Andrea Salomone

1841

Mitologia iconologica

2019
Andrea Salomone, Mitologia iconologica, ossia ritratti delle pagane deità, effigiati, sviluppati ed espressi per uso del seminario cavese del rev. Andrea Salomone, istitutore di filosofia e matematica del seminario medesimo, colla giunta delle istituzioni poetiche dello stesso autore, Napoli, Stabilimento tipografico di Francesco Del Vecchio, 1841, in-12, 251, p. PDF : Internet Archive.
Ont participé à cette édition électronique : Infoscribe (saisie, TEI-XML) et Nolwenn Chevalier (édition TEI).
[n.p.]

Epigrafe §

Fabula etsi vim veritatis non habeat ;
tamen rationem habet, ut iuxta eam possit veritas manifestari.
Ambe. lib. 3. de off.
{p. 3}

A nibili giovanetti studenti delle belle lettere nel seminario di cava §

L’autore §

Fin da quel momento, in cui un grazioso volere del nostro illustre Ordinario dagli studii dell’amena letteratura mi trasse ad occupazioni più serie, intesi tratto tratto decadermi dalla mente il concepito disegno di menar a fine quel compendio di Mitologia iconologica, che un dì nel vostro seno da antecessore sedendo a vostre premurose inchieste impreso avea ad effettuire : che anzi succrescendo sempre più alle nuove occupazioni l’affetto fin a guadagnarsi un dominio quasi esclusivo nel cuore, cambiando in meglio i consigli fermo risolsi di sostituire a tal non molto interessante trattato un’altro parto più degno, ma non men vantaggioso alla vostra istruzione nella età almen più provetta. Assordato però dale vostre reiterate premure, nè sapendo di buona voglia, e col dovuto decoro ulteriormente perseverar sulla negativa pensai sottrarre al fin per pochi giorni, quasi insensibilmente, a me stesso quel tempo, che necessario si fosse a compiere, se non con mio onore, almen con compiacenza vostra l’incominciato lavoro. Eccolo pertanto, che tratto appena dall’ancor sudante mia penna, ed il fresco impronto mostrando {p. 4}della testè conseguita pubblica ragione nel vostro gentil seno, quasi a prefisso suo centro, lasciasi affettuosamente cadere. Io mi avventuro, che voi nel distender graziosi la mano ad accoglierlo, e nel piegar curiosi lo sguardo a percorrerlo possiate a ragion gloriarvi di vedere al fin secondate appuntino le mire, e soddisfatte pienamente le brame. Ed in qual cosa in vero può esso per avventura il mio libro defraudare l’aspettativa vostra miei cari ? A confessarvi il vero colla consueta mia schiettezza io nol saprei affatto affatto imaginare. Bramaste i sonetti iconologici degli dei superiori detti maiorum gentium seguiti da sufficiente sviluppo per intelligenza più chiara ? Tanto il libro puntualmente vi offre. Cercaste ritratti consimili delle divinità astratte almen più famose da annotazioni soltanto illustrati ? Questo ancora nello stesso troverete esattamente descritto. Voleste in fine un trattato più pratico, che teoretico di poesia toscana, che vi servisse di manuale a si bella facoltà senza tralasciare di toccare almen superficialmente la latina ? Il tutto a questa norma scorgerete quivi fedelmente eseguito. Se dunque il mio giudizio sul compiacimento vostro non erra, perchè l’operetta in tutta la estenzione corrisponde appuntino alle mire, protesto di non aver più che bramare, perche soddisfatto appieno de’voti. Vivete intanto felici, ed all’altrui amore ben grati.

{p. 5}

A’leggitori §

Sonetto §

Generosi lettori ecco il primiero
Parto alla luce del mio scarso ingegno :
Che accoglierete il rozzo dono io spero
Dandomi in ciò del vostro amore un segno.
Il perdon vostro non farammi altero,
Anzi sarà sol di bontade un pegno,
E priachè io compia il vital corso intero
Darvi parti maggior con voi m’impegno.
Sarà mia gloria il dir, che questa terra
Benigna accolse il primo sudor mio,
Ad onta del destin, che mi fa guerra.
Riceva ognun ciò, che donar poss’io,
Che certo io sono, e il creder mio non erra,
Col vostro nome superar l’oblio.
{p. 6} {p. 7}

Generali nozioni sulla mitologia §

Se al sentimento dell’immortal’Oratore Romano ogni avviamento di discorso, che sù di qualche materia s’imprende, Cic. de Of. Lib. 1. sub init. aver deve dalla definizione il suo principio, acciò quanto in prosieguo è da dirsi chiaramente s’intenda ; non sarà certo fuor di ragione se volendo io (benchè colla possibile brevità) trattar de’principali, e più interessanti punti della Mitologia, dalla definizione di essa pria d’ogni altra cosa per una ben chiesta ragion di chiarezza incomincia.

La Mitologia dunque composta dalle greche voci Mythos fabula, e logos discorso altro non è, che la esposizione di quelle favolose idee, delle quali imbevuti i Gentili lungi assai dal vero vivevano infelicemente ingannati, non ostante, che tali massime in buona parte conosciute pur si fossero per incoerenti, e strane da quel valentuomini, de’quali a tutta ragione dalla Repubblica letteraria la saggezza si esalta(1).

{p. 8}Or quantunque a prima fronte rassembri, che la scienza di quanto può mai presentar la Mitologia sia di nessun vantaggio, anzi non esente ancor da pericolo alla studiosa gioventù disposta a ricevere colle vere anche le false idee, degna perciò d’essere a ragion negletta, anzi che studiata ; pur tutta volta una tal dispregevole conclusione di leggieri non si efformerà da colui, che di questa scienza esaminerà più posatamente i vantaggi.

Ed in vero da qual’altro fonte attinsero i più rinomati artefici di ogni tempo le idee più belle, onde effigiare le più magnifiche opere atte a rapir chi si sia con lusinghevole invaghimento ? Da qual’altra scienza un uom letterato, cui si appartiene render ragione d’ogni cosa richiesta, attinger potrà i necessarii lumi per sviluppare quelle tante cifre, e misteriose figure, che in mille quadri, e tappeti trovansi alla divina foggia espressate ? Come potrà un giovane intendere con frutto le opere de’Greci, e Romani scrittori, ed in particolar modo quelle de’Poeti tragici, e lirici, se privi sono della cognizione di quelle favole, alle quali tali scrittori fanno ben spesso allegorie ? Come al fin aversi cognizione della Teologia, e Religione de’Gentili, se questa in buona parte è fondata sulle fantastiche idee de’più riscaldati Poeti ? Questi, ed altri mille sono i vantaggi, che risultano a noi dalle {p. 9}mitologiche cognizioni. E son questi forse per un’amator delle scienze frutti di poco conto ? Acquisti da disprezzarsi ?(1)

Le favole, che per tanti secoli sedotta tennero la infelice Gentilità, ebbero la loro origine dalla Idolatria.(2) Imperocchè perduta gli uomini a poco a poco la cognizione del vero Dio in tal profonda oscura notte d’illusioni, ed inganni ne caddero, che della lor nobile origine, e beato fine confuse del tutto le idee, cominciarono a lavorarsi Dei a capriccio, ed a rivolgere a questi le loro adorazioni ; onde videsi con orror di natura darsi al Sole, alla Luna, alle Stelle, ed a quante creature più ferivano gli sguardi ogni ossequio, ogni culto, ed onore. Quindi in tal’insulso sistema introdottosi ancora quanto mai dilettar potesse i sensi, tosto avvenne, che ogni sanguinoso si foggiò il suo Marte, ogni ladro il suo Mercurio, ogni lascivo la sua Venere, ed ogni vinolento il suo Bacco.

Un tal detestabile sistema pertanto di qualificar Dei a capriccio seguito dalla oscurata cogniziono del vero Dio, sembra, Læt. Lib. 2 de fals. Rel. che abbia riconosciuto i suoi natali nell’Egitto, e nella Fenicia(3) e che propriamente sia nato nella famiglia di Rel. {p. 10}Cham, da cui partendo, quasi da suo fonte, si pernicioso errore, culto si strano si diramò a tardi nipoti di Sem nell’Oriente, ed a quelli di Jafet nell’Occidente. Toccata la Grecia anch’essa dallo stesso contagio nel suo seno introdotto da Fenicii, nelle stesse miserie cominciò pian piano a languire, anzi con mille piacevoli invenzioni ampliando, e fregiando quanto aveva imparato tutto tramandò a’Romani, i quali quantunque eran non solo nelle armi, ma nel giudizio ancora, come pur si pretende, superiori alle altre nazioni, pur con bel genio, ed animosa contesa troppo ciechi a fabbricar si diedero un tempio chiamato il Pantheon, ove radunate vollero tutte le deità ricevute ; anzi sorpassando gli altri in tal sorte di follia, mille altri più stolti, ed insensati Dei inventarono, che quivi cogli altri rinchiusero ; e così dilatando essi la loro potenza sin agli estremi paesi del mondo conosciuto, a questi tutti comunicaro le loro stravaganze, e follie ; e quindi l’irreligioso culto degli Dei in tal guisa dilatato venne a contaminare ogni terra, ogni lido.

Una moltitudine pertanto di tanti Dei, acciò recato non avesse confusione, e soprattutto nelle loro differenti preeminenze, e ne’gradi, pensarono gli occecati abitanti della terra in quattro classi differenti generalmente dipartirli. La 1 classe abbracciava gli Iddii superiori detti Maiorum Gentium, come quelli, che erano adorati da tutte le nazioni della terra, e questi erano venti, de’quali dodici formavano il supremo {p. 11}consiglio, Luc. dial. de Deor. concil. cioè Giove, fra’ maschi, Nettuno, Vulcano, Marte, Mercurio, ed Apollo, e fra le donne Giunone, Cerere, Vesta, Minerva, Venere, e Diana.(1) Gli altri otto poi, che luogo non avevano a tal consiglio, chiamavansi ordinariamente Dei selecti, e questi erano il Destino, Saturno, Giano, Genio, Plutone, Bacco, Cibele, e Proserpina, benchè sù questi nomi non da tutti si conviene. La II classe racchiudeva tutti que’ Dei, che splendevano di minor gloria, e venivano considerati come Dei campestri, e riconosciuti sotto il titolo di Dei volgari detti Cic. Lib. 2. de Nat. Deor. Dii minorum gentium, come il Dio Pan, Pale, ecc. La III classe abbracciava tutti que’Dei, che riconoscevano la loro origine da qualche donna mortale esibitasi a qualche Dio, oppure da uomo mortale unito a qualche Dea, detti Dei Ascrittizii. Varr. apud Aug. Nel numero di questi erano ancora annoverati quegli Eroi, che a riguardo de’ loro meriti erano stati innalzati al grado di Dei indigeti, come di Enea divinizzato da sua madre parla Ovidio. Metam. 14.

Contigit os, fecitque Deum, quem turba Quirini
Nuncupat indigetem……

Nell’ ultima classe finalmente erano annoverate tutte le divinizzate virtù, Cic. lib. 2 de Nat. Deor. che formate avevano i grandi Eroi, come la Prudenza ecc. come ancora le stesse passioni dell’uomo deificate, come la Invidia ecc. Questa era la più generale divisione delle gentili Divinità, e questa seguirono la maggior parte de’Mitografi ; ma perchè il nostro scopo, come nella prefazione sta espresso, altro non è, che parlar soltanto {p. 12}degli Dei di I classe degni più degli altri inferiori di maggior considerazione, non che delle astratte divinità, dalle quali oltre le istruzioni dell’intelletto anche il cuore ne ricava i suoi morali vantaggi, perciò bipartita sarà la nostra operetta in rapporto a questa scienza. Nella prima parte parleremo de’venti Dei maggiori, e nella seconda delle principali astratte divinità : sacrificando la terza parte alla poesia toscana, cui quasi per appendice seguirà la quarta alle latine muse unicamente sagrata. Facciamoci pertanto dalla I ed incominciamo propriamente da Giove padre degli Dei, e degli uomini presente per tutto, e provvido governator delle cose : Virg. Egl. 3. Ab Jove. principium Musae, Jovis omnia plena. Virg,

{p. 13} {p. 14}

Parte prima

Degli dei maggiori §

Cap. I.

Giove §

Sonetto §

Opi, e Saturno dier la vita a Giove
Primo de’suoi german cresciuto in Creta,
Toccò nascente de’desir la meta,
E diè di suo poter tremende prove.
Il regno al Padre tolse in foggie nuove,
Mostrò nell’ Etra alma possente, e lieta,
Tien l’impero nel Ciel, tutto decreta,
E solo il Fato al suo piacer lo. muove.
Regge il folgor funesto apportatore
Di perigli, di affanni, e tristo fio,
Egli è Duce, egli è Nume, egli è Signore.
Rare volte mostrossi amico, e pio,
Incusse ne’mortali alto terrore :
Questo fù de’ Gentili il primo Dio.
{p. 15}

Dichirazione, e sviluppo §

Moltissimi Dei invero, anzi fin al numero di trecento, al testificar di Varrone, riconosciuti vennero dagli antichi sotto questo speciosissimo nome ; Chi fù Giove poichè però al solo figlio di Saturno, ed Opi, ossia Rea, fù attribuito quanto degl’ altri scrissero favolosamente i poeti, perciò ei solo (qual cosa farassi similmente degl’ altri) come fù del ritratto, così dello sviluppo ancora sarà unicamente l’obbietto.

Nacque egli in Creta grazioso di volto, e maestoso d’aspetto. Quivi, e propriamente nell’ antro del Monte Argeo procurò sua madre di farlo allevare dalle Ninfe, e da Cureti sacerdoti di Cibele mercè il latte della capra Amaltea, ed il mele delle Api quivi graziosamente adunate, Come Campato da Marte, e fatto Re acciò con tal ritrovato âvesse potuto sfuggire il nato infante il furore di Saturno suo padre, il quale memore delle promesse fatte al fratello Titano di non allevar mai maschi, e molto più ricordevole delle parole di suo padre, dover cioè venire un giorno, in cui da uno degli stessi suoi figli era spogliato temerariamente del Regno, con inudita crudeltà divorava tutti i maschi figli, che gli partoriva Opi sua moglie, come divorato avrebbe similmente quest’altro, se la scaltrezza della madre per tai inumani fatti accigliata non l’ avesse in questo parto ingannato, dandogli ad inghiottire una pietra, detta poi Abder, in luogo dell’amato suo Giove. Quivi egli cresciuto, e consapevole de’passati crudeli tratti di Saturno suo padre, nonche della congiura, che contro di se novellamente machinava, con arte affatto nuova, e con forza del tutto inudita lo cacciò superbamente dal regno, quale co’suoi due fratelli, salvati collo stesso tranello, si divise, assegnando il mare a {p. 16}Nettuno, l’Inferno a Plutone, e per se riserbando l’Empireo ; dando altresi al primo un tridente, al secondo un elmo, ritenendo per sua condecorazione, ed insegna il fulmine tre mendo, tutti istrumenti, e fatture degli orribili Ciclopi.

Non godè egli però dopo tal divisione una lunga tranquillità nel suo Regno, perche più guerre a lui mosse lo tennero disturbato non poco, ed afflitto. Qui però parlerò soldi due le più principali, e del pari le più adatte a far conoscere chi propriamente il terribile Giove si fosse.

Sue battaglie La prima dunque di queste battaglie fù al riferir di Esiodo quella, che ei sostenne contro i Titani, i quali in forte lega congiurati con sfrontata ribellione, e licenzioso coraggio si diedero a combatterlo per vendicar quei dritti di preferenza, e di dominio, che ad essi erano stati usurpati (stante che il regno di Titano ceduto a Saturno à figli di costui trasmetter non si dovea) ma Giove con invitto potere, e col favor di altri Dei combattendo li vinse, li conquise, e nel Tartaro in pena dell or superbo attentato li confinò, e rinchiuse. L’altra battaglia della prima ancor più terribile, e fiera, cui dovè far fronte Giove fu contro i Giganti. Questi colligati con Tifeo spaventevole mostro nato dalla terra congionta col Tartaro si accinsero ad attaccarlo fin dentro la istessa sua Reggia. Il mostruoso Tifeo intanto presentossi il primo all’ attacco. Al solo vedere le cento sue teste, al solo udire gl’ orribili suoi fischi, al sol mirare il sulfureo suo fuoco impauriti gli Dei sotto figura di diversi animali fuggirono in Egitto per fissar quivi il soggiorno. Il solo Giove però coraggioso per la prima vittoria contro i Titani, severo nel ciglio, intrepido nel cuore, forte nel braccio impugnando i vulcanei suoi fulmini gravemente il percosse, e ligato il profondò negli abissi, oppure sotto l’Etna, come piace al poeta dell’ amore, e proseguendo quindi collo stesso coraggio a pugnare col resto degli altri giganti, che si affaticavano a soprapporre monti a monti con forza stupenda, vide con suo piacere tra un nembo di fulmini cadere il’ forte Briareo, il vigoroso Encelado, e con essi tutto il folle stuolo de’ suoi {p. 17}potentinemici, e così vinto, e domato il loro orgoglio si assicurò del suo regno, e riacquistò la perduta sua pace(1).

Sue azioni. Quantunque però per queste superbe vittorie gloriosa sempre più sfavillasse la maestà del gran Giove ; pur essa oscurata venne non poco da quelle infami azioni, alle quali con ardita licenza sfacciatamente si diede. Imperochè quantunque egli assicuratosi di già del sortito suo regno impalmato avesse per mogli e Meti dea del Consiglio, e Temi {p. 18}dea della Giustizia, e Cerere dea de’ Campi, e Muemosina dea della Memoria, e Latona, e qualche altra Dea ; pur nientemeno di esse non contento in diversì modi cambiandosi, e diverse forme prendendo, come di Cuculo per ingannare la sua stessa sorella Giunone, di Cigno per violar Leda meglie di Tintaro, di Satiro per abusar di Antiope figlia di Nitteo ec. cereò con diversi mezzi soddisfare le illecite sue brame. Queste strane metamorfisi però perche menano a corrompere la fantasia piuttosto, che ad illustrare l’ intelletto in necessarie cose, perciò trattovi sopra un pudico velo sotto silenzio religioso le passo(1).

Suoi nomi. Venne Giove qualificato con diversi nomi a lui dati o da luoghi, ove venne egli con special culto adorato, o da qualche sua azione, che fra le altre più singolarmente brillava. Io però penso riferire i più rimarchevoli. Dagli Assirii, e da Babilonosi chiamato venne Belo, col nome appunto di quel Belo, che, come dissimo, il primo fù ad introdurre l’idolatrico culto per onorar i defonti. Da Greci, e da Libii fù detto Ammone per aver sotto sembianza d’ un montone prestato soccorso a Bacco sitibondo fra deserti della Libia. Da Cretesi fù nominato Diespiter, ed anche assolutamente Dies, come {p. 19}riferisce Macrobio. Da Romani venne detto Capitolinus del monte, ove da Tarquinio Superbo fù perfezionato un sontuoso tempio in suo onore, da Tarquinio Priseo molto pria di già designato. Venne altresi detto Feretrius da ferre opem ; Fulminator dallo scroscio del fulmine : Stator per aver fermato i Romani fuggendo da Sabini, e finalmente Quirinus, , , , , , , Optimus. Nomi, che spesso leggonsi nei Poeti, e negli Storici(1).

Suo ritratto. Effigiavasi Giove in aria di terribile Maestà tutt’accigliato, con fronte covert da nubi, co’ fulmini alla mano, coll’uccello suo ministro a piedi, da lui stesso trasmutato per gelosia d’ onore da Regnator d’ Atene detto Perifa in alato messaggier celeste detto l’aquila di Giove.

Suo culto. Molte erano le feste, co’quali veniva onorato un tal Nume ; le principali però erano i celebri giuochi Olimpici da celebrarsi verso il solistizio d’ogni està per cinque giorni continui a cagion del quinario esercizio, cioè della pugna, della lotta, del disco, del salto, e della corsa, quali cose tutte comprendevansi in tai celebratissimi giuochi da sollennizzarsi da nudi Atleti, e perciò vietati all’intervento delle donne sotto pena della stessa loro vita.

Gl’ albori a questo Dio dedicati erano il faggio, e la quercia, e tanto era il rispetto per questi, che si giunse pure a credere aver essi la facoltà di rendere oracoli, perche amati focosamente da Giove. Gl’ animali poi da svenarsi in suo onore erano bianchi bovi, da’ quali credevasi esser egli {p. 20}unicamente rapito. Circa le morali significazioni poi della favola di Giove, come delle favole degli altri Dei stimo tempo perduto, e fatica inutile investigarle ; mentre avendo molti immaginati più cose, sempre però dubbiose per ragion di folte tenebre attraversanti, è buon partito senza fissar cosa alcuna sù di ciò lasciar unicamente al lettore la libertà di seguire quelle opinioni, che maggiormente gli aggradono.

{p. 21} {p. 22}

Cap. II.

Nettuno §

Sonetto §

In mezzo all’onde gode il vasto Regno
Il Dio Nettuno, che dà legge al mare,
Porta il tridente per mostrar lo sdegno,
E ogni mostro marino al piè gli appare.
Il diadema rëal gli forma il segno
Del vasto impero, e fra conchigliè rare
Erge il suo trono, e insiem possente, e degno
Per tutto il guardo suo terribil pare.
Due Tritoni la guardia hanno del soglio,
E se s’irrita il mar turba, e confonde,
Ogni fiume il rispetta, ed ogni scoglio.
Sorge talor da viscere profonde
Quando brama mostrare il vasto orgoglio :
Eccovi il Dio regolator dell’ onde.
{p. 23}

Dichirazione, e sviluppo §

Quantunque pel primo Dio del mare fù dagl’ antichi riconosciuto il Ponto prodigioso germoglio della terra ; ed almo padre di Nereo, da cui, come pretendesi, venne il famoso stuolo delle Ninfe dette Driadi, Amadriadi, Naiadi, Oreadi, e Nereidi, secondo che presedevano a boschi, prati, fonti, monti, e mare ; pur tuttavolta perche da più recenti poeti venne egli riconosciuto pel mare, e non pel Dio di esso ; percio con questi riconosco anch’io Chi fù Nettuno Nettuno figlio di Saturno, e di Rea pel vero, ed assoluto Dio del mare, regno a lui sortito nella general divisione per sua parte, ed eredità, sul quale qual’assoluto padrone esercitar poteva ogni impero commovendolo, e sedandelo a sua volontà, come cel descrive nelle sue Eneidi Virgilio

… Tumida aequora placat.
Collectasque fugat nubes, solomque redueit(1).

{p. 24}Sue nozze Un tal Nume impertanto sentendo nel seno la forza delle suscitate passioni, nè valendo colla sua virtù a rintuzzarne gl’assalti, pensò ben presto di sbrigarsene col menar moglie. A tal’ effetto rivolse egli lo sguardo sulla vaga figlia di Doride chiamata Anfitride, e per ottenerla non lasciò mezzo alcuno intentato ; ma quella per custodir illibato il suo vergineo candore con magnanimo rifiuto constantemente il respinse. Un fortunato Delfino però conscio delle pretenzioni del suo gran Nume avendo ritrovato un giorno la bramata Anfitride presso le falti del monte Atlante, a tutto potere si diè a persuaderla, e seco menandola per incognite vie la condusse finalmente dal suo Re, e così divenne essa sua sposa {p. 25}onorata per altro da popoli collo stesso culto divino qual degna moglie del gran Dio Nettuno(1)

Non fù egli però contento degli innocenti piaceri di questo matrimonio, come neppure di due altre mogli, che successivamente si prese dette Venelia, e Salacia, credute un dì da Romani Dee destinate a menare, e respingere i flutti dal lido ; onde a somiglianza del suo fratelle Giove variamente cambiandosi a sfogar si diede i suoi affetti. Rapì quindi ed Ifimedia figlia di Triope, e la Ninfa Bisalti, e la moglie di Creteo detta Tiro, e Teosa figlia di Forco, e Beribea figlia di Eurimedonte, ed altre ancora non curandosi di avvilir la sua maestà si con tante indegne azioni, come col trasformarsi in diversi animali per giungervi. Queste strane metamorfisi però meritano di essere sotto silenzio trascorse.

Sua contesa cou Minerva. Ebbe questo dio una gran contesa colla dea della Sapienza Minerva per ragion del nome da darsi alla novella Cittä di Cecopre, pretendendo ognuna delle due parti essere ciò di suo dritto esclusivo. Gli Dei chiamati a dirimere tal controversia decretarono, che quella parte, che per propria virtù prodotto avesse la cosa più vantaggiosa goderebbe della pretesa facoltà. Accettatasi da ambe le parti tal sovrana decisione Nettuno il primo si diede a far pruova di suo potere. Percosse egli col suo divino tridente la terra, come attesta Virgilio nelle sue Georgiche : Percussa magno tellure tridente, e la terra ubbidiente all’alto suo cenno si apri, e cacciò dal suo seno, quasi divenuta ad un tratto feconda un legiadretto ben effformato cavallo2. Per tal produzione non perd utasi di coraggio {p. 26}Minerva alzò l’ammirabil suà asta, e forte battè anche essa la terra attendendone anziosa l’ effetto. Scossa similmente la terra a tal seconda, ma diversa percossa mandò fuori quasi da feconda radice un prodigioso Olivo. Tai produzioni discusse dagli Dei vuotanti fù per essi deciso, che Nettuno ceder dovea in tal causa a Minerva, qual madre feconda d’un parto di maggior rilievo, e vantaggio ; onde questa fatta paga de’ suoi voti diede il proprio nome alla nuova Città chiamandola Atene.

Suo ritratto Pingevasi questo Dio coverto da ricco manto azzurro con occhi, e chiome çerulee, con barba folta, col tridente in mano assiso dentro maestoso cocchio creduto d’avorio con ruote di oro tirato da due, o quattro CavaHi alati, nella parte inferiore simili a pesci, scorrendo con tanta velocità, che pareva volare sulla superficie delle onde, come l’attesta Virgillo nelle sue Eneid : Atque rotis summas levibus perlabitur undus ; accompagnato da tutte le divinità marine, e preceduto da Tritoni,(1) che animavano le loro trombe con eco sonoro delle conche marine, innanzi a’ quali per rispetto del gran Nettuno si appianavano pacificamente le onde ; e poiche d’un tal cocchio Nettuno istesso pregiavasi essere il regolatore colla virtù del suo grave tridente, come cel descrive {p. 27}Stazio… Triplici telo iubet ire iugales, ne avvenne, che egli fù creduto ancora il Dio governatore de’ navilii, cui solo perciò ricorrere dovea ogni pilota semprechè nel funesto pericolo scorgevasi di divenire degli incalzanti venti, e delle agitate onde miserabil trastullo.

Sue feste. Molti hanno confuso questo Dio con Conso Dio del Consiglio ; ma stimo meglio con altri distinguerlo, stantecche in Roma altre dicevansi le feste sacrate al Dio Conso da farsi in luoghi privati, ed oscuri nel mese di Agosto, come si pretende, ed altre quelle, che facevansi in onor di Nettuno con sacrificii di tori, verri, ed arieti nel mese di Luglio, essendo in quel giorno in onor di Nettuno liberi ancora i cavalli dal faticare, anzi perche il mese di Febraio era addetto alle purificazioni da farsi mercè il ministero delle acque, questo mese ancora era a lui consacrato, come general presidente alle acque ; ed universalmente poi da Libici, da Greci, da Romani, dagl’ Itali, e particolarmente da popoli abitanti alle marine spiagge venne Nettuno riguardato per una gran Deità, cui di tratto in tratto innalzarono famosi tempii, istituirono feste indipendentemente dalle indicate.

{p. 28}

Cap. III.

Vulcano §

Sonetto §

Vecchio, zoppo, deforme, abbietto, e brutto,
Ridicolo, bavoso, e sciagurato,
Dal Ciel con sdegno spinto appena nato,
Fatto per dare all’uom spavento, e lutto.
A far säette crudelmente istrutto
Par che dal suo destin fù dichiarato ;
Giove per esso vien sovente armato,
Perchè il mondo talor venghi distrutto.
È questi quell Vulcan Nume abborrito,
Che ebbe nel cor troppo impudenti voglie,
E ad onta di ciascun si fe’ marito.
Venere lo tradi nelle sue soglie,
E allor si fù del rìo voler punito.
Guai a chi è brutto, vecchio, e prende moglie.
{p. 29}

Dichirazione, e sviluppo §

Mirabili veramente furono le avventure di questo Dio, mentre pare, che le stesse disgrazie, alle quali fù soggetto fin dai primi albori dell’ esser suo, gli siano servito di appoggio, e sgabello alle sue fortune. Chi fù Vulcano. Nacque egli da Giove, e da Giunone, o da questa sola, come pur pretende la favola, pria di giungere l’ordinario prescritto della natura, ed un tal acceleramento forse fù la ragione, per cui mal formato, e deforme comparve fin dal primo punto alla vita. Quindi avvenne, che tanta bruttezza tollerar non potendo di buon genio gli stessi suoi genitori, e soprattutto Giove geloso mai sempre del suo decoro proveniente dal contegno di sua maestà, subentrar facendo agl’ effetti paterni un odio crudele, crucciato gli tirò fiero calcio, e dal cielo per più non mirarlo barbaramente lo spinse. Precipitoso dopo mille giravolti a terra appressavasi il Nume bambino per esalar quivi giunto l’ultimo suo affannoso respiro ; ma al ravvïsar gli abitanti di Lenno l’infausto fato, cui cadendo andava egli soggetto, richiamando nel lor cuore quei sensi d’umanità, de’ quali spogliato si era il gran padre istesso, con braccia distese in gentil gara concorsero, e s’impegnarono opporsi alle sue imminenti ruine ; ma sebbene con mille usate diligenze valsero a sottrarlo dalla barbara morte, non poterono però camparlo dalla sventura di una mal concia sua gamba.

Suo impiego. Memore pertanto egli di questa, e di altre molte buone accoglienze successivamente prestategli da que’isolani durante la puerile sua età, volle egli a motivo di grata riconoscenza presso di essi fissare il soggiorno, e sollecito insegnarli i moltiplici usi del ferro, e del fuoco, a quali cose era egli {p. 30}naturalmente inclinato ; onde somministrare a quei buoni amici più valevoli mezzi a procacciarsi il necessario ad una più comoda vita. Fissò quivi a tal uopo ampia fucina, (come in Lipari, e nell’Etna pur fece, chiamate perciò officine Vulcanie) ed in sua compagnia associando il mostruoso stuolo dei Ciclopi(1) uscir fece dalla sua Caverna pezzi di opera si ragguardevoli, che riscossero del pari la maraviglia degli Dei, e degl’ uomini, e resero al mondo celebre il suo nome non senza gloria degli stessi suoi collaboratori. Invenzioni del suo ingegno, e fatture delle sue mani al certo dicesi essere il palazzo del Sole, la corona di Arianna, la collana di Ermione, lo scettro di Agamennone, l’armadura di Achille, lo scudo di Ettore, le armi di Enea, e mille altri capi d’opera, che per soddisfare a diverse richieste ei si compiacque costruire.

{p. 31}Ingrato però dimostrar non si volle il buon Nume verso quel padre, che un dì troppo barbaro dimostrato si era con lui ; laonde benchè distratto da mille occupazioni nel favorire e Dei, ed uomini di buon genio ; pronto sempre però si tenne nell’ eseguire ogni sua richiesta. Egli tutto sollecito gli fabbricava quei fulmini tremendi, de’ quali armato il gran Giove rendevasi il terror di chiunque osava far resistenza a suoi cenni. E chi in vero gli prestò braccio forte nelle sue antiche battaglie coi giganti ? Non furono i suoi fulmini, che atterrarono quei mostri infelloniti ? Che meraviglia fia dunque, che tanta grazia perciò presso di quello acquistossi, che niente sgomentato di sua natìa bruttezza ardi domandargli la saggia Minerva per sposa ? Vero è, che vane riuscirono le sue pretenzioni ; non però ciò avvenne per parte di Giove renitente, ma per cagion della pretesa Dea, che gelosa della sua amata castità sdegnosetta rifiutò le sue avvanzate dimande ; Sue nozze benchè in sua vece ebbe però il piacere d’impalmare Venere fra le Dee la più bella, la quale per altro niente rapita di suo marito, non senza suo disonore, e discredito divise con altri i suoi affetti, sebbene poi la sottil rete distesa dal suo astuto consorte, dove ella con Marte improvisamente fû colta per oscitanza di Elettrione posto per guardia, fece delle reità sue la più aspra vendetta, qual perpetuo monumento delle sue infedeltà. Quali, e quanti figliuoli poi ebbe questo Dio, fra mitologisti non si acconviene, ad eccezione del solo Erittonio, che comunemente gli viene attribuito. Del resto la favola hà sempre riguardati per suoi figli tutti coloro, che celebri si resero nell’artc di lavorare ferri, rame, oro, argento, e tutte in somma le materie capaci di fondersi, e lalorarsi a fuoco(1).

{p. 32}Sua qualità. Acquistatosi pertanto Vulcano mercè del suo ministerio la grazia del suo padre Giove, non isdegnò questi di ammetterlo al cielo in qualità di coppiere degli Dei ; le sue maniere però poco avvenenti disgustando gli Dei nella circostanza appunto più bella di pascersi dell’immortale lor Nettare, la cagione furono, per cui la bella Ebe il piacere incontrò di subentrare al suo invidiabile impiego.

Suoi nomi. Questo Dio oltre il suo nome, che abbastanza il distingueva, stant ecchè al dir di Varrone : Vulcanus est quasi volitans, quod ignis per aerem volitat ; vel a vi, ac violentia ignis ; fù ancor contrasegnato con altri molti, e diversi nomi, de’ quali in corti termini accennerò i principali. Detto venne Lennins dall’Isola di Lenno, Mulciber dall’ ammollire i ferri, Tardipes, perchè zoppo di piedi, Hephaestos dal bruciare, , , Chrysor ec.

Suo ritratto. Gl’ antichi scultori dell’effigie di questo Nume sebbene abbiano espressi in un modo poco sensibile i suoi fisici difetti ; la favola non però amante sempre delle sue rappresentanze più vive tutto al naturale ne ha espressato il ritratto. Mirasi perciò dipinto in sembianza di fabro vecchio, ed annerito, benchè in alcune medaglie si scorge giovine sbarbato, con testa coverta da piccolo cappello, col martello alla dritta sua mano, colla tenaglia nella sinistra, e quel, che è più bello, svisato, e storpio ad ampi i suoi fianchi, sicche ben disse chi disse, che la sua figura derogava non poco alla sua maestà.

Suoi tempii, e feste. Più tempii in suo onore godevasi Vulcano. Due però furono in Roma i più rinomati, il primo viene ascritto a Romolo fatto da lui edificare al parer degl’ auguri fuori le {p. 33}mura, convenevole sembrando, che in mezzo all’abitato star non dovesse il tempio dedicato al gran Dio del fuoco. L’altro, che credesi edificato da Tazio, stava dentro i recinti della Città, ove tenevansi sovente le assemblee del popolo per importantissimi affari. Molte similmente furono le feste istituite in suo onore, le più considerabili però furono le cosi dette Lampadophores per le fiaccole, che si portavano da campioni accorsi a celebrar tali feste, con legge, che colui, cui correndo smorzavasi la fiaccola, dritto più non avea alla corsa, e colui, che ceduto aveva altrui nel corso, in segno della perdita fatta ceder dovea al vincitore la lampada,

{p. 34}

Cap. IV.

Marte. §

Sonetto §

Terribil Dio alla pietà crudele,
Nemico de’ mortali ogni momento,
Che tien seguaci suoi ira, e spavento,
Che si pasce di sangue, e di querele.
Che attosca l’alma con continuo fiele,
Avido sol di risse, e di cimento,
Infausto a’ Regi, a’regni ognor tormento,
Che corre il mar di sangue a piene vele.
Fonte, e cagion di stragge, e di ruina,
Autor di pianto per qualunque stato,
Che l’uom più fiero a piedi suoi s’inchina.
Dal mondo sol per lui fù il ben scacciato,
E mentre a danni crudelmente inclina
Il flagello di Dio Marte è chiamato.
{p. 35}

Dichirazione, e sviluppo §

Chi fù Marte. Avvegnachè figlio del troppo augusto matrimonio di Giove, e di Giunone quasi da Greci tutti questo Dio si dica ; tuttavolta misteriosa pur troppo pretendono i latini scrittori essere stata la sua nascita. Piccatasi fortemente del suo marito l’orgogliosa Giunone per aver egli da se solo senza vantarvi ella parte data alla luce Minerva qual dimostranza del suo invitto potere, pensò di operare anche essa un consimile sovraumano portento, un Dio producendo senz’alcun’opra del suo rivale marito. Anziosa quindi di veder paghe le sue brame partissi per consultar l’oceano pronta ad eseguire quanto quello l’era per svelare ; ma per buona sua sorte stanca fermandosi presso la Dea Flora, questa all’udire il disegno del suo cammino con dolce sorriso un fiore additolle, di cui il solo tocco, ed odore valevole era all’impresa. Impaziente allora con piè veloce al designato fiore ne corse la Dea, ed immantinenti n’ ebbe a sperimentare con sommo suo piacere l’effetto. Diede quindi a suo tempo alla luce un bambino, che sebbene d’un origine si gentile fosse parto ; pur tanto terribile, e fiero addivenne, che il solo suo nome riempiva di spavento ogni cuore, e perciò pel Dio delle guerre venne comunemente tenuto.

Sua contesa con Nettuno. Celebre fù la quistione, e la lite, che ebbe questo Dio col suo zio Nettuno. Egli per vindicare la violenza usata da Allirozio figliuol di Nettuno alla cara sua figlia Alcippe, avuto quello nelle mani spinto dal furore della concepita sua collera gli diè fieramente la morte. Commosso per tal barbaro fatto il padre di quello Nettuno citò l’uccisore al gran consiglio degli Dei sull’ Areopago, domandando a gran clamore {p. 36}giustizia, e pena ; presso di quelli però cosi bene espose Marte le sue ragioni, cosi attempatamente giustificò la sua causa, che per giudizio della più sana parte di quei giudici ne venne onorevolmente assoluto. Da un tal successo ne venne, che quel luogo d’indi in poi fù chiamato la collina di Marte, dove trattar si solevano le cause puramente criminali alla presenza di tanti giudici, quanti appunto furono nella causa di Marte gli Dei(1).

Sue nozze. Questo Dio perchè di sua fierezza era costantemente rapito, perder non volle il suo carattere anche quando passò alla morbidezza delle nozze, e perciò nessun’altra si elesse per sposa, fuorchè Nerione, che nel Sabino linguaggio significa forza, benchè per altro la favola in lui ancor riconosce le sue, per aver divisi i suoi affetti e con Venere, da cui ebbe Ermione, e con Bistonide, da cui ebbe Tereo, e con Ilia, da cui ebbe i celebri gemelli Romolo, e Remo.

Suoi nomi. Sotto diversi nomi, e forse tutti relativi alle armi, alle quali presedeva riconosciuto fù questo Nume. Ei chiamavasi Mavors nome, che secondo Varrone indica magnificenza d’imprese, quod magna vertat. Dicevasi Gradivus dalla vigorìa nel brander la sua asta : Ab hastae vibratione. Nominavasi finalmente Quirinus da quiris, che significa lancia, per cui i Romani si dissero Quirites dal lor fondatore Romolo creduto, come si è detto, figlio di Marte.

Suo ritratte. In atteggiamento assai terribile convenevole però al fiero suo genio fù effigiato questo Nume. Pingevasi egli da capo a {p. 37}piè ricoverto di armi sedente su d’un carro d’acciaio guidato da Bellona terribil Dea anche essa delle battaglie, tirato da cavalli nati da Borea, e da Erinni, detti il Terrore, e lo Spavento, da più mostri cinto per corteggio, con furie svolazzanti intorno al suo elmo per orrore, con gallo qual simbolo di vigilanza al suo fianco, preceduto dalla fama, che con spaventevole mormorìo ne annnnziava da per tutto la formidanda venuta.

Suo culto. Questo Nume perchè creduto Dio delle guerre fù da popoli anche barbari in somma stima tenuto, sicche presso di essi invalse il costume di non rivolger mai l’animo alle battaglie, se pria rivolto non si fosse il pensiere ai dovuti omaggi a questo gran Nume. La Tracia però, o perchè gloriosa della fortuna di riconoscere il suo nome da Trace figliuol di Marte, o perchè nazione fiera, e naturalmente portata a guerreggiare, ebbe per questo Dio speciale culto, ed affetto, istituendo in varii modi, e diversi tempi altari, sagrificii e, feste in suo onore, e culto ; benchè forse non minore era il culto, che da’ Romani a lui si prestava, si per amore del lor fondatore, che per timore delle loro battaglie. In suo onore invero aveano essi costruiti due tempii, uno dentro le mura acciò degnato egli si fosse di conservar sempre florida fra cittadini la pace, l’altro fuori, acciò disdegnato non avesse d’esser di quella Città il difensore contro gl’insulti d’ogni esterno nemico. In suo ossequio similmente leggiamo e le feste istituite da Romolo dette Esquirie da celebrarsi pria delle calende di Marzo colla corsa de’ cavalli nel Campo Marzio, e quelle fissate da Numa(1) chiamate Saliari da {p. 38}celebrarsi alle calende di Marzo da Sacerdoti Salii, e quelle finalmente chiamate Marziali solite a celebrarsi nel Circo in Maggio, ed Agosto.

Sue vittime Ogni qualvolta pertanto consùmar si doveano sacrificii a questò Nume, non altra vittima svenar si dovea in suo onore, che sol quella, di cui prendevasi piacere ; quindi il toro, il verre, l’ariete, il cavallo quelli appunto si erano, che da religiosa destra si apprestavano a suoi altari. Perchè poi questi animali fossero stati a Marte graditi, può congetturarsi dalla generale ragione, che assegna Latt. lib. I de Fals. Rel. Cioè, che ad ogni Dio per quanto era possibile deputavasi una congrua vittima : quindi questi animali quali simboli di ferocia, e velocità ben s’acconvenivano ad un Dio di terrore, e destrezza, qual Marte appunto si era, potendosi applicare a tal proposito quella ragione, che porta Ovidio nell’ enarrar la causa, per cui il sole godesse d’un cavallo per vittima. Ne detur celeri victima tarda Deo lib. 1. Fast.

{p. 39} {p. 40}

Cap. V.

Mercurio §

Sonetto §

Aligero, eloquente, furbo, e astuto
Col caduceo in man, col piè veloce,
Che vola allor che passa, e resta muto
Qualunque nel parlar abbia pìù voce.
Egli porta i precetti a Giove, e a Pluto,
Turba colle sue frodi, e a lutti nuoce,
L’alme a Caronte guida, e porge aiuto,
Cerbero fa tacer benchè feroce.
Speme a raggiratori, ed a mercanti,
Desta, ed ammorza al cor ogni desio,
Spesso s’usurpa ancor non propri i vanti.
Scorre il cielo, e ne’ regni dell’obblio
Il riso spesso fa mutare in pianti :
Questo è Mercurio delle frodi il Dio.
{p. 41}

Dichirazione, e sviluppo §

Curiose pur troppo sono le storiette di questo Dio per qua lunque verso considerarlo ci aggrada. Chi fù Mercurio. Nato appena da Maia primogenita di Atlante consociata con Giove, si grazioso comparve nelle sue sembianze, che Giunone tuttochè dignitosa rapita dalla sua rara beltà corse ad abbracciarlo, e si degnò di somministrargli il suo latte(1) dal che forse ne avvenne, che egli intempestivamente acquistò tal’ ammirabil vigorìa di spirito, e di corpo, che di poche ore appena nato d’una morta testuggine trovata sul Nilo valse ad efformar una lira non mai più per l’addietro veduta, detta perciò da latini Testudo, ed un giorno ancor non compiuto di sua vita mortale giunse a rubare lo scettro a Giove, il martello a Vulcano, il tridente a Nettuno, i dardi ad Apollo, ed a Venere il cinto. Fatto poi più grande invece di abborrire le sue infantili leggierezze vieppiù si diede a confirmarle, commettendo un furto, in cui più rilusse l’astuzia.

Sue prodezze. Mentre Apollo guardava lungo il fiume Anfrigio gli armenti del re Admeto da lui teneramente amato, questo Dio di soppiatto a quella greggia appressandosi seco si trasse alcuni bovi, e fra le fronzure d’un bosco cautamente appiattolli. Non ebbe però la fortuna di sottrarsi del tutto all’ altrui vigilanza, {p. 42}mentre nel meglio del suo nero attentato fù veduto dal vigilante Batto. Temendo pertanto d’essere scoverto trattosi a lui innanzi gli esibì la più bella vacca per ottenerne il secreto, nè di ciò contento per isperimentar col fatto la fedeltà del pastore cambiando portamento, e sembianza sconosciuto gli si fè d’innanzi promettendogli una più ampia mercede, se svelato gli avesse il temerario ladro. Ingannato allora il meschino dal valor dell’ offerta il tutto sinceramente svelogli. Allora riprendendo il Nume l’antico sembiante con virtù a se tutta propria lo trasformò in pietra (detta poi pietra di paragone) acciò cosi egli restasse al coverto del furto, e quegli nel tempo stesso il fio pagasse di sua infedeltà, rampognandolo cosi secondo Òvid.

….. Me mihi perfide prodis ?
Me mihi prodis ait ? Periuraque pectora vertit
In duram silicem, qui nunc quoque dicitur index :

Suo ritratto. La efficie di questo Dio è tutta adattata a simboleggiare, ed esprimere i diversi moltiplici suoi impieghi. Pingevasi egli colle ali alla testa, ed a’piedi, mentre essendo suo ufficio portare i comandi di Giove, servire agli Dei nelle loro ordinanze, ed il presidente altresì essendo alla negoziatura, al governo della guerra, e della pace, a giuochi, alle adunanze, alle pubbliche arringhe, come possibil era potersi spedire di tante faccende, se il vantaggio non avea de suoi celeri vanni ? Presenta altresi nelle mani un caduceo ornato da due attorcigliati serpenti, per dinotare, che siccome al tocco di sua verga i due colubri duellanti deposero ad un tratto lo sdegno, ed in segno di pace amorosamente si strinsero, cosi, e molto più vale a risvegliare con quel suo caduceo nel cuor de’ mortali gl’ abbandonati sensi di fraterno amore, e conchiudere quindi fra essi i più ammirabili trattati di amorevolezza, di concordia, e di pace. Si veggono pendere da suoi labbri alcune ben formate catene di oro per significarci la sua {p. 43}aurea eloquenza, e l’ammirabil energia nel commuovere gli ascoltatori, ed attirare a se i loro animi, quasi attratti da dolci ben forti ligami. Scorgesi finalmente in molti suoi ritratti una verga, onde divisar il suo impiego di sciogliere da ligami degl’egri corpi le anime, guidarle all’ inferno, e di riporre in nuovi corpi, giusta la dottrina della Metempsicosi, le anime, che compiute avevano negl’Elisii campi il prefisso lor tempo, come cel descrive Virgilio :

Tunc virgam capit hac animas ille evocat Orco :
Pallentes alias sub tristia tartara mittit,
Dat somnos, adimitque, et lumina morte resignat(1).

Suoi nomi. Da questi moltiplici diversi impieghi impertanto facil {p. 44}cosa è rilevare la diversità de’ suoi nomi. Egli per cagion dell’uffizio di servire agli Dei vien detto messaggiero degli Dei, e con altro nome Camillo, cioè Servo : perche inventore de’ contratti, e maestro de’ negozianti vien chiamato Dio de’ mercanti, e del guadagno : come padre delle destrezze, e delle frodi è nominato Dio de’ ladri : perchè abile a conciliare si gli Dei, che gl’ uomini fra loro, ambasciator di pace s’appella : come padre delle lettere, e del ben dire vien detto Ermete ossia interpetre, e Dio dell’ eloquenza : perchè presidente alle persone noribonde vien chiamato conduttiere delle anime, finalmente come ispettore delle strade, nelle quali collocavansi le sue statue, prive però di mani, e di piedi fù detto da latini Vialis, e da Greci Cyllenius : il titolo poi di Argicida, con cui sovente vien salutato dagli scrittori delle favole a lui fù dato per aver addormentato, e quindi ucciso per espresso volere del padre degli Dei il pastore Argo dotato di cento occhi, alla cui vigilanza per cagion di gelosia era stata affidata da Giunone la Principessa Io cambiata in vacca da Giove

Suoi figli. Quali siano stati i figli di questo Dio, con parsimonia par che ne scrisse la Mitologica penna. Tolto Ermafrodite, che ebbe da Venere, come dimostrano le stesse parole Hermes, ed Aphrodite, di cui costa tal nome, e tolto ancora, secondo alcuni, Cupidine natogli dalla stessa, altro d’egual plausibilità non si scorge. Poco verisimile per altro sembra, come questo Dio, che per ragione delle sue occupazioni sempre aggiravasi negli affari, ed intrighi, e perciò in mezzo alle occasioni più belle, non abbia ancor commesse le sue galanterie. Sia però che le stesse facende col sottrargli il tempo, avessero del pari distolti da queste cose i suoi pensieri, oppur sia, che come invaghito de’ furti di robe, brigato non siasi de’ furti di onore, io non oso, ne posso di esso affirmare quello, che la favola istessa di lui non disse.

Suo culto. Riceveva questo Dio al pari degli altri i suoi sacrificii. Su suoi altari(1) ove per altro sovente si trovava unito con {p. 45}Minerva, dette perciò le loro statue Hermathenae, sacrificar si doveva in segno di culto una vitella, e con gran cerimonia ancora bruciar si dovevano le lingue delle vittime in onor di sua eloquenza, giusta l’antico costume de’ Megaresi. Famiglia inoltre in Roma non v’era, che privatamente ancor non l’onorasse, mentre avendo quella gente il costume di pingerlo alle porte di loro case, acciò quindi respinto avesse i ladri, di cui egli era Dio, quantunque volte avveniva passar per quelle, non potevano essi far ammeno di prestargli qualche ossequio in suo omaggio.

{p. 46}

Cap. VI.

Apollo §

Sonetto §

Con bionda chioma, e con aurata lira,
Con fiamma in petto, e con bel lauro al crine,
Dovunque il guardo dignitoso Ei gira
Per tutto splender fà fiamme divine.
Scioglie il suo fiato le gelate brine,
Ogni mortal il suo pote sospira,
Ad esso intorno il globo ognor s’aggira,
E toglie ogni vivente alle ruine.
Cantor di versi, e curator d’affanni,
Splendono a lui tesori eccelsi intorno,
Chè la terra salvar Ei sa da danni.
Fulge il suo carro di saffiri adorno,
Nè invecchia mai per lungo volger d’anni :
Eccovi il Nume apportator del giorno.
{p. 47}

Dichirazione, e sviluppo §

Sogliono le disavventure assai spesso inseguire i più rinomati Eroi, e miriam sovente, che chi per qualche dono di natura infra gli altri singolarmente rifulge, egli suol divenire il bersaglio della cieca imprudente fortuna. Tale appunto fù il caso di questo gran Nume. Egli sebbene fra il sodalizio degli Dei uno de’ più rinomati si era per cagion del suo vasto singolare sapere ; pur tutta volta a dure vicende fin dal seno di sua madre miseramente soggiacque. Chi fù Apollo. Corrucciata Giunone perche Giove suo marito particolare affetto nudrisse per Latona già per lui feconda madre di questo Dio, un giorno dal cielo villanamente cacciolla, e la terra dippiù obbligò con solenne giuramento a negarle asilo nel vasto suo seno. Nè contenta di questo da sozzo fango fè sorgere un’orribil serpente detto Pitone, acciò questo inseguito avesse da per tutto la sventurata Latona sua rivale. Commosso però dalle sue sventure il gran padre Nettuno strinse il suo tridente, e forte battendo le salse onde fè salire dal fondo di esse grande scoglio (detto isola di Delo) ove ricoveratasi Latona sotto una pianta di verdeggiante palma sgravossi della doppia sua prole Apollo cioè, e Diana ; quale isola poi per favore del nato Nume non più fù errante com’era, ma restò ferma del tutto, ed immota, per essere cosi di memoria a posteri, e tardi nipoti.

Sue vendette. Conscio intanto questo Dio de’ patimenti tollerati da sua madre per cagion del detto mostro insecutore pria d’ogni altra cosa contro di esso rivolse tutte intento le mire. Diveuuto arciero contro di quello drizzò le sue frecce, e con violenta morte gli fè pagare ben presto il fio del suo nero {p. 48}attentato. Dopo un tal fatto tutto sdegno similmente si rivolse contro Niobe, regina di Tebe, moglie di Anfione, che superba per la numerosa sua prole sprezzato aveva di lui la madre Latona fino a frastornare le feste, che facevansi in suo onore, ammazzandole a colpi di frecce i sette suoi figli maschi, come pur colle sette donne fece la sorella Diana, restandola cosi senza figli, e perciò senza motivo di gloriarsi in appresso.

Sue nozze Commesse queste bravure depose insieme collo sdegno le armi, e spinto dalla forza del molle amore con strane guise tutto agl’ amoreggiamenti si diede ; sempre infelice però fu costretto a mirarsi nelle sue intraprese. Fù primieramente rapito egli da violento affetto per Dafne famosa figlia del fiume Peneo, la quale burlandosi de’suoi amori fin a tal segno lo spregiò, che benchè da lui dopo lungo cammino presso la sponta del Lemeo fosse stata un giorno raggiunta, si contentò più tosto di perdere l’antica sua essenza coll’essere trasformata in alloro da suo padre istesso da lei chiamato in soccorso,(1) che vittima addivenire degli ardenti suoi amori. Le stesse disavventure ebbe egli parimenti a provare nel corteggiare la Ninfa Bolina, mentre questa amò più tosto abbandonarsi nel seno del mare, che nelle braccia lasciarsi dell a passione di lui, che in sembianza di tenero amante l’era apparso. Leucotoe sol figliuola di Orcamo prodica fù di sua persona per contentar questo Dio, ma ella a caro prezzo pagò il fio della sua men cauta condiscendenza {p. 49}mentre fatto consapevole di ciò il suo padre Orcamo da Clizia tradita ne’ suoi amori da questo Dio, e non potendo tanta sventura tollerar nella sua regia famiglia viva fè seppellire la figlia Leucotoe, restando perciò si addolorato Apollo, che non potendo salvarle la vita, la cambiò in segno d’affetto nell’ albore, da cuis tilla l’incenso, e trasformò altresi per sdegno la denunciante Clizia in girasole. Perduta intanto questa sposa trasse al suo fianco sì Climene figlia di Teti, che Coronide figlia di Flegia, da cui ebbe in figlio quell’ Esculapio, che istruito nell’ arte medica da Chirone sì valente in quella addivenne, che valse a richiamar alla vita Ippolito figliuol di Teseo alle reiterate premure della gran dea Diana.

Sue dissavventure. Un tal figlio però, che riuscir dovea pel padre un bel motivo d’allegrezza, fu per lui la cagione del più aspro dolore. Imperocchè alla vista d’Ippolito redivivo sdegnato altamente Giove con fulmine fatale tolse di vita il valente Esculapio, benchè come Dio della medicina al numero degli Dei per guiderdone l’ascrisse. Non potè pertanto Apollo contenere il suo sdegno pel crudele fato d’un tanto figlio ; ma disperando di attaccare il potente uccisore, le sue furie convertì contro di chi n’ era stato il ministro, ammazzando perciò i Ciclopi fabri de’ fulmini con furioso nembo di frecce ; tale ingiuria però riputando Giove come propria lo privò, benchè a tempo, delle divine qualità, cacciandolo ancora dall’ Olimpo. Infelice Apollo ! La dura necessità da Dio glorioso lo rese vil pastore degli armenti di Admete, e questi poscia lasciando pei furti dell’ astuto Mercurio locò la sua opera (non altrimenti che fece Nettuno) a Laomedonte Re di Troja per la gran fabbrica delle sue mura ; benchè poi tradito da lui nella convenuta mercede, con pestilenza ne attaccò gli stati, come per la causa istessa con inondazioni fè similmente il gran Dio del mare.

Sue contese. Contro di questo Dio valentissimo nella lira insorse il superbo Pane con imprudente disfida, ma perditor partendo dalla contesa per giudizio di Tmolo Re di Lidia, pagò colle umiliazioni il fiò del suo presuntuoso attentato, e Mida suo {p. 50}fautore con due orecchi di asino tirategli dal vincitore Apollo alle chiome diede la pena del suo mal giudicato. Mosso dopo un tal fatto o da spirito di vendetta, oppur meglio dal fasto di orgoglio il famoso satiro Marsia ardì parimente di venire con questo Nume alle pruove ; ma anche esso restandovi disotto fù a genio del vincitore ligato ad un albore, e vivo denudato della rozza sua pelle a tenore del convenuto.

Riacquistata finalmente la grazia dí Giove, e chiamato novellamente nel cielo chi mai creduto non avrebbe esser per lui terminati omai gli affanni ? Sue nuove sventure. Eppur non fù così, mentre siccome Esculapio avuto da Coronide fù in terra la innocente cagione delle sue sventure, così Fetonte di Climene fù in cielo l’impertinente motivo delle novelle disgrazie. Per vendicarsi costui dell’ ingiuria ricevuta da Epafo figlio di Giove, che detto gli aveva di non esser egli figlio di Apollo come si vantava, chiese in grazia al padre per consiglio di sua madre di condurre per un giorno il luminoso suo carro. Tremò il caro genitore a tal dimanda, ed imprese a distorglierlo con quelle parole, che gli mette in bocca Ovidio

Magna petis Phoeton, et quae non viribus istis
Munera conveniunt, nec tam puerilibus annis
Sors tua mortalis, non est mortale quod optas :

Ostinato però il figlio senza prestar orecchio ai giusti motivi chiese l’adempimento del giuramento già fatto. Ma che All’ accorgersi i cavalli della inesperta mano indocili scostaronsi dall’ ordinario corso, e minacciarono al mondo le sue estreme ruine. Il grido intanto di tutti gl’ enti atterriti ferì l’orccchio di Giove, e crucciato questi ben presto con fulmine rovesciò nell’ Eridano l’audace Fetonte, che morendo lasciò al padre in sua vece una novella eredità di tristi affanni, e dolori.

Suoi nomi. Varii, e molti sono i nomi, onde distinguevasi tal Nume di triplicato potere ; questi però sono i principali. Vien chiamato Delio a cagion del luogo, dove nacque, detto l’isola {p. 51}di Delo : Febo per cagion della luce, e calore del sole da lui guidato, o perche egli stesso fù creduto per sole : Delfico per la città di Delfo nella Beozia, ove rendeva i famosi suoi oracoli(1) Pitio per la gloria d’ aver ammazzato il serpente Pitone : Attico finalmente, e Palatino per ragion del promontorio Atio celebre per la vittoria di Augusto, e pel monte Palatino ragguardevole pel famoso tempio d’ Augusto a questo Dio dedicato.

Suo ritratto, e culto. In modo veramente grazioso fù dipinto un tal Nume. Mirasi sù d’ un carro svavillante tratto da quattro velocissimi destrieri con bionda capellatura fluttuante sul capo con atteggiamento, che annunzia la sua grandezza divina, con pace inalterabile spiegata sulla fronte, con occhio ebbro di dolcezza, con eterna primavera simile a quella degli elisii campi sul volto, colla lira in una mano, e col suo arco nell’ altra, con cornacchia svolazzante sulla testa, con un lupo, ed un albero d’ alloro al fianco, con cigno, ed un gallo dall’ altro, e finalmente con rampanti grilli a suoi piedi. E come in vero non convenirgli tal sembiante se egli è il Dio dei Poeti, il Principe delle Muse, il Maestro della Musica, della eloquenza, della Medicina, e di tutte quelle nobili arti, per cui si ingentiliscono i costumi, e si nobilita l’ umanità ? Da tanti buoni effetti adunque, che la gentilità delirante {p. 52}credeva ricevere dalle mani di questo Dio, non fia maraviglia se molto esteso si legge il suo culto. Con particolar modo però era egli adorato in Delo, Claro, Timbra, Pataro, e soprattutto in Delfo, ove per bocca della Sacerdotessa Pitia situata sul Tripode coverto dalla pelle del Serpente Pitone rendevansi gli oracoli i più famosi. In Roma poi nel mese di Luglio celebravansi in suo onore i giuochi detti dal suo nome Apollinari, e ne suoi sacrificii offerivansi fra gli animali più specialmente il toro, il porco, e l’ariete.

{p. 53} {p. 54}

Cap. VII.

Giunone §

Sonetto §

Giunto a Giove germana eletta figlia
D’opi funesta, che pur regna in Cielo,
Che per l’ aria talor da noi si piglia
Arbitra di procelle, e calma, e gelo.
Pronuba delle nozze in bianco velo,
Che a Lucina nell’ opre ella somiglia,
Spesso geloso amor turba, e sconsiglia,
E spesso lancia a donne infide il telo.
Europa, Danae, ed Alcmene un giorno
Destaron nel suo sen la voglia rea
Di punir l’opre di fatal rio scorno.
Essa è madre, essa è Diva, ed essa crea
I fenomeni infausti al sole intorno :
Costretta a lagrimar quantunque Dea.
{p. 55}

Dichiarazione e sviluppo §

Felice al certo più delle altre Deita sarebbe stata Giunone, se la sventurata non fosse stata il bersaglio dello stesso vertiginoso suo genio. E che altro invero bramar più poteva per esser felice ? Chi fù Giunone. Figlia essa di Saturno, e di Opi, e Sorella per conseguenza dello stesso Giove, anzi con esso più avvinta mercè i ligami di nozze, divenuta perciò regina dell’Olimpo, come per bocca di Virgilio I. Æn. sen pregia.

Ast ego, quae Divum incedo Regina, Iovisque
Et sorov, et conjux.

eppure ella lungi dal compiacersi delle sue fortune, e viver content per l’altezza del grado, da tumultuanti suoi affetti incessanemente travagliata nelle stesse sue grandezze videsi sempre angustiata, gemebonda, ed afflitta.

Suc azioni Era il fonte delle sue tristezze un vano orgoglio misto con una solta gelosia ; percui a morte perseguitava chiunque credeva recarle qualch’ onta. Son testimoni del suo sdegno Io, Europa, Danee, Semele, Latona, Alcmene, ed altre molte Dee, che ella afflisse non poco, sol perchè amate con tenero affetto da Giove. Nè qualora pensava alle vendette punto curava la maestà del suo grado ; ma prostergando ogni decoro non s’ arrossiva di commettere atti di umiliazione i più denigranti. E che in vero non fece per vendicarsi degli oltraggi, che ella credeva d’ aver ricevuti da Trojani si per la scelta di Ganimede per coppier degli Dei invece di Ebe sua figlia, come nell’ esser posposta a Venere nella beltà, per giudizio di Paride divenuto arbitro nella gran contesa sorta per {p. 56}cagione del pomo d’oro gittato dalla Discordia nelle nozze di Teti, e di Peleo ? Non s’ arrossi allora essa di prostrarsi in umile atteggiamento avanti ad Eolo, di promettergli in sposa Deiopea fra le quattordici sue Ninfe la più bella ; purchè questi mosso a compassione de’ suoi affanni avesse con furia diventi annegata nelle onde la nazione odiata, che nell’ Italia portavasi con intenzione di fissar quivi il soggiorno.(1) Non contenta questa orgogliosa Dea di Ebe, e Vulcano suoi figli concepiti per opera del suo Giove, sollecita impegnossi ancora un altro concepirne pel tocco d’un fiore, come appunto parlando di Marte si disse, per far conoscere agli Dei, ed agl’uomini quanto efficace il suo potere si fosse, che dubitata non avea di gareggiar collo stesso suo marito Giove ; mentre se questi per sua virtù tratto aveva dal fecondo seno di sua mente un vivo portento di sapienza, anche essa la gloria volle d’ aver {p. 57}cavato sol da se dagl’occulti recinti del suo seno un’animato prodigio di fortezza.

Suo castigo. Fù però oscurata la sua gloria, ed umiliato il suo orgoglio dal suo stesso marito pel seguente motivo. Nella gran congiura degli Dei contro Giove essa in vece d’opporsi al troppo folle attentato, non sol ne approvò il disegno, ma apertamente ancora volle prenderne le parti. Crucciato allora non senza motivo il suo glorioso marito pensò vendicarsi, e pel ministro di sua vendetta elesse il deforme suo figlio Vulcano. Pronto questi a voleri del padre, non si curò di stendere le mani contro la stessa sua madre. Con due calamite la sospese in aria, con catene di oro le avvinse dietro le spalle le mani, ed un’ aurea incudine ligò destramente a suoi piedi. A tal vista risero sulle prime gli Dei, ma quindi impietositi pronti corsero a prestarle soccorso ; vano però fu il lor potere. Colui sol, che n’ era stato il molto industrioso Fabro esserne poteva il liberatore pietoso. Questi allora ben servendosi della occasione non pria stese le mani all’ opra, che la povera madre non gli avesse promessa, non ostante la sua deformità, la bellissima Venere in isposa.

Suo ritratto. Pingevasi ordinariamente questa Dea con aria di maestà assisa sopra d’un carro tirato da Pavoni, recando nelle mani in segno dell’ alta sua autorità uno scettro, con un pavone al suo fianco, in alto di ricordare le sue bravure d’aver cangiato in quest’ uccello quell’ Argo di cento occhi suo esploratore da Mercurio per ordine di Giove crudelmente ammazzato : benchè in alcune sue immagini presso gl’ Argivi si scorga coll’ aggiunta d’ un cuculo sul suo scettro, perchè in quello cangiato si era Giove per ottenerla al fine dopo tante reiterate ripulse in sua sposa.

Suoi nomi. Con varii titoli era questa Dea comunemente salutata. Fù detta Argiva dal popolo Argivo, presso de’ quali in gran vigore era il suo culto. Fù chiamata Cingola dal cinto, che solito era portarsi dalle spose nell’andare a prender marito, quale credevasi da essa disciolto qual patrocinatrice delle nozze. Fù nominata Domiduca dall’ accompagnare la novella {p. 58}sposa al soggiorno dell’ amato suo sposo, per qual motivo ancora dicevasi Iuga, cioè Dea de’matrimonii. Dalla cura poi, che aveva dei bambini, che uscivano alla luce fù chiamata Lucina, e per la stessa ragione Pronuba, ossia Natale. Fù detta finalmente Eterea, perche sposata con Giove preso sovente, secondo Macrobio, per l’ etra ; e quindi essendo all’ Etra sottoposta l’ aria, essa qual inferiore di Giove per l’ aria stessa comunemente fù presa.

Sue feste. Molte erano le feste a lei sacre ; le Calende però d’ ogni mese furono sempre in suo onore, non altrimenti che fù il mese di giugno, che dal suo nome credevasi così chiamato, come ancora quello di febbrajo, in cui in suo culto celebravansi i giuochi Lupercali in una maniera poco decente, degna perciò di non essere espressa. Gl’animali inoltre da sacrificarsi nelle sue feste erano una bianca vacca, la scrofa, il montone, l’ Oca, e finalmente il Pavone.

{p. 59} {p. 60}

Cap. VIII.

Cerere §

Sonetto §

Colla falce, e col grano in fronte, e a piedi,
Da strumenti rural cinta d’ intorno,
Per ogni parte idolatrar la vedi
Scorrendo ogni tugurio, ogni soggiorno.
Sono i cultor del suo favor gl’ eredi,
Ed o che cade il sole, o fà ritorno
Regna ne campi, e all’ opre sue se credi
Non verserai il tuo sudor con scorno.
Anima della terra e di mortali,
Tutto mostra il poter della natura,
E salva il mondo dagl’ acerbi mali.
L’uomo per essa ne travagli indura,
L’augel per essa spiega allegro l’ ali.
Cerere è questa onor d’ agricoltura
{p. 61}

Dichiarazione e sviluppo §

La Dea, cui più fosse obbligata la società degl’uomini per beneficii ricevuti fù certamente la figlia di Saturno, e Cibile Cerere. Chi fù Cerere. Per essa invero si scosse la terra, ed in vaghe forme presentò i suoi preziosi tesori a mortali, sichè questi rapiti dalla novità del portento, e da essa, e dal figliuol di Celio Trittolemo divenuto suo caro ministro ben ammaestrati nell’arte della coltura de’ campi, passarono con piacere dal vile pascolo di ghiande, e selvagge radici ad un altro tutto convenevole alla loro condizione, così ne forma l’encomio Ovidio

Prima Ceres unco glebam dimovit aratro,
Prima dedit fruges, alimentaque mitia terris,
Prima dedit leges. Cereris sunt omnia munus.

E par, che il nome stesso dice a tal proposito Cicerone chiaramente l’addita : Ceres dicitur quasi Geres a gerendis fructibus, vel ab antico verbo Cereo, quod idem est, ac creo, quod cunctarum frugum creatrix sit, et altrix.

Sue disgrazie. Fù questa Dea fregiata di tanta beltà, che gli Dei stessi restarono sorpresi dalle sue fattezze ; anzi lo stesso fratello Giove preso dalle vaghe sue forme, ed obbliando le leggi del sangue cadde in fallo con essa ; pel qual fatto essa madre divenne della famosa Proserpina innocente cagione delle sue sventure. Imperocche rapita questa là ne’ campi della Sicilia dal suo zio Plutone sordo divenuto alle doglianze delle Ninfe, che l’affiancavano, non che della stessa Minerva, che dicesi presente a tal fatto, diè motivo alla sventurata genitrice di vivere sollecita della infelice sua sorte. Conscia {p. 62}quindi la Dea della per dita, ma ignorante del fatto, dando presto di piglio a fiaccole accese mosse veloce i suoi passi a trovarla. Raggirossi affannosa per questa, e quella parte della terra, sichè di essa a ragione scrisse Ovidio : Quaerenti defuit orbis, e la fortuna incontro di ritrovar sul lago di Siracusa il velo, che negl’amari contrasti scappato era dalle chiome della diletta sua figlia, e fatta quindi consapevole del tutto dalla ninfa Aretusa, sollecita volse indietro i suoi passi ad informarne Giove per l’opportuno riparo. Al sentire il gran padre le sue giuste querele cercò d’impiegare il suo braccio in soccorso. Ma poiche il destino decretato aveva poter Proserpina uscir da quel luogo nel solo caso, in cui gustato non avesse alcun frutto, perciò essendosi essa cibata di alcuni granelli di melo granato, giusta l’accusa di Ascalafo, cangiato perciò in civetta, non poteva da quel luogo mai più partire, e nel seno ritornare dalla afflitta sua madre. E cosi invero sarebbe avvenuto, se il sovrano consiglio degli Dei mosso più da motivi di affetto per la madre, che di giustizia per la figlia non avesse deciso, che sei mesi passasse Proserpina con Cerere sua madre, ed altri sei col suo marito Plutone.

Sue vendette. Gelosa pur troppo fù del suo onore questa Dea ; sicche il suo sdegno evitar non poteva chiunque osato avesse oltraggiarla. Vittima delle sue vendette divenne invero il fanciullo Stellio, che per essersi scioccamente burlato di essa, che stanca dal cammino, ed oppressa dalla sete con avidità tracannava il gran vaso di acqua ad essa offerto dalla impietosita vecchia Becubo, fù col resto di quell’acqua con sdegno buttatagli in faccia dalla risentita Dea ad un tratto cambiato in vile lucertola. Il peso della sua collera ebbe similmente a provare l’irreligioso Eresittone. Questi per aver con audace ardire recise alcune piante in un bosco a lei sacro fù punito con fame di sì strana natura, che ad onta di qualunque quantità di cibi non poteva mai saziarsi, e non ostante che Metra sua figlia, divenuta un proteo, con mille trasformazioni ingegnata si fosse a costo della vita a saziarlo, mai non {p. 63}però potè ottenerne l’intento ; onde egli di sua voracità non potendo più tollerar la molestia, divorandosi le sue medesime carni, con quel cibo in bocca ebbe a lasciar miseramente la vita.

Suo ritratto. Espressivo di molto è il tipo di Cerere, benche presso diverse nazioni non fù costantemente lo stesso. Comparisce ella sù d’un altare in foggia di bara recata da verginee mani (benche altri la vogliano tirata da due Dragoni) in atteggiamento festoso con aurea capellatura, con biondo serto di spiche, e papaveri sul capo, e con altro a piedi, stringendo con una mano piccola falce, ed un fascetto di recise spiche additando nell’altra, cinta finalmente da lungo ammanto variopinto, tutti simboli de’ rari suoi pregi, e di sua diffusiva bontà, corteggiata da uno stuolo di contadini, che festosi per le abbondanti messe a lei intorno raggirandosi le prestano divotamente gli omaggi.

Suoi nomi. Da questa efficie della Dea simboleggiante molto al naturale i tanti beneficii, che prestava essa a mortali, chiaro si scorge, perchè la stessa comunemente dagl’antichi, come ci assicura Cicerone, veniva salutata co’ dolci nomi di Mammosa, di Alma, e di Nutrice. E chi in vero in veder le sue poppe soltanto gravose di latte in simbolo della cura, che essa ha de’ mortali può tai titoli sfacciatamente negarle ?

Suoi sacrificii. Diversi sacrificii, secondo la diversità de’luoghi, celebravansi in onor di questa Dea in titolo di riconoscenza dovuta a suoi larghi favori ; due però furono i più solenni. Il primo fù detto mistero Eleusino de Eleusi, ove per man del re Celeo ebbe la Dea cortese accoglienze ne’ suoi affannosi viaggi(1). Di questa festa da durare nove giorni tanta era {p. 64}la celebrità, che neppur gl’iniziati ad essa potevano da presso vagheggiarne i misteri, ma molto discosti dalle funzioni doveansi tenere, finchè scorsi cinque anni passassero nel grado di Efori, cioè contemplatori ; soggetti però a si sacro, ed inviolabil silenzio, che dalla società era ben tosto bandito chiunque osava violarlo. Il secondo fù chiamato Ambarvale da campi, ove celebravasi tal sacra cerimonia, secondo i riti descrittici da Virgilio.

Terque novas circum felix eat hostia fruges.
Omnis quam chorus, et socii comitentur ovantes,
Et Cererem clamore vocent in tecta ; neque ante
Falcem maturis quisquam supponit aristis
Quam Cererem torta redimitus tempora quercu
Det motus incompositos, et carmina dicat.

Che l’Ostia poi, di cui qui parla il poeta sia stata una troja chiaro si rileva da quel verso di Ovidio : Prima Ceres avidae gavisa est sanguine porcae.

{p. 65} {p. 66}

Cap. IX.

Vesta §

Sonetto §

a rime tronche.

Con fiamma viva, che le splende al piè,
Col volte pien di rigida virtù,
Divinità spreg evole non è ;
Anzi che i n lei non può cercarsi più.
Di fiori ha un serto, che il gran Giove diè
Ad ella quando assisesi lassù ;
Lei promette a donzelle alta mercè,
Perchè più bella, e la più antica fù.
Il suo rito scordarsi omai non può,
E a chi lo conservò con fedeltà
Eccelsi premii di sua man donò.
Questa moetra prudenza, e rarità,
Questa i n Egitto, e in Roma un dì regnò
La Dea della gentil Verginità.
{p. 67}

Dichirazione, e sviluppo §

Se presso i popoli anche più barbari fù sempre tenuta in gran conto la verginità, come quella, che oltremodo nobilita la condizione dell’ umana natura ; in qual alta riputazione poi convien credere, che tenuta fosse la Dea stessa di quella ? Descrivasene perciò con tutto piacere la vita. Chi fù Vesta, Fù questa Dea gentil germogtio di Saturno, e di Opi, e ben retta ne’ suoi giudizii mostrò fin da’ primi albori tale affetto, e gelosia pel suo vergineo candore, che quando Giove rapito indi a poco dal suo grazioso sembiante con tenere espressioni di padre la facoltà le concesse di chiedergli con libertà quanto le fosse più in grato, essa la ben nata ogni altro dono fastosamente sprezzando, con tutto calore sol in grazia gli chiese di potersi eternamente mantenere illibata Vergine in tutto il suo tenore, ad onta di qualunque motivo opposto si fosse alle innocenti sue brame ; e quindi fatta paga de’ suoi voti, da tal entusiasmo fù presa, che dagl’ esterni segni di sua allegrezza facil era il giudicare gl’interni affetti per la sua amata purezza.

Suo ossequio e culto. Alzato essa in tal forma il candido vessillo della verginità in esempio di chiunque avesse voluto profittarne, così diffuse le scintille dell’innocente suo fuoco nel petto de’ mortali, che sentendone questi le dolci, ma possenti spinte, non poterono fare ammeno di enutrir ver di essa nel cuore tai sensi di amore, di venerazione, e di culto, che per empio, e scellerato era tenuto chiunque ricusava prestargli sacrificii in segno di omaggio ben dovuto all’impareggiabile suo merito : anzi perchè era riguardata per Dea del fuoco, e pel fuoco istesso sovente pur presa, ben tosto divenne presso {p. 68}tutti la principal domestica Divinità, alla cui cura, e tutela con religioso affetto affidavano se stessi non solo, ma sibbene le loro rispettive case, e famiglie. Il pietoso Enea infatti nel fuggir dalle consumatrici fiamme della cara sua Troja, tra gl’altri suoi più cari dei penati, che seco divotamente si trasse, volle, che questa Dea in particolar maniera l’accompagnatrice fedele fosse de’ suoi incerti viaggi, non che il fabro avventuroso delle sue novelle fortune.

A fronte intanto di questa gran cura, che per tal Deità nudrivano religiosamente i Gentili, qual maraviglia fia, che non solo intieri, e distinti tempii, ma altari ancora costrutti vennero in suo onore eretti sibbene in tempii sacri ad altre Divinità ? Quale stupore se ne’ suoi tempii tanto era la compostezza de’ suoi adoratori, che anzicche essere animati sembravano insensibili statue alla presenza di Essa ? Qual prodigio se quelli rimossi per man di rispetto dalle vicinanze dei suoi altari, ben lungi da quei Sacri recinti con immota pupilla pregiavansi di vagheggiar la fiamma, che bruciava in suo onore ? Qual po rtento in sentirla invocata non con altri titoli, che con venerandi nomi di santa, di casta, e d’illibata matrona ?

Crebbe però oltre ogni uman credere per questa Dea l’ossequio, e vieppiù ne rifulse la gloria, qualora gran fiamma d’amore per essa si accese nel petto del religioso Nume II. Re de’ Romani. Ordinò questi ergersi in suo onore magnifico tempio in forma rotonda fra i due monti Palatino, e Capitolino per serbarsi quivi perpetuamente acceso il fuoco, e generoso privandosi dell’antica reggia, volle, che di essa un atrio si formasse da servire di soggiorno a quelle vergini, alle quali con special modo premeva il dovere di onorare questa Dea(1). Di tanto ci assicura Ovidio.

Hic locus exiguus, qui sustinet atria Vestae
Tuno erat intonsi regia magna Numae.

{p. 69}Ne’ primi tempi costume non fù effigiar questa Dea, ma una viva fiamma soltanto al vivo espressa formava il suo tipo ; mentre le statue tutte, che dicevansi esser di Vesta non rappresentavano la nostra Dea del fuoco, ma sibbene la Vesta antica, ossia la Dea Tellure. Suo ritratto. Collo scorrer degl’anni però, o perchè si confusero queste due Dee, o perchè credettero indispensabil dovere i Gentili di onorar la nuova Vesta, non altrimenti che onoravasi l’antica, si diedero ad effigiarne in quest’atteggiamento il ritratto. La rappresentarono essi in abito di venusta matrona di ricca stola vagamente adornata, mostrando nella destra mano una lampada, ed un vaso stringendo nella sinistra, detto il corno dell’abbondanza, con viva fiamma, che onorava i suoi piedi ; benchè in alcuni suoi ritratti veggasi ancora tenere nelle mani con gentil aspetto un palladio(1).

Modo di eleggersi le Vestali Con somma diligenza invalse poi il costume di eleggersi le Vestali. Al solo Pontefice Massimo dopo i Re s’apparteneva tal facoltà. Presentavansi al suo cospetto venti verginelle delle principal i famiglie di Roma nonimen di sei anni, nè {p. 70}più di dieci, non prive però di padre, o di madre, secondo la legge Papia, nè mostruose per qualche difetto. Egli dopo averle sorteggiate strappava dalle braccia de’ suoi genitori la eletta, ed al tempio immediatamente la menava, ove collacerimonia di sospendersi ad un sacro albero le recise chiome veniva deputata al sacro ministero, e trascorsi dieci anni per apprenderne le funzioni, pel corso di altrettanti anni si dovea occupare nell’esercizio delle stesse, soggetta ad esser punita con verga dal gran Sacerdote, se per sua negligenza estinto si fosse il Sacro fuoco, da riaccendersi quindi o con raggi solari, o coll’attrito di due legni ben secchi, e dopo aver compiti dieci altri anni nell’imparare ad altre nuove donzelle le sacre cerimonie, era in loro libertà o quivi terminare il resto di loro vita, o ritirarsi nelle loro antiche famiglie, ed anche maritarsi ; sebbene da poche ciò si fece, e con esito assai infelice. Durante però il tempo di trenta anni era ad esse vietato uscire dall’atrio ; eccettuato soltanto il caso di grave infermità, in cui partendosi in compagnia del gran pontefice, erano posto sotto la custodia di qualche dama Romana di sperimentata probità.

Castighi, e privilegii delle Vestali. La violazione della loro castità era il massimo de’ delitti, e punivasi colla morte la più spietata, ed a tempi di Tarquinio Prisco erano vive rinserrate in una fossa colla provisione di poco oglio, pane, latte, ed acqua, e quivi lasciavansi miseramente a perire. Se così severi però furono per esse i castighi ; larghi d’altronde erano i loro privilegj. Potevano esse anche vivendo i loro genitori far testamenti, erano immuni dal giuramento, potevano far uso delle bende, e della pretesta, potevano salvar la vita ad un reo casualmente incontrato(1).

{p. 71} {p. 72}

Cap. X.

Miverna §

Sonetto §

Forte, casta, possente, e gloriosa
Fù Minerva all’Olimpo un di mostrata,
Dalla mente di Giove appena nata
Fù sapiente, e guerriera al par famosa.
Nè del uom, nè de’ Dei fù mai la sposa,
Solo ad opre sublimi dedicata,
Ottenne e tempii, ed ara, e fù adorata,
Perchè saggia, potente, e bellicosa.
Non s’abbassa, non teme, e sempre forte,
Non sa temer fortuna ancor funesta,
E bella appar per lei l’istessa morte.
Ella fiamme d’onor nell’alma desta,
Ella rende gentil qualunque sorte :
Figlia di Dio la gran Sapienza è questa.
{p. 73}

Dichiarazione e sviluppo §

La prodigiosa, e singolar maniera, in cui al mondo comparve questa Dea, troppo chiaro adombrò i rari pregi, de’ quali andava ella fastosa. Chi fù Minerva. Giove credendo troppo ciecamente ai vaticinii d’Urano, che Meti sua moglie data avrebbe alla luce con un fanciullo, cui dal fato si riserbava l’impero del mondo, una bambina di tanta ; e tale sapienza, che avanti a se comparir dovea meglio assai d’un parelio in faccia al sole, tutto confuso ne’ pensieri, tutto conturbato negli affetti non vide altro mezzo più espediente per ovviare il futuro suo scorno, che con incredibile voracità dibranare la stessa sua moglie ; onde così insieme con la madre distruggere quanto di prodigioso portava ella nel seno. Deluso però restò ne’ suoi sciocchi consigli il crudele. Imperocchè la graziosa bambinà con prodigio inudito saltando dal seno della madre nella testa del padre, quivi fissò per ben tre mesi con modo più nobile la sua dimora. Annoiato impertanto dell’insueto gravame l’ignorante Giove, e ravvisando crescere sempre più con suo maggior dolore il gran peso, per man di Vulcano si fè in due parti aprire il capo, per osservar cosa fosse del suo tormento il motivo. Vide allora con suo stupore uscire una bambina ben grande, e tutt’armata, che intorno a se addolorato per la terribile percossa con bella garbatezza saltando, die chiaro a conoscere quanto dovea essere un dì gloriosa ne’ pregi suoi ammirandi(1).

{p. 74}Sue vendette. Gonfia impertanto questa Dea dell’amor di se stessa, e molto più superba per la vittoria ottenuta contro il competitore Nettuno, come nella vita di costui sta scritto, fù del suo onore si fortemente gelosa, che senza pietà con castighi sopraffece chiunqne non la rispettava a tenor del suo grado. Provò primieramente gl’effetti del suo sdegno la vana figlia di Idimone Aracne. Questa perchè superba un di vantossi di esser simile a questa Dea, e forse suporiore ancora nel lavoro de’ suoi gentili ricami, avvegnachè nella contesa partita fosse vittoriosa ; pure ebbe a soffrire il troppo sensibile dolore della sua fronte percossa da iterati colpi di navicella per man della Dea accigliata ; sichè non potendone più soffrire l’acerbità avrebbe a se stessa tolta la vita, se per favore delle sua rivale istessa, o per grazia degli Dei impietositi a suoi tormenti non fosse stata cangiata in ragno, nella qual condizione tessendo perpetuamente la più spregievole tela incessantemente il fio paga di sua temeraria iattanza. Antiquas exercet arania telas. Ovid. A. consimil castigo fù inoltre soggetta la infelice Babilonese Dirce. Questa per aver un di mossa non sò da qual furia di passione eruttate alcune parole contumeliose, e degradanti l’onor di questa Dea, fù dalla stessa con sommo suo scorno privata dell’antico suo essere, e trasformata in pesce per unir così le amare lagrime delle sue aventure colle salse onde del mare.

Questa Dea inoltre perchè invaghita soprammodo del caro pregio della nobilitante castità, a severi castighi similmente assoggettò chianque avrebbe voluto annebiarle, benchè sol collo sguardo, il suo vergineo candore. E per qual altra {p. 75}cagione invero privato venne del prezioso lume degl’occhi l’infelice Tiresia, se non perchè un curioso sguardo lanciato avea verso di essa nell’atto di tuffarsi nelle fresche acque di Elicona ? E che altro significar volle quel cangiar in serpenti i capelli della bella Medusa, se non perchè erano stati essi la cagione, per cui l’appassionato Nettuno senza rispettare il sacro suo tempio ardi violarla ? E che altro fù il fulminar dall’alto ed infilzare a scoglio acuto nel più bel de’ suoi marittimi viaggi l’infelice Aiace di Oileo, se non perchè ebbe questi il temerario ardire di violar l’onesta verginella, e profetessa figlia di Priamo Cassandra rifuggiatasi nel suo tempio per soccorso, e salute ? Illustri esempii questi si furono, onde palesar ben chiaro quanto ella rapita venisse dalla amata sue castità.

Suoi nomi. Fra gl’altri nomi con cui veniva riverita Minerva evvi quello di Pallade dal nome di un gigante da essa ucciso, oppure come più plausibile sembra dal brandir della lancia nelle battaglie, mentre sotto tal nome era tal Dea riconosciuta per presidente delle guerre, e protettrice degl’Eroi. Venne ancor chiamata Partenia titolo designante la verginità, di cui era amante. Fu detta Tritonia dal lago Tritone, dove ella si vuol nata, o almen secondo altri educata. Fù nominata Cesia per indicar il ceruleo de’ graziosi suoi occhi. Finalmente perchè inventrice di molte arti, e specialmente de’ rigami, salutata venne col rozzo, ma pur nobile nome di Operaria.

Suo ritratto. L’atteggiamento, in cui pingevasi questa Dea ha più il terribile delle battaglie, che la piacevolezza delle muse. Mirasi al fianco d’un olivo di statura ben alta, e tutta piena di gravità, e contegno, di fisonomia molto bella, ma nel tempo stesso assai fiera, con elmo sul capo adornato di civetta(1) con una lancia ad una mano, con uno scudo {p. 76}sull’altro braccio, e coll’Egida, che coprivale il petto, qual forte corazza, ove dipinta era la terribil testa di Medusa coverta di serpenti per capelli, giusta la descrizione, che ne forma Virgilio.

Ægida, quae horriferam turbatae Palladis arma
Certatim squammis serpentum, auroque polibant
Connexosque angues, ipsamque in pectore divae
Gorgona desecto vertentem lumina collo.

Suo culto Roma per onorar questa Dea di Sapienza, non men che di castità volle, che ne ciuque giorni ad essa sacri detti perciò feste Quinquattrie vacassero le scuole, acciò i giovani studenti liberi dalle consuete applicazioni potessero con special modo assistere a tali sollennità, ed insieme col fumo delle capre svenale alzar divoti le loro preci a questa Dea d’ogni umano sapere.

{p. 77} {p. 78}

Cap. XI.

Venere §

Sonetto §

Del ciel figlia, e del mar possente, e bella,
Madre d’ogni piacer, madre d’amore,
Fonte d’immense grazie, e dolce ardore,
Che in ciel non fù chi somigliasse ad ella.
Febo, e Marte provar fatal quadrella
Sol per costei, che dominò ogni core,
Nemica di modestia, e di pudore,
Alla sana ragion sempre rubella.
Ogni bene, ogni mal da questa nasce
Cagion d’aspri perigli, e di dolcezza,
Che di tosco, e di mel gl’uomini pasce.
Cade per lei l’ingegno, e la fermezza,
La teme, e adora l’uom fin dalle fasce :
Triste, e grande poter della bellezza.
{p. 79}

Dichirazione, e sviluppo §

Non fia maraviglia se nel parlar di questa Dea regina delle grazie, e madre degl’amori, m’ingegno o col velo della modestia nascondere alcuni fatti più seducenti, o con castigate parole esporre il più essenziale. Dappoichè se per essa un di rompendo i bei legami della modestia si diadero gl’uomini a mille disordini deturpanti la loro stessa condizione, io non posso, ne debbo svelare quello, che nel seno dell’obblio merita essere ragionevolmente sepolto. I racconti di Piramo, e Tisbe, di Atalanta, ed Ippomene, di Paride, ed Elena, e di mille altri viziati stranamente ne’ loro affetti dal poter di questa Dea sono argomenti parlanti come della sfrontatezza di essa nell’agire, cosi di mia riserbatezza nel favellarne.

Chi fù Venere. Nacque Venere dalla spuma formatasi intorno alle recile parti di Urano cadute nel mare ; non altrimenti che dal sangue dello stesso caduto a terra nacquero, come altronde si disse, i giganti ; eppure ad onta di nascita si mostruosa, e si vile, di tanta beltà comparve fregiata, che qual perla in guscio rinchiusa fù da Zefiri spinta sul Cipro, dove le Ore con sviscerato affetto la educarono, e grandetta divenuta menarono al cielo ad esser vezzeggiata dagli Dei, i quali rapiti da tal prodigio di beltà concordamente la giudicarono fra le Dee tutte in ordine alla bellezza la prima. Non potè però la sventurata tant’oltre gloriarsi di tal naturale suo pregio ; mentre per volontà di Giunone, non altro nume fù astretta ad impalmar per marito, che il deforme storpiato Vulcano, pel quale sebbene di più figli fù madre ; pure perchè mal contenta del suo consorte imprese a fare un traffico {p. 80}troppo infame del suo corpo, altri molti perciò da altri, ed in particolar da Marte ne ottenne, come ancor per sue figlie comunemente riconosconsi le tre grazie Aglaia, Eufrofia, e Talìa(1).

Suo ritratto. In varie guise, e sotto aspetti diversi secondo la diversità delle nazioni effigiata venne tal Dea. Questo però è il più ordinario suo tipo. Pingesi ella con manto di porpora di diamanti trapunto, ed affibiato da uu cinto, che in se racchiudeva ogni grazia, seduta sù d’un carro d’avorio ingegnosamente intagliato, e vagamente dipinto, tirata da cigni, o da colombe, mostrando un volto da piacevolezza infiorato, con mille bellezze, che le scherzano sul petto, col piacere, e colla Voluttà, che se le agiran d’intorno fiancheggiata dai due Cupidi, non che dalle tre grazie, e finalmente seguita dal suo bellissimo Adone.

Suoi nomi. Con varii nomi fù contradistinta tal Dea ; eccone però i principali. Chiamata veune Afrodite, perche dalla sozza indicata spuma riconobbe i natali, e per la stessa ragione ancora al dir di Ausonio fù nominata Marina. Fù detta Idalia, perchè in Ida appunto nascose ella il giovanetto Ascanio, {p. 81}nell’atto che Cupido sotto le sembianze di quello ingegnavasi infiammare il freddo seno della infelice Didone a favor del ramingo Troiano giusta l’anacronismo di Virgilio. Fù chiamata Cipria, e Citerea dalle isole, ove recata venne, educata, e distinta. Ebbe il nome di Apaturia, ossia ingannatrice, e qual cosa invero più inganna, che l’amore, quale lusingando i sensi nel cuor trasmette i velenosi suoi strali ? fù detta finalmente Melene, cioè tenebrosa, e chi non sa, che le opre del sozzo amore amano la secretezza, e la notte ? Omne amoris opus, ê vulgare pur troppo il detto, amat tenebras.

Sue culto. Questa Dea perchè amica di sensibili, e sensuali diletti era da tutti generalmente riguardata. I luoghi però nei quali riceveva essa special culto, ed omaggio furono Gnido, Cipro, Amatunta, Idalio, Citera, e finalmente Pafo, di cui fa menzione Virgilio :

Ipsa Paphum sublimis adit, sedesque revisit
Laeta suos, ubi templum illi, centunque Sabaeo
Thure calent arœ, sertisque recentibus halant.

In Roma poi nelle Calende di Aprile celebravansi in suo o nore i Sacrifici detti Verticordia, acciò degnata si fosse, se pur era possibile, di allontanare le impure fiamme da cuori ; però altra vittima offrir non le si dovea, che la sola colomba da essa teneramente amata,(1) e tanto si credeva {p. 82}affrontata se si fosse altrimenti praticato, che cangiò una volta in tori alcuni popoli di Cipro, che ardirono sacrificare umane vittime in suo onore. Con maniere inoltre le più strane credevano le donzelle gentili specialmente le Babilonesi, le Sire, le Medi, le Persiche, le Lidie onorar questa Dea. A spese del suo culto, o ad edificazione di sue statue convertivano quell’argento, che colla perdita del proprio onore venivano vergognosamente a ritrarre ; anzi sacre a questa Dea dicevansi quelle, che a turpe meretricio erano totalmente rivolte, come quelle, che più da vicino ne sapeveno imitare le operazioni, ed i tratti. Tanto testifica Erodoto in Spec. Babyl. lib. 1. Omnibus mulieribus indigenis comune est semel in vita ad Veneris templum desidentibus cum externis viris consuetudinem habere… cum semel illic consederint domum non regrediuntur, nisi prius ab hospitum aliquo pecuniam acceperint, et cum eodem rem habuerint ; hospitem autem illum, qui pecuniam obtulit dicere oportet : tanti ego tibi Deam Mylittam implorem (sic enim Venerem appellabant Assirii) At vero pecuniam illam quantulacumque sit, non est fas reiicere ; siquidem in sacrum convertitur usum(1).

{p. 83} {p. 84}

Cap. XIV.

Diana §

Sonetto §

La Dea, che cacciatrice, e Vergin casta
Venne chiamata, e insiem Diana detta,
Allor che notte al viator sovrasta
Luna nomata è in ciel bella, e perfetta.
Negli abissi tien reggia orrenda, e vasta,
Proserpina si dice, che vendetta
Soltanto agogua Enea deposta l’asta
Il ramo a lei sacrò di forma schietta.
Cinzia vien detta ancor, come Febea
Suora del Sol, e l’uomo o veglia, o dorme
Col raggio, e col poter inebbria, e bea.
Fascele, e Delia perchè drizza l’orme
Dell’uom col Dio di Delo, e lo ricrea :
Questo è il poter della gran Dea triforme.
{p. 85}

Dichirazione, e sviluppo §

Chi fù Diana. Germoglio quanto travagliato nel seno della terra, altrettanto ridente spuntato sul piano la presente Dea rassembra. Essa nel seno della perseguitata Latona sua madre rinchiusa dopo aver con essa divorati gl’affanni de’lunghi travagliosi viaggi, da quel carcere finalmente si dischiuse là sulla isola di Delo, e fin d’allora quasi di maturo senno dotata tutta sollecita si esibì per levatrice a sua madre nello sgravarsi del suo secondo portato distinto sotto il nome di Apollo, e penetrata quindi da dolori, da quali travagliata mirava sua madre nelle laboriose ore del parto, giurò di serbar perpetua la sua Verginità. Laonde grandetta già divenuta, acciò nel suo seno non si accendesse la molle fiamma temuta, tutta si diede all’allettante, ma faticoso esercizio della caccia col seguito di ben sessanta Ninfe figliuole dello Oceano, non che di venti altre verginelle, che la cura avevano del suo campestre equipaggio ; quali tutte affinchè ne’discorsi, e ne’tratti non le avesser recato nel tempo almeno di ristoro qualche occasione, o periglio pel suo candore obbligò alla più stretta, e perfetta Verginità in modo, che accortasi un di della debolezza di Calisto figlia di Licaone infelicemente sedotta da Giove, senza riguardo alcuno tutto sdegno divenuta dalla sua seguela perpetuamente bandilla,

Essendo dunque si amante di sua onestà questa Dea non fia maraviglia se non sol fuggiva le conversazioni degl’uomini, ma quelle occasioni ancora, che in qualunque maniera potevano svegliarle nel seno l’abborrito piacere del senso. Sue vendette. Da ciò ne avvenne, che implacabile mostravasi contro chiunque sembravale far ombra al suo amato candore. {p. 86}Sperimentò in vero i colpi del suo sdegno l’incauto Atteone figliuol di Aristeo. Egli per aver un di mentre divertivasi alla caccia data libertà a suoi occhi di mirare questa Dea, che insieme colle sue Ninfe si tuffava nelle acque, venne con un pugno delle acque istesse buttategli sul viso da quella con scorno di sua natura cangiato in cervo, e quindi inseguilo, ed ucciso infelicemente da suoi cani. Nè solo così fieramente puniva ella chiunque rivolgevasi direttamente contro il suo pudore, ma ancora chi osava insidiare qualche seguace sua Ninfa. La infelice sorte di Orione da suoi dardi ucciso per aver tentato di far violenza ad Opi sua Ninfa ne è un luminoso attestato.

Non men però del suo onore, che di sua purezza fù molto gelosa Diana. E che altro infatti significar essa volle quando spedi un cignale terribile a desertare le Campagne del re di Calidone Eneo ? Il poco rispetto che ebbe questi per essa nell’escluderla dalle offerte delle primizie fatte a Cerere, Bacco, e Minerva, ne fù l’infausto motivo ; E perchè inoltre traforò con un suo dardo la lingua della infelice figlia di Dedalione Chione senza farle più articolar parola ? La temerità che ebbe di attaccar con disprezzo la sua beltà fù la cagione di tanta sventura. Lo dimostra con chiarezza nelle sue Metamorfisi Ovidio

… Se praeferre Dianae
Sustinuit, faciemque Deae culpavit. At illi
Ira ferox mota est, factisque placabimus inquit,
Nec mora, curvavit cornu, nervusque sagittam
Impulit, et meritam tra fixit arundine linguam.

Sebbeno la occupazione più ordinaria di questa Dea fosse stata la caccia, come sopra si è detto, per cui qual principal divinità de’cacciatori era comunemente riguardata sotto il nome di Diana ; in questo sol ristretto però non era il suo ammirabil potere. Suo potere e suoi nomi. Essa qual celeste divinità dal ciel tramandava i suoi benefici influssi, e co’suoi raggi nella notte più {p. 87}sensibili dissipando le tenebre guida si rende, de’viaggi. Regina del silenzio, e madre de’riposi, ne avvi pianta in selva, erba in prato, fiera in bosco, che non ne senta il valore. Per questi, ed altri innumerabili suoi effetti essa fù confusa colla luna, e con questo nome similmente chiamata, benchè gl’antichi Mitologi la distinsero, e forse per non attribuire a questa Dea di castità le leggierezze della Luna col Pastore Endimione. Inoltre qual divinità infernale riconosciuta sotto il nome di Proserpina godeva ampio impero sopra le anime quivi rinchiuse, cui perciò rivolgevansi spesso i gentili mossi dalla pietà verso i loro defonti, e per la stessa ragione volendo discendere nell’inferno a rivedere il Genitore il pietoso Enea, e saper da lui le sue avventure cercò rendersela propizia col donativo del cotanto celebrato ramo di oro, giusta i consigli a lui prescritti dalla Sibilla Cumana. Tal triplice suo potere in Cielo, in terra, e nell’inferno, per cui chiamasi cumunemente la Dea triforme, ingegnosamente si comprende ne’seguenti versi :

Ierret, lustrat, agit, Proserpina, Luna, Diana
Ima, Suprema, feras sceptro, fulgore sagittas.

Gl’altri suoi nomi poi men bisognosi di spiegazioni trovansi di già compendiati nel suo soprapposto ritratto.

Suo ritratto. La effigie di questa Dea ha più del boschereccio, che del Divino. Pingesi ordinariamente assisa sopra un carro tirato da Cervi in abito sciolto, si ma decente affibiato al suo petto con pelle cervina, con un arco in mano, con turcasso armato di frecce sospeso alle spalle, circondata dalle sue Ninfe al par di essa similmente agguernite, di statura però men maestosa della loro Dea, come chiaramente cel descrive l’Epico Latino.

… In Eurotae ripis, aut per iuga cynthi
Exerct Diana Choros, quem mille seculae
{p. 88}Hinc, atque hinc glomerantur Orcades, illa
Pharetram fert humero, gradiens Deas superminet omnrs(1).

Suoi tempii. Varii, e molti furono i tempii edificati in onor di questa Dea, non sol nella Grecia, ed in tutte le spiagge Orientali, ma in tutte le parti del mondo, come ricavasi da molti monumenti degl’antichi scrittori. In questi fù costume immolarsi per man di Sacerdoti per legge Eunuchi umane vittime, almeno secondo Erodoto in Melp. i miseri annegati nel mare ; dippiù scelti bovi, e secondo Euripide, le primizie di tutti i frutti della terra. Il costume però più praticato fù l’offerirsi uua bianca cerva in suo onore, come cel descrive Ovid.

Candida, quae semel est pro virgine coesa Dianae
Nunc quoque pro nulla Virgine cerva cadit.

Il tempio poi il più celebre fu l’Efesino fabbricato da popoli tutti dell’Asia in 270 anni sotto l’architettura di Ctesifonte, annoverato fra le sette maraviglie del mondo per la magnificenza del lavoro, per la rarità delle colonne, per le ricchezze delle Statue, per l’ornamento delle pitture ; si chè per esso Efeso abitacolo una volta de’Cari, e de’Lelegi, e {p. 89}quindi Colonia degli Ateniesi, e de’Ionii si nobilitò a tale segno, che fra le Città della Ionia, dopo Mileto, fu la più gloriosa, e potente Città : Quis enim hominum est, così Demetrio,qui nesciat Ephesiorum Civitatem cultricem esse magnae Dianae, Iovisque prolis ?(1) quale ammirabile tempio poi nel giorno, in cui nacque Alessandro fù incendiato da Erostrato anche esso Efesino preso dallo stolto disegno di rendere immortale il suo nome ; e benchè più volte fosse stato quindi rialzato, come testifica Plinio ; pur al riferir di Capitolino ebbe a sperimentare le sue finali ruine per man de’Goti crudeli devastatori dell’Asia.

{p. 90}

Cap. XIII.

Destino §

Sonetto §

Bendato vecchio in fiero trono assiso,
Da cui pendono ognor mille catene,
In cui stretto dell’uom gl’eventi tiene
Con atto grave, e in furibondo viso.
Ogni avvenir dal suo poter deciso,
Nè i desiderii del mortal previene,
Sordo agl’affanni altrui, sordo alle pene,
E tutto, che egli vuol tutto, è preciso.
Libro eterno sostien con mano ardita,
In cui scritto a carattere Divino
Sta quel che fia di qualsivoglia vita.
Alcun non giunge al fatal tron vicino,
Che all’uom da lungi la carriera addita,
Nè val forza mortal contro al destino.
{p. 91}

Dichiarazione e sviluppo §

Chi fù il Destino. Una divinità sempre la stessa, e non mai soggetta ad essere alterata per qualunque cagione, dissero i gentili il destino. Da questo pensarono essi, che pendeva ogni cosa, e che nessun mezzo vi era per eluderne la forza. Quindi è, che domandato un dì Talete qual cosa fosse la più insuperabile nel mondo, tosto rispose, come abbiamo da Laerzio : Il solo Fato. Nè solamente era questi l’arbitro delle mortali vicende, giusta quel detto del Giovenale : Fata regunt homines ; ma il dispotico sibbene degli stessi Dei : onde in più luoghi i poeti ci descrivono le loro querele, non che i lamenti dello stesso Giove, così in Lucano : Me quoque fata regunt. Da ciò intanto si fù, che disperando i. gentili di commuovere la inflessibile sua volontà non pensarono ad istituire sacrificii, ed offerte di qualunque sorta si fossero ; ma nel seno della stessa sua necessità mal grado il suo rango lo lasciarono infelicemente a giacere : mitto quod certum est, cosi un poeta, et inevitabile fatum, ed un altro :

Quid quid patimur mortale genus
Quid quid facimus venit ex alto
Fatis agimur, cedite fatis(1).

{p. 92}Da qual fonte ebbe origine. Da qual principio poi commossi i gentili siansi indotti a credere in questa ineluttabile Deità, non così chiaro si scorge per la moltiplicità delle opinioni. A mio credere più plausibile sembra il parere di chi afferma, che la prosperità dell’empio, e la infelicità del giusto ne sia stata tutta la cagione, ed il motivo.

Ed in vero se questo mal inteso effetto ha menato ne’tempi posteriori, e più illuminati alcuni miseri in diversi errori, fin ad addentare la provvidenza, la giustizia, e la esistenza stessa del vero Dio conchiudendo con Lucano

.… Sunt nobis nulla profecto
Numina cum caeco rapiantur omnia casu,
Mentimur regnare Iovem.

{p. 93}qual nodo più inestrigabile riuscir non dovea per gl’uomini di que’ secoli di tenebre, e di follie ? Essi non potendo conciliare colla veggenza de’lori Numi si incompatibili eventi, di leggieri s’indussero a credere tal’inevitabile fato. E par, che il ritratto istesso, che ne fecero più da vicino ci scnopra il loro ideato. E che altro vollero essi intendere col pingerlo tutto truce, e furibondo nel viso, se non perchè non era mai da piegarsi a qualunque siasi prece, e sospiro ? E che altro pretesero col pingerlo bendato, se non che la sola nccessità aveva nel suo governo per guida ? E che altro dargli nelle mani quel libro, ove scritte erano le sorti di ognuno, se non che ad onta di qualunque circostanza il tutto avvenir dovea, come appunto stava quivi descritto ? Vero è che i Dei avevano la facoltà di leggere in quel libro gl’eventi ; ma qual prò per essi, e per gl’uomini, se neppur un’apice potevano togliere da quegli indelebili caratteri ? La doglianza di Giove presso Omero di non poter evitare il destino, e campar da morte il figlio Sarpedone ne è un troppo chiaro attestato. Che se poi alcune volte leggiamo negl’antichi autori poter avvenire alcune cose oltre la volontà del fato, tali squarci si spiegano non pel fato detto il destino, ma per la forza, che in se serba la natura di produrre questo, e quell’altro evento di tale, e tanta durata. In tal senso infatti è da intendersi quel di Virg. Æneid. 4. Nam quia nec fato, merita nec morte peribat, non che quel di Cicerone in 1. Phil. Multa autem impendere videntur praeter naturam etiam, praeterque fatum.

{p. 94}

Cap. XIV.

Saturno §

Sonetto §

Ceppo possente d’una stirpe altera,
Fabro d’ogn’avvenir, d’ogn’possanza :
Il Nume è questo, che ogni Nume avvanza,
Da cui vien la genia, che in Ciel impera.
La sua possanza un dì troppo severa
Par che a figli togliesse ogni speranza,
Ebbe primo nel ciel divina stanza
Quando formò de’ Dei la vasta schiera.
Questo è quel Dio, di cui i rei consigli
Fer la moglie tremar, ma i suoi furori
Furo ingannati, e generò più figli.
Perduto in Ciel il trono, e i primi onori
Fra gli Arcadi salvossi da perigli,
Donde piacque istruir gl’agricoltori.
{p. 95}

Dichirazione, e sviluppo §

Chi fù Saturno. Il nume più ammirabile perchè padre de’tre più gloriosi Dei dir si dovrebbe certamente Saturno. La sua crudelià però nol fé riguardar per tale, nè mai ottener gli fece il bel titolo di padre degli Dei a lui per natural dritto dovuto. Campato questi dallo sdegno d’Urano suo padre per cura di Titea, si indocile si dimostrò nei consigli, sì fiero nei tratti, che non sol si fè usurpatore del Regno dovuto a Titano per dritto di primogenitura ; ma con mano audace ancora di uncinato ferro armata sorprese lo stesso suo padre, e devirollo. Quello stesso però, che fece egli a suo padre fatto gli venne da uno de’ suoi figli, nè i barbari consigli di divorare ogni maschile sua prole, si per mantenere inviolata al suo fratello la fede, come per perpetuarsi nel suo regno la sede, gli furono di alcun giovamento, e vantaggio. Imperocchè il torbido suo umore di giorno in giorno sempre più ingelosendo il suo figlio Giove, fù la cagione, per cui obliando questi tutti i dritti paterni con mano ardita lo rovesciò dal Trono, e lo cacciò via dall’ Olimpo.

Suoi viaggi. A tal infausto fato impertanto piegando egli l’afflitto nume il capo, per non essere sempre ramingo in terra veloce i passi mosse verso l’Italia per provar quivi qualche novella fortuna. In umile atteggiamento presentossi al Re Giano, ed intenerito questi alle sue sventure nel suo regno gli permise non solo il soggiorno, ma consigliere altresì lo volle, e compagno sul trono. Pago allora di tali accoglienze Saturno si diede ben presto a mostrare al suo benefattore i più vivi segni della sua gratitudine. Con arte affatto nuova, gli incivilizzò {p. 96}in modo i sudditi, gli benedisse in guisa la terra, che fra quelli ammirossi una inalterabile pace, e nel seno di questa ogni frutto bramato senza stento biondeggiante si vide : Aureaque, ut perhibent, così ne parla Virg. Æn. 8.illo sub rege fuere

Saecula sic placida populos in pace regebant (1)

Suo ritratto. La sua immagine però ha più dell’orribile, che del di lettevole. Rappresentasi egli qual grinzo vecchio curvo di spalle con lunga barba, e con calva testa, mostrando nella fronte due occhi lipposi, e nel volto palesando il travaglio della sostenuta inedia ; nna dentata falce nelle sue mani sostiene, ed un grazioso bambino s’avvolge a suoi piedi. Altri perchè lo confondono col tempo gl’aggiungono sul dorso le ali, ed una ambollina al suo fianco, quelle per dinotar la velocità del tempo, questa il corso sempre uniforme, e costante.

Singolari furono si nelle offerte, che nel modo di {p. 97}ofrire i sacrificii istituiti in onor di questo Dio. Egli perchè si deliziava non poco del sangue umano, perciò non altra vittima che umana gli si doveva sacrificare sugli altari, ove in memoria di aver un dì guidati gl’uomini dalle tenebre della ignoranza alla luce della verità erano candelieri con fiammeggianti lumi. Il modo poi da sagrificarsi le vittime dagli offerenti col capo non velato era la cerimonia in preferenza degl’altri Dei del tutto sua propria(1).

Sue feste. Celebri furono le feste, che dal suo nome vennero dette Saturnali istituite o da Tullo terzo re de’ Romani, o secondo Tito Livio da’ Consoli Sempronio, e Minucio. Queste sebbene nel principio di loro istituzione occupavano un giorno solo, cioè il decimo settimo di Decembre giusta il Calendario Romano, furono però ampliate fino a tre, e quattro, e secondo alcuni, crebbero fino a sette giorni di loro durata. Nel decorso di queste era vietato tenersi senato, insegnarsi nelle scuole, intimar battaglia, o eseguir qualunque offesa. Reciproci regali inviavansi affettuosamente gl’amici, e gli stessi servi ammessi alle mense de’loro padroni, e sovente ancor serviti dagli stessi prendevansi la libertà di commettere alla loro presenza mille piacevoli buffonerie. Tanto ci rammenta Ausonio :

Aurea nunc revocet Saturni festa December
Nunc tibi cum Domino ludere verna licet.
{p. 98}

Cap. XV.

giano §

Sonetto §

Duplice aspetto in Maestà Suprema
Dimostra per donar leggi alla terra
Il Nume della pace, e della guerra,
Che sa riunir in lui speranza, e tema.
Egli fa che il mortal vacilla, e trema
Quando le porte del furor disserra,
E quando il sacro olivo innalza, e afferra.
Ê cagion, che il mortal di più non gema.
Accoppia in lui due ben contrarii affetti,
La speranza, e il timor sostiene a gara,
E li versa del pari in tutti i petti.
Or dà contento, ed or la doglia amara,
Ma grande è più fra due contrarii oggetti,
E di pace il piacer da lui s’impara.
{p. 99}

Dichiarazione e sviluppo §

Chi fù Giano. Se è vero, come pur troppo lo è, che le opere di beneficenza, e di pietà assomigliano le creature al loro stesso Creatore, non fia maraviglia se il Tessalo Giano fatto un di adottivo figlio di Sifeo sterile germoglio di prole, e divenuto quindi re del Gianicolo nell’Italia meritato avesse in virtù delle sue ottime qualità di veder lieto all’albo degli Dei ascritto il suo Nome. Le avvenenti maniere, con cui accolse l’esule Dio Saturno, il liberal genio nel volerlo seco nei consigli, l’ardente deslo in istabilirlo seco stesso nel trono renderonsi tributaria la benevolenza di quel Nume a tal segno, che in grazia di costui non sol vide egli nel suo regno civilizzato ogni animo, appaciato ogni cuore, prosperato ogni evento ; ma miro altresi la sua mente irradiata da celeste senno, e prudenza, colla caparra sicura d’essere un giorno annoverato fra Dei col bel titolo di Dio della Pace(1).

Sue imprese. Stabilita così la sua fortuna l’incomparabile Giano ben sapendo, che la vera gloria, e la perenne felicità per dono del Clelo unicamente si ottiene, mosso da divoti affetti tutte rivolse le sue cure a costruire tempii, ed altari in onor dei {p. 100}suoi Dri, e soprattutto di Giove Re, e Padre degl’altri, di evi con special impegno ne propagò il culto, e ne magnificò con luminose cerimonie la gloria ; quali ottime qualità ammirando i sudditi spettatori per un Nume più tosto, che per loro Re lo canonizzarono benchè ancor vivo.

Suo ritratto. Molto indicativo delle sue qualità è il ritratto, che la Gentilità ne costrusse. Rappresentavasi egli a due facce, detto perciò Bifronte, in memoria d’aver egli diviso un dì il suo regno col Dio Saturno formando entrambi un sol Re ; se pur ciò simboleggiar non voglia la conoscenza del passato, e del futuro, di cui in grazia del detto Nume andava egli fregiato ; che se talvolta con quattro facce raffigurato si mira, presa è l’allegoria dalle quattro stagioni dell’anno, che sotto la sua protezione scorrere comunemente si credeva. Presenta inoltre una bacchetta nella mano qual presidente alle pubbliche strade, ed invece di essa alle volte in molti ritratti una chiave, detto perciò Clavigero qual’inventore de’ chiavistelli delle porte dette per questo Ianua dal proprio suo nome, se pur non dinoti con quella esser egli la porta, per cui sol le umane preci potevano avere accesso presso gli Dei(1) Da ciò si intende perchè in tutti i sacrificii le prime preci erano dirette a questo Dio col proprio nome di Padre comunemente invocato. Quod fuerit omnium primus così Fest. lib. 3. a quo rerum omniuw factum putabant initium ideo ei supplicabant velut parenti.

{p. 101}Suo tempio. Celebre fù il tempio a due porte inalzato a questo Dio da Romolo di comun consenso con Tazio, quale per prescritto del successore Numa sempre dovea tenersi chiuso in tempo di pace, ed aperto soltanto nelle circostanze di guerre ; onde avvenne, che in lode di qualche vincitore Romano soleasi dire : Per lui son chiuse le porte di Giano. Delle porte di questo tempio appunto intende parlar Virg. Nel I. Delle sue Eneide v. 297. riferendo il fausto presagio di Giove a Venere addolorata pel suo figlio.

… dirae ferro, et compagibus arctis
Claudentur belli portae : Furor impius intra
Saeva sedens super arma, et centum vinctus ahenis
Post tergum nodis, fremet horridus ore cruento.
{p. 102}

Cap. XVI.

Genio §

Sonetto §

Nudo, alato fanciullo, e cieco insieme
L’antichità dipinse il nume Amore,
Signor dell’alme, e guidator del core,
Fabbricator d’affanni, e insiem di speme.
Per esso l’uomo or s’ingoraggia, or teme,
Or s’innalza, or cade in folle errore,
Or prova alto diletto, ed or dolore,
Ora gioisce, ed or paventa, e geme.
Tutti i seguaci suoi di pianti ei pasce,
Gl’uomini, e i Numi a rea battaglia sfida
Flagello del mortal fin da che nasce.
Cieco chi il siegue a precipizio guida,
Egli è tormento all’uom fin dalle fasce :
Folle colui, che a un Nume tal si fida.
{p. 103}

Dichiarazione e sviluppo. §

Fra i tanti moltiplici diversi Dei, che finse la delirante Gentilità Nume non avvi al mondo più infausto, benchè benigno all’aspetto rassembri, quanto il presente Dio Genio. Egli qual mascherata Megera sotto grazioso ammanto coprendo orrendissime Arpie tanti cuori avvelena, quanti co’ suoi strali feriscc, Omnia vincit amor, così Virg : quid enim non vinceret ille ? Prevalse al fin contro l’Idra la chiave di Ercole, contro il Cerbero la Sibbilla, contro il Dragone Alcide, contro il Minotauro finalmente Teseo, ma chi scappò mai i micidiali colpi d’amore ? Lo scppe il cielo, ove inoltrando appena la incontrastabile sua forza, che già mosse a tumultuosa discordia tutti ad un tratto quei Numi, e se questi dopo maturo squittinio non avessero rilegato in terra un tal seducente Nume a fargli mietere quelle pene, che seminato aveva nel Cielo, non avrebbero al certo mai più acquistata la antica lor pace. Chi fù Genio. In terra poi disceso questo velenoso germoglio di Venere radice assai più micidiale, ed infetta chi mai spiegar potrà le tante sue causate ruine ? Virtù non vi fù, che dal impetuoso suo soffio non fosse restata abbattuta ; mente non evvi, che da vezzosi suoi diletti non fosse rimasta infatuata ; cuore non mirossi, che da dolci suoi strali non fosse stato corrotto. Col tenero suo piede conculcò ogni altero ; con pargoletta mano tolse a Regi istessi la porpora ; e dietro al suo carro portò superbo incatenato ogni cuore. Quindi si fù, che in ogni tempo non mentitrice la fama assordò la {p. 104}terra, de’suoi impudici trofei. Ben dunque scrisse Ovid : nella lettera 9.

Quem non mille ferae, quem non Steneleus hostis
Non potuit Juno vincere, vincit amor

E nel secondo de Art : volendo annoverare le triste macchie di tal crudelissima tigre dice :

Quot lepores in Atho, quot apes pascuntur in Hybla
Cerula quot Baccas Palladis arbor habet ;
Littore quot Conchae, tot sunt in amore dolores
Quae patimur multo spicula felle madent(1).

Da si barbari intanto, e tristi effetti di questo Dio Genio può oguuno legittimamente conchiudere con quanta sodezza, e maturo consiglio un dì parlava Giove, quando sul nascere di esso prevedendo le future disgrazie obbligar voleva Venere sua madre a disbrigarsi di un tal figlio appena nato. A questa quindi attribuir si deve la colpa, che per sottrarre al giusto sdegno del regnator dell’Olimpo l’amato suo parto, con gelosa cura lo nascose nei boschi, ove col latte di bestie feroci procurò allevarlo finchè giunto non fosse alla età di poter produrre i suoi effetti ; benchè per altro al vederlo Essa contro il suo genio perduto amante della giovanetta Psiche, la prima poi fù per voler del cielo a tracannare l’amarezza di frutto si infetto.

Suo ritratto. Molto grazioso, all’aspetto però, è il tipo di questo tirannico Nume. È egli figurato qual tenero fanciullino con {p. 105}cascante benda sugl’occhi, lutto infiorato di grazie, ed avvenenze sul viso, con bell’arco simbolo delle sue frecce alla mano, con turcasso sugl’omeri, cou porporine, e dorate ali a suoi fianchi, qual’idea di instabilità, e leggerezza(1). Misero pero chi si lascia adescare da tal lusinghiera apparenza. Lo mirera fanciullo di senno, ma lo provera padre di vizii. Lo guardera cieco, ma lo sperimentera tutt’occhio a suoi danni. Lo vedrà ignudo, ma ben ricco lo scorgera a vestirlo di ben mille perversi suoi abiti. I suoi baci gli apriranno ferite ; le sue lusinglie gl’infonderanno veleno ; le sue carezze gli daranno la morte, e tutto odio alfin trovera quel Dio, che amore con delce voce egli appella.

{p. 106}

Cap. XVII.

Plutone §

Sonetto §

Con sette corna attorcigliate in fronte
Con scettro rüidissimo, e pesantc,
Con altissimo capo al par d’un monte,
Che minaccia i mortali in ogni istante.
Che cerca i danni altrui con voglie prontc,
Che scnote il mondo al muover delle piante,
Che versa ognor da lumi un tristo fonte,
E sè stesso a soffrir non è bastante.
Si cruccia, si addolora, e avvien che morda
I labbri spesso nel dolor caduto,
E co’ mugiti il cielo e il mondo assorda.
In svelar il suo duol non è mai muto,
Apre la bocca ognor di sangue lorda
Per bestemiare il ciel, eccovi Pluto.
{p. 107}

Dichirazione, e sviluppo §

Mio pensier non è nel favellar di questo infernale Nume con profusa penna esporre quanto dietro le tracce di Omero, e di Esiodo con bizzarre invenzioni fantasticarono di tratto in tratto i gentili sul Tartaro, e gli Elisii ; sul lor sito, ed ingresso ; su i diversi fiumi, e riviere adjacenti ; su’varii mostri, e larve quivi inabitanti ; e finalmente su altre moltiplici cose a quel tenebroso regno attenenti. Dal trattar tali materie il tenor di questo istituito mi respinge, e mi obbliga perciò a rimettere ad altri fonti i curiosi lettori. La sola esposizione del Nume Monarca con poche circostanze a lui più da presso appartenenti sarà per me unicamente l’obietto.

Chi fù Plutone. Riconobbe Plutone da Saturno, e da Opi non altrimenti che Giove, e Nettuno suoi germani fratelli gli alti gloriosi natali, e caduto non molto dopo dal suo soglio il padre, insiem coi suoi due rinomati fratelli il vasto impero si divise, e sortì in sua porzione, ed eredità, come sopra accennai, il vasto regno dell’Inferno, ove su quelli miseri rinserrati spiriti esercitar poteva ogni dominio qual’assuluto, ed esclusivo padrone. Ad onta però del suo ammirabil potere su i morti Dea in sorte incontrar non poteva, che accettato l’avesse in marito. La sua deformità, la tenebricosa aria del suo regno, le mille penurie quivi galleggianti erano i giusti motivi dei villani rifiuti, che di tratto in tratto dalle pretese Dee riceveva, e se la infelice Proserpina con infame ratto attirata non avesse al suo seno, io mi credo, che scompagnato, e solo rimasto sarehbe perpetuamente sul trono. E chi in vero per soddisfar le sue brame avrebbe voluto infelicitarsi con {p. 108}lui in quel regno, ove in triste vedute sempre era la mestizia, e l’orrore ? Orrore formavano i tre giudici Minosse, Eaco, e Radamante, che là nel campo della verità fra il tartaro, e gl’Elisii alzando inesorabil tribunale senza sensi di pietà decidevano delle mortali sorte in nome, e virtù del tartareo lor Nume. Orrore facevano le tre furie Tisifone, Megera, ed Aletto dette Erinni da Greci, che aggirandosi intorno al trono del lor Sovrano scarme, ma foribonde nel viso, con impazienza attendevano il cenno, onde sfogar contre i delinquenti il lor furore, e straziarli a norma delle prescritte sentenze. Orrore presentavano i miseri condannati, che in diversi, ma severi modi dilacerati, e trafitti, irrequietamonte il fio pagavano delle loro antiche reità, ripetendo con singhiozzi ne’ loro tormenti le parole che li mette in bocca Virgil. Eneid. 6. Diseite iustitium moniti, et non temnere Divos. Orrore facevano le tre parche Cloto, Lachesi, ed Atropo, che tutto di aggirandosi intorno al ministero del tremendo lor fuso troppo a vivo risvegliavano i tristi sensi della brevità della vita, e della mortale fralezza. Orrore finalmente recava quel cerbero custode del tartareo ingresso, che impugnando le tre terribili sue teste armate di acri, e penetrantissimi denti con furor divorava chiunque osato avesse sloggiar via da quel luogo : benchè per altro dicesi essere stato incatenato da Ercole disceso in aiuto di Alceste, addormentato da Orfeo venuto in soccorso di Euridice ; ammanzito finalmente dalla Sibilla resasi sicura guida di Enea nello andare a rivedere il suo amato Padre Anchise.

Suo ritratto. Il ritratto di questo Dio ben corrisponde alla idea della sua infernale maestà. Mirasi in severo atteggiamento assiso sopra un carro di ferro non senza gran forza tirato da neri, e smagriti Cavalli, con chioma irsuta intorcigliata da lunghe corna spuntale dalla abbronzita sua fronte, fuliginoso tutto nel viso, con folta, e nera barba fino al suo petto, mostrando in segno di terrore un ruido scettro alla mano, e stringendo nell’altra le terribili chiave, dette le chiavi della morte in scgno, che nessun del suo regno disserrar mai più {p. 109}poteva quella porta, per cui ebbe una volta in quel luogo l’ingresso(1)

… Facilis descensus Averni
Noctes, atque dies patet atri ianua ditis ;
Sed revocare gradum, superasque evadere ad auras
Hoc opus, hic labor est. Virg. Æneid. 6.

Suoi sacrificii. Il timore più tosto, che l’affetto sembra aver spinti i mortali a far sacrificii a questo Dio de’morti. Comunque pero ciò sia egli sotto i fastosi titoli di Giove infernale, Giove stigio, e terzo Giove veniva comunemente riguardato ; ed a lui insiem colla moglie in segno di onore sacrificavansi nere vacche, sempre però pari nel numero, a distinzione delle celesti Divinità, alle quali in qualunque numero sacrificar si poteva.

{p. 110}

Cap. XVIII.

Bacco §

Sonetto §

Figlio a due genitrici almo, e possente,
Col tirso in man di foglie coronato
Senza provar dolor scherza sovente
Con due gran tigri, che gli sono allato.
Conforto dell’afflitto, ed impotente,
Vince per tutto, e pur non pugna armato,
Ristoro della vita è nominato
Con mille varii altari in orïente.
Amico di piaceri, ed allegrezza,
Or timido, or ardito, or forte, or fiacco
Sprezzator di tesoro, e di ricchezza.
In danzc, e in feste non divien mai stracco
Egli accende il sapere, e la bellezza.
Arbitro d’ogni core, eccovi Bacco.
{p. 111}

Dichirazione, e sviluppo §

Chi fù Bacco. Che lo spirito della gelosia sia il fomento d’ogni fallo, chiaro può scorgersi da quel, che avvenne a Semele disgraziata madre di questo Dio. Mal soffrendo l’iraconda Giunone, che Giove suo fratello, e marito spesso con questa divideva i suoi affetti, con soprafina invenzione pensò disbrigarsi della sua rivale. Prese un dì le apparcnze di Beroc nudrice di quella, e nel petto la voglia le destò di vedere Giove in tutta l’aria di sua maestà. Da tal pensiere presa la Dea nel venir ad esso Giove sotto foggie mortali in grazia gli chiese un favore, e per stige l’obbligò a serbarle la promessa. Manifestò quindi l’incauta donna il suo concepito desìo, e Giove prevedendone le sventure cercò con belli modi frastornarla, ma vincer non potendo la sua durezza, nè dissobligarsi dal giuramento prestato, ratto volò all’ Olimpo, e decorato del glorioso suo ammanto tosto ne scese. La forza delle cingenti sue fiamme pria ancor d’avvicinarsi più d’appresso ingeneri la incinta Semele, e se Mercurio insieme con Giove disceso sollecito sottratto non avesse il figlio alle materne sventure avrebbe quegli pria chiusi gl’occhi alla morte, che aperti li avrebbe alla vita. Scorgendo impertando il gran Padre non potere rimaner superstite quel frutto immaturo impietosito aprì una sua coscia, e quivi l’inchiuse fino a tanto che giunto non fosse alla perfezione richiesta. Trattolo quindi a suo tempo lo diè allo stesso benefattore Mercurio, il quale seco recandolo da alcune Ninfe figlie forse di Atlante {p. 112}presso la Città di Nisa lo fè da quelle con sollecito impogno allevare.(1)

Sue prodezze. Fattosi grande questo Nume diè troppo chiari segni di sua arditezza si in cielo, che in terra ; ivi nel combattere coraggioso contro i Giganti a favor del sno buon padre Giove, e qui nel rendersi padrone dell’ Arcadia, e della Siria con poche forze di uomini, e donne radunate da lui stesso in soccorso : benchè per altro si generoso portossi co’vinti, che sembrò averli conquistati con animo più tosto di giovarli, che di recarli alcun male.

Sue vendette. Tali viscere di Padre però non serbò egli per chiunque ardiva vilipenderlo, ma geloso de’suoi dritti ne prendeva la più cruda vendetta. I frutti di sua collera sperimentò e un Penteo Re di Tebe, che per aver impedito le sue feste fù dalla Madre istessa oltre il consueto per cagion di questo Dio infuriata miseramente trafitto ; e le Meneidi, che per aver lavorato nel giorno delle sue feste, ebbero a perdere l’antica lor forma col divenir pipistrelli ; e finalmente un {p. 113}Licurgo di Tracia, che per aver voluto distruggere le viti sacre a questo Mecenate del vino, ebbe a recidersi le gambe col proprio suo ferro.

Suo ritratto. Ben convenevole inoltre all’indole graziosa di questo Dio è il suo ritratto. Pingesi egli qual fresco, e rubicondo giovane chiamato perciò da Ovidio puer aeternus con bionda capellatura, con corona di Edera sulle chiome(1) con pelle di Pantera cascante dagl’omeri, assiso sopra un cocchio a guisa di botta tirato da Tigri, o da Pantere, mostrando in una mano una bacchetta cinta di pampini di vite, detta volgarmente il tirso, e grappoli di matura uva additando nell’altra. Da ciò ne avvenne, che le Baccanti nel sollennizzar le sue feste al par del lor Dio si adornavano si della pelle di tigre, che del fresco tirso ; onde dalle esterne insegne, e dal furor da cui erano rapite dar chiaro ad intendere in onor di qual nume esse celebravano tal festa.

{p. 114}

Cap. XIX.

Cibele §

Sonetto §

Colle torri sul crin superba, e forte
Si mostra nel poter la Dea Tellura,
Che tutti unisce i pregi di natura,
E per essa il mortal teme la morte.
Ella forma dell’uom spesso la sorte,
Essa di dargli ogni contento hà cura ;
Se manca il suo favor tutto è sventura,
Chè il mondo regge con maniere accorte.
Colla materna man sparge ogni bene,
Di ciò, che vive ella si fà sostegno,
E tutti toglie all’aspre, e acerbe pene.
Non tradisce d’alcuno unqua il disegno,
Nell’opre sue tutto sperar conviene.
Chè dipende da lei dominio, e regno
{p. 115}

Dichirazione, e sviluppo §

Chi fù Cibele. Se in gloria de’genitori cede mai sempre qualunque gloria de’figli, ben scorge ognuno non essere io questa volta nella dura necessità di raggirarmi a lungo pel vasto campo delle gesta di questa gran figlia di Urano, e di Gea, detta comunemente Magna Dea, per esporre con ben purgata penna quanto di più magnifico, e singolare in più libri in suo onore registrato si legge, e descritto. L’essere stata ella l’avventurata madre della maggior parte degli Dei i più gloriosi, che abbia veduto l’olimpo, detta perciò Mater Deum : il non aver obliate le cure de’ mortali ; anzi non ostante il suo grado l’averli maternamente enudriti co’ dolci frutti delle sue beneficenze più care, questo forma per essa la gloria più bella del suo essere, ed il più ammirabile encomio delle sue qualità. I rari pregi adunque del suo ritratto, i sacrificii istituiti in suo onore mi restano unicamente ad esporre.

Suo ritratto. Molto misterioso impertanto, ma assai espressivo è il tipo di questa gran Dea. Rappresentasi ella sotto le sembianze di augusta matrona seduta su d’un carro tirato da leoni, tutta coronata di torri, con una chiave alla mano, ammantata d’una veste vagamente adornata di fiori, con un timpano al suo fianco, tutti simboli delle sue qualità. Ed in vero se madre degli Dei ella è, come non cometerle l’atteggiamento di augusta matrona ? Se la terra è equilibrata nel suo peso, giusta le leggi de’planetarii corpi, come non pingere assisa su ben ordinato carro quella Dea, che per la terra {p. 116}istessa comunemente fù presa ? Se ferocia non fù, che dalle sue tenerezze non fosse stata’già vinta, come non ligare al suo carro animali i più indomiti per natura, ed ammanziti sol per portento ? Se sulla terra son costruite per ornamento, e difesa torri, e castella, come non apporre alle chiome di questa Dea Tellure il glorioso serto di torri ? Se serra nel suo seno la terra nel pigro inverno le sue dovizie, i suoi tesori, e comparir poi li lascia nella ridente primavera, come non dare in mano a questa Dea la cotanto prodigiosissima chiave ? Se la terra variamente tra punge di vaghi obietti il suo seno, come non tempestar di fiori di questa Dea l’ammanto ? Se finalmente quasi rotonda si divisa nel suo globo la terra, come non collocar al fianco di tal Dea un tamburo ?(1).

Suoi sacrificii. Poco convenevoli però erano alla maestà di questa Dea le cerimonie, che precedevano, e seguivano i sacrificii della troia, del toro, e della capra animali, che svenar si {p. 117}doveano nelle Megalesie feste in suo onore. Disponevansi i Sacerdoti detti comunemente Galli, e Coribanti in festevole gara, e mentre alcuni di essi colla statua sulle spalle correvano quasi frenetici per le strade fra il trambusto di più suoni, altri quai buffoni con salti, e strani contorcimenti danzando innanzi ad essa con date cadenze, e variamente percuotendosi alzavano tutti ad una voce alti gridi alle stelle. Altra consimile festa introdussero i Romani ìn memoria del giorno, in cui dalla Frigia ad essi pervenne il culto di tal Dea ; quale festa dall’uso di portare a bagnare nel fiume Almone la sua statua detta venne Lavazione. Gli osceni canti però, che non saprei dire se per onore, o per profanazione ripetevansi da que’sciagurati innanzi al trionfal carro di tal Dea, come ragiona Agost. lib. 2. de civ. Dei meritano esser sepolti nel seno dell’oblio per comun bene, e vantaggio.

{p. 118}

Cap. XX.

Proserpina §

Sonetto §

Truce in volto, e nel tratto aspra Regina,
Che la sua possa dispietata impiega
Contro l’abisso, che discioglie, e lega,
E spesso avvolge in più fatal ruina.
Perchè prigion la sua beltà divina
Ella conosce il suo furor dispiega,
E se al tartaro mai le luci piega
Maggior tormento il guardo suo destina.
Quando a rapirla il fier Plutone si mosse
Ella per dimostrar la sua fermezza
La lunga barba a pelo a pel gli scosse.
E pur perder dovette ogni fierezza,
E rimaner fra quelle orrende fosse :
Anche tristo è il destin della bellezza.
{p. 119}

Dichirazione, e sviluppo §

Sogliono le sventure spesso spesso assaltare il cuor più gentile, onde gloriarsi d’un più nobil trionfo. Questo appunto accadde alla Dea, di cui in quest’ultimo capitolo si parla. Chi fù Proserpina. Nata essa da Giove, e da Cerere altro affetto parve, che non nutrisse nel seno, che il solo deliziarsi di fiori, e perciò ben sovente distaccavasi del fianco di sua madre per andar ne’campi, e quivi divertirsi insiem con qualche ninfa di suo genio in raccogliere gli amati suoi oggetti, e variemente disporli in grasiose maniere. Questo innocente sollazzo però fù non molto dopo la funesta cagione delle sue improviste disgrazie.

Suo rapimento Crucciato Plutone pe’moltiplici successivi rifiuti di tante Dee pretese in sue spose, e tormentato dal continuo pensiere di restar solo sul trono abborrito, e negletto, per alleviarsi da suoi affanni montò un giorno il suo carro, e ratto salendo dalla nera dimora portossi in Lenno nella Sicilia, onde godersi dell’aria di quelle amenissime spiagge. Vide quivi con suo piacere un drappello di vaghe donzelle, che deliziavansi in raccogliere diversi fiori in quel campo, e mentre intento fermava in esse a vagheggiarle lo sguardo vide la bella Proserpina primeggiar fra tutte per le sorprendenti sue doti. Tal vistosa figura pose in fiero tumulto i suoi affetti, e spinto dalla forza delle suscilate fiamme cieco divenuto ad ogni dritto e ragione rapido corse ad involarla. Resistè alle sue insolenza la Dea, e strappandogli per disprezzo la barba, a tutto potere ingegnorsi scappar dalle sue mani. Affollaronsi quinci, e quindi a tal veduta le stupite compagne, e con alti gridi, {p. 120}ed amare querele cercarono confondere ne’suoi consigli l’inumano Rattore, ma questi prevalendo nella forza, e sordo facendosi alle doglianze barbaramente rovesciò sul carro la preda bramata, e con rapida velocità seco la menò nel tartareo suo regno per farla seco sedere in qualità di sposa sul trono(1).

Scorgendo impertanto l’addolorata Dea, che tutte le premure dell’afflitta Genitrice altro in tutto non le avevano potuto impetrare, che una dimezzata libertà, come cel descrive Ovid. Et Dea regnorum numen comune duorum. Cum matre est totidem, totidem cum coniuge menses. depose ogui altra novella speranza, e cedendo al sovrano volere rivolse il suo affetto per legge di sola necessità all’una volta odiato suo sposo : ma poi succrescendo di tratto in tratto l’a more divenne al fine di esso sì gelosa, che ravvisandolo con soverchia parzialità trattar colla figlia di Cocito per nome Menta ingelosita cangiò questa in erba dello stesso suo nome : onde così non avendo il marito con chi dividere gli affetti fosse ella sola del cuor di quello unicamente l’obbietto.

Suo ritratto.

In diversa forma fù effigiata questa Dea. La rappresentarono alcuni in triste atteggiamento di far resistenza alle furie del rattore Plutone, e con alzate mani raccomandarsi alla pietà delle accompagnatrici sue ninfe. Altri la pinsero in aria di maestà seduta al fianco di suo marito su d’uu carro tirato da neri cavalli mostrando un gentil fardello di narcisi, onde rammentar sempre la causa, e la circostanza, per {p. 121}cui sposa di quel Nume addivenne. Per quest’ultimo segnale de’ fiori, ch’ella presenta con accigliata pupilla presero occasione i Mitologi di dichiararla spogliata degli antichi sensi di piacevolezza, ed urbanità, e tutta penetrata da sentimenti di orgoglio, e di fierezza a tale segno, che nell’essere agitata dalle sue furie aggiungeva stranamente tristezza a tristezza in quel regno di lutto, e sepelliva quei miseri condannati in un abisso di raddoppiate sciagure : Imperitat furiis, et dictat iura Megera. Prud. Aur.

Suo culto.

In più nazioni diffuso era il culto di questa Dea. Il più speciale è da dirsi quello, che ottenne nella Sicilia sotto il titolo di fecondatrice della terra, e tanto era il rispetto, che quel popole nudriva per essa, che il giuramento dato in suo nome non solo era il più solenne, ma il più inviolabile ancora, sicche la sola morte, che vale a rompere ogni ligame, poteva esimere delle obbligazioni contratte in forza di atto si sacro.

{p. 122} {p. 123}

Parte seconda

Delle divinita astratte. §

Che la virtù madre, e uutrice d’ogui vero pregio, e grandezza meriti dagli uommi esser venerata qual Dea non v’è chi o stoltamente l’ignori, o sfacciatamente lo neghi. Le ammirabili sue qualità, ed i prodigiosi effetti che sotto le diverse sue specie ne’ mortali mirabilmente produce la fan conoscere, qual’è veramente, la ristauratrice fortunata dell’umana natura, degua perciò d’ogni ossequio, ed amore. Maraviglia dunque non fia, se la Gentilità delirante non potendo iu astratto, ingegnossi delinear sotto concrete forme di tal’avventurata madre le gentilissime figlie, onde così pel ministero degli occhi facendo passare al cuore più senibilmente le loro imagini vistose risvegliasse negli animi di tutti i più affettuosi sensi per esse, acciò rapiti in tal guisa dalla dignità del portento, lasciandosi manudurre da guide si belle potessero ad onta dell’umana fralezza ascender di leggieri all’alto monte della immortalità, e della gloria. Ma che il vizio poi degno sempre di vitupero, e d’infamia si per sua natura, che per le funeste sue conseguenze fosse stato da que’sciagurati al par delle virtù divinizzato ancor esso sotto le diverse sue forme, io al certo non l’intenderei {p. 124}se non pensassi, che non forza di amore, ma il timore forse di essere da tali mostri infelicemente assaliti dovè esser la infausta cagione, per cui per tenerli mai sempre lontani se ci mostrarono da vicino ossequiosi, ed amici. Siasi però come siasi proseguendo io le stolte loro tracce pingerò nella più aggiustata divisa insiem colle principali virtù anche i vizii, conchiudendo questa seconda parte colle descrizioni delle quattro stagioni dell’anno anohe esse un dì tenute in gran venerazione, ed ossequio.

{p. 125}

Capitolo I.

Verità §

Sonetto §

Chi è mai costei, che eterna maraviglia
Desta nell’alma, e l’incoraggia, e guida ?
Chi è mai costei che ogni periglio sfida,
E nel sembiante agli Angioli somiglia ?
Chi è mai costei, che la ragion consiglia,
Nuda del tutto, e in pochi cor s’annida ?
Chi è mai costei, che ad un cristallo affida
Le proprie forme, e al retto sol s’appiglia ?
Chi è mai costei, che da ciascuno odiata
Se stessa a palesar giammai non resta,
Costante più, quanto è di più sprezzata.
Che del par lieta in calma, ed in tempesta
Figlia del tempo, che l’aspetta, e guata.
Sappi mortal, la Veritade è questa.

Annotazioni §

Questa bella virtù, quanto degna in se stessa, altrettanto disprezzata da mortali per cagion del perverso lor animo pingesi nuda per dimostrare la sua semplicità, e schiettezza. Porta in mano uno specchio per additar, che essa non può esser guardata, che da se stessa soltanto. Dicesi figlia del tempo, che aspetta, perchè al solo tempo si appartiene scovrir la verità, la quale, al par del sole, che può essere intercettato, ma non mai suffocato dalle nubi, può restar per poco tempo nascosta, ma non mai del tutto depressa, giusta la massima passata oggi in proverbio : Veritas nunquam latet. Siamo pertanto amanti di si bella virtù giacchè la sua nudità non deprava, ma edifica, e preghiamo Dio ad infonderci un tale spirito colle voci dì Davidde Ps. 118. Ne auferas de ore meo verbum veritatis usquequaeque.

{p. 126}

Capitolo II.

Innocenza §

Sonetto §

Tenero lanciullino, ed impotente
In largo pian cinto dall’erbe, e fiori,
Presso un orrido Drago in lui non sente
I soliti al mortal folli timori.
Non, cura il rischio atroce a lui presente,
Nè pur cangia del volto i bei colori :
Dà il pan, che mangia in bocca al rio serpente,
Quindi scherza con lui scevro da orrori,
Ride all’altrui spavento, e assicurato
Palpar la lingua al crudo mostro pensa,
E neppur vede il suo terribil stato.
Mortal se vuoi di lui la conoscenza,
Guardalo, e digli in cor addolorato :
Di nulla sai temer bella Innocenza,

Annotazioni §

Bene assai a mio credere si condottarono i Gentili nello adombrar il bel pregio della innocenza sotto le rappresentanze di un tenero fanciullo. E da chi altro mai, eceettuati i bambini con poche anime avventurate per la divina grazia, che le cinge, e sostiene, un tal candido giglio oggi illibato si serba ? Che poi il detto fanciullo si pinge presso orrido Drago, che con mano di amore del proprio pane alimenta, questo troppo chiaro ci scuopre, che la innocenza non sa temere perigli ad onta d’ogni sinistro accidente, giacchè al dir di Curzio lib. 6. Securitatem adfert innocentia. Sebbene però esule da mondani cuori ordinariamente ne vada la bella innocenza, bisogna pur non perderci di animo nelle comuni sventure, ma far, che siccome il disordinato affetto ce la tolse, un bel ordinato amore ce ne faccia fare nuovamente l’acquisto, oude conseguire la beata eredità, giacchè sta scrittu Psalm. 24. Innocens manibus, et mundo corde… accipiet benedictionem a Domino, et misericordiam a Deo salutari suo.

{p. 127}

Capitolo III.

Giustizia §

Sonetto §

Vergine altera, taciturna, e cheta
Con grave sguardo, e con sereno aspetto
Senza sentir di tema il vil difetto
Siede maestosa, e non è trista, o lieta.
Due fanciulle ha vicino, ed alla meta
Di gran disegno volge l’intelletto,
Cura del tutto ognor si nudre in petto,
Che alcun si accosti proibisce, e vieta
Nemica di tesori, e di ricchezza
Solo il giusto con essa al mondo giova ;
Dà la mano agli oppressi, i forti sprezza.
Spada, e bilancia ha in man, con questa prova
Scandagliare, e punir dritti sol prezza
Giustizia è scudo all’uom quando la trova.

Annotazioni. §

Quella gran dote, per le quale sola, al dir di Cic. lib. 1. de off. vengono i mortali decorati col bel titolo di uomini dabbene è appunto la giustizia, mentre per essa non uscendo l’uomo dalla sua sfera sarà amico di ogni altra virtù. Vien essa dipinta in atteggiamento di Vergine maestosa er simboleggiare la sua incorruzione, e la sua libertà da alcun ligame non avvinta. Vien fiangheggiata da due fanciulle per indicare il suo scopo di mantenere intatta nei popoli le due amate sorelle la innocenza, e la pace. Mostra finalmente un sembiante non tristo, nè lieto per significar esser proprio di chi l’amministre accoppiar mirabilmente la severità alla clemenza. Essendo intanto la giustizia la base di ogni virtù sia ognuno amante di essa, ed operi sempre a tenore de’suoi dettati se non vuol trovar che temere nel dì de’suoi conti. Prenda dunque in buona parte quella massima dello Ecc. 18. Ante iudicium para iustitiam tibi, et in cospectu Dei invenies propitiationem.

{p. 128}

Capitolo IV.

Pace §

Sonetto §

Donna, che vince i pregi di Natura,
Che porta al crin serto di verde alloro,
Versa a una man ricchezze a dismisura,
Che fanno della terra ampio ristoro.
Nell’altra man, che spinge all’uom sicura
Porta l’olivo con gentil lavoro,
Ilare, grata, generosa, e pura
Pinge ne’gesti suoi gioia, e decoro.
Dal Ciel, dal mondo tutto è venerata,
Che accende al cor d’ogni piacer la face,
E quanto più si asconde è più bramata.
Di ben, di guadio fonte almo, e verace,
D’arti, e di scienze sede appien bëata
Vera figlia di Dio quest’è la Pace.

Annotazioni §

La pace serenità della mente, tranquillità del euore, vincolo di carità, gioia in somma della terra vien dipinta in atteggiamento di Vergine coronata d’alloro, perchè siccomo questa foglia non cangia mai colore ad onta d’ogni intemperie dell’aria ; così essa a scorno d’ogni sinistro accidente non fa provar disturbo a quel cuore che caramente l’alberga. Le ricchezze poi, che versa con una mano, e l’olivo, che porge graziosa coll’altra sono i simboli di quei veraci, e permanenti beni, che la stessa nel mondo sa mirabilmente produrre. Da tal riflesso almeno impari ognuno ad esser figlio di pace se brama essere figlio di Dio, giacchè sta scritto Matt. 5. Beati pacifici quoniam filii Dei vocabuntur.

{p. 129}

Capitolo V.

Pietà §

Sonetto §

Leggiadra donna d’un gran monte in vetta
Siede con dolci sguardi, e dolci modi,
Gl’infelici tuttor chiama, ed aspetta,
Occulta si palesa, odia le lodi.
Dissipa i fieri inganni, e l’empie frodi,
La sopìta virtù risveglia, e alletta,
Geme all’altrui tormento, il duol rispetta,
E al mesto prigionier discioglie i nodi.
Regge un timon colla sua destra mano,
L’altra sparge oro in questa parte, e in quella,
E nulla cura il vil piacer mondano.
Tien la cicogna a piedi, ed è sì bella,
Che figlia sembra del fattor sovrano ;
Questa è pietà della bontà gemella.

Annotazioni. §

La pietà dolce istinto de’ cuori ben fatti pingesi seder su d’un monte per indicare l’altezza, cui si sublima chi la pruova. Scorgesi reggere un timone, perchè essa è nel mar della vita un’ abil nocchiere. La cicogna poi, che fingesi tener stretta a suoi piedi manifesta ben chiaro le pruove del naturale gentil suo genio nel carattere appunto di questo uccello, che sempre più sollecito vive nell’allevare i suoi figli. Or se è vero, che la pietà al dir di Cicerone 2. de orat. Offre segni di gran lode : Pietati summa tribuenda est laus. come non sarà poi degno di somma lode, e compenso al cospetto di Dio, e degli uomini chi nel petto gelosamente la nudre ? Scolpisca ognun dunque in mezzo al cuore la bella massima dell’Apost. 1. Tim. 4. Ineptas, et aniles fabulas devita : exerce autem teipsum ad pietatem. Nam corporalis exercitatio ad modicum utilis est : pietas autem ad omnia utilis est promissionem habens vitae, quae nunc est, et futurae.

{p. 130}

Capitolo VI.

Fedeltà §

Sonetto §

Con biondo crin cinto di verde ulivo,
Con bianco ammanto una gentil donzella,
Porta a una mano amabil tortorella,
Seguitata da un can svelto, e giulivo.
Tien nell’altra una picca, e l’occhio vivo
Par che penetri il core, e in quel favella
Nella semplicità par cosi bella,
Che ti versa nel sen di gioia un rivo.
D’essa l’imperio passa oltre la morte,
Cade per lei qualunque pena amara,
E dan dolce piacer le sue ritorte.
Da leï ogni virtù mortale impara
Questa che rende appien dolce ogni sorte
E fedeltà che al mondo d’oggi è rara.

Annotazioni. §

Molto espressivi sono i caratteri di questa bella virtù detta dal divin Metastasio l’arabe Fenice. Essa si dipinge coronata di ulivo perchè la sola fedeltà vince ogni ostacolo. Lattortora poi, che stringe nella mano ed il cane che costane si tiene dietro i suoi passi son veramente i simboli d’un’animo schietto e fedele. Che se finalmente d’una picca armata si scorge tutto é per far fronte alla menzogna, ed alla calunnia, che la vorrebbero conculcata, e depressa. Ma oh nostra confusione ! Questa bella gioia in quanti cuori ricetta ? Io nol sò ; sò però assai bene, che Salomone nè Proverbii al 20 quasi sbalordito a tal riflesso esclama : Virum fidelem quis inveniet ?

{p. 131}

Capitolo VII.

Speranza §

Sonetto §

Donna vaga qual Sol dell’ali cinta
Fugace, ma la segue il mondo tutto,
Sembra, che al ben d’ognun si mostri accinta ;
Ma non ascolta mai querele, e lutto.
Con una mano a ognun dona la spinta,
Tien l’altra un vaso d’ogni umore asciutto,
Tien nel volto la gioia appien dipinta ;
Ma dà sol fiori, e si ritiene il frutto.
Dalla culla alla tomba è all’Uom sostegno
Promette sempre negli avversi guai,
A chi assicura un trono, e a chi dà un regno.
Ma le promesse sue non compie mai,
Speranza io veggo chiaro in ogni segno,
Prima nascesti, ed ultima morrai.

Annotazioni. §

La speranza vera fonte di vita, primo, ed ultimo conforto degli uomini pingesi qual vaga donna, che con una mano spinge ognuno ad ogni benchè ardua impresa ; perche la sola speranza fa, che vadino in nanzi, e proseguano costanti nelle loro opre i viventi. Quel vaso vuoto però, che nell’altra mano ella stringe oh quanto vale a disingannarci, mentre un tal simbolo troppo chiaro disvela, che essa molto promette, e poco, o nulla concede. Se è vero però, che solo chi in Dio spera non resta giammai confuso, giusta quel dì Davidde Psal. 26. in Domino sperans non infirmabor, impariamo a non riporre le nostre speranze negli uomini fallaci, ma sol confidare in quel Dio verace e che à suoi confidenti promette con infallibil parola il vero bene, e la gloria. Qui fiduciam habet mei haereditabit terram, et possidebit montem sanctum meum Is. 57.

{p. 132}

Capitolo VIII.

Carità §

Sonetto §

Femina vaga con piangenti lumi
Vittima geme di fatal dolore
Presso una rea prigion sembra, che muore
Ancorchè invoca indarno vomini, e Numi.
Versa dagli occhi ognor due caldi fiumi
Mentre geme tra ferri il Genitore,
Stende le braccia a lui con dolce amore
Condannando del mondo i rei costumi.
E per mostrar d’amor l’opra più bella
Al vecchio, che per fame è fatto un gelo
In bocca dà la filïal mammella.
Lo toglie a morte con sì nobil zelo,
Mortal la mira, e dì a ciascuno è quella
La carità, che sol si trova in Cielo.

Annotazioni. §

Le doti di si bella virtù effigiata setto le sembianze di contristata donzella piangente alle carceri del disgraziato suo Padre, che col proprio latte nudrisce per prolungargli la vita son troppo note a chiunque hà letto nelle istorie romane un tal fatto. La esperienza poi, che molto chiaro si scuopre qual poco conto oggi si faccia di tal principale virtù è stata la ragione, per cui nella morale del sonetto si è conchiuso, che essa nel cielo soltanto riconosce il soggiorno. Quanto però s’ingannano i mortali sù tal fatto abbastanza rilevasi dalla necessità di tal virtù per ben oprare, essendo essa al dir di G. Cristo in S. Matt. 22. il cardine, ove poggia tutto lo spirituale edificio. Nudra dunque ognun nel cuore si necessaria virtù, ricordandosi sempre di quel, che scrisse agli Ebrei al 13. l’Apost. S. Paolo : Caritas fraternitatis mancat in robis.

{p. 133}

Capitolo IX.

Providenza §

Sonetto §

Vaga matrona di gentil sembianza
Versa da un urna un sempre egual ruscello,
Che in ogni dì disseta e questo e quello,
E l’onda sempre nel suo corso avvanza.
Segna con verga il globo, e la possanza
Palesa dalla reggia al vile ostello,
Ciascun l’invoca, ed essa in ordin bello
Non inganna d’alcun mai la speranza.
Providenza è costei, che fa sereno
L’uom, che con essa ogni travaglio sfida,
Chè il materno suo amor non vien mai meno.
Madre, Nudrice, Condottiera e Guida
Miseri, e grandi tutti accoglie in seno,
Nè sa tradir chi al suo poter confida.

Annotazioni. §

La providenza ristoratrice delle pene de’mortali pingesi con urna, ed una verga, onde ombreggiare i suoi benefici influssi. E non è forse quell’urna, da cuì versa un sempre eguale, ed indeficiente ruscello atto a dissetar nelle sue voglie ognuno il più espressivo, e sublime tipo di sua beneficenza, e liberalità ? E quella verga, con cui segna il globo non mostra evidentemente il vasto, ed universale suo governo ed impero ? Or se tanto seppero ideare i Gentili, che poi, dobbiamo noi dire della providenza di quel Dio, nel quale vivimus, movemur et sumus. Aet. 17. Buttiam dunque con cuor docile nelle sue mani le nostre sorti giusta la bella istruzione dell’Apostolo Pietro : Omnem sollicitudinem vestram proiicientes in eum, quoniam ipsi cura est de vobis. 1. Petr. ?

{p. 134}

Capitolo X.

Amicizia §

Sonetto §

Donna, che abbraccia un sempre verde alloro,
Che alla sinistra mano ha un cor piagato,
E un papiro le pende al manco lato
Esprimendo nel volto alto decoro.
Essa vince ne’pregi ogni tesoro,
Ogni affanno da lei vien calpestato,
Che per giovare altrui scorda il suo stato,
Fonte inesausta di divin ristoro.
Nemica d’interessi ognor sincera,
Che la vera virtù regge, e conserva,
Docile, giusta, nè mai truce, o altera.
Questa sol può sprezzar sorte proterva ;
Ecco l’emblema di amicizia vera,
Che ognun la vanta, e che nessun l’osserva.

Annotazioni. §

L’alloro, ed il papiro son veramente i caratteri della sincera amicizia : quello per indicare la incorruttibilità, questo per scovrire la stabilità de’suoi precetti. Ma chi oggi è fedele amico di si bella virtù ? Ahi ! Di quanti potrebbe dirsi quel di Salomone Prov. 20. Virum fidelem quis inveniet ? Se è vero però, che Dio non teme chi il prossimo con sincerità non ama al dir di Giobbe al 6. Qui tollit ab amico misericordiam timorem Domini relinquit, siamo amici di si bella virtù tanto da Dio inculcata per essere così amici di colui, che disse Ioan. 15 Vos amici mei estis si feceritis, quae ego praecipio vobis.

{p. 135}

Capitolo XI.

Misericordia §

Sonetto §

Donna sublime con pietoso aspetto
Apre le braccia, e tutti al seno invita,
Cento fanciulli accoglie al proprio petto,
E la destra mammella indi l’addita.
Quindi la preme con materno affetto,
Con quel latte li dà novella vita,
Al misero, all’oppresso, ed all’abietto
Porge benigna in ogni tempo aïta.
Non paventa il rigore, i torti scorda,
Nè per offesa mai cangia desìo,
Nè in alcun tempo alle preghiere è sorda.
Mortal odi chi è questa, e nel tuo fio
Dell’alta sua pietà sol ti ricorda,
Misericordia è lei figlia di Dio.

Annotazioni. §

La misericordia virtù veramente divina pingesi in figura di donna, che preme la destra sua mammella in bene degli altri, perchè con questa più abbondante di latte sogliono le madri allevare i più cari figliuoli. Lacnde qual sostegno de’miseri in Atene, ed in Roma venne con singular onore riguardata, e più tempii s’innalzarono in suo onore. Bella virtù ! Da questa deve farsi rapire chiunque brama prestare a Dio sacrificio accetto, e gradito, giusta quel del Ecc. al 35. Qui facit misericordiam offert sacrificium, e chiunque anela richiamarsi perciò tutte le grazie, e le benedizioni del Cielo. Qui sequitur iustitiam, et misericordiam inveniet vitam, iustitiam, et gloriam Prov. 21.

{p. 136}

Capitolo XII.

Allegrezza §

Sonetto §

Donna gentil, che immota ognor si stà,
Nè per stanchezza mai raffrena il piè,
Serto rëal colla sinistra dà,
E talor d’un pastor ne forma un Rè.
Con la man destra un’ ancora poi fà
Fissare al suol, che mobile non è,
Chi questo bel problema scioglierà
Scorgerà quello, che non trova in sè.
Donzellette, e fanciulli in ogni dì
Essa a se chiama quanti averne può,
Ognùn ride, e con lei pronunzia il sì
Tal’emblema palese or io vi fò,
Allegrezza è costei, che in me finì
Amica de’ fanciulli, e a vecchi nò.

Annotazioni. §

L’allegrezza dolce moto del cuore pinta venne sotto l’aria di giovane donna, perchè il sesso feminile nell’età verde è sempre lieto. Pingesi in atto di dare real serto, e di formare d’un pastore un Re, perchè un cuore allegro sembra esser maggiore degli stessi Monarchi. Porta finalmente l’ancora per denotar la gioia de’ naviganti sulle mosse di giungere al desiato lor lido. La migliore, ed unica allegrezza, che possa assaggiare un cuore non è, nè può essere quella, che risulta dal possesso de’ beni mondani, come quella, che sempre è mista col dispiacere, giacchè sta scritto Prov. 14 Risus dolore miscebitur, et extrema gaudii luctus occupat ; ma quella sibbene, che viene da Dio, onde Isaia al 6. diceva. Gaudens gaudebo in Domino, et exultabit anima mea in Deo meo. Quia induit me vestimento salutis, et indumento iustitiae circumdedit me quasi sponsum decoratum corona, et quasi sponsam ornatam monilibus.

{p. 137}

Capitolo XIII.

Felicità §

Sonetto §

Assisa in ricco tron vaga Regina,
Col regio serto il caduceo sostiene,
E dalla faccia amabile, e divina
Spirano di contento aure serene.
All’altra man, che verso terra inchina
Hà corno eletto, che ogni ben contiene,
Labro söave, che al sorriso inclina,
Sguardo, che cinge al cor dolci catene.
Spirano i gesti suoi ogni dolcezza,
La sua voce nel cor piacer rinnova,
Tal che in lei stà riunita ogni bellezza.
Ogni contento l’Uom per essa prova,
Questa è felicità vera ricchezza,
Che l’uom sempre ricerca, e mai non trova.

Annotazioni. §

La felicità mostra per sua insegna il caducco, onde designare, che con quello essa raddolcisce, e quasi addormenta ogni male morale, e spesso ancor fisico. Addita inoltre il corno dell’abbondanza qual simbolo, che niente manca a chi è felice. Ma chi mai è felice ? Mille, mille cese diconsi da Scrittori sulla felicità ; ma di tutte una sola mi appaga, quello cioè esser felice, che a Dio fonte di felicità sol vive, ed in lui centro d’ogni bene soltanto confida, giusta quel di Davidde Psal. 143. Beatum dixerunt populum, cui haec sunt : beatus populus, cuius dominus Deus eius.

{p. 138}

Capitolo XVI.

Fama. §

Sonetto §

Garrula donna, irrequïeta, alata,
Che silenzio, e ritiro insiem abborre,
Il mar, la terra, e il mondo tutto scorre,
Onde l’opre d’ognun narra, e dilata.
Il male, e il ben palesa ognor sfrenata,
Dall’uno, all’altro polo a un punto accorre,
Nè alla sua voce si può forza opporre,
E quanto più si cela è più ostinata.
Porta due trombe il regno, il tron, l’impero.
Biasma, o decanta, e saper tutto chiede ;
Benchè talor confonda il falso, e il vero.
Fama è costei, che ognun le presta fede,
I morti, e i vivi svela al mondo intero.
E chi amica non l’hà spento si vede.

Annotazioni. §

La fama, che veloce correndo dall’uno all’altro polo delle altrui azioni curiosa s’informa, e loquace favella essa fù creduta messaggiera di Giove, e sempre riconosciuta per annunziatrice indifferente della verità, e della mensogna, come simboleggiano le due trombe, che le adattarono alle mani. Essendo dunque così procuriamo di essere amici della fama non già coll’ergerle tempii, come dall’antica Roma scioccamente si fece ; ma sibbene coll’insistere sempre alle opere buone, acciò conscia essa del nostro ben fatto dia fiato alla tromba onoratrice, e renda nel mondo glorioso, ed immortale il nostro nome, memori di quel che scrisse l’Eccl. al 41 15. Curam habe de bono nomine ; hoc enim magis permanebit tibi, quam mille thesaurs pretiosi, et magni.

{p. 139}

Capitolo XV.

Occasione §

Sonetto §

Donna nuda, ed alata il piè veloce
Rapida muove, si presenta, e fugge,
Come Meteora, che le selve adugge,
Passa come passar suole una voce.
Crinita fronte porta, ed è precoce
Il suo favor, che se al mortal mai sfugge
Non più ritorna, e l’uomo invan si strugge
Nel pentimento, e nel rimorso atroce.
Porta un rasoio nella destra mano,
Che tronca nel fuggir qual sia baldanza,
Tien l’altra un velo, e l’alza in modo strano.
Covre questo del bene ogni sembianza,
Ecco l’Occasïon, che l’uomo invano
Che torni a voti suoi tien più speranza.

Annotazioni §

Secondo la iconologia di Cesare Ripa, ed al parer di varii Scrittori l’occasione è dipinta con una crinita fronte, e tutta calva da dietro, onde ognuno avvertisse, che se ella fugge vano è tentar di afferrarla. Porta il rasoio, perchè con quello recide ella la speranza di colui, che incauto la lasciò scappare. Assai dì più mostra quel velo, che innalza, mentre con esso velando gli occhi fa sì, che l’uomo non ri accorga della occasione offertasi, e per tale ignoranza la perde. Essendo dunque così impari ognuno a non lasciarsi fuggir di mano le occasioni, che presentansi atte a promuovere i suoi vantaggi, e molto più quelli dello spirito, che unicamente importano, ricordandosi sempre di quel, che scrisse Isaia al Cap. 55. 6. Quaerite Dominum dum inveniri potest ; invocate cum, dum prope est.

{p. 140}

Capitolo XVI.

Travaglio §

Sonetto §

Robusto atleta con sudori, e stenti
Nel foco, in terra, e in mar fissa la mano ;
Or vicino tel vedi, ed or lontano
Tra mille diversissimi strumenti.
Or la penna, or l’aratro, ed ora a venti
Dispiega i lini, e par, che il credi insano,
Al mare, al fiume, al bosco, al monte, al piano
Non tragge mai da suoi sudor contenti.
Rapido a questo, e a quel par che s’appiglia,
Par che di tutto prende ei sol governo
Ratto così che fa inarcar le ciglia.
Il nemico comune in esso io scerno,
E se saper chi fia genio consiglia :
Esso è il Travaglio all’nom compagno eterno.

Annotazioni §

Il descritto atleta, che in mezzo a tanti laboriosi, e diversi esercizii incessantemente si aggira, e con dolore sempre si versa dà con tali attribuzioni la vera idea del travaglio eterno compagno dell’uomo per la sentenza contro lui fulminata dall’Eterno nell’Edem. Gen. 3. Sebbene però da tal ritratto chiaro rilevasi quanto per l’uomo penoso sia il travaglio, pur chi seriamente riflette essere il giusto travaglio al dir di Tullio lib. 1. de Orat. condecorato da mille premii, ed onori, invece di fuggirlo atterrito, intrepido, e con piacere ne sosterebbe l’amarezza per gustarne un tempo la desiderata dolcezza, giusta la frase dell’Apost. 1. Cor. 3. Unusquisque propriam mercedem accipiet secundum suum laborem.

{p. 141}

Capitolo XVII.

Rimorso §

Sonetto §

Uom scarmigliato, umil, tremante, oppresso
Con una man si stringe un serpe in seno,
Tien l’altra un nappo di letal veleno,
Col qual cerca di dar morte a se stesso.
Col guardo a terra timido, e dimesso,
Non osa alzarlo verso il ciel sereno,
Ogni raggio del Sol gli par baleno,
Mira gemendo in tutto il proprio eccesso.
Freme, lagrima, spia, fugge, e s’arresta.
Fà la tema di lui fatal governo,
Calma non prova mai tutto è tempesta.
Se stesso abborre e fa di se reo scherno,
Straccia il crin, morde il labro, e il suol calpesta,
Ecco il Rimorso al cor verace inferno.

Annotazioni §

Il carnefice più crudo, che dilacera l’uomo veramente è il rimorso. La imagine di questo sventurato uomo, che stringesi un serpe al seno, e per disperazione vuol abbeverarsi di quel mortale veleno, che serba appunto in un vaso, onde compiere gli angustiati suoi giorni troppo chiaro ci dimostra il rimorso chi sia, e con quanta ragione verace inferno si appella. Se è vero però, che il vero rimorso è la funesta ricordanza del male commesso attendiamo a tenerci lungi dalla causa se vogliam essere liberi da effetto si triste ; altrimenti all’invano spereremo di tenerci spediti da tormentatore si fiero, e proveremo coll’esperienza con quanta ragione scrisse Davidde : Fuerunt mihi lacrymai meae panes die, ac nocte dum dicitur mihi quotidie : Ubi est Deus tenas. Psal. 41.

{p. 142}

Capitolo XVIII.

Collera §

Sonetto §

Con mezza veste orribile, e feroce
Alata donna di colore ardente,
Con sguardo acceso, e suffocata voce
Cinta nel seno da letal serpente.
Il crin si strappa, e muove il piè veloce,
Vibra crudo pugual con man possente ;
La precede un lïon tremendo, e atroce,
E al precipizio suo corre repente.
Anela, geme, suda, e in modo strano
Cerca di tutti far crudo macello,
E morde per furor la propria mano.
Mortal rifletti a un sì fatal modello,
Se vuoi saper che asconde un tale arcano :
Collera è questa di ciascun flagello.

Annotazioni §

E chi non direbbe sufficienti ad indicare il gran malo della collera i surriferiti caratteri di vesta lacera, di colore ardente, di crine disciolto, e di altre strane sue attitudini ? Eppure i Gentili per meglio farne conoscere il danno la fecero precedere da un Leone, onde ognuno ravvisasse di quale eccesso è capace questa belva quando è stizzita, e quel pugnale, che con forte braccio crudelmente ella vibra non indica forse ben chiaro le mortali ferite, che apre essa nel cuore ? Se dunque tanti danni cagiona impari ognuno a non essere il flagello di se stesso rammentandosi in qualunque dura circostanza di quel, che scrisse Giobbe al 5. Virum stultum interficit iracundia.

{p. 143}

Capitolo XIX.

Vendetta §

Sonetto §

Donna di truce volto, e guardo fiero,
Che viperco flagello in man si porta,
Feroce, alata in portamento altero
Che l’opre spïa cautamente accorta.
Alza un’ardente face, e il mondo intero
Mentre che incende il suo furor conforta :
Volubil ruota è a passi suoi di scorta,
Ed un timon, che scorre il salso impero.
Livida spuma il crudo labro versa,
Opre orrende eseguir vola, e s’affretta
Di sangue intrisa, e di veleno aspersa
Miser colui, che nel suo sen ricetta
Questa ad opre di sdegno ognor conversa
In odio al mondo, e al Ciel crudel vendetta.

Annotazioni §

Il flagello di vipere, e la face accesa, che nelle sue mani stringe la vendetta ben dimostra il crudo suo genio di distruggere quanto mai le si para d’avanti. La ruota, che le guida i passi simboleggia la prestezza del vindicativo nel compire suoi rei disegni, ed il timone dimostra, che essa si aggira da per tutto in mare ed in terra perseguitando chiunque l’abbia fatto qualche onta. Quanto poi sia questo mostro da evitarsi basta il solo esempio dell’ Imperatore Augusto, che al dir di Svetonio : Nihil obliviscebatur praeter iniurias. Questo fatto varrebbe a confondere ogni vindicativo, che per dar la vinta alle sue passioni dietro si butta il comando là nel Levitico al 19 registrato : Non quaeras ultionem, nec memor eris iniuriae civium tuorum.

{p. 144}

Capitolo XX.

Crudeltà §

Sonetto §

Donna tinta di sangue il volto, e il manto
Succinta veste lacerata, e breve
Irata in dossa, lago al piè di pianto
Scorrer si mira, come oggetto lieve.
Spada infiammata alza di tanto in tanto,
Dagli urli, e dal clamor gioia riceve,
In ferreo vaso il proprio sangue beve,
Il flagello, e il furor si porta accanto.
Döunque mira cade l’uom distrutto,
Segna tremenda ognor sanguigne l’orme,
La seguono il dolor, la tema, il lutto.
Cadono a piedi suoi diverse Torme,
Ecco la Crudeltà, che atterra il tutto ;
E fra i spenti da lei tranquilla dorme.

Annotazioni §

L’effigiato ritratto della credeltà denigrante non poco la umana natura per la vivacità de’suoi colori bisogno non ha di spiegazione. Sol dunque aggiungo, che quella succinta, e lacera veste, di cui ella si ammanta simbolo è del bestial suo naturale, che laddove essa non può tormentare gli altri contro so stessa rivolge tutto lo sdegno e le furie. Da questa strana sua indole ammaestrata la più sana parte de’ Gentili si tenevano da essa non sol lontaui, ma fuggivano ancora chiunque le dava ricetto nel cuore. cum penes illam, cosi Val. max. lib. 9. sit. timeri penes nos sit odiss. Con maggior ragione noi dunque ne dobbiamo essere lontani leggendo n’e Prov. al ll. Benefacit animae suac vir misericors. qui autem erudelis est etiam propiuquos abiicit.

{p. 145}

Cap. XXI.

Calunnia. §

Sonetto §

Di vaghe forme, e velenoso fiato
Sorridendo si mostra una donzella,
Cui dalla bocca spunta un serpe alato,
Tanto terribil più, quant’è più bella.
Da essa un Uomo ignuto è trascinato.
Alza cinta di serpi empia facella,
Entra per tutto, e cauta ognor favella
Ma il suo parlar riduce a orrendo stato.
Tarlo è la lingua sua, che il tutto rode,
Raro la forza sua riman delusa,
Culunnia è questa, che del mal sol gode.
Della credenza altrui tiranna abusa,
Tien suoi compagni tradimento, e frode,
Compianger finge, e compiangendo accusa.

Annatazione. §

Pingesi la calunnia sotto l’aspetto di bella donna, perchè bellamente s’induce nell’animo di chi l’ascolta, e per tal cagione poi un serpe si mira escirle di bocca. L’uomo ignudo che seco trascina è l’emblema dell’infelice calunniato. La face cinta di serpi descrive il guasto, che nelle famiglie essa induce. Compiangendo si dice, che accusa, perchè è suo proprio vestire col manto della compassione per ottenere più facilmente l’intento lo sventurato calunniatore, il quale perciò sovente muore nella sua iniquità, giusta quello di Gech 18 Quia calunniatus est, et vim fecit fratri suo ecce mortuus est in iniquitate sua, impari ognuno ad abbominar tal mostro, se vuol essere amico di quel Dio, che per Geremia al 7. così si protesta : Advenae, et pupillo, et viduae non feccris calumniam, et habitabo vobiscum.

{p. 146}

Capitolo XXII.

Mensogna. §

Sonetto §

Audace, zoppa, vecchia, mascherata,
Che il suo deforme in ricco ammanto cele,
Porta una benda in man, che gli occhi vela
Ad ognun, cui favella assai melata.
Le opre d’ognuno cautamente guata,
L’altrui virtù come delitti svela,
Par, che teme, ed ardisce, suda, e gela
Mentre il suo gran poter cresce, e dilata.
Corre per tutto, e ricompensa brama,
Il labro scioglie, e pronta ognor favella
Il mal di tutti, e’l proprio ben sol’ama.
Sembra al primo apparir söave e bella,
Ma se mai verità la pugna, e grama
Fugge atterrita, e allor non è più quella.

Annotazioni. §

Molto espressive sonò le caratteristiche della mensogna. É essa audace perche tal è il mentitore : è zoppa, perchè soppiantata dalla verità : è vecchia, perchè nacque col mondo nella bocca dell’antico serpente nell’ Edem : è mascherata, perchè nascosta sotto le divise della verità : e quella benda, con cui covre gli occhi de’creduli è il primo, e vero segnale del mentitore. Essendo però il proprio nemico dell’anima sua il mendace, giusta quello della Sap. 1. Os, quod mentilur occidit animam preghiamo sempre Dio a tenerci lontani da si abominevole vizio colle parole di Salomone : Vanitatem, et verbum mendacii longe fac a me Prov. 20.

{p. 147}

Capitolo XXIII.

Frode. §

Sonetto §

Con volto feminile un drago orrendo.
Sorriso mostra nella fiera bocca,
Ma mentre ride acerbi dardi scocca.
Insidioso, orribile, e tremendo.
Le vere effigie sue va nascondendo,
E seduce talor la gente sciocca,
La biforcuta coda alcun se tocca
Vittima del velen cade gemendo.
Molto gira, e ritenta iniqua impresa,
Spesso s’inoltra, e simular gli lice,
E solo il tempo i falli suoi palesa.
Costei, mortale, è d’ogni mal radice,
Frode è questa, che tien la rete tesa,
E chi la scampa si può dir felice.

Annotazioni. §

Non mal si apposero i Gentili nell’esprimere la frode mercè la immagine d’un drago, che nascosto l’orribil sembiante sotto le dolci divise di avvenente donzella gl’incauti, e mal accorti barbaramente seduce. E qual figura in vera di questa più espressiva per indicar la rea qualità de’ fraudolenti, che con bel garbo, e dolci lusinghe eseguono i loro infernali disegni ? Se è vero però, che le labbra ingannatrici son l’abbominio di Dio Prov. 12 22 impari ognuno a tenersi lontano da eccesso si grave, memore di quel precetto registrato nel Levitico al 19. 11. Non mentiemini, nec decipiet unusquisque proximum suum.

{p. 148}

Capitolo XXIV.

Discordia. §

Sonetto §

Tremenda donna di fatal colore
Con chioma agguernita di più serpenti,
Colla bocca spumante, e guai ardenti,
Stragge, e rüine annunzia in tutte l’ore.
Porta un mantice in man, che desta ardore,
Ed un flagel per fulminar le genti,
Vaga sol di querele, e di lamenti.
Nè l’averno contien furia peggiore.
Corre per tutto, ed infiammar procura
Popoli all’armi, che crudel li desta,
Vaga solo di pianti, e di sventura.
Da troni alle capanne accorre presta,
Tutto rivolge, e a danni ognor s’indura :
Trema mortal, che la discordia è questa.

Annotazioni. §

Chi non orridisce al ritratto di questa furia d’Averno ? Il viperino della sua chioma, il fiammeggiar de’suoi occhi, lo spumar de’suoi labri fan veramente orrore. Del mantice ella la iniqua donna fa uso per muovere gli affetti allo sdegno ; del flagello si serve per aizzare contro uno l’altro uomo ; vera madre d’iniquità ! Noi adunque, che figli siamo di quel Dio, che al dir dell’ Apost. 1. Cor. 14. Non est dissentionis Deus, sed pacis spingiam sempre lungi dal cuore tal mostro, memori di quella triste conseguenza descritta dal mentovato Apostolo a’ Galati al 5. Si invicem mordetis, et comeditis : videte, ne ab invicem consumamini.

{p. 149}

Capitolo XXV.

Povertà §

Sonetto §

Grama, dolente, e priva di conforto
Vecchia donna su sterpi urlando siede,
Lacera, e nuda äita a tutti chiede,
E fremendo si duol del proprio torto.
Non spera mai dalle tempeste il porto,
Dalle porte d’ognuno or parte, or riede,
Stender la scarna mano ognor si vede
Con labbra inaridite, e viso smorto.
Dell’altrui ben si mostra appien nemica,
I ricchi abborre, e li minaccia a tergo.
Inerte fugge qual si sia fatica.
Spada non trattò mai, ne vide usbergo,
Ecco dell’uomo l’avversaria antica
Miseria, che in abisso hà il proprio albergo.

Annotazioni §

Sotto le sembianze di questa afflittissima donna rappresentasi la povertà, onde chiare s’intendano le triste sue conseguenze ; le altre caratteristiche poi, che l’accompagnano son la chiara divisa della pigrizia proprio difetto de’mendici. Dicesi aver sede nell’ Inferno, perchè quivi a poeti piacque collocarla. Vorrei però, che l’odioso ritratto non ci spinga o a mal soffrire la povertà, che al dir del Crisost. serm. 18. sup. ep. ad Haeb. è la bella conduttrice del Cielo, o a disprezzare i poveri molto cari a Dio, giacchè sta scritto Prov. 20. Qui despicit pauperem probro afficit factores eius.

{p. 150}

Capitolo XXVI.

Morte. §

Sonetto §

Batte con passo egual qualunque porta,
Corre velocemente, e non s’affretta,
Della mano di Dio spesso è vendetta,
E i miseri talor strugge, e conforta.
Per tutto spïa cautamente accorta,
Rango, bella, saper non mai rispetta,
Tremenda giunge quando men si aspetta,
Immensi danni, e rari beni apporta.
Sorda, cruda, spietata, e senza legge,
In pace, e in guerra d’atterrar non resta,
tien soggetti dal pastore al regge.
Entra dovunque, e non è mai richiesta,
Il tutto annienta, e pur l’uom non corregge :
Necessaria, e fatal la morte è questa.

Annotazioni §

La descritta imagine della morte bisogno non hà di spiègazione. L’universale suo impero su tutti gli esseri viventi, l’impreveduto suo arrivo, le triste sue conseguenze sou troppo chiaramente dipinte. Se però è vero, che la morte è conseguenza della vita, impari ognuno a ben vivere, acciochè ben muoia, mentre la morte allora invece di togliergli la vita gliela fa cambiare in migliore secondo quello, che stà scritto Sap. 4. Justus si morte pracoccupatus fuerit, in refrigerio erit.

{p. 151}

Capitolo XVII.

Primavera §

Sonetto §

Di fiori ornata una gentil donzella,
Col vago sguardo, e l’allegrezza in viso,
La rosa, l’amaranto, ed il narciso
Ornan la chioma sempre bionda, e bella.
Sul manco braccio tien la tortorella,
Tien lo sguardo alle stelle intento, e fiso,
Corre, ne par tener camin preciso,
L’usignuol la precede, o rondinella.
Nascon sotto a’suoi passi erbette, e fiori,
Sorride al suo venir l’alma natura
Mitigando del sole i gravi ardori.
Al mare, al fonte, al rio beltà procura,
Madre, e nutrice d’innocenti amori
Primavera de’ Dei sublime cura.

Annotazioni §

L’apporre note a questi quattro Sonetti rappresentanti le stagioni dell’anno è lo stesso, a moi credere, che far un’ingiuria a leggitori. I diversi effetti, che esse partoriscano alla natura son cosi vivamente descritti, che bisognerebbe occhio non avere per non ravvisarne i sfavillanti colori. Li riffetta ognuno con avvedutezza, e poi son sicuro, che qualora voglia far dritto alla verità ne approverà pienamente il disegno.

{p. 152}

Capitolo XXVIII.

Esta’. §

Sonetto §

Matrona eccelsa di sembiante acceso
Di più spighe diverse coronata,
Di lumi ardenti, e in tutto è circondata
Di frumento or cadente, ed or sospeso.
A gran cure il pensier tien sempre inteso,
Fà crescere il calor dovunque guata,
Da gran stuol di formiche accompagnata,
Porta la falce in man col braccio teso.
Di mille insetti l’aria intorno é piena,
Tien la cicala stridolante in testa,
Sembra del par feroce, e insiem serena
Fà la gioia de’ cambi, ed è funesta
Ove si volge par, che il ciel balena
Premio, e tormento all’uom l’estade è questa.
{p. 153}

Capitolo XXIX.

Autunno. §

Sonetto §

Uomo di età viril di mosto tinto
Coronato di foglie, e varii frutti,
Mille augelli al suo piè si tien ridutti,
Coll’ uve in man di mille tralci cinto.
Alla gioia, e al piacer sembra sospinto,
Gli affanni da sua man sembran distrutti,
Crescon per esso i fiumicelli asciutti
In atto di danzar col crin discinto
Mille turbe diverse a lui d’intorno
Alzan le voci, e ognun l’ama e l’onora
Ei fa più breve, ma più dolce il giorno.
Il mondo tutto la sua possa adora ;
Invoca ognuno ansioso il suo ritorno,
Perchè egli sol sà unir Pomona, e Flore.
{p. 154}

Capitolo XXX. ed ultimo.

Inverno. §

Sonetto §

Tremante vecchio colla neve al crine,
Con l’ammanto nevoso, e’l bianco mento
Spira da labri il gel, la brina, il vento,
E sembra dell’ età star sul confine.
Cerca le fiamme, e benche l’ hà vicine,
Par, che da lor non puote aver contento,
Avido un pan divora in un momento,
E par di minacciar sempre rüine.
Corrono gonfii fiumi a lui da presso,
Sembra coverto il ciel da buio eterno,
Ne par, che sïa il respirar concesso.
Fa il vento delle piante orribil scherno,
La quercia, il faggio, il pin non è l’istesso,
Il nemico dell’uomo ecco l’Inverno.
{p. 155}

In lode della cristiana religione §

Canto. §

Dove trascorse il mio ferace ingegno
Troppo fra folli sogni io deliria ;
Su prendiamo un camin dell’ uom più degno
Lungi greche follie tacete omai.
E se sotto un’oscuro, e denso velo
Giace la verità sempre nascosta,
Più bello è il Sole allorche irraggia il cielo
Senzacche nube è allo splendor frapposta.
Cosi di Religione il sacro ammanto
Come uno specchio i falli appien palesa :
Dunque si lasci il vil profano canto,
Per cui la gloria sua ne resta offesa
{p. 156}
Essa, che nel mortal sempre favella,
Che gli solleva, anzi incoraccia il core,
Che fra perigli suoi parve più bella,
Perche figlia gentil del crëatore.
Essa qual nave esposta a mille venti
Scorse senza timor il salso impero,
E sicura affrontò mille cimenti,
Perché il braccio del Nume avea nocchiero.
Ella trionfò tra mille, e mille affanni
Senza mai vacillar ne’ suoi consigli ;
Ella fè impallidire i rei tiranni,
E sotto l’umil manto ascose i figli.
Ella fece spezzare i brandi, e gli archi,
Gli eserciti cader lei fece oppressi,
La gloria, ed il terror fù di Monarchi
Fra suoi trïonfi generosi, e spessi.
Del fanatismo fù la vincitrice,
E insiem superstizion vinse, e conquise,
Dell’innocenza fù guida felice,
E gli increduli rei depresse, e uccise.
Nel sangue giusto sollevò il suo trono,
Che fu del soglio suo primo ornamento ;
Ma da quel sangue poi scoppiò quel tuono,
Che formò dei tiranni il reo spavento.
Come suole apparir tra nubi il Sole,
Tal’ essa apparve fra tempesta, e guerra,
E col vasto poter di sue parole
Spesso fece cangiar volto alla terra.
Non paventò di mille mostri a fronte,
Tra fiamme non mancò la sua costanza,
Aperto sempre di sue grazie il fonte
De’miseri innalzò fede, e speranza.
Fra monti, ne’deserti, e in mezzo all’acquè,
Fra boschi, fra le fiere, e negli orrori
Spesso abitar senza timor le piacque
Togliendo al cor devoto i vil timori.
{p. 157}
Finchè arrivata a incomprensibile ara
Fece apparir le sue virtù più note,
Ivi appari la forza sua più chiara
Fatto vittima un Dïo, e Sacerdote.
Ivi le fiamme sue cotanto estese,
Che aperse all’ uom de suoi tesori il regno,
Ivi la verità ciascun comprese,
Ivi fù l’uom di maggior gloria degno.
Ivi l’alme si fer più ardite, e pronte,
Ivi da esempio tal sprezzar la morte,
Trono innalzò sù quel felice monte,
In cui seppe cangiar dell’ uom la sorte.
E da colà stendendo i vanni suoi
Tutti raccolse i vacillanti figli,
Gìunse senza timor ne’ lidi Eoi
Troncando del delitto i crudi artigli.
Coll’ opre, cogli affetti, e con favella,
Col voler, col saper, co’ suoi costumi
Tanto fece avvanzar la navicella,
Che obice non le son nè mar, nè fiumi.
Senz’asta, senza brando, e senza scudo
Seppe sempre trionfar sol colla voce ;
Anzi esponendo all’armi il petto ignudo
Vide ammanzir l’orgoglio il più feroce.
Addio favole, e sogni, addio chimere
Altro splendor m’irradia oggi la mente,
Per esso io spazio tra le immense sfere
Quel che fia, quel che fù tutto hò presente.
Anzi per esso a chiare note io veggo
Cader le penne, e i fogli calpestati,
A chiare note i gran deliri io leggo,
E i falsi dotti al suol vinti, e prostrati.
L’opre fallite, i desiderii astretti,
Cangiati i sensi, ed il parlar deriso,
Farsi innocenti i più mordaci affetti,
E impallidir d’ogni superbo il viso.
{p. 158}
Santa religion tu quella sei
Che fai tremar chi sol negarti ardisce,
E mentre chi ti adora inebbri, e bei
Un sol tuo sguardo il malfattor ferisce.
Si squarci pure il suol, apransi l’onde,
Si sconvolghino i Cieli, e gli Elementi
Religïon non manca, o si confonde
Sicuro porto ai giusti, e agli innocenti.
Ne manca, ne mancar può in lei possanza,
Nè puossi il suo valor porre in oblio,
E allor vacillerà la sua speranza
Quando Dio può cessar di essere Dio.

Fine.

{p. 159}

Parte terza

Delle istituzioni poetiche §

La poesia prima fra le arti belle, al dir del melanconico cantor della notte, insiem col mondo vanta a sua gloria l’antichità di sua cuna. Quel comune progenitore invero, che all’ opinar di più scrittori compose ben sei cantici per piangere il commesso suo fallo, ed ottenerne dall’offeso suo Dio indulgenza, e perdono può essere di tal verità il più luminoso attestato. E da chi altro poi, se non dal lor padre l’esempio appresero tanti ben nati figli di magnificar colla poesia le lodi dell’ eterno Fattore ? Quindi un Mosè, un Giosuè, un Davide, un Salomone, un Ezechia, un Tobia, e tanti altri, non che fra le donne istesse una Maria, un’ Anna, una Debora, una Giuditta par che altro mezzo non riconobbero, onde svegliare sempre più sensi di tenerezza, ed affetto nel cuore del gran Dio d’Israello se non diversi cantici comporre con divoti affetti in suo onore. Qual meraviglia fia poi se rapiti oltre modo dalla celebrità di quest’arte i popoli orientali a tal segno n’esaltarono i pregi, che non dubitarono concederle finanche il potere di animare i sassi, commuovere le selve, ammanzire le fiere, e quel, che è più abbatter finanche le stesse deità infernali ? Svolgansi pure {p. 160}le istoriche tradizioni, e quivi con occhio di stupore si ammireranno le bravure dell’ammirabil possa di quest’arte. Per essa più popoli spogliati gli antichi loro selvaggi costumi furono felicemente tradotti ad un tenore di vita più civilizzata, e più culta. Per essa asseguirono la loro subblimità i Druvidi, le loro celebrità i Bardi, le magnanimità loro i Cultei. Per essa nella republica letteraria han vita tanti Eroi un dì nascosti nel tenebroso seno del obblio. Per essa vivono alla immortalità quanti per le scienze, o per le arti nella umana società si distinsero. Per essa finalmente, che suol dare anche corpo all’ombra, vita al nulla al soglio siede delle più alte magnificenze o chi forse all’esistenza mai non comparve, o chi di tante doti, quante essa l’accorda non mai fù fregiato. Aveva dunque ben ragione di piangere alla tomba di Achille Alessandro il Macedone, perchè la fortuna a quel eroe concesso aveva un amico in vita, ed un cantore in morte. Laonde fuori ragione certamente non è l’encomio, che le nazioni tutte con unanime consenso danno alla poesia chiamandola il lustro de’ Regni, la gloria de’ Monarchi, l’apologista de’ Conquistatori, lo splendor dell’ età. E tolgasi pure, o almeno si ecclissi nel cielo delle umaue cognizioni un astro si bello, dove è più nella eloquenza la grazia, la persuasiva ne’ pergami, il convincimento nei fori ? Ecco ad un tratto senz’acume l’intelletto, senza fuoco la fantasia, ed il cuore senza quei dolci, e diversi palpiti, che sà svegliare la sua possa. Persuadasi perciò chiunque s’inizia nelle scienze, ed ardisce penetrar nel santuario della dottrina, che senza la scorta di arte si nobile, che per lui è il filo di Arianna nel laberinto dì Creta, egli non vi si inoltrerà giammai. Scorrasi pure dal Indo al Moro, dagli abitatori del Gange sino a’ Cretini delle Alpi, che non senza ragione si ammira il bel genio di que’popoli di contentarsi essere ignoranti in ogni altro genere di scienze, o di arti fuorchè in quello della poesia. La sola dissertazione di Ugo-Blair ne carmi di Ossian farà convinto ognuno dì tal verità. Essendo dunque non solo di diletto, ma sibbene di grande utile, e necessità {p. 161}alla gioventù studiosa la poesia, ecco ben espressato il motivo, che mi spinse a trattarla, esponendone però non solo teoricamente i precetti (lo che meglio di me da molti maestri in quest’arte si è fatto) ma sforzandomi di ridurre quelli alla pratica con molti diversi, ma adattatissimi componimenti in esempio (della qual cosa assai più importante le altrui poetiche istituzioni son manche) onde cosi additando a’giovani e del Parnasso il sentiere, ed animandoli del pari a tenersi dietro le mie orme, quasi versando d’accordo, e confondendo insieme i necessarii sudori pel disastroso viaggio, potessero un dì quivi finalmente arrivati essi congratularsi con la guida, e la guida del pari con essi a comune esultanza. Pria però di venire all’ esame degli obbietti proposti ogni ragion vuole, che della materia poetica, non che delle sue disposizioni dicasi almen generalmente qualche cosa.

{p. 162}

Cap. I.

Della materia, e del modo di disporsi. §

La poesia al par della elequenza, certa e determinata materia non mai riconosce, quindi come questa assoggetta al suo impero ogni cosa, così quella sopra di tutto estende ampiamente i suoi vanni. Est finitimus Oratori poeta così Cic. lib. 1. de Orat. nullis ut terminis circumscribat, aut definiat ius suam, quo minus ei liceat vagari quo velit. Di qualunque cosa però voglia un poeta cantando ragionare, il suo poema o lungo, o breve che sia di queste tre parti Esordio cioè, Narrazione, e Conclusione dev’ essere necessariamente composto, mentre senza proporre, sviluppare, e racchiudere le sentenze un ragionato discorso unquemai non si efforma. Ed ecco perciò il bisogno di conoscere con distinzione queste tre parti, per poterle quindi con felicità maneggiare.

1. L’Esordio poetico però non è quell’ampia preparazione solita a farsi dagli Oratori non senza industria, ed arte, onde conciliarsi l’attenzione, e la benevolenza di chi ascolta ; ma sibbene una ben adatta maniera di proporre l’argomento del poema ; onde è che da più scrittori il proemio poetico dicesi con stretto linguaggio Proposizione. E qual altro esordi o invero prepose l’epico latino alle sue Eneide ? Quale alla sua Gerusalemme il cigno toscano ? Della nuda, {p. 163}e semplice proposizione sì contentarono entrambi. Un tal esordio però qualunque siasi semplice, o trascendente dev’ essere sempre corredato della sua brevitâ, e chiarezza, acciò dagli uditori, oppur lettori tutto nella sostanza il poema sia ben capito, ed accolto ; altrimenti annoiati essi dalla lunghezza, e travagliati dalla oscurità fin dal principio, quali altri buoni effetti lice sperar dagli stessi in prosieguo ?

Suole altresì dopo la proposizione invocarsi da poeti qualche Nume in soccorso ad esempio di Virgilio, che nel 1 delle Georg. Si rivolse ad alcune Deità dicendo : Vos o clarissima mundi lumina, e nel 1. dell’ Eneide invocò la Musa : Musa mihi causas memora. Badi ognuno però, che se il canto è sagro lungi dal profanarlo con siffatte invocazioni lo decori con invocare Dio, Maria, i Ss. o quel S. in particolare, cui il poema è sagrato. Nè s’ induca ad imitar di leggieri il degnissimo per altro Iacopo Sannazzaro, che nel poema de partu Virginis, con poca avvedutezza, si rivolse ad Apollo, ed alle Muse. Ma diamo omai un’ occhiata alla narrazione.

2. Il più sollecito impegno di chi s’accinge a comporre un canto, un poema, in questa parte deve singolarmente risplendere, perchè in essa piuchè nelle altre apparir debbono quei colori, pei quali rendesi la poesia, qual veramente ella è, una parlante pittura. Or acciocchè tal sia, specialmente nell’ epica, la narrativa, in essa campeggiar deve tutto il bello dell’ arte. Quindi quanto di nobiltà vantar possono i sentimenti, quanto di vivacità le descrizioni, quanto di arditezza le espressioni, quanto di energia le ripetizioni, quanto di grazia gli epiteti, quanto in somma contribuisce a pingere al naturale le immagini delle cose, tutto nella narrazione fà di mestieri, che si rifonda. Allora, allora sì offrendosi ai sensi, ed all’immaginazione quel linguaggio, che lor conviene, rendesi il dire dilettevole, e grato, che della poesia forma il principale obbietto, e lo scopo.

L’altro pregio, che brillante non men, che robusto {p. 164}rende la narrativa sono appunto le somiglianze, ed i confronti. Questi aggiungendo all’azion principale quegli avventurati lineamenti, che la rendono più lumeggiante, e più viva, presentano co’loro risalti delle belle scene, che colpiscono, e commuovono mirabilmente lo spirito. Tali fregi però non debbono nè con modi troppo lussureggianti, nè con relazioni poco coerenti comparir nel corpo della narrativa, mentre la parsimonia, e l’ analogia in tal punto scorgiam prese in mira da più classici autori nei loro incomparabili poemi.

Se inoltre il soggetto principale ammette altri incidenti obietti detti episodii, in tal caso quei soli debbonsi eleggere, che col primario scopo abbiano una qnasi necessaria relazione ; altrimenti l’ episodio tutto che maraviglioso sarà considerato per pregio affettato, e perciò improprio, calzando ben qui quel di Orazio : Sed nunc non erat his locus. Detti episodii debbono però maneggiarsi con arte assai fina, acciò mentre dilettano colla loro varietà, in grazia di cui sono stati introdotti, non ristucchino colla lunghezza, e specialmente coll’ esser prodotti sino alla fine del poema, mentre quivi dovendo il parlare far ritorno all’azione principale qualunque siasi episodio aver mai non deve più luogo.

3. L’ultima parte di un poema è finalmente la conchiusione. Questa non è, come si lusingano alcuni, di poca, e di facil riuscita, come quella, che altro scopo non conosce, che restringere in pochi detti il maneggiato argomento, mentre per questo ufficio appunto essa richiede grand’ arte. In essa gli animi debbon ricevere le ultime scosse per abbandonarsi ad un dolce ingombrante stupore. Or qual forza ingegnosa sarà sufficiente a ciò fare ? Le sentenze più grandiose, i colpi più inaspettati quelli soltanto si sono, che valgono ad ottenere sicuramente l’intento.

Per acquistare però tutte le suddivisate doti, che le ricchezze sono della poetica arte, l’unico mezzo, dietro la natural disposizione, al parer di tutt’ i maestri di quest’ arte é la lettura delle opere dei più celebrati autori. Quivi in {p. 165}vero incontransi le più vere forme poetiche, quivi le ripetizioni le più graziose ; quivi gli epiteti i più seducenti, quivi le descrizioni le più parlanti, quivi le comparazioni le più robuste, quivi in somma rattrovansi i più desiderabili ornamenti in una varietà la piuchè diffusa ; onde sciegliendo ognuno a suo genio, quall’ape ingegnosa, e trasmutando lo scelto in sua sostanza può abbellire i suoi poemi in guisa, che valgono poi con gloria dell’ autore a riscuotere dignitomente i comuni suffragii. Diasi ognuno dunque alla lettura, che incomparabilmente vale più di quanti precetti potrebbonsi mai dare, ad esempio dell’ epico latino, nelle cui opere se campeggia il sentenzioso, ed il grande, se ridono le bellezze, e le grazie, tutto é derivato dall’ avvedutezza, ch’egli ebbe di specchiarsi negli esemplari del cieco pur troppo veggente celebratissimo Greco.

Qui però pria di conchiudere un tal capitolo un ben ragionato motivo mi spinge ad avvertir più cose. 1. Abbiano sempre in mira i dilettanti in quest’ arte di adattare il metro al soggetto, e non mai questo tradurre a quello. Per tal errore in vero è derivato, che innumerabili composizioni ad onta degli sforzi de’ mal accorti autori hanno incontrate cattive accoglienze, ed un esito sempre più sventurato ; anzi non solamente al soggetto è da subordinarsi il metro ; ma benanche tutte le espressioni da comprendersi, sichè da soggetti funebri debbonsi del tutto eliminare scherzevoli frasi, come da lieti le tetre, da teneri le aspre ecc. ; fare in somma che la tessitura del verso sia sempre analoga all’ obbietto, di cui si parla in tutt’ i suoi rapporti ; in modo però che oscuro non diventi il poema per la troppo ricercatezza, ne per la soverchia semplicità triviale. 2. Si ricordino di tenere per una sillaba sola, fuorchè nella fine del verso, le parole mio tuo ecc : non altrimenti che i dittonghi dovunque si trovassero come uomo, piede ecc : le vocali poi, che non lo sono, come mas stoso glorioso ecc : si possono prendere per una, o due sillabe secondo che lo richiede l’armonia del verso. Facciano inoltre elisione delle vocali, che s’incontrano nella fine delle {p. 166}parole antecedenti qualora con altra vocale incominciano le susseguenti. A quest’ultima legge però vorrei, che non aderissero in modo, sicchè per essere esatti osservatori di essa abbiano a fare i sordi al suono del verso ; mentre questo a quello, checchè si dicano alcuni preoccupati verseggianti, scorgiamo nella lettura di primi autori assai sovente preferito. 3. Non facciansi finalmente lecito usar per poetiche licenze una voce per un’ altra, e dire per esempio col Tasso Cero per chiedo, col Metastasio Straccia per strappa ec : piochè sebbene da questi valentuomini, e da altri ancora gran maestri nell’arte siansi usate, benchè di rado, tali licenze, esse però ne lunghi, e vistosi poemi son come nei in faccia di bella donna, ma nei piccoli componimenti sanno del mostruoso, e deforme ; menocchè però quando la difficoltà della rima, come avviene nelle terzine sdrucciole ecc. esigesse in qualche caso un tal permesso, mentre allora l’astrusità istessa ne purga in buona parte la macchia.

{p. 167}

Cap. II

Del verso §

Chiunque percorre lo studio della vita ; ed ama di godere un dominio sul cuore altrui mercé la forza della persuasiva, il primo, anzi l’unico suo impegno deve raggirarsi nel saper restringere in poche parole più sensi con chiarezza, ed armonia. Un tal parlare perchè spiritoso, e vivo suggerendo all’ immaginazione più di quel, che esprime fà dolce violenza allo spirito, e risveglia forti impressioni nel cuore atte ad attirarlo dove voglia chi parla. Ed ecco perchè gli Spartani fino a tal segno odiarono il lungo, ed esoso ragionare degli Asiatici, che uno di essi con prontezza preferir volle la morte alla lettnra di un libro diffuso non senza stupore del Re di Persia, che ad una di queste due pene l’aveva condannato. E non fu forse risposta del senato di Sparta, che del lungo ragionare dei Persiani ambasciatori erasi obliato il principio, il mezzo niente inteso, il fine non capito ? Un tal parlare però sentenzioso, ed armonico senza la conoscenza del verso unquemai non s’apprende. Dal verso sì provengono le forme di bendire, che allettano, le prette espressioni, che lusingano, le vivaci immagini, che commuovono ; anzi tanta è stata la forza della sua armonia, che per esso è stato dato moto, numero, e legge alle musicali note(1) non che alle regole istesse del ballo. {p. 168}Leggansi nel Inglese romanziere Walder-Scot le immense ballate degli Scozzesi per conoscere quanta sia la potestà, ed il valore del verso anche presso le nazioni barbare un tempo, ed incolte. Ma che se magnifica pomba ne fa il Sol del melico emisfero Pietro Metastasio ? Egli con copia non più di seimila voci ha espresso tanto, ed ha toccato in tal modo il cuor dell’uomo, che tutti ne han ammirato, e ne ammireranno il portento. E chi in vero non ravvisa quale abbondanza di rettorica, quale aggiustatezza di logica si racchiude in questi due versi di Temistocle avanti a Serse.

E la colpa, e non la pena
Che può farmi impallidir

Può esprimersi con maggior vivacità, ed energia, che l’uomo dabbene teme della colpa, non già della pena, che non meritò ? Qual più nobil modo di lodare senza adulazione, e di destar la vanità senza avvilirsi ci esibisce questo altro squarcio delle stesso Temistocle.

Ti conosce potente,
Non t’ignora sdegnato,
E pur la speme
D’averti difensor a te lo guida
Tanto Signor di tua virtù si fida.

Venga inoltre il più eloquente Purista, e colla stessa felicità racchiuda benchè in un grande prosastico volume quanto il celebre figlio del Tebro ha conciso in pochi versi {p. 169}o nel delineare nella clemenza di Tito At. 1. Sc. 2. La deformità dell’adulazione dicendo.

Romani unico oggetto
È dei voti di Tito il vostro amore ;
Ma il vostro amor non passi
Tanto i confinï suoi,
Che debbano arrossirne e Tito, e Voi.

O nel descrivere un’anima virtuosa, che odia la vanità, e misura se stessa, dicendo nello stesso luogo citato.

Più tenero, più caro
Nome, che quel di padre
Per me non v’è,
Ma meritarlo io voglio,
Ottenerlo non curo. I sommi Dei
Quanto imitar mi piace
Abborrisco emular. Gli perde amici
Chi gli vanta compagni, e non si trova.
Follia la più fatale,
Che potessi scordar d’ esser mortale

O finalmente nell’ epilogar la vita dell’uomo nel Demofoonte. Att. 3. Sc. 2. con quel passo che incomincia ; Perchè bramar la vita(1). Inutile sarebbe ogni sforzo, tarpate {p. 170}vedrebbe un tal chiesto Oratore dal suo intelletto le piume per sollevarsi a fare un parelio in faccia a tal sole. Gli stessi luminosi esempii di gran dicitura in pochi versi ci presenta in mille luoghi il primo epico della nostra Italia Torquato Tasso. Bastami fra i tanti riferirne sol due. Nel canto 18 nella morte di Argante può forse meglio descriversi il carattere di chi fiero visse, e disperato morì ?

Moriva Argante, e tal moria qual visse
Superbi, formidabili, e feroci
Gli ultimi moti fur, l’ultime voci

E nel canto 2 potevasi forse meglio, ed in sì poco descrivere un uomo dal nulla innalzato alle piu alti grandezze ?

Alete è l’un, che da principio indegno
Tra le brutture della plebe è sorto
Ma l’innalzaro ai primi onor del regno.
Parlar facondo, lusinghiero, e accorto.

L’incomparabil tragico italiano Vittorio Alfieri nell’ Antigona giunse inoltre a tal estrema perfezione, che in un sol verso di 11. sillabe restrinse un quinario dialogo, di cui {p. 171}al parere di tutt’ i conoscitori dell’arte non può mai darsi esempio più celebre, e pruova più illustre dell’ingegno creato.

Creont. Scegliesti ?

Antig. Ho scelto

Creont. Emon ?

Antig. Morte

Creont. L’avrai

Questi pochissimi esempi a fronte degli innumerabili da potersi adddurre bastano a comprovare la preposta verita, che dalla sola conoscenza, e pratica del verso deriva quel sentenzioso, e mellifluo parlare, che padroni ci rende del cuor di chi ci ascolta.

Il verso però in altro modo riguardato non è stato sempre nelle sue misure lo stesso presso tutte le nazioni ; ma vario assai, e molte fiate ancor arbitrario è comparso secondochè ha permesso la maggiore, o minore fecondità delle immagini del lor genio diverso. Consultiamo in fatti gl’istorici monumenti, e quivi senza dubbio vedremo, che gli Orientali, e quindi i Druvidi, i Bardi, gli Enobardi, e finalmente i popoli della Scandinavia, da cui vennero i Goti, i Visigoti, i Longobardi, e tanti altri non ebbero giammai canto di ritmo regolato, ma allungavano, ed accorciavano le strofe secondo più li riusciva commodo per spiegare quelle immagini che il lor genio più, o meno focoso li suggeriva alla mente. Gli stessi salmi del figlio d’ Isai fan conoscere l’imperfetto ritmo degli Ebrei amanti di far pompa più d’immagini, e di figure, che di misure, e cadenze. Le raccolte di Celtici carmi dell’inglese Macpherson tradotti dal celebre professor di elequenza in Padova Melchiorre Cesarotti in più ampie forme manifestano la descritta verità. Collo scorrcre degli anni però cadde finalmente il verso sotto leggi sicure, e videsi ognuno obbligato a spiegare i sentimenti con versi misurati. Questi dal rispettivo numero delle sillabe vengono detti Disillabi, Trisillabi, Quadrisillabi, Quinarii, {p. 172}Senarii, Settenarii, Ottonarii, Novenarii, Decasillabii, e finalmente Endecasillabi. Il vario intreccio poi di essi ha prodotto le moltiplice diversità de’metri sotto distinti nomi conosciuti in quest’arte. Quindi per dar io un poetico saggio quanto più possibil fia compiuto, parlero pria divisatamente d’ogniverso, facendo sempre seguire alla teoria la pratica, e poi nello stesso modo esporrò i diversi intrecci, e ritmi compresi sotto l’ ampio genere di poesia si Lirica, che Epica ; restando per altro i lettori nella prevenzione, che essendo la lirica non mai soggetta a fisse leggi, come l’epica, ma pari alla cera ben indifferente alle diverse forme, qual vera figlia del suono, e dell’ arbitrio, altre composizioni potrebbero efformarsi a capriccio da non poter perciò esser comprese nel presente trattato, che facoltà giammai non può avere di fissare il Proteo, e forzare l’Arbitrio.

{p. 173}

Cap. III.

Del disillabo e trisillabo §

Il verso di due sillabe per la sua brevità, e ristrettezza è quasi intrattabile nella poesia, e per quanto si affaticasse un ingegno mai non può far gran cosa. Suole avere il suo luogo nel Ditirambo(1) ed in esso quale tronco l’accento cade alla seconda sua sillaba, come.


Poichè Saprò
Pietà Patir
Per mè Morir
Non v’è Per tè

Nel trisillabo la inflessione della voce cade sulla seconda sua sillaba. Esso anche nel solo ditirambo suole aver luogo, mentre la sua ristrettezza rare volte, e con difficoltà {p. 174}può abbracciare un periodo, che perciò si guardino i principianti di si grand’ arte di urtare in simile scoglio, ma si contentino di conoscerlo soltanto per sapere di ciò, che la nostra poesia è capace. Eccone l’ esempio :

Il peccatore al sepolcro di G. Cristo.


Tormento Pensando
Spietato L’offesa
Io provo Che ardito
Nel petto ; Ti fei,
E pure Pensando
Diletto Chi sei
Mi apporta Si scema
Il dolor L’orror.
{p. 175}

Cap. IV.

Del quadrisillabo e quinario §

Il verso di quattro sillabe vuol la cesura sulla terza. Può farsi rimare in più modi, ma il più tsitato è il seguente.

Egeo, che si congeda dal figlio Teseo, che si porta al laberinto di Creta per combattere il Minotauro.


Se cadrai Ma se avviene,
Tosto a morte Che perisci,
La tua sorte E finisci
Seguirò. Di regnar,
Se privato Chi sa mai
Di le sono Se si trova
Il mio trono Chi tal nuova
Scenderò. Può recar
Che verrai, La man franca
E i miei rai Vela bianca
Ti vedran, Porta allor ;
I paterni Se ti struge
Miei consigli Pugna frera
I perigli Vela nera
Scorderan ; Porti orror
{p. 176}Vanne figlio Contemplando
Dallo scoglio Salso il regno
Nel cordoglio Sempre al segno
Guarderò Mi terrò.

Nel verso quinario la inflessione della voce cade sulla quarta sua sillaba. Con esso perchè più esteso può facilmente formarsi qualche lavoro. In questo metro (lo chè si avvera ancora degli altri consimili) la rima o abbraccia il primo e terzo verso restando il secondo libero, ed il quarto tronco da rimare col tronco della stanza seguente, oppur avvinge il secondo col terzo rimanendo il primo libero, ed il quarto colla stessa legge spiegata, quale per altro non è indispensabile, come chiaro può scorgersi dalla lettura di poetici libri. Ecco intanto l’esempio in questo metro.

Lucrezia che si uccide.


Chiama i congiunti Sol vendetta
La donna offesa, Voglio in tal fato
E all’alta impresa Lei, che ha peccato
Prepara il cor. Cader saprà.
Ma visto appena L’indegno Sesto
L’amato sposo Venne furtivo,
Il cor doglioso Ma il cor già privo
Palesa allor Sento d’ ardir
Dice tradita Mi trasse a forza
Dolente io sono In empia colpa
Non vò perdono Non val discolpa
Non vò pietà Dopo il fallir
{p. 177}Io fui Iradita, Così dicendo
E il traditore D’onor sol vaga
Priva d’onore Il cor s’impiaga,
Mi abbandonò. E piomba al suol.
Ma ognun conosca Fugge in un urlo
Dal colpo invitto L’alma negletta
Come il delitto Chiede vendetta,
Punir saprò. E spicca il vol.
{p. 178}

Cap. V.

Del senario semplice, e doppio §

Per senario semplice intendesi il metro di quattro versi ; re di sei sillabe, ed il quarto di cinque perchè tronco da rimare nella stessa guisa divisata nel capitolo precedente, mentre basta averlo detto una volta per sempre. L’ accento in questo verso cade alla quinta. Eccone l’esempio.

Curzio alla voragine.


D’incendio funesto Ognuno le gemme
Già Roma si strugge, Le più preziose
La speme sen fugge Cou più scelte cose
Più gioia non v’è. Gettando vi va.
Al ciel si ricorre Ma cresce la fiamma
Con alma disposta ; Più avvampa, e divora
Ma oscura risposta Ciascun resta allora
Più affanno le diè. Con misero cor.
L’oracolo disse Sol Curzio più saggio
Con voce ben chiara L’oracolo intende
La cosa più cara Salute gli rende
Al fuoco si da. Nè prezza l’orror.
{p. 179}Esclama : Romani Poi monta a cavallo
L’oracolo è chiaro Dell’armi sue cinto,
Il dono più caro L’orrore é gia vinto
Si deve gettar. Da prode pensier.
Or questo intendete Invitto si slancia
Con anima ardita Nel foco sotterra
Più cara è la vita L’incendio si serra
Qui deesi lasciar. Non ha più poter.

Il senario inoltre dicesi doppio qualora ogni strofa abbraccia sei versi, cinque di sei sillabe d’accentarsi sulla quinta, come nel senario semplice, ed un quinario. In esso sogliono rimare il primo col terzo, ed il secondo col quarto, restando il quinto libero, ed il sesto tronco ; altre volte poi il solo secondo rima col quarto e tutti gli altri restano liberi come.

Epaminonda, che vince la battaglia col dardo al fianco.


L’ardito Tebano Il sangue già scende,
Di Sparta non teme E l’armi gli bagna ;
Intrepido unisce Qual rio si stende
Le forze più estreme, Per vasta campagna
E corre alla pugna. Del forte il gran sangue
Ricolmo d’ardir. Così scese allor.
Abbatte, debella Trionfa il suo campo
Con destra feroce, È sparta già vinta
Or vince col brando, La schiera nemica
Or fuga la voce Per tutto è già estinta,
Vergogna sol teme, Allora il gran Duce
E sprezza il morir. Conobbe il suo fin.
Ma un dardo fatale Dall’armi si scosta,
Da un arco si scioglie E in terra sen giace
Con fischio mortale La man tiene al fianco,
Al fianco lo coglie ; E mostrasi audace
Ma par, che non sente Per fino che intese
Per troppo furor. Dell’armi il destin.
{p. 180}Udito, che Tebe Fù questa la morte
Per tutto hà trionfato Dell’ uomo possente,
Su povera glebe E Sparta la sorte
Già cade sdraiato Trovò immantinente,
Il dardo si tolse, Perchè l’uomo invitto
E tosto spirò. Di viver lasciò.
{p. 181}

Cap. VI.

Del settenario, ed ottonario. §

Il metro settenario non senza ragione suol dirsi il più facile, ed il più praticabile come quello, che costa di versi, che si contentano di avere anche alla sola sesta, ossia penultima sillaba il loro accento, restando per forza della rima obligato il solo secondo col terzo. Eccone l’esempio.

Temistocle, che prende il veleno.


Dalla sua patria ingrata Si scorda nella gioia
Temistocle in esiglio Del folle sdegno antico,
Esposto a reo periglio E chi odiò nemico
Muove dolente il piè. Innalza amico allor
Erra di lido in lido Contro l’istessa Atene
Sotto altro nome ascosto Poi Serse lo destina,
A mille affanni esposto L’estrema sua ruina
Senza trovar mercè. Temistocle provò.
Alfin di Persia il regge Si vede in un momento
In corte lo raccoglie Ridotto a orrendo stato
Cangia l’irate voglie, Ribelle, o pure ingrato
Si scorda il suo furor. Il fato il destinò.
{p. 182}Fuggir l’indegne tracce Bevve il fatal veleno,
Nel nobil cor dispose Ed invocò le stelle,
Forte morir propose, Né ingrato, nè ribelle
E tosto l’eseguì. Il viver suo finì(1).

L’ottonario metro non altrimenti che il prossimo antecedente Settenarie è commodissimo alla poesia sì estemporanea, che meditata, e perciò mirasi il più usitato. Dicesi Ottonario perche abbraccia versi di otto sillabe, che richieggono alle settima il loro accento. Ia questo metro suol rimare il secondo col terzo verso rimanendo il primo libero, ed il quarto ossia il tronco obbligato come sopra si è detto. Eccone l’esempio.

Una nave presso a naufragarsi.


Era il sol tra nubi ascoso Cigolar da poppa a prora
Quasi chiuso in denso velo, S’ode appien la stanca nave,
Non appar più raggio in cielo, Ed il peso suo più grave
Che speranza può recar. Traboccar nel mar dovrà.
Fischia il vento, il mar s’innalza Ecco getta ognuno all’ onde
Fatta tumida è già l’onda, La sua merce più gradita
Senza porto, e senza sponda Quanto può desio di vita !
Come mai si può salvar. Nell’uom questo tutto può.
Batte i fianchi della nave E il nocchiero, che condusse
Fiero il mar, che in se gorgoglia Più tesor da estranee sponde
Or dell’albero la spoglia, Getta tutto in seno all’ onde
Or la vela in acqua và. Sol per dir che si salvò.
{p. 183}

Cap. VII.

Dello sdrucciolo, e dell’anacreontica. §

Questo verso quantunque a rima non soggetto, difficile però si è si per lo estemporaneo, che per lo scrivere. Dicesi sdrucciolo, perchè le ultime due sillabe colla loro rapidità somigliano ad un corpo, che rotola, e cade. Un tal verso entra in tutte le composizioni liriche, e specialmente nel ditirambo, in cui fa maggior pompa, sempre per altro adattabile assai più al boscareccio, che al serio. Esso costa di otto sillabe, delle quali la sesta richiede l’accento. Otto di questi versi, non soggetti però sempre a tal numero, costituiscono una strofa nel lor metro, di cui eccone l’esempio.

Sileno alla tomba di Uranio.


Mesto, tremante, e pallido La bigia pietra, e logora
Move il pastore esanime Alfin ritrova, e lagrima
Piangendo il passo tremolo Presso di quella assidesi,
Fra stipe secche, ed aride, E con lamento querulo
E giunto presso un’edera L’amico evoca, e smania,
Che con suoi giri intrecciasi E il susurrar degli alberi
Ricerca in mezzo i ruderi Colle lor fronde tremole
L’ossa del caro Uranio. Fan eco a mesti gemiti.
{p. 184}Poi dice : ah ! dove misero Se vò talora assidermi
Potrò trovar nell’anima Presso il ruscello limpido
Più la quiete stabile Col gorgogliar suo flebile
Se al par d’afflitta tortora Cresce del cor la smania,
Senza l’amico tenero Le grotte mi ributtano,
Scorro dolente, ed esule I boschi mi discacciono,
Fatto a me stesso in odio Non han più ombra gli albori
Gemo nel duol terribile. Perche son senza Uranio.

L’anacreontico metro, che dal greco Anacreonte il carattere serba, ed il nome, è uno di quelli, che al dir del Crescimbeni, sono i più spiritosi, e leggiadri in Toscano. Esso è adattissimo alle composizioni di qualunque natura, sebbene il suo genio facile, e piano non così di leggieri sa soffrire la gravità, e l’altezza. Versi di diversa specie in varie forme intrecciate sogliono entrare in tal metro, come può apprendersi dalla lettura, e specialmente dalle diverse composizioni del Palermitano Balducci ; il più comune però abbraccia due sdruccioli, e due settenarii rimati. In tal metro una particolar attenzione è da mettersi sù sdruccioli, acciò non sembrino stentati, mentre lo sdrucciolo natural forma il suo pregio. Eccone intanto l’esempio tessuto nella divisata maniera.

Leonida alla Termopile.


Quando il sovran di Persia Si ferma alle termopile
Volea la Grecia oppressa Ricolmo d’ardimento,
Con numeroso esercito E i suoi compagni providi
Verso quel suol s’appressa. Non son più che trecento.
Minaccia di distruggere, In quel sentier strettissimo
E sparger sangue a fiumi Il fier nemico aspetta
Colla città di Grecia Sicuro della gloria
Gli altari, i tempii, i Numi. Certo di sna vendetta.
Ma tosto che avvicinasi Dice a compagni : armatevi
Fra suoi guerrieri carmi Ecco il momento estremo,
L’invitto gran Leonida E questa sera io giurovi
Corre con pochi all’armi. Con Pluto ceneremo.
{p. 185}La chioma ognun si pettina Entra furtivo, e lacera
Prendono cibo alteri, Feroce questi, e quelli.
E a morte s’apparecchiano Così il fatal Leonida
Forti, possenti, e fieri. Con braccio alto, e possente
Tosto che l’ombre scendono Cerca di notte struggere
Cheti al nemico vanno, Le squadre d’Oriente.
E appena ch’essi arrivano In mar di sangue corrono
A macellar si danno. Fra l’ombre van confusi
Quai lupi fieri, ed avidi, Pe’ molti colpi rendono
Che in mandra entran di notte I proprii brandi ottusi.
Da lor le greggi timide Al fin l’ombre spariscono
Restan fugate, e rotte ; Il Sol ritorna in sorte
O qual lëon numidico Con tutt’i suoi Leonida
In greggia di vitelli Cadde pugnando a morte
{p. 186}

Cap. VIII.

Dell’ode pindarica §

Questo bel metro, e del pari nobile, e melodioso dicesi pindarico, poichè Pindaro poeta greco ne fu l’inventore. Esso è atto a tutti gli argomenti, e secondo la loro natura benchè prenda un diverso aspetto, serba sempre non pertanto la sua mellifluità, e vaghezza. Pochi ne’ tempi antichi hanno scritto, e cantato su questo metro ; ma diasi luogo al vero da che il celebre Manzoni scrisse il quinto Maggio in tal ritmo esso lo scopo si è reso di tutta la gioventù studiosa. Ma poichè suol succedere, che molti corrono a tale arringo, e pochi giungono veramente alla metà, perciò prevengo i miei giovani, che ad esempio del detto Manzoni la prima loro mira in tal azzardo sia l’eleggere un soggetto grandioso, e degno che valga ad ingrandire il verso piuttosto, che essere ingrandito da quello, mentre in tal caso la metà dell’applauso si ottiene da un pubblico prevenuto per la cosa istessa, e non è da menticarsi unicamente dal verso. È vero altresì, che non è men degno di lode quel poeta, che su di una bagatella forma un vasto canto, e che dal nulla cerca di ritrarre corpi meravigliosi, e grandi per solo effetto della fervida sua immaginazione, {p. 187}come appunto sono le quattro gran dissertazioni dell’ erudito Pasquale Carcani sul niente, su i peli, sullo scarafagio, e sul sanguinaccio, ma questi sforzi prodigiosi sono unicamente riserbati ai maestri dell’arte. Or tornando all’assunto ecco l’intreccio di un tal metro. Questa ode è formata di sei versi per ogni strofa, il primo sdrucciolo, il secondo settenario piano, il terzo sdrucciolo, il quarto similmente piano, che rima al secondo, il quinto sdrucciolo, ed il sesto senario tronco, che rima, come già si disse, col tronco della stanza seguente. Eccone l’esempio.

Telesilla disposta a combattere con altre donne contro gli assediatori Spartani.


Mentre crudele assedio Ciò detto un grande esercito
Argo tuttor stringea Donnesco forma, e ascende
Senza speranza il popolo Le mura, e poscia l’ordine
Nel suo dolor gemea In squadre appien distende ;
Non sanno a chi rivolgersi, Quindi con voce stridola,
E a chi cercar pietà. Parla a’ Spartan così :
Sparta, che tenne in Grecia Figli di Lacedemone
Sempre l’onor primiero Venite a queste mura
Argo volea deprimere, Difese dalle femmine,
E con tremendo impero Che in lor non han paura,
Vuol la città distruggere, Venite, e qui si celebri
E scampo non le dà. Per noi l’estremo dì.
Ciascun le calde lagrime Allora i scudi battono
Già versa a stilla a stilla, Maggior l’ardir diventa,
Ma unisce allor le femine Altre gran sassi scagliono,
L’ardita Telesilla, Ed altra i dardi avventa
E disarmando gli uomini Allor lo stuol femineo
Tutte le donne armò. Fassi di se maggior,
Dicendo : giacchè l’animo Stanno i Spartani attoniti
Di pugna a voi uon regge All’imprevisto ardire
Vedrà tutta la Grecia San bene che puote infemina
Una novella legge, L’odio, lo sdeguo, e l’ire,
Che il sesso imbelle, e debole E in quel momento scorgono
Pugnar pur anco può. Il proprio dissonor.
{p. 188}Dicon : se andremo a batterci Meglio sarà di togliere
Chi batterem ? le donne A lor cotal rampogna
O vincitori, o in perdite Che se vorremo vincere
Trïonferan le gonne, Sarà fatal vergogna,
Che perdono, o che vingono E se andaremo a perdere
Nostro il rossor sarà. Grecia c’insulterà.
{p. 189}

Cap. IX.

Della sestina lirica. §

Non vorrei, che alcuno in vedermi sulle mosse di parlar della Sestina pensi esser mia intenzione di richiamar dalle sue ceneri l’antica sestina. Di quella sestina cioè, in cui sei strofe pender dovevano dai sei versi della prima, chiamata perciò il perno, non solamente nel rispettivo lor senso ; ma quel, che era il più forte nelle sue individuali parole. D’un tal componimento abbiam noi un’esempio nel Petrarca, un altro nel Sannazzaro, ed uno a stento nel Frugoni ; ma che ! Dopo il lungo incredibile travaglio sostenuto da questi grand’ uomini per recarla alla sua perfezione, altra bellezza non hà dimostrata, che la sola fatica degli industriosi autori. Quindi si fù, che i posteri conoscendone la difficoltà, o per dir meglio la sua inutilità via la bandirono dall’Italica poesia, attenendosi soltanto alla sestina eroica del Casti negli animali parlanti, della quale si parlerà a suo luogo. Qui adunque il mio scopo sol è di parlare della sestina lirica fioreggiante tutt’ora nel poetico amenissimo campo adattabile sibbene ad ogni argomento ; assai pregevole però nelle cose campestri, e pastorali. Costa una tal sestina di sei ottonarii, de’ quali il primo rima col terzo, il secondo col quarto, ed ìl quinto col sesto. Eccone a nostro modo l’esempio.

{p. 190} Titiro, che deplora la sua mandra tradotta via da una furiosa tempesta.


Torvo il ciel di nubi carco Ma il flagel comun vedea
Strepitava irato il vento Chè la greggia tanto amata
Il ruscel non ha più varco Dal torrente vien portata.
Reso fiume in un momento Egli esclama : Eterno Nume
Tronchi, zolle, e quanto appare Che sarà di ma infelice !
Si strascina irato al mare. Tutto al mar si porta il fiume
Là una pecora belante, Cade svelta la pendice,
Che precipita dall’erta, E in tal pena cruda, e acerba
Una vacca quà nuotante Non mi resta neppur l’erba
Colla bocca tutta aperta, Senza gregge, e senza tetto
Cani, agnelli, fratte, e lupi Beni indarno il cor si sogna,
Van cadendo dalle rupi. Morto è il cane mio diletto
Masserizie vanno a galla Hò perduto la zambogna
Per il fiume un mar già fatto, Lasso me ! Che far degg’io ?
L’alta quercia ancor traballa, Chi più regge il viver mio ?
Che dal vento è svelta a un tratto Ah ! se tutto ho già perduto
Fugge Titiro piangente Per voler d’iniqua sorte,
Dalla morte a lui presente. Se sperar non posso aiuto
I suoi lombi a un masso appoggia, Meglio fia, ch’io cada a morte
Che una rupe in fuor stendea E in quell’acqua, che giù piomba
Salvo in parte dalla pioggia A cercar corriam la tomba.
{p. 191}

Cap. X.

Dell’ode dattila. §

Questo metro sorprendente, ma difficile fù inventato, e maestrevolmente trattato dalla celebre poetessa Marianna Bandettini di Perugia. Rapisce in vero la sua armonia, ma a troppo duro cimento espone chi il tratta. Quindi è, che appena qualche estemporaneo di gran polzo si prova a trattarlo, mentre le sue difficoltà anche al tavolino rendonsi laboriose. Un tal metro è composto di sei versi ; due senarii, che rimane insieme, un quinario piano, poi due altri senarii tronchi similmente rimati tra loro, ed il sesto quinario piano, che rima al terzo, questi sono i divisati sei versi, che costituiscono ogni strofa in tal metro. Qui la mente vien sottoposta ad una interminabile legge di rime, che si succedono rapidamente le une alle altre ; ma per dir vero a trattar questo metro bisogna esservi chiamato ; mentre se esso lasciasi servire ad ogni argomento, non soffre però esser di leggieri maneggiato da ognuno. Eccone impertanto l’esempio.

Artemisia, che beve le ceneri di Mausolo.


Vittima del dolor La fiamma del suo sen,
Presa da doppio ardor Il suo sposo, il suo ben
La donna afflitta Colà giacea
Presso l’urna sen va La tomba in contemplar
Dove giunta si stà Pace non può trovar,
Più derelitta. E il duol crescea
{p. 192}Spesso i marmi abbracciar Si che lo posso ancor
Procura, e di sfogar Mi consiglia l’amor
L’interna doglia, L’opra si fiera,
E oppressa dal dolor Sò, che strano parrà
Par, che a morire amor Ma niun m’imiterà
Di più l’invoglia. Sarò primiera.
Dice : ah Numi perchè Si la primiera sol
Donato tal mercè ? Sarò che in tanto duol
Misera ! oh Dio L’alma è feconda
Son costretta a languir, Sola al mondo sarò
E non posso morir Nè in opra tal vedrò
Coll’idol mio. Mai la seconda
Sento la voce appien, Quindi l’urna abbracciò
Che parla a questo sen Il cener contemplò
Mi chiama a morte, Nel duol più greve
E in mezzo a tal martir L’nrna torna a baciar
Sembrami lassa udir Ne volendo aspettar
Il mio consorte. Il cener beve.
Dunqur quel marmo avrà Poscia che il tranguggiò
Maggior felicità Così lieta esclamò
Di questo seno, Colma d’affetto :
Ed io soffrir dovrò Trovata hò la mercè
Nè meco unir potrò Miglior tomba per te
Quel resto almeno. Fia questo petto
{p. 193}

Cap. XI.

Dell’ottonario coronato. §

Una difficoltà tutta sua propria ci presenta questo metro. Imperochè essendo vero al comune sentimento de’ maestri dell’arte, che la condizione del tronco è difficile nelle chiusure ; mentre quivi convien restringere i pensieri, racchiuder le sentenze, e fare in somma che la strofa istessa tuttoche mediocre, e forse ancor languida, apparisca bella, e degna dei comuni suffragii ; che dovrà dirsi della chiusura di questo metro soggetta a ben due tronchi ? Ciò non pertanto non perdansi di coraggio gl’iniziati a quest’arte. Eluderanno ogni difficoltà se una saggia cautela useranno nella scelta di tronchi ben adattati, e proprii a spiegare il forte delle conclusioni, evitando mai sempre però tutt’i plurali per tronchi, come i dolor, i can, gli uccel, ecc. mentre questo in tal metro suol essere il massimo degli errori. L’ottonario coronato dunque costa di cinque versi per ogni strofa, il primo è un ottonario piano, ed anche sdrucciolo se la necessità l’imperasse, il secondo ed il terzo son due ottonarii rimati, il quarto, ed il quinto son due settenarii tronchi rimati insieme. Eccone la norma.

{p. 194} Manlio, che condanna il figlio a morte


Emanato il gran decreto Dice al figlio : eh che facesti
Dall’austero conduttiero Non sapevi il mio divieto
Perchè osservasi l’impero Dunque hai franto il mio decreto
Chi obliare lo potrà Traditor dimmi perche ?
Reo di morte allor sarà E potrai sperar mercè ?
Vuol, che niun pugnare ardisca Al garzone vincitore
Contro i Galli in gran tenzone, Nulla vale addur la scusa
E chi ardisse al paragone Grida il padre chi si abusa
Contro il cenno di veuir Della legge a suo favor,
Vinca, o perda dee morir. È un ribelle, è un traditor.
Ma di Manlio il figlio ardito, Quindi in gabbata sedendo
Che il decreto in se ignorava Sprezza appien di lui la sorte
Perchè un gallo il provocava Lo condanna a fiera morte,
Corse altier, con lui pugnò, E l’esempio altrui donò,
E l’uccise, e lo spogliò. Tutto il campo allor tremò
Porta l’armi al genitore Ed invan parlò natura
Di quel gallo già atterrato In quel cor da legge armato
Resta il padre provocato Cadde il figlio sventurato,
Per l’offesa potestà, E fè noto il genitor
E bandisce ogni pietà Qual di legge è il gran valor
{p. 195}

Cap. XII.

Del verso martelliano. §

Se fra diversi moltiplici metri della toscana poesia miransi alcuni poco praticati per le grandi difficoltà, che presentano ; questo metro all’opposto vien poco maneggiato per la soverchia sua faciltà. Nel suol della Francia spuntò la prima volta tal pianta, ma trasportata poscia in altri campi della culta Europa produsse a prima vista frutti si dolci, che ogni palato assaggiar ne volle avidamente il sapore. Quindi dalla natura di esso tradotti un Chiari, un Goldoni, un Cerlone, e mille altri, e pria, e dopo di questi, in tal metro si dilettarono scrivere delle molte comedie, per cui un tal verso comunemente divenne la delizia, ed il cuor del teatro. Non però comparve come nel natio suo suolo era apparso. Dappoichè non essendo presso i francesi si familiare la rima, come presso di noi lo è, quel ritmo, che in due versi di quattordici sillabe rimate solea conchiudersi in Francia, in qualtro settenarii benchè due liberi, e due rimati dagli Italiani si volle compreso. Quantunque per altro un tal verso familiare piuttosto sia, e triviale ; pure la forza dell’ingegno, non che la effervescenza della fantasia contribuisce non poco alla sua nobillà, ed altezza. Tale è per avventura la comedia intitolata Diogene nella botta del celeberrino antichissimo Antonio Franchini. Spiegata dunque la natura, e la misura d’un tal verso appongo giusta il consueto la norma per la pratica.

{p. 196} Teseo, che condanna Ippolito a morte.


La vecchia età fu sempre. Veste con mille modi
Ligia di gelosia, La troppo infame accusa.
E spesso per tal causa Il credulo, e spietato
Ogni ragione obblia. Le presta intera fede,
Teseo dall’empia moglie E alle mensogne ordite
Sente accusarsi il figlio, Fallacemente crede.
E perde a tal accusa Condanna il figlio a morte
Senno, ragion, consiglio. Da un mostro divorato
Ippolito figura Lo dauna, e l’infelice
Incestuoso, ed empio, Dal carro è rovesciato.
E contro d’esso inventa Ma mentre che soccombe
Inopinato scempio. Alla fatal sventura
L’iniqua infame donna Per opra degli Dei
Perchè restò delusa Forma cangiò, e natura.
{p. 197}

Cap. XIII.

Dell’ode alcaica. §

Eccoci allo scoglio, in cui non pochi ingegni han fatto naufragio. La vera ode alcaica per le sue gran difficoltá da qualcuno, o da nessuno forse è trattata, benchè per altro adattata sia ad ogni argomento, e molto più a lamentevoli obietti. La coutinuata sua armonìa mentre mostra quanto ha di più grande, e più bello la poesia, manifesta del pari quanto ha la stessa di più labborioso, e difficile. Il solo udire il terribile ritmo di ogni strofa basta a sgomentare ognimente. Eccolo intanto. Costa ogni strofa di quest’Ode di dodici versi di questa natura, ed in tal modo rimati. Il primo è un settenario piano, il secondo è similmente settenario piano, il terzo è anche settenario, che rima al primo, il quarto è simile al secondo con cui rima, il quinto, ed il sesto sono tronchi, che rimano insieme, il settimo, e l’ottavo son piani rimati fra loro, il nono è piano libero, il decimo è tronco libero ; l’undecimo è piano, che rima al nono ; l’ultimo finalmente è tronco, che col decimo s’accoppia in rima. Questo metro, che senza dubbio, sembra il laberinto di Creto hà bisogno d’un saldo filo per scorta, ma senza aspettarlo dalla favolosa Arianna si avrà dall’esempio seguente, nel quale per maggior intelligenza di coloro, che vorranno, e si fideranno praticarlo v’apponga un’intercalare obbligato.

{p. 198} Andromaca, che piange sul corpo di Astianatte.


In cenere combusta Senza fallir dannato
Era l’afflitta Troia, Misera ! è già spirato
E per la moglie ingiusta La madre lagrimosa
Perduta avea la gioia Ripete in abbandon
Andromaca d’Ettor Lassa non son più sposa,
Piange a l’aspro tenor E madre più non son.
Le toglie Ulisse il figlio, Parte della mia vita
E con fatal consiglio Perchè ti generai ?
Dall’alta torre il getta, E per donarti aita
E il campo soddisfò ; A tanto ti serbai ?
Così l’altrui vendetta Come non moro ancor
Il misero pagò. In si fatal dolor ?
La madre desolata Perchè spietati numi
Nell’ultima sventura Serbaste a ciò i miei lumi ?
Geme da disperata La vità m’è odiosa
Fuor delle strutte mura Essa è un funesto don
Stassi tramorta al suol Lassa non son più sposa,
Sul pesto corpicciuol E madre più non son
Lo guarda, e non fa moto Perchè figlio diletto
Chè il cor di forza è vuoto Cosi morir dovesti ?
Sol replica affannosa Perchè da questo petto
Nel più dolente suon Viver si reo bevesti ?
Lassa non sou più sposa, Perchè figlio, perchè
E madre più non son. Io non morii per te ?
Ecco di già perduta Povero sangue mio
L’ultima mia speranza, Che più soffrir degg’io
Non hò chi più m’aiuta In sorte sì dogliosa
Che va la mia costanza ? Nulla è di Giove il tuon
Che ne sarà di me ! Lassa non son più sposa,
Il figlio mio dov’è ? E madre più non son.
{p. 199}

Cap. XIV.

Del novenario, e decasillabo. §

Qual son fra essi l’ombra, ed il Sole, tempesta, e serenità, tenebre, e luce ; tal si sono i due metri, che in questo Capitolo rinchiusi. Il novenario perchè metro sciocco, rozzo, ed astruso inflettente per altro anch’esso sulla fine non è da veruno di buon senno per avventura maneggiato. Ne metto perciò un brevissimo esempio sol per fare conoscere, che nella nostra lingua si rattrova un tal metro, non già per adescare i giovani ad invaghirsene.


Se per te a tanto son costretto, Quanta ubbidienza al cor mi costa
Saprò soffrir la mia sventura, Soddisfare a un comando cosi ?
E alla legge poi di natura Per me sia questo l’ultimo di
Umil la fronte piegherò Devoto al cenno ubbidirò.

Il decasillabo poi, che è il Sole di questa oscura notte del Novenario, la vera delizia dell’armonia poetica, ed il mezzo più facile, onde esprimere concetti di qualunque natura si siano nella più bella, e grandiosa maniera, merita per ogni rapporto la preferenza fra i molti, e degno del pari si è d’essere il principale scopo de’ virtuosi esercizii {p. 200}della studiosa gioventù. Duplice però n’è il metro. Nel primo rima il secondo verso col terzo lasciando il tronco obbligato a rimar col tronco seguente. Nel secondo il primo, che è piano rima col terzo della sua stessa natura, non altrimenti che il secondo, che è tronco rima col quarto. Ma per non dilungarmi a darne due norme distinte l’uno, e l’altro ritmo colle richieste inflessioni in un solo esempio a contemplarsi comprendo.

Polissena sacrificata alla tomba di Achille.

Di già spento il terribile Achille,
Già la flotta de’Greci impedita
Perchè il vento il camin non l’addita
Talchè tutti son presso a perir.
Si consulta Calcante l’aruspice,
Chè ognun crede al suo saggio consiglio
Egli mostra il tremendo periglio
Come puossi da Greci fuggir.
Egli impon, che alla tomba d’Achille
Polissena svenar si dovrà,
Che tra mille altre Vergini, e mille
Quegli ha amata, e con esso cadrà.
Se non cade la regia donzella
Da qui alcuno non speri partir ;
Ma caduta che appena fia quella
Tanti affanni potranno finir.
Ma non basta ; l’istesso suo figlio,
Che la regia donzella si adora
E del padre l’amor non ignora
Egli stesso la deve svenar.
Cosi esposto ; per forza il guerriero
A ubbidir con minacce s’induce,
Già si porta alla tomba ogni duce,
E fà l’ordin del campo spiegar.
Venne Pirro qual’uom condannato,
{p. 201}
E la donna rëale il seguì
Alla tomba del padre arrivato
Stupidito tremò, s’ammutì
Ma costretto dal campo sdegnato
La donzella pel crine afferrò,
E fremendo qual’uom disperato
L’empio ferro nel sen le vibrò.
{p. 202}

Cap. XV.

Della terza rima. §

Il metro, che più generale campeggia nella poesia si è appunto la terza rima, come quella, che indistintamente si mostra adattabile al sagro, al profano, all’eroico, al bernesco, all’epistolare, e a tutt’altro. In questo metro infatti ha scritto l’immortale Dante Alighieri la sua divina comedia ; in questo scrisse Francesco Berni le sue scherzevoli poesie, da cui poi è venuto il nome di stile bernesco ; in questo hanno scritto il Crassi, il Bruni le loro epistole eroiche ; in questo sono state tradotte da più autori le epistole eroiche di Ovidio, e in questo hà scritte le sue satire Vittorio Alfieri, Salvator Rosa, Antonio Abbate, ed altri ; due terzi in somma della poesia italiana sono stati scritti in tal metro. Ogni stanza di questo metro costa di tre versi endecasillabi accentati sull’ottava,(1) de’ quali il primo rima col terzo, ed il {p. 203}secondo fissa la rima della stanza, che siegue, e così in prosieguo ; onde è che un tal metro dicesi comunemente Catena. Chiunque impertanto vorrà comporre in questo metro sia accorto a disporre al secondo verso il cambiamento del pensiere per trovarsi colla rima adattata alla stanza seguente Eccone la norma.

Zeleuco, che salva un occhio al figlio colla perdita del suo.

Promulga il re Zeleuco il gran decreto
Che perda gli occhi, e cada in fier periglio
Ognun, che trasgredisce il suo divieto ;
Ma tosto si pentì del suo consiglio,
E pianse afflitto sulla propria legge
Scoverto reo il suo medesmo figlio.
Maledice quel dì, che nacque regge
Tardi condanna il troppo suo rigore,
E il duol del cor nel volto suo si legge ;
Ma pensando al dover del regnatore,
E qual’obbligo tien colui, che regna,
Che forma il ben d’altrui col suo dolore
Che il camin di giustizia un re disegna,
E chi è chiamato a dominar sul trono
La data legge coll’esempio insegna.
{p. 204}
Perciò a se chiama il figlio, e in mesto suono
Gli dice : a qual dolor m’hai trascina to,
Dovrei punirti, ma pur padre io sono.
E acciò non resti il trono mio macchiato
Serbi la legge, e le virtù supreme,
Nè esempio a trasgredir da noi fia dato
Nè vò, che provi tu le pene estreme,
Nè vò, che sia la legge trasgredita
Tu mancasti, io mancai, piangiamo insieme
La tua disubbidienza or fia punita,
La mia severità porti la pena,
Ed entrambi perdiam parte di vita.
Ambi perdiamo un occhio, e in ciò la piena
Del acerbo dolor sarà divisa
Così i soggetti un saggio rè raffrena,
E la causa così venne decisa.
{p. 205}

Cap. XVI.

Dell’ode saffica. §

Non v’è chi ignori essersi chiamato Saffico questo metro, ohe or ora spiegheremo dal nome di Saffo Lesbia poetessa. Questa nella effervescenza delle sue passioni d’un tal metro servissi per esporre i moltiplici diversi affetti, da quali tiranneggiato era il suo cuore. Per tal circostanza appunto ne avvenne, che un tal metro è stato sempre considerato adattabile a’ soli obietti teneri, compassionevoli, e funebri. Esso costa di quatro versi, tre endecasillabi, ed un quinario, dei quali il primo rima col terzo, ed il secondo col quarto. La legge poi, cui soggiace un tal metro di chiudere con sentenzioso quinario il pensiere sviluppato ne’ tre antecedenti endecasillabi, questo si è, che lo rende assai difficile, e presso che impraticabile. Quindi avvenne, che pochi hanno osato scrivere in tal metro, e nessuno l’ ha impiegato finora in vasti argomenti. Non vorrei però, che da ciò sgomentati i giovani disperassero la fortuna di giungere a comporre un ode saffica senza difetti. Se essi nel maneggiar questo metro avranno l’accuratezza di disporre nel secondo verso la sentenza del quarto, conseguiranno facilmente lo scopo bramato. Eccomi alla norma.

{p. 206} Orazia, che piange sulle spoglie del Curiazio ucciso dal fratello.

In mezzo a lieto stuol di più guerrieri
Ritorna Orazio di tutt’armi cinto,
E cantano il drappel tra’ carmi fieri
Poc’anzi estinto.
D’Orazio la sorella afflitta, anziosa
Sente, che un gel per l’ossa appien le scorre,
L’oste per incontrar tutt’affannosa
Afflitta accorre.
Vista la veste, che il fratel recava
Che pel Curiazio un dì trapunto avea
Repente esclama mentre il duol l’aggrava :
Ahi sorte rea !
Cadde dunque Curiazio, e tu spietato
Mirar potesti gli ultimi momenti
Di chi tanto amò : ed or di orgoglio armato
I fasti ostendi ?
Mirar potesti il moribendo aspetto,
Veder potesti del suo sangue un rio.
Mentre invocava il labro pallidetto
Il nome mio ?
Sentir potesti gli ultimi sospiri,
E l’interrotta, e tronca sua favella ?
Deh ! m’assisti al morir, se qui t’aggiri
Anima hella.
Ma tu che fai, che non compisci appieno
L’opra dettata dal tuo folle orgoglio
Passami traditor, passami il seno
Morire io voglio.
Mostro crudo, fellone, empio, spietato
Uso soltanto a inganno vile abbietto
Poichè il mio bene hai con orror svenato
Squarciami il petto.
{p. 207}
Non regge il grande a quelle accuse, e forte
Il brando snuda, e le trapassa il core.
Ed ella mostra mentre cade a morte.
Ardire, e amore.
Come la rosa, che il fier turbo schianta
E perde nel cader beltà, colore,
Così colei, che di pallor s’ammanta
Allor sen muore.
E in mezzo al sangue mentre l’alma spira
Fà, che l’ultima voce ognuno intende
Chiamò Curiazio, intorno i lumi gira,
E all’Orco scende.
{p. 208}

Cap. XVII.

Della sestina croica §

La sestina croica, come la voce istessa l’addita, costa di sei versi eroici, de’ quali i primi quattro rimano alternativamente, e gli altri due immediatamente fra loro. Un tal metro è trattabile in ogni sorte di argomento, ed in tutti conserva egualmente le sue bellezze. Consiglio perciò gli apprendenti della divina arte poetica ad esercitarsi in queslo metro, specialmente nel comporre elogii a grandi Eroi prima di provarsi all’Ottava, ed al Sonetto. Eccone intanto il modello

Bruto, che condanna Tito, e Tiberio suoi figli a morte.

Già la Romana libertà vagiva
Per opra del possente ardito Bruto,
Già la superba tirannìa fuggiva
Era il soglio rëale omai caduto
Ma il vil Tarquinio, che non anco parte
Per sedurre i Romani adopra ogn’arte.
{p. 209}
Si forma in Roma una fatal congiura
Per dare al Regge l’usurpato soglio
Vindicio l’ode, e palesar procura
A consoli il vicino aspro cordoglio,
Bruto più di ciascun geme in perigli
Perchè son congiurati i due suoi figli.
Son venticinque giovani i rubelli,
Che egli fece tradur tutti in Senato ;
Quindi feroce manifesta a quelli
Il di già conosciuto empio attentato
Tremon color con animo confuso,
Nè ponno a tanto error trovar la scusa.
Bruto esclama : Romani or che faremo
Qual sarà di costor la giusta sorte ?
Roma per essi fù al periglio estremo
Perciò a ragione io li condanno a morte,
E perchè non si dolga alcun de’ rei
Pria di tutti condanno i figli miei.
Cada tanta empietà depressa, e doma
Paghino col morir l’indegno errore
Pria d’esser padre lor fui figlio a Roma
Questa mi parla, e non natura al core
Provino i figli rei giusto destino
Pria d’esser Genitor fui Cittadino.
{p. 210}

Cap. XVIII.

Dell’ottava §

Il metro più nobile, che vantar possa l’italica poesia, ed il più adatto del pari a descrivere in vaghe forme le più grandiose idee è l’Ottava rima del Boccaccio. Questa mercè gli otto eroici, de’ quali costa, mentre co’ sei primi alternativamente rimati presenta alla mente un vasto campo da percorrere, offre cogli due ultimi reciprocamente obbligati la occasione più bella di poter con forte sentenza, quasi con colpo impreveduto, conchiudere i suoi detti. Il formar però poemi in questo metro degni de’ comuni suffragii non è veramente alla portata de’ principianti, ma sol de’ provetti nell’arte. E qual giovanetto in vero può aver la fortuna di sollevar tant’alto il suo volo sichè possi non dico raggiungere, ma tenersi poco dietro alle orme di alcnne aquile generose, e specialmente de due toscani Omeri l’Ariosto cioè, ed il Tasso ? L’Orlando furioso del primo, la Gerusalemme liberata del secondo sono in questo metro i più perfetti poemi della poetica favella. Vero è che tale ritmo sovente si adatta ancora a materie giocose, come la Secchia rapita del Tassoni, lo scherno degli Dei del Bracciolini ec. Ma se la grandiosità del poeta non nobilita in tal caso il poema, tal metro privo allora delle robuste espressioni, che ricerca, {p. 211}decade con lagrimevol veduta dal suo natio decoro. Badino dunque bene i giovani a queste vedute, ed attendino pria a consumarsi nella lettura de’classici, e nell’esercizio di altri più facili metri, e poi con avvedutezza a discendere a questa ardua impresa. Diamone intanto il modello.

Attilio, che torna a Cartagine..

Vista il saldo roman la patria afflitta
Cerca destarle di virtù l’ardore
Acciocchè ognun la sua costanza invitta
Conservi sempre, e se l’imprima al core,
Priachè l’infausto mar forte tragitta
Dice : Romani è vano uu tal dolore
Quanto feci per voi ciascun rammenti,
E più che morte il suo rossor paventi.
Cedere i prigionier sarìa funesto,
E periglioso un così tristo esempio ;
Perchè il roman soldato allora infesto
Più non sarà temendo il proprio scempio
Nè giovarvi potrò se in Roma io resto
Già carco di anni, onde al dovere adempio :
Se in verde età vi diedi il sangue mio
Per voi morrò, ma qui si piange Addio.
Cosi parlato con sereno ciglio
Lascia la patria, e va costante a morte
Innalzandola ancor col suo consiglio
Da se stesso tornò fra le ritorte
Senza temere il suo vicin periglio
Da grande visse, e sa morir da forte,
Ed insegna spirando all’Africano
Come sprezza la morte un cor romano.
{p. 212}

Cap. XIX.

Della terzina sdrucciola §

Qual passo astruso pe’poveri compositori ! Questo terri bil metro è per consenso di tutt’i conoscitori dell’arte pressochè impraticabile. Ed in vero se la terza rima piana incontra molte difficoltà per la sua concatenazione, quante maggiori dovrà averne questa, stante che le voci sdrucciole non avendo un suono piano rarissime volte possono rimare fraloro ? Il Sannazzaro istesso, che volle il primo azzardarsi a cantare in tal metro si aiutò colle prose, e spesse volte lasciava la terza rima sdrucciola, e prendeva la piana, perchè quella si rendeva intrattabile. Tale esempio scosse l’ottimo cavalier Ricci a non servirsi della terzina sdrucciola, ma bensì dell’ottava nel comporre quel bellissimo lavoro degno di tutti gli elogii, il lamento cioè di Maria a piè della Croce. Esesndo dunque si difficile un tal metro, sebbene come si disse nel Cap. I. il verso deve servire al pensiero, e non questo a quello ; pur tutta volta in questo, come nel citato luogo si avertì, è necessario, che il pensiere spesse volte serva al verso ; mentre quì il poeta deve dire, ciò che può, non gïa ciò, {p. 213}chevuole, e se per accidente s’incoutra a terminare il sccondo verso con una rima, che non abbia le altre due compagne, trovasi giunto alle Sirti senza poter più nè avvanzarsi, nè dare indietro. Un tal metro per altro non sembra affatto adattabile a cose eroiche, guerriere, funebri ec. ma pare assolutamente fatto per dialoghi pastorali, e cose boscarecce. Eccone l’esempio.

Uranio, e Titiro, che si lamentano del pastor Melibeo, perché è un ladro.

Tit. Vicni, siediti quì mio caro Uranio
Ora, che il Sole è già vicino a nascere,
E senti pur perchè m’affliggo, e smanio.
Uran. Titiro mio pazienza, e non t’irascere
Teco m’assido su queste erbe tenere,
Mentre il mio gregge Alcon conduce a pascere.
Lascia di borbottar, saluta Venere,
Che in si bella stagione i campi decora,
Per cui fa i fiori uscir fin dalla cenere.
Odi il cantar dell’usignuol, e l’Ecora ;
Ma tu ti mordi il labbro ? alcerto io dubito,
Che fremi ancor per la rubata pecora.
Tit. Uranio mio possa morir di subito
Quel Melibeo mascalzon ladrissimo,
Che per batterlo ier mi svolsi il gubito.
Tre mesi son, che il mio capron bellissimo
Fe per que’greppi divorando bacchere,
E i cespi apria col corno suo fortissimo
Vien Melibeo, e con moïne, e zacchere
Tanto gli fece, che sel seppe togliere,
E sel condusse al suon di pive, e nacchere.
Uran. Titiro mio non ci potremo sciogliere
Da un ladrone si astuto, e si terribile
Che sà tutti gli istanti ardito cogliere.
{p. 214}
Or senti, e vedi se ti par possibile,
Fra le sue ruberie pur questa annovero,
Che ad ognun, che l’udì parve incredibile.
Venne a cercare il foco al mio ricovero,
E innanzi a tutti con prestezza estranea
Tolse una secchia, e un banghettin di sovero.
Tit. Ma priache tutti noi mangia, e dìlania
Uniamci tutti, e ci convien decidere
Di qui si scacci, e se si ostina, e smania,
E non si parte lo sapremo uccidere.
{p. 215}

Cap. XX.

Della pastorale. §

Questo metro benchè rare volte trattato per le difficoltà, che in se racchiude, contiene per altro mille bellezze allorchè è ben maneggiato. Esso presso i Greci poeti fù un giorno in gran pompa, e ben sappiamo nella gara di Omero, ed Esiodo ne’giuochi Olimpici sotto il regno di Agide Spartano, che Omero quantunque il cantor di Achille, il panegerista di Ulisse, e l’apologista della Grecia fù vinto da Esiodo non per altro, se non perchè quegli a suo solito cantó gesta guerriere, e furor di battaglia, e questi cantò i piaceri della vita campestre, ed i vantaggi della vita pastorale nel metro suddetto con sommo piacere degli spettatori ; lo che poi fù la occasione, per cui Omero, vecchio pittor delle memorie antiche, volendo per vendetta satirizzare i Greci un di tanto esaltati scrisse Batriochomachia, ossia la battaglia de’topi, delle rane, e dei gambari. Fin d’allora l’ode pastorale avvanzò più di credito, e Teocrito trasse per essa non pochi onori, e ricchezze in Sicilia. Mancò l’Italia per più secoli della vera pastorale di Esiodo, e sebbene in tempi non tanto remoti sia stata trattata dalla gran penna del Sannazzaro, pur {p. 216}nella tessitura cemparve sotto le insegne Virgiliane, piuttosto che Esiodiche. Impegno poscia si fù del celebre, ma immorale Cav. Gioambattista Marino di far ritornare la pastorale nelle antiche braccia di Esiodo. Due componimenti di tal natura a bella posta ei fece, uno per Lilla, per Cirene l’altro, entrambi però avvelenati dal depravato suo genio. Scrissero dopo lui molti altri delle belle pastorali, ma perchè le lavoravono a capriccio, non diedero perciò mai il perfetto ritmo di essa. Se però ben si rifletta questa è da dirsi la vera tessitura dell’Esiodica pastorale. Costa ogni stanza di otto versi, de quali i primi quattro sono eroici alternativamente rimati, due altri sono ottonarii, che rimano fra loro, il settimo è quinario, che rima all’ottavo, che è eroico. Ecco la solita forma.

La primavera.

Tiepido il raggio gïa dall’alto scende,
Mormora il venticel dolce alla valle,
L’aura serena dolce l’aria rende,
E si comincia a scior nevoso calle,
Dolce il rio di andar si sforza
Crepa il ramo la sua scorza,
È mentre abbonda
Di nuovo umor produce il fior, la fronda.
Comincia vaga erbetta a uscir dal suolo,
E l’olezzo al color confonde, e mesce,
Spiega l’augello più sicuro il volo,
Mentre l’ombra ne’boschi avvanza, e cresce.
Già sorride la campagna
Più la gregge non si lagna,
E corre in fretta
A pascolar la già rinata erbetta
Scendon dal monte mille, e mille rivi,
Che versa intorno la disciolta neve
Mostrano i fonti i puri argenti, e vivi,
Zefiro lambe i tronchi in soffio lieve,
{p. 217}
Alza il passero il suo grido,
Fà la rondine il suo nido,
E ferma il volo
Sulla fronzuta quercia l’usignuolo.
E dolce il mormorar del fiumicello,
E grato il gracidar pur della rana,
E lieto il susurrar dell’arboscello,
E caro il mormorio della fontana,
Bello è il mare, e la marina,
Grato è il bosco, la collina,
E in tanti oggetti
Sente il mortal nel sen nuovi diletti.
{p. 218}

Cap. XXI.

Della canzona. §

Questo componimento, che perfettamente somiglia alle ode de’Greci, e de’Latini è uno de’più belli, e famosi lavori italiani. In esso si distinsero il Petrarca, l’Ariosto, il Tasso, e più da vicino il chiarissimo Senatore Vincenzio da Filicaia. Tal componimento per legge di sua lunghezza deve contenere non meno di cinque, nè più di venti strofe composte di sette, otto, e più versi Endecasillabi, e Settenarii da rimarsi a genio di chi compone, meno che nella chiusura, dove la rima o avvince i due ultimi, e col antipenultimo l’estremo. Essendo dunque arbitrario nell’intreccio un tal metro, col seguente esempio intendo insegnare sol un modello, e non prefiggere una norma invariabile della Canzone.

Per la morte di Pio VII.

Chi al pianto porgerà cotanta vena
Onde fugar dal core
Il cumulo d’affanni, che l’opprime,
E in si fatal dolore
{p. 219}
Chi al seno porgerà forza cotanta
Perchè il pastore egregioChe volò dalla terra in sen di Dio,
E come rammentare ogni suo pregio.
Egli, che travagliò tanto nel mondo
Perchè la navicella
Non travïasse il diritto suo camino,
E in sen della procella
Ritta la raddrizzò tra scoglio, e scoglio,
Ed or dov’è il nocchiero
Che con tanto sudore, e tanta cura
L’umil nave guidò nel salso impero ?
Oh ! di quanti tormenti, e quante cure
Si caricò pietoso
Per trar la greggia dal fatal periglio,
E senza aver riposo
Pretese di far suoi l’altrui tormenti,
E oppresso, e desolato
Mentre il fulmin fatal strisciava intorno
Attese senza orror l’ultimo fato.
In faccia all’armi, e la baldanza rea
Mai non piegò la fronte ;
Pari al signor, che per l’altrui delitti
Sparse di sangue un fonte ;
Tal’egli offre per tutti la sua vita,
E invoca dal gran Dio
Dicendo : alto Fattor gl’empii perdona,
E prendi in lor discolpa il sangue mio.
Dov’è dunque colui, che giunse a tanto ?
Così fini la vita ?
Dov’è il gran difensor de’sventurati ?
Chi ne darà più aita ?
Ma perchè invidiar l’alta sua sorte ?
Egli del tanto zelo
Già trova il suo riposo in sen di Dio,
E il premio al suo sudor si gode in Cielo.
{p. 220}

Cap. XXII.

Del sonetto. §

Quai naviganti, che scorsi mille pericoli in mari ignoti trovano ancora vicino al porto in faccia a nascosti scogli che temere ; tal mi son io, che giunto al termine di questo poetico trattato incontro pur di che ancor prudentemente temere, dovendo in quest’ultimo de’miei capitoli trattar dell’opera più bella, più grande, ed insiem più difficoltosa dell’arte poetica, tradotta da Provenzali un di nel culto seno della bella Italia, del Sonetto io dissi. Questo più nobil patro però dell’umano ingegno ad onta del suo natio decoro ha incontrato a dirla schietta la sorte istessa della nobile medicina. Questa dopo aver un di meritato tempii ad Esculapio, monumenti ad Ippocrate, e Peone, è divenuta omai la facoltà de’ Giabbattini, non che delle stesse più vili feminuccie ; mentre esser ragionevole non v’è per vil che sia, che non presuma tastare il polzo, e prescrivere ricette, e consigli ; cosi il Sonetto dopo aver occupate le prime menti, dopo aver fatto riportare i primi onori atti a far scorno alla morte istessa, oggi quasi che fosse una canzone de veneti Gondolieri è caduto iu potere degl’ingegni i più che dozzinali ; ne mente vi è per limitata che sia, che non ardisce calzare {p. 221}lo stretto ceturno di Melpomene, ed adagiarsi sull’ invariabile letto del famoso Procuste, quasi che se non si avesse qualche sonetto di questi tali ne andrebbe, al dir del Menzini, il Parnasso tutto in rovina. Deh ! Ricredansi omai questi sciocchi, se non vogliono colla moneta dei pubblici scarcasmi pagar meritamente il fio del loro audace ardimento. Chi vuol montare a questo segno deve spargere pria non pochi sudori si nella lettura de’ classici, che nell’ esercizio de’ diversi ritmi dell’ arte, e poi inoltrarsi pian piano al cimento di si ardua impresa. La celebre raccolta del carmelitano Teobaldo Ceva, colle note critiche del Muratori, non che la dissertazione dello stesso mentre fan chiaro conoscere la difficoltà di un tal componimento, confermano del pari, e non con minor lume l’azidetta mia verità. Quindi non senza ragione molte, e molte regole con maestrevole industria prescrivansi da primi conoscitori dell’ arte su tal punto, alle quali, perchè degne di esser lette, meditate, e ridotte all’ uso i miei lettori unicamente rimetto. La sola distribuzione della materia però (previa di già la unità del pensiere, la nobiltà dell’ argomento) degna sempre di riflessione in tutte le composizioni, e molto più in questa, che di tutte è la più nobile mi spinge per un momento almeno a trattarla. Ci si sia adunque un’ occhiata.

Sull’ ordinaria estensione di quattordici versi eroici divisi in due quartine, e due terzine è da conchiudersi qualunque siasi il concepito disegno, senza però far torto alla chiarezza se mai è lungo, senza offenderne l’andamento se è breve. Or per ben riuscirvi bisogna, che ogni parte del Sonetto contenghi una proporzionata dose di materia. Ragion dunque vuole, che la prima quartina contenghi l’esordio, la seconda colla prima terzina, abbracci il corpo della narrativa, la seconda terzina restringa finalmente la conclusione. Quest’ ultima parte però perchè in preferenza delle altre la ragion contiene, per cui maestoso, e bello risulti il Sonetto, essa in particolar modo occupar deve l’ingegno di chi compona ; mentre il Sonetto, al pari d’un torrente, che {p. 222}vicino alla foce porta maggior copia di acque, nell’ avvicinarsi al suo termine deve finire con una sentenza, che ferisce il cuore, e cagiona una forte sorpresa. Leggansi in vero i Sonetti de più celebri compositori, e si vedrà, che questa parte appunto hà formato il principale loro scopo. Può darsi in vero chiusura più bella o di questa del Petrarca. « Poco manco che io non restassi in Cielo » « o di questa del Frugoni : Ecco in un pugno il vincitor del Mondo » o di questa del Zappi : « Qualche nuovo sospirio imparerai » o di questa del Tasso : « Ch’io son dagli anni, e da fortuna oppresso » o di questa del Bentivoglio : « Del gran Titiro mio sol mi contento » o di questa del Maggi : « Passò l’onda villana, e non rispose » o di mille altri sonetti, e mille altri autori, che per brevità io tralascio ? In questi, come in tanti esemplari specchiar si deve chiunque ama comparir nel Sonetto.

Inoltre tre specie di Sonetti la poetica arte ravvisa, l’ Eroico cioè, il Decasillabo, ed il Lirico, mentre le altre, che sotto accenneremo, tutte partono da questi modelli, ed ad essi si possono per conseguenza riferire. Può rimare il Sonetto per rapporto ai due quadernarii, o nel primo, e terzo, secondo, e quarto verso, o nel primo, e quarto, secondo, e terzo : per rapporto poi alle terzine, sogliono esse rimare come la terza rima, cioè nel primo, e nel terzo, mentre il secondo verso porge la rima all’ altro ternario. Questa legge però di rimare in tal guisa non è stata sempre la stessa ; mentre in maniere molto diverse scorgiamo ne poeti specialmente antichi concatenati i Sonetti, questa però ciò non ostante ne’ nostri giorni è la più usita ta. Venendo poi alla pratica, sebbene potrei addurre per norma i più belli Sonetti, che sotto un tal triplice divisato aspetto trovansi in diversi autori ; pur tutta volta perchè nelle precedenti composizioni hò dato tutto del mio senza copiar le altrui fatiche, così mi conviene fare ancora in questa specie di componimento, tutto che sappia, che i miei Sonetti tanto cedono a quei de Classici, quantum lenta solent inter viburna cupressi. Virg. ec. 1.

{p. 223} Tullia, che passa col carro sul cadavere del Padre.

SONETTO ENDECASILLABO.

L’iniqua figlia dispietata, e dura
Spinta da vil fallace ambizïone
Scordandosi pietà, dover, ragione
Arriva a calpestar fin la natura.
Visto il suo padre in grembo a rea sventura
Superbamente al mesto auriga impone,
Che dia feroce ai suoi caval di sprone,
E il corpo al genitor schiacciar procura
Ma perchè quei ricusa ella il punisce
Del padre fatta già terribil scherno
E quant’ella empi a è più, più par, che ardisce
Tremò a tal’ opra il gran pianeta eterno,
E mentre la rea dell’ error gioisce
Perdè la luce il Sol, rise l’inferno.

La Maschera

SONETTO DECASILLABO

L’uomo, che mascherando ognor si và
Mostra, che ragionevole non è,
Chi di farsi temer timor non hà
Sotto maschera mai non s’ascondè.
Ma chi la conoscenza altrui non dà
Perchè forse talor mancò di fè
Le sembianze d’altrui le sue ne fà
Col soccorso, che l’arte appien gli diè.
La maschera gran cosa esser non può,
Perchè va confondendo il meno, e il più,
E fa dir facilmente il si, e il nò.
Abbia dunque per norma chi è quaggiù
La maschera evitare, ed io ben sò,
Che non sa mascherarsi la virtù.

{p. 224} La Rosa, che si lagna d’esser colta mezz’ aperta.

SONETTO LIRICO

Perchè mai destra villana
Or mi strappi al gambo mio
Qual’ è il mal, che t’ hò fatt’ io,
Che mi dai pena si strana.
Sarei stata la sovrana
Sopra il cespo in faccia al rio ;
Se più apriva il seno oh Dio,
Se la destra era più umana
Or perduta hò la bellezza,
Non son più la verginella,
Più non trovo in me vaghezza.
Se la mano men rubella
Non mi usava tanta asprezza
Tutta schiusa era più bella

Oltre le tre divisate specie di Sonetti, molti altri di diverse foggia ancor vi sarebbero, come gli acrostici, i bisdruccioli, i Bisticciati ec. ma lasciando da parte queste stentate freddure, di due soltanto più necessarii a sapersi farò brevemente parola. Questi sono il Sonetto in risposta, ed il Sonetto coll’ intercalare, a quali in fine aggiungerò una norma del Sonetto a rime obbligate.

I. Il Sonetto di risposta altro non è che il riscontro dato a qualche proposta ristretta in Sonetto. Or qui convien avvertire, che variamente formavansi dagli antichi le risposte, come può leggersi ne Comm. del Crescimbeni ; ma presso i moderni dietro il Petrarca, ed il Casa due son principalmente le ammesse, o rispondere cioè colle stesse consonanze, ma non colle stesse parole, o rispondere del tutto colle stesse voci adoperate nella proposta. Della quale seconda maniera perchè oggi più comunemente praticata eccone dopo la proposta l’ esempio

{p. 225} Titiro, ché invita Melibeo alla capanna

Mio dolce Melibeo vieni t’aspetto
Passiam dell’ ozio il tempo alla capanna
Quando il raggio del Sol non più ci affanna,
E dei campi più dolce è allor l’aspetto.
Sul limitar tengo un erboso letto
Che ameno l’ombra il fa di qualche canna,
Vieni, che il fido amice non t’inganna
Cacio, pomi, castagne hò ancor nel tetto.
Colà la tua zampogna suonerai,
Al di cui suono unendo il canto mio
Godrò dolce piacere, e tu ’l godrai.
Desta ormai nel tuo cor si bel desio,
Non tardare, t’affretta, e se verrai
Per gioia un’ agnellin svenar vogl’ io.

Risposta di Melibeo.

Caro Titiro mio la greggia aspetto,
E deggio rassettar la mia capanna,
E quando il sol col raggio non affanna
M’occupa del mio ovil solo l’aspetto.
Dopo gli affar mi pince andarne al letto,
Nè di zampogna più toccar la canna ;
Che lo stravizzo non mi vince, o inganna,
E mi piace posar sol nel mio tetto.
Se tu la piva dolce suonerai
Mentre che dolce gusto il sonno mio
Io dormo, e godo, e tu in vegliar godrai,
Appaga qual tu vuoi si bel desio
Vieni a veder qual sono, e se verrai
Ti saprò dar quel, che donar poss’ io.

II. Il Sonetto coll’ intercalare disegna quel Sonetto, in cui alla fine de’rispettivi Quartetti, e Ter zine si ripete il {p. 226}verso usato nel principio di quelli, e di queste ; sichè in vece di quattordici versi ne avrà un tal Sonetto quattro di più, non però sgarbatamente aggiunti, ma convenevolmente tradotti dal corpo istesso, affin di aggiungergli maggior robustezza, ed energia. Tal composizione però sembra sol’ adattabile allo stile basso, e pastorale. Eccone l’ esempio.

Didone abbandonata, che ascende la pira.

Hai vinto, hai vinto mia perversa sorte,
Eecomi omai schernita, e abbandonata ;
Se la mia gloria cade or calpestata
Che serve più indugiar, corriamo a morte ;
Hai vinto, hai vinto mia perversa sorte.
Di Cartago cader veggio le porte,
Veggo la reggia oppressa, e desolata
Che più ti resta donna sventurata
Senza tron, senza regno, e senza corte ;
Hai vinto hai vinto mia perversa sorte ;
Ma colui, che di me volle lo scherno
Vedrà che puote il mio crudel furore,
Avrà il mio spirto per compagno eterno
Quel crudel, che di me volle lo scherno.
Fin che compagno del mio lungo errore
Scenderà meco nell’ orrendo inferno
Dividendo con me l’aspro dolore
Sempre compagno del mio lungo errore.

III. Finalmente intorno al Sonetto da tessersi colle rime prescritte non stimo necessario apporre altre nozioni ; mentre, esso le tracce, e le norme siegue del Sonetto in generale. Suole questo per lo più darsi agli Estemporanei ; non saprei però se più per scandagliarne le bravure, o per facilitarne vieppiù l’impresa ; mentre il poeta allora invece di dividere il pensiero all’ obietto insieme, ed alla rima, lo fissera {p. 227}unicamente a quello, ben sapendo, che non può mancargli mai questa pertanto eccone la norma.

Ovidio, che si licenzia da suoi

Chi preveder potea si orribil danno ? Danno
Chi preveder tenta tremenda pena ? Pena
Ahi ! Che non reggo a si spietato affanno, Affanno
Or che crudo voler ponmi in catena. Catena
Hai vinto al fine mio destin tiranno, Tiranno
Vado a perir nella deserta arena, Arena
Veggo di sorte lo spietato inganno ; Inganno
Chè il Ciel contro di me tuona, e balena. Balena
Come per me il favor cangiò del fato ? Fato
Tardi conosco il folle, e vil desio, Desio
Per cui l’ esiglio mio soffro spietato. Spietato
Deh ! Rammentisi ognun del dolor mio ; Mio
Se Augusto al mio servir si mostra ingrato Ingrato
Roma, figli, consorte, amici addio. Addio
{p. 228}

Parte quarta.

Della poesia latina. §

Poichè la poetica materia sotto la diversità delle lingue, avvegnachè investa accidentali caratteri più, o meno vistosi secondo le maggiori, o minori bellezze, e veneri d’ogni rispettivo linguaggio, non cangia unquemai però il suo essere, anzi sempre la stessa si conserva nella natura de’ componenti suoi membri ; chiaro ognuno scorge come avendo io di essa, e d’ogni sua parte sufficientemente ragionato nel precedente trattato della poesia toscana, nella circostanza non sono di formar di quest’ ultima parte sacra alle muse latine un distinto trattato al pari del primo ben’ ampio, ed esteso, potendola ben considerare, come fin dal principio dell’ operetta esposi, come di appendice, e soggiunta della precedente. Ragionato quindi in tal guisa il mio giudizio efformato sù tal proposito, non sarà a chi siasi di maraviglia se con affrettato passo percorrer mi vede il presente sentiero. Per dar però alla materia qualch’ordine, da cui acquista non poco la chiarezza, che de’libri suol essere il primo pregio, e decoro, in tre distinti capitoli divisatamente la restringo, e gradatamente la sviluppo, e dichiaro. Nel 1. parlerò {p. 229}de’piedi, loro nomi, e valore. Nel 2. ragionerò del verso, e delle differenti sue specie. Nel 3. Finalmente tratterò della varietà delle strofe, delle quali ogni più ordinario componimento si efforma, esempliflcando la speculativa conoscenza di ciascuna di esse con una strofa pratica da me stesso bassamente lavorata a tenore della capacità di qualunque siasi ingegno.

{p. 230}

Cap. I.

De’ piedi, lor nome, e valore. §

Siccome il verso toscano costa di sillabe, cosí di piedi è composto il latino ; e come per la disposta unione di quelle camina il primo con allettante armonia, così per l’ordinato misto di questi sonoro si rende il secondo. Dalla varietà però della nomenclatura de’ piedi parlano di essi alcuni Grammatici in modo di annoiare la noia istessa, colla mira soltanto, a mio credere, di caricar la memoria senza frutto. Sembrandomi quindi necessaria la sola cognizione di quelli, che entrono nella costruzione de’versi più comunemente praticati, di essi soli perciò passo a far brevemente parola. Questi sono sei, tre di due sillabe, cioè lo Spondeo, il Trocheo, ed il Giambo, tre altri poi di tre, cioè il Tribraco, il Dattilo, e l’Anapesto.

I. Lo spondeo, di cui un di per la sua gravità facevasi grand’uso ne’ sacrificii, come la etimologia istessa l’ adombra, è composte di due sillabe amendue lunghe, come Fortes, Terrent, Cunctos ecc.

II. Il Trocheo detto ancor da Cic. Corco adoperato dagli antichi nelle cantate a danze, costa di due sillabe differenti nella lor quantità, d’una lunga cioè, e d’una breve come Curre, Tembla, Cerne ecc.

III. Il Giambo inventato dalla donzella Giamba, ed {p. 231}usato ne’ componimenti satirici, e pungenti è l’opposto del Trocheo, perche costante d’una breve, e d’una lunga, come Boni, Viri, Dabunt ecc.

IV. Il Tribraco, come scorgesi dagli stessi componenti, onde risulta tal voce, è composto di tre sillabe brevi nella lor quantità, come Domine, Dominus, Hominis, ecc.

V. Il Dattilo detto ancora da Cic. Eroico, perchè atto a descrivere le grandiose imprese degli Eroi, costa di tre sillabe, delle quali la sola prima è lunga, come Plurima, Ducere, Carmina ecc.

VI. L’Anapesto finalmente è l’opposto del Dattilo, perchè per esso nelle danze in un modo tutto diverso dei dattilici salti erano le mosse de’ piedi, perciò consiste in due brevi, ed una lunga, come Trepidant, Populi, Timidi ec.

Qui però pria di passar oltre fa di mestieri avvertire, che una sillaba benchè sia breve per sua natura, pur se finisce con consonante, e con altra consonante incomincia la voce seguente, essa in tal caso soffre cambiamento nella sua quantità, come in questo esempio : Christus colendus l’us della parola Christus, che per la Reg. L. del nuovo Met. è breve, perchè seguita dalla parola colendus, che comincia da consonante diventa lunga, e quindi la voce intera Christus per tal’accidente da Trocheo passa a Spondeo, lo che non sarebbe avvenuto se fosse seguita una vocale, come Christus amandus.

{p. 232}

Cap. II.

Del verso e delle differenti §

Quell’aggregato di più piedi, che costituisce quell’armoniaca tessitura, che per antonomasia appellasi Verso siccome in rapporto al numero, ed al valore de’ suoi componenti cangia sempre di aspetto, così apre il campo a mille versi distinti nella numerica, e specifica lor differenza. Qualunque siasi però la loro moltiplice diversità si possono a tre classi commodamente ridurre, agli Esametri cioè, a Giambici, ed a Lirici, quali tutti imprendo brevemente ad esporre.

Articolo I.

Dell’ Esametro.ABC. §

L’esametro, come la voce istessa disegna, costa di sei piedi in parte Dattili, ed in parte Spondei. Esso ne’ primi quattro piedi offre l’arbitrio di usare questi, o quelli secondo il genio dell’autore, e secondo che la natura della materia richiede ; ma nel quinto pretende onninamente il Dattilo, come nel sesto piede lo Spondeo, nè l’esempio di qualche Spondiaco, o Dattilico Esametro, che raro s’incontra, {p. 233}può giammai opporsi a tal norma(1). Nel formarsi un tale verso attendasi a far cadere la cesura (ossia distaccamento dell’ultima sillaba d’una parola) o dopo il secondo piede, o dopo il primo, ed il terzo in mancanza di quella. Abbiasi ancor la cura di terminarlo con parole di tre, o di due sillabe, mai però col monosillabo, eccetto soltanto qualora sia incorporato colla parola precedente, come in questo di Virg. Ec. 2. 70. Semiputata tibi frondosa vitis in ulmo est(2).

Inoltre al verso Esametro si riducono altri versi differenti, e questi sino al numero di sette, cioè il Pentametro, l’ Archilochio, il Ferecrazio, l’ Adonio, e tre altri innominati.

I. Il Pentametro costa, secondo indica la stessa voce, di cinque piedi, cioè d’un Dattilo libero, d’uno Spondeo similmente libero, d’uno Spondeo forzoso, e di due {p. 234}Anapesti anch’essi forzosi, benchè per altro comunemente si scande per due piedi Dattili, o Spondei come siansi ed una cesura, due altri dattili quindi con altra cesura, come : Hei mihi quo Domi-no non licet ire tu-o. Ov. lib. 1. Eleg. 1.

II. L’ Archilochio detto da Archiloco suo inventore costa di due Dattili, ed una cesura, come : Flumina praetcreunt Oraz. lib, 4. Pd. 5.

III. Il Ferecrazio dall’ Ateniese Ferecrate così detto con siste in uno Spondeo, un Dattilo, ed un’altro Spondeo, come : Vix durare carinae. Or. lib. 1. Od. 14.

IV. L’ Adonio così nominato da Adone, di cui in onor si cantava, ha un dattilo, ed uno Spondeo, come : Nomen imago. Or. lib. 1. Od. 12.

V. L’ Innominato primo costa di tre dattili, ed una cesura, come : Munera, laetitiamque Dei. Virg. 1. Æneid. 640.

VI. L’ Innominato secondo costa de’ primi quattro piedi dell’ Esametro, con legge però d’avere il quarto sempre dattilo, come : Luminibusque prior rediit vigor Boet. lib. 1.

VII. L’ Innominato terzo finalmente contiene gli ultimi quattro piedi dell’ Esametro, come : Aut Ephyum, bimarisve Corinthi. Or lib. 1. Od VII.

Articolo II.

De’ Giambici. §

Per verso Giambico intendesi quel verso, in cui domina il piede Giambo, e sebbene un tempo vi dominava con dominio esclusivo ; pur oggi può dirsi, che sia il meno che vi regna. Un tal verso dal numero de’ piedi prende diverso il suo nome, sicchè dicesi Dimetro se costa di quattro piedi, come : Nivesque dedducunt Iovem. Or. Epod. Trimetro se ne abbraccia sei, come Quicumque regno fidit, et magna potens. Sen. in Troad. Tetametro se si compone di otto : {p. 235}Pecuniam in loco negligere maxumum interdum est lucrum. Ter. Ad. I Dimetri soli perche più brevi hanno conservata per metà l’antichià di lor composizione, mentre il solo Spondee con ben innesto si frappone ; ne’ Trimetri però, e molto più nei Tetrametri indifferentemente si è fatto cadere oltre, del detto Spondeo, il Tribraco, il Dattilo, l’Anapesto, come può vedersi in Plaut, Fed. e Ter.

Articolo III.

De’ Lirici. §

Per evitar la confusione, che risulta dal moltiplice stuole de’versi Lirici li riduco tutti a tre classi, cioè in Coriambici, Endeceasillabi, ed Anapestici. Alla classe de’ Coriambici appartiene il Gliconio, l’ Asclepiadco, e due Innominati.

I. Il Gliconio costa d’uno Spondeo, un Trocheo, e due Grambi, come Ignotus moritur sibi. Sèn in Thyest.

II. L’ Asclepiadeo è composto di uno spondeo, d’un dattilo seguito da cesura, e due altri Dattili come : Sublimi feriam sidera vertice. Or. lib. 1. Od. 1.

III. L’ Innominato primo, che è più lungo dell’ Asclepiadeo per quattro sillabe costa d’uno Spondeo, d’un Dattilo, d’un altro Spondeo d’un Anapesto, e di due dattili, come : Seu plures hiemes, seu tribuit Iupiter ulcimam. Or. lib. 1. Od. 11.

IV. L’ Innominato secondo per altro poco usato è uguale all’ Asclepiadeo almeno nel valor della quantità, e perciò abbraccia uno Spondeo, un dattilo con cesnra, un altro dattilo, ed un’altro Spondeo, come : O quam glorifica luce coruscas Boez. lib. 1.

Alla classe poi degli Endecasillabi si riducono i Faleuci, i Saffici, e gli Alcaici.

I. I Faleuci detti così dal greco inventore Faleuco costano d’uno Spondeo, d’un dattilo, e tre Trochei, come : {p. 236}Iucundissime Calve, munere isto. Catul. nell’ Epig. a Calv.

II. I Saffici invenzione della greca poetessa Saffo contengono un Trocheo, uno Spondeo, un dattilo, e due Trochei come : Iam satis terris nivis, atque dirae. Or. lib. 1. Od. 2.

III. Gli Alcaici inventati da Alceo hanno quattro piedi, cioè un Giambo, o uno Spondeo in suo luogo, un giambo con cesura, ed in fin due dattili, come : Donec virenti canities abest. Or. lib. 1. Od. 9. Il minore poi ha due Dattili sol, e due Corei, come Composita repetantur hora. Ib.

Gli Anapestici finalmente costituiseono l’ultima classe dei versi lirici. A questi parmi essere accaduto, quel, che suole avvenire ad un titolato, che combattuto da diversi sinistri accidenti gli resta per fine il solo titolo senza patrimonio. Imperocchè mentre un tal verso dai quattro piedi Anapesti, dei quali era composto improntò il suo nome, nel decadimento del rigore colla sostituzione de’ dattili, e de’ Spondei in lor vece restò decorato del semplice nome, e privo della tessitura primiera ; benchè per altro coll’aver ricevuto un valore equivalente al primo è da dissi più felice del detto Titolato.

{p. 237}

Cap. III.

Della diversita’ delle strofe. §

In quest’ultimo capitolo del ristretto della poesia latina passando sotto silenzio la diversità de’ componimenti per ragion della materia, nè brigandomi delle composizioni lavorate ad un sol torno, cioé con una sola specie di versi dette Carmen Monocolon, prendo unicamente di veduta le diverse maniere di comporre risultanti dalla diversità della Versificazione riconosciute egualmente da Greci sotto le divise di Carmen Policolon. Qualunque intanto esse siano nella loro diversità le composizioni latine, a quattro maniere si possono ordinariamente ridurre. La 1. abbraccia le strofe di due versi di duplice specie, chiamate Dicolon Distrophon. La 2. Comprende le strofe di quattro versi di sole due specie, nominate Dicolon Tetrastrophon. La 3. riguarda le strofe di tre versi di triplice differente natura, detta Tricolon Tristrophon. L’ultima finalmente contiene le strofe di quattro versi di tre specie chiamate Tricolon Tetrastrophon, voci, che ho dovuto apporre per non imbrogliare i giovani nella lettura di questo, e di altri libri, ove generalmente si trovavano. Facciamoci impertanto all’esame di tutte queste cose

{p. 238}

Articolo I.

Delle strofe di due versi di doppia specie. §

Le strofe, che comprendono due versi di differente natura sono d’una moltiplice varietà ; nove comunemente se ne assegnano.

I.

La prima costa d’un Esametro, e d’un Pentametro, come

Qui cupit in Coelis vitam gaudere beatam
Impleat in terris iussa verenda Dei.

II.

La seconda è composta d’un’ Esametro, e d’un Archilochio, come

Omnibus in rebus quicumque novissima pensat
Hic scelus omne fugit.

III.

La terza comprende un’ Esametro, ed un verso composto degli ultimi quattro piedi di esso, come.

Ut colubrum vitare decet scelus omne nefandum
Id Sapiens nos admonet omnes.

IV.

La quarta abbraccia un’ Esametro, ed un Giambico dimetro, come

Artibus ingenuis nihil est praestantius inter
Terrena cuncta cetera.

{p. 239}V.

La quinta contiene un’ Esametro, ed un Trimetro puro, come

Gloria sit Christo, coeli qui venit ab alto
Amore cordis actus in miserrimos.

VI.

La sesta unisce un Giambico Trimetro, ed un Dimetro come

Quicumque carde Iesu matrem amaverit
Cunctis triumphat hostibus.

VII.

La settimana accoppia un Dimetro manchevole di una sillaba in principio con un Trimetro manchevole anch’esso di una, ma nella fine, come.

Unicus Dei timo
Potest procaces continere mores

VIII.

L’ottava accoppia un Gliconio con un Asclepiadeo, come

Luctus vertitur in bonum
Quando cum lacrymis crimina tergimus

IX.

La nona finalmente consiste in un Eptametro, ed in Trimetro Archilochio,(1) come

Ingenium cura quicumque gravi laborat, aegre
Musas amabit gratiam petentes.
{p. 240}

Articolo II.

Delle strofe di quattro versi di doppia specie. §

Di una doppia varietà sono le strofe appartenenti a questa classe. La prima comprende tre Aselepiadiadei, ed un Eliconio come

I.

Natae Mnemosynes, et Iovis optimi
Lumen clarificum spargite mentibus
Nostris, ut studiis denique praediti
Sit nobis decus, ac honor

II.

La seconda abbraccia tre Saffici, ed un Adonio, come

Ipse qui nostri miserans salutem
Praestitit coelo veniens Redemptor
Pane se totum voluit subesse
Ductus amore.
{p. 241}

Articolo III.

Delle strofe di tre nersi di triplice specie. §

Un sol componimento trovasi in Orazio Epod. Od XI. la vorato a questo metro composto d’un Trimetro, d’un Archilochio, e d’un Dimetro come

Esto cuique fortis Orbis Arbiter
Robur, et auvilium
Dum vivit exul patriae.

Articolo IV.

Delle strofe di quattro versi di tre sorti. §

Tutti i componimenti appartenenti a poesie di tal natura dividonsi in due specie.

I.

La prima consiste nell’ unione di due Asclepiadei, d’un Ferecrazio, e d’un Gligonio, come

Quid prodest homini gloria ? Quid decus ?
Quid sunt divitiae ? Quid bona cetera ?
Ah ! Pulvis, vapor, umbra,
Quae dum videntur excidunt.

II.

La seconda, che vedesi più campeggiare in Orazio, perche la più bella, costa di due Alcaici, d’un dimetro con una sillaba di più in fine, e di un Alcaico minore, come

Divina virtus candida puritas
Te mundus odis lubrica prosequens ;
Qui vero qualis es relexit
Te fovet in gremio benignus.

{p. 242}Ecco in corti termini descritti tutti i più praticati metri della poesia latina. La cognizione di questi però poco giova, se dietro lunga lettura non si passi all’ esercizio, ed all’uso. Quindi per invogliare i Giovanetti a tale impresa, pria di sottrarre il libro alla penna penso apporre un intero componimento da me rozzamente lavorato nelle seconde nozze del nostro augusto sovrano Ferdinando II. che Dio sempre feliciti.

Sistite, Pierides, longos effundere questus,
Tundere et arctata pectora nuda manu.
Nec pigent Syrio perfundere tempora nardo,
Peplaque laetifico sumere picta croco.
Gaudia tempus amat. Fas est deponere curas
Tristes, atque invat dulce ciere melos.
Post hyemen imbriferam ver ut comparet amoenum ;
Sic venit infestis rebus amica quies.
Dura dies fluxit, quae miscuit omnia luctu ;
Cum CHRISTINA neci cessit amata parens.
Luctifico hoc equidem riguerunt pectora casu ;
Territus ut remanet tactus ab igne Iovis.
At DEUS Omnipotens sortem miseratus acerbam
Occurrit tantis providus ipse malis.
Vidimus hinc hilares FERNANDI in sede sedentem
Matrem, quae primam moribus alma refert.
Adstitit exemplum morum, ac virtutis imago,
Adstitit intactae Religionis honor.
Adstitit adiutrix inopum, ac tutela precantum,
Adstitit infundis spes data oerta malis.
Hae duce si qua modo veteris tormenta doloris
Torquerent animos, cuncta fugata manent.
Heac duce iamque novus saeclorum nascitur ordo,
Faustaque Saturni denuo regna vigent.
Hac duce … sed quamvis praeberet carmina Phoebus
Ipse, nec incaeptis apta loquela foret.
Casibus hic merito gaudet Trinacria, et alla
Parthenope pacem gestit habere suam.
{p. 243}Ingeminant pueri modulos, plauduntque puellae.
Amissam et matrem se reperisse ferunt,
Ipsi laetitia montes, vallesque resultant,
Vocibus et laetis compita cuncta sonant :
Adfuit en tandem exoptata THERESIA nobis,
Adfuit Austriaci gloria prima soli.
Cur igitur querulis implere ululatibus avras
Pierides, festo dum strepit Orbis io ?
Eia simul cantum citharis, linguisque faventes
Claudite : Reginae prospera cuncta sient.

Eccovi, amati giovani, appagato omai il vostro comune desio. Eccovi già nelle mani quel libro, che con iterate istanze da voi si pretese. Se nel percorrerlo alcun difetto il vostro ingegno seminato vi scorge incolpatene la brevità del tempo prefisso, e se pur volete, la insufficienza, non mai però la volontà. Vi prego in somma a profittar dell’ opera, e compatir l’autore.

FINE.

Le copie non munite della presente firma s’intendono contraffatte.