotal soggezione e rispetto in presenza di lei; pure rimase da principio incognita. Assunto l’ ufficio suo, Demofoonte cresceva così presto come fosse Dio, senza gustare latte nè pane. La Dea lo ungeva d’ ambrosia e tenendolo tra le sue braccia gli soffiava sopra, e nottetempo, celandosi allo sguardo dei genitori, lo mette va nel fuoco per purificarlo. Una volta Metanira insospettita stette in agguato e colse la nutrice in atto di gettar suo figlio nel fuoco. Die’ in acuto grido temendo per Demofoonte. La Dea allora lo toglie dal fuoco, ma con dolci rimproveri lascia capire alla madre che quel fuoco doveva purificare il fanciullo da ogni elemento terrestre e renderlo immortale. Poichè la madre s’ è opposta, non avrà l’ immortalità; pur tuttavia imperitura sarà la sua gloria perchè ha riposato sulle ginocchia d’ una dea. In così dire svela a Metanira e a Celeo l’ essere suo e li esorta a fondare un tempio in Eleusi. Compiuto il quale consacrò Celeo e altri tre principi Eleusini, Trittolemo, Eumolpe e Diocle, come suoi sacerdoti iniziandoli ai misteri del proprio culto. Secondo altre leggende, era Trittolemo il figlio di Celeo a cui la Dea prestò le sue cure. D’ allora in poi Trittolemo, ammaestrato da Demetra, prese a girare il mondo sopra un carro tirato da draghi insegnando a tutti l’ agricoltura e il culto di Demetra; e col diffondere l’ agricoltura diffoudeva pure un migliore assetto della società, e più civili ordinamenti. Non però da tutti tu accolto benignamente; trovò le sue opposizioni e i suoi nemici; onde la Dea dovè intervenire castigando i ribelli, come avvenne di Linceo re della Scizia e di Erisittone (Erysichthon), figlio di Driope Tessalo (la Scizia e la Tessaglia regioni meno adatte all’ agricoltura).

2. Diffusissimo era in tutte le regioni della Grecia, il culto di Demetra e Persefone, ma il vero centro di questo culto era la piccola città di Eleusi situata nella baia di Salamina, a quattro ore di distanza da Atene. Celebravansi annue feste dette Eleusinie, in onore di Demetra e degli altri Dei con essa connessi. Si distiguevano le piccole e le grandi Eleusinie. Le piccole, dette anche di Agra, dal nome della collina sulle sponde dell’ Ilisso ove si celebravano, avevan luogo nel mese Antesterione (Febbraio) e alludevano al ritorno di Persefone sulla terra, al risveglio primaverile della vegetazione. Le grandi Eleusinie, celebravansi nel mese Boedromione (seconda metà di Settembre) e alludevano alla discesa di Persefone agli Inferi, ossia al rientrare della vegetazione nel letargo hivernale. Queste duravano ben nove giorni e consistevano in una serie di riti, cerimonie, pubbliche preghiere e pratiche di pietà, anche rappresentazioni mimiche dei fatti relativi a Demetra e Persefone; il momento più splendido della festa era la grande processione che aveva luogo il quinto giorno, e movendo da Atene si recava ad Eleusi. Chi vi prendeva parte, talvolta non meno di 30,000 persone, si cingevan la testa con corone di ellera e di mirto, e siccome si usciva di Atene sul far della sera, portavau fiaccole in mano, e così entravano in Eleusi nel silenzio della notte e tra lo splendore di migliaia di faci.

Un’ altra festa, meno importante delle Eleusinie, aveva luogo in principio del mese di Novembre e vi si onorava Demetra come dea di legittime nozze e datrice di leggi. Erano le Tesmoforie. Duravan cinque giorni e vi potevan prendere parte solo le donne maritate.

Il culto di Demetra per il senso riposto de’ suoi riti, de’ suoi simboli, per la connessione di Demetra colle divinità ctoniche, prese fin dai più antichi tempi la forma di mister o, cioè di culto segreto, a cui non potevan premier parte che gli iniziati. Si esigevano certe condizioni di moralità per essere ammessi; e da principio n’ erano esclusi i barbari, col progresso di tempo anche questi s’ ammisero. Gli ammessi facevano una specie di noviziato; appunto le piccole Eleusinie erano una specie di preparazione, senza cui non si poteva prender parte alle feste maggiori. Tra gli iniziati poi v’ eran dei gradi; giacchè da semplici misti (mystae) si passava al grado di epopti o spettatori, e più in su di tutti era il ierofante o sacerdote supremo. Si prometteva agli iniziati la felicità d’ oltretomba, dalla quale si dicevano preclusi gli altri mortali. I segreti della congregazione erano mantenuti con grande scrupolo, pene severissime essendo comminate al trasgressore. Questa forma di religione segreta, nella quale penetrarono presto gli elementi orfici, trasse a sè le più elette intelligenze, e il tempio di Eleusi divenne come il centro dei paganesimo ellenico, e tale rimase fino a che, alla fine del quarto secolo dell e. v., Teodosio il grande lo fe’ chiudere.

3. Quello che era Demetra per i Greci, era Cerere pei Romani, come Dea delle biade antichissima fra gli Italici, ma molto presto confusa colla greca Demetra; giacchè poco dopo la cacciata dei Tarquinii, in occasione di una carestia, per suggerimento dei libri sibillini, fu adottato il culto greco. Così le leggende relative a Demetra furon ripetute a Roma, e il ratto di Proserpina (tale suonò il nome di Persefone, secondo la pronunzia latina), si credette avvenuto in Sicilia, nelle vicinanze di Enna (od. Castrogiovanni). Nel culto ai tre Dei Demetra, Dionisio e Persefone, si fecero corrispondere Cerere, Libero e Libera. Un tempio a queste tre Deità sorse verso il 260 di R. (494 av. C.) nelle vicinanze del Circo e ne fu affidata la sorveglianza agli edili plebei che pure avevano la cura dell’ annona. Le feste di Cerere, o Cerialia, celebravansi dal 12 al 19 Aprile con solenni cerimonie, anche con giuochi del Circo. Tali feste erano inaugurate con una solenne processione alla quale prendevano parte tutti vestiti di bianco. In Agosto poi le matrone romane facevano un’ altra festa per celebrare il ritrovamento di Proserpina e a questa intervenivano in bianche vesti portando in dono primizie di frutta.

La bestia che solitamente si sacrificava a Cerere era il porco, simbolo della fertilità, talvolta un giovenco, e le si offrivano frutta e favi col miele.

4. La più bella e antica rappresentazione letteraria di Demetra si trova nell’ inno omerico a questa Divinità, inno di grande interesse perche rappresenta le più antiche tradizioni del culto eleusinio in una redazione già del tutto compiuta. L’ Elena d’ Euripide invece riflette tradizioni più recenti, secondo le quali Demetra e Rea erano insieme confuse in un’ unica divinità (v. il coro che comincia al v. 1301). Ci rimangono pur frammenti di inni orfici ove del ratto di Proserpina si parla secondo le tradizioni più recenti. Del resto in molti altri autori si trova cenno di questi miti; ricordiamo solo la vivace narrazione che è nel quarto dei Fasti Ovidiani (v. 417-618) ove il ratto avviene in Sicilia, e Trittolemo è fatto figlio di Celeo, e la Dea l’ avrebbe guarito da una grave malattia per guadagnarlo poi al suo culto. Ancor nei tardi tempi della letteratura latina Claudio Claudiano compose un poemetto in quattro libri sul Ratto di Proserpina, dove descrisse in sonori versi le diverse scene di questo dramma con belle descrizioni, con parlate piene di sentimento, sebbene in genere con un’ intonazione alquanto retorica ed esagerata.

In arte si soleva figurar Demetra-Cerere con un’ espressione di dignità maestosa insieme e di mite dolcezza. È facilmente riconoscibile dal fascio di spighe che ha in mano e dalla corona di spighe che generalmente porta in testa; anche ha una fiaccola e una scatola chiusa, la così detta cista mistica. La più antica statua che ancor oggi si possiede, è quella che trovavasi sul frontone orientale del Partenone, opera di Fidia. Quasi contemporaneo è il rilievo trovato nel 1859 ad Eleusi, rappresentante Trittolemo tra le due dee (fig. 66). A un tipo più recente, del 4º secolo, appartiene la bella Demetra sedente del Museo Britannico, trovata presso Gnido (fig. 67). Nè è men bella la Cerere della pittura pompeiana, conservata nel Museo di Napoli, dov’ essa figura sedente in trono con fiaccola e fascio di spighe in mano e a pie’ del trono un paniere carico pure di spighe (fig. 68).

XI. Persefone-Proserpina. §

1. S’ è parlato di Persefone come la bella figlia di Demetra, personificazione di quella forza indefettibile della natura, per cui ogni anno la più ricca vegetazione ricomparisce a’ nostri occlii, per avvizzire di nuovo e ritornare nel nulla al tardo autunno. Gli Attici chiamavano questa Dea preferibilmente Cora, la fanciulla. Ma Persefone aveva anche un altro significato. Giacchè come moglie del tenebroso re dell’ Inferno, anch’ essa era una potenza tenebrosa, colei che ogni essere vivo trae con sè nell’ oscuro grembo della terra. E Persefone con Ade formava il riscontro di Era e di Zeus. Tale è il concetto che unicamente è accennato nelle opere Omeriche, dove non si sa ancor nulla del rapimento di loi e del ritorno periodico alla terra. Quando queste leggende si formarono, Persefone aveva un doppio aspetto, quello d’ una gentil fanciulla che risorge ogni anno a nuova vita e quello della tenebrosa e inesorabile regina dell’ Orco. Di qui si capisce facilmente come nelle segrete dottrine dei misteri, Persefone divenisse simbolo dell’ imrnortalità dell’ anima. Giacchè sembra che gli iniziati ai misteri Eleusini, scostandosi dalle idee popolari, circa le ombre de’ morti, apprendessero più sane dottrine intorno alla vita d’ oltre tomba, ammettendo che il morire non sia altro che un rinascere dell’ anima a più lieta esistenza, supposto sempre che l’ uomo si renda degno di questa vita felice con una condotta retta e approvata dagli Dei.

Templi speciali non sembra siano stati eretti a Persefone; come a divinità infernale le si sacrificavano vacche nere e sterili.

2. I Romani accolsero, per le cose d’ oltretomba, quasi tutte le idee greche, quindi auche per loro valse Proserpina come moglie di Plutone e regina dell’ inferno. Già s’ è detto che nel culto di Cerere con lei si identificò la dea Libera, il contrapposto femminile di Liber o Bacchus.

3. Chi rieorda i furvae regna Proserpinae di Orazio e il suo:

Mixta senum ac iuuenum densentur funera, nullum
Sacra caput Proserpina fugit45,

si persuade come rimmagine della dea infernale fosse viva nella mente dei poeti. Anche l’ arte la rappresentò sia come regina dell’ erebo, sia come graziosa figlia di Demetra, ma molto più nelle pitture vascolari e nelle scene a rilievo che non in statue isolate. Come regina dell’ Erebo vien riconosciuta dallo scettro e dal diadema onde si figurava adorna; anche le si assegnava la fiaccola simbolo dei misteri Eleusini, inoltre il melograno e il narciso.

XII. Ades-Plutone. §

1. Ade, figlio di Crono e di Rea, quindi fratello di Zeus, era il re dell’ Inferno. Allorquando, dopo la vittoria di Zeus, questi aveva diviso co’ suoi fratelli il dominio dell’ universo, toccò ad Ade il mondo sotterraneo, come a Posidone toccò il regno delle acque. Di Ades è compagna Persefone, come Era di Zeus, Anfitrite di Posidone. Già s’ è riferita la leggenda del rapimento di Persefone, ma è da avvertire che essa si è formata relativamente tardi, perchè ancora è sconosciuta ad Omero. Come re delle ombre Ade aveva nel concetto degli antichi qualcosa di sinistro e di misterioso; egli è un re occulto e che occultamente opera, anzi un elmo lo rende invisibile (donde il suo nome); ma tanto più è terribile la sua potenza. Ognuno che entra nel regno di lui ogni speranza lasci; le porte di esso son tenute ben chiuse e ben custodite e niuno dei trapassati può, senza un’ eccezionale concessione degli Dei, rivedere la luce della vita. lu origine era lui pure che con inflessibile rigore si impadroniva dell’ anima di ogni mortale, non appena fosse scoccata l’ ora sua, per trascinarla con sè nell’ inferno; più tardi quest’ ufficio di psicopompo fu assegnato ad Ermes. Come accoglitore di molte anime, Ade era anche detto Polidette o Polidegmone. E perchè odiosa è quasi sempre la morte, era detto Ades il più odiato fra tutti gli Dei. — Ma oltre questo aspetto truce e terribile, Ade ne aveva anche un altro mite e benefico. Non era il Dio di sotterra quella forza misteriosa per cui si nutrono e crescon le piante? E donde si ricavan le ricchezze minerali, gli ori, gli argenti, ecc. se non di sotterra? Non deve essere lo stesso Dio sotterraneo il signore di tutte quelle ricchezze e colui che ne fa dono ai mortali? Ecco altri aspetti che rendevan venerando questo iddio, che perciò chiamavasi Plutone o Pluteus, colui che fa ricchi.

2. Appena si può dire che il misterioso Dio dell’ ombre avesse un pubblico culto in Grecia; qualche tempio gli fu eretto in unione con Persefone e Demetra, ad es. a Pilo nella Trifilia, provincia dell’ Elide, presso cui scorreva un fiume chiamato Acheronte; lo stesso a Ermione città dell’ Argolide. Ma lo si invocava abbastanza di spesso nelle preghiere comuni, e in far ciò si batteva colle mani in terra. In sacrifizio non gli si offerivano che bestie nere e si torceva lo sguardo dalla vittima nell’ atto d’ immolarla. Delle piante erangli sacri il cipresso e il narciso.

3. Già dicemmo che rispetto all’ oltretomba i Romani adottarono in genere le idee greche. Questo è vero anche rispetto al re dell’ altro mondo che essi chiamarono Plutone o Dis Pater (ossia dives pater, il padre della ricchezza). A Plutone diedero compagna Proserpina, e questa le venne associata come nel regno così nel culto. Anche Plutone e Cerere si trovano menzionati spesso insieme come Ade e Demetra. Un tempietto a Dite sorgeva presso l’ altare del tempio di Saturno nel Foro. Un altro altare sacro agli Dei infernali trovavasi nel campo Marzio, costruito sotterra; ivi si sacrificavano nere vittime (furvae hostiae) in determinate notti.

4. Come intorno alla figura di Ades non sorsero numerosi miti, così ben di rado le arti o della parola o del disegno tolsero a descriverla o rappresentarla. I poeti greci e romani lo ricordano di sfuggita, con epiteti come imus tyrannus, rex silentum, umbrarum dominus ( Ovidio) ecc. ma non indugiano a deseriverlo. La statuaria quando lo rappresentò gli assegnò un’ espressione di volto severa ed arcigna, labbra ben chiuse, arruffata la chioma. Tale il Plutone sedente con il Can Cerbero a lato, che trovasi nella Villa Borghese a Roma. Gli si poneva in mano anche lo scettro e una cornucopia. Il bidente che si vede in alcune statue non è che un’ aggiunta degli artisti moderni latta per analogia del tridente di Posidone.

XIII. L’ Inferno. §

1. Giova qui ricordare rimmagine che gli autichi si eran formata del mondo infernale. Ma prima s’ avverta che tale immagine non è sempre stata la stessa. Nell’ età più antica rappresentata dall’ Iliade d’ Omero, l’ inferno era creduto sotterra a non molta distanza dalla superficie, attribuendosi alla terra la forma di un disco; tantoche allorquando scoppio aspra contesa tra gli Dei presso Troia, come si descrive nel 20º canto, avendo Posidone dato col tridente una tremenda scossa alla terra, dicesi che Ade saltasse giù spaventato dal suo trono per terna che si squarciasse la terra e comparisse agli occhi dei mortali e degli immortali l’ odiato suo soggiorno. Più tardi invece, nell’ età dell’ Odissea, si collocava l’ entrata dell’ Inferno nell’ estremo Occidente. E in genere in quegli antichi tempi si aveva un’ idea molto vaga e indeterminata del mondo d’ oltretomba; era detto uno spazio deserto e tenebroso, dove i morti soggiornava.no in forma d’ ombre e come in sogno; ne ancora si faceva distinzione tra i buoni e i cattivi, e l’ Eliso, dove venivano mandati quelli che eran cari a Zeus per vivervi beati senza alcun affanno, non era ancor concepito come parte dell’ Inferno, ma era creduto una terra posta all’ estremo Occidente (detta l’ isola dei beati in Esiodo). Allora anche dal mondo sotterraneo di Ade si stimava ben lontano il Tartaro, il carcere di bronzo dei titani, immaginati sotto il disco terrestre a tanta distanza quanta è quella del cielo al di sopra; e si diceva che un’ incudine di bronzo come avrebbe impiegato nove di e nove notti per giungere dal cielo in terra, così ahrettanto tempo avrebbe impiegato per giungere al Tartaro. Ma queste idee nelle età seguenti si mutarono, e a poco a poco venne formandosi quell’ immagine dell’ Inferno che è più comunemente nota. Era uno spazio largo e tenebroso dentro terra, al quale si poteva accedere di qua su per molte entrature, giacchè dapertutto dove si trovava una caverna, una lenditura che paresse internarsi nelle viscere della terra, ivi si supponeva un accesso all’ inferno. Nel quale poi si diceva che scorressero e s’ incrociassero parecchi fiumi, il Cocito (pianto), il Piriflegetonte (torrente di fuoco), l’ Acheronte (corrente di dolore) e lo Stige (fiume dell’ odio). Quest’ ultimo avvolgevasi più volte intorno all’ Inferno, e non si poteva passarc senza l’ aiuto del nocchiero Caronte, un vecchio bianco per antico pelo, severo il volto e gli occhi di bragia. Perciò i Greci usavano mettere in bocca ai morti un obolo, piccola moneta di bronzo, come nolo per passaggio dello Stige. Di la dai fiumi, alla porta dell’ Inferno, sta custode il terribile cane Cerbero, con tre teste, che non impedisce ad alcuno l’ entrata, ma respinge abbaiando chi tentasse riuscire a riveder le stelle. Appena entrate le anime nel regno di Ade, erano sottoposte a giudizio davanti al tribunale di Minosse, Radamanti (Rhadamantys) ed Eaco. La sentenza di costoro decideva se esse dovessero seguire la sorte dei giusti o dei reprobi. I giusti erano inviati ai Campi Elisi ove erano eternamente felici, i reprobi nel Tartaro, ove dalle Erinni e da altri infernali mostri erano in diverse guise tormentati. Quelli che erano giudicati nè buoni nè cattivi, erano obbligati a rimanere nel prato di Asfodillo, dove, ombre senza sostanza, conducevano un’ esistenza oscura e priva di gioie.

Celebri le invenzioni antiche circa le pene riservate ad alcuni famosi malfattori. Di cui i più noti erano Tizio (Tityos), Tantalo, Sisifo (Sisyphos), Issione e le Danaidi. Tizio gigante, figlio della Terra, per aver assalito con turpi desideri Leto sulla via di Pito, è disteso a forza in terra, e due avoltoi gli rodono di continuo il fegato, che di continuo rinasce. Tantalo, il re asiatico, antenato degli Atridi Agamennone e Menelao, in punizione di aver abusato della confidenza degli Dei rivelando agli uomini i loro segreti, o come da altri si raccontava, per aver dato in cibo agli Dei le membra cotte di suo figlio Pelope, è condannato ad un’ eterna fame e sete, inasprita dal fatto di esser immerso fino al mento in un lago d’ acqua che però s’ abbassa quand’ egli fa l’ atto di bere, e di aver pendenti davanti agli occhi i più saporiti frutti della terra ebe si ritirano appena egli stende le mani per coglierli. Sisifo, re di Corinto, che colla sua astuta malvagità più volte ha destato l’ ira degli Dei, si ha avuto questo castigo di dover spingere un pesante masso su su fino alla cima d’ un monte, da cui esso riprecipita inevitabilmente al piano; ond’ egli deve ripigliar da capo l’ inutil fatica. Issione, re dei Lapiti, reo anch’ egli d’ aver offeso Zeus, ha avuto la pena di essere legato mani e piedi a una ruota che sempre gira. Infine le Danaidi, ossia le cinquanta figlie di Danao, ebe per ordine del padre avevano in una notte ucciso i loro mariti, erano condannate ad attinger continuamente acqua con vasi senza fondo.

2. Descrizioni dell’ inlerno se ne trovano parecchie nell’ opere letterarie. È noto a tutti l’ 11o libro dell’ Odissea dove si descrive l’ andata di Ulisse nel paese dei Cimmerii e l’ evocazione dell’ ombre e la predizione a lui fatta de’ suoi casi futuri. Qui però non si parla di una discesa all’ inferno; son l’ ombre che evocate dal sacrifizio fatto da Ulisse gli passano davanti ed egli le interroga. Una vera descrizione dell’ Inferno comparisce più tardi; lasciando i minori, noi ricorderemo solo la bella pittura che fece Virgilio nel sesto dell’ Eneide narrando la discesa di Enea all’ Averno, e la non meno vivace descrizione che leggesi nel quarto delle Metamorfosi di Ovidio, a proposito della venuta di Giunone al regno delle ombre per trarne la furia Tisifone e ottener per mezzo di lei vendetta contro Ino sua rivale (v. 432 e sgg.).

Fra le rappresentazioni figurate, va menzionata la pittura fatta da Polignoto (celebre artista dell’ età di Pericle) nella lesche o sala di convegno, che quei di Gnido avevano eretto a Delfo. Riproduceva la visita di Ulisse all’ ombre secondo il racconto di Omero. Ancor se ne legge la descrizione in Pausania. Noi possediamo ancora delle pitture vascolari di questo stesso tema; generalmente, rappresentandosi il mito di Ercole che rapisce Cerbero o di Orfeo che va a riprendere la sua Euridice, si aveva occasione di raffigurar l’ Inferno col palazzo regale di Plutone e Persefone e con varii gruppi di esseri infernali.

XIV. Le Erinni-Furie. §

1. Tra gli Dei che han sede in inferno, son da annoverare le terribili Erinni, le dee della vendetta, le quali avevano il compito di perseguitare chi s’ era reso colpevole di qualsiasi violazione dell’ ordine morale specialmente nel cerchio dei rapporti di famiglia. Secondo Esiodo erano nate dal sangue che cadde sulla terra dalle ferite di Urano allorquando questi fu mutilato dal figlio Crono, sicchè il primo delitto di sangue nella più antica famiglia divina si supponeva avesse generato subito lo spirito della vendetta e della punizione. Altri assegnò loro altra origine; come Eschilo che le disse figlie della notte, e Sofocle che le fe’ figliuole delle tenebre. Da principio non era determinato il numero di queste Dee; Euripide fu il primo a parlare di tre Erinni; solo nell’ età Alessandrina se ne seppero anche dire i nomi, che erano Aletto (la inquieta), Tisifone (la punitrice dell’ omicidio), e Megera (l’ odiosa). Furono i poeri tragici elle più contribuirono a svolgere il concetto delle Erinni e a diffondere tra la gente un’ immagine di esso viva e paurosa. Nessun delitto, si diceva, sl’ ugge al loro acuto sguardo, e appena scorto il delitto, subito con implacabile severità si mettono alle calcagna dei colpevole, e più non l’ abbandonano; la loro presenza colla faccia di Gorgone, colla testa anguicrinita, incute un indicibile spavento; l’ infelice non ha scampo: per quanto tenti non riesce a sfuggir loro; le fiaccole ch’ esse portano in mano rischiarano d’ una sinistra luce i passi di lui, e il tormento suo non ha più line se non quando egli impazzisce e muore. — Senonchè, come altre Deità infernali avevano un doppio aspetto, uno terribile, e l’ altro più mite e quasi benevolo, così anche le Erinni renuero ad avere un significato buono; questo specialmente in connessione colla leggenda di Oreste. Costui colpevole di aver vendicato la morte di suo padre Agamennone uccidendo la madre Clitemestra insieme coll’ amante di lei Egisto, era perseguitalo dalle Erinni; errò molto tempo sulla terra non trovando pace; ma a Delfo fu protetto da Apollo, il quale dopo molti riti di espiazione lo mandò ad Atene perche là fosse giudicato dal celebre tribunale dell’ Areopago presieduto dalla dea Atena. Anche là lo seguirono le Erinni sitibonde di sangue; ma chiuso il dibattimento, a parità di voti, avendo Atena stessa ed Apollo votato in favor di lui, fu assolto. Le Erinni volevano far le loro vendette su Atene disertando i raccolti, e portando calamità a tutta la terra; ma alfin luron placate da Atena, colla promessa che sopra il colle dell’ Areopago sorgerebbe un tempio a loro dedicato. Così le Erinni si piegarono, ridonarono pace e prosperità all’ Attica, e col nome di Eumenidi, le ben pensanti, e Semne, Venerande, vennero onorate dagli Ateniesi quali Dee benefattrici, terribili bensì contro i colpevoli, ma benigno verso chi si pentisse e datrici di beni agli onesti.

2. Non solo in Atene le Erinni erano oggetto di culto, ma anche in Argo, in Sicione, nell’ Arcadia, nell’ Acaia, e generalmente con un nome esprimente il loro aspetto buono, come Eumenidi, o Semne, o Potnie (venerande) o Ablabie (innocenti). Loro attributo costante nel culto era il serpente, simbolo in genere delle divinità ctoniche. Nell’ Attica era loro sacro il colle e il bosco di Colono, dove venne a cercar pace l’ infelice Edipo dopo esser stato tutta la sua vita perseguitato dalle Erinni per delitti involontariamente commessi. Alle Erinni si sacrificavano pecore nere, e si facevano libazioni senza vino, di miele misto con acqua.

3. I Romani chiamarono Furie le Erinni, e senz’ altro s’ appropriarono i concetti e le leggende ad esse relative. Ma una vera Deità italica rispondente alla greca non pare ci fosse; si ricorda bensì un lucus Furinae, cioè un bosco sacro a una dea Furina; ma se questa dea Furina avesse nulla a che fare colle Erinni greche, ignoriamo, sebbene gli antichi la identificassero.

4. Un’ immagine delle Erinni potentemente scolpita è nei tragici greci; ma v’ è differenza grande dall’ uno all’ altro. Nell’ Eumenidi di Eschilo son dipinte come mostri somiglianti alle Gorgoni e alle Arpie, ma senz’ ali; son dette negre e abominande; un tristo umor cola dai loro occhi, han dei serpenti per capelli, la lingua sporge dalla bocca e digrignano i denti; le vesti nere sono tenute su da una cintura rosseggiante di sangue. Il loro coro canta:

      Già la potente Parca
A noi filando incommutabil sorte,
Tal n’ assegnò vicenda:
Onde chi ’l giusto varca,
Suoi congiunti ponendo a iniqua morte,
Noi fin che all’ Orco ei scenda
Perseguitiam, nè gir laggiù pur anco
Lasciam securo e franco.
…………………………… tutte de’ rei
Por le case a soqquadro e la fortuna
Quando morte al congiunto osa il congiunto
Recar. Tosto con rapido
Pie’ chi sparso ha col ferro il nuovo sangue
Noi seguiam, benchè forte; e lui raggiunto
Rendiam nud’ ombra esangue….
(Trad. Bellotti).

Nell’ Oreste d’ Euripide le Eumenidi hanno altra figura; son esse fanciulle coll’ ali, il crin di serpi, le vesti intriso di sangue; e come cacciatrici inseguono il reo portando fiaccole in mano. Talo immagine si conservò nei secoli seguenti e servi di modello ad altri poeti come Virgilio, Ovidio, Claudiano. — Anche l’ arte adottò questo tipo rappresentandole come cacciatrici alate, con asta, arco e faretra, anche fiaccole o un serpente in mano, sovente anche uno specchio per presentare la propria immagine ai colpevoli.

XV. Ecate. §

1. Secondo Esiodo, era figlia del titano Perseo e di Asteria. In origine non designava altro che un aspetto della luna, e ditatti anche Artemide era talvolta denominata Hecate, la lungi operante, come Apollo era detto hecatos. Forse rappresentava la luna invisibile, la luna nuova, che appunto perchè non compariva in cielo, si poteva facilmente credere che rimanesse sotterra; di qui la collocazione di Ecate fra gli Dei infernali. Quel che di arcano è proprio della nuova luna si rispecchia nell’ indole di Ecate; la quale venne concepita come la dea delle apparizioni notturne, la dea degli spettri; dicevasi ch’ ella di notte bazzicasse insiem coll’ anime dei trapassati su pei trivii e intorno ai sepolcri; che al suo avvicinarsi i cani ululavano e guaivano; ch’ essa proteggeva e ammaestrava le maliarde che nella notte andavan vagando per cercare, al lume incerto della luna, l’ erbe incantatrici e fare i loro scongiuri. Una dea così misteriosamente potente bisognava rendersela arnica; quindi e nelle case private e alla porta delle città si collocavano certi pilastri con l’ immagine di lei, colla persuasione che ciù tenesse lontana dalle case e dalle città ogni disgrazia. Per la stessa ragione a lei erano sacri i trivii e i crocicchi, ed ella stessa era denominata Trivia.

Più tardi, per opera degli Orfici, si modifico il concetto di Ecate; chè essa venne riguardata come una regina della natura, dominatrice nei tre regni del cielo, della terra e del mare, e venne confusa con altre dee mistiche, quali Demetra, Persefone e Cibele.

2. Templi speciali aveva Ecate a Egina, ad Argo, poi nell’ Asia Minore dove sopratutto i santuari di Lagina e Stratonicea godevano molta ripntazione; ma in genere essa era associata nel culto con altre divinità, come Apollo, Artemide, ecc. Nell’ acropoli ateniese era venerata insieme con Ermes e le Cariti, come custode dell’ ingresso e compagna di Artemide. Nel culto privato si venerava Ecate adornando di flori, l’ ultimo giorno d’ ogni mese, la statuetta di lei alla porta di casa, e ponendovi presso de’ cibi che poi i poveri consumavano; eran le così dette cene di Ecate. Presso le statue poste nei trivii si sacrificavano dei cani per espiazione a favor de’ morti, e ciò generalmente trenta giorni dopo il decesso. Si sacrificavano anche come ad altre divinità infernali, pecore nere e si facevan libazioni di latte e miele.

3. Essendo la religione di Ecate divenuta il nucleo fondamentale di ogni maniera d’ arti magiche e di superstizioni spiritistiche, ebbe facile entratura negli animi dei Romani, inclinatissimi a questo genere di cose. Sopratutto nell’ età imperiale tra il postumo rifioriro d’ ogni superstizione pagana, il culto di Ecate ebbe quasi ufficiale riconoscimento. Ancora Diocleziano costruiva in Antiochia una cripta per il culto sotterraneo di Ecate, alla quale cripta scendevasi per nna scala di 365 gradini.

4. Ecate è nominata sposso dagli autori greci e latini, sopratutto nelle leggende relative alle maghe, come Circe, Medea, ecc.; ed è solitamente designata cogli epiteti trivia triforme, tricipite, conforme all’ immagine che gli antichi se ne formavano, con tre teste o un corpo solo o anche tre corpi ma uniti assieme; simbolo probabilmente dei tre aspetti della luna come luna piena, mezza e nuova. — L’ arte, com’ è da aspettarsi, si attenne pure a questo tipo. E già lo scultore Alcamene aveva figurato così un’ Ecate da collocarsi all’ ingresso dell’ Acropoli d’ Atene. Così pure nel rilievo del grande altare di Zeus a Pergamo Ecate apparisce tra i combattenti con tre teste, sei braccia e un sol corpo. A dar un’ idea di queste rappresentazioni gioverà la fig. 70 riproducente una statuetta in bronzo del Museo Capitolino. La figura di mezzo ha in testa una berretta frigia con un diadema di sette raggi, tiene nella mano destra un coltello e nella sinistra la coda d’ un serpente, attributi propri delle Erinni e qui assegnati anche ad Ecate; la figura di sinistra ha in ambe le mani delle fiaccole, sulla fronte una mezza luna con un fiore di loto; quella di destra ha una chiave e una fune o rappresenta la portinaia dell’ inferno, in testa ha un disco simbolo della nuova luna.

XVI. Sonno e Morte — I sogni. §

1. In diversi modi fu dagli antichi personificata la morte. La morte violenta in battaglia era rappresentata dalle Cere, divinità terribili le quali si compiacevano di aggirarsi pel campo di battaglia, avvolte in sanguinoso manto, in compagnia della Contesa (Eris), dello strepito della pugna e degli altri compagni di Ares; e crudelmente inesorabili via traevano morti e feriti. Vi erano poi anche altre Cere che non in battaglia, ma in altre occasioni, per via di discordie e di risse, per via di morbi e della decrepitezza insidiavano alla vita dei mortali. Oltre a cio la morte era rappresentata anche da altre divinità come Apollo e Artemide, e tra le infernali da Plutone e Persefone. Infine un Dio speciale della morte fu ideato in Tanato (Thanatos) che era detto fratello gemello del Sonno (Hypnos); secondo Esiodo costoro eran figli della notte, abitavano nell’ Inferno e di là venivano sulla terra a sorprendere i mortali, il Sonno era buono d’ indole e benefico agli uomini e però gradito, la Morte invece era un Dio crudele e temuto. Col tempo l’ idea della Morte si fe’ meno temibile; fu definita il sonno eterno, e il Sonno stesso divenne un’ espressione eufemistica della morte. — Insiem colla Morte e il Sonno erano venerati i parenti loro, i Sogni che abitavano, secondo Omero , di là dall’ Oceano, nell’ estremo Occidente. La loro abitazione si diceva avesse due porte, una di corno l’ altra d’ avorio; dall’ ultima, essendo l’ avorio un corpo opaco, uscivano i sogni falsi ed ambigui che portan con sè fantasmi fallaci e vani; dall’ altra, essendo il corno trasparente, uscivano i sogni veri e di facile spiegazione. Tra gli Dei de’ sogni s’ annoveravano Morfeo, che dicevasi apparire semplicemente in forma di qualche persona nota, Ichelo che assumeva qualsiasi forma anche di bestia, ed era detto anche Fobetore (apportator di paura), infine Fantaso, che appariva in forma di cose animate.

2. I Romani adottarono le stesse idee circa il Sonno, la Morte e i Sogni. Però è da notare che ab antico avevano essi il loro Dio della morte nel così detto Orcus, l’ accoglitore (cfr. arca, arcanus). S’ immaginava che l’ Orco avesse il suo ripostiglio, dove riponeva le ombre come il mietitore raccoglie il frumento mietuto nel granaio; e ora parlavasi di lui come di uno armato di falce che al tempo suo coglie chi deve, non risparmiando i polpacci di chi tenta sfuggirgli; ora si pensava come una figura dall’ ali nere che intorno vola a sorprendere e trascinar via; sempre concepivasi l’ Orco come un essere silenzioso e silenziose si dicevan l’ ombre dei trapassati.

3. Noto è l’ episodio del decimoquarto dell’ Iliade, ove Era prega il Sonno, quel che tutti doma, uomini e Dei, a infondere profondo sopore nelle membra di Zeus, perchè Posidone potesse, senza alcun impedimento, dar soccorso agli Achei. Già un’ altra volta il Sonno aveva addormentato Zeus, a richiesta d’ Era; ma quando Zeus si svegliò, adirato contro lui, l’ avrebbe precipitato in mare se non fosse stato soccorso da sua madre, la notte. — Ma la più bella descrizione del Sonno e della sua casa leggesi nel decimoprimo delle Metamorfosi d’ Ovidio (v. 592 e sgg.) là dove si racconta come Iride fosse venuta a nome di Giunone per invitare il Sonno a dar notizia ad Alcione della morte di suo marito Ceice. Ivi si dan compagni al Sonno i Sogni, suoi figli e ministri, ed è Morfeo quegli che obbedendo all’ ordine avuto prende le forme di Ceice e così comparisce alla povera Alcione riempiendola di dolore. — Rappresentazioni letterarie di Tanato abbiamo in un dramma satirico di Eschilo, ove si sceneggiava la leggenda di Sisifo che vince in astuzia la Morte e l’ incatena; e nell’ Alcestide d’ Euripide ove la Morte apparisce con nere ali, torvo sguardo e un coltello in mano per recidere ai morituri quel cotal crine, il cui taglio sacrava la loro testa agli Dei infernali; in principio della tragedia essa discorre con Febo, che invano tenta distoglierla dal suo proposito di portar con sè l’ infelice regina sacratasi a morte per la salvezza di suo marito Admeto.

L’ arte dapprima rappresentava la Morte e il Sonno con quella differenza d’ aspetto ch’ è accennata in Omero ed Esiodo; ad es. sull’ arca di Cipselo (cassa di legno con figure, consacrata in Olimpia dai Cipselidi tiranni di Corinto) era impressa la Notte che portava in braccio da una parte un fanciullo nero, dall’ altra un fanciullo bianco, addormentati entrambi, colla scritta: Thanatos e Hypnos. Col tempo si modifico questo tipo della morte, prevalendo sempre più l’ idea di raffigurarla come un bel giovane, come Endimione od Eros, ora alato or no, generalmente in atto di dormire e colla face spenta o ancor accesa ma rovesciata. Tale la figura che si scorge spesso sul monumenti sepolcrali dell’ età imperiale.

Capitolo quinto.
Le Divinità domestiche presso i Romani. §

A compiere l’ enumerazione e l’ illustrazione degli Dei antichi di Grecia e di Roma rimane che si parli di alcune Divinità minori, venerate dai Romani nell’ interno della casa e fra le pareti domestiche, e però oggetto di culto privato anzichè della pubblica religione. Ciò nonostante eran queste Divinità importantissime perchè sempre a contatto coll’ uomo, e i popolani a quelle di preferenza rivolgevano le loro quotidiane preghiere anzichè alle grandi divinità dell’ Olimpo.

I. I Penati. §

1. La voce Penates si connette con penus, che è la raccolta di quelle provvigioni annue le quali si ripongono per l’ uso della famiglia. Penati eran dunque gli Dei protettori del nutrimento della famiglia, e delle provviste annue a questo necessarie. Tale il concetto primitivo; chè più tardi Dei Penati erano in genere Dei della casa, non ben distinti dai Lari di cui parleremo. Quanti fossero, come si chiamassero i Penati, non è detto, perchè le credenze popolari in questa parte rimasero sempre un po’ indeterminate; ma per lo più appariscono in numero di due. Santuario degli Dei Penati era il focolare domestico, come punto centrale della casa, che non solo serviva alla preparazione dei cibi quotidiani ma anche a scopi religiosi. Il focolare, com’ è noto, era nell’ atrium, lo spazio maggiore della casa romana, dove la famiglia conveniva pei pasti quotidiani e dove erano ricevuti gli ospiti. Sul focolare sole va tenersi acceso continuamente il fuoco in onor dei Penati e di Vesta, e vicino al focolare si conservavano in nicchie apposite le statuette dei Penati, che si mettevano anche a tavola apponendo loro avanti dei cibi come per far partecipare alla comune mensa gli spiriti protettori della cucina casalinga. — Nè solamente ogni casa aveva i suoi Penati, ma anche lo Stato, considerato dagli antichi come una grande famiglia. Già s’ è accennato (p. 111) al tempio di Vesta come al focolare sacro di tutta Roma; or s’ oggiunga che nel punto più riposto del tempio si conservavano le immagini di que’ Penati che la tradizione diceva portati da Enea in Italia. In onor di essi il Pontefice Massimo offriva gli stessi sacrifizi che nelle singole case si facevano dal capofamiglia, giacchè attribuivasi a tali Dei una grande influenza sulla prosperità dello Stato. Nè solo Roma ma anche altre città avevano i loro Dei Penati, sopratutto Lavinio la mistica metropoli di Roma ove i consoli, i pretori, i dittatori di Roma, entrando in carica, venivano a far un solenne sacrifizio ai Penati e a Vesta.

2. Dionigi d’ Alicarnasso , grande storico delle cose di Roma, assicura di aver visto in un antico tempio una rappresentazione di Dei Penati, in figura di due giovanetti dall’ abito militare. Anche ora si può vedero una rappresentazione simile su una moneta dell’ età repubblicana, appartenente alla famiglia dei Sulpicii. L’ aspetto de’ Penati era simile a quello dei greci Dioscuri.

II. I Lari. §

1. Anche i Lari erano genii protettori della casa e della famiglia, ma proteggevano piuttosto la casa come sede, come stanza, mentre i Penati avevano a cuore il nutrimento, i mezzi di vita. È a notarsi però che tale distinzione, forse sentita nelle origini, si oscurò presto nella coscienza degli antichi, e Penati e Lari vennero onorati alla rinfusa come Dei domestici. Nei tempi più antichi ogni casa aveva un unico Lare, il così detto Lar familiaris; poi se ne noverarono due. Risiedevano nella casa come in proprio dominio, ne difendevano la sicurezza custodendola come cani di guardia, lavorivano la prosperità e la felicità de’ suoi abitanti. Niun avvenimento, triste o lieto, accadeva in casa a cui i Lari non prendessero parte, ogni fatto solenne della vita era accompagnato da uno speciale sacrifizio ai Lari, ad es. la vestizione della toga virile, la partenza per un lungo viaggio, o il ritorno, ecc. Si veneravano i Lari bruciando incenso, incoronandone di fiori le immagini, offrendo libazioni di vino, ecc. Si facevano anche intervenire alla mensa famigliare, apponendo cibi in vasi speciali davanti alle loro immagini.

2. Se si indaga l’ origine del culto de’ Lari, facilmente si può riscontrare che i Lari in fondo non erano altro che le anime dei defunti, propriamente le anime virtuose che divenivan genii tutelari delle case dove avevan vissuto; eran dunque identici ai Manes, i buoni, e difatti eran detti figli di Mania o di Ace a Larentia; mentre l’ anime dei tristi si dicevan larvae o le lemures. Che gli antichi credessero alla presenza fra di loro dell’ ombre de’ trapassati è prova la festa delle Lemurie, il 9 maggio, in occasion della quale il capofamiglia s’ alzava di mezzanotte, e lavatesi tre volte le mani in acqua di fonte, si aggirava a piè scalzi per la casa tacendo schioccar le dita e mettendo in bocca fave nere che poi gettava dietro sè ripetendo una certa formola di scongiuro. Si credeva che le ombre si fermassero a raccogliere quelle fave. Allora il capofamiglia ripeteva più volte un’ altra formola con cui invitava le ombre a lasciare il suo tetto. Si attribuivano a questa venuta delle ombre le spaventose apparizioni di spettri, e altri fenomeni paurosi; per questo si cercava scongiurare il danno. Anche in altre occasioni si credeva che le ombre s’ aggirassero tra gli uomini, come ad es. quando un cadavere rimaneva insepolto, o quando nel seppellirlo non erano state osservate tutte le prescrizioni di rito, credevasi che l’ ombra di quella persona vagasse intorno al cadavere o alla tomba finchè non fossero compiuti i sacri riti.

3. Tornando ai Lari, è da ricordare la rappresentazione che del Lar familiaris si trova nell’ Aulularia di Plauto. Ivi il poeta lo introduce a parlare nel prologo, e gli fa raccontare la storia d’ un certo tesoro nascosto in casa e a lui affidato dall’ avo di Euclione, che è il padrone attuale della casa; di questo tesoro egli non ha rivelato l’ esistenza al padre di Euclione perchè non lo onorava abbastanza, ma l’ ha fatto ritrovare ad Euclione stesso, perchè potesse dotare la sua figliuola che ogni giorno onorava lui, Lare, di qualche offerta di vino, d’ incenso o d’ altra cosa e anche di ghirlande l’ adornava. È un prologo bellissimo, che montre fa capire l’ argomento della Commedia dà una chiara idea dei rapporti che si supponevano tra il Lare domestico e gli abitatori della casa. — La statuaria soleva rappresentare i Lares come giovani danzanti, con in mano una patera sacrificale o un orciuolo, e dall’ altra un rhyton, specie di vaso da bere a forma di corno, in atto di versare da questo vaso nella patera o nell’ orciuolo il liquido sprizzante. Si foggiavano vestiti d’ una tunica ornata di striscie di porpora stretta ai fianchi e succinta. Statuette così latte ve n’ erano in tutte le case e si custodivano religiosamente nei lararii, o tabernacoli dei lari, generalmente nell’ atrio, ma anche in altre parti della casa. Figure di Lari si conservano ancor ora, o nelle pitture murali di Pompei o in bronzo. La fig. 71, raffigurante una statuetta di bronzo trovata a Roma, può darcene chiara idea.

4. Oltre i Lari domestici, gli antichi veneravano altre specie di Lari, genii locali di attribuzioni diverse. V’ erano i Lari compitali, o Lari dei crocicchi, i rurali, della campagna, i praestites, protettori della città, i quali si figuravan vestiti di pelle di cane e accompagnati da un cane; ancora si nominavano dei Lari hostilii protettori contro i nemici, dei Lari permarini a cui fu eretto un tempio nel campo Marzio in seguito a una vittoria navale (a. 575 di R., 179 av. C.) e che erano onorati di special festa il 22 decembre. Così si moltiplicarono in vario modo questi Lari che potevan dirsi pubblici per contrapposto ai Lari privati. Anche è da notare che si accentuò sempre più la tendenza a identificare i Lari con le anime di celebri persone o già defunte o ancor viventi; così Romolo e Remo divennero i Lari di Roma, e vivente ancora Augusto, il suo genio fu detto il Lare pubblico. Tanto più crebbe questa tendenza nell’ età imperiale, estendendosi anche alle case private; Alessandro Severo aveva in casa due lararii, in uno dei quali oltre la statua di alcuni imperatori divinizzati aveva posto anche le statue di personaggi celebri per saviezza come Orfeo, Abramo, Cristo, Apollonio di Tiana, e nell’ altro quelle dei più celebri poeti ed eroi di Grecia e di Roma, come Virgilio, Cicerone, Achille, ecc.

Parte seconda.
Gli Eroi. §

Capitolo primo.
Mitologia Eroica, Origine degli uomini e prima istoria fino al Diluvio. §

1. Un popolo così immaginoso come il Greco, il quale aveva creato tante leggende intorno alle forze della natura divinizzate, era naturale che raccontasse anche in maniera fantasiosa la sua prima storia e magnificasse i progenitori della sua stirpe considerandoli come più che uomini. Se si rifletta che non solo si sentiva il bisogno di spiegare le origini dell’ umanità intiera colmando la lacuna che vi era tra i tempi storicamente noti e i misteriosi principii, ma ancora gli abitanti di innumerevoli regioni, città, borgate, isole s’ ingegnavano di ricondurre la loro discendenza a nobili capi e i loro speciali ordinamenti a fondatori divinamente ispirati, ognuno capira agevolmente come un’ enorme quantità di leggende o nazionali o locali si dovesse formar nella Grecia, relativamente a quegli esseri privilegiati che erano immaginati come qualcosa di mezzo tra gli Dei Olimpici e gli uomini mortali. Niuna meraviglia dunque che la Mitologia Eroica sia ancora più ricca della teologica.

2. Come tra Dei e Genii si supponeva una differenza solo di grado, facendo i Genii inferiori agli Dei in forza e sapienza, ma immortali com’ essi, così tra Eroi ed uomini non si credeva ci fosse differenza di natura, essendo gli uni e gli altri soggetti alla morte; ma gli Eroi erano supposti più forti, più abili, più coraggiosi e resistenti ai pericoli che non sogliono essere gli uomini. E non già che si annoverassero tra gli Eroi tutti i primi uomini, ma solo i più forti delle età preistoriche, quelli che si rendevano benemeriti per qualche beneficio fatto a un paese, uccidendo ad es. qualche assassino o qualche fiera pericolosa, dissodando terreni incolti, prosciugando paludi, ovvero quelli che si segnalavano per fatti di arme straordinarii, tali da attestare doti fisiche e morali più che umane. Costoro erano creduti e detti figli degli Dei, certo dovevano essere di origine diversa dagli altri uomini, formati col limo della terra o sorti dalle pietre e dalle piante. Di questi leggendari Eroi si possono distinguere tre classi; gli uni possono ben essere stati uomini veri, di cui la tradizione ha conservato la memoria magnificandola, ma questi son certo il numero minore; altri, molto più numerosi, sono una semplice creazione della fantasia; altri infine, il maggior numero, non erano in origine che personificazioni di fenomeni naturali e come tali divinizzati e onorati quà e là di culto, ma poi in seguito a qualche mutazione politica o sociale, rimossi dal culto ufficiale, eppur rimasti vivi nelle leggende popolari e così ridotti a eroi. Dei quali ultimi, Divinità fatte eroi, avvenne poi anche talvolta che se ne facesse di nuovo l’ apoteosi; tale fu il caso di Ercole.

Si chiede: erano gli Eroi dagli antichi venerati in guisa da essere oggetto d’ un qualche culto? In Omero non si fa alcuna menzione di ciò. Esiodo è il primo che usa la parola Semidei, e accenna alla sorte serbata dopo morte agli Eroi di viversene felici nell’ isola dei beati, sotto il governo di Crono. Allora una cotal venerazione si aveva agli Eroi, e si può parlare di una religione degli Eroi, come si parlava di una religione dei morti; pero non mai più di tanto, salvo per quelli che per essere stati divinizzati, erano divenuti vero oggetto di culto e si dedicavano loro anche dei templi.

3. Or qual è stata, secondo il pensiero degli antichi, l’ origine della stirpe umana? Diverse leggende intorno a questo punto; le più antiche son quelle cho tacevano sorgere gli uomini dalla madre terra, come dalla madre terra sorgono lo piante e gli animali. Si dicevano autoctoni i primi uomini venuti su dalla terra, Questa spiegazione si colori diversamente secondo i luoghi; nei luoghi montagnosi si diceva che gli uomini fossero nati dagli alberi e dalle roccie; nella leggenda di Cadmo tebano si fecero sorgere dai denti seminati di un serpente (l’ animale sacro più d’ ogni altro alla terra); gli abitanti dei luoghi lacustri dicevano i loro progenitori nati dai laghi, come Alalcomeneo di Beozia dal lago Copaide. Una opinione affatto diversa faceva risalire le umane stirpi, specie le stirpi regali ed eroiche, a qualche divinità, come Zeus, Posidone, Apollo, Ares, ecc. Posidone ad es. era detto il capostipite della stirpe eolia. Qui spesso s’ intrecciava questa teoria con quella dell’ autoctonia, in quanto si faceva un Dio sposo di qualche donna terrestre; così Giove unito con Pirra aveva generato Elle, con Dia Piritoo, con Egina Eaco, con Danae Perseo e via dicendo. Una terza opinione, relativamente più recente, immaginò i prischi uomini formati da qualche divinità colla terra, alla maniera che un artefice plasma delle figure d’ argilla. Dapprima si attribui questa origine solo alla prima donna sorgente d’ ogni male; a cominciare dal 5º secolo av. C. si diffuse la leggenda che spiegava così la formazione della umana stirpe; più tardi si fece autore di ciò Prometeo, figlio di Giapeto e di Climene (di Temi secondo Eschilo), il quale avrebbe formato uomini e bestie col limo e coll’ acqua, mentre Atena avrebbe spirato in essi il soffio della vita, l’ anima. Ancor più tardi a Prometeo si sostitui una dea Prometea, ossia la Cura, e si fecero così gli uomini creature della Preoccupazione e dell’ affanno.

Come intorno all’ origine, così varie erano le opinioni intorno alla condizione dei primi uomini, riferendosi dagli uni che fossero vissuti in istato di piena felicità e in intimità di conversare e di mensa cogli Dei, gli altri narrando invece che si trovano da principio rozzi e senza agi della vita, condizione da cui si sarebbero rilevati progredendo a poco a poco coll’ aiuto degli Dei. — Tra le leggende relative agli inizi dell’ umana cultura la più nota e anche la più bella è la leggenda di Prometeo. Dal Titano Giapeto e dall’ Oceanina Climene erano nati due figliuoli, Prometeo (il previdente o prudente) ed Epimeteo (chi pensa dopo, chi non ha che il senno di poi). Ora Prometeo rubò dal cielo il fuoco e ne le dono agli uomini insegnandone loro l’ uso; così divenne altamente benemerito della coltura umana, giacchè non solo favori alcuni agi della vita ma rese possibili le arti e l’ industria. Per questo Prometeo era messo insieme con Efesto ed Atena, Dei promotori dell’ umano progresso. Senonchè per il detto furto essendo stata come profanata la pura forza celeste, Zeus puni l’ autore di questa profanazione facendolo incatenare su una rupe nei monti della Scizia e ordinando che ogni giorno un’ aquila gli rodesse il fegato (sede d’ ogni mala cupidigia) che di notte sempre rinasceva. Alla fine Eracle lo liberò dalle catene dopo avere ucciso con una freccia l’ aquila, e avendo il centauro Chirone accettato di morire in luogo di Prometeo, ebbe luogo la riconciliazione tra Zeus e il Titano. Qui Prometeo è la personificazione dell’ ingegno umano, che troppo fiducioso in sè stesso si ribella agli Dei e usurpa quello che a loro spetterebbe, pur beneficando con ciò la società umana; della sua audacia deve pagare il fio, soffrendo inenarrabili dolori, fino a che non viene a liberarlo Eracle, l’ uomo che con lotte e fatiche d’ ogni maniera ha vinto la vita terrestre e s’ è fatto scala all’ Olimpo.

E un altro riflesso dell’ idea che col progredire della cultura tra gli uomini sorsero e si diffusero mali pria sconosciuti, è il mito di Pandora. Zeus, adirato per il rapimento del fuoco, non lo volle riprendere e privarne gli uomini, ma fè loro un altro dono che doveva essere sorgente d’ innumerevoli guai. Ordinò ad Efesto di plasmare con terra ed acqua una bella figura di donna; gli Dei andarono a gara per adornarla delle più graziose attrattive, Afrodite le diè il fascino della bellezza, Atena la fè abile in ogni arte, Ermes le diè in dono facile parola e accortezza d’ ingegno, le Ore e le Cariti l’ adornarono di flori e abiti leggiadri; così da tutti donata fu chiamata Pandora. Zeus però le consegnò una scatola chiusa dove si trovavano tutti i mali; e la fè da Ermes accompagnare per donaria ad Epimeteo. L’ imprudente, sebbene fosse stato avvisato dal fratello a non ricever doni da Zeus, non seppe resistere alle attrattive della donna e l’ accolse e la fè sua sposa. Da quel momento tutti i mali piombarono sulla misera umanità, giacchè la curiosità spinse Pandora ad aprire la scatola datale da Giove, e i mali là racchiusi subito volaron via e si dispersero. Chiuse bensì Pandora subito il coperchio della scatola appena s’ accorse dell’ errore commesso, ma non rimase dentro che la fallace speranza. Così nelle leggende greche non meno che nella tradizione mosaica la prima donna fu cagione di tutti i mali che afflissero l’ umanità, e primo di tutti della morte.

La storia dei primi uomini è narrata affatto diversamente nella leggenda delle varie età e generazioni umane. Dicevasi che in origine vi fosse stata un’ età d’ oro, in cui gli uomini vivevano in piena felicità, godendo dei frutti che la terra spontaneamente produceva; tutti i beni senza miscela di mali; non si sapeva che fosse vecchiezza; dopo lunghi anni gli uomini rimanevano come assorti nel sonno, e questa era la morte. Successe un’ età d’ argento, durante la quale gli uomini erano inferiori ai precedenti per forza di corpo e bontà di animo; rimanevan fanciulli fino a tarda età e s’ impigri vano in una morbosa sonnolenza. Trascuravan persino di rendere onori agli Dei; onde Zeus preso da furore disperse questa schiatta, e te essere l’ età del bronzo. Gli uomini di questa erano selvaggi e violenti; amanti di lotte e di guerre. Non ebbe bisogno Zeus di annientarli perchè da sè stessi si sterminarono colla loro irrefrenata furia. Seguì ultima l’ età del ferro, l’ età della decadenza morale e del disordine, l’ età del lavoro faticoso, conseguenza delle passate colpe; la lealtà, la sincerità, la verecondia hanno abbandonato la terra lasciandovi in lor vece le frodi, gli inganni, l’ avarizia e la violenza. — Tale la serie dell’ età umane giusta la leggenda comune, ma non mancavano varietà di racconti secondo i luoghi e le genti.

Connessa in qualche modo colla leggenda delle varie generazioni umane è l’ altra leggenda del diluvio di Deucalione; giacchè si affermava che il diluvio era stato mandato da Zeus appunto per disperdere le corrotte generazioni de’ viventi e ripopolare di nuove genti la terra. Deucalione era figlio di Prometeo; sua moglie era Pirra, nata da Epimeteo e Pandora. Avvertito da suo padre dell’ intenzione che Zeus aveva di sterminare con una generale inondazione tutti i viventi, Deucalione si costruì un’ arca ed ivi racchiusosi con Pirra galleggiò per nove giorni e nove notti sulle acque, finchè cessate le pioggie e ridiscendendo l’ acque, l’ arca prese terra sul monte Parnaso in Beozia. Così fu salvata dal naufragio la sola coppia di Deucalione e Pirra. I quali poi chiedendo grazia agli Dei, per ripopolar la terra ebbero ordine di velarsi la testa, disciogliersi le vesti e gettar dietro sè le ossa della gran madre. Il figlio di Prometeo acutamente interpreto l’ oracolo nel senso che le ossa della terra fossero le pietre; gettaron dunque delle pietre dietro sè, ed ecco miracolosamente queste pietre si mutaron in uomini, maschi e femmine, e di qui ebbo origine la nuova popolazione della terra.

4. Le leggende di Prometeo plasmatore d’ uomini e rapitore del fuoco celeste, di Pandora, delle età umane, del diluvio Deucalioneo diedero argomento a opere d’ arte sia letterarie sia figurate. Prometeo plasmatore non ricorre, a dir vero, che in opere relativamente tarde come nei poeti e mitografi dell’ età Alessandrina e negli scrittori romani a quelli ispiratisi. Ricordisi l’ oraziano:

Fertur Prometheus addere principi
     Limo coactus particulam undique
           Desectam et insani leonis
            Vim stomacho apposuisse nostr o; 46

dove si riferisce tradizione non nota da altri scrittori, rispetto all’ aver Prometeo mescolato al limo particelle tolte da diverse cose. — Nella statuaria Prometeo plasmatore veniva raffigurato seduto su una rupe, con davanti a sè una figura fatta di terra, nell’ atto che questa viene animata da Atena; il che è rappresentato col simbolo di una farfalla posta da Atena sulla testa della figura. Più vivace era la leggenda di Prometeo rapitore del fuoco, la quale oltre ad aver suggerito bei versi ad Esiodo tanto nella Teogonia quanto nell’ altro poema delle Opere e dei Giorni, diè ad Eschilo argomento di comporre la famosa trilogia che rappresentava i tre momenti del mito, il rapimento del fuoco, la punizione di Prometeo, e la sua liberazione. Sebbene noi più non abbiamo che la seconda tragedia, il Prometeo incatenato, pure è sufficiente a mostrarci l’ alto concetto che Eschilo si formò di Prometeo come di un Titano benefattore dell’ umanità, che ne è punito da Zeus, e pur tra i tormenti tiene alta la testa e invitto l’ animo contro il suo oppressore. — Non mancano neppure rappresentazioni figurate di questo mito; in un sarcofago del Museo Capitolino a Roma è rappresentata in rilievo l’ officina di Efesto cogli operai che battono sull’ incudine, di dietro un riparo scorgesi a mezzo la figura di Prometeo con una cannuccia in mano, pronto a rapire il fuoco. Da una parte si vede una coppia di uomini, maschio e femmina; forse sono Deucalione e Pirra, considerati come i primi uomini, e così è messo in corrispondenza il mito di Prometeo creatore e quello del rapimento del fuoco.

Il mito delle umane età leggesi in molti autori, diversamente riferito, e con più o meno compiuta enumerazione; qui ricordiamo soltanto il lungo passo di Esiodo nel poema delle Opere e dei Giorni (v. 109 e seg.), e la bella notissima narrazione che è nel primo delle Metamorfosi Ovidiane. Anche del diluvio di Deucalione la miglior pittura è quella di Ovidio nello stesso libro (vv. 260-415).

Capitolo secondo.
Leggende regionali. §

I. Tessaglia. §

a) Lapiti e Centauri. §

1. Tra le leggende tessale più antiche e a cui più spesso s’ ispirarono gli artisti, va annoverata quella della lotta tra i Lapiti e i Centauri. Già ne parla Omero, il quale fa dire al vecchio Nestore che nella sua prima giovinezza aveva preso parte alla tremenda lotta. I Lapiti e i Centauri erano tribù selvaggie e fortissime, abitatrici delle montagne della Tessaglia; i Lapiti abitavano sulle pendici meridionali dell’ Olimpo, i Centauri nelle selve del Pelio. Questi ultimi si dicevano figli di Issione e di Nefele, cioè una nuvola foggiata da Giove a somiglianza di Era. La forma comunemente attribuita ai Centauri, di mostri mezzo uomini mezzo cavalli, non era stata pensata ancora ai tempi di Omero, il quale parla solo di uomini pelosi, dalle chiome arruffate, rozzi e violenti. Non molto prima dell’ età di Pindaro l’ immaginazione greca concepi l’ idea di que’ mostri. La lotta dei Lapiti e dei Centauri, la quale divenne simbolo della lotta tra la civiltà greca e i superstiti della primitiva barbarie pelasgica, ebbe occasione e principio durante le feste per le nozze di Piritoo, re dei Lapiti e di Ippodamia, alle quali i principali fra i Centauri erano stati invitati. Uno di questi, Eurito, ebbro dal vino, fè atto di rapire con violenza la sposa; ciò dà luogo a una zuffa che diventa a mano a mano più fiera, infin che i Centauri completamente sconfitti dovettero fuggire dalle loro sedi a oriente della regione Tessala e ricovrarsi sul Pindo, a occidente. A questa lotta presero parte, a difesa dei Lapiti, Teseo e Nestore, amici di Piritoo. — Fra i campioni loro è da ricordare Ceneo, nato femmina poi mutato da Posidone in un uomo, e fatto invulnerabile; per colpi che ricevesse dai Centauri, sempre rimaneva illeso e forte, sicchè i Centauri per levarlo di mezzo furono obbligati a seppellirlo sotto una catasta di alberi.

In leggende posteriori i Centauri figurano meno selvaggi, e come ingentiliti a contatto della Greca civiltà. Allora furono considerati come Genii e messi in rapporto con Dioniso, come i Satiri, i Sileni; si diceva accompagnassero docili e manierosi il carro di lui, sonando il corno o la lira. Tra questi Centauri men rozzi tiene il primo posto Chirone, figlio di Crono e dell’ Oceanina Filira, già menzionato da Omero come amico di Peleo ed educatore di Achille, cui egli avrebbe ammaestrato nella medicina e nella ginnastica. Più tardi lo si fece educatore anche di altri e altri esseri mitici, come Castore e Polideuce, Teseo, Nestore, Meleagro, Diomede, ecc. Abitava in una caverna dei Pelio, ma dopo la cacciata dei Centauri da quel monte, si diceva avesse posto sede sul promontorio Malea. Ferito per disgrazia con una delle freccie avvelenate del suo amico Eracle, rinunziò all’ immortalità per favorire Prometeo, in luogo del quale accettò di scendere all’ Inferno.

2. Una vivace e colorita descrizione della lotta fra i Lapiti e i Centauri leggesi nel 12o delle Metamorfosi Ovidiane. Il racconto è messo in bocca a Nestore, che premesso il fatto di Ceneo convertito in maschio e fatto invulnerabile, ricorda le feste nuziali di Piritoo, e poi racconta come principiò e come si svolse la terribile zuffa, entrando in molti particolari di nomi e di fatti. — Più numerose sono le rappresentazioni figurate di questo mito. E qui si avverta che mentre l’ arte più antica rappresentava i Centauri colla faccia d’ uomo, il corpo e le gambe posteriori di cavallo, si cominciò ai tempi di Fidia a immaginare quella forma più bella che poi venne universalmente adottata, la quale al corpo di un cavallo con tutte quattro le zampe univa il petto e la faccia d’ uomo. Innumerevoli monumenti antichi ci presentano questa figura. Una antichissima e celebre Centauromachia era quella del frontone ovest del tempio di Zeus in Olimpia, opera attribuita ad Alcamene; se ne sono scoperti di recente importanti frammenti, dai quali si è potuto ristabilire con probabilità l’ ordine delle figure. Un’ altra Centauromachia ammiravasi nel fregio del Teseo di Atene; ed altra serie di rappresentazioni simili era nelle metopi meridionali del Partenone. Di quest’ ultime un buon numero esiste ancora, conservate nel Museo Britannico di Londra; sono varie scene, ora è un centauro che porta via una donna da lui rapita tenendola strettamente abbracciata; ora un altro galoppa sopra i cadaveri dei nemici uccisi; ora son scene di lotta, come quella che è rappresentata nella fig. 72. Nel loro complesso volevan significare la lotta degli uomini inciviliti (nel nostro caso gli Ateniesi condotti da Teseo) contro la brutalità ferina. Nè vanno taciute le non meno belle rappresentazioni di Centauromachia che erano nel fregio del tempio di Apollo Epicurio a Basse presso Figalia in Arcadia, tempio costruito nei migliori tempi dell’ arte greca. Detto fregio fu scoperto nel 1812 e se ne conservano importanti frammenti nel Museo Britannico.

Anche statue di Centauri isolati furono spesso fatte dagli antichi artisti, e parecchie n’ esistono ancora. Le fig. 73 e 74 riproducono due Centauri in marino scuro del Museo Capitolino, l’ uno di tipo più vecchio l’ altro più giovane, opere di due celebri scultori, Aristea e Papia di Afrodisia. Furon trovate nella villa dell’ imperatore Adriano a Tivoli.

b) Admeto e Alcestide. §

1. Una bella leggenda di origine tessala è quella che riguarda Admeto e Alcestide. Admeto era figlio di Fere (Pheres), fondatore della città di Fere in Tessaglia; regnava sulle fertili terre poste in vicinanza del lago Bebeide (ora Bio). Frui di grande prosperità e ricchezza, in grazia di Apollo, il quale, allorquando, in punizione d’ aver ucciso co’ suoi dardi i Ciclopi fu obbligato a rimaner schiavo di qualche mortale, venne da Admeto e stette un intiero anno al suo servizio come pastore. In questo tempo strinsero tra loro un’ intima amicizia; gli armenti di Admeto prosperavano in maniera meravigliosa; Apollo lo aiutò anche ad ottenere in moglie la bella Alcestide, figlia di Pelia re di Iolco, adempiendo la condizione imposta dal padre della sposa di aggiogare allo stesso carro un cinghiale ed un leone. Durante le feste nuziali, Apollo dando a bere del dolce vino alle Moire, le indusse a promettere che giunta l’ ultima ora di Admeto, esse lo avrebbero lasciato in vita purchè si trovasse un’ altra persona disposta a scendere per lui all’ Ade. Allorchè giunse questo momento, non vollero nè il vecchio padre di Admeto nè la madre morire pel figlio, per quanto secondo il corso naturale delle cose non dovesse essere lontana la loro ora; invece la bella e fiorente Alcestide, sebbene affezionatissima a’ suoi due figliuoli, non dubitò accettar la morte per prolungar la vita al marito. Persefone, commossa da un si bell’ esempio di fedeltà, la rimandò ad Admeto; o secondo un’ altra leggenda, Eracle capitato in quel momento a casa di Admeto, strappò, dopo violenta lotta, alla Morte la sua preda. Il figlio di Admeto e Alcestide, Eumelo di nome, figura fra gli eroi greci a Troia, e si la notare specialmente per la bellezza de’ suoi cavalli; Apollo stesso li aveva più volte abbeverati alla celebre fonte Iperea presso Fere.

2. Admeto fu più volte argomento di lavori poetici in Grecia; ma il più bel monumento innalzato a celebrare la fortuna di lui e l’ atto eroico di Alcestide, è la tragedia di Euripide che da Alcestide appunto s’ intitola. Ivi dopo un fiero dibattito tra Febo e la Morte che è venuta per rapir sua preda, si assiste agli ultimi momenti dell’ eroica sposa; il suo distacco dal marito e dai figli non potrebbe esser più commovente; sopraggiunge Eracle, chè tal leggenda seguì Euripide, il qual Eracle sentito di che si trattava recasi alla tomba della defunta, e dopo fiera lotta con la Morte, ne torna riconducendo ad Admeto la sposa rivivente; onde la tragedia si chiude tra inni di gioia e di festa.

II. Beozia e Tebe. §

a) Cadmo. §

1. Tra le leggende tebane la più nota è quella di Cadmo, fondatore di Tebe. Era costui figlio di Agenore, re fenicio, e quindi fratello di Europa. Allorchè Europa era stata portata via da Zeus in forma di toro, e già era giunta all’ isola di Creta, Agenore disperato mandò Cadmo in cerca della sorelia, minacciandogli pena d’ esiglio se non la ritrovasse. Dopo avere indarno scorsa la terra, Cadmo recossi a interrogare l’ oracolo di Delfo, e n’ ebbe in risposta, tralasciasse di cercar la sorella, ma seguisse una vacca con macchie sul fianchi a forma di mezzaluna che egli avrebbe incontrato, e dov’ essa si fosse posata, ivi fondasse una città. Cadmo obbedi a quest’ ordine, e trovata nella Focide la vacca indicatagli, e seguitala, ove si fermò, ivi fondò la città detta da lui Cadmea, che più tardi fu Tebe. Ma una pericolosa avventura ivi attendevalo. Apparecchiandosi a sacrificare la vacca a Zeus, avendo mandato i suoi compagni ad attingere acqua ad una fonte vicina per le libagioni, un drago sacro a Marte, custode della fonte, sbucò fuori dall’ antro ov’ era nascosto e tutti li uccise. Poco dopo Cadmo, insospettito, andò egli stesso alla fonte, e vista la strage de’ suoi, sostenne fiera lotta col drago e infine l’ uccise. Allora ammonito da Minerva, seminò in terra i denti di quel drago. Ed ecco ben presto spuntar fuori dalla terra tutta una falange d’ uomini armati, i quali cominciano a lottar furiosamente fra di loro e ferirsi e uccidersi. Cinque soli rimasero superstiti di questa feroce pugna, chiamati Echione, Udeo, Ctonio, Peloro e Iperenore. Questi aiutarono Cadmo nella fondazione della città e diventarono i capistipite delle nobili famiglie di Tebe. Senonchè in espiazione di aver ucciso il drago, Cadmo dovè servire per otto anni ad Ares. Passato questo tempo, Ares gli perdonò e anzi gli diede in moglie Armonia figlia di lui e di Afrodite. Da queste nozze nacquero quattro celebri figliuole, Autonoe, Ino, Semele e Agave, e un maschio Polidoro, padre di Labdaco. Dopo aver lungo tempo regnato su Tebe, Cadmo insieme con Armonia passarono in Illiria; in ultimo poi, trasformati in draghi, entrambi furono da Zeus ammessi all’ eterna vita dei Campi Elisi.

Molti fra i motivi di questa leggenda sono certamente antichi, ad es. l’ uccisione del dragone, che vuol dire l’ eliminazione di impedimenti naturali alla cultura del suolo, giacchè Ares cui il drago era sacro è apportatore di miasmi e pestilenza, e appunto la Beozia in antico era regione paludosa e non sana. Anche la seminagione dei denti del drago e la nascita di uomini armati dalla terra è motivo antico; ma a questi si mescolarono leggende posteriori, come l’ origine fenicia di Cadmo di cui ancora Omero non sa nulla. Piuttosto è da credere che Cadmo fosse una specie di Ermes tebano, venerato dai Tebani come l’ ordinatore loro e il promotore della più antica cultura in Beozia.

2. Il mito di Cadmo, oltrechè nelle Fenicie di Euripide, trovasi magistralmente esposto nel terzo delle Metamorfosi di Ovidio. Poche le rappresentazioni figurate; citeremo un vaso greco del Museo di Napoli, ove Cadmo è raffigurato in atto di scagliare una pietra sul drago, mentre dietro lui sta Atena che dirige i suoi colpi, e davanti una figura seduta che personifica la nuova città che dev’ essere fondata.

b) Atteone. §

1. Già s’ è avuto occasione di ricordare le avventure delle figlie di Cadmo, e de’ loro figliuoli, cioè di Ino madre di Melicerte, di Semele madre di Dioniso, di Agave madre di Penteo; e già s’ è toccata anche la sorte toccata al figlio della più vecchia Autonoe, cioè Atteone, mutato in cerva e sbranato da’ suoi cani per castigo di aver vista in bagno Artemide, o come altri narrava, per essor venuto a gara con lei di abilità cacciatrice. Qui s’ aggiunga che il padre di Atteone era stato Aristeo figlio di Apollo, e che egli era stato affidato per l’ educazione a Chirone, il quale ne aveva fatto un abile cacciatore e guerriero. Dopo la sua morte, Atteone fu venerato in Beozia e lo si invocava per protezione contro gli effetti disastrosi del sole canicolare. Forse Atteone sbranato dai cani non era altro che un’ immagine della natura vegetativa che soffre e avvizzisce ai raggi cocenti della canicola.

2. Al vivo e commovente racconto che di questo episodio fa Ovidio nel terzo della Metamorfosi fanno riscontro le molte opere di pittura e scoltura che ancor oggi rappresentano Atteone in lotta coi cani. Riproduciamo nella fig. 75 un piccolo gruppo in marmo che conservasi nel Museo Britannico. Ivi Atteone non ancora trasformato in cervo, ma già fornito di corna che prenunziano la metamorfosi, si difende da due de’ suoi cani che lo hanno assalito.

c) Antiope e i suoi figli, Anfione e Zeto. §

1. Allorquando Cadmo lasciò Tebe, già era morto suo figlio Polidoro; ed essendo il figlio di lui Labdaco ancora in tenera età, rimase reggente dello Stato Nitteo, di stirpe regale, proveniente dalla città di Iria (Hyria o Hysia) in Beozia. Nitteo aveva una figliuola di straordinaria bellezza, chiamata Antiope. Costei avendo concesso i suoi favori a Zeus avvicinatosi a lei in forma di Satiro e sentendosi madre, per sfuggire lo sdegno paterno, recossi a Sicione, dove il re Epopeo l’ accolse e fe’ sua sposa. Nitteo allora mosse guerra ad Epopeo per obbligarlo a restituire la figliuola; ma non vi riuscì e morendo lasciò al fratello Lico, erede del trono, l’ incarico di far le sue vendette. Lico riprese la guerra, vinse ed uccise Epopeo e condusse seco prigioniera Antiope. La quale per via die’ alla luce, presso Eleutera sul Citerone, i gemelli Anfione e Zeto. Furon questi immediatamente esposti, ma da un pietoso pastore raccolti e allevati. Intanto Antiope non solo viveva come schiava in casa dello zio, ma subiva i più duri maltrattamenti per opera di Dirce moglie di Lico. Alfine riuscì a fuggire, e per fortunata combinazione trovò nelle solitudini del Citerone i suoi due figli omai cresciuti, ai quali, dopo riconosciuta, raccontò le sue sciagure e li indusse a tremenda vendetta. Essi difatti conquistaron Tebe, uccisero Lico, e legarono Dirce tra le corna d’ un toro infuriato facendola così trascinare a crudel morte. Secondo un’ altra leggenda, Dirce essendo andata sul Citerone per prender parte a una festa bacchica, ivi trovò la schiava fuggitale; subitamente ordinò a due pastori che erano per caso presenti, ed erano Anfione e Zeto, di dare a colei la meritata morte legandola sulle corna d’ un toro infuriato; e già quelli s’ accingevano all’ impresa, quando fatti certi dell’ essere loro dal vecchio pastore che li aveva allevati e riconosciuta la madre, subitamente la vendicarono eseguendo su Dirce il supplizio a cui ella voleva condannata Antiope; ne gettarono poi il cadavere in una fonte presso Tebe che da lei fu denominata Dircea.

Coll’ uccisione di Lico e di Dirce, il governo di Tebe tornò ai Cadmidi. Anfione e Zeto regnarono insieme, ma il vero re era Anfione. Il carattere di questi due fratelli, veri Dioscuri Tebani, è dalla leggenda dipinto come affatto diverso. Ruvido Zeto, aspro nei modi, dedito a vita dura e faticosa, appassionato cacciatore; Anfione gentile d’ animo, cultore della musica e della poesia, proraotore di ogni più fina arte. Si mostrò questa differenza anche nella costruzione delle famose mura di Tebe, opera appunto attribuita al loro governo. Zeto stesso portava a spalle i più pesanti massi, più forte di qualsiasi manovale; ma Anfione al suono dolcissimo della lira moveva le pietre, si che da sè si ponevano una sopra l’ altra dove occorreva.

Ancora son dalla leggenda ricordati i Dioscuri Tebani per la triste sorte toccata alla loro famiglia. Anfione aveva sposato Niobe figlia di Tantalo re della Frigia, sorella di Pelope; e n’ aveva avuto numerosa prole, sei maschi e sei feminine secondo alcuni, secondo altri dieci per sorta. Era una famiglia felice, e i tanti figli com’ erano la gioia dei regal padre, così erano l’ orgoglio della madre fortunatissima. Ma da questa felicità dovevano piombare nella più crudele delle sventure. Niobe insuperbitasi della sua fortuna e della sua stirpe divina (Tantalo suo padre era figlio di Zeus), voleva impedire alle donne tebane il culto alla dea Latona e a’ suoi figli, di cui ella stimavasi di molto superiore; la stessa superbia onde già era stato punito Tantalo. Le offese Divinità non tardarono a scendere alla vendetta. I figli di Anfione e Niobe perirono tutti a uno a uno colpiti dalle freccie di Apollo e Diana. I poveri genitori non sopravvissero a tanto dolore; Anfione si uccise da sè, Niobe impietrita dal dolore fu mutata in sasso e trasportata sul monte Sipilo in Frigia, dove ancor non cessa di versar lagrime. — Non più felice ne’ suoi rapporti domestici fu Zeto. Egli sposò Aedona (l’ usignolo), una figlia di Pandareo, l’ amico e compagno di Tantalo per il quale ei rubò un cane dal tempio di Zeus in Creta e perciò fu mutato in sasso. Aedona ebbe da Zeto un unico figliuolo, che presso Omero ha nome Itilo, presso i tragici Iti (Itys). Gelosa di Antiope che n’ aveva tanti più, concepì il malvagio disegno di uccidere nottetempo il figlio maggiore di Antiope; ma in iscambio uccise il proprio. Di che rimase afflitta tanto che la sua vita seguente fu tutta un piangere e lamentarsi. Convertita da Zeus in usignolo, continua co’ suoi queruli trilli a rammentar la sua disgrazia.

Della morte di Zeto nulla lasciò detto la tradizione; pero in Tebe si faceva vedere la tomba comune dei Dioscuri Tebani. Dopo la loro morte il trono di Tebe passò a Laio figlio di Labdaco, nipote di Polidoro. Le avventure tragiche toccate ai Labdacidi saranno narrate altrove.

2. Un fatto così interessante e tragico come la vendetta di Antiope e il supplizio di Dirce era naturale entrasse presto nel dominio della letteratura e dell’ arte. La letteratura drammatica ne trasse argomento per alcune tragedie celebri; basti ricordare quella d’ Euripide, imitata poi in latino da Pacuvio. Tra le opere di scoltura è degnissimo di menzione il celebre grandioso gruppo in marmo che si conserva nel Museo Nazionale di Napoli, detto il Toro Farnese, di cui riproduce il disegno la fig. 76. All’ infuori di poche parti ristorate, si ritiene che sia lavoro originale dei fratelli Apollonio e Taurisco di Tralle in Caria, appartenenti alla scuola rodia fiorita nel 3º sec. av. C. Il monumento eretto originariamente in Rodi, al tempo d’ Augusto venne in possesso di Asinio Pollione che lo portò a Roma. Trovato nel 1547 nelle terme di Caracalla e collocato prima nel palazzo Farnese, nel 1786 passò a Napoli con l’ eredità Farnese. La scena è raffigurata sulle cime rocciose del Citerone. I due fratelli stan domando il toro; Anfione si riconosce alla lira che è scolpita vicino a lui; l’ altro è Zeto; la donna davanti, in atto di chieder pietà, è Dirce, mentre Antiope raggiante di gioia per la vendetta che si compie è posta più dietro. Sul davanti un piccolo Dio montanino contempla la scena con espressione di dolore. La cesta mistica che è ai piedi di Dirce, la pelle di cavriuolo ond’ essa è vestita e altre cose indicano che il fatto avviene in occasione di una festa bacchica, come si suppone nella tragedia euripidea. E un monumento grandioso a un tempo e mirabile per l’ armonia delle linee; il raggruppamento delle figure in forma piramidale dà più vivacità all’ azione e insiem soddisfa l’ occhio del riguardante.

Il contrasto di carattere fra Zeto e Anfione è pure un motivo artistico frequente in poesia e ispiratore di parecchie opere di pittura o scoltura. La fig. 77 riproduce un bel rilievo del palazzo Spada a Roma intorno a questo soggetto. Il cane contraddistingue Zeto cacciatore, la lira Anfione; i due fratelli par che disputino tra loro vantando senza scomporsi l’ arte propria, così come li fanno parlare i poeti tragici.

Altro motivo di grande effetto artistico doveva essere la sciagura di Niobe. Chi non ricorda le superbe parole messe a lei in bocca da Ovidio nel sesto delle Metamorfosi, poi la descrizione viva e vera della morte dei figli di lei, e l’ espressione del suo immenso dolore? Quando eran già tutti morti, salvo l’ ultima figliuola, la madre, narra Ovidio, ricoprendola con tutto il suo corpo e con le sue vesti, gridava rivolta a Latona: « lasciatni almen questa ch’ è la minore! Di tante quest’ unica ed ultima figlia ti chieggo! ». Ma dovette vedere anche quella per cui pregava cader trafitta; onde affranta dal dolore impietrò. Ora Niobe appunto che sta coprendo la sua figlia e supplicando per lei, eccola (fig. 78) in marmo, scolpita da mano antica, la qual statua fa parte del celebre gruppo dei Niobidi conservato nella Galleria degli Uffizi a Firenze. Son copie fatte a Roma di sculture classiche greche, forse di Prassitele stesso o di Scopa. Il gruppo fiorentino fu trovato nelle vicinanze del Laterano nel 1583; appartenne al Cardinal Medici e nel 1775 fu portato a Firenze. Le singole statue sono ammirabili per l’ espressione del dolore, e tutta la scena è piena di spavento e di compassione per la sorte toccata a quella gioventù bella e infelice. Varii sono gli atteggiamenti; un giovane giace morto; un altro si reclina moribondo; una figlia spira pietosamente sostenuta dal fratello. Ma il somnio della pietà è nella statua della madre, detta la mater dolorosa dell’ arte antica; il suo però non è un dolore rassegnato; il suo occhio piangente, volgendosi al cielo, accusa insieme la prepotente vendetta del nume sul capo innocente dei figliuoli. Se la grandiosa composizione dei Niobidi fosse in origine collocata nel frontone di un tempio o se le statue fossero ordinate nell’ interno del tempio ovvero disposte separatamente fra gli intercolunnii di un portico, è questione che si è molto agitata tra gli archeologi e gli eruditi, ma non è ancora stata risolta in modo del tutto soddisfacente.

III. Corinto. §

a) Sisifo. §

1. L’ eroe fondatore dell’ antica Efira, detta poi Corinto, era, secondo la tradizione, Sisifo, figlio del tessalo Eolo, nipote di Elleno. Omero lo qualifica il più avido di guadagno fra gli uomini; allusione probabilmente al cupido commercio onde fiorivano i Corinzii. Le leggende relative a Sisifo concorrono a tratteggiarlo come eroe di una straordinaria scaltrezza. Quando Zeus rapì da Fliunte Egina la figlia del fiume Asopo, si dice che egli abbia scoperto il segreto e rivelatolo al padre; cio a condizione che Asopo facesse scaturire una fonte nella cittadella di Corinto; di qui la celebre fonte Pirene. Avendo Zeus, per questo tradimento, mandato a Sisifo la morte, egli colla sua malizia riuscì a legare la morte stessa con si stretti nodi che nessuno più moriva, onde dovette ricorrere Ares per liberarla; il quale allora a lei consegnò Sisifo. Ma questi riuscì anche questa volta a salvarsi; perchè prima di morire avendo ordinato a sua moglie di non celebrare funerali per lui, andato in Inferno, si presentò a Plutone e Persefone lagnandosi della trascuratezza della moglie e tanto seppe fare e dire che gli fu consentito di tornare in vita per castigar la moglie; ma una volta vivo egli non volle più scendere all’ altro mondo e morì poi ben più tardi di morte naturale. Per tutte queste gherminelle Sisifo ebbe in inferno la nota pena di trascinare su per un monte un gran masso, che dalla cima poi riprecipitava a valle.

Si è molto discusso sull’ origine del mito di Sisifo. La situazione di Corinto fra due mari che senza posa ondeggiando ne sferzano gli scogli e i monti dall’ una e dall’ altra parte, renderebbe probabile che le leggende relative all’ eroe cittadino fossero un riflesso di questo fenomeno naturale. Ma in quelle leggende non si scorge punto questo significato. Piuttosto il Sisifo che rotola un masso su pel monte e lo vede dalla cima precipitare in fondo, fa pensare al sole che dopo aver raggiunto al solstizio d’ estate il punto più alto che esso può toccare del cielo, si volge e riprende a discendere la sua china per ricorninciare il gioco dopo il solstizio d’ inverno.

2. Sisifo die’ argomento a diversi drammi di Eschilo, il quale sceneggiò sia il lato serio di questo carattere in una tragedia, sia il lato umoristico in un dramma satirico. Un dramma satirico su questo soggetto scrisse anche Euripide. — In mano ad altri poeti popolari, Sisifo diventò l’ eroe della sofistica e della malizia, inventore d’ ogni sorta mtrighi, ma anche della divinazione per via dell’ esame delle interiora.

b) Glauco. §

1. Glauco era figlio di Sisifo e padre di Bellerolonte. Propriamente Glauco non era che un epiteto del mare, e in fatto lo troviamo in relazione con Posidone Ippio. È ricordato per la disgrazia che gli toccò nei giochi funebri che ebbero luogo a Iolco in onor di Pelia, o, come altri narra, in altri giochi di Potnia presso Tebe; e la disgrazia fu che i cavalli suoi infuriati gli guadagnaron la mano e ne fecero strazio; simbolo forse delle onde infuriate del mare nella stagione delle tempeste che al loro stesso signore fan violenza. Dopo d’ allora fu venerato come spauracchio dei cavalli da corsa nei santuari di Posidone e negli ippodromi.

2. Il Glauco di Potnia diè argomento a una tragedia di Eschilo; e le disgraziate quadrighe di Potnia son qua e là ricordate dai poeti greci e latini. Serva d’ esempio il noto luogo delle Georgiche, libro terzo, dove discorrendosi delle cavalle in furia si dice:

… ante omnes furor est insignis equarum,
Et mentem Venus ipsa derlit, quo tempore Glauci
Potniaies malis membra absumpsere quadrigae47.

Vedi anche i versi 553 e 554 dell’ Ibis di Ovidio.

c) Bellerofonte. §

1. Un altro eroe nazionale dei Corinzii era Bellerofonte (bellerophon ovvero Bellerophontes). Era questi figlio di Glauco o di Posidone, nato e cresciuto in Corinto. Non è detto per qual causa (giacchè l’ uccisione attribuitagli di un cotal Bellero non è che una leggenda assai tarda originata dalla etimologia supposta del nome), Bellerofonte dovette abbandonare la sua patria e rifugiarsi in Tirinto, ove ebbe benigna accoglienza dal re Preto. Ivi avvenne che la moglie di Preto, chiamata Antea da Omero, Stenebea (Stheneboea) presso i Tragici, concepi ardente amore per il giovine ospite dall’ aspetto bello e nobile; ma non volendo Bellerofonte, nuovo Giuseppe, cedere alle lusinghe di lei, ella lo accusò al marito di aver tentato tradire i doveri dell’ ospitalità. Allora Preto per vendicare il creduto insulto, pensò mandar Bellerofonte al suo suocero Jobate re della Licia, con una tavoletta suggellata, entrovi dei segni segreti per avvertire lo suocero che dovesse dar morte al latore. Bellerofonte mosse verso la Licia in compagnia del cavallo alato Pegaso; quel cavallo che era figlio di Posidone e di Medusa, sorto dal tronco di lei quando Perseo le aveva tagliato la testa; e che poi posatosi sulla rocca di Corinto fu da Bellerofonte, coll’ aiuto di Atena, domato. Jobate accolto l’ ospite Corinzio e intesi i segreti segni del genero, pensò di mandare Bellerofonte in rischiose avventure, persuaso vi avrebbe trovato la morte. E di qui in avanti Bellerofonte diventa l’ eroe nazionale dei Licii. La prima impresa a cui lo mandò Jobate fu di combattere la Chimera, mostro nato da Tifone e da Echidna, che davanti era leone, a mezzo capra selvatica, dietro drago, o come Esiodo dice, aveva tre teste, di leone, di capra e di drago, e che possedendo grande velocità e forza e spirando fuoco dalle nari, infestava il paese intorno intorno. Bellerofonte, stando sul suo cavallo in aria, potè a distanza saettar la fiera ed ucciderla. Appresso fu mandato contro i Solimi, popolazione montana delle vicinanze, nemica ai Licii. Vinse anche questi felicemente. Allora fu mandato contro le terribili Amazoni, le donne guerriere che formavano Stato da sè, senza uomini, dedite ad esercizi di guerra; le quali, secondo la leggenda, solevano recidersi la mammella destra per non aver impedimenti nel maneggio dell’ arco; il loro regno si diceva essere in Cappadocia presso il fiume Termodonte con Temiscira per capitale, oppure nel paese degli Sciti sulle rive delle palute Meotide; di là era voce che avessero fatto già di molte scorrerie nei paesi posti sulle rive dell’ Egeo; vedremo che si favoleggiava persino di una venuta delle Amazoni in Attica dove Teseo ebbe a combatterle. Bellerofonte adunque mosse contro le Amazoni, e vincendole superò anche questo pericolo. Infine al ritorno, Jobate gli tese un’ imboscata deciso di farla finita con lui, ma il divino eroe se la cavò anche allora uccidendo a uno a uno tutti i suoi assalitori. Finalmente Jobate preso d’ ammirazione per Bellerophonte così valoroso e così evidentemente protetto dagli Dei, si riconciliò con lui, gli diè in moglie la sua figliuola e lo le’ sovrano di una parte della Licia. Non molto però potè godere Bellerofonte la felicità guadagnata con tanta fatica; giacchè narra Omero che venuto in odio agli Dei, prese a errar solitario, evitando il contatto degli uomini fin che miseramente perì. Secondo Pindaro, si sarebbe attirato l’ odio di Zeus per aver voluto in groppa al suo Pegaso salire al cielo; e Zeus l’ avrebbe punito mandando un assilio che morse e fe’ infuriare il cavallo, il quale buttò giù il cavaliere e da solo poi si levò al cielo ove ancor ora tira il carro del tuono. — Ancora è da ricordare la fine di Stenebea. Raccontasi che fatto re di parte della Licia, Bellerofonte tornò a Tirinto sul suo Pegaso, e riaccese l’ amore di Stenebea per lui. Allora egli la prese con sè sul cavallo alato come per condurla nella sua nuova sede; ma per via la balzò giù in mare. Alcuni pochi pescatori ne portarono a Tirinto la salma.

Se si ricerca qual sia l’ origine del mito di Bellerofonte, indubbiamente si troverà che esso è una delle tante personificazioni del sole. Figlio di Posidone e di Glauco poteva ben essere dai Corinzii detto il Sole, il quale ogni giorno sembrava a loro sorgere dalle onde del mare; e del resto il culto di Posidone e quello di Apollo o Elio si trovano spesso connessi; le lotte poi coi’ mostri sono la solita traduzione mitica delle lotte fra il sole e i mostri delle tenebre.

2. La favola di Bellerofonte ha la sua parte nelle opere letterarie ed artistiche dell’ antica Grecia e di Roma. Un lungo racconto si legge già nel sesto dell’ Iliade (v. 150-211). Poi si sa che Sofocle compose una tragedia intitolata Jobate, ed Euripide una su Stenebea. Allusioni a questo eroe e alle sue vicende si incontrano assai spesso, ricordandosi o il cavallo alato o la Chimera o le Amazoni o la trista fine di lui, questa paragonando a quella di Fetonte, come fa ad es. Orazio nell’ 11a ode del libro 4o dove insegnando a moderare i desideri, dice: terret ambustus Phaëthon avaras spes et exemplum grave praebet ales Pegasus terrenum equitem gravatus Bellerophontem.48 — Anche le arti figurative hanno trattato di sovente questo soggetto; molte monete e gemine corinzie o asiatiche portano l’ impronta del cavallo alato, molte pitture vascolari trattano questo o quel momento della favola. È celebre la Chimera di Arezzo, pregiato lavoro in bronzo che ora conservasi nel Museo Etrusco di Firenze. La figura delle Amazoni infine fu una delle più trattate dai greci scultori. Le solevano rappresentare come vigorose e florenti fanciulle, somiglianti ad Artemide o alle sue ninfe ma con membra più tarchiate; armate quasi sempre di bipenne e di scudo a mezzaluna. Plinio racconta che una volta Fidia, Policleto, Fradmone e Cresila, per desiderio di quei d’ Efeso, fecero a gara chi scolpisse la più bella Amazone. Vinse Policleto con una statua di bronzo che fu conservata parecchio tempo nel tempio di Artemide in Efeso. Anche ora molte statue ci rimangono di Amazoni. Se ne possono distinguere tre tipi: 1º la Amazone ferita, come quella celebre che è nella raccolta Capitolina (fig. 79); si crede una copia derivata dall’ originale del sunnominato Cresila, che appunto nella gara efesia aveva effigiato un’ Amazone ferita. Si avverta che il braccio destro è restauro moderno. 2º L’ Amazone armata di asta, che è il modo come avevala effigiata Fidia. Una bella statua di questo genere è nella Galleria Vaticana, portatavi dalla Villa Mattei ove prima trovavas; un’ altra è quella riprodotta alla fig. 80, che è del Museo Capitolino. 3º L’ Amazone in riposo, che si crede risalga al tipo di Policleto; bellissimo esemplare se ne trova nel Braccio nuovo del Vaticano e altri altrove.

IV. Argo. §

a) Io. §

1. La più illustre famiglia Argiva si volera discendesse da Inaco, propriamente il Dio del fiume omonimo, che era il corso d’ acqua più importante della regione. Di Inaco si diceva figlio Foroneo, rappresentante del territorio fecondo di Argo, detto da alcuni il primo uomo, venerato come iniziatore della coltura del paese, e fondatore del culto di Era sul monte Eubea, in genere come autore dell’ ordinamento civile e religioso degli Argivi. Sorella di Foroneo, non men celebre di lui era Io, la cui storia antichissima fornì argomento a più e diversi racconti di poeti e mitografi. Eccola in breve. Io, sacerdotessa di Era, attrasse a sè, per la sua singolare bellezza, gli sguardi di Zeus che se ne innamorò. Di che accortasi la gelosa Era, mutò la sua sacerdotessa in una bianca vacca e l’ affidò alla custodia di Argo dai cent’ occhi. Chi puè dire il dolore e della povera fanciulla che senza aver perso la coscienza di sè si vedeva mutata in vacca e invano accostavasi al padre per implorar pietà, e del padre stesso che accortosi a certi segni della cosa s’ avvinghiava al collo della candida giovenca senza nulla poter fare per lei? Alfine Zeus, mosso a compassione di Io, mandò Ermes che la liberasse dal vigile e oculato custode. Ermes riuscì ad addormentare tutti gli occhi di Argo, e netta gli recise la testa dal busto, onde l’ epiteto ch’ ei s’ ebbe di Argifonte. Ma Era, pronta alla vendetta, mandò un assillo alla giovenca, e questa infuriata dal di lui morso cominciò a correre all’ impazzata vagando per molte terre d’ Europa e d’ Asia, finchè si posò in Egitto. Ivi Zeus la ritornò alla sua prisca forma, ed ella die’ poi alla luce un figlio, chiamato Epafo, che divenne re d’ Egitto e fondò Menfi, mentr’ essa vi fu onorata col nome d’ Iside.

Già s’ è fatto cenno, parlando di Ermes, del significato naturalistico di questo mito. Io non è altro che la luna affidata alla custodia del cielo stellato, la quale va peregrinando di terra in terra, quasi inseguita dall’ astro maggior della natura; o, come ad altri è sembrato, essa è la bianca nuvola, gravida di pioggia, che, ucciso il suo custode ossia il sole, scorre pel cielo spinta dal vento tempestoso.

2. La favola, appena entrata nel dominio delle lettere, ha subito molte alterazioni, com’ è naturale, specialmente per la designazione delle regioni ove peregrinò Io. Lo stesso particolare della venuta in Egitto è probabile non facesse parte del mito primitivo, ma sia stato aggiunto dopochè la Grecia era entrata in rapporti colla regione del Nilo. In ogni modo il mito nel suo insieme già leggesi in Esiodo; poi ne fè cenno in più tragedie Eschilo, e, dopo molti altri, Ovidio ne trasse argomento a uno de’ più commoventi episodi delle Metamorfosi (libro I, 582-750). Anche le arti del disegno trattarono più volte questo soggetto; gemme, monete, pitture vascolari anche ora vediamo rappresentare o la mutazione di Io in giovenca, coll’ uccisione di Argo o la fuga d’ Io. La fig. 81 rappresenta la venuta di Ermes per la liberazione d’ Io, figurata questa però come l’ avvenente fanciulla che era da principio; ed è tolta da una pittura murale che fu trovata nella casa di Livia sul Palatino, forse copia di qualche celebre pittura antica.

b) Danao e le Danaidi. §

1. Epafo, il figlio di Zeus e di Io, re dell’ Egitto, ebbe una figliuola, di nome Libia (Libya). Costei sposata a Posidone fu madre di due figliuoli, Agenore e Belo. Quegli regnò sul Fenicii, questi sull’ Egitto. Ora Belo ebbe alla sua volta da Anchirroe (la lonte scorrente), una figlia del Nilo, due figliuoli, Egitto e Danao, dei quali il primo fu padre di cinquanta maschi, il secondo di cinquanta femmine. Sorta discordia tra i fratelli, Danao colle cinquanta Danaidi dovette esulare; e costruita, coll’ aiuto di Atena, la prima nave di cinquanta remi, mosse alla volta di quella terra da cui era venuta la progenitrice di sua stirpe, Io. Vi giunse toccando Rodi, ove, a Lindo, colonia argiva, avrebbe fondato un tempio ad Atena Lindia. Ad Argo era allora re Gelanore il quale, riconosciuto Danao quale discendente di Io, gli cedette il regno. La leggenda attribuisce molto merito al re Danao, il quale avendo trovato il paese disseccato per lo sdegno di Posidone, lo provvide di acqua, facendo scavare pozzi e canali. Anche avrebb’ egli introdotto il culto di Apollo e di Demetra. In seguito favoleggiasi che i cinquanta figli di Egitto o Egiziadi vennero anch’ essi ad Argo e obbligarono lo zio a dar loro in mogli le sue cinquanta figliuole. Egli consentì, ma diè ad ognuna un pugnale perchè nella notte delle nozze uccidesse il proprio consorte. Così fecero tutte salvo una Ipermnestra, la quale salvò il suo sposo Linceo. Si arrabbiò Danao e cacciò la figlia in un oscuro carcere; ma poi le perdonò e si riconciliò con Linceo che divenne il suo successore, celebre come fondatore delle gare equestri in onor d’ Era, nelle quali premio ai vincitori era non una corona ma uno scudo. Linceo fu anche ricordato come capostipite della seguente stirpe argiva, a cui tra gli altri appartennero gli eroi Perseo ed Eracle. Le Danaidi sono ancora ricordate dalla leggenda per la punizione inflitta loro nell’ altro mondo, di attingere continuamente acqua in un vaso senza fondo.

Anche nel mito di Danao e delle Danaidi è da credere che gli elementi più antichi fossero d’ origine argiva e che solo più tardi si sieno escogitate quelle parti della favola che connettevano il mito Argivo con le cose d’ Egitto. Il significato naturale del mito deve ricercarsi nel fatto dell’ esservi nel territorio Argivo molte sorgenti ma facilmente disseccabili; Danao rappresenta l’ industria umana che cerco con l’ arte di rimediare alla naturale deficienza d’ acqua in Argo.

2. Un’ antica poesia epica, col titolo Danais, illustra va questo mito; e di poi diversi momenti della leggenda offrirono materiava lavori poetici; Archiloco ad es. trattò in versi della ostilità fra Linceo e Danao, Eschilo e Frinico composero tragedie col titolo « le Danaidi » e Teodette un’ altra che si intitolava da Linceo. In pitture vascolari e murali si rappresentò pure questo soggetto, rappresentate solitamente le Danaidi come ninfe fontane con secchie in mano.

c) Preto e le Pretidi. §

A Linceo ed Ipermnestra. nacque un figliuolo di nome Abarte, il quale alla sua volta ebbe due gemelli, Acrisio e Preto. Questi erano, secondo la favola, così nemici fra loro che già litigavano quando erano ancora nel seno materno. Preto, cui nella divisione della paterna eredità era toccato Tirinto, dovette alla fine cedere a suo fratello e se ne fuggi in Licia presso Jobate. Questo diedegli la sua figliuola, Antea o Stenebea, in moglie, e lo rimandò a Tirinto, dove gli fè costruire da operai licii una forte cittadella, assicurandogli così il possesso di Tirinto, anzi mettendolo in grado di estendere il suo dominio fin verso Corinto. Or questo Preto ebbe tre figliuole, dette perciò Pretidi, delle quali favoleggiavasi, che insuperbitesi per la loro bellezza e per la potenza del padre osarono manear di rispetto agli Dei, in pena di che furono colte da schifosa malattia che le rese dementi sicchè presero a scorazzar mezzo nude pei monti e i boschi dell’ Argolide e dell’ Arcadia. Finalmente Preto ottenne fossero guarite dal vate Melampo, quegli a cui dormendo alcune serpi avevano leccate le orecchie, in seguito di che egli aveva imparato a intendere il linguaggio degli uccelli. Melampo per questa guarigione ottenne la mano di una delle figlie di Preto, lfianassa, ed ebbe, insieme con suo fratello Biante parte del regno di Tirinto. Essendo Melampo figlio di Amitaone Messenio, la stirpe degli Amitaonidi, in cui si trasmetteva per eredità l’ arte della divinazione, si stanziò nell’ Argolide. Da essa nacque poi il celebre vate Anfiarao.

d) Perseo. §

1. Acrisio ebbe una figliuola di nome Danae. Di costei prese vaghezza Zeus; ma Acrisio ammonito dall’ oracolo che egli avrebbe avuto morte per opera d’ un suo nipote, richiuse Danae in una caverna sotterranea. Onde volendo ivi penetrare Zeus, si trasformò in pioggia d’ oro, e così fè sua Danae e con lei genero Perseo, che Omero dice il più ragguardevole fra tutti gli uomini. Quando Acrisio venne a saper questo, tutto ira, pose sua figlia e il bambino in una cassetta e questa fè gettare in mare, persuaso di sottrarsi così al destino vaticinatogli. Ma che cosa può l’ umana astuzia contro gli eterni decreti degli Dei? La cassetta si diresse verso l’ isola di Serifo, una delle Cicladi, un pescatore a nome Ditti (Dictys) con la rete la trasse a terra, e salvati così madre e figlio, li consegnò a suo fradello Polidette ch’ era re dell’ isola. Polidette voleva far sua moglie Danae, ma poich’ ella rifiutavasi, la fè sua schiava. Temendo poi la vendetta di Perseo, fatto omai grandicello, pensò affidargli una pericolosa avventura per liberarsene, e gli diè ordine di portargli la testa della terribile Gorgone Medusa. Eran le Gorgoni, secondo Esiodo, tre sorelle, figlie di Forci (Phorkys) e di Cheto (dette perciò le Forcidi). Si chiamavano Steno, Euriale e Medusa, e abitavano all’ estremo Occidente, vicino alle rive dell’ Oceano, dove erano le Esperidi e Atlante. Perseo s’ avvia per compir l’ impresa affidatagli, non ben conscio delle difficolta che avrebbe dovuto superare. Ma vennero in suo soccorso Ermes e Atena, solite guide ed aiuto di tutti gli eroi. Da loro venne informato di quel ch’ era uopo si procurasse per tentar l’ avventura pericolosa, cioè un elmo che rendeva invisibile, una magica sacca di viaggio e un paio di calzari alati. Questi miracolosi amminicoli li avrebbe trovati presso certe Ninfe abitanti in un cotal segreto luogo, che gli sarebbe stato rivelato dalle Graie, le tre sorelle delle Gorgoni, Enio, Pefredo e Dino, le quali dalla nascita non avevano avuto che un occhio e un dente in comune, di cui si dovevano servire alternatamente. Inoltre Perseo ebbe da Ermes una falce e da Atena uno specchio. Con queste istruzioni e arnesi mosse Perseo, e prima s’ avviò alla volta dell’ estremo ovest ove abitavano le Graie, quasi avanguardia delle Gorgoni. Giunto alle Graie, Perseo tolse loro a forza il dente e l’ occhio comune, e così le obbligò a insegnargli la via per giungere alle Ninfe; venuto da queste, ottenne facilmente i tre oggetti onde aveva bisogno; infine mosse contro le Gorgoni. Le trovò per fortuna addormentate. Subito s’ accinse a troncar la testa a Medusa secondo gli ammaestramenti avuti da Atena. Siccome lo sguardo di Medusa aveva la forza d’ impietrare chi la riguardasse, così Perseo s’ accostò camminando all’ indietro, e, giovandosi dello specchio di Atena, tagliò di netto colla falce avuta da Ermes il capo della Gorgone e lo ripose nella magica sacca. All’ inseguimento e alla vendetta delle sorelle si sottrasse mediante l’ elmo che rendevalo invisibile. Dal tronco dell’ uccisa Medusa nacquero il cavallo alato Pegaso e Crisaore (Chrysaor), il padre di Gerione. Tornato a Serifo, Perseo impietrò colla testa di Medusa il suo nemico Polidette, e diè il regno al fratello Ditti. Poi se ne tornò ad Argo, consegnato il capo di Medusa ad Atena che lo pose sull’ egida sua per servirsene a terrore de’ nemici (cfr. pag. 34).

Questo il nucleo, abbastanza antico del mito di Perseo; ma il suo viaggio in ignote regioni e la virtù straordinaria del capo di Medusa che ei portava seco al ritorno, dierono occasione a molte altre invenzioni e leggende. La più celebre è la avventura relativa ad Andromeda. Era allora re d’ Etiopia un tal Cefeo, e Cassiepea era la sua moglie; avevano una figliuola assai bella, di nome Andromeda. Ora essendosi Cassiepea vantata di sua bellezza e di quella della sua figliuola, e avendo osato venire in questo al paragone colle Nereidi, queste ricorsero a Posidone per ottener vendetta. Posidone colpi prima il paese con una grande innondazione, poi mandò un enorme e terribile mostro marino che uccideva uomini e bestie. Gli Etiopi ricorsero all’ oracolo di Ammone, e n’ ebbero risposta sarebbero stati liberati dal mostro solo a condizione di offrirgli in pasto la bella figlia del re. Cefeo e Cassiepea dovettero adattarsi e con immenso loro dolore consegnarono Andromeda perchè fosse legata a uno scoglio, preda al mostro. Stava appunto Andromeda legata allo scoglio, e già il mostro s’ avvicinava pien di desiderio a lei, quando Perseo volando co’ suoi alati calzari giunse in Etiopia. Subito s’ offrì a liberar la disgraziata fanciulla a patto d’ averla sposa; uccise il mostro e sposo Andromeda; non prima pero di aver sostenuto guerra contro Fineo fratello del re a cui la ragazza già era stata promessa. In questa guerra molto giovò a Perseo il capo di Medusa, giacchè con esso si sbarazzò di centinaia di nemici impietrandoli.

La leggenda di Perseo si chiude col ritorno dell’ eroe ad Argo. Perseo si riconcilia bensì coll’ avo suo Acrisio, il quale per timor di lui era fuggito a Larissa, ma, poichè il vaticinio dell’ oracolo doveva pure avverarsi, divenne uccisore di lui involontariamente; perchè in occasione di certi giochi allestiti dai Larissei in onor di lui, egli uccise Acrisio per isbaglio nel lanciare il disco. Di poi, vergognandosi di entrar in possesso del regno di Acrisio dopo averlo ucciso, scambiò Argo con Tirinto, cedutagli questa signoria da Megapente figlio di Preto. Ivi egli fondò le città di Midea e di Micene, e per via dei figliuoli natigli da Andromeda fu il capo di una illustre prosapia; fra gli altri di Eracle, giacchè suo figlio Elettrione fu padre di Alcmena e da un altro suo figlio nacque anche Anfitrione. Anche fuori della Grecia si vollero trovare discendenti di Perseo. Così i re dei Persiani eran detti prosapia di Perseo, altrettanto i re del Ponto e della Cappadocia: in Egitto pure Erodoto trovà discendenti di Perseo, tantopiù che per via di Danao e Linceo egli stesso era d’ origine egiziana; infine anche nel Lazio si favoleggiava che la cassetta contenente Danae e Perseo fosse giunta a quelle rive, e dicevasi che Pilumno avesse sposato Danae e fondato la città di Ardea; onde Turno re dei Rutuli, come è ricordato in Virgilio (En. 7, 410), vantava di discendere da Acrisio.

Il significato naturale di questo mito non può esser dubbio. Perseo è uno dei tanti eroi solari onde è ricca la mitologia greca; rappresenta la lotta del sole colle potenze delle tenebre o colle nuvole tempestose, quella lotta che presso le genti ariane ha dato luogo a così ricca varietà di favole. Anche nei particolari si vede: le nozze di Zeus-oro e di Danae che altro sono se non la unione fecondatrice del cielo e della terra argiva, e la prigione di Danae che altro è se non la nebbiosa caligine della stagione hivernale? Di qui si sprigiona il sole primaverile, Perseo, il quale ha a fare colle Graie o colle Gorgoni cioè colle grigiastre nubi, quelle con un sol occhio che è il lampo, queste dallo sguardo terribile che impietra, immagine del tuono reboante e spaventoso. E i mostri che nascono dal tronco di Medusa, Crisaore e Pegaso, chi può dubitare rappresentino anch’ essi il lampo e il tuono? Sicchè tu hai qui una rappresentazione della grande lotta fra gli elementi naturali. Infine il disco con cui Perseo uccide Acrisio fa anche pensare al disco solare; anche Apollo con un colpo di disco uccide Giacinto (cfr. p. 57).

2. Per tempo le avventure straordinarie e commoventi di Perseo entrarono nel dominio della letteratura e dell’ arte. Già Esiodo ha una quasi compiuta esposizione del mito nella Teogonia (v. 270 e sg.) e nello Scudo d’ Ercole (216 e sgg.); poi Eschilo compose su questo argomento un’ intiera trilogia; Sofocle ed Euripide ne sceneggiarono momenti diversi, il primo in un’ Andromeda e un Acrisio in Larissa, il secondo in una Danae, in un’ Andromeda e un’ altra intitolata da Ditti il pescatore di Serifo. Il commovente episodio di Danae abbandonata col bambino sul mare, piena di umiltà e di rassegnazione ai voleri di Zeus, ha ispirato uno dei più bei canti di Simonide49. A tacer d’ altri, sia ancora ricordato il racconto di Ovidio, nel quarto e quinto delle Metamorfosi, dove specialmente la liberazione di Andromeda e la guerra mossa da Fineo contro Perseo sono raccontate con vivaci colori e conforme all’ ultima forma della tradizione.

Che anche l’ arte assai per tempo abbia fatto suo pro’ di questo terna ricco di belle situazioni, oltre ad alcuni antichi vasi n’ è prova la celebre Metope del tempio di Selinunte, rappresentante l’ uccisione di Medusa. Più tardi si moltiplicarono simili rappresentazioni; nella fig. 82 si riproduce un rilievo marmoreo proveniente dalla villa Panfili, e che ora trovasi nel Museo Capitolino. Rappresenta la liberazione di Andromeda; il mostro giace morto in terra e Andromeda tutta lieta scende giù dallo scoglio, aiutata da Perseo; entrambe le statue nottevoli per espressione ed eleganza di movimento. Lo stesso motivo si trova pure trattato in parecchie pitture pompeiane, e in un altro rilievo marmoreo che è nel Museo di Napoli.

Solitamente Perseo vien raffigurato col calzari alati, colla falce di cui si servi per uccidere Medusa e coll’ elmo che lo rendeva invisibile. Il suo aspetto in genere ricorda molto quello di Ermes. — La testa della Medusa fu pure un tema frequentemente trattato. Siccome la superstizione attribuiva a queste maschere di Gorgoni la forza di allontanare le disgrazie, se ne faceva molto uso sugli scudi, sulle corazze, sul battenti delle porte e su vari oggetti di uso domestico. Si notano due momenti nella storia di questa rappresentazione artistica. I più antichi si ingegnavano di dare alla testa di Medusa un’ espressione terribile, quindi sguardo feroce, la lingua sporgente in fuori, i denti prominenti, la chioma distesa e liscia sulla fronte e intorno alla testa a mo’ di collana un annodamento di serpi. Da Prassitele in poi l’ arte disdegnò queste deformità, e si prese a rappresentare la Medusa con bellissimi lineamenti irrigiditi dalla morte. Un bell’ esempio l’ abbiamo nella Medusa della Gliptoteca di Monaco, che si riproduce nella fig. 83, proveniento dal palazzo Rondanini a Roma.

V. Laconia e Messenia.
I Dioscuri. §

1. Le più antiche leggende delle provincie meridionali del Peloponneso ricordavano come eroi di que’ luoghi Tindareo, padre dei Dioscuri, di Elena e di Clitennestra, Afareo, il padre di Ida e di Linceo (detti perciò Afaridi), Leucippo, padre di Ilaira e Febe (dette perciò le Leucippidi), Icario, padre di Penelope, infine Periere in Messenia ed Ebalo (Oebalus) in Laconia. Ben presto si cercò stabilire un rapporto di parentela tra questi eroi. L’ idea prevalente venne a esser questa che Tindareo, Afareo, Leucippo, Icario fossero fratelli, figli di Periere; secondo altri, Periere era padre soltanto di Afareo e Leucippo, ed Ebalo si faceva padre degli altri due. Tindareo e Icario si ritenevano come i fondatori del più antico stato in Laconia; e poi favoleggiavasi che cacciati dal loro fratellastro Ippocoonte, trovarono amichevole accoglienza presso Testio, signore dell’ antica città di Pleurone in Etolia. Costui diede loro in moglie le sue figliuole, a Icario Policaste che ebbe per figlia Penelope la futura sposa di Ulisse, a Tindareo la bella Leda, madre dei gemelli Castore e Polluce (Pollux, grecamente Polycleuces) e delle due celebri donne Clitennestra ed Elena. Più tardi Tindareo fu restituito per opera d’ Ercole alla sua signoria di Amicla (Amyclae) in Laconia, uccise Ippocoonte e i di lui bellicosi figliuoli. Ora è da ricordare che un’ antichissima leggenda raccontava di Leda come amata da Zeus, che le s’ era accostato in forma d’ un cigno. Ma poi quale dei figli di Leda avesse origine divina, correvano tradizioni molto diverse. Per Omero solo Elena era figlia di Zeus, Castore e Polluce e anche Clitennestra erano figli di Tindareo, detti perciò Tindaridi. Più tardi si fecero Castore e Polluce figli di Zeus e però si dissero Dioscuri; più tardi ancora Castore si disse mortale e figlio di Tindareo, Polluce immortale e figlio di Zeus. In alcuni racconti si parla di un uovo deposto da Leda, dal quale poi sarebbero usciti Elena e i due gemelli. — Venendo ora alle eroiche gesta dei Dioscuri, è a notare anzitutto la diversa abilità per cui i due gemelli si segnalarono; Castore era abilissimo domator di cavalli, Polluce era un bravo pugilatore e anche cavalcatore. Essi fecero una spedizione di guerra contro Teseo che aveva rapito la loro sorella Elena ancor bambina di dieci anni, e presa per assedio la città di Afidna, riuscirono a liberarla. Poi presero parte alla spedizione degli Argonauti, ed ivi Polluce si acquistò grande fama vincendo il grande pugilatore Amico (Amykos). Anche presero parte alla caccia del cinghiale Calidonio, di cui si parlerà. Ultima loro impresa fu la lotta contro gli Afaridi loro cugini. La cagione di questa contesa è diversamente narrata; or si dice che nacque per aver essi, i Dioscuri, rapite le figlie di Leucippo re Messenia, le quali già erano fidanzate ai figli di Afareo; or si parla di un bottino fatto in comune d’ una mandra di giovenchi, per la divisione del quale non rimasero d’ accordo. In ogni modo questa lotta fu fatale ad entrambe le fraterne coppie; Castore fu ucciso da Ida, allora Polluce pieno di dispetto uccise Linceo, mentre Ida veniva colpito da un fulmine di Zeus. Polluce, addoloratissimo per la morte del fratello, da cui non avrebbe voluto staccarsi mai, pregò Zeus facesse morire anche lui; ma ciò non poteva essere perchè egli era immortale; alfine ottenne di passare un’ esistenza non separata dal fratello a condizione che un giorno fossero entrambi nel mondo dei morti, un altro giorno godessero entrambi la luce dell’ Olimpo.

I Dioscuri divennero oggetto di grande venerazione non solo in Isparta ma in tutta la Grecia, e più tardi anche in Italia. Si consideravano come divinità protettrici, e si credeva che comparissero nei gravi frangenti, in battaglia ad es., e in mare durante l’ infuriar della tempesta. Quelle fiaramelle elettriche le quali in occasione di forti temporali vedonsi sulla cima degli alberi delle navi e in genere sulle punte, dette da noi « fuochi di St. Elmo » considerate anche ora come indizii del prossimo cessar del temporale, si diceva fossero i due gemelli comparsi in aiuto del navigante.

Tutte queste leggende e credenze intorno ai Dioscuri lasciavano indovinare agevolmente il senso naturalistico di questo mito. Essi erano fenomeni di luce ma di luce che lotta contro dei nemici, probabilmente i due crepuscoli della mattina e della sera che anche in altre mitologie fecero pensare a due gemelli e dierono origine a leggende analoghe.

2. Esseri così utili agli uomini era naturale che venissero divinizzati e si erigessero loro anche dei templi. Molti ve n’ erano a Sparta per cui essi erano i protettori dello Stato, e i modelli di ogni virtù per i giovani. Nelle spedizioni di guerra gli Spartani portavano spesso con sè un simbolo dei Dioscuri, consistente in due bastoncini paralleli legati insieme con altri trasversali. Templi vi erano anche altrove, a Mantinea ad. es., dove un eterno fuoco si manteneva in onor dei Dioscuri. Ad Atene erano venerati col nome di Anakes (ossia Anactes, i re, i dominatori) e celebrata la loro festa con delle corse equestri. In genere le gare equestri erano messe sotto la loro protezione e immagini loro trovavansi anche ad Olimpia. Anche Roma eresse nel Foro un tempio ai Dioscuri, del quale rimangono in piedi tre splendide colonne.

3. La letteratura relativa ai Dioscuri è ricchissima; in Omero non solo si leggono qua e là dei luoghi ricordanti le loro vicende, ma un inno intiero fra gli Omerici è in lode loro, e ivi già si rammentano le benemerenze dei Dioscuri verso i naviganti. Altri epici antichi cantarono di loro e della discendenza di Leda; poi li celebrarono parecchi lirici, tra cui Saffo, lo spartano Alcmane, autore di un inno che era molto cantato a Sparta, sopra tutti Simonide di Ceo il quale serbava gratitudine ai Dioscuri per essere stato da loro salvato da certa morte. In una poesia scritta in onor di Scopa, della famiglia degli Alevadi, aveva egli lodato bensì il ricco uomo, ma molto anche i Dioscuri protettori; di che indispettito Scopa non aveva pagato l’ onorario che a mezzo, dicendo che l’ altra metà se la facesse dare dai tanto lodati Dei. Orbene celebrandosi poco dopo nel palazzo di Scopa un solenne banchetto a cui era stato invitato anche il poeta, ecco giungono al palazzo due giovani di forme più che umane, sparsi di polvere e grondanti di sudore; i quali per mezzo d’ un servo chiaman luori Simonide come avessero urgente bisogno di parlargli. Appena Simonide ebbe messo il piede luori della sala da pranzo, d’ un tratto sprofonda il pavimento di questa, traendo a morte Scopa e tutti quelli che con lui si trovavano. E siccome que’ giovani non furon più visti alla porta, tutti capirono che eran essi i Dioscuri, comparsi solo per salvar la vita al poeta. — Cenni di benefici ottenuti od aspettati da Castore e Polluce si ritrovano spesso anche negli scrittori latini; a che contribuiva il fatto di essere i Dioscuri identificati con una costellazione, i lucida sidera fratres Helenae di Orazio, la cui apparita era di buon augurio.

L’ arte soleva rappresentare i Dioscuri come bel giovani, solitamente nudi o con una leggiera clamide in atto di tener in freno indomiti cavalli. Portavano in testa un berretto semi-ovale sormontato da una stella. I colossi di Monte Cavallo a Roma, sono tra le più celebri statue antiche di Dioscuri; veramente non un lavoro originale di scalpello greco, bensì una copia ricavata da modelli in bronzo, ma in ogni modo una copia fatta bene e forse dell’ eta di Augusto. A Vienna trovasi un rilievo proveniente dalla Licia, rappresentante il rapimento delle figlie di Leucippo, lavoro anche questo molto interessante.

VI. Attica. §

a) Cecrope. §

Gli abitanti dell’ Attica, come gli altri Greci, si ritenevano nati nel suolo o autoctoni. Il mitico personaggio a cui essi riferivano l’ origine loro e i primi inizii della loro civiltà, è Cecrope; più tardi pero anche di Cecrope, come di Cadmo, si favoleggiò che fosse venuto dall’ Egitto e precisamente da Sais nel basso Egitto. All’ essere nato dal suolo invece accenna, tra l’ altro, la forma nella quale soleva essere rappresentato, umana nella parte superiore e serpentina nell’ inferiore. Egli era detto il primo re, il primo legislatore, l’ edificatore della cittadella (Cecropia), il fondatore del culto antichissimo di Zeus Hypatos e di Atena Polias. Sotto di Cecrope si diceva avesse avuto luogo la contesa di Posidone e di Atena pel possesso dell’ Attica, e soggiungevasi che egli avesse contribuito a far decidere la contesa in senso favorevole all’ ultima; vuol dire che nell’ alternarsi delle due stagioni umida e asciutta, quest’ ultima in Attica aveva la prevalenza e rendeva possibile la coltura della terra, specie dell’ olivo, e di questa diffusione di coltura un po di merito spettava ai primi abitatori del paese. Anche al significato naturalistico del mito di Cecrope si riferisce il fatto che gli attribuivano tre figliuole, Erse, Aglauros e Pandrosos, tutti nomi che significano rugiada; alla quale nella stagione asciutta molto deve la prosperità della terra.

In letteratura e in arte Cecrope mantiene la sua doppia figura, ond’ è detto dimorfo dagli scrittori greci e geminus da Ovidio (Met. 2, 555).

b) Eretteo od Erittonio, e la discendenza del re d’ Attica. §

1. A Cecrope successe nel regno dell’ Attica Cranao, da alcuni detto suo figlio. Sotto Cranao sarebbe avvenuto il diluvio Deucalioneo. Cacciato Cranao, si dice sia succeduto nel governo di Atene un Amfizione, figlio di Deucalione. Questi sarebbe stato privato del regno da Eretteo o Erittonio.

Anche Erittonio aveva la figura a mezzo serpentina, perchè nato dal suolo; anch’ egli era detto fondatore dello stato Attico, un altro Cecrope in sostanza, ma posteriore al diluvio. Una leggenda a lui particolare era questa, che dopo la sua nascita Gea l’ affidò alla dea Pallade, e questa consegnollo in una cassa chiusa alle sue sacerdotesse le figlie di Cecrope, proibendo di aprirla. Avendo esse disobbedito, vennero in punizione colpite di pazzia; ed Erittonio venne allevato dalla stessa Dea nel suo santuario dell’ Acropoli, e fatto poi re di Atene. Anche ad Erittonio, come a Cecrope, la leggenda attribuiva l’ aver deciso la controversia tra Atena e Posidone. Con questo concetto è forse connessa un’ altra leggenda relativa ad Erittonio, quella secondo la quale sotto di lui l’ Attica sarebbe stata invasa da Eumolpo figlio di Posidone con buon numero di Traci e d’ Eleusini; Erittonio, si diceva, non potè liberare la patria da quest’ invasione se non sacrificando, per ordine dell’ oracolo, una delle sue figliuole agli Dei infernali; solo dopo cio movendo contro il nemico riuscì a vincerlo. Entrambi i capi sarebbero morti nello scontro. La tomba di Erittonio dicevasi conservata nell’ Eretteo, il sacro antico tempio di Atena sull’ Acropoli, dove pure si conservava il primo olivo fatto nascere dalla Dea.

2. Di Eretteo la tradizione ricordava due figliuole, entrambe celebri per la loro sorte avventurosa, Orizia (Oreithyia) che fu rapita da Borea e fatta madre dei gemelli Calai e Zete, e Procri già felice sposa del bel cacciatore Cefalo, poi tormentata dalla gelosia e uccisa per sbaglio da lui stesso mentre ella lo spiava.

In Atene dopo la morte di Eretteo, secondo la tradizione seguita dai Tragici, venne al regno Ione il capostipite della stirpe ionica; il che significa il termine del periodo pelasgico e il cominciamento della dominazione ionica.

La leggenda attica posteriore, più complicata dell’ antica, conosceva anche un secondo Eretteo, fissando la genealogia nel seguente modo. Il primo Eretteo o Erittonio sarebbe stato padre di Pandione succeduto a lui nel regno; Pandione avrebbe avuto dalla ninfa Zeusippe due gemelli, Eretteo che chiameremo II e Bute, e le celebri figliuole Progne e Filomela; il secondo Eretteo poi sarebbe stato il padre di Orizia e di Procri e avrebbe avuto Ione per successore.

3. Degna di ricordo la storia di Progne e Filomela. Progne era andata sposa a Teseo re di Tracia, e con lui viveva da molti anni in buona compagnia. Le venne il desiderio di rivedere la sorella Filomela e pregò Teseo si recasse in Atene e scongiurasse il vecchio padre Pandione a lasciarla venire alcun tempo con loro. Teseo accondiscese, ma quando vide Filomela se n’ innamorò perdutamente; chiestala ed ottenutala col pretesto di condurla dalla sorella, la portò in luogo remoto del suo regno e la fè sua, poi perchè ella non potesse parlare le tagliò crudelmente la lingua. La povera Filomela non poteva trovar modo di scampo e di vendetta, finalmente riuscì a far pervenire alla sorella un suo ricamo in cui per segni le faceva conoscere la disgrazia sua. Progne tutta voltasi a pensieri di vendetta, profittando delle feste bacchiche, simulando bacchica furia, usci dalla città, trasse al luogo dov’ era Filomela, la liberò e la condusse alla reggia, poi tutte e due insieme furenti di odio e di vendetta, sgozzarono il piccolo Iti che Progne aveva avuto da Teseo, e tagliatene le membra le apprestarono in cibo al re; di che accortosi egli, voleva far scempio delle ree femmine ma le vide trasformate, Progne in usignuolo, Filomela in rondine, com’ egli fu convertito in upupa.

4. Questo gruppo di leggende offriva begli argomenti alla poesia e all’ arte; quindi niuna meraviglia che parecchie opere s’ aggirino intorno ad essi. Il ratto d’ Orizia tra altri fu argomento di tragedia ad Eschilo; Sofocle sceneggiò la leggenda di Procri e quella di Progne, imitato poi nell’ ultima dai latini Livio Andronico e Accio. E tutte tre queste leggende raccontò, con l’ usata ricchezza di colori e vivacità di sentimento, Ovidio nel sesto e nel settimo delle sue Metamorfosi; che sono tra gli episodi più belli di tutta l’ opera. Anche diverse pitture vascolari hanno rappresentazioni di queste scene, e se ne trovano in parecchi musei d’ Europa.

c) Teseo. §

1. La tarda tradizione attica, rinnovando i nomi dei più antichi re, faceva il secondo Eretteo padre oltrechè di Orizia e Procri, anche di un altro Cecrope e di Mezione; e dei pari al secondo Cecrope assegnava per figliuolo un secondo Pandione, fatto padre di Egeo, Pallante, Niso e Lico. Si diceva che questo Pandione scacciato dal trono dai figli di Mezione o Mezionidi, si fosse rifugiato a Megara; di là i suoi quattro figli, teste nominati, i Pandionidi, si sarebbero mossi per riconquistare il paterno regno, e cacciati alla lor volta i Mezionidi, avrebbero fra loro diviso la sovranità dell’ Attica in guisa che ad Egeo toccò Atene e le terre vicine, Pallante ebbe la parte meridionale della penisola, Lico l’ orientale e Niso la Megaride. Poco dure peraltro la pace; perchè Lico fu cacciato da Egeo e si riparò in Asia Minore, Niso vide la sua città assediata da Minosse cretese ed è allora che la figlia di lui, Scilla, innamoratasi del forestiero assediatore, strappò di testa al padre quel capello d’ oro da cui dipendeva la sua vita, onde Niso morì e fu poi mutato in aquila marina come Scilla in uccello marino detto Ciris. Infine Egeo si trovò alle strette per causa dei Pallantidi e di Minosse; dai quali pericoli lo salvò solo il figlio Teseo. — Prima di narrare le gesta di costui, si ricordi ancora tra i Mezionidi Dedalo l’ artista e il rappresentante degli artisti attici. I Mezionidi in genere erano in Attica menzionati come una corporazione d’ artefici.

2. Venendo a dire più particolarmente di Teseo, l’ eroe più celebre e come a dire l’ Eracle dell’ Attica, è da ricordare prima chi gli fu madre. Essendo Egeo senza figli ed essendosi rivolto all’ oracolo di Delfo, questi gli rispose in maniera ch’ ei non capiva; onde recossi a Trezene dal saggio Pitteo per averne consiglio; ivi conobbe la figlia di lui Etra e n’ ebbe un figliuolo che fu Teseo; ma siccome Etra era amata da Posidone, Teseo era detto anche figlio di Posidone. Se si considera che Egeo e Posidone s’ identificano, si capirà facilmente che Teseo figlio del mare e di Etra, ossia l’ aria serena, è ancora una personificazione del sole che sorge dal mar d’ Oriente traverso il puro aere, come tant’ altri eroi delle città greche. — Teseo ebbe a maestro il virtuoso e saggio Pitteo, che lo istruì nell’ arti musiche e ginnastiche; e si dice anche sia stato educato dal centauro Chirone, cosa inevitabile per un eroe dell’ età mitica. Allorquando Egeo prese congedo da Etra, pose la sua spada e i suoi sandali sotto un masso sul monti tra Trezene e Ermione, coll’ ordine che quando Teseo fosse in grado di sollevare quel masso, allora prendesse spada e sandali e se ne venisse ad Atene. A sedici anni d’ età, Teseo portato dalla madre avanti a quel masso, lo sollevò facilmente, e da quel momento iniziò la sua vita di eroe. — Avviatosi ad Atene compì una serie di fatti eroici. Generalmente se ne contano sei: 1º fra Trezene ed Epidauro uccise Perifete, un figlio di Efesto, rozzo come il padre, che aggrediva i viandanti e li uccideva con una mazza di ferro (perciò detto Corinete, dalla voce greca coryne, mazza). 2º Sull’ istmo tolse di mezzo un altro assassino, Sini, detto Pitiocampte (Pityocamptes) o piegatore di pini, perchè attaccava i passeggieri a due pini piegati a forza, e abbandonando poi a sè i pini faceva che le persone venissero squartate. 3º Uccise una selvaggia e pericolosa scrofa che infestava il bosco di Crominione. 4º Liberò lo stretto passo Scironico ai confini della Megaride da un terzo malfattore, Schirone, che obbligava i viandanti a lavargli i piedi, e mentr’ erano chini a questo, egli con un calcio li faceva capitombolare in mare. Teseo fece fare a lui la stessa fine. 5º Presso Eleusi, non lungi dai confini della Megaride, vinse il gigante Cercione, che obbligava i passanti a lottare corpo a corpo con lui. 6º Poco dopo uscito da Eleusi, ebbe a combattere contro il terribile Damaste che poneva la gente a forza su un letto, e se questo veniva a essere troppo corto, troncava le membra sporgenti in fuori; in caso contrario, martellava e stirava le membra corte; ond’ era anche chiamato Procruste50. Anche costui ebbe da Teseo la meritata morte. — Superati tutti questi pericoli, Teseo potè finalmente giungere in Atene. Ivi trovò Egeo suo padre irretito nei lacci della pericolosa incantatrice Medea, che da Corinto s’ era rifuggita ad Atene. E già Medea minacciava toglier di mezzo anche il nuovo venuto ed aveva preparato all’ uopo il veleno, quando Egeo riconobbe dalla spada e dai sandali il suo figliuolo; allora buttò a terra il bicchiere del veleno e così Teseo fu salvo. Medea in seguito a cio dovette lasciare Atene. Ma nuovo ostacolo sorgeva contro lui da parte dei Pallantidi, i cinquanta figli di Pallante, che appunto volevano entrare in possesso dell’ eredità dello zio, creduto fin allora senza figli. Sorse un’ acerba lotta, nella quale ebbero la peggio i Pallantidi, parte uccisi, parte cacciati da Teseo. Così rimase Teseo col padre incontestato signore di Atene. Qui è da collocare la spedizione più pericolosa e più importante, che è quella contro il Minotauro a Creta. Il re cretese Minosse, indispettito perchè gli Ateniesi e i Megaresi avevano a tradimento ucciso suo figlio Androgeo, o, secondo altra leggenda, lo avevano mandato contro il terribile toro di Maratona e n’ era rimasto vittima, mosse coll’ armi alla vendetta. Prese Megara e fu occasion di morte, come già si raccontò, al re Niso; vinse anche gli Ateniesi e impose loro un grave tributo: ogni nove anni dovevano mandare sette giovanetti e sette fanciulle in Creta per essere divorati dal Minotauro, il mostro mezzo uomo mezzo toro, nato dall’ unione di Pasifae con un toro mandato da Posidone, nascosto da Minosse nel labirinto di Cnosso (probabilmente ricordo di una divinità fenicia, il dio Baal, rappresentato appunto con testa di toro, onorato con sacrifizi umani). Già due volte il tributo personale era stato pagato dagli Ateniesi; poco dopo l’ arrivo di Teseo ad Atene, doveva aver luogo la terza spedizione. Teseo volle esser del numero, deciso a lottare contro il Minotauro ed esporre la sua vita per liberare la patria da si doloroso tributo. Gli fu guida ed aiuto la Dea Afrodite. La quale inflammo Ariadne, figlia di Minosse, di amorosa passione verso Teseo; e questo fu la salvezza di lui perche Ariadne gli die’ un gomitolo di filo col quale egli potè penetrare nel labirinto, uccidere il Minotauro, e appresso ritrovar la via d’ uscire. Come poi Ariadne accompagnò Teseo nel suo ritorno, come a Nasso fu da lui abbandonata, e divenne moglie di Dioniso, già s’ è narrato nel capitolo relativo a questo Dio. Nel ritorno ad Atene Teseo fu indiretta cagion di morte ad Egeo suo padre; erano rimasti d’ intesa che in caso di felice ritorno avrebbe egli spiegato vela bianca sulla nave, mentre salpava con vela nera nell’ andata; Teseo tornando si scordò di spiegar vela bianca; Egeo vedendo la vela nera e pensando Teseo fosse morto si buttò in mare. — Teseo rimasto solo re in Atene, attese a riforme religiose e politiche; in ringraziamento alla sua divina protettrice istituì il culto di Afrodite Pandemo, e in onor di Dioniso ed Ariadna fondò le Oscoforie (oschophoria), consistenti in una gara di corsa in cui venti giovani portavano tralci di vite con grappoli e in una processione dal tempio d’ Atena a quello di Dionisio, con sacrifizii; fondò pure le Pianepsie (Pyanepsia) per il settimo giorno del mese Pianepsione, verso la fine di Ottobre, feste destinate a ringraziare la Divinità dei frutti autunnali e lamentare colla fine dell’ estate la dipartita di Apollo. Politicamente Teseo riunì in una comunità le varie regioni dell’ Attica, e istituì la festa delle Panatenee a cui tutti gli Attici prendevano parte. — Delle altre imprese di Teseo, meritano ancora di essere ricordate le seguenti: 1º ei domò il toro di Maratona, quello stesso che Eracle aveva portato con sè da Creta, e lo sacrificò ad Apollo Delfinio; 2º aiutò l’ amico suo Piritoo, principe dei Lapiti nella guerra contro i Centauri (v. pag. 306); 3º in una spedizione a Creta, rapi Elena, la sorella dei Dioscuri; 4º con Piritoo e per fare cosa a lui grata scese all’ inferno allo scopo di rapire Persefone: ma Plutone mandò le Erinni a incatenarlo e farlo sedere a forza sopra un sasso che aveva la virtù di ritenere come incollati quelli che si posavan su. Teseo fu più tardi liberato per opera di Eracle come si vedrà. Durante la sua assenza, i Dioscuri ripresero la loro sorella dopo aver espuguato la città di Afidna ov’ ella era rinchiusa. 5º Insiem con Eracle, Teseo fece una spedizione contro le Amazoni, ed ebbe come premio della vittoria la loro regina Antiopa o Ippolita; secondo altri, costei seguì volontariamente Teseo ad Atene e divenne sua moglie e madre di quell’ ippolito (Hippolytos) che fini poi così tragicamente, perchè accusato al padre di aver insidiato alla virtù delle sua matrigna Fedra (sorella di Ariadne, sposata da Teseo dopo Antiopa), Teseo pregò Posidone a punirlo, e questi, mentre Ippolito co’ suoi diletti cavalli scarrozzavasi lungo la via del mare, mando un toro selvaggio che spaventò e infuriò i cavalli, onde Ippolito fu trascinato, malmenato ed ucciso. 6º E un’ altra volta ebbe Teseo a combattere contro le Amazoni, allorchè esse invasero l’ Attica per liberare la loro regina Antiopa; nella qual occasione costei anzichè unirsi alle sue conuazionali, combattè contro di loro a fianco dello sposo, ma venne uccisa. 7º Prese parte alla caccia del cinghiale Calidonio; 8º e alla spedizione degli Argonauti, di cui parleremo appresso. — Riman da raccontare la fine di Teseo. Toltagli la signoria di Atene da Menesteo aiutato dai Dioscuri, egli si recò nell’ isola di Sciro; ivi fu prima accolto benignamente dal re Licomede, ma poi proditoriamente ucciso. Demofonte, suo figlio natogli da Fedra, riuscì a ottenere la successione. Più tardi le ossa di Teseo furono, per ordine dell’ oracolo, da Sciro trasportate ad Atene, e un tempio fu eretto a onor dell’ eroe. Se questo tempio sia quello ch’ era denominato Theseum, è cosa dubbia. Inoltre fu istituita una festa speciale, denominata le Tesee, che celebravasi l’ 8 del mese Pianepsione.

3. Tante vicende e gesta gloriose dell’ eroe ionico dovevano naturalmente appassionare poeti e artisti e ispirarne le opere. Infatti ogni genere letterario si può dire abbia dato il suo contributo a illustrare la leggenda di Teseo. La canto prima Omero in alcuni passi dell’ Iliade e dell’ Odissea, e altri epici minori come Artino, Lesche e l’ autore delle Ciprie; poi la lirica con Saffo e Simonide celebro alcuni momenti della leggenda, sopratutto le pietose vicende di Arianna; e la tragedia con Sofocle e Euripide sceneggiò la triste fine di Egeo e di Ippolito. Persino un dramma satirico fu composto da Euripide sull’ avventura di Schirone. È una biografia regolare, come si trattasse d’ una figura storica in tutti i suoi particolari, scrisse in più tardi tempi Plutarco. Tra i Latini ricordiamo Catullo, gentile cantore di Arianna nell’ Epitalamio di Peleo e di Tetide, e Ovidio che nell’ ottavo delle Metamorfosi narrò da par suo la caduta di Megara e l’ uccisione del Minotauro.

Del pari ogni forma d’ arte figurativa, cioè e statuaria e pittura murale e vascolare e arti minori, trassero ispirazione da qualche punto della leggenda di Teseo. In genere egli era figurato come un Eracle, ma più svelto di corpo e più vivace d’ aspetto, le note che contraddistinguono appunto la stirpe ionica in confronto della dorica; anch’ esso portava pelle di leone e mazza, qualche volta anche la clamide e il petaso degli efebi attici. Su molti fra i pubblici monumenti ateniesi era scolpita la figura di Teseo: così nel tempio detto di Teseo le metope portavano in rilievo rappresentazioni dei fatti di lui; alcune ancora esistono ma guaste e stroncate. Nel Partenone Fidia aveva destinato le metope del lato meridionale a rappresentare la Centauromachia con intervento di Teseo, e le metope del lato occidentale a figurare la lotta degli Ateniesi contro le Amazoni. Anche nel campo dello scudo di Atena Parteno era raffigurata la lotta contro le Amazoni. Pure fuori di Atene parecchi templi portavano ricordi statuari di Teseo; il frontone occidentale del tempio di Zeus in Olimpia lo aveva tra i combattenti contro i Centauri; lo aveva pure la grande composizione del fregio che ornava la colla del tempio d’ Apollo in Figalia, di cui importanti reliquie possiede ora il Museo Britannico. Noi presentiamo nella fig. 84 la riproduzione di un gruppo in bronzo, rappresentante la lotta di Teseo contro il Minotauro, trovato non è molto presso Afrodisia nella valle superiore del Meandro e posseduto attualmente dal Museo di Berlino. Anche ricorderemo un bel rilievo della villa Albani in Roma, figurante Teseo nel momento che trae fuori ili sotto il masso la spada e i sandali di suo padre.

VII. Creta. §

a) Minosse e il Minotauro. §

1. Nelle leggende Cretesi agli elementi ellenici si mescolarono elementi fenici e frigii, si, che si complicarono e divennero oscure e intricate. L’ eroe mitico dell’ isola e primo re fu Minosse. Era figlio di Zeus e di Europa. Costei, nata da un Fenice, dice Omero, da Agenore re dei Fenici, dicono i mitografi posteriori, quindi sorella di Cadmo, soleva andare a sollazzarsi colle ancelle di Tiro sulla riva del mare. Vide, in mezzo all’ armento regale che là pascolava, un bel toro bianco come la neve, con piccole e ben tornite corna, con aspetto placido e mansueto. Era Zeus che aveva preso quell’ aspetto per accostarsi a lei. La figlia di Agenore s’ avvicina a si leggiadro animale e prima con qualche timore poi con più confidenza scherza con lui; egli posa il fianco sull’ arena ed offre il dorso alle carezze di lei e gode farsi adornare di flori le corna. Alfine la regale donzella osò anche sedersi sulla schiena di lu; e allora il Dio si alza tosto, accostasi al lido, tuffasi nell’ acqua e via sen va colla sua preda. Si poso nell’ isola di Creta. Ivi Europa divenne madre di Minosse, di Radamanto (Rhadamanthus o Rhadamanthys), secondo alcuni anche di Sarpedone, eroe licio. Zeus poi laseiò Europa e i suoi figli alla custodia del re del luogo, Asterio. Che si abbia qui a fare con astri celesti divinizzati è ben probabile. Europa è una dea lunare che è inseguita dal Dio del cielo in forma d’ un bianco toro; appunto in Gortina di Creta si credeva pascolassero gli armenti del sole; Asterio poi a cui i figli di Europa sono affidati non è che un’ altra forma di Zeus, e di fatti si parla anche di un Zeus Asterios, come a dire Dio degli astri, cielo stellato.

Cacciati i suoi fratelli, Minosse regnò solo in Creta e si sposò con Pasifae, figlia di Elio (altra personificazione della luna); da cui gli nacquero Catreo, suo successore nel governo, Deucalione, Glauco e Androgeo e alcune figliuole, di cui le più celebri furono Arianna (Ariadne) e Fedra. Minosse, ispirato dal padre, col quale dicevasi venisse di quando in quando a segreto colloquio, die’ savie leggi ai Cretesi e fondò una potente signoria che si estese a molte isole dell’ Egeo e fin anco in Attica, dove egli prese Megara cagionando la morte al re Niso nel modo sopra narrato, e ridusse alle strette il re Egeo.

A confermare il suo diritto al trono, un giorno Minosse pregò Posidone gli inviasse dai profondi abissi del mare un toro che egli avrebbe poi a lui sacrificato. Posidone esaudì la sua preghiera, e comparì fra le spume marine un magnifico toro, bello e forte e bianco come la neve. Minosse n’ ebbe conferma nel diritto al trono, ma la bellezza del toro gli suggeri la malvagia idea di appropriarselo e sacrificar un altro toro a Posidone. Ne fu ben punito, perchè il Dio ispirò alla moglie di Minosse Pasifae un pazzo amore per quel toro, si che cominciò a corrergli dietro per monti e boschi fin che ridusselo al suo desiderio. Ne nacque il Minotauro, mostro composto di corpo umano con collo e testa di toro, che Minosse fece rinchiudere nel labirinto costruttogli da Dedalo. Questo celebre figlio di Mezione e pronipote di Eretteo, avendo per gelosia d’ arte ucciso il suo nipote Talo, erasi riparato in Creta col figlio Icaro, e ivi aveva costruito pel re Minosse, tra altri edifici, il labirinto con tanti andirivieni di strade che niuno entratovi era in grado di uscirne. A pascere il Minotauro la rinchiuso Minosse faceva gettare o dei condannati a morte o degli schiavi, specialmente giovanetti e giovanette, fatti consegnare per tributo dalle genti vinte in guerra. Come anche gli Ateniesi fossero stati sottoposti a questo tributo, come Teseo li avesse alfine liberati venendo a Creta e coll’ aiuto di Arianna e di Dedalo penetrando nel labirinto e uccidendo il Minotauro, s’ è narrato nel precedente capitolo. Qui s’ aggiunga che Dedalo, per punizione d’ aver aiutato Teseo, fu rinchiuso col figlio Icaro nel labirinto. Ma egli non sgomentatosi pensò sfuggire per le vie aeree, e fabbricate delle ali di penne, le adattò con cera al suo corpo e a quello del figlio; così volaron via. Senonchè avendo Icaro voluto volar troppo alto, liquefattasi la cera e staccatesi l’ aie, precipitò in quel mare che da lui ebbe il nome di Icario. Dedalo più prudente e più fortunato giunse a Cuma e di là in Sicilia, dov’ ebbe benigna accoglienza dal re Cocalo. Là si recò subito anche Minosse per far vendetta contro di lui, e richiese a Cocalo la restituzione del fuggitivo; ma non che ottenerla, fu egli stesso ucciso per istigazione delle figlie di Cocalo. Secondo una nota leggenda, ma di tarda formazione, Minosse diventò col fratello Radamanto e con Eaco il giudice dei morti nell’ Averno.

Dei figli di Minosse, Catreo, come già si disse, gli succedette nel trono. Ebbe egli tre figliuole di cui una, Erope, sposa prima a Plistene poi ad Atreo, fu madre di Agamennone e Menelao, l’ altra, Climene, sposa a Nauplio partorì Oiace e Palamede; ebbe poi un figlio, Altemene, che andò a stabilirsi a Rodi fondandovi il culto di Zeus Atabyrios. Da questo figlio Altemene Catreo ebbe morte secondo un’ antica disposizione dell’ oracolo. Altri figli di Minosse furono Deucalione che prese parte alla caccia del cinghiale Calidonio e fu padre di Idomeneo uno degli eroi Greci a Troia; Glauco che trovò fanciullo la sua morte in un vaso di miele dove cadde, ma fu richiamato in vita dall’ indovino Poliido di Argo, o secondo altri da Asclepio; infine l’ ultimo figlio, Androgeo, il quale fu ucciso dagli Ateniesi e così die’ occasione alla guerra che Minosse mosse loro.

3. La leggenda del rapimento d’ Europa fu trattata poeticamente da Ovidio nel secondo delle Metamorfosi (844-855); e dal medesimo in racconto notissimo dell’ ottavo libro (183-230) la fuga di Dedalo dal labirinto e la conseguente caduta fatale di Icaro; già abbiamo altrove ricordato dello stesso libro il racconto della caduta di Megara e dell’ uccisione del Minotauro (vv. 1-182).

b) Talo. §

1. Tra le leggende Cretesi è ancor da menzionare lo strano mito di Talo, l’ uomo di bronzo, leggenda che pare accenni ad origine fenicia e all’ uso dei sacrifizi umani. Talo dunque dicevasi fosse tutto di bronzo e invulnerabile; Efesto, o, secondo altri, Giove l’ aveva donato a Minosse come custode dell’ isola di Creta. Egli percorreva di corsa tre volte al giorno l’ isola, e se qualche straniero tentava avvicinarsi, saltava nel fuoco fino a diventar rovente, poi abbracciava i mal capitati e se li teneva stretti con un riso sardonico finchè esalavano l’ ultimo respiro. Ma aveva anch’ egli il suo lato debole e ne fu vittima. Aveva una vena unica che dalla, testa scendeva sino ai talloni, dov’ era chiusa con un tappo; perdendo questo, rimaneva presto dissanguato. E questo accaddegli allora che egli tento di impedire agli Argonauti reduci dalla Colchide lo sbarco nell’ isola; Medea colla sua astuzia riuscì a strappargli il tappo fatale e così egli morì.

2. Talo ha la sua piccola parte nella letteratura e nell’ arte. Lo ricorda Simonide dicendolo opera di Efesto, lo ricorda Ibico chiamandolo delizia de’ bei giovani di Creta. Apollonio di Rodi nel quarto delle Argonautiche racconta poeticamente (v. 1638 e seg.) la morte di lui nel modo sopra riferito. Questo stesso tema si vede trattato in pitture vascolari, fra cui ricordiamo una bellissima su un vaso apulo rappresentante Talo che in seguito agli incantesimi di Medea muore nelle braccia dei Dioscuri. Le monete cretesi lo hanno sovente in figura di un giovane alato in atto di correre e di scagliare pietre.

VIII. Le leggende di Eracle-Ercole. §

1. Come Teseo era l’ eroe della stirpe ionica, così Eracle fu propriamente l’ eroe della stirpe dorica, sebbene in origine le leggende a lui relative fossero diffusissime anche fra le popolazioni eolie, e in seguito sia di ventato l’ eroe nazionale dei Greci in genere. Salvochè al nucleo primitivo di queste leggende se ne aggiunsero e intrecciarono tante altre e greche e orientali, che n’ è venuta una complicazione grandissima. Noi dobbiamo limitarci ad esporre le più importanti, disponendole secondo i momenti principali della vita dell’ eroe, ed avvertendo che molte son di origine relativamente recente, inventate o introdotte da altre fonti per compire la biografia Eraclea.

A) Nascita e giovinezza di Eracle. — Questa parte del racconto è stata elaborata per lo più in Beozia. Eracle era detto discendente di Perseo, e fu certo il più illustre di questa stirpe. Sua madre era Alcmena, figlia di Elettrione e nipote di Perseo. Sposo a costei era Anfitrione, nipote pure di Perseo per via di Alceo. Or avendo Anfitrione ucciso Elettrione, dovè, per sottrarsi alla vendetta di Stenelo fratello dell’ ucciso, fuggire da Tirinto colla sua sposa e cercar rifugio in Tebe ove il re Creonte l’ accolse. Di qui mosse a una guerra contro i Teleboi o Tafi, colpevoli di aver invaso e saccheggiato il territorio di Elettrione e ucciso i fratelli di Alcmena. Gli è appunto durante l’ assenza di Anfitrione, che Zeus preso d’ amore per Alcmena la fè madre di Eracle. Di qui s’ intende come Eracle, sebben figlio di Zeus, fosse anche detto Anfitrioniade. Gemello con Eracle, ma nato da Anfitrione, si disse Ificle. Eracle, nato di donna mortale, non doveva sfuggire all’ odio e alla persecuzione della gelosamoglie di Zeus. Si manifestò quest’ ostilità fin dal primo di lui nascimento. Perchè, avendo Zeus, nel giorno in cui Alcmena doveva dare alla luce i due gemelli, detto ira gli Dei che sarebbe nato allora allora il più forte dei Persidi, il quale sarebbe stato signore e sovrano di tutti i discendenti, Era, come dea dei parti, ricorse a quest’ astuzia di ritardare il parto di Alcmena e anticipare invece di due mesi quello della moglie di Stenelo; nacque quindi quel giorno Euristeo, al quale sebben vile ed imbelle, dovettero rimaner soggetti pel decreto di Zeus tutti i Persidi, ed anche Eracle tanto più forte di lui. Non contenta di ciò, quando Eracle aveva otto mesi, Era gli mando contro due serpenti perchè lo avvolgessero nella culla e uccidessero; ma egli li strozzò. Superate così le prime avversità crebbe in Tebe il forte Eracle. Attesero alla sua educazione ottimi maestri; ma mentre egli faceva rapidi progressi nelle cose di guerra, essendo da Eurito esercitato nel trar d’ areo, da Autolico nella lotta, da Castore nel maneggio dell’ armi, da Anfitrione stesso nel guidare i cavalli, rimaneva addietro nell’ arti musiche; anzi accoppò colla lira il suo maestro Lino che gli aveva inflitto un castigo. In punizione, Anfitrione lo mandò sul Citerone a pascolar greggi, e così rimase fra i pastori fino al diciottesimo anno d’ età. Compi allora il suo primo atto eroico uccidendo un leone che infestava quel monte. Se da questo avesse ricavato la pelle di cui si rivestiva in seguito, o se dal leone di Nemea di cui tra poco, la tradizione non sapeva dire. Tornando a Tebe, incontrò i messi di Ergino, re dei Minii in Orcomeno, che si recavano a Tebe per ritirare l’ annuo tributo di 100 buoi; egli taglio loro naso e orecchie e li rimando incatenati a Orcomeno. Ne sorse guerra, nella quale vinti i Minii, egli non solo libero Tebe dal tributo ma obbligo quei di Orcomeno a un tributo doppio. In quella guerra morì Anfitrione. Creonte grato ad Eracle di tanta vittoria, gli diè in isposa sua figlia Megara, e gli Dei gli fecero dono di splendide armi. — A questo punto Euristeo re di Tirinto (o Micene), chiamò Eracle al suo servizio. Doveva, secondo il decreto di Zeus, compire dodici fatiche (il numero dodici fu fissato, a vero dire, solo nell’ età alessandrina, allorchè si volle mettere Eracle in rapporto col dio solare Fenicio Baal e le dodici gesta venivano a corrispondere col dodici segni dello zodiaco), e così conseguire l’ immortalità. Alla chiamata di Euristeo, Eracle consulto l’ oracolo di Delfo, e n’ ebbe in risposta si rassegnasse al suo destino. Di che egli montato in furore, così la leggenda, uccise i suoi tre figli avuti da Megara e due figli di Iflcle. Tornato in sè, si recò a Tirinto per compiervi la sua missione.

B) Eracle al servizio di Euristeo, o te dodici fatiche di Eracle. — Enumeriamo qui le dodici fatiche secondo la leggenda più comune, avvertendo, che alle fatiche prescritte da Euristeo s’ intrecciano altre gesta accessorie, che si dissero, con greca voce, parerga.

a) La lotta col leone di Nemea. Era un mostro nato da Tifone ed Echidna, ed aveva la pelle invulnerabile. Abitava nei dintorni di Nemea e Cleona. Eracle non potendo ferirlo nè colle freccie nè colla clava, lo cacciò entro la sua tana, e ivi lo soffocò tra le braccia. Poi gli tolse la pelle, che gli servi di vestimento, come la testa gli serviva di elmo. b) L’ Idra di Lerna. Era un grosso serpente, nato anch’ esso da Tifone ed Echidna, con nove teste (il numero varia, alcuni dicono persin 10,000), di cui una immortale. Infestava i dintorni di di Lerna nell’ Argolide uccidendo uomini e bestie. Il nostro eroe dopo aver col dardi stanato la bestia, l’ affronte) impavido e andava tagliando con la spada le teste; ma con suo grande stupore a ogni testa tagliata ne vedeva rinascer due. Allora, ricorrendo all’ aiuto di Iolao figlio di Ificle, suo fido compagno, fece dare il fuoco ad un bosco vicino, e si fece portare dei tronchi in flamme. Con questi affrontò l’ idra e bruciò mano mano tutte le teste; su quella che era immortale gittò un masso enorme. Nella bile velenosa sparsa dall’ idra morente tinse i suoi dardi, e ne ottenne che le ferite da quelli prodotte divenissero insanabili. Si noti che Euristeo non volle, secondo alcuni, menar buona questa fatica perche Eracle si fè aiutare da Iolao. c) Il cinghiale di Erimanto era sbucato dal monte Erimanto sul confini dell’ Acaia, dell’ Elide e dell’ Arcadia e guastava i campi di Psofi. Eracle lo inseguì e spinse sino alla cima del monte che era coperta di neve, e di là lo afferrò e s’ avviò per portario vivo ad Euristeo. Ma quando Eracle comparve a Micene davanti a lui, n’ ebbe egli tanta paura che corse a nascondersi in una botte. Con quest’ avventura di Eracle si connette uno del parerga o fatiche accessorie, la lotta col Centauri. Giacchè strada tacendo essendosi fermato presso il centauro Folo, che gli diè a mangiare carni arrostite, ed avendo per bere aperto il vaso del vino che era comune a tutti i Centauri, questi gli si avventarono contro; ma egli li respinse e parte uccise e parte inseguì fino a Malea, dove si rifugiarono in casa di Chirone là cacciato dal Pelio per opera dei Lapiti; anche Chirone fu inavvertentemente ferito con un dardo d’ Eracle, e la ferita rimase insanabile. d) La cerva di Cerinea aveva le corna d’ oro e i piedi di rame; era sacra ad Artemide, e soggiornava sul monte Cerinea fra l’ Arcadia e l’ Acaia. Era anche detta la cerva del Menalo, dal monte Menalo in Arcadia. Eracle dovendo prenderla viva la inseguì un anno intero; infine presso il fiume Ladone in Arcadia la ferì con un dardo a un piede e la prese. e) Gli uccelli di Stinfalo abitavano sul lago di Stinfalo in Arcadia, ed erano muniti di artigli, ali e becco di bronzo, e penne pure di bronzo che essi lanciavano come freccie. Eracle ne uccise alcuni, altri spaventò con un sonaglio di bronzo datogli da Atena, si che non comparirono più. Secondo la leggenda degli Argonauti, fuggirono all’ isola Arezia, vicino alla Colchide. f) Il cinto di Ippolita era un dono fatto a lei, regina delle Amazoni, da Ares. Or desiderava possederlo Admeta, la figlia di Euristeo. Eracle dovette dunque assumersi il compito di andarglielo a prendere. Si recò a Temiscira, la metropoli delle Amazoni, e entrò in rapporto con la regina. La quale sulle prime era disposta a dare il cinto, ma Era in figura di Amazone diffuse la voce che si voleva rapire la regina; allora le Amazoni presero le armi contro Eracle e i suoi. Ne seguì aspra zuffa; Ippolita fu da Eracle uccisa, e questi potè andarsene col desiderato cinto. A questa fatica si connettono altre, che son fra i parerga. Tra queste è da ricordare l’ avventura di Esione, figlia del re troiano Laomedonte, esposta a un mostro marino, che era stato mandato da Posidone per punire quel re della fraudata mercede, dopo l’ aiuto dato da lui e da Apollo a ri far le mura di Troia. Eracle ucciso il mostro, liberò la infelice fanciulla. Laomedonte che gli aveva promesso, se ciò facesse, i cavalli avuti da Zeus in cambio del rapito Ganimede, non mantenne neanche allora la fede data; onde Eracle se n’ andò minacciando guerra entro non molto tempo. g) Ripulimenlo delle stalle d’ Augia o Augea. Era costui figlio di Elios o Eleo re degli Epei nell’ Elide, ricco di immensi armenti. Eracle doveva in un giorno nettare dall’ accumulato letame quelle stalle; impresa che veramente pareva impossibile. Augia stesso, sentito di che si trattava, non dubitò promettere il decimo de’ suoi armenti, tanto era persuaso dell’ ineffettuabilità di un simile tentativo. Pure Eracle ci riuscì; giacchè deviato il corso dell’ Alfeo o del Peneo o di tutte due, e fatte passar le acque nelle stalle di Augia, la forza della corrente facilmente trascinò via il letame. Augia ne fu lieto, ma quando seppe che la fatica era imposta da Euristeo, non voleva più dare ad Eracle il pattuito compenso. Allora Eracle mandò un esercito contro l’ Elide; senonchè, in assenza di Augia, i Molionidi Eurito e Cteato sorpresero in una gola quest’ esercito e lo sconfissero. Tanto più inviperito Eracle uccise i Molionidi a Cleone d’ Argo, poi devastò il paese d’ Augia, e uccise lui stesso col figli. Dopo di che istituì i giochi Olimpici. h) Il toro di Creta era quello mandato da Posidone a preghiera di Minosse, come s’ è narrato nelle leggende cretesi. Avendolo Posidone messo in furore perchè Minosse non lo sacrificò come aveva promesso, e scorrendo il toro infuriato per l’ isola, Eracle ebbe il compito di prenderlo. Lo prese infatti e portò a Micene vivo. Rimesso in libertà, figura di nuovo come toro di Maratona nella leggenda di Teseo. i) Le cavalle di Diomede eran feroci bestie, a cui Diomede, re dei Bistoni in Tracia, gettava in pasto gli stranieri che capitavano nelle sue rive. Eracle vinse Diomede e diè lui in pasto alle sue bestie. Poi legò queste e le portò vive ad Euristeo, il quale le rimise in libertà. l) I buoi di Gerione. Era questi un mostro, con tre corpi dal ventre in su, figlio di Crisaore e di Callirroe; abitava nell’ isola Eritea (Erytheia) situata al l’ estremo Occidente, ed ivi possedeva un ricco e bellissimo armento. Di questo doveva impadronirsi Eracle. Questa im presa che portava l’ eroe in lontane regioni, offriva spazio a molte avventure parerga, e molte infatti ne inventò la fantasia popolare. Comunemente si fa viaggiare Eracle traverso la Libia; gli si fa piantare le colonne da lui denominate sullo stretto di Gibilterra; si racconta che, offeso dai raggi cocenti del sole tramontante, puntò contro lui i suoi strali, onde Elios ammirato di tanto ardire gli lasciò l’ uso del suo battello d’ oro fatto a forma di tazza. Coll’ aiuto di questo potè l’ eroe passare l’ Oceano e giungere ad Eritea. Quivi, ucciso il gigante Eurizione e il cane bicipite Ortro che erano a custodia del gregge di Gerione, se ne impossessò. Senonchè Gerione avvertito gli corse dietro ed impegnò lotta con lui, ma fu vinto ed ucciso. Eracle ritornò passando per l’ Iberia, la Gallia e l’ Italia e portò il gregge di Gerione ad Euristeo che lo sacrifîcò ad Era Argiva. — Tra i parerga connessi con quest’ impresa, ricorderemo la lotta col gigante Anteo, figlio della terra, il quale era re della Libia e obbligava i passanti a lottare con lui; egli semprechè toccava col piedi la sua madre terra, ripigliava forza, ond’ era invincibile. Eracle dovè per vincerlo tenerlo sollevato da terra e soffocarlo così con una stretta delle sue braccia poderose. Altri nemici vinti allora da Eracle furono Erice in Sicilia, Alcioneo sull’ Istmo. I Latini collocavano qui la lotta del loro Ercole col gigante Caco, di cui parleremo. m) I pomi aurei delle Esperidi. Erano questi un dono di nozze che Era aveva ricevuto da Gea in occasione del suo matrimonio con Zeus. Erano custoditi nell’ estremo occidente dalle Esperidi (le ninfe di ponente), figlie della notte e del drago Ladone, nato, come tutti i mostri simili, da Tifone e da Echidna. Eracle doveva andare a prendere questi pomi d’ oro, pur ignorando dove fosse la sede delle Esperidi. Questo lo portò a nuovi e lunghi viaggi, e di qui l’ occasione di inventare molte altre avventure accessorie. Prima per l’ Illiria si recò l’ eroe all’ Eridano, allo scopo di interrogare le ninfe di questo fiume intorno alla via da percorrere per giungere alle Esperidi. Gli fu suggerito di ricorrere all’ infallibile Nereo; egli lo sorprese nel sonno e lo tenue stretto fintantochè n’ ebbe la notizia, che la via gli sarebbe stata rivelata da Prometeo incatenato sul Caucaso. Eracle allora s’ avviò verso la Libia; ivi ebbe, secondo alcuni, l’ avventura di Anteo da altri riferita alla fatica precedente. Poi si reco in Egitto ove era un re crudele Busiride che afferrava i forestieri e li sacrificava a Zeus. Anche Eracle doveva subire la stessa sorte, ma egli spezzò le catene ond’ era avvinto e uccise Busiride e i suoi figli, facendo poi anche baldoria alla tavola regale lautamente imbandita. Dall’ Egitto Eracle si recò in Etiopia, poi di là dal mare in India, e giunse così al Caucaso dove libero Prometeo uccidendo 1’ aquila che gli rodeva il fegato. Descrittagli da Prometeo la via alle Esperidi, giunse egli finalmente per la Scizia al paese degli Iperborei dove Atlante regge sulle sue spalle il mondo. Qui riusciva al termine della spedizione; poichè Atlante s’ incaricava di andar lui a prendere i tre pomi d’ oro purchè Eracle nel frattempo sostenesse egli la volta del cielo. E qui un’ avventura comica. Atlante, una volta che si senti libero dal peso del mondo, non voleva più sottostarvi, e dicendo che avrebbe portato egli stesso i pomi ad Euristeo, tento lasciar Eracle nell’ imbarazzo. Ma questi, più scaltro di lui, lo pregò riassumesse il peso tanto almeno che egli si fosse fatto un cercine per non sentir troppo la fatica. Atlante se la bevve, ed Eracle parti col pomi. Secondo un’ altra tradizione, Eracle sarebbe arrivato egli stesso agli orti delle Esperidi e avrebbe presso i pomi uccidendo il drago dalle cento teste che li custodiva. n) La cattura di Cerbero fu l’ ultima e più grave fatica prescritta da Euristeo ad Eracle. Aiutato da Ermes e Atena, s’ avviò alla volta dell’ Erebo, passando per il promontorio Tenaro in Laconia. Alle porte dell’ Ade trovò Teseo e Piritoo legati in seguito al tentativo fatto di rapire Persefone. Eracle libero Teseo; e voleva anche sciogliere dai ceppi Piritoo, ma in quel momento tremò la terra ed allora egli desistò dall’ impresa. Ade poi gli diè il permesso di portare con sè il tricipite Cerbero, purchè riuscisse senz’ armi a domarlo. L’ eroe stringendo alla gola Cerbero, lo incatenò e trasse su alla luce del sole; e dopo averlo fatto vedere ad Euristeo, lo ricondusse di nuovo nell’ Inferno. Con questa fatica Ercole si liberò dal servizio di Euristeo.

C) Gesta di Eracle dopo le dodici fatiche. Tornato a Tebe, Eracle cedè a Iolao la sua prima moglie Megara, ed egli s’ avviò ad Ecalia (luogo incerto, dagli uni viene collocata in Tessaglia, da altri nel Peloponneso sul confini dell’ Arcadia e della Messenia, ed anche in Eubea presso Eretria), dove il re Eurito prometteva la sua bionda e bella figliuola Iole in isposa a chi sapesse vincere lui e i suoi figli nel trar d’ arco. Eracle aspirava alla mano di Iole; venuto a gara con Eurito facilmente lo vinse; ma poi questi non voleva concedergli la figliuola pel motivo ch’ egli aveva ucciso i suoi bambini avuti da Megara, ed era stato in servitii presso Euristeo. Anelando vendetta allora s’ allontanò da Ecalia l’ eroe; e poco dopo avuto in suo potere Ifito figlio di Eurito, lo precipitò giù dalle mura di Tirinto e uccise. Più tardi si favoleggiava che Ifito fosse amico di Eracle e questi lo avesse ucciso in un accesso di follia. In ogni modo, versato questo sangue, occorreva essere purificato. Ricorso all’ oracolo di Delfo, n’ ebbe ripulsa; adirato Eracle voleva far violenza nel tempio stesso di Apollo, ed essendo comparso lo stesso Dio, con lui s’ accingeva temerariamente a lottare l’ eroe, quando Zeus con un terribile fulmine separò i combattenti. A espiare questi misfatti, la Pizia disse che Eracle doveva vivere per tre anni in condizione di schiavo. — Segue la leggenda della servitù a cui Eracle rimase soggetto presso Onfale, nglia di Iardano, vedova di Tmolo e regina della Lidia. È leggenda di origine lidia, poi intrecciata nei racconti greci; giacchè anche i Lidi avevano un loro eroe, solare, di nome Sandone che veneravano come capo di loro stirpe; e il carattere lidio della leggenda si manifesta in quel non so che di effeminato e di sensuale che in essa si osserva. Dicevasi dunque che Eracle era vissuto per quei tre anni tra le donne di Onfale, filando lana come loro, anzi vestito da donna anch’ egli, avendo lasciato che Onfale indossasse la sua pelle leonina e portasse la clava a dileggio. Pur tuttavia in mezzo a quell’ effeminata vita qualche atto virile compì Eracle; presso Efeso prese e incatenò i Cercopi, specie di folletti scaltri e maliziosi che solevano fare ai passanti burle poco piacevoli. Poi uccise il malvagio Sillo che obbligava i viandanti a lavorare nella sua vigna. — Tornato in libertà dalla servitù di Onfale, Eracle in unione con altri eroi Greci, come Peleo, Telamone, Oicle, fece la sua spedizione contro Troia per trar vendetta di Laomedonte. La città fu presa e Laomedonte cadde per mano d’ Eracle con tutti i suoi figli, ac eccezione di uno, Podarce. Eracle diede Esione in premio a Telamone, che la rese madre di Teucro; e poichè Esione ebbe da Eracle facoltà di salvare col suo velo uno dei prigionieri, salvò suo fratello Podarce, che d’ allora in poi si chiamò Priamo, ossia il riscattato, e divenne capostipite dei Dardanidi. — A questo punto si suoi collocare la spedizione contro Augia e l’ istituzione dei giuochi Olimpici che noi abbiamo già ricordato avanti. — Segue la spedizione contro Pilo, mossa dal fatto che Neleo re di Pilo aveva dato aiuto ai Molionidi, ovvero perchè questi s’ era rifiutato di purgar Eracle dopo l’ uccisione di Ifito. Tale guerra contro i Pilii fu dai poeti posteriori narrata con una folia di particolari, e vennero introdotti a combattere anche gli Dei dell’ Olimpo, parte a favor di Neleo parte in aiuto di Eracle. Il quale avrebbe in tal occasione ferito persino alcune divinità come Ade. Laschiattadi Neleo fu naturalmente distrutta; compreso il terribile Periclimeno, che da Posidone aveva avuto il dono di assumere tutte le forme d’ animali che voleva. Non rimase che il figlio minore, Nestore, il quale poi fu il continuatore della nobile famiglia. — Alla spedizione contro i Pilii connettesi quella contro il re dei Lacedemonii. Era questi Ippocoonte, fratellastro di Tindareo, ed a lui aveva usurpato il regno. Eracle lo vinse e restituì la signoria a Tindareo. In questa occasione ebbe aiuto da Cefeo re di Tegea, e mentre era in questa città, generò con la bella Auge, figlia del re, quel Telefo che per diversi casi diventò re della Misia e combattè contro i Greci, e fu ferito prima colla lancia d’ Achille, poi colla ruggine della stessa lancia risanato. — Segue nella storia dell’ eroe la lotta sostenuta per ottenere in moglie Deianira, figlia di Eneo re degli Etoli e sorella di Meleagro e Tideo. Molti erano gli aspiranti, ma uno solo osò contrastare ad Eracle, e fu il fiume Acheloo. Seguì fiera lotta tra i due; Acheloo ricorse alle varie forme ond’ era capace la sua natura, ma in nessuna guisa potè sottrarsi alle strette soffocanti dell’ eroe; infine come toro perdette uno dei corni, che riempito da una ninfa di flori e frutti diventò il Corno dell’ abbondanza. Eracle vincitore sposò Deianira e con lei visse felicemente qualche tempo e n’ ebbe il figliuolo Illo. Più tardi si recò con Deianira dal suo amico Ceice in Trachine ai piedi del monte Oeta. Cammin facendo, gli capitò l’ avventura del centauro Nesso. Dovendosi passare il fiume Eveno, Nesso era incaricato di traghettare Deianira; ma egli innamoratosi di lei tentò di fuggire colla bella preda. Un dardo di Eracle lo colse e gli fe’ pagar il fio di tanta audacia. Egli pur morendo fè terribile vendetta, dando a Deianira un po’ del suo sangue e dicendo avrebbe potuto prepararne dell’ unguento magico da assicurarsi in ogni caso l’ amore di suo marito. Si vedrà appresso qual inganno si nascondesse in tale promessa. Giunto a Trachine, Eracle ebbe buona accoglienza da Ceice. Là combattè contro i Driopi e aiutò il re dorico Egimio contro i Lapiti. Poi lottò in singolare tenzone con Cicno (Cycnos) figlio di Ares, presso Itone vicino al golfo di Pagase; e non solo uccise il suo avversario, ma ferì anche il Dio della guerra che era accorso in aiuto del figliuolo.

D) Ultime vicende di Eracle e sua apoteosi. L’ ultima impresa di Eracle fu la spedizione contro Eurito di Ecalia per vendicare l’ affronto di avergli rifiutato la figlia Iole. La città fu conquistata. Eurito ucciso col figliuoli, e la bella Iole cadde in mano del vincitore. Ma ecco nel ritorno a Trachine, Deianira, saputo di Iole, credendo assicurarsi l’ amore del marito coll’ unguento avuto da Nesso, mandò in dono ad Eracle una bianca veste intrisa di quell’ unguento. L’ eroe senza sospetto la indossò. Subito il veleno, chè tale era, cominciò ad agire. L’ infelice senti il corpo infiammarglisi e corrodersi, tentò strapparsi la veste di dosso; invano, s’ era così appiccicata alla carne che levarla non si poteva più. Nella rabbia del dolore afferrò il messo Lico che gli aveva portata la veste e lo scaraventò nel mare, dove divenne uno scoglio. Egli s’ avviò a Trachine dove Deianira informata della disgrazia già erasi pel dolore uccisa. Allora vedendo tutto perduto, ordinato a suo figlio Illo di sposar Iole, tornò sull’ Oeta, ivi fe’ erigere un rogo per finir i suoi strazi tra le fiamme. Ma niuno de’ suoi voleva dar fuoco al rogo; infine Peante padre di Filottete o Filottete stesso che passava di là, gli rese questo servizio, in compenso di che egli a lui donò il suo areo e le sue freccie. Mentre il rogo ardeva, ecco fra lo scrosciar dei tuoni comparir una nuvola in cielo, e un cocchio guidato da Atena accoglie l’ eroe illustre e portalo su sull’ Olimpo. Là egli visse cogli immortali, e riconciliato con Era, ebbe da Zeus il dono di eterna gioventù, fatto sposo di Ebe, da cui ebbe due figli, Alexiare e Aniceto.

2. Tali sono i tratti più caratteristici della complicata leggenda di Eracle. Sebbene sia impossibile veder chiaro nell’ origine di questo intreccio di racconti, pur si capisce che qui si trovan mescolati a miti naturali degli elementi storici e allegorici. Le spedizioni contro i Driopi, contro i Pitii, gli Ippocoontidi son fatti storici in fondo, appartenenti alla stirpe dorica e riferiti dalla leggenda all’ eroe della stirpe. Invece Eracle che compie le dodici fatiche che altro può essere se non una forza benefica la quale lotta contro gli ostacoli della natura, a benefizio degli uomini? Dopo l’ apoteosi, in tempo in cui nel concetto del divino si rinchiudeva un profondo contenuto morale, Eracle divenne simbolo della più sublime forza morale che lotta contro le difficoltà della vita e colla forza e la costanza le supera e consegue così eterna gloria. Nel culto popolare il forte Eracle divenne anzitutto protettore dei Ginnasi, e ad es. in Atene a lui era particolarmente dedicato il Ginnasio Cinosarge. In secondo luogo lo si venero come salvatore e benefattore dell’ umanità, e lo si invocava per aiuto nelle difficili congiunture della vita, specialmente col titoli di Soter, salvatore, e Alexicacos, allontanatore dei mali. Templi si eressero, e si istituirono feste pubbliche dette Eraclee in diversi luoghi della Grecia, come ad Atene, a Sicione, a Tebe, a Lindo, a Coo, ecc. A Maratona dove dicevasi che si fosse principiato a venerare Eracle come Dio, avevan luogo ogni quattro anni dei certami solenni, nei quali si davano ai vincitori come premio delle tazze d’ argento. Era a lui sacro il quarto giorno d’ ogni mese; chè lo si riteneva per il suo giorno natalizio.

3. Latinizzato il nome Eracle in Ercle, Ercole, le leggende relative a quest’ eroe si diffusero facilmente anche tra le stirpi italiche, massime che i molti viaggi attribuiti a lui offrivano l’ occasione di intrecciare ai racconti di provenienza ellenica altri di origine o almeno di riferimento locale. Solitamente la favola della spedizione contro Gerione e del ritorno di Ercole per l’ Italia era ampliata in tal senso. Si favoleggiava adunque che, venuto a Roma, Ercole aveva trovato ivi stanziato sul Palatino Evandro, dal quale era stato accolto con segni di amicizia; ma passando col suo armento per le pendici del monte stesso un ladrone per nome Caco, abitante in una grotta dell’ Aventino presso il Tevere, gli tolse via alcuni buoi, e per la coda, affinchè le orme non tradissero il luogo ove erano stati condotti, li trascinò alla sua grotta. Ma il muggito di questi bovi allontanati a forza dall’ armento fè avvisato Ercole, il quale mosse contro Caco, e impegnata con lui aspra lotta, affine lo vinse ed uccise. Poi per gratitudine a suo padre Giove che gli aveva fatto scoprir il furto, eresse nel luogo della zuffa un altare in di lui onore e gli sacrificò uno dei buoi ricuperati. Evandro ed i suoi fecero festa ad Ercole che aveva liberato quei luoghi da un così terribile nemico. Di qui il principio di un culto d’ Ercole nella religione romana. Gli fu dedicata la così detta Ara Maxima nel Foro Boario, tra l’ Aventino e il Palatino, e a poco a poco anche dei templi, come il tempio di Hercules victor ivi stesso, e un altro a pie’ dell’ Aventino vicino alla porta Trigemina. E invalse l’ uso che ogni anno in determinato giorno il pretore offrisse a Ercole, in nome della città, un giovenco o una giovenca, e anche i privati, in caso di guadagno, offrissero la decima parte ad Ercole per ringraziamento. In nome d’ Ercole giuravano specialmente gli uomini, come le donne preferibilmente in quello di Castore. Anche pei Romani Ercole presiedeva alle palestre e ai ginnasii, e come Hercules defensor o salutaris veniva invocato nei casi di disgrazia.

4. Eracle nella letteratura classica ha tanta parte, che sarebbe assai lungo l’ enumerare le opere o i luoghi che trattano alcuna delle leggende Eraclee. Già nell’ Iliade sono ricordate le fatiche compiute in servizio di Euristeo, sebbene non ne sia ancora fissato il numero di dodici, e altre gesta, fra cui specialmente la spedizione contro Troia. Poi anche Esiodo tratto diversi momenti della storia Eraclea, attenendosi specialmente alle leggende di Trachine e dell’ Oeta; poesie speciali compose per celebrare le nozze di Ceice con intervento di Eracle, e la lotta con Cicno il figlio di Ares; quest’ ultimo componimento esiste tuttora sotto il titolo di « scudo di Eracle », perche la descrizione delle armi e dello scudo dell’ eroe viene ad essere l’ argomento principale. Tacendo di altri epici minori, è da ricordare Pisandro di Rodi, vissuto nel 7º sec. av. C. il quale nel suo celebre poema, intitolato « le gesta di Eracle » (Herakleia), fu uno dei primi a parlare delle dodici fatiche cominciando dal leone di Nemea, dal quale l’ eroe doveva ricavare la pelle onde si vestiva e la clava. Segue in ordine di tempo Stesicoro che tratto di avventure isolate, come la lotta con Cerbero, l’ uccisione di Gerione ecc. con singolare vivacità di colori. Più di tutti va menzionato qui Paniasi d’ Alicarnasso, del 5º sec. av. C. parente di Erodoto, autore di un poema in quattordici libri, collo stesso titolo di quel di Pisandro, col quale si può dire i racconti eraclei abbiano preso quell’ assetto che divenne tradizionale. Anche i poeti lirici inserirono qua e là nelle loro opere cenni e ricordi dell’ eroismo di Eracle; bastimi ricordar Pindaro, che nella prima Nemea a lodare un valoroso, vincitore in una lotta equestre, celebra con nobil arte la lotta di Eracle fanciullo col dragoni mandatigli da Era. Alla loro volta i poeti tragici e comici è naturale sceneggiassero molti momenti della vita d’ Eracle, epperò tra le tragedie di Sofocle e di Euripide ve ne sono parecchie, e non delle men belle intorno ad Eracle; basti ricordare le Trachinie di Sofocle che s’ aggirano intorno alla presa di Ecalia e alle ultime vicende dell’ eroe. Altri fra i racconti Eraclei per qualche lato ridicolo offrirono begli argomenti a commedie e drammi Satirici. Persin la filosofia trovò pascolo nelle cose Eraclee, foggiando un Eracle tipo di forza, di costanza nelle avversità, modello da proporre ai giovani avidi di gloria. Tale è il noto racconto del Sofista Prodico, intitolato « Eracle al bivio »; ove si descrive il giovane Eracle seduto in luogo solitario del Citerone, incerto qual via della vita deva scegliere e percorrere, se quella del piacere che da una donna apparsagli, tutta vezzi e lusinghe, gli vien descritta piena di gioie e di riso, o quella della virtù che da altra donna, più severa nell’ aspetto, gli vien additata, aspra a percorrersi ma apportatrice di gloria e di immortalità; Eracle sceglie naturalmente la seconda. Ancora nell’ età alessandrina la leggenda di Eracle die’ argomento a lavori poetici diversi, o trattata per intiero come da Riano di Creta, o parzialmente come da Teocrito e da Mosco, le cui poesie di ispirazione eraclea vanno tra le migliori, che vanti la letteratura mitologica. — Anche nella letteratura latina i miti di Ercole sono spesso ricordati e celebrati. Già tra le prime commedie che la plebe romana vide rappresentare e gustò, v’ è l’ Anfitrione di Plauto, dove lo scambio del marito di Alcmena e di Giove dà luogo a scene lepidissime e piacevolissime. Fra i poeti moralisti, Ercole divenne l’ ideale dell’ eroe che superando innumerevoli difficoltà, e combattendo con invitta costanza le battaglie della vita, si rende degno d’ una gloria immortale. In tal senso Orazio parla di lui quando descrive l’ uomo retto e costante ne’ suoi propositi, cui nè i torbidi politici nè gli accidenti naturali abbattono e sfibrano (Od. 3, 3, 10); e lo ricorda pure come esempio dell’ invidia che perseguita gli uomini generosi mentre che son vivi, e non li lascia in pace se non quando son morti (Ep. 2, 1, 10). Sotto altro aspetto parlò d’ Ercole Ovidio, nelle cui Metamorfosi non potevano essere dimenticate così poetiche leggende come quelle d’ Ercole; quindi troviamo narrata nel nono libro la lotta di Ercole con Acheloo pel possesso di Deianira, poi il turpe tentativo di Nesso e l’ uccisione di lui, e il triste dono fatto dalla innamorata Deianira allo sposo e la dolorosa morte dell’ eroe sul rogo. Ancora nel duodecimo libro è menzionata la lotta di Ercole contro i Nelidi, specialmente contro Periclimeno, a cui nulla giovò la facoltà ottenuta dall’ avo Posidone di prendere a suo bell agio qualunque forma desiderasse e di bel nuovo deporla. Finalmente ricordiamo qui la tragedia di Seneca intitolata Hercules Furens, nella quale si pone in scena l’ eroe allorquando tornato dall’ Inferno dove aveva liberato Teseo, uccide Lico e di poi, divenuto furioso, uccide l’ infelice Megara e i figli avuti da lei; e l’ altra dello stesso Seneca Hercules Oelaeus, la quale, come le Trachinie di Sofocle, rappresenta la dolorosa morte e l’ apoteosi dell’ eroe.

All’ arti figurative e specialmente alla statuaria il tipo di Ercole e le sue gesta offrivano inesauribile fonte di argomenti. Quando si rappresentava Ercole solo, per lo più si cercava rendere l’ immagine di una forza straordinaria; quindi testa piccola e collo corto e toroso su un corpo da gigante, tutto carne e muscoli. Sopra tutti gli altri ottenne celebrità per rappresentazioni di questo genere lo scultore Lisippo, della giovane scuola Argiva, il quale si compiaceva di rendere nel bronzo la bellezza corporea, considerata così nella calma come nell’ agitazione di commossi atteggiamenti. Famosa tra l’ altre la sua statua colossale di Ercole in bronzo ch’ era in Taranto, e da Taranto dopo la presa della città fu portata sul Campidoglio, donde l’ imperatore Costantino la portò a Costantinopoli; ivi al tempo della crociata latina nel 1204 venne fusa. Rappresentava Ercole seduto colla testa appoggiata sulla mano sinistra in aria mesta e pensierosa. Altro capolavoro di Lisippo era una statuetta, quasi ninnolo da mensa, detta perciò epitrapezios, posseduta prima da Alessandro il Grande, poi da Annibale e da Silla, influe da Nonio Vindice, presso cui la vide il poeta Stazio e ammirò come parvus (Hercules) videri sentirique ingens51. In una grandiosa composizione Lisippo rappresentò anche le dodici fatiche; un gruppo fatto in origine per un santuario della città di Alizia in Acarnania, più tardi trasportato a Roma. — Tra le statue di Ercole ancora esistenti, ha il primo luogo il colosso conosciuto col titolo di « Ercole Farnese » trovato l’ anno 1540 nelle Terme di Caracalla, ora nel Museo Nazionale di Napoli (v. la fig. 85). L’ eroe è in riposo dopo le fatiche, colla sinistra ascella appoggiata sulla clava coperta dalla pelle leonina; il braccio sinistro pende abbandonato, montre il destro s’ appoggia dietro il dorso; il capo s’ inchina stanco e pensoso, e l’ occhio s’ affisa in terra come in fuggevole visione gli appaiano le fatiche passate e le future. Secondo l’ iscrizione, sarebbe quest’ opera di Glicone Ateniese; ma alcuni credono si abbia qui piuttosto una copia od imitazione di qualche statua di Lisippo. Artisticamente più importante, sebbene giunto a noi in condizioni tristissime, è il così detto torso di Belvedere in Vaticano, opera di Apollonio Ateniese, figlio di Nestore, trovato al tempo di Giulio II, in campo di Fiori, dove sorgeva il teatro di Pompeo. È parte di una grande figura sedente, della quale rimangono solo il torace e le cosce; ma questa reliquia è una delle più belle cose pervenuteci dall’ antichità, tanta è la grandiosità delle forme e dell’ atteggiamento, e la perfetta armonia delle linee ove la verità corporea viene idealizzata in squisita bellezza.

Venendo all’ opere d’ arte ove Ercole si rappresenta in gruppo con altre figure e seguendo l’ ordine biografico, non rara era in antico la rappresentazione di Ercole che strozza in culla i serpenti. Già il pittore Zeusi aveva dipinto questa scena aggiungendo le figure di Alcmena e di Anfitrione che riguardano spaventati. Nel Museo di Napoli si ammira ancor ora una pittura di Ercolano sullo stesso soggetto, e una statuetta di scena analoga è nella Galleria degli Ulfizi a Firenze. Specialmente frequenti erano le rappresentazioni delle dodici fatiche. Ancora ne rimangono parecchie. Ricorderemo la lotta coll’ Idra, gruppo in marmo del Museo Capitolino; i rilievi delle metope occidentali del tempio di Teseo in Atene e quelle del tempio di Zeus in Olimpia, di cui alcune si conservano nel Museo del Louvre a Parigi; notevole sopra tutte quella ov’ è rappresentata la lotta col toro cretese. Fra le imprese accessorie dette Parerga, quella che s’ incontra più di frequente è la lotta col centauri; ve ne son gruppi statuari nel Museo di Firenze e pitture vascolari in vasi di Volci e altri. L’ incontro col centauro Nesso riscontrasi in una pittura pompeiana che è nel Museo di Napoli; l’ eroe porta in collo il piccolo figliuolo Illo e a lui davanti sta in umile atteggiamento Nesso il quale sembra chiedergli facoltà di tragittare Deianira. — Nella corte del Palazzo Pitti a Firenze è un celebre gruppo rappresentante la lotta di Ercole col gigante Anteo; e della liberazione di Prometeo esiste una bella rappresentazione in un sarcofago proveniente dalla Panfilia e ora conservato nel museo Capitolino. — A ricordare l’ incontro di Ercole con Atlante, il reggitore del mondo, giovi la fig. 86, rappresentante una celebre statua del Museo Nazionale di Napoli. — Tra i vari monumenti dove si raffigurano i rapporti di Ercole e di Onfale, il più importante e bello è il gruppo marmoreo del Museo di Napoli; ove vedesi Onfale vestita della pelle leonina e colla clava nella destra in atto di riguardare con aria di dileggio l’ eroe vestito da donna colla rocca in mano.

Capitolo terzo.
Leggende relative ad imprese cui presero parte eroi di diversi paesi. §

I. La caccia al cinghiale di Calidone. §

1. Era re di Calidone in Etolia Eneo, e gli era moglie Altea, figlia di Testio re di Pleurone, altra città dell’ Etolia. Loro figlio era Meleagro, l’ eroe degli Etoli. Ora avendo Eneo in una solenne festa, celebrata in seguito ad abbondante vendemmia, trascurato di sacrificare ad Artemide, questa si vendicò mandando un fiero ed enorme cinghiale a infestare i dintorni di Calidone. Questa belva faceva danni d’ ogni maniera; la gente spaventata non aveva più tranquillità se non nelle città fortificate. Cacciarla non era impresa da soli; quindi Meleagro invitò i più valorosi ed eroici guerrieri d’ allora a prendervi parte; ci vennero tra gli altri i Dioscuri Castore e Polluce, Teseo e l’ amico suo Piritoo, Linceo e Ida figli di Afareo, Admeto di Fere, Giasone di Iolco, Ificle e Iolao di Tebe, Peleo padre di Achille, Telamone di Salamina, Anceo figlio di Licurgo, la bella cacciatrice Atalanta di Arcadia, e il noto vate Anfiarao d’ Argo. Dopo alcuni giorni di feste in onor degli ospiti, fu indetta la caccia. Si tendon le reti, si sguinzagliano i cani, si va dietro l’ orme impresse dalla belva. Infine queste è stanata, e feroce si scaglia in mezzo ai cacciatori, i quali vanno a gara per ferirla. Fra tanti dardi caduti a vuoto, il primo che ferì la bestia fu quello della bella Atalanta. La lotta si fa sempre più aspra, e per alcuni fatale; Anceo spintosi troppo avanti per dar un colpo d’ ascia al cinghiale ebbe il corpo lacerato dalle zanne di esso e stramazzò morto a terra; morì pure Ileo e molti dei cani. Alfine un dardo ben diretto dal vigoroso braccio di Meleagro ferì la belva mortalmente e allora fu facile agli altri con più colpi finirla. Il premio della vittoria, cioè la testa e la pelle del cinghiale, fu dato naturalmente a Meleagro, ma egli, tutto preso dalla bellezza di Atalanta, lo cedette a lei, dicendo che spettava a chi primo aveva ferito il cinghiale. Ciò destò le gelosie degli altri e specialmente di Plessippo e Tosseo figli di Testio e zii materni di Meleagro. Costoro, tese insidie ad Atalanta, le tolsero vilmente il dono che aveva avuto da Meleagro. Il quale indignato di questo li uccise. Ne nacque guerra tra gli Etoli e i Cureti di Pleurone. Da principio quei di Calidone eran superiori, ma poi avendo Altea, per il dolore dei perduti fratelli maledetto il figliuolo, questi si ritirò dalla lotta, e allora i Calidonesi ebbero la peggio e videro ben presto la loro città cinta d’ assedio dai nemici. In questa distretta gli anziani e i sacerdoti di Calidone si volgono a Meleagro e lo pregano a riprender l’ armi, ma invano; lo prega pure il suo vecchio padre, invano; lo pregano le sue sorelle e la madre istessa, ma Meleagro rimane irremovibile, come Achille nella guerra di Troia quand’ era adirato contro Agamennone per la schiava toltagli. Alla fine riuscì alla moglie di Meleagro, Cleopatra, di ammansare quel firo animo. Riprese le armi e postosi alla testa de’ suoi, diè tale assalto ai nemici che questi rimasero pienamente sconfitti; senonchè l’ eroe etolo non doveva tornar più dal campo di battaglia; la crudele erinni, che aveva udito la maledizione della madre, ne fe’ sua preda e lo fe’ morire.

Tale è la leggenda come si legge giù nell’ Iliade. Ma più tardi si invento un’ altra storiella per spiegare la fine dell’ eroe. Si diceva che poco dopo la sua nascita, le Moire erano apparse alla madre Altea e l’ avevano avvisata che il figlio suo sarebbe vissuto sol tanto quanto stava per durare certo tizzone che in quel momento era sul fuoco. Appena scomparse le Moire, Altea subito levò il tizzone dal fuoco e lo nascose. Così visse e crebbe Meleagro. Ma quando questi si rese colpevole dell’ uccisione degli zii, allora Altea soffocando in sè il sentimento materno, ripose il tizzone nel fuoco, e così il nobile e coraggioso eroe, nel flore della gioventù, come divorato da un fuoco interiore, se ne morì. Altea, troppo tardi pentitasi, si tolse la vita.

Se ben si considera, la leggenda di Meleagro eroe etolo, non differisce dalle altre leggende regionali di cui s’ è parlato nel capitolo precedente, e in fondo si tratta di un mito naturale, giacchè la lotta col cinghiale, la lotta dell’ eroe contro un mostro di natura, è costante espressione mitica della lotta tra il sole e la tempesta. Ma molto per tempo s’ intrecciarono al mito primitivo dei motivi umani e morali per rendere il racconto più interessante; e coll’ andar del tempo si fecero entrar in scena anche eroi di altre regioni greche; sicchè un primitivo mito locale divenne narrazione di un’ impresa nazionale, acquistando così sempre maggiore importanza.

2. Dopochè Omero aveva reso popolare il racconto di Meleagro nella sua prima forma, presto altri generi letterari si impadronirono di questo tipo, per crearvi intorno altre opere d’ arte. Già Frinico, uno dei più antichi poeti drammatici elaboro pel teatro la leggenda, poi la ripresero Sofocle ed Euripide svolgendo specialmente la parte più patetica, cioè l’ amore di Meleagro per Atalanta e l’ acerba morte dell’ eroe. Fra i Latini, illustro la favola con poetici colori Ovidio nell’ ottavo delle Metamorfosi, largamente descrivendo e i particolari della pugna, e l’ uccisione dei Testiadi e il lungo ondeggiare di Altea prima di risolversi a vendicar la morte dei fratelli levando dal fuoco il tizzone di Meleagro, e il dolore dei Calidonesi dopo la morte del loro giovine eroe e specialmente i mesti lamenti delle sorelle di lui in ultimo trasformate in uccelli.

Una bella rappresentazione figurata della caccia Calidonea ammiravano gli antichi sul frontone orientale del tempio di Atena Alea in Tegea d’ Arcadia, opera del grande Scopa; il gruppo di mezzo era formato dal cinghiale e dalle figure di Meleagro, Teseo e Atalanta, disgraziatamente la parte monumentale di questo tempio, salvo pochi frammenti, è perduta. Spesso si rappresentava il solo Meleagro e generalmente secondo un tipo di bellezza e di forza insieme. La figura 87 riproduce appunto una statua di questo genere, conservata nel Museo Vaticano. Si avverta quel non so che di malinconico che è nel viso di questo bel giovane.

II. La spedizione degli Argonauti. §

1. La storiella del vello d’ oro forma il nucleo della leggenda degli Argonauti; epperò anche qui siamo in presenza d’ una favola relativa a non fatto regionale che a poco a poco ha preso l’ importanza d’ un’ impresa di tutta la nazione. A raccontar tutto chiaro, bisogna rifarci un po’ dall’ alto. — Atamante, figlio di Eolo, era re dei Minii in Orcomeno di Beozia. Aveva in moglie Nefele (= la nuvola) e da essa aveva avuto due figli, Frisso (Phrixos, la pioggia che scroscia) ed Elie (Helle, la viva luce). Ma poi lasciò la moglie celeste per sposare donna terrena, Ino figlia di Cadmo, dalla quale ebbe Learco e Melicerte, come già si disse parlando di Ino Leucotea (vedi pagina 206). Di che offesa Nefele abbandonò la terra, e per castigo inviò un’ ostinata siccità sulla terra di Atamante. Ino pensando approfittarsi di questa congiuntura per toglier di mezzo i figli del primo letto, cercava indurre lo sposo a uccidere Frisso, come per immolarlo a Giove e ottenerne la cessazione della siccità. Allora Nefele intervenne in aiuto de’ suoi figli, e fe’ loro dono di un ariete dal vello d’ oro datole a questo scopo da Ermes; sul quale ariete Frisso ed Elle se ne fuggirono diretti alla Colchide (Ea, Aia) regione posta ad oriente del Ponto Eusino o Mar Nero. Cammin facendo, cadde Elle in mare, quel mare che da lei ricevette il nome di Ellesponto; Frisso invece giunse felicemente in Colchide, ivi sacrifico l’ ariete a Zeus protettore de’ fuggenti, e appese il vello d’ oro nel bosco di Ares facendovelo custodire da un terribile drago, sempre vigilante. Sposò anche ivi Calchiope, figlia del re di quella terra Eeta (Aietes). In conseguenza di tutto ciò, riportare dall’ estero il vello d’ oro, come una specie di talismano atto a liberare la patria dai mali ond’ era angustiata, divenne per gli eroi della stirpe di Eolo il compito principale. Atamante stesso s’ accord tanto dei mali del suo paese che ne impazzi, e nella pazzia perseguitando Ino e i figli avuti da lei, prese Learco e lo scaraventò contro una rupe; scampò Ino coll’ altro figlio Melicerte saltando in mare e affidandosi alle deità marine. Dopo di che, essendo Atamante fuggito in Epiro, la signoria dei Minii passò a Creteo, suo fratello. Questi ebbe da Tiro figliuola di un terzo fratello più giovane, Salmoneo, tre figli, di cui il maggiore chiamavasi Esone (Aeson). Questi succedette al padre nel regno, ma ne fu discacciato da un fratellastro Pelia, che era detto figlio di Tiro e di Posidone. A stento potè Esone salvare dalla persecuzione di Pelia il suo piccolo figlio Giasone (Iason), affidandolo al centauro Chirone perchè segretamente lo educasse. Così crebbe Giasone nella caverna del celebre Centauro, educato in tutte quelle arti nelle quali solevano ammaestrarsi i nobili figli di Eroi. Giunto ai venti anni, mosse alla volta di Iolco coll’ idea di obbligar lo zio a dargli la signoria a cui aveva dritto. Per caso, avendo perduto per istrada un sandalo, egli si presente a Pelia con un sandalo solo; ora Pelia era stato poco prima avvertito da un oracolo si guardasse da un forestiero monosandalo. Perciò preso sospetto di lui, e d’ altra parte non osando usare aperta violenza, pensò di disfarsi dell’ incomodo ospite affidandogli qualche pericolosa avventura. Dichiarò pertanto gli avrebbe ceduto volentieri la signoria di Iolco, a condizione che egli si recasse a prendere in Colchide e portasse a lui il vello d’ oro. Di qui la spedizione degli Argonauti. Giasone fe’ costruire nel portò di Iolco una nave a cinquanta remi, che dal nome del suo costruttore chiamò Argo, e chiamati a raccolta quanti più potè eroi d’ allora, salpò alla volta del Ponto Eusino.

Circa il numero e il nome degli eroi che presero parte alla spedizione, molta varietà di tradizioni. Nei tempi più antichi si nominavano solo eroi della stirpe de’ Minii, come Acasto, Admeto e Periclimeno; ma poi si crebbe via via il numero degli Argonauti, annoverandovi tutti gli eroi della generazione immediatamente anteriore alla guerra di Troia, quindi i Dioscuri, i Boreadi, Telamone, Peleo, Meleagro, Tideo, Ifito, Teseo, Orfeo, Anfiarao ed Eracle stesso; il quale ultimo però, per non assegnargli una parte troppo secondaria, s’ immaginò che si ritirasse presto dall’ impresa, lasciando nella Misia i commilitoni per inseguire il suo prediletto Ila (Hylas) che le ninfe fontane avevano rapito. In tutto gli Argonauti si facevano salire a cinquanta, cioè tanti quanti erano i remi della nave che li trasportava.

Secondo la leggenda più comune, gli Argonauti salpati da Iolco toccaron terra prima all’ isola di Lenno, ove stettero alcun tempo colle Lenniesi che avevano tutte ucciso i loro infedeli mariti; di là per l’ Ellesponto giunsero a Cizico, ove furono benevolmente accolti da Cizico, re dei Dolioni. Partiti di là, furono da una notturna tempesta risospinti a Cizico, e qui non riconosciuti dai Dolioni vennero a battaglia, nella quale il re Cizico cadde morto; e di dolore s’ uccise anche la sposa di lui Cleite e le ninfe de’ boschi la piansero, e dalle loro lagrime scaturiva la fonte Cleite. Lasciato poi Eracle nella Misia, gli Argonauti proseguirono il viaggio e giunsero in Bitinia ov’ erano i Bebrici, e Amico loro re. Ivi Polluce venuto a lotta di pugilato con Amico lo battò. Poi furono a Salmidesso di Tracia ov’ era un indovino cieco, Fineo; questi a patto di esser liberato delle Arpie che infestavan quelle terre, ciò che fu fatto dai Boreadi, consentì a istruire gli Argonauti intorno al resto del loro viaggio; specialmente li avvisò del difficile passo delle Simplegadi, specie di scogli all’ entrata del Ponto Eusino, i quali alternatamente si aprivano e si chiudevano, e con tanta velocità che ben difficilmente una nave poteva passarvi di mezzo. Così istruiti gli Argonauti riuscirono felicemente nell’ impresa, e d’ allora in poi le Simplegadi stettero ferme; era ormai aperto a tutti il varco all’ Eusino. Allora costeggiando la riva meridionale dell’ Eusino, arrivarono prima al paese delle Amazoni, poi all’ isola Aretias o di Marte dove erano gli uccelli Stinfalii che Eracle aveva fatto fuggire dall’ Arcadia. Cacciatili anche di là, insieme col figli di Frisso che nel ritorno dalla Colchide avevano naufragato a quell’ isola, giunsero nella sospirata terra di Eeta (Aietes), figlio del dio del Sole. — Rimaneva il duro compito di rapire il vello d’ oro gelosamente custodito da un drago. Qui entra in scena Medea, la figlia di Eeta, che ha tanta parte in questa leggenda. Innamoratasi di Giasone s’ impegnò ad aiutarlo. E prima promettendo Eeta di cedere il vello d’ oro a Giasone purchè aggiogasse due tori che sbuffavan fuoco dalle narici e avevan l’ unghie di bronzo, e con essi arasse un tratto di terreno seminando nei solchi denti di drago e combattesse tutti gli uomini armati che ne sarebbero nati, Medea che era maga e sacerdotessa di Ecate, die’ a Giasone un farmaco magico atto a difenderlo contro il fuoco dei tori e a dargli più che umana forza. Così Giasone superò tutti gli ostacoli, e quando dai denti di drago seminati balzarono su tanti guerrieri, egli per consiglio di Medea, gettò fra loro una grossa pietra, ond’ essi ciechi di furore volsero l’ armi uno contro l’ altro e a vicenda si trucidarono. Erano in questo modo adempiute le volontà del re; ma Eeta col pretesto che Giasone aveva ricevuto aiuto da Medea, non voleva più cedere il vello. Allora Giasone si decise a rapirlo; e addormentato col farmachi di Medea il vigile drago, prese il vello e lo portò sulla nave, seguito da Medea; e salparono subito per tornare in Occidente. Invano Eeta mandò gente a inseguirli; Medea trovò modo di trattenerli uccidendo e facendo a brani un fratellino che aveva portato con sè, Absirto, e gettando i pezzi a uno a uno nel mare; sicchè quei di Eeta si trattenevano a raccogliere que’ pezzi per darvi onorata sepoltura, e i fuggiaschi guadagnarono terreno. Secondo altri, Absirto figlio di Eeta, era il condottiero delle genti mandate dal re a inseguire i fuggenti, e Giasone lo combattè ed uccise.

Rispetto alla via seguita dagli Argonauti nel ritorno, vi sono dati molto diversi. Secondo gli uni tornarono per la stessa via di prima; secondo altri, risalendo il Fasi, fiume della Colchide, sarebbero giunti nell’ Oceano Orientale, e di là attraverso il Mar Rosso nel Nilo, ovvero per il deserto libico, attraverso il quale la nave Argo sarebbe stata trasportata, nel lago Tritonide e nel mare Mediterraneo; secondo altri ancora, gli Argonauti risalendo il fiume Istro o Danubio sarebbero riusciti nell’ Oceano Occidentale, e di là per le colonne d’ Ercole sarebbero rientrati nel Mediterraneo. — Alla fine tornò Giasone felicemente a Iolco, e consegnò il vello d’ oro a Pelia. Ma questi non volle già mantenere la promessa di cedergli il regno; allora Medea pensò lei a torlo di mezzo; persuase le figlie di Pelia che tagliando a pezzi il padre e facendoli cuocere in certi farmachi da lei preparati, avrebbero a lui ridonato fiorente giovinezza; così le figlie di Pelia divennero senza volerlo parricide. Rimase al regno Acasto figlio di Pelia, che si proponeva anche di vendicare il padre; onde Giasone e Medea furono obbligati a riparare in Corinto. Ivi nuova tragedia; disegnando Giasone lasciar Medea per sposar Creusa o Glauce, la figlia del re Creonte, Medea per vendicarsi mande in dono alla sposa una veste e un diadema, che essendo avvelenati la fecero d’ un subito morire, e poi trucide i due figliuoletti ch’ ella Medea aveva avuto da Giasone, ed essa quindi fuggì ad Atene sopra un carro tirato da un drago alato. Ivi ebbe un figlio da Egeo, di nome Medo, e con questo poi tornò in Colchide allorchè per opera di Teseo dovette lasciare anche Atene. Giasone trovò la morte sotto la nave Argo che gli si sfracellò addosso.

2. La leggenda degli Argonauti è una di quelle che offrirono più copiosi materiali alla letteratura e all’ arte. Conosciuta già nelle sue linee principali da Omero e da Esiodo, ispira poi, in questo o quello de’ suoi momenti, nobili opere ai poeti posteriori; la quarta Pizia di Pindaro versa intorno a questo soggetto; molte delle tragedie di Eschilo, Sofocle, Euripide mettono in iscena Giasone ne’ suoi rapporti o con Medea o con Fineo o con Eeta e i Colchidesi o con Pelia. Si ricordino specialmente le varie tragedie intitolate Medea, quella d’ Euripide rappresentante le scene di Corinto, imitata da Ennio nella Medea exul, l’ altra di Ennio stesso riferentesi alla Medea in Atene, quella di Accio, sceneggiante la fuga dalla Colchide e la Medea di Ovidio tanto lodata dai contemporanei. È da menzionare in modo speciale il poema di Apollonio liodio intitolato le Argonautiche, imitato in latino da Valerio Flacco, e quello attribuito ad Orfeo, ma non anteriore al quarto secolo dopo Cristo. Nè si ommetta la prima metà del settimo libre delle Metamorfosi che narra poeticamente tutta la leggenda di Medea.

Non sono poi molto numerosi i monumenti d’ arte concernenti questa leggenda. Un bel bassorilievo è nel Museo Lateranense, e rappresenta Medea in atto di preparare i suoi farmachi circondata dalle Peliadi, per far ringiovanire Pelia. Anche la così detta Cesta del Ficoroni nel Collegio Romano ha una notevole rappresentazione dello sbarco in Bitinia e della punizione di Amico.

III. Il ciclo Tebano. §

1. La patetica istoria della famiglia dei Labdacidi in Tebe era così ricca di caratteri e di fatti che costituì per tempo come un ciclo di leggende, il quale fornì inesauribile materia e argomento ad opere letterarie ed artistiche. E perche in questa istoria s’ intrecciano vicende a cui presero parte eroi non solo Tebani ma anche d’ altre provincie della Grecia, per questo ne abbiamo riservato l’ esposizione a questo luogo.

Laio, figlio di Labdaco e pronipote di Cadmo, aveva avuto l’ avviso dall’ oracolo, non generasse figliuoli, perchè un figlio suo avrebbe ucciso lui e sposata la madre. Perciò allorquando sua moglie Giocasta (in Omero è chiamata Epicasta) die’ alla luce un figlio, prima premura di Laio fu di esporlo, e torlo così di mezzo. Ma un pastore Corinzio, trovato sul Citerone quel bambino abbandonato, lo raccolse e portò al re di Corinto, di nome Polibo; il quale essendo senza figli adottò il bambino abbandonato, dandogli nome Edipo, che vuol dire « dai piedi gonfi », perchè presentava appunto questa particolarità di avere enfiati i piedi. Così crebbe Edipo nella persuasione che Polibo e la di lui moglie Merope (o Peribea) fossero i suoi veri genitori. Ma un giorno in un banchetto qualche parola lanciata al suo indirizzo da un giovane corinzio gli gettò nell’ anima il sospetto sulla sua origine. Allora egli partì da Corinto per recarsi a Delfo e interrogare l’ oracolo. N’ ebbe risposta si guardasse dal tornare in patria perchè avrebbe ucciso suo padre e sposato sua madre. Egli allora pensò di evitar Corinto, dove credeva aver lasciato i suoi genitori, e s’ avviò per la strada di Tebe. A un certo punto, in un passo angusto, si imbattò appunto in Laio il quale in un cocchio recavasi a Delfo per interrogare l’ oracolo sulla Sfinge. Il cocchiere che era con Laio ordina al giovane Edipo di dar luogo; ne nasce una contesa, nella quale Edipo uccide Laio e tutti quei del seguito. Così era avverata la prima parte dell’ oracolo. Seguitando poi la strada verso Tebè, Edipo incontrò la famosa Sfinge. Era questa un mostro col corpo di leone e la faccia di donna, mandato da Era, adirata contro Laio, a infestar Tebe. E postasi su una rupe alle porte della città obbligava i passanti a sciogliere il celebre enigma, qual fosse l’ animale di quattro gambe al mattino, di due a mezzogiorno, di tre alla sera; chi non sapeva rispondere, lo uccideva buttandolo giù in un profondo burrone. Appena saputo la morte di Laio, Creonte suo cognato preoccupato del continuo pericolo della Sfinge, promise il trono di Tebe e la mano della vedova Giocasta a chi avesse sciolto l’ enigma. Edipo avendo saputo rispondere che l’ uomo era quell’ animale che nella prima infanzia s’ aiuta mani e piedi per camminare, cammina sul due piedi quando è maturo e in vecchiaja s’ appoggia al bastone, la Sfinge si buttò essa stessa in quel burrone e morì, onde Edipo entrò trionfante in Tebe e n’ ebbe secondo la promessa di Creonte, il trono e la mano di Giocasta; divenne così inconsciamente sposo di sua madre avverando il terribile oracolo che pesava su di lui. Ma nè egli nè lei non ne sapevano nulla ancora, vissero e felici alcun tempo assieme ed ebbero quattro figliuoli, Eteocle e Polinice, Antigone ed Ismene; almeno secondo la leggenda posteriore, perchè nei racconti più antichi non si dà alcuna discendenza al connubio di Edipo con sua madre e quei quattro figuran figli di Edipo e di Euriganea figlia di Iperfante, sposata da lui dopo Giocasta. Dopo qualche tempo una terribile pestilenza venne a infierire in Tebe e insieme si patì di grande carestia. Interrogato l’ oracolo, rispose si cacciasse dalla città l’ uccisore di Laio. Edipo s’ affanna a ricercare il colpevole; ma qual è la sua sorpresa quando, specialmente per mezzo del servo che l’ aveva esposto bambino e che era scampato alla strage di Laio, viene a sapere che è egli stesso l’ uccisore di Laio, sicchè egli era parricida e sposo di sua madre? A tal terribile scoperta, Giocasta si appicca, Edipo si cava gli occhi. Non contenti di ciò i Tebani l’ obbligarono ad abbandonare Tebe e la Beozia; e così il povero vecchio cieco, accompagnato dalla sua amorosa figliuola Antigone, andò errando di luogo in luogo in cerca di pace, finchè a Colono, demo dell’ Attica, ebbe rifugio nel bosco delle Eumenidi, ed ivi morì, e la sua tomba divenne, in forza d’ un oracolo, un luogo d’ asilo della terra Attica. Tale la fine di Edipo secondo Sofocle; che gli epici antichi in altro modo narravano la morte dello sventurato Labdacide; secondo Omero morì a Tebe e ivi fu sepolto; secondo altri ebbe sepoltura ad Eteone di Beozia in un santuario di Demeter.

Morto Edipo, la maledizione che pesava su di lui, secondo il concetto degli antichi, doveva naturalmente ricadere sopra i figliuoli. Quindi un’ altra serie di guai. Eteocle e Polinice s’ eran convenuti di regnare in Tebe alternatamente un anno ciascuno. Ma Eteocle che era più vecchio, (alcuni fan più vecchio Polinice) non volle a suo tempo cedere il luogo al fratello; il quale allora si rifugiò presso Adrasto della stirpe di Amitaone, re di Argo; proprio nello stesso tempo che vi cercava rifugio anche Tideo figlio di Eneo fuggito da Calidone. Adrasto accolse i due fuggiaschi promettendo di rimetterli in trono, e die’ loro in ispose le sue due figliuole Argia e Deipile. E subito intraprese la guerra contro il re di Tebe Eteocle. È la guerra detta dei sette contro Tebe, perchè oltre Adrasto, Polinice e Tideo vi presero parte altri quattro eroi, Capaneo discendente di Preto, Ippomedonte nipote di Adrasto, Partenopeo fratello di Adrasto, o, secondo favole più recenti, figlio di Meleagro e di Atalanta, infine Anfiarao, il celebre veggente della stirpe di Melampo cognato di Adrasto stesso. Veramente Anfiarao che per la sua virtù di antivedere le cose sapeva che la spedizione sarebbe riuscita a male, non voleva prendervi parte e aveva tentato sfuggire ai messi di Adrasto che ne lo sollecitavano; ma Polinice avendo subornato la moglie di lui Erifile donandole lo splendido monile di Armonia (bello a vedere ma ne pendeva la sventura), ed Erifile così guadagnata avendo svelato il luogo ove Anfiarao s’ era nascosto, questi venne obbligato a prendere parte cogli altri alla guerra. La quale come Anfiarao aveva previsto, ebbe esito sfavorevole. S’ erano bensì i sette disposti colle loro schiere di contro alle sette porte di Tebe per cingerla di regolare assedio; alcuni di loro compirono anche prodigi di valore, come Tideo; ma tutto invano; Tiresia aveva predetto ai Tebani la vittoria, quando uno di loro si consacrasse alla morte; vi si offerse Meneceo, figlio di Creonte, precipitandosi dalle mura nella grotta già abitata dal drago di Ares; allora tutto a rovescio per gli assalitori; Capaneo che vantava nel suo orgoglio di resistere anche al fuoco di Zeus, venne fulminato dall’ alto delle scalate mura; Polinice ed Eteocle venuti a singolar tenzone si ammazzarono l’ un l’ altro; gli altri eroi o ebbero morte o si diedero alla fuga; fuggì Anfiarao, e mentre fuggiva fu insieme col suo cocchio ingoiato dal terreno e divenne un dio profeta venerato a Tebe e altrove; fuggì Adrasto mercè il suo bravo destriero Arione, prodotto dalla Demetra Erinni. Di Adrasto fuggente favoleggiossi in Attica che si fosse riparato a Colono e avesse poi ottenuto da Teseo s’ interponesse presso Creonte, il nuovo signore di Tebe, per ottenere licenza di dar sepoltura ai morti. — Dieci anni dopo, i figli degli eroi morti si riunirono per vendicare i loro padri. Perciò chiamasi questa la guerra degli Epigoni o seconda guerra Tebana. Vi presero parte Egialeo figlio di Adrasto, Diomede di Tideo, Tersandro di Polinice, Stenelo di Capaneo, Promaco di Partenopeo, Alcmeone di Anfiarao, ultimo Eurialo di Mecisteo. Non combattendo essi contro il volere degli Dei come i loro padri, ma anzi con buoni auspici, ebbero fortuna. Laodamante, figlio di Eteocle, che ora governava in Tebe spiegò tutta la sua energia, e uccise in battaglia Egialeo, ma fu morto egli stesso da Alcmeone. I Tebani non potendo più difendere la città, fuggirono notte tempo e ripararonsi chi in Tessaglia chi altrove. La città fu presa e saccheggiata. Una buona parte del bottino, e fra essa Manto la figlia di Tiresia fu mandata a Delfo come sacra offerta ad Apollo, lu Tebe ebbe il regno Tersandro di Polinice, il quale poi prese parte alla guerra di Troia, ma vi perdette la vita.

2. Le leggende del ciclo tebano ispirarono molti lavori letterarii. Oltrechè se ne trova cenno in Omero, doveva esistere già un poema antichissimo col titolo « la Tebaide ». A questo attinse Antimaco di Colofone, contemporaneo di Platone, autore di un vasto poema dello stesso titolo; a cui fa riscontro nella letteratura latina il noto poema di Stazio. Le avventure speciali di Alcmeone, uccisore di sua madre Erifile, e perciò perseguitato dalle Erinni finchè ebbe espiazione e pace a Psofi per opera di Fegeo, alla cui figlia Alfesibea (o Arsinoe) divenuta sua moglie donò il peplo e il collare di Armonia tolto alla madre, ucciso poi dai fratelli di Alfesibea e venerato dopo morte con divini onori, queste avventure formarono l’ argomento di una poesia intitolata « Alcmeonide ». Fra i poeti lirici si ricorda Stesicoro il quale trattò poeticamente la leggenda di Erifile. Ma sopra tutto i Tragici attinsero a piene mani a questa ricca fonte di leggende; Eschilo col « Sette contro Tebe » sceneggiò la prima guerra che si chiudeva col disgraziato duello tra i due fratelli, al cui odio si contrappose l’ indole affettuosa e gentile di Antigone che al fine della tragedia dichiarava energicamente di voler, contro l’ ordine del re, dar sepoltura al cadavere di Polinice; Sofocle riprese questo stesso motivo poetico nell’ « Antigone » facendo della pietosa sorella il personaggio principale dei dramma; e di Edipo sceneggiò la sventura in due tragedie che son due capilavori, l’ « Edipo re » e l’ « Edipo a Colono ». Finalmente anche Euripide trattò nelle « Fenicie » lo stesso terna trattato da Eschilo nei « Sette contro Tebe, » dando però maggior rilievo alla storia del dissidio sorto tra i fratelli e rappresentando in modo commoventissimo il loro duello mortale invano scongiurato dall’ infelice Giocasta e dalla buona Antigone. Altre tragedie d’ Euripide ricavate dal ciclo tebano erano l’ « Alcmeone » e la « Peribea. »52 Tutti questi lavori tragici ebbero imitatori fra i Latini; e si posson ricordar qui le Fenicie e l’ Alcmeone di Ennio, la Peribea di Pacuvio, la Tebaide, le Fenicie, l’ Antigone, gli Epigoni e altre di Azzio, poi ancora l’ Edipo e le Fenicie di Seneca.

A un così numeroso stuolo di opere letterarie relative al ciclo tebano non possiamo mettere a riscontro un numero rispondente di opere d’ arte; anzi queste sono relativamente scarse o di poca importanza. Abbastanza frequenti le statue della Sfinge, che a differenza della Sfinge egiziana, tronco di leone senz’ ali con petto e testa d’ uomo maschio, soleva raffigurarsi con tronco leonino alato e petto e testa di giovine donzella. Era ritenuta come simbolo del calore estivo ardente e pestilenziale.

IV. Il ciclo Troiano. §

Eccoci all’ ultimo e più importante ciclo di leggende eroiche, qual’ è quello relativo alla guerra Troiana, a cui presero parte eroi di diverse stirpi e di diverse regioni della Grecia. Esporremo brevissimamente le principali di tali leggende, dicendo prima delle stirpi eroiche a cui esse si riferiscono, poi narrando le vicende della decennale guerra, infine esponendo i casi varii del ritorno.

1. I principali eroi greci che presero parte alla guerra di Troia, furono Agamennone e Menelao, Achille, Aiace Telamonio, Aiace di Oileo, Diomede, Nestore ed Ulisse. Daremo brevi cenni delle loro famiglie.

Agamennone e Menelao appartenevano alla famiglia dei Pelopidi, e traevano la origine loro dal re frigio Tantalo, quel re celebre per la sua straordinaria felicità e ricchezza, precipitato poi nel fondo d’ ogni male, e punito in inferno in quel modo che già si espose parlando del regno dei morti. Figlio di Zeus, possessore di estesissimi fondi, era così bene viso agli Dei che questi non sdegnavano invitarlo spesso alla loro mensa. Di che insuperbito non seppe astenersi da atti temerari e malvagi. Per mettere alla prova l’ onniscienza divina, uccise suo figlio Pelope e ne fe’ cuocere le membra e le appose alla mensa degli Dei; e altre colpe commise diversamente esposte in varie leggende. Alfine, colma la misura venne il tempo di pagare il fio di tanti delitti. Come abbia perduto regno e vita non è detto; si conosce solo di lui la detta pena d’ oltre tomba. Figli di Tantalo furono Niobe e Pelope; sul quali ricadendo gli effetti delle colpe paterne, furono perseguitati anch’ essi dalla sventura. La storia dolorosa di Niobe fu già da noi narrata dove si parlava delle leggende tebane. Pelope richiamato in vita da Ermes, sostituitagli in avorio una spalla che Demetra già aveva consumata, peregrino pel mondo e capitò in Elide, ove il re Enomao prometteva la sua bella figlia Ippodamia in isposa a colui che sapesse vincerlo alla corsa dei cocchi; con questo però che chi si lasciava vincere doveva pagar il fio della sua audacia colla morte, perchè egli raggiungendolo alla corsa l’ avrebbe trapassato da tergo colla sua lancia. Pelope si decise a tentar la prova, ma aveva a disposizione sua dei cavalli alati donatigli da Posidone, poi guadagnossi Mirtilo, il cocchiere di Enomao inducendolo a levar i cavicchi dalle ruote del cocchio del suo padrone e a sostituirli con cavicchi di cera. Così Pelope vinse la gara ed Enomao o rimase morto o si uccise da sè vedendosi vinto. In questo modo Pelope ottenne Ippodamia e la signoria dell’ Elide; mal ripagò poi Mirtilo del servizio resogli, che in luogo di dargli metà del regno come aveva promesso, lo precipite in mare. Secondo alcuni, costui sarebbe stato da suo padre Ermes mutato nella costellazione dell’ auriga. — Figli di Pelope e di Ippodamia furono Atreo e Tieste (Thyestes), altre vittime della maledizione divina che pesava su questa famiglia, almeno secondo le leggende posteriori, perchè delle tragiche vicende di questi due fratelli Omero non conosce nulla ancora. Cominciarono a rendersi colpevoli di un fratricidio, uccidendo per istigazione di Ippodamia il loro consanguineo Crisippo che Pelope aveva avuto da altra moglie. Obbligati a fuggire per questo, si ripararono colla madre in Micene presso il loro cognato Stenelo, figlio di Perseo, o presso il figlio di lui Euristeo. Dopo la costui morte entrarono in possesso della signoria d’ Argo, abitando Atreo in quel superbo palazzo di Micene, del quale ancora oggi si ammirano parecchi avanzi. Ma ben presto scoppiò rivalità tra i due fratelli, e questa a poco a poco divenne odio e odio mortale. Tieste avendo dovuto lasciare Argo, portò seco un figlio di Atreo, di nome Plistene, e allevatolo come suo, un bel giorno lo mandò a Micene perchè uccidesse Atreo. Scoperto ed arrestato, dovette pagare colla morte il fio di tanta audacia. Ma Atreo quando seppe di aver fatto uccidere il suo proprio figlio, concepì un terribile disegno di vendetta contro il fratello. Si finse pronto a riconciliarsi con lui, e lo richiamò co’ suoi a Micene. Tieste fidando nelle parole del fratello venne co’ suoi due figli, Tantalo e Plistene, alla reggia di Micene. Allora Atreo fatti prendere segretamente que’ due fanciulli, li uccise e ne appose le membra alla mensa del padre. Il sole stesso inorridito di tanta crudeltà, favoleggiavasi che volto il cocchio fosse tornato ad oriente. Tieste imprecando ogni maledizione sul capo di Atreo e della sua stirpe fuggì e riparossi alla corte di Tesproto re dell’ Epiro. Più tardi gli riuscì ancora di vendicarsi, coll’ aiuto di un unico figlio rimastogli, Egisto, il quale uccise Atreo in un momento in cui stava compiendo un sacrificio sulla riva del mare. Allora Tieste con Egisto ottennero la signoria di Micene, cacciatine i figli di Atreo, Agamennone e Menelao. Ed eccoci agli eroi della guerra Troiana. Costoro riparatisi alla corte di Tindareo, re di Sparta, ebb’ ero in moglie le due figliuole di lui, Clitennestra ed Elena. Agamennone poi coll’ aiuto dello suocero riprese il regno paterno uccidendo Tieste e cacciando Egisto; Menelao invece rimase a Sparta ove successe a Tindareo, finchè Paride col rapimento d’ Elena destò l’ incendio della guerra.

Achille ed Aiace il maggiore appartengono alla famiglia degli Eacidi. Eaco era un altro figlio di Zeus, nato da una figliuola del fiume Asopo. Era re dell’ isola di Egina ed ebbe in moglie una figlia del centauro Chirone. Per la sua pietà e bontà era caro agli Dei. Desolata da una peste la sua isola e spoglia d’ abitanti, ottenne da Zeus che uno sciame di formiche fossero trasformate in uomini, che furono detti perciò Mirmidoni (myrmex voce greca, che val formica). Dopo morte, Eaco venne per la sua giustizia ascritto con Minosse e Radamanto fra i giudici dell’ inferno. Figli di Eaco furono Peleo e Telamone. Costoro per avere, come i figli di Pelope ucciso un fratellastro, dovettero abbandonare la patria. Peleo si recò a Ftia in Tessaglia, dove lo accolse il re Euritio che gli diè in moglie la sua figliuola Antigone e lo fe’ re di una terza parte del suo dominio. Più tardi prese parte alla caccia del cinghiale di Calidone, durante la quale ebbe la disgrazia di uccidere involontariamente suo suocero. Allora lasciò Ftia, e si recò a Iolco dove prese parte ai giochi funebri istituiti da Acasto in onore di suo padre Pelia. In quest’ occasione Astidamia ( Omero la chiama Ippolita), moglie di Acasto, si invaghì di Peleo, ma lo trovò ritroso a’ suoi desideri e allora calunniollo presso il marito, come era avvenuto di Bellerofonte alla corte di Preto. Acasto allora, volendo tor di mezzo Peleo, s’ approfittò d’ un momento ch’ egli, stanco d’ una caccia, s’ era addormentato sul monte Pelio, e toltegli le armi lo lasciò ivi solo, persuaso che i Centauri avrebbero fatto scempio di lui. Ma gli Dei vegliavano alla sua salvezza, e gli mandarono per mezzo di Ermes una spada di meravigliosa potenza; colla quale egli potè respingere trionfalmente gli assalti dei Centauri. Dopo di che tornato a Iolco, e presa la città coll’ aiuto dei Dioscuri, uccise Acasto e Astidamia. In ricompensa poi della sua castità gli diedero in moglie una formosissima Nereide, Tetide (Tetis); nella quale occasione si celebrarono nozze splendidissime, a cui assistettero gli Dei stessi; e Posidone donò a Peleo i cavalli Xanto e Balio, e l’ amico Chirone una pesante asta di effetti miracolosi. Da queste nozze nacque unico Achille, il più grande e forte degli eroi greci. Che Teti dopo aver date alla luce Achille, abbia abbandonato lo sposo perchè egli la disturbò nel momento che nel fuoco voleva rendere immortale il figlio, così come era avvenuto con Demetra e il figlio di Celeo, è questa una leggenda che Omero ancora non conosceva. Achille ebbe a educatore, al pari di tanti altri eroi greci, il centauro Chirone, secondo Omero anche Fenice figlio di Amintore, bravo nell’ eloquenza e nell’ arte militare. Giovane nella pienezza delle forze, prese parte alla guerra di Troia, pur sapendo che sarebbe stata per lui fatale; ed è anch’ essa leggenda posteriore ad Omero quella secondo la quale Tetide per sottrarre suo figlio al suo destino lo mandò a Sciro e ivi lo nascose in casa di Licomede in abiti donneschi, donde poi sarebbe stato tratto fuori per l’ astuzia di Ulisse. — Telamone, il fratello di Peleo, fuggendo da Egina, trovò una nuova patria in Salamina, ove il re Cicreo (Cychreus), figlio di Posidone, gli diè in isposa la figlia Glauce e dopo morte gli lasciò il regno. Telamone poi, morta la prima moglie, sposò Peribea, figlia di Alcatoo di Megara, che lo fe’ padre di Aiace. Amico di Eracle, Telamone lo accompagnò alla prima spedizione contro Troia; di là trasse con sè cattiva Esione figlia del re Laomedonte, e da lei ebbe un altro figlio, Teucro, che divenne celebre arciero. Prese ancor parte col fratello Peleo alla caccia di Calidone e alla spedizione degli Argonauti. Cresciuto sotto la guida di un tal padre, spesso palleggiato da Eracle, Aiace non poteva non essere un grande eroe. Crebbe aitante della persona e robusto di forza ed era il più forte fra gli eroi greci a Troia, sebbene in confronto dello svelto e abile Achille alquanto goffo e materiale. Anche il fratellastro Teucro ebbe un bel posto tra i guerrieri per la sua abilità nel trar d’ arco.

Di molto inferiore ad Aiace Telamonio era l’ altro Aiace, locrese, figlio di quell’ Oileo, che pure aveva preso parte alla spedizione degli Argonauti. Questo Aiace, detto anche « il piccolo » per distinguerlo dall’ altro detto « il grande », era segnalato specialmente per abilità nel lanciar dardi e per velocità, nella qual virtù solo Achille lo superava. Capitanava un esercito di Locri Opunzii, armati alla leggera.

Diomede era figlio di quel Tideo di Eneo, che, fuggito da Calidone e accolto da Adrasto re d’ Argo e sposata una figlia di lui, prese parte con lui alla guerra dei sette contro Tebe incontrandovi la morte. Diomede stesso prese parte alla seconda guerra tebana, con che ottenne la signoria di Argo, sotto il supremo dominio di Agamennone risiedente in Micene. Ristabilì sul trono etolico il suo nonno Eneo che era stato cacciato dai figliuoli di un suo fratello Agrio. Nella guerra di Troia, protetto da Pallade Atena, compì molti atti di valore; specialmente è celebre per l’ attribuitogli rapimento del Palladio; ma è leggenda posteriore ad Omero.

Agli eroi segnalati per la forza del braccio se n’ aggiungono altri in cui prevalgono le virtù della mente, la saviezza o l’ astuzia; primo Nestore. Era l’ ultimo dei dodici figli di Neleo, il quale nato da Posidone e da Tiro, e pero fratello di Pelia, era stato cacciato da lui e aveva trovato nuova patria in Messenia. Venuta a urto con Eracle, la famiglia già prospera di Neleo ebbe la peggio, e morirono tutti i figli salvo Nestore. Questi a poco a poco vinti i popoli vicini, riacquistò il dominio paterno e soggiornava a Pilo città della Messenia. Prese poi parte sia alla lotta dei Lapiti contro i Centauri, sia alla caccia Calidonia, sia alla spedizione degli Argonauti. Era quindi già molto vecchio al tempo della guerra Troiana avendo visto tre generazioni; pure vi prese parte e giovò colla sua saviezza e co’ suoi consigli.

Ulisse infine era d’ Itaca, figlio di Laerte e di Anticlea, nata dal celebre Autolico di Erme astuto e anche ladro. Moglie di Ulisse fu la pia e nobile Penelope figlia di Icario e perciò nipote di Tindareo. Così Ulisse aveva un certo grado di affinità cogli Atridi. Alla guerra di Troia si rese famoso per la sua scaltrezza, per l’ eloquenza, ed anche per la sua abilità e fermezza nei pericoli; anch’ egli era prediletto di Pallade Atena.

Facciamo anche un cenno dei principali guerrieri Troiani. La famiglia regnante in Troia traeva la sua origine da Dardano, figlio di Zeus, emigrato dall’ Arcadia a Samotracia e di là nella Frigia, ove aveva ottenuto dal re Teucro il terreno per fabbricarvi la città Dardania. Da una figlia di Teucro, Dardano ebbe un figliuolo, Erittonio, il più ricco degli uomini; e da costui nacque Troo che diè il nome ai Troi o Troiani, suoi discendenti. Ebbe infatti tre figli, Ilo, Assaraco e Ganimede. Di quest’ ultimo, fatto rapir da Zeus, per la sua straordinaria bellezza e divenuto coppiere degli Dei, già abbiamo parlato. Gli altri due divennero capi di due diverse stirpi. Assaraco, rimasto nella regione Dardania generò Capi (Capys), e di questo fu figlio Anchise padre di Enea. Ilo andò a porre stanza nel piano dello Scamandro, e ivi fondò la città di Ilio o Troia. Fondata la città, pregò Zeus gli mandasse un segno visibile della sua grazia; il dimane trovò davanti la sua tenda il celebre Palladion, una statua in legno di Pallade Atena, al cui possesso da quel momento era legata la felicità e il benessere di Troia. Morto Ilo, succedette Laomedonte, a cui Posidone e Apollo costruirono la cittadella detta Pergamo. Come poi per manear di parola questo re si sia tirato addosso sciagure e calamità, e infine anche una grossa guerra di Eracle, fatale per lui e per la sua famiglia, narrammo nel capitolo delle leggende di Eracle. Unico figlio superstite di Laomedonte fu Podarce, dopo il riscatto chiamato Priamo, il quale fece di nuovo rifiorire il regno e colla moglie Ecuba (Hecabe) generò una numerosa famiglia. Il figlio maggiore e il più celebre fu Ettore, il gran guerriero, campione dei Troiani, come Achille era dei Greci; secondo figlio Paride che fu cagion della guerra; seguivano Creusa che divenne moglie di Enea, Polissena che fu poi sacrificata sulla tomba di Achille, Cassandra la profetessa di sventura, Eleno, augure e vate; ultimo, il più giovane, Troilo, che morì per man d’ Achille.

2. Ma ormai è tempo che narriamo per sommi capi le vicende della guerra. Eris, la contesa, sorella e compagna di Ares, irritatasi per non essere stata invitata alle nozze di Peleo e Tetide, si vendicò destando una contesa intorno ad una mela su cui si trovava quest’ iscrizione: « alla più bella ». Le tre dee presenti, Era, Atena ed Afrodite naturalmente pretendevano aver diritto alla mela. Zeus ordinò che le tre Dee fossero da Ermes condotte sul Gargaro, parte del monte Ida nella Troade, e ivi il giudizio della bellezza fosse affidato al pastore Paride. Era questi un figlio del re Priamo, ma a motivo di un sogno di cattivo augurio avuto dalla madre Ecuba nel dar alla luce questo figliuolo, fu esposto appena nato sul monte Ida, ivi poi raccolto da un pastore e come tale allevato. Le tre Dee gareggiavano in promesse al loro giudice. Era gli prometteva signoria e ricchezza, Atena sapienza e fama, ed Afrodite la più bella donna del mondo. Egli assegnò il pomo ad Afrodite; di qui ne venne che Era ed Atena furono sempre acerbe nemiche di Troia, e Afrodite amica. Poco dopo, avendo Paride, che era bellissimo ed aitante della persona, vinto tutti i suoi fratelli in certe gare istituite da Priamo, venne riconosciuto e allora torno in grazia a Priamo. Allora intraprese un viaggio oltre mare, e in questa occasione ebbe il premio promessogli da Afrodite; alla corte di Menelao re di Sparta ove fu benignamente accolto, incontro la bellissima Elena, moglie di Menelao. Afrodite instillo in lei un ardente amore per l’ ospite che alla bellezza delle forme aggiungeva lo splendore dell’ abbigliamento orientale. Essendo Menelao temporariamente assente per un viaggio a Creta, e i fratelli di Elena, i Dioscuri, essendo occupati nella guerra contro gli Afaridi, essa fuggi con Paride e se ne venne a Troia. Menelao ne chiese di poi la restituzione; avutone un rifiuto, si preparò alla guerra; e gli fu facile ottenere l’ adesione dei più ragguardevoli principi greci, perchè Tindareo ai tanti che avevano chiesto la mano della bella Elena aveva fatto giurare, sarebbero corsi in aiuto di quello da lei prescelto, quando questi fosse assalito. In breve si raccolse nel portò beotico di Aulide una ragguardevole flotta disposta a salpare verso oriente. A capo di tutta quest’ armata fu scelto Agamennone re d’ Argo che da solo aveva allestito più di cento navi. Senonchè avendo Agamennone ucciso una cerva sacra ad Artemide, questa lo puni mandando una calma di vento che impediva di salpare. L’ indovino Calcante interrogato rispose che ad ammansire la dea dovesse Agamennone sacrificare la sua figlia Ifigenia. Già la innocente fanciulla stava per essere immolata, quando d’ un tratto Artemide la sottrasse sostituendole una cerva, e la trasportò in Tauride per farla sacerdotessa del suo tempio. Dopo ciò la flotta potè con buon vento salpare e approdò a Tenedo, sulle coste troiane. Strada facendo, accadde che Filottete figlio di Peante, tessalo, il quale possedeva le freccie e l’ arco di Eracle, durante un sacrifizio fatto sull’ isola Crise venne. morsicato da un serpe in un piede; dopo di che molestando i compagni col suoi lamenti e col fetore della ferita, si deliberò di lasciarlo nell’ isola di Lenno. Più tardi lo si dovrà andar a riprendere perchè era detto che senza le frecce d’ Eracle Troia non sarebbe caduta. Allo sbarco de’ Greci sulla costa troiana invano s’ opposero i Troiani guidati da Ettore ed Enea; bensì il primo greco che saltò a riva, Protesilao (=il primo che salta), cadde vittima del suo coraggio. Anche Cicno (Cycnos) il re di Colone nella Troade figlio di Posidone, che più validamente si oppose a’ Greci e uccise infatti mille uomini, morì infine per man d’ Achille, strozzato colla correggia dell’ elmo, perch’ era invulnerabile. — Poichè i Greci ebbero costrutto il loro campo presso le navi, da quel punto comincia propriamente la guerra. Riusciti vani i primi tentativi di prender d’ assalto la città, i Greci contentavansi di scorrerie e saccheggi nelle terre vicine e così si trascinò per ben dieci anni la guerra. Nei primi nove anni non avvenne nulla di veramente notevole, se non si ricordi l’ uccisione per man d’ Achille del più giovane dei figli di Priamo, Troilo, e la condanna a morte di Palamede Eubeo, uomo saggio ricco di idee nuove e poeta, creduto reo di intelligenze con Priamo e di tradimento; tutti maneggi di Ulisse che volle vendicarsi di lui perchè, quando Ulisse in Itaca s’ era finto pazzo per non andare alla guerra, egli Palamede ne aveva scoperto l’ astuzia. Al decimo anno della guerra avviene la celebre contesa tra Achille e Agamennone. Passando a Crise, gli Achei avevano fatta schiava la figlia di Crise, sacerdote d’ Apollo, e costei era diletta ad Agamennone. Il padre Crise essendo venuto in paramenti sacerdotali e atto supplichevole a chiedere la restituzione della figliuola, offrendo congruo prezzo di riscatto, n’ ebbe dura ripulsa e derisione da Agamennone; di che il Dio Apollo infesto il campo Acheo di grave pestilenza. Tenutasi una popolare adunanza per provvedere a questo guaio, l’ indovino Calcante palesò la causa della disgrazia; e disse non sarebbe cessato il male se Criseide non fosse stata restituita al padre. Agamennone sdegnato di ciò, prendendosela specialmente con Achille, dichiarò avrebbe liberato Criseide ma avrebbe voluto per sè Briseide ancella di Achille; e in fatto, lasciata Criseide al padre mando i suoi messi a prendere Briseide e la fè condurre alla sua tenda. Achille sdegnato di questo procedere si appartò fra i suoi, rifiutando di prender più oltre parte alla guerra. I Troiani, saputo ciò, presero ardire e con valorose sortite principiarono a tormentare gli Achei; e Zeus, pregato da Tetide la madre di Achille, fè che la vittoria fosse dalla loro parte. Dopo parecchi fatti d’ arme in cui vanamente fecero atti di valore Agamennone, Aiace, Diomede, Ulisse, in ultimo Ettore cacciati i Greci fin nelle navi, già era in procinto di darvi il fuoco, allorchè Achille si lasciò indurre dalle preghiere del suo amico Patroclo a permettergli che indossasse le sue armi e alla testa dei Mirmidoni corresse in aiuto ai Greci. Al primo loro comparire nella mischia si ritirano i Troiani, temendo d’ Achille, ma poi venuti a singolar tenzone Patroclo ed Ettore, il primo venne facilmente ucciso e spogliato dell’ armatura. A stento il cadavere fu salvato in seguito a sanguinosa pugna a cui presero parte Menelao, Aiace il maggiore e altri eroi. Allora finalmente si rivolse l’ animo di Achille al pensiero di vendicare il morto amico, e per mezzo della sua divina madre ottenuta dalle mani di Efesto una nuova armatura, scese di nuovo in campo, e allora dopo aver fatto strage di Troiani, s’ azzuffò in terribile duello con Ettore e l’ uccise. Il cadavere di lui legato al cocchio del vincitore fu trascinato a ludibrio pel campo, e sarebbe poi stato gettato in pasto ai cani e agli uccelli di rapina, se il generoso Achille cedendo alle preghiere del vecchio padre di Ettore non glie l’ avesse consegnato. — Perduto il loro principale eroe, non si smarrirono tuttavia i Troiani, e continuarono a resistere vigorosamente, aiutati or da questi or da quelli eserciti ausiliari; e Achille ebbe ancora occasione di fare atti di valore. Prima vennero le Amazoni, guidate dalla loro regina Pentesilea, figlia di Ares, e diedero molto da fare ai Greci, finchè Achille non ebbe vinto e ucciso la valorosa regina. Poi vennero le genti Etiope, guidate da Mennone, detto figlio di Titone, fratello di Priamo, e di Eos, l’ aurora; anche queste dierono valido aiuto ai Troiani, e per mano di Mennone cadde il figlio di Nestore, Antiloco, fido amico di Achille, ma alla fine anche egli fu ucciso dal forte Pelide, e disperse furono le sue genti. Pianse Eos la morte di suo figlio, e continua a piangerla, giacchè che cos’ altro sono le goccie della mattutina rugiada se non le lagrime dell’ Aurora? — Segue il grave avvenimento della morte di Achille; dopo aver fatto soccombere tanta gente, era venuta l’ ora anche per lui. In un assalto alla porta Scea, una delle principali porte di Troia, mentre già egli stava per entrare in città, lo colpiva un dardo scagliato da Paride e diretto da Apollo. Secondo una leggenda posteriore, mentre festeggiava il suo sposalizio con Polissena la bella figlia di Priamo, fu a tradimento ucciso. Intorno al cadavere suo sì combattè a lungo e con accanimento, finalmente riuscì ad Aiace ed Ulisse di assicurarne il possesso ai Greci. Allora cominciarono i lamenti e i pianti per la morte di tanto eroe; la madre Tetide e tutta la schiera delle Nereidi lo piansero per diciasette giorni e diciasette notti con canti e nenie così commoventi che Dei ed uomini non potevano trattenere le lagrime. Poco appresso sorse la famosa controversia per l’ armi d’ Achille. Chi doveva portare l’ armatura dei più grande degli eroi? Aiace il maggiore, sia come cugino, sia per il suo valore, vi aspirava con ragionevole presunzione, ma vi aspirava anche Ulisse che al valore guerresco univa altri pregi di abilità e di eloquenza. Agamennone per consiglio di Atena decise la controversia in favore di Ulisse; di che tanto s’ accorò Aiace che impazzi e dopo aver commesso violente stranezze si uccise. — E così sparito dalla scena anche Aiace, rimase Ulisse il più valente dei campioni greci. Bisognava giocar d’ astuzia oltrechè di braccio; ed egli era eroe da ciò. Egli dall’ indovino troiano Eleno seppe che non si poteva prender Troia senza le freccie d’ Eracle che erano in possesso di Filottete rimasto a Lenno. Ulisse organizzò una spedizione con Diomede, secondo altri con Neottolemo figlio d’ Achille; riuscì a trascinare contro sua voglia Filottete a Troia; il quale fu poi guarito della sua piaga da Macaone, e con una delle sue freccie uccise Paride, la cagion prima della guerra. Poi Ulisse con Diomede compì la pericolosa avventura di penetrare travestito in Troia e portarne via il Palladio, alla cui conservazione si annetteva la salvezza della città. Ancora Ulisse andò a Sciro a prendere il giovane figlio di Achille, Neottolemo, la cui presenza si diceva esser necessaria perchè cadesse Troia. Finalmente Ulisse ebbe il merito di suggerire e far costruire da Epeo il famoso cavallo di legno, e disporre quell’ agguato che doveva aver per effetto la caduta di Troia. Trenta de’ più bravi fra i Greci si nascossero nel ventre di quell’ immenso cavallo, gli altri bruciarono il campo vicino alle navi e fingendo desistere dall’ impresa salparono con la flotta, e si ripararono in un portò dell’ isoletta di Tenedo. I Troiani, lieti della partenza dei Greci, guardavano con curiosità quella meraviglia del cavallo di legno, non sapendo che cosa fosse. E qui raccontasi che un tal Sinone, lasciatosi prendere dai Troiani, li ingannò inventando che era sfuggito alla persecuzione di Ulisse il quale lo aveva destinato vittima per un sacrifizio d’ espiaziazione. Interrogato sul cavallo, rispondeva esser quello un voto fatto per espiare il rapimento del Palladio; sarebbe stato di danno ai Troiani se l’ avessero offeso, per contro diverrebbe una salvaguardia della città se l’ avessero accolto entro le mura. I Troiani si lasciarono prendere all’ amo. Invano Laocoonte, uno de’ loro sacerdoti d’ Apollo, cercò distoglierli dal proposito; anzi un fatto accaduto allora a questo Laocoonte li confermò sempre più. Mentre stava compiendo un sacrifizio a Posidone sulla riva del mare, e aveva vicino a sè due figliuoletti, improvvisamente due serpenti venuti dal mare s’ avventarono contro lui e avvinghiandosi attorno al suo corpo e a quello de’ ragazzi li soffocarono tra le loro spire. Ai Troiani parve questo una punizione inflitta dagli Dei a Laocoonte per il consiglio dato, e senza indugio aprirono le porte della città per introdurvi il cavallo di legno. La notte seguente la flotta greca avvisata per mezzo di un fuoco acceso da Sinone, o, secondo altre leggende, da Elena, se ne tornò silenziosamente al lido di Troia; i soldati sbarcarono e mossero verso la città. Intanto uscirono dal cavallo i trenta guerrieri che v’ erano nascosti e apersero una porta della città; così prima che i Troiani avessero potuto dar l’ allarme, l’ esercito greco penetrò in Troia e cominciò una terribile strage e saccheggio, a cui vana resistenza cercavano opporre i Troiani superstiti. Il vecchio Priamo, che aveva cercato protezione presso l’ ara di Zeus con Ecuba e le figlie, venne ucciso da Neottolemo che aveva già pure ucciso Polite di lui figlio; gli altri guerrieri troiani morirono combattendo, ben pochi scamparono, come Enea; le donne e i bambini caddero in ischiavitù, salvo Astianatte figlio di Ettore che fu buttato giù dalle mura. Colei che era causa di tutti questi guai, Elena, fu trovata in casa di Deifobo, altro figlio di Priamo, che dopo la morte di Paride avevala sposata. Menelao nel suo sdegno contro la infedele donna avrebbela uccisa, se l’ incanto della sua bellezza non gli avesse nel momento decisivo fatto cader l’ arme di mano. Le perdonò e la condusse seco. Un’ ultima vittima doveva essere ancora l’ infelice Polissena, altra figlia di Priamo. Mentre Agamennone ancorata la sua flotta sul lido di Tracia aspettava un vento favorevole, l’ ombra d’ Achille comparvegli minacciosa chiedendo di essere placata col sangue di Polissena. L’ infelice ragazza strappata dal seno della madre già affranta da tanti dolori, verso sulla tomba d’ Achille il suo sangue per opera di Neottolemo.

3. Ed ora le avventure del ritorno de’ Greci; giacchè disperdendosi i varii capi col loro gruppi di uomini e di navi, si favoleggiò abbiano avuto diversi casi prima di giungere alla loro patria, e alcuni anche in patria abbiano patito più o men gravi sventure. Tragica tra le altre la sorte toccata ad Agamennone. Dopo un viaggio non infelice, scampato anzi a una furiosa tempesta che lo colse sulle coste dell’ Eubea, nella sua reggia di Micene trovò la morte a tradimento per mano di Egisto che durante l’ assenza di lui aveva goduti i favori di Clitennestra. In quella congiuntura perdette la vita anche la profetessa troiana Cassandra, figlia di Priamo, fatta schiava di Agamennone. Aveva costei il dono di vaticinare l’ avvenire ma anche l’ infelicità di non essere mai creduta, e avendo più d’ una volta predetta a’ suoi la caduta di Troia, non era stata accolta che con dileggi e derisione. La morte di Agamennone non poneva fine ai tristi destini della stirpe dei Pelopidi. Oreste, figlio di Agamennone e Clitennestra, al tempo della spaventosa catastrofe era stato da una sorella maggiore, Elettra, portato via e condotto da uno zio, Strofio, abitante nella Focide. Ivi crebbe insieme con Pilade figlio di Strofio che era quasi coetaneo, e a poco a poco si contrasse tra loro una stretta amicizia, la quale si mantenne poi così costante che divenne proverbiale. Giunto a età matura, Oreste decise di muovere a vendicare suo padre così indegnamente ucciso; e accompagnato da Pilade se ne venne a Micene, sette anni dopo che n’ era uscito, e uccise non solo Egisto, ma anche sua madre. Questo gli tirò addosso la persecuzione delle Erinni le quali non gli davan pace e lo inseguivano dovunque egli fuggiva. Dall’ oracolo di Delfo ebbe allora Oreste consiglio di recarsi in Tauride e rapir di là l’ immagine di Atena e portarla in Attica. Vi si recò con Pilade; e, colto dal re Toante, stava per essere sacrificato, quando la sacerdotessa di Artemide che era Ifigenia sorella di Oreste, lo riconobbe, ed allora lo aiutò nel ratto della statua e tutti insieme fuggirono scampando all’ inseguimento del re Toante. Tornato in Attica Oreste ebbe poi la protezione di Atena e fu assolto dall’ Areopago, come si narrò parlando delle Erinni venerate d’ allora in poi come Eumenidi.

Più lieta fu la sorte toccata a Menelao che se ne tornava con Elena e i tesori del bottino di guerra. Una tempesta invero lo colse presso il promontorio Malea e questa lo sbalzò colle sue navi in Creta e in Egitto, e dove poi ancora girare sette anni prima di tornare a Sparta; ma ivi giunto godette per il resto de’ suoi giorni non interrotta felicità.

Trista sorte invece toccò di nuovo ad Aiace Locrese. Nel saccheggio di Troia essendo penetrato nel tempio di Atena e di qui avendo strappato per forza Cassandra che s’ era avvinghiata alla statua della Dea, questa lo puni facendolo naufragare presso il promontorio Cafereo a sud dell’ isola d’ Eubea. A stento egli potè salvare la vita su un nudo scoglio. Di che lieto, nella sua temeraria presunzione, non dubitò dire che si sarebbe salvato anche a dispetto degli Dei; allora Posidone con un colpo del suo tridente spaccò lo scoglio e l’ empio sprofondò in mare.

Diomede, dopo la presa di Troia, tornò felicemente ad Argo; ma ivi trovò che la moglie non gli era stata fedele, e allora se n’ andò nell’ Etolia, patria di suo padre Tideo, ove viveva ancora l’ avo Eneo, ma spogliato della signoria per opera dei figli di Agrio suo fratello; Diomede combattè, vinse e restituì all’ avo la signoria dell’ Etolia. Si noti però che alcuni fanno quest’ impresa di Diomede anteriore alla guerra di Troia. Appresso narrasi, che Diomede colto in mare da una tempesta fosse sbalzato nelle coste italiane, e ivi prendesse parte a una guerra dei Dauni contro i Messapi, e v’ ottenesse signoria di re e fondasse diverse città come Benevento, Arpi, Brindisi. Certo in Italia ottenne Diomede onore di culto come in Grecia.

Simil sorte ebbero pure due altri guerrieri greci, Filottete e Idomeneo, giacchè nel ritornare ciascuno alla propria patria, l’ uno in Tessaglia, l’ altro in Creta vennero in Italia, e ivi si fecero fondatori di nuove città. E Teucro, il fratellastro di Aiace Telamonio, tornò felicemente a Salamina, ma il padre nol volle accogliere accusandolo di non aver custodito con più cura la vita di Aiace; ond’ egli lasciata di nuovo la patria, si recò nell’ isola di Cipro e ivi fondò una nuova Salamina, ove si stanziò co’ suoi.

Ma la serie più interessante di avventure capitò ad Ulisse, secondo il noto racconto dell’ Odissea Omerica. Enumerate brevemente riduconsi alle seguenti: a) Partito colle sue dodici navi dal lido di Troia, Ulisse veniva anzitutto sbattuto sulle coste della Tracia, ed ivi presso Ismaro, città dei Ciconi, venne a battaglia con costoro, e ben distrusse la lor città, ma poi sorpreso di notte, ebbe uccisi 72 de’ suoi uomini. b) Partitosi di là, stava girando il promontorio Malea, quando una tempesta lo colse e spinse in alto mare. Dopo nove giorni di navigazione in balia dei venti, approdo alla terra dei Lotofagi (mangiatori di loto, un frutto di color rosso) nella Libia. Tre de’ suoi compagni, mandati a esplorare il paese, gustarono anch’ essi del loto, e n’ ebbero impressione così piacevole, che non volevano più tornare in patria. Ulisse dovette ricorrere alla violenza per farli ancora imbarcare, e salpò. c) Seguono avventure nell’ estremo occidente, in luoghi non ben determinati e da non potersi identificare, spesso fantastici. La prima è l’ incontro col Ciclope Polifemo. Erano i Ciclopi un popolo di giganti in un’ isola del mare occidentale, che abitavano sparsi su per monti curando le loro grosse greggi; eran detti Ciclopi perchè avevano un occhio solo in mezzo alla fronte, e conforme alla loro natura selvaggia, erano anche cannibali. Ulisse sbarcato nell’ isola con dodici compagni capito nella caverna di Polifemo che era figlio di Posidone. Ivi passò un ben brutto momento; giacchè tornato Polifemo, e chiusa con un masso l’ entrata della caverna, si mangi due dei compagni d’ Ulisse, e il domani altri due. Ulisse ricorse alla scaltrezza; avendo seco per buona fortuna portato del buon vino donatogli in Ismaro dal sacerdote di Apollo Marone, riuscì a ubbriacare il Ciclope; e quando fu bene addormentato, infocata la punta a un palo, con quello pestò l’ unico occhio del gigante e l’ acciecò. Il giorno dopo gli riuscì di fuggire col compagni, uscendo questi dalla spelonca confusi colle pecore, ed egli avviticchiandosi al vello d’ un ariete di sotto il ventre. Il Ciclope tardi s’ accorse del tiro fattogli e dovè contentarsi di invocar da suo padre Posidone vendetta contro Ulisse. d) Dalla terra dei Ciclopi Ulisse pervenne all’ Eolia, l’ isola favolosa dove Eolo, re dei venti, li teneva racchiusi in un antro per scatenarli quando ne riceveva ordine da qualche Dio. Eolo accolse Ulisse con cortesia, e quando il congedò gli fe’ un dono assai prezioso, cioè gli die’ un otre con racchiusi dentro tutti i venti violenti; custodendo quest’ otre egli sarebbe pervenuto felicemente alla sua patria. E difatti già erano le navi di Ulisse vicino ad Itaca, già si sognava la fine di tante traversie, quando i compagni di Ulisse in un momento ch’ egli dormiva, per curiosità slacciarono l’ otre; d’ un tratto n’ uscirono i più gagliardi venti, e le navi sbattute dalla tempesta furono trasportate di nuovo in occidente. e) Allora Ulisse capitò nel paese dei Lestrigoni, giganti e antropofagi. Costoro abitavano una terra dove le notti erano così chiare che chi potesse far a meno del sonno, avrebbe potuto guadagnare doppia mercede giornaliera. Con una sola nave riuscì Ulisse a fuggire da questo paese; le altre s’ erano fracassate tra gli scogli. f) Dopo, pervenne nell’ isola di Eea, dove abitava la bella maga Circe, figlia di Elios e sorella di Eeta. Costei soleva trasformare in bestie i forestieri che capitavano nell’ isola. Ulisse avendo mandato metà della sua gente con Euriloco al palazzo della maga, non li vide tornare perchè erano stati mutati in porci; il solo Euriloco, che non aveva bevuto la magica bevanda, sfuggi a questo destino e venne a dar la notizia ad Ulisse. Questi allora mosse da solo, e, aiutato da Ermes il quale diedegli un’ erba che lo proteggeva da ogni magia, indusse Circe a ridar ai compagni la forma umana. Tuttavia rimase ancora un anno intiero nell’ isola, vivendo in allegrezza e festa. Infine sollecitato dai compagni, Ulisse si decise alla partenza; Circe lo consigliò a navigare ancora verso occidente, di là dall’ Oceano, per potere presso i boschi di Persefone, nel vestibolo dell’ inferno, interrogare l’ anima di Tiresia e saper da lui in che modo potesse riuscire a toccar la patria terra. g) Seguendo questo consiglio s’ avvia Ulisse ad occidente e giunge al paese dei Cimmerii. Ivi offerti i dovuti sacrifici e fatti i prescritti scongiuri, gli compariscono su dalle caligini profonde dell’ Ades l’ ombra di Tiresia e molte altre di eroi ed e roi ne, fra cui anche sua madre Anticlea che gli dà desiderate notizie del padre Laerte, della moglie Penelope e del figlio Telemaco. Tiresia gli rivela lo sdegno di Posidone contro di lui, ma lo rassicura dicendo raggiungerà la patria purchè nella Trinacia siano rispettate le mandre di Elios. h) Tornato di là, Ulisse fece una seconda visita a Circe la quale gli diede avvisi e consigli per il rimanente del viaggio. Poco appresso toccò l’ isola delle Sirene, le ingannevoli Muse del mare che allettando con dolce canto i naviganti li invitavano a sbarcare, poi li finivano miseramente; personificazione evidente dei pericoli di un mare in apparenza calmo e seducente. Ulisse tappò le orecchie de’ suoi compagni con cera; egli stesso si fe’ legare all’ albero maestro e così sfuggiron tutti al pericolo. Men liscia la passarono nello stretto siciliano, tra i due mostri detti Scilla e Cariddi. Perchè mentre si scansavano dal terribile vortice di Cariddi, avvicinatisi troppo all’ altro mostro che con sei lunghi colli e bocche abitava nella sua tenebrosa inaccessibile caverna, sei fra i rematori d’ Ulisse furono miseramente afferrati e ingoiati. i) Scampato a questo pericolo, Ulisse pervenne all’ isola Trinacia o delle tre punte (la Sicilia?), dove sbarcò veramente a malincuore e solo per condiscendere al desiderio dei compagni. Pareva presentisse il pericolo; infatti, trattenuto ivi dai venti contrari, i compagni di Ulisse spinti dalla fame dieron di piglio ad alcuni capi dell’ armento di Elios, sebbene Ulisse ne li avesse severamente proibiti. Terribile fu la vendetta degli offesi Dei; appena s’ eran messi in mare un fulmine di Zeus sconquassa la nave e la sprofonda nelle onde; annegarono tutti salvo Ulisse che afferrata una trave galleggiò sbattuto dall’ onde per nove giorni e infine pervenne all’ isola di Ogigia. l) Era quest’ isola solitaria abitata da Calipso, figlia di Atlante. Costei accolse il naufrago con grande benevolenza; se ne invaghì; voleva farlo suo sposo e indurlo a non abbandonar più quella terra. Ma troppo poteva in Ulisse l’ amor della diletta patria e della sua Penelope perchè cedesse a queste lusinghe. Neanche la promessa di renderlo immortale valse a smuoverlo. Sette anni se ne stette il povero Ulisse nell’ isola, e ogni giorno sedeva sospirando e lagrimando alla riva e guardava coll’ animo pieno di desiderio nella direzione d’ Itaca. Alfine gli Dei si mossero a compassione di tanto dolore, e Zeus mande per mezzo di Ermes ordine a Calipso di lasciar partire l’ eroe. Egli felice partiva su uno schifo da lui costruito abbandonandosi un’ altra volta all’ infido elemento. m) Da sedici giorni naviga va sbattuto dall’ onde, il decimo-settimo scorge nella lontana nebbia il profilo dell’ isola di Scheria; ma mentre pieno di speranza s’ affaticava per giungere a quella volta, ecco passa Posidone di ritorno dall’ Etiopia e lo scorge, e ancora tutto pieno di sdegno contro lui gli sconquassa la zattera e lo abbandona nell’ acque. Sarebbe stata finita per lui, se la buona Ino Leucotea, mossa a compassione, non lo avesse confortato e avvoltolo d’ un velo non gli avesse dato forza di resistere a nuoto. Dopo due giorni e due notti, alfine raggiunse il lido di Scheria. Ivi incontra Nausica, figlia di Alcinoo re dei Feaci; la quale lo conduce al palazzo e lo raccomanda al padre. Ulisse ebbe amichevole accoglienza; si istituirono giochi in segno di festa; egli racconto le sue avventure; infine una nave dei Feaci ricondusse l’ avventuroso eroe all’ isola d’ Itaca. Correva il ventesimo anno dacchè egli aveva lasciato la patria per recarsi a Troia; e dormiva in quel momento che i Feaci lo sbarcarono e deposero con tutti i suoi tesori sulla riva, n) Negli ultimi anni la casa di Ulisse in Itaca s’ era trovata in grandi afflizioni. Perduta ornai ogni speranza che Ulisse tornasse, il padre Laerte viveva immerso nella tristezza; Penelope era perseguitata da molti che aspiravano alla sua mano, i quali intanto venivano nella reggia d’ Itaca e godevano e sciupavano in feste e bagordi i beni d’ Ulisse. Per qualche tempo Penelope seppe tener a bada questi Proci, giacchè avendo promesso si sarebbe decisa di passare a nuove nozze dopo terminato il lenzuolo funebre che stava tessendo per il vecchio suocero, disfaceva di notte il lavoro fatto di giorno, onde venne in proverbio la tela di Penelope a indicare un’ opera non mai condotta a compimento. Ma alfine i Proci se n’ accorsero, e obbligarono Penelope a finir l’ opera. Ella vinta promise fissar un giorno nel quale avrebbe scelto fra i Proci il suo secondo marito. Appunto allora Ulisse era stato sbarcato dai Feaci nell’ Isola. Quando fu sveglio, gli comparve Pallade Atena, la quale lo avvisò di quel che era avvenuto nella sua reggia e lo condusse all’ abitazione di un pastore di porci Eumeo, per ivi fargli ritrovare il figlio Telemaco e porgergli modo di concertare il da farsi contro i Proci. Si avvicinava la festa d’ Apollo; Penelope annunziò che quel giorno avrebbe fatto la sua scelta; sarebbe stato preferito chi fosse in grado di tendere il grand’ arco di Ulisse, dono di Ifito, e lanciare una freccia attraverso dodici anelli di ferro. Ulisse comparve alla gara in abito di mendicante, e tutti i Proci invano essendosi provati a tendere quell’ arco, egli chiese facoltà di provarcisi e riuscito facilmente a vincere entrambe le prove, volse poi i dardi contro i Proci, e coll’ aiuto di Telemaco e di Atena tutti li uccise. Fattosi infine riconoscere da Penelope, con lei e col vecchio Laerte visse i suoi ultimi anni felicemente nella sua patria. La tradizione posteriore ad Omero lo faceva poi morire per mano di Telegono, figlio di lui e di Circe, da questa mandato alla ricerca del padre e sbarcato casualmente ad Itaca.

4. Rimane si raccontino le avventure toccate ad Enea, l’ eroe troiano figlio di Anchise e di Afrodite, il quale divenne anche eroe italico. Mentre Troia ardeva ancora, egli fece gli ultimi sforzi per bravamente difenderla, ma poi visto che era tutto perduto si ritirò co’ suoi sul vicino monte Ida portando a spalle il vecchio padre Anchise. In questa fuga egli perdette la moglie Creusa ma salvò il figlio Ascanio e le sacre immagini dei Penati troiani. Non molestato più dai Greci, anzi secondo alcuni lasciato libero perchè aveva sempre consigliato la restituzione d’ Elena e la pace, con venti navi salpò dal portò di Antandro per andare in cerca d’ una nuova patria. Le vicende assegnate ad Enea furono dalla tradizione modellate in parte su quelle di Ulisse; quindi una certa somiglianza. Prima visitò la Tracia, poi l’ isola di Delo per ivi interrogare l’ oracolo d’ Apollo. Ammonito di andar in cerca della patria originaria della sua famiglia, s’ avviò all’ isola di Creta, donde era venuto Teucro uno del re di Troia. Ma i Penati comparsigli in sogno gli additarono l’ Italia come la patria de’ suoi maggiori. Allora egli si rimise in mare diretto in occidente. Una terribile tempesta avendolo spinto nel mar Ionio, capitò anzitutto nelle isole Strofadi ove gli toccò l’ avventura delle fameliche Arpie che gli insozzarono la mensa. Poco appresso venne a Butroto in Epiro, dove ritrovò Eleno figlio di Priamo che portato da Troia con Neottolemo, alla morte di questo, aveva ottenuto una parte del regno di lui e sposato Andromaca, la vedova di Ettore. Ripartitosi di là, volse la prora all’ isola di Sicilia. Ivi giunto ebbe gentile accoglienza da Aceste figlio dei fiume Crimiso e di Egesta, nobile donna troiana. Però ebbe il dolore di perdere allora il vecchio genitore Anchise cui egli seppelli sul monte Erice. Rimessosi in mare, lu da una nuova tempesta sbalzato sulle coste d’ Africa ove ebbe l’ incontro con la fenicia Didone fondatrice di Cartagine. Costei, invaghitasi di Enea, avrebbe voluto che si fermasse con lei e divenisse suo sposo, ma un espresso ordine di Giove indusse Enea alla partenza. Allora rivisitò la Sicilia, poi alla fine toccò il lido d’ Italia in vicinanza di Cuma. Interrogata ivi la famosa Sibilla Cumana, n’ ebbe consiglio di scendere all’ Averno per veder l’ ombre dei trapassati e saper da loro notizie del proprio avvenire e della sua discendenza. Ciò fatto, riprese il viaggio e veleggiò sino alle foci dei Tevere e scese nel territorio di Laurento, il cui re Latino l’ accolse benignamente cedendogli spazio per la fondazione d’ una nuova città, e la mano della propria figliuola, Lavinia. — Ma altri osta — coli qui si opponevano all’ eroe. Amata, la moglie di Latino, avrebbe preferito sposare la sua figliuola al potente Turno re dei Rutuli, e indusse costui a muover guerra ad Enea. Così scoppiò quella sanguinosa guerra, la quale dovea chiudersi colla morte di Turno e il trionfo di Enea. Il quale, poichè anche Latino morì, gli successe nel governo e fondò nuova città che dal nome di sua moglie chiamò Lavinio. Quattro anni dopo morì e appresso ebbe l’ onore di pubblico culto.

5. Le favole del ciclo troiano ebbero così larga diffusione fra i Greci che divennero come il pascolo intellettuale delle loro anime; in tutti i secoli della vita greca vi attinsero letterati e artisti, contribuendo da parte loro ad allargare, rinnovare, rielaborare le tradizioni avite. Oltre le due grandi e note epopee di Omero, vanno ricordate le Ciprie di Stasino di Cipro, la Iliu Persis o distruzione d’ Ilio di Lesche da Lesbo, i Nosti di Argia da Trezene, la Telegonia di Eugammone da Cirene. Ancora nella tarda età bizantina, ripresi per sollazzo d’ erudizione i vieti argomenti epici, videro la luce i Postomerici di Quinto Smirneo, la presa d’ Ilio di Trifiodoro, il ratto d’ Elena di Colluto Licopolitano, in ultimo gli Anteomerici di Tzetze. La lirica eziandio fè suo pro di questo mondo così vario e ricco di sentimenti poetici; ad es., Stesicoro trattò a suo modo la presa d’ Ilio, i Nosti, le leggende d’ Oreste; e le poesie di Pindaro sono ricche di accenni relativi alle leggende degli Eacidi. Specialmente la tragedia s’ aggirò come nel suo proprio elemento fra argomenti del ciclo troiano; troppo lungo sarebbe enumerare i drammi d’ Eschilo, Sofocle, Euripide a queste leggende riferentisi; basti dire che tutti i momenti di questa istoria furono sceneggiati, dal sacrificio d’ Ifigenia in Aulide fino alle vicende del ritorno e alla trista sorte serbata ad Andromaca, a Ecuba, ad Ulisse. Sopra tutto le tragiche e fatali sventure dei Pelopidi e degli Atridi serbarono per secoli e secoli la virtù loro di commuovere profondamente chi aveva fibra per sentire l’ eterno umano. — Venendo alla letteratura latina, anch’ essa bevve a larghi sorsi alla fonte delle cose troiane. Per tacere dei traduttori, già Nevio nella Guerra punica ebbe occasione di narrare poeticamente la leggenda di Enea, ma poi si innalzò com’ aquila sovra tutti, poco al disotto di Omero stesso rimanendo, il gran poeta mantovano, la cui Eneide contiene nei primi libri una magistrale descrizione della caduta di Troia, la più viva e la più bella che a noi sia giunta dall’ antichità. S’ aggiungano gli ultimi libri delle Metamorfosi d’ Ovidio, che cantano lo stesso tema; s’ aggiunga l’ Achilleide di Stazio; s’ aggiungano i continui ricordi e cenni dei poeti lirici, Orazio, Tibullo e Properzio; infine si dee tener presente che tutti i poeti tragici latini, da Livio Andronico a Seneca dedicarono la più gran parte delle loro opere ad argomenti troiani. Da tutto ciò si rileva facilmente quanta parte siano state le leggende troiane della vita intellettuale degli antichi; e non fa meraviglia che ancora il medio evo abbia conservate, trasformandole a modo suo, quelle tanto vivaci e tanto belle tradizioni.

Opera immensa sarebbe anche descrivere minutamente le opere di pittura e di scultura ispirate dalle leggende del ciclo troiano e giunte a noi su vasi, in monumenti sepolcrali, gemme incise e statue. Ricorderemo poche cose, le principalissime. E prima le scolture del frontone orientale del tempio di Zeus in Olimpia, rappresentanti il momento in cui Pelope si dispone alla lotta contro Enomao; opera del celebre scultore Peonio di Mende contemporaneo di Fidia. Importanti frammenti di questo bassorilievo furono scoperti un venti anni fa per cura del governo germanico. In mezzo s’ erge maestosa la figura di Zeus, a sinistra di lui stanno Pelope ed Ippodamia, a destra Enomao con la moglie Sterope; seguono da una parte e dall’ altra le quadrighe e altre figure secondarie. — In secondo luogo va ricordato il celebre gruppo di Laocoonte. Fu trovato nel 1506 in una vigna presso le terme di Tito a Roma, e da papa Giulio II acquistato per il museo Vaticano. Mancava il braccio destro di Laocoonte, e fu ristaurato da Giov. Angelo Montorsoli; ma par certo non sia riuscito bene questo ristauro e che questo braccio dovesse essere più piegato verso la testa. La fig. 88 riproduce questo gruppo come esso è attualmente in Vaticano. Si dice opera di tre scultori, Agesandro, Polidoro e Atenodoro della scuola di Rodi ed è probabile risalga all’ età classica di questa scuola (terzo secolo av. C.; il Lessing lo giudicò del 1º sec. dell’ e. v.). « Ciascuna delle tre figure, scrive il Gentile (op. citata pagina 172) rappresenta un singolo momento della tragica catastrofe. Il figlio di destra, giovanetto di forme morbide e gentili, è quasi levato su di terra dalle violente strette del rettile che lo comprime al destro fianco del padre, gli attorce le parti superiori delle braccia, e di sotto alla destra ascella lo addenta con velenoso morso, contro il quale tenta inutile difesa la sinistra mano del fanciullo; già egli vien meno; arrovesciando all’ indietro la testa esala la vita. Lo stesso serpente colle estreme spire della coda allaccia in basso una gamba dei figli di sinistra, mentre l’ altro serpente gli arronciglia il braccio destro, ma non così che al giovine non sembri ancor possibile di sfuggire a quelle ritorte; e invero, pur tentando colla sinistra di liberare il piede inceppato, egli mostrasi spaventato non per sè ma per il padre suo, al quale si volge con pietà e sgomento. E il padre nel mezzo, preso fra le spire dove sono più vigorose e tenaci, invano colla sinistra comprime il collo del serpe che gli si avventa con rabbioso morso al fianco; sotto quel morso il corpo si incurva, si convelle nello strazio; i muscoli sono tesi per lo spasimo, le vene si fanno turgide sotto la cute, l’ addome si contrae compresso, il petto si rigonfia le estremità fino alle dita dei piedi si raggrinzano tremanti; un brivido, un fremito di dolore corre per tutte le membra, avvinte nelle strette di quelle viscide e gelide spire. E di quel dolore è tanto più viva l’ impressione quanto si vede che il corpo che ne soffre è aitante, valido, eppur senza difesa. Reclinando il capo, l’ infelice volge la faccia al cielo; le chiome scomposte, contratti i muscoli, la fronte e le ciglia corrugate, quasi annebbiati gli occhi; la bocca s’ apre a mandar non un grido, ma un sospiro, un gemito da moribondo. In quel volto lo spavento, l’ angoscia, il dolore, ma propriamente il dolor fisico sono espressi all’ estremo… ». A questa fine analisi dei Gentile si può aggiungere l’ osservazione che la testa di Laocoonte così volta al cielo in atto di dolorosa rassegnazione, sì che par voglia chiedere agli Dei perchè una sorte si crudele sia toccata a lui devoto sacerdote d’ Apollo, fa contrasto coll’ atteggiamento del corpo affranto dal più terribile dolore, e questo contrasto dà grande bellezza. — In terzo luogo menzioniamo l’ ammirato gruppo denominato « Pasquino » che trovasi a Roma su un crocicchio di strade all’ angolo del palazzo Braschi, rappresentante un guerriero che sostiene il corpo morto di un altro guerriero. Ne esistono copie antiche in diversi luoghi, una è nella loggia dei Lanzi a Firenze (fig. 89). Si pensa o a Menelao che sostiene Patroclo, o ad Aiace che salva dal furor nemico il cadavere di Achille. In ogni modo il bel corpo giovanile dell’ eroe morto colle membra abbandonate ed inerti fa un efficace contrasto col guerriero che lo sostiene il quale è nel pieno vigore delle sue forze. — Varie scene della guerra troiana riscontransi ancora in diversi monumenti; tra questi van ricordati i marmi Egineti, resti di un bassorilievo marmoreo del tempio di Pallade in Egina scoperti nel 1811 e conservati ora nella gliptoteca di Monaco.

In ultimo riproduciamo alla fig. 90 un noto gruppo del Museo Ludovisi di Roma rappresentante una giovine donna colla chioma tagliata, che fa gentile accoglienza a un giovine minore di lei d’ anni e di statura; per lo più si crede si tratti di Elettra ed Oreste nel momento che si rivedono nella casa paterna contaminata dall’ uccisione di Agamennone. Il gruppo è detto esser opera di Menelao scolaro di Stefano della scuola di Prasitele fiorito nel 1º secolo av. C.

Capitolo quarto.
Vati, poeti, artisti mitici. §

1. Agli eroi del braccio e della guerra fanno riscontro gli eroi dell’ intelligenza e dell’ arte, giacchè anche l’ eccellenza dell’ ingegno, suscitando l’ ammirazione degli uomini, era naturale venisse ricordata e celebrata dai cantori popolari e entrasse nel dominio della leggenda. Or la virtù dell’ ingegno s’ esplicava nell’ età eroica in tre modi, a) nel vaticinar l’ avvenire, b) nel poetare e cantare con accompagnamento della cetra, c) nel fare opere d’ arte; quindi le tre categorie dei vati, dei poeti, degli artisti.

2. Ogni stirpe greca ebbe i suoi vati e indo vini; in parte li abbiamo già ricordati. Nelle leggende Tessale e Argive è insigne Melampo, figlio di quell’ Amitaone, che venuto dalla Tessaglia in Messenia ivi propago la sua stirpe; Melampo e Biante suoi figli vissero e fiorirono contemporaneamente alla stirpe di Neleo. Entrambi erano segnalati per la loro antiveggenza e saviezza, ma specialmente Melampo, il quale avendo curato una covata di serpenti dopo aver dato sepoltura ai loro genitori, n’ ebbe leccate le orecchie, e così fu reso abile a intendere il linguaggio degli uccelli e a preveder l’ avvenire. Dalla Messenia i due fratelli passarono ad Argo, ed ivi avendo Melampo saputo guarire le figlie di Preto, ottenne una parte del regno e così diè origine alla dinastia degli Amitaonidi. A questa appartennero Adrasto, Anfiarao, Alcmeone, Anfiloco che ebbero tante parte nelle vicende di Tebe e nelle due guerre dei sette e degli Epigoni; ed’ altri minori, come Polifide, Teoclimeno suo figlio che andò in Itaca con Telemaco e Poliido che acquistò fama in Corinto. — Ogni ciclo di leggende ha il suo vate e indovino; fra gli Argonauti c’ era Mopso figlio di Ampico, tessalo; nelle leggende tebane è nominato Tiresia; come nelle troiane Calcante dalla parte dei Greci, Eleno e Cassandra dalla parte de’ Troiani. Di tutti costoro il più celebre fu Tiresia, sovrano nell’ arte di osservare il volo degli uccelli. Gli si assegnava una vecchiaia favolosa, dicendolo nato nei primordi di Tebe e facendolo ancora vivo al tempo della distruzione della città per opera degli Epigoni. A sette anni d’ età si diceva avesse perso la vista, secondo alcuni per opera d’ Atena che era stata vista nel bagno da lui, secondo altri per aver egli rivelato i segreti della Dea. Come tutti i veggenti dell’ antichità intendeva il linguaggio degli uccelli e conosceva i più riposti arcani della natura, e perciò fu sempre in grande estimazione presso i Tebani. Dopo la caduta di Tebe, trovò la morte nella fuga; ancora nel secondo sec. dopo C. si indicava la sua tomba nelle vicinanze di Aliarto. Tiresia ebbe una figliuola, Manto, dotata anch’ essa della facoltà di vaticinar l’ avvenire. Fatta prigioniera di guerra al momento della distruzione di Tebe, fu portata a Delfo e consacrata ad Apollo; per ordine di lui andò poi nell’ Asia Minore, dove fondò l’ oracolo di Claro presso Colofone. Quivi sposatasi con Rachio di Creta, diè alla luce Mopso, il quale divenne il fondatore dell’ oracolo di Mallo in Cilicia.

3. I più celebri poeti dell’ età eroica furono Orfeo, Lino, Tamiri e Museo. Orfeo era ritenuto come il primo citaredo, e come tale si diceva prediletto ad Apollo. Nato fra i Traci così famosi per la musica e Tarte del canto poetico, pose sua residenza nelle regioni dell’ Olimpo. Cantava così bene che le pi ante e le pietre muovevano a udirlo e le fiere selvaggie s’ ammansivano. Nota la leggenda di Orfeo e di Euridice, sua sposa. Morta questa di acerba morte per essere stata morsicata da un serpe, egli la pianse in dolcissimi canti che commuovevano fin le pietre. Pensò di scendere all’ inferno per veder di riaverla. In fatti il suo dolce canto faceva spuntar le lagrime fin sul ciglio delle Erinni e il petto di bronzo del re dell’ ombra si commosse. Gli fu concesso che Euridice seguisse un’ altra volta Orfeo nel regno della vita, a questa condizione che durante il tragitto egli non si volgesse indietro a guardar la sposa, che se avesse fatto ciò, essa gli sarebbe stata inesorabilmente ritolta. Lieto intraprende egli il viaggio di ritorno; lo seguiva Euridice; ma a un certo punto egli non potè trattenersi dal voltarsi indietro per guardar la sposa amata, e allora questa d’ un tratto spari; Orfeo tornato in terra, andò errante per le montagne della Tracia a dare sfogo al suo dolore, e gli avvenne poi di perire miseramente lacerato da uno stuolo di Baccanti nel quale s’ imbattè. — Lino non era meno celebre di Orfeo. Era figlio della Musa Urania, come Orfeo di Calliope, e rallegrava de’ suoi canti le regioni dell’ Elicona. Forse costui non è altro che la personificazione mitica di antico canto popolare in cui si lamentava con querule note il perire della natura nella stagione invernale, e che chiamavasi appunto lino. Di Lino si cantava specialmente in Argo, a Tebe, nell’ isola d’ Eubea, e anche si facevan feste in di lui onore. — Tamiri (Thamyris) fu il primo dei cantori antichi che allietava dell’ arte sua le corti de’ principi e dei nobili e la folia raccolta a festa. Ma pecca di superbia e volle gareggiare colle Muse onde fu acciecato e toltagli la facoltà dei suoni; onde divenne il contrapposto del pio Orfeo. — Infine Museo ebbe il merito d’ introdurre e diffondere l’ arte poetica nell’ Attica. Si diceva discepolo o figlio di Orfeo, e citavansi anche delle poesie di lui, canti religiosi e lustrali, inni, vaticini. Ma i lavori che nell’ età storica correvano col suo nome eran naturalmente di elaborazione ben posteriore.

4. Fra gli artisti mitici il più celebre è Dedalo, del quale abbia in già detto una parola (cfr. pag. 360 e 370). Lavorò nell’ isola di Creta, in Attica e anche in Italia e Sicilia; e si segnalò sia per costruzioni architettoniche sia per lavori di statuaria. Due altri artisti, a cui si attribuiva la costruzione di grotte, cripte, camere per tesori, furono Trofonio e Agamede, detti fratelli, celebrati specialmente nella Beozia, nell’ Arcadia, nell’ Elide.

5. Le leggende relative ai vati, ai poeti, agli artisti mitici ebbero la loro illustrazione nella letteratura e nell’ arte classica. Di Melampo si occupa Esiodo in una poesia speciale, la Melampodia. Tiresia già comparisce con regali onori in Omero; e Pindaro nella prima Nemea lo chiama l’ esimio profeta dell’ altissimo Zeus, il profeta di verità; mentre i Tragici lo introdussero nei loro drammi, ad es. Euripide nelle Baccanti. Infine anche l’ infelice Cassandra, destinata a profetar l’ avvenire ma non esser creduta mai, è personaggio che ricorre spesso nei drammi che trattano di Troia caduta e delle vicende dolorose serbate ai superstiti. — Fra i poeti Orfeo è il più celebrato; i lirici, come Pindaro, Stesicoro, Ibico e i tragici come Eschilo, andarono a gara a onorare l’ alta virtù del cantore tracio; e il pietoso caso di Euridice e la discesa all’ inferno di Orfeo trova un interprete eloquente in Ovidio, nel decimo delle Metamorfosi. L’ efficacia del canto d’ Orfeo bene è detta in quei versi d’ Orazio

                  vocalem… Orphea…
Arte materna rapidos morantem
Fluminum lapsus celeresque ventos,
Blandum et auritas fidibus canoris
                       Ducere quereus53.

Dedalo in letteratura è ricordato soprattutto per la leggenda d’ Icaro e la fuga dal labirinto, già n’ abbiam fatto cenno ove si discorreva delle leggende cretesi.

Anche l’ arte prese sovente ad argomento i vati e poeti dell’ età mitica; qui ricordiamo solo un bel rilievo in marino che si conserva in Napoli, di cui diamo il disegno alla fig. 91. Rappresenta la seconda irreparabile separazione di Orfeo ed Euridice. Questa, che è la figura di mezzo, posa leggermente la mano sulla spalla d’ Orfeo che la guarda con triste dolcezza. La terza figura è Ermes che deve compiere il suo dovere di separare i due amanti, ma si vede che lo fa a malincuore. Altri bassirilievi presentano un motivo analogo; pare che rappresentazioni simili si usassero spesso a ornamento delle sepolture.