Ferdinando Tomeo

1824

Breve corso di mitologia elementare corredato di note per uso de’ collegi della capitale, e del regno

2019
Ferdinando Tomeo, Breve corso di mitologia elementare corredato di note per uso de’ collegi della capitale, e del regno, Napoli, Dalla Stamperia Reale, 1824, in-8, 243-[5] p. PDF : Internet Archive. Errata intégré.
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Prefazione. §

Molte sono le opere che trattano della Mitologia, e dotte, e voluminose ; ma poche sono le elementari, e che servir possano utilmente alla gioventù d’introduzione a questo studio non meno interessante che ameno, e necessario sopratutto all’intelligenza de’ Classici antichi, e moderni. Il ristretto che ora vien presentato al Pubblico per uso dei Reali Collegj, è stato ricavato con sobrietà e giudizio dai migliori mitologi tanto Italiani, che oltramontani, e si è pensato di escluderne non solo quanto riguardar poteva la parte più sublime di questa Scienza, e non ancora a portata de’ principianti, ma benanche tutte le superflue dilucidazioni della favola, e tutte l’espressioni che avessero potuto, benchè in minima guisa, ledere le caste orecchie, e la più pura morale de’ giovani studiosi. {p. 4}Ecco dunque nuovamente alle stampe un libro elementare, utile, istruttivo : accresciuto e corretto dall’autore, e colla giunta di un trattato sulle Divinità favolose adorate dai Napoletani ne’ secoli vetusti, colla spiegazione delle anticaglie, che oggigiorno anche si ammirano nella nostra Città. Sperasi che questo lavoro sia come altra volta benignamente accolto dal Pubblico, e contribuisca ad accrescere la coltura de’ popoli soggetti al felice Governo dell’ottimo Re Ferdinando primo.

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Mitologia elementare. §

Parte prima

Della Mitologia in generale. §

La Mitologia1 non è altro che la Storia, e la spiegazione della favola. L’indica il suo nome composto di due voci Greche, le quali unite significano discorso sulla favola.

La serie numerosa delle avventure, che andando innanzi osserveremo, non sono in sostanza per noi che semplici favole : noi le consideriamo come piacevoli invenzioni, o tratti di spirito destinati talvolta a spiegare, o piuttosto a gentilmente nascondere varj precetti della morale.

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Gli Egiziani, presso de’ quali ebbero la loro origine, i Greci che le accolsero, ed i Romani, che parimente le adottarono, riguardavano questi immaginarj racconti, come gerghi misteriosi da non doversene punto dubitare, e non vedevano nel tutto, che il sistema di religione dagl’Iddj ad essi presentato, e che i Poeti, ed i Savj colle cure più sollecite avevano custodito1.

I dotti si sono a maggior segno affaticati per rintracciare la sorgente di tali invenzioni : essi hanno azzardato le più plausibili congetture con fabbricare altresì de’ sistemi, che potessero appagare almeno la fantasia : ma non mai loro è riuscito di poter dire : ecco la verità. Taluni hanno rinvenuto nelle favole l’abbozzo di varj effetti naturali2 : altri hanno creduto, che contenessero precetti di morale ; parecchi si sono avvisati, che racchiudessero istoriche verità sfigurate {p. 7}dalla bizzarria di una immaginazione amica della menzogna : non esclusi coloro, che hanno ravvisato nella favola diverse figure simboliche de’ lavori dell’agricoltura. A qual dunque di tanti sistemi ci appiglieremo ? L’incertezza, e l’oscurità del problema non lascia luogo alla scelta. Vi sono bensì delle favole, il di cui sviluppo è si chiaro, che per negarlo bisognerebbe rinunciare all’istessa evidenza. In quelle solamente non si può perdere di vista l’oggetto misterioso, che l’antichità si ha prefisso, senza determinarci ad alcun partito per tante altre, la cui spiegazione ci è affatto ignota.

Ma tali sistemi, ed interpetrazioni sarebbero all’intutto fuori di proposito in un’ opera fatta per darci le idee precise della favola, e lo sarebbero sempre più, senz’aver prima formato un quadro delle idee suddette. Se le abbiamo noi accennate, ciò è stato per fare intendere alla gioventù studiosa, che le favole non sono puerili invenzioni a capriccio immaginate. Le favole delle antiche nazioni le più illuminate appartenenti alla religione, formavano un oggetto assai rispettabile qual’era l’istruzione, e la pubblica felicità, come chiaramente rilevasi dalle opere di Omero, e di Esiodo1.

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Del vantaggio della Mitologia. §

Ma diranno i nostri giovani lettori, se Giove, Giunone, e tanti altri non sono più Dei per noi : se la scienza della favola si è perduta, o almeno è incerta, qual vantaggio ricaveremo noi dallo studio della Mitologia ? Ecco la risposta. In rapporto alla morale, il frutto non può essere che scarsissimo : ma per l’opposto ci fornirà di grandi vantaggi per bene intendere le opere degli antichi, per la lettura de’ poeti, e per l’intelligenza di tanti lavori dell’ultima perfezione usciti dallo scarpello, o dal pennello de’ più valenti artisti. La Mitologia se più non ha rapporti colla Religione, ha però un tempio nel Regno delle belle arti : le sue antiche bizzarrìe sono tuttogiorno in moda fra noi, ed hanno un incantesimo tanto lusinghiero da farci ravvisare sempre in esse delle {p. 9}nuove bellezze. « Ivi tutto è illusione. Tutto ha corpo, anima, spirito, sembianza. Ogni virtù diventa una Divinità. Minerva è il simbolo della prudenza, Venere della bellezza. Lo scroscio del tuono non è l’effetto dei vapori, è Giove armato per ispaventare i mortali. Sorge una tempesta, che sgomenta il Nocchiero, è Nettuno sdegnato, che mette le onde in sconquasso. L’eco non è più un suono che rimbomba nell’acre, è una Ninfa, che si duole, o piange la morte di Narciso. Così il poeta nella nobile combinazione di tante finzioni aleggia nella sua fantasia : adorna, innalza, abbellisce, ingigantisce le sue invenzioni, e si aprono i fiori sotto la sua mano in ogni stagione. Boileau. »

Piano, e divisione dell’opera. §

Avendo assai spesso i poeti cangiato le favole a lor talento, non è facile di tenere un metodo esatto delle loro vantate invenzioni. Omero non è sempre di accordo con Esiodo : e Ovidio, che visse molto dopo, ha sovente opinioni diverse dagli altri. Questa circostanza ci avverte, che gli antichi scrittori si assumevano il dritto di far parlare, ed agire a lor talento gli Dei : e talvolta abusavano pur troppo di un tal privilegio.

Se non è agevole cosa il conciliare tra loro i Mitografi, difficile è pur anche il far la diceria {p. 10}del gran numero degli Dei. Nel creare una divinità non avevano limiti gli antichi : un timore, una meraviglia, un accidente casuale bastava a far ottenere un posto nel cielo ad un novello Dio1. Ma fa d’uopo osservare, che la maggior parte di questi Dei sconosciuti nel sistema mitologico, o molto poco vi sono nominati, o per nulla vi entrano. La divisione di quest’opera ci darà un’ idea della Mitologia in generale.

Noi faremo immediatamente la numerazione degli Dei, che riscuotevano un culto più esteso, e perciò detti Dii magni, Dii Consentes, quasi consentientes. Venti se ne contano : fra’ quali dodici soltanto erano ammessi nel consiglio celeste, cioè Giove, Giunone, Nettuno, Cerere, Mercurio, Minerva, Vesta, Apollo, Diana, Venere, Marte, Vulcano. I rimanenti otto numi di prim’ordine erano il Destino, Saturno, Genio, Plutone, Bacco, Amore, Cibele, e Proserpina2.

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Vedremo in seguito le Divinità di secondo ordine, che preseggono ai campi, ai fiori, agli arbori, in guisa che Pane, Pomona, Vertunno, e tanti altri sono allegati da Ovidio tra ’l basso popolo degli Dei.

La terza classe sarà composta de’ Semidei così detti, per esser nati da un Dio, ed una mortale, o da un Uomo, ed una Dea, come Ercole, Castore, e Polluce, e tanti altri. Parleremo in seguito degli Eroi, quali erano i Re, e gl’illustri guerrieri, soggetto del canto de’ poeti. Tra questi Agamennone, Ulisse, ec. ec.

Vi ha altresì una moltitudine di favole accoppiate alla storia degli Dei, ma che per altro non forma una parte del sistema religioso. Tali erano le favole di Bauci, e Filemone, di Piramo, e Tisbe, ed altre consimili.

Finalmente gli Uomini fermi nel principio di un’idea sublime, e consolante, che la Divinità regnasse sovranamente da pertutto, assegnarono un posto nel Cielo alle Virtù, alle Passioni, ed alle Miserie puranche dell’uman genere. Quindi furono innalzati i templi alla Concordia, alla Fedeltà, alla Prudenza, alla Povertà, alla Morte, alla Febbre, ec. ec. ma noi riguardiamo tali Divinità come semplici figure allegoriche1.

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Divinità di prim’ordine. §

Il Destino. §

Non perchè abbiamo situato in primo luogo il Destino, dobbiamoper questo noi considerarlo come il più degno fra gli Dei, e nel dritto di riscuotere gli omaggi de’ mortali : che anzi a lui non si faceva offerta di veruna sorta, poichè niente poteva sperarsi dal medesimo. I suoi decreti erano immutabili, e la sua volontà inflessibile. Gli Dei istessi a lui erano soggetti1, e perciò noi gli abbiamo assegnato il primo posto nell’opera. Il Destino era figlio della Notte : vien dipinto con una benda avanti gli occhi. Egli è, a dire il vero, un Nume cieco, e ’l suo governo {p. 13}ha per guida una invincibile necessità1. Giace a suo fianco un’ urna, e racchiude la sorte degli uomini, e tien un libro ove è descritto il futuro : gli Dei avevano la facoltà di poter consultare cotesto libro2. Spesse fiate i poeti confondono il nome del Destino con quello di Legge immutabile, privandolo della Divinità.

Il Caos.

Il Caos3 è il più antico fra gli Dei. Egli fu l’Autore della separazione delle materie, ond’è composto l’Universo. Vien egli rappresentato in atto di assegnare ad ogni elemento il suo posto. Agitandosi in un ammasso di luce sembra {p. 14}dissipare da per ogni dove la densità delle nuvole. Una picciola parte del zodiaco comincia a comparire sulla sua testa.

Si dà ancora il nome di Caos alla mole indigesta, che formavano gli elementi prima che fossero segregati.

Ecco il sublime tratto di Ovidio tradotto dall’Anguillara, nel quale troviamo descritto cotesto scioglimento.

Pria che il Ciel fosse, il mar, la terra, e ’l fuoco : Era il foco, la terra, il Cielo, e ’l mare :
Ma il mar rendea il Ciel, la terra, e ’l foco
Deforme, il foco il Ciel, la terra, e ’l mare ;
Che ivi era terra, e Cielo, e mare, e foco Dov’era, e Cielo, e terra, e foco, e mare : La terra, il foco, e ’l mare era nel Cielo, Nel mar, nel foco, e nella terra il Cielo.
………………………………
Non v’era chi portasse il nuovo giorno
Col maggior lume in Oriente acceso,
Nè rinnovava mai la luna il corno,
Nè l’altre stelle avean lor corso preso ;
Nè pendeva la terra intorno intorno
Librata in aere dal suo proprio peso.
Nè il mar avea col suo perpetuo grido
Fatto intorno alla terra il vario Lido.
………………………………
Quindi nascea, che stando in un composto
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Confuso il Ciel, e gli elementi insieme,
Faceano un corpo informe, e mal disposto
Per donar, forma al mal locato seme :
Anzi era l’un contrario all’altro opposto
Per le parti di mezzo, e per l’estremo :
Fea guerra il lieve al grave, il molle al saldo :
Contro il secco l’umor, col freddo il caldo.
………………………………
Ma quel che ha cura di tutte le cose,
La natura migliore, e ’l vero Dio,
Tutti quei corpi al suo luogo dispose,
Secondo il proprio lor primo desio.
D’intorno il Cielo, e nel suo centro pose
La terra, indi dal mar la dispartìo ;
E il passo aperto, onde esalasse il foco,
Se ne volò nel più sublime loco.
………………………………

Abbiamo quì rapportato un picciolo squarcio di questo celebre pezzo di Ovidio, per far conoscere l’idea, che avevano gli antichi della Creazione : credevano essi, che la materia fosse eterna, e che l’alta potenza del Creatore l’avesse posta in moto per formarne l’universo. Il dippiù si potrà leggere nel testo di Ovidio, e presso il suo anzidetto traduttore.

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Il Cielo.

Urano (parola che significa il Cielo) è il più antico degli Dei. Egli era il figlio del Giorno, e sposò sua sorella Gè, o Titèa, eioè la Terra. Ebbero molti figli, che da Titèa furon detti Titani, o figli della Terra. I principali furono Titano, l’Oceano, Iperione, Giapeto, Tia, Saturno, Rea, ossia Cibele, Terni, Mnemosine, Teti, Bronte, Sterope, Argèo, Briarèo, Gige. La terra altresì concepì dal Tartaro il gigante Tifeo, che molto si distinse nella guerra degli Dei.

Urano, che temeva per parte de’ figli, li rinchiuse secondo che nacquero in un abisso, ove il giorno non penetrava. Tale precauzione a lui fu fatale : imperciocchè giunti quelli ad una certa età, si rivoltarono contro lo stesso loro padre, ad eccezione di Oceano. Ma Urano ebbe il di sopra, e li condannò ad essere eternamente legati : il solo Saturno andò esente da tal pena per cura di Titea per essere il prediletto. Questi animato dallo spirito di vendetta spezzò le catene de’ suoi fratelli, e s’impossessò dell’Empireo : ed aggiungendo all’usurpazione il parricidio, mutilò suo padre con una falce di ferro, che sua madre gli avea dato. Dal sangue di Urano, che si sparse sulla terra nacquero i {p. 17}Giganti, e le tre Furie : quella parte, che si mischiò colla schiuma del mare produsse Venere detta altresì Afrodite, perchè nata dalla spuma.

Saturno.

Titano, perchè il primogenito, dovea essere l’erede di Urano : egli dunque reclamò l’imperio : ma Saturno non volle cederlo, e lo ritenne per se. Si venne pertanto ad un aggiustamento, che gli propose Titano, col quale Saturno si obbligava di non allevar figli maschi, affinchè il governo fosse ritornato nella famiglia di Titano. Tantoppiù Saturno prestò orecchio a tale trattato, per avergli Urano presagito stando presso a morte, che uno de’ suoi figli lo avrebbe sbalzato dal Trono, appunto come avea esso praticato con suo padre. Egli dunque divorò tutt’i figli, ai quali aveva data la vita. Il solo Giove fu esente da tale disgrazia, mercè le cure di Cibele sua madre, che accorgendosi essere incinta, volle questa volta salvare la prole futura. Consigliata segretamente da Titèa si ritirò in una grotta Chiamata Dittèa nell’isola di Creta, ed ivi partorì Giove, e Giunone ; affidò il primo alle Ninfe Ida, e Adrastèa dette Melisse, e lo raccomandò ai Cureti, o sieno Coribanti, Sacerdoti vestiti a foggia di guerrieri ; ma bensì ritenne presso di se Giunone, poichè il trattato {p. 18}stabilito con Titano, riguardava la sola prole maschile. Giove divenuto adulto debellò i Titani, che nuovamente avevano dichiarata la guerra a Saturno1. Diede inoltre una bevanda allo stesso suo padre, colla quale gli fece recere i figli da lui precedentemente divorati.

Il Regno di Saturno però non ebbe molta durata. Il torbido suo umore, e ’l coraggio di Giove turbarono la sua felicità. Egli in fine fu rovesciato dal Trono, e discacciato dall’Olimpo da Giove suo figlio.

Ritirossi perciò in Italia, e propriamente nel Lazio, detto così dal Latino latere, perchè ivi si nascose per sottrarsi dall’ira di Giove. Fu accolto da Giano, principe Tessalo, che regnava allora nel Lazio. Col consiglio, ed assistenza di questo Dio, Giano civilizzò i suoi popoli, insegnò loro il corso dell’anno, l’agricoltura, l’uso della moneta, le regole della giustizia, e la norma del ben vivere sotto il governo delle leggi. Finalmente durante il tempo che Saturno conversò con gli uomini, fu sì grande la felicità, che tal’epoca fu chiamato l’età dell’oro. Giano {p. 19}entrò a parte della riconoscenza, che questo Nume meritava dagli uomini. Fu ascritto egli stesso al numero degli Dei, col titolo di Dio della pace. Il suo Tempio era chiuso, allorchè la guerra era finita : onde in seguito dicevasi di qualche principe Romano, che aveva data la pace all’imperio : Egli ha chiuso il tempio di Giano. Egli era effigiato a due facce : sia perchè avendo egli il dritto sul mese di Gennajo riguardasse l’anno scorso, e quello, che cominciava, sia perchè avesse egli la conoscenza del passato, e del futuro, o finalmente perchè avesse diviso il suo regno con Saturno, non formando entrambi che un Re solo. Vien figurato talvolta con quattro facce, per indicare le quattro stagioni. Ha dippiù una bacchetta nelle mani, perchè presedeva alle pubbliche strade, o pure una chiave, perchè creduto l’inventore delle porte.

Saturno avrebbe potuto pacificamente vivere fra gli uomini, se il suo genio torbido non lo avesse indotto ad unirsi nuovamente con i Titani per fare la guerra a Giove. Fu vinto anche questa volta, e sopraffatto dalla disperazione ritirossi nella Sicilia, ove morì di dispiacere.

Questa è la favola di Saturno : una delle più chiare, e facili a spiegarsi. I Greci lo chiamarono Cronos, cioè il tempo, ed era naturale, che i poeti lo facessero nascere dal Cielo, e dalla Terra. I suoi attributi indicano le sue funzioni, {p. 20}Egli è vecchio, perchè da gran tempo creato : L’età sua avanzata non gli scema nè attività, nè le forze. Ha le ali sul dorso per dinotare, che il tempo veloce giunge, ed al momento sen fugge : porta seco una falce per tutto mietere, e consumare. L’ampollina al suo fianco ci mostra il corso sempre eguale, e misurato del tempo, ed il serpente, che si morde la coda formando un cerchio, è simbolo dell’eternità, che non ha cominciamento, nè fine.

Le sue vicende, al dire de’ commentatori, sono altresì misteriose. Egli mutilò suo padre, perchè dopo la creazione del mondo, tutto era compito. Ingozzò i suoi figli, perchè il tempo tutto divora : indi li ributtò dallo stomaco, perchè il tempo medesimo alternativamente ci restituisce i giorni, e le notti.

Cibele.

Cibele figlia di Urano, presso i Greci Cibebe, era la sorella, e la sposa di Saturno, a cui partorì molti figli.

Varj furono i suoi nomi. Ebbe il nome di Cibele da una montagna della Frigia : come pure Titèa, cioè, Terra, perchè presiede al nostro Globo. Fu detta Rèa del Greco Rhèo, fluo per le piogge, ed i fiumi, che scorrono sulla Terra, ed Opi pel soccorso che apprestava agli uomini.

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Migdonia, Pessinunzia, Frigia, Berecinzia, Idea dai diversi luoghi ove ella era adorata ; fu chiamata Magna Mator, o Mater Deum, qual Madre delle Divinità di prim’ordine ; come altresì Vesta l’antica per distinguerla dalla figlia del nome medesimo : tal nome ebbe anche Titèa sua madre.

Questa Dea ci viene rappresentata sotto le sembianze di una donna robusta, coronata di foglie di quercia, avendo in mano una chiave, ed un timpano con sopravveste sparsa di fiori, assisa sopra di un carro tirato da’ lioni1. Talvolta è figurata all’impiedi, o cavalcando un lione, e non di rado con un piede in terra, ed un altro sul rostro di una nave, per dinotare il di lei dominio sull’uno, e l’altro elemento. In parecchi templi dell’antichità, le statue di Cibele altro non erano, che semplici piramidi, per simboleggiare la fermezza, e solidità della terra(2).

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Giove.

Giove era il primo, e’ l più potente degli Dei. Al solo inarcare del suo sopracciglio tremava l’Universo : il Fato solamente aveva su di lui la preminenza(1).

Dopo aver vinto Saturno, egli divise il suo imperio cogli altri fratelli. Nettuno ebbe il mare, Plutone l’inferno, ed esso l’empireo. Per mano de’ Ciclopi fu formato un elmo per Plutone, un tridente per Nettuno ; a Giove fu riserbato il fulmine composto di grandine, di acqua, di fuoco, di vento, con frammischiarvi la luce, lo scoppio, il rumore, lo spavento, e lo sdegno.

Il suo regno però non fu sempre tranquillo. I Titani mal contenti de’ dritti ad essi usurpati, gli suscitarono contro i Giganti, ch’eran figli della terra. Questi per attaccarlo fin dentro la sua reggia, sovrapposero montagne sopra montagne. Temendo Giove di soccombere, chiamò in suo ajuto tutte le divinità. La Dea Stige, che regnava {p. 23}sopra ai fiumi, le di cui acque circondavano l’inferno, fu la prima ad accorrere in soccorso di Giove, recando seco la Vittoria, il Potere, l’Emulazione, la Forza da lei nati. Per compenso volle Giove, che i giuramenti fatti in nome di Stige neppure i Dei potessero violare. Il Destino avea altresì predetto, che per ultimar questa guerra ci voleva la destra di un uomo : Giove a tal tempo si servì di Ercole, che diede non equivoci contrassegni del suo valore. Ciascuno degli Dei ebbe parte in questa mischia, e soprattutto si distinse Minerva, che seppellì Encelado sotte l’Etna, i di cui sforzi si risentono tuttavia, al dire de’ Poeti, con gittar fiamme, e sassi per liberarsi dal grave peso, che l’opprime. Per mano di Minerva cadde pur il Gigante Pallante, della di cui pelle ella si coprì, con prenderne anche il nome ad eterna ricordanza di tale vittoria. Cadde finalmente in questa guerra Briarèo il più terribile tra i Giganti, che aveva cento braccia ; e pareva, che già la guerra fosse terminata, allorchè uscì in campo un altro nemico per se solo formidabile, quanto tutti gli altri presi insieme, per nome Tifèo. La terra lo cacciò dal suo seno per vendicare la morte de’ suoi fratelli.

Questo Gigante era si spaventevole, che la sua forza sorpassava il terrore, che ispirava. Egli aveva cento teste con serpenti armati di lingue nere, ed avvelenate, vibranti urli che incutevano {p. 24}spavento, sfavillando dagli occhi infuocate scintille. A tal vista impauriti gli Dei presero la fuga, e si nascosero colà nell’Egitto sotto le sembianze di diversi animali ; ma Giove più coraggioso abbattè col suo fulmine sì potente nemico : lo rovesciò, e restituì la pace all’Olimpo.

In seguito di tale vittoria, che sommamente accrebbe la potenza di Giove, volle questi occuparsi del governo del Mondo, e più ancora de’ suoi piaceri, ai quali si diede in preda sì fattamente, che la sua maestà fu più degradata di quello, che sarebbe avvenuto ad un uomo. Noi avremo sovente occasione di parlare delle diverse sembianze, sotto le quali si cangiò con avvilire la sua dignità.

Omero, che ci ha data fra i poeti un’idea più nobile di Giove, ce lo dipinge accigliato, colla fronte coverta da nuvole, coll’aquila accanto, ed armato del fulmine. A’ suoi piedi fanno sgabello il Rispetto, e l’Equità : ed in poter suo sono i beni, ed i mali, che a suo talento distribuisce. Talvolta è rappresentato assiso sopra di un carro, e spessissimo sopra l’aquila, che per tale ragione chiamasi comunemente l’Augello di Giove.

L’armatura, che difendeva questo Dio, era l’Egida, vale a dire uno scudo formato dalla pelle della Capra Amaltea, che aveva nutrito Giove, e ne armava il braccio sinistro. Questa Capra {p. 25}dopo la sua morte fu situata da Giove per gratitudine fra le costellazioni, e della sua pelle ne compose l’Egida, voce che in Greco indica Capra, che in progresso fu donata a Minerva, che ci appiccò la testa di Medusa.

Vedremo non di rado Giove sotto la figura di un ariete, o almeno colle corna di questo animale, detto perciò Giove Ammone, o sia Giove delle Arene1. Una favola particolare gli procurò tale ornamento. Inoltrandosi troppo Bacco fra gli arenosi deserti della Libia, non trovò acqua per cavarsi la sete. Appena che questo Dio ebbe implorato il soccorso di Giove, si vide innanzi un ariete, che battendo la terra col suo piede ne scaturì una sorgente di acqua. Bacco riconoscente innalzò un altare al suo benefattore sotto la denominazione di Giove Ammone(2).

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Giunone.

Giunone era sorella, e moglie di Giove. Per tale gli Dei la riconoscevano. La sua bellezza corrispondeva alla maestà del suo grado : ma il suo orgoglio era insoffribile. Parlando di se stessa, ella dicea « Io sposa, e sorella di chi regge il tuono, Regina degli Dei, del Cielo, e della Terra : ah si salvi l’onor mio, e facciamo palese al Mondo, che questi Dei sì potenti nulla possono al paragone di me » ! Virg.

I risultati di questo rispettabile matrimonio non furono altrettanto felici. Giove per sua indole era incostante. Giunone sommamente gelosa : e sovente l’Olimpo era testimonio de’ loro pettegolezzi. La Dea non perdeva giammai di vista tutti gli andamenti del suo sposo, e perseguitava a morte chiunque poteva darle ombra di sospetto.

Sfogò il suo sdegno principalmente sopra di Io, Europa, Semele, e Latona. Argo fornito di cent’occhi, che aveva in guardia Io cangiata da Giove in vacca, fu ammazzato da Mercurio, e transformato in pavone. La Dea in compenso della di lui fedeltà appiccò gli occhi del suddetto alla coda del suo pavone.

Giunone fu detta pronuba, come colei che {p. 27}presedeva alle nozze. Quindi le matrone Romane le offerivano voti per le loro figliuole : chiamandola pure Domiduca, perchè accompagnava la sposa alla casa del marito. Per testimonianza di Cicerone fu altresì detta Moneta dal Latino monere per una voce, che fu udita nel suo tempio in occasione di un fiero terremoto, colla quale si avvertivano i Romani di sacrificare una troja gravida per placare lo sdegno degli Dei. Il sacrifizio fu adempito, e cessò il pericolo.

Nacquero da questa Dea tre figli, Vulcano, Ebe, e Marte. I due primi li concepì da Giove, il terzo nacque da essa particolarmente. Crucciata Giunone per essere nata Minerva dal cervello di Giove senz’averci avuta parte, volle altresì ella fare un consimile miracolo. Dopo avere affidato il suo segreto a Flora, le fu da questa indicato un fiore, che appena toccato dalla Dea la fece diventar madre di Marte.

La sempre bella Ebe era la Dea della giovinezza. Il suo impiego era di porgere il nettare agli Dei : ma cessarono le sue funzioni, dacchè ebbe la disgrazia di cadere una volta al di loro cospetto. A tale uffizio fu destinato il gentile Ganimede, che Giove fingendosi un’aquila aveva al padre suo Troe involato.

Vulcano nacque sì brutto, e scontraffatto, che avendone Giove rossore lo fece precipitare dal Cielo sulla terra con un calcio. Vulcano non {p. 28}curò questo maltrattamento di suo padre, ma non perdonò a sua madre, che lo aveva dato alla luce così storpio, e mal fatto, e volle vendicarsene in una brillante occasione.

Giunone aveva preso parte nella guerra degli Dei : Giove volle punirla, e del castigo Vulcano volle essere il ministro. Egli sospese in aria Giunone per mezzo di due pietre di calamita colle incudini attaccate ai calcagni, dopo averle legate le mani dietro le spalle con una catena d’oro. Invano gli Dei si affaticarono di liberarla : il solo Vulcano poteva darle ajuto : ma questi non si determinò di farlo, se non a condizione, che gli si darebbe in isposa Venere la più bella fralle Dee.

Oltre di Argo aveva Giunone al suo servizio anche una messaggiera per nome Iride figlia di Taumante, e di Elettra, e sorella delle Arpìe. Ella era assai cara a Giunone, perchè i suoi annunzj erano sempre lieti, e perciò fu convertita dalla Dea in Arco celeste.

Giunone è rappresentata riccamente vestita, assisa sopra di un carro tirato da pavoni, portando lo scettro in mano, ed un pavone al suo fianco.

Cerere.

Cerere figlia di Soturno, e di Cibele era la Dea delle biade, e de’ campi. Ella fu la prima {p. 29}ad insegnare l’arte dell’agricoltura, consistendo il vitto degli uomini per l’addietro in ghiande, radici, ed animali presi alla caccia.

Questa diva benefica ebbe da Giove la rinomata Proserpina, infelice cagione di tante sue sciagure. Mentre un giorno questa giovane Dea in compagnia di alcune Ninfe passeggiava per le praterìe di Sicilia accanto la fontana di Enna, incontrossi con Plutone, che lasciato per poco l’Inferno, volle visitar l’Etna. Questo Dio concepì per lei un amor violento ; e malgrado che non fosse corrisposto, la rapì, e la fece sedere nel suo carro tirato da cavalli di color nero a dispetto delle lagnanze di Minerva, e Cianea, che fu punita per tal cagione da Plutone, con averla cangiata in un fonte ne’ contorni di Siracusa.

Al momento, che Cerere si accorse della mancanza di sua figlia, l’andò di notte, e di giorno cercando per tutta la terra con fiaccole accese nell’Etna. Ritrovò ella il velo, che a Proserpina era caduto sul lago di Siracusa nel volersi difendere dalla violenza di Plutone : e dalla Ninfa Aretusa, le cui acque scorrevano fino a Stige, fu pienamente informata dell’accaduto. Per liberare Proserpina, Cerere ricorse a Giove, che per altro esaudì i suoi voti : ma si ci opponeva un decreto del Destino, che Proserpina non sarebbe giammai useita dall’Inferno, che nel solo caso ch’ella non avesse gustato alcun nutrimento di {p. 30}qualunque sorta. Ascalafo l’accusò di aver mangiato de’ granelli di un pomo granato, per la qual denuncia fu cangiato in gufo : ma fu accordato a Proserpina di poter passare sei mesi con sua madre, ed altrettanti con Plutone, che l’aveva sposata.

Calmatasi Cerere si applicò nuovamente all’agricoltura con insegnarne i principj a Trittolemo figlio di Celèo Re di Eleusi, inculcando al medesimo che ne avesse istituiti altresì gli uomini. In vista di tal comando scorse Trittolemo l’Asia, e l’Europa. Mancò poco però, che nella Scizia non fosse perito per parte di Linco geloso della preminenza, che in tal mestiere a Trittolemo aveva Cerere accordata. In pena di sua perfidia Linco fu trasmutato in Lince, animale ch’è simbolo della crudeltà. Cadde la vendetta di questa Dea altresì sopra di Erisittone, uno de’ primi di Tessaglia per aver questi tagliata una foresta consagrata a questa Dea, che gli comunicò una fame sì terribile, che lo ridusse a consumare tutt’i suoi averi per soddisfarla.

Cerere vien rappresentata ordinariamente coronata di spighe con una fiaccola in una mano, e nell’altra un fascio di biade1.

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Vesta.

Parimente figlia di Saturno, e Cibele era Vesta Dea della verginità, e del fuoco, per cui portava una fiaccola nelle mani. Il principale suo culto consisteva a tenere sempre vivo il fuoco, che ai raggi solari ogni anno si raccendeva nelle calende di Marzo. Le sue Sacerdotesse dette Vestali erano obbligate ad esser vergini : e guai a chi non osservava un tale divieto, come pure a chi non manteneva il fuoco acceso sopra il suo altare. La pena era di essere seppellita viva all’istante.

Apollo.

Apollo fra gli Dei è de’ più celebri. Egli è il capo delle Muse, ed il Dio della poesia, onde vien invocato dai poeti ; come pure lo è della musica, dell’eloquenza, della medicina, e di tutte le belle arti. Riguardavano gli antichi {p. 32}questo Dio come padre del giorno, e della luce : come regolatore del carro del Sole : anzi era considerato come il Sole medesimo. Lo chiamavano altresì Febo, assiso sopra di un carro sfavillante, e tirato da quattro furiosi cavalli. « Nume del giorno, e della luce sei tu, che regoli il corso de’ giorni, delle stagioni, degli anni. Per te la verde campagna produce fiori, e frutta, e mercè il calore de’ tuoi raggi la natura è ricca da per tutto. Dove tu non sei, tutto è lutto, orrore, e spavento : regna il brìo, il riso, la sorpresa dove tu spandi i tuoi raggi. » Quinault.

L’Aurora figlia di Titano, e della Terra apre ogni mattina le porte del Cielo al carro del Sole. Questo carro circondato dalle Ore figlie di Giove, e di Temi, impiega dodici ore a fare il suo giro. Al far della sera scende verso il mare, e Febo va a riposarsi in grembo a Teti.

Come Dio delle arti ci rappresentano i poeti Apollo colla lira fralle mani, e corteggiato dalle Muse. La sua Reggia è in Parnaso, in Pindo, in Elicona ; sulle rive di Permesso, del fonte Castalio, o d’Ippocrene, luoghi poco discosti dall’amene valli di Tempe nella Tessaglia. Talvolta questo Dio annuncia ai mortali la loro sorte ; l’oracolo più celebre di questa divinità era a Delfo. Lo vediamo altresì seguir Diana sua sorella nel più forte delle boscaglie sotto la forma {p. 33}di un giovine leggiadro, con capelli ondeggianti sugli omeri, con turcasso dorato, pieno di frecce, e con arco alla mano, come appunto si osserva nella superba statua dell’Apollo di Belvedere. L’artista servendosi del marmo di Carrara ignoto ai Greci, ma il più atto a potere felicemente eseguire il suo pensiero, e dare all’opera la più viva espressione, gli ha data un’aria fra la fierezza, e ’l disprezzo dopo aver ucciso il serpente Pitone in atto di guardarlo mentre spira.

Di questo mostro ecco la favola.

Latona era figlia di Ceo e di Febe, e madre di Apollo, e di Diana. Accortasi Giunone della propensione di Giove per questa giovanetta, ebbra di sdegno la scacciò dal Cielo, e per non darle tregua in verun luogo, obbligò la Terra a giurare di non darle un asilo neppure nel suo seno. Di più fece nascere dal limo lasciato dalle acque un orribile serpente detto Pitone, che inseguiva da per ogni dove la sventurata Latona. Un giorno stanca dalla fatica, e sommamente assetata fermossi presso uno stagno ; i terrazzani che tagliavano giunchi, le proibirono di dissetarsi. Sdegnato Giove dal Cielo di tanta barbarie, e mosso dai prieghi di Latona, cangiò questi uomini insensibili in ranocchi, e li condannò ad abitare ne’ pantani.

Ad onta però del potere di Giove, non {p. 34}avrebbe Latona ritrovato un sito ove sgravarsi, se Nettuno mosso a compassione con un colpo del suo tridente non avesse fatta sorgere dal fondo del mare l’isola di Delo, non inclusa nel giuramento fatto dalla Terra. Colà rifugiossi Latona, e sotto una pianta di palma partorì Apollo, e Diana. Apollo per gratitudine fissò quest’isola fralle Cicladi pria errante nel mare : e tosto che fu adulto, ed istruito nell’arte di maneggiar l’arco, ammazzò il serpente Pitone, che aveva sì crudelmente perseguitato Latona. Questo mostro aveva cento teste : lanciava fiamme dalla bocca, ed i suoi urli arrivavano fino al Cielo. Il suo corpo coverto di piume al di sopra, e di serpenti al di sotto toccava il cielo, e la terra.

Moltiplici furono le avventure di Apollo, riguardandolo in qualità di un giovane gajo di età sempre fresca, ed istruito nelle belle arti. Egli amò varie Ninfe ; ma fu sempre infelice nelle sue intraprese. Dafne figlia del fiume Penèo in Tessaglia, fu l’oggetto primiero delle sue cure : malgrado però tutt’i suoi pregi, non fu mai corrisposto da questa Ninfa. Un giorno mentre l’inseguiva a tutta possa, ella per timore di cadere fralle di lui mani, chiamò in suo ajuto Penèo suo padre, e fu tosto cangiata in alloro. Il Dio, ad eterna memoria di questa Ninfa, volle adornare le sue tempia, e la lira delle foglie di questa pianta, e volle altresì, che la corona di {p. 35}alloro fosse in seguito il premio de’ guerrieri, e de’ poeti.

Amò ancora Leucotoe figliuola di Orcamo Re di Babilonia, presso la quale egli s’introdusse sotto l’aspetto di Eurinome sua madre. Clizia figlia dell’Oceano, che inutilmente amava Apollo, scoverto l’inganno, nè avvertì Oreamo, che infuriato contro sua figlia la fece sotterrare viva ; ma Apollo, che non potè salvarla, la tramutò in una pianta, che dà l’incenso. Il rimorso di un tal attentato condusse a morte Clizia cangiata pur essa in Eliotropio (Girasole), pianta che gira guardando sempre il sole, come volendo rinfacciargli la sua poca corrispondenza.

Nacque da Apollo, e Coronide Esculapio, che da bambino fu dato ad allevare al Centauro Chirone, da chi fu istruito della virtù delle piante Diventò così celebre Esculapio nella medicina, che giunse a risuscitare anche gli estinti, e fra questi a restituire la vita ad Ippolito figlio di Tesèo. Un potere così grande ingelosì lo stesso Giove, che con un fulmine troncò i giorni ad Esculapio, e lo situò poi nel Cielo sotto l’aspetto di una costellazione detta Serpentario, ascrivendolo al numero degli Dei come Dio della medicina. Era rappresentato questo Dio sotto la figura di un uomo grave, coperto da un mantello con bastone, a cui sta una serpe attortigliata in una mano, ed una tazza nell’altra, ed un gallo a’ {p. 36}suoi piedi. Il tempio più famoso di questo Dio era in Epidauro, dove i Sacerdoti pretendevano, che loro si manifestasse sovente in forma di serpente.

La morte di Esculapio fu cagione di una ben seria sventura di Apollo. Non potendo questo Dio attaccar Giove di fronte per vendicarsi, ammazzò a furia di frecce i Ciclopi, che avevano fabbricato il fulmine. Riputando Giove fatta a lui stesso tale ingiuria, privò Apollo per qualche tempo della qualità divina, e lo cacciò dall’Olimpo. Il più amabile, il più saggio fra gli Dei fu costretto, per non perir della fame, ad avvilirsi a pascolare gli armenti di Admeto Re di Tessaglia. Qual impiego avendo lasciato per i furti di Mercurio, non trovò altra via, che di fare il muratore con offrire unito a Nettuno, parimente privato della divinità, al Re Laomedonte la sua opera nella fabbrica delle mura di Troja. La mercede fu convenuta : ma questi che non aveva molta dilicatezza, terminato il lavoro, gli mancò di parola. Lo sdegno di Apollo fu cagione, che una pestilenza attaccò gli stati di questo principe spergiuro. Da Nettuno contemporaneamente furono fatti inondare dalle acque del mare, con inviar colà per giunta un mostro orribile per accrescere la desolazione, e lo spavento. In sì fiera traversìa fu consultato l’Oracolo, la cui risposta fu che Laomedonte poteva disarmare la collera degli {p. 37}Dei nel solo caso ch’esponesse al mostro la sua figliuola Esione. Bisognò cedere : ed oramai questa principessa sarebbe stata la vittima infelice, se non fosse sopraggiuuto a tempo Ercole per salvarla. Laomedonte l’aveva promessa in isposa a questo Eroe : ma al suo solito pure gli mancò di parola.

Infuriato Ercole per tale indegnità, assediò Troja, e preso Laomedonte, lo ammazzò. Volle in seguito, che Telamone figliuolo di Eaco Re di Salamina sposasse Esione, in guiderdone del coraggio da esso mostrato per essere stato il primo nell’assalto.

Rimesso finalmente Apollo in grazia di Giove, comparì nuovamente nel Cielo rivestito della sua gloria. Ma siccome Esculapio fu l’innocente cagione del suo esilio, così un altro de’ suoi figliuoli gli attirò una nuova disgrazia. Fetonte a lui nato da Climene figlia di Teti, e dell’Oceano, ebbe un giorno delle brighe con Epafo figlio di Giove, e di Jo, per avergli quest’ultimo rinfacciato di non essere nato da Apollo, come egli credeva. Il giovane Fetonte portò le sue doglianze a Climene sua madre, che gl’insinuò di recarsi ad Apollo per assicurarsene, locchè senza ritardo fu eseguito.

Apollo depose tutt’i suoi raggi luminosi, e giurò per la Stige, che avrebbe acconsentito a tutto ciò che suo figlio gli domandasse in {p. 38}contrassegno della paterna tenerezza. Fetonte gli chiedette in grazia di poter condurre per un sol giorno il suo carro per le vie del Cielo. Tal dimanda fece tremare Apollo, che si pentì del giuramento, che rivocare non era permesso agli Dei. Cercò dissuadere suo figlio, ma in vano. Il giovine temerario ne pretese l’adempimento.

Monta Fetonte il carro risplendente, e si allontana pur troppo, malgrado il divieto di suo padre. Ma i cavalli indocili all’insolita voce, e mal diretti dall’inesperta mano si scostano dalla via ordinaria, e slanciandosi troppo verso il Cielo talora, talora verso la terra, portano dappertutto la forza di un fuoco distruttore. I monti s’incendiano, le pianure si abbruciano, i fiumi s’inaridiscono, il mare si abbassa, e la madre Terra spaventata dal pericolo che le sovrasta, indirizza a Giove i suoi prieghi. Il Re degli Dei mosso a compassione diede di piglio al suo fulmine, e lo scagliò contro Fetonte, con averlo fatto precipitare nell’Eridano, o sia Pò. Le Eliadi figlie del Sole Lampetusa, Lampezia, e Faetusa, sorelle di Fetonte sentirono il più vivo dolore di sua morte : furono cangiate in pioppi, e le di loro lagrime diventarono granelli di ambra. Cicno amico di Fetonte ne morì di dolore, e fu trasformato in Cigno.

Apollo dopo aver vendicata sua madre contro il Serpente Pitone, volle altresì vendicarsi dell’orgoglio, e del disprezzo di Niobe Regina di {p. 39}Tebe, figliuola di Tantalo, e moglie di Anfione. Ella superba per aver sette figli maschi, e sette femmine ardì di aver la preminenza su di Latona, che non ne aveva che due, portando la sua empietà al segno di frastornare le feste, che si celebravano in onore di questa Dea, che per punirla si rivolse a’ suoi figli. Apollo a colpi di frecce uccise i maschi, che si esercitavano in un circo : e Diana nella stessa guisa tolse la vita alle femmine, che si aggiravano intorno ai roghi de’ loro germani.

Quantunque Apollo fosse il Dio degl’ingegni ; non fu perciò stimato quanto egli meritava ; fu soggetto ai colpi dell’invidia. Pane ebbe l’ardire di mettere al paragone il suo flauto alla lira del figlio di Latona : gli propose una disfida, che Apollo volentieri accettò. Tmolo Re di Lidia fu scelto per giudice, ed il suo voto fu per Apollo. Mida ivi pur presente fu di contrario avviso ; Apollo sdegnato della sua temeraria ignoranza gli fece nascere gli orecchi simili a quelli dell’asino. Il povero Mida disperato per tal regalo, cercò di nascondergli sotto un’alta berretta. Per disgrazia era al suo servizio un barbiere d’indole cicalone, che non osando svelare l’arcano fece un buco sotterra, ed ivi depose il segreto, che celar non sapeva. Intorno a questo buco nacque un canneto, e le canne che tutto il giorno crescevano, palesavano ai viandanti, che il Re Mida aveva gli orecchi dell’asino.

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Apollo non fu però così discreto con Marsia satiro, e musico valentissimo, che parimente ebbe il coraggio di sfidare il Dio delle Muse. Accettò Apollo la sfida a patto, che chi restava al di sotto, fosse stato a discrezione del vincitore. Marsia fu vinto, indi legato ad un albero, vivo fu scorticato. Le Ninfe si dilettavano delle cantilene di questo satiro, e lo piansero tanto, che colle di loro lagrime crebbe di molto il volume delle acque di un fiume della Frigia detto Marsìa.

Questi sono i principali avvenimenti della storia di Apollo.

Diana.

Diana figlia di Giove, e di Latona, sorella gemella di Apollo veniva riguardata in tre diversi aspetti, che le davano una triplice situazione ; cioè nel Cielo, nella terra, e nell’inferno. Nel Cielo sotto il nome di Selene, o di Febe, durante la notte, guidava il carro lunare, ed era altresì considerata per la luna istessa. In terra ella era tutta dedíta alla caccia, e chiamavasi Diana. Il nome di Ecate a lei si appropriava nell’inferno, dove il suo potere era considerabile, e veniva implorata da’ maghi, e dai ciurmadori. Triplice Ecate talvolta perciò la chiamavano.

Era ella di più la Dea della verginità, e de’ parti. Come nacque alquanti momenti prima di Apollo, non sì tosto vide la luce del {p. 41}giorno, che apportò degli ajuti a Latona, e tocca dai dolori, che provava sua madre nel partorire, giurò di serbare in perpetuo la sua verginità.

Il suo pudore fu si grande, che arrivò a punire severamente Attèone, ch’ebbe la sventura di vederla nel bagno. Questi era un insigne cacciatore, figliuolo di Aristèo, e nipote di Cadmo. Sdegnato la Dea per l’involontario fallo, lo cangiò in cervo. L’infelice Attèone volle darsi alla fuga, ma i suoi cani, che sotto tale aspetto nol riconobbero, l’inseguirono, e lo fecero in brani.

Ella castigò altresì le Ninfe, che la seguivano. Callisto figliuola di Licaone fu amata da Giove, che per sedurla più facilmemte, prese l’aspetto di Diana istessa. La Dea venuta in cognizione del tutto, discacciò ignominiosamente Callisto, che dopo qualche tempo diede alla luce Arcade. Furono a notizia di Giunone i nuovi intrighi del suo sposo, e Callisto pagò il fio del reato di Giove : Giunone implacabile trasformò in orsa questa Ninfa sventurata, che andò vagando per ben quindici anni sotto tal forma, finchè non fu incontrata da Arcade suo figlio, e valente cacciatore. Questi non era al caso di riconoscerla, stava già sul punto di scagliarle i suoi dardi, se Giove non si fosse affrettato di evitare un parricidio con aver sottratto la madre al figlio, che amendue situò nel cielo tra ’l numero delle costellazioni. Callisto ebbe il nome di Orsa maggiore, {p. 42}ed Arcade quello di Orsa minore, o Boote, Bifolco.

Diana assai gelosa de’ suoi dritti avvolse ne’ malanni la casa di Enéo Re di Calidonia, per non essersi questi ricordato di lei in un sacrifizio che offrì a tutti gli Dei, con aver inviato un cignale di enorme grandezza negli stati di questo principe. Molti de’ primi guerrieri della Grecia si unirono per dargli caccia. Atalanta figlia di Glasio Re di Arcadia fu la prima a ferirlo. Meleagro figliuodi Enèo finì di ucciderlo, e spinto dal coraggio che aveva mostrato questa giovane principessa, le offrì il teschio del cignale. I fratelli di Altea moglie di Enèo credettero, che questa spoglia dovesse essere di loro pertinenza. La contesa andò avanti, si venne alle mani, o riuscì a Melagro di vincere i suoi nemici : in seguito egli sposò Atalanta.

Malgrado che Diana giurasse di esser casta, e sommo fosse il suo contegno, s’invagchì di Endimione leggiadro pastorello di Caria, nipote di Giove, e dal medesimo condannato a dormire per sempre nell’inferno, per avere osato di pretendere sopra Giunone. Ma Diana, che sotto il nome di Ecate aveva una grande influenza nell’impero di Plutone, di là il trasse, e lo nascose in una grotta del monte Latmos nella Caria.

Vedesi Diana ordinariamente rappresentata in abito di cacciatore col turcasso sulle spalle, e {p. 43}coll’arco alla mano : la sua veste è succinta, ed il suo cane corre presso a lei. Doppia treccia annodata si eleva sulla testa, e se le adatta talvolta sulla sommità della fronte una mezza luna, le cui estremità sono rivolte verso il Cielo : ornamento, che indica, il suo impiego di condurre il carro della luna. Talvolta è tirata su di un carro da due cervi : qualche volta porta una fiaccola in mano per isnidare gli animali selvaggi da’ loro covili1.

Le Muse.

Nove sono le Muse, che sovrastano alle scienze, alle arti, ai talenti. Hanno Giove per padre : Mnemosina (la memoria) è la loro madre. Eccone i nomi : Clio, Euterpe, Talia, Melpomene, Terpsicore, Erato, Polimnia, Calliope, e Urania. Apollo è il loro capo, e perciò vien chiamato Musagete, cioè conduttore delle muse.

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Clio, parola che significa gloria, era destinata ad eternare col suo canto gli Eroi. La sua effigie è coronata di allori con qualche papiro alla mano, o con un libro, ed un piccolo stile.

Euterpe, voce indicante piacere, contento, presedeva alla musica, ed alla poesia boschereccia, circondata da istrumenti musicali, e dal doppio flauto.

La Musa della commedia era Talìa : la sua corona era di ellera, recando in mano una maschera, e ’l pedum, o sia bastone pastorale.

Ornata di corona regale Melpomene spiegava i suoi dritti sulla tragedia collo scettro in una mano, e nell’altra una coppa avvelenata. Il suo portamento è nobile, e fiero : la sua figura è maestosa, e ’l suo piede calza il coturno.

Terpsicore dirige il ballo, e suona la lira, o pur batte il timpano. Ella ha seco una tazza, ed un tirso.

Erato si occupa della bellezza degli amorosi componimenti. La lira è il suo istrumento musicale, ed è corteggiata da piccoli amori.

Polimnia è la musa della memoria. L’indole di tal nome porta seco il significato di molti Inni, per indicare i diversi soggetti, che canta questa Musa. Ella regola altresì il gesto, e la pantomima.

Calliope presiede alla poesia epica. Ella tiene in mano un poema, ed una corona : nell’altra una tromba.

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Urania non ha altr’oggetto, che il Cielo, ed è perciò la Musa dell’astronomia. La sua testa è coronata da un diadema di stelle : ha per insegna un compasso, un globo, ed altri istromenti matematici, oltre una bacchetta, colla quale fa le dimostrazioni delle sue lezioni.

Ecco ne’ seguenti versi espressi gl’impieghi tutti delle Muse.
Ne’ suoi rapidi voli Urania svela
Di natura i segreti, e dell’Olimpo.
Celebra Clio la sorte degl’imperi,
Con rendere immortali uomini, e Dei.
Canta Calliope al suon di dolce lira,
Ed alte imprese scopo son del canto.
Con vaga illusion mista d’ingegno
Talia scherzando, al vizio ognor fa guerra.
Con gravità Melpomene narrando
Tragici eventi, a pianger ci riduce.
Coronata di mirti Erato esalta
Le dolcezze di amore, e le conquiste.
Di piccol flauto i suoni anima Euterpe,
E d’innocente gioja asperge i carmi.
Il mutulo parlar Polimnia insegna,
Atteggiando cogli occhi, e col sembiante.
Destasi al suon di musico stromento
Terpsicore, e danzar snella si vede.
Col spirto animator dell’opre belle
Le figlie di Memoria Apollo investe
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Le guida ognor, e l’immortale schiera
D’ogni sapere il merto in se racchiude.

Venere.

Venere la Dea della bellezza, e la Regina degli amori, nacque, come si è detto, dal sangue, che versò nel mare Urano, allorchè fu ferito da Saturno suo figlio. Appena uscita alla luce questa Dea, Zefiro la condusse all’Isola di Cipro, dove le Ore presero cura della sua educazione : quindi fu detta Ciprigna, come pure Citerea da Citera Isola dov’ella regnava. Venere fu maritata a Vulcano, dal quale ebbo molti figli ; fra questi i più rinomati sono Cupido, Priapo, Imeneo, Dio che sovrastava alle nozze. Furono anche suoi figli Enea. e le tre Grazie1.

La sua bellezza era tale che fu giudicata la più bella fra le Dee, ed a lei in concorso di Pallade, e Giunone, fu dato da Paride il pomo di oro, che la Discordia aveva gittato dove si {p. 47}celebrarono le nozze di Teti, e di Peleo. Ma altrettanto indecente e sconvenevole fu la sua condotta : e noi in grazia della modestia volentieri passiamo sotto silenzio le varie sue vicende, specialmente con Marte, e con Adone. Crediamo quì piuttosto miglior partito indicare un’ altra Venere celeste, di cui parla Platone, tutta spirante decenza, e grazie non affettate, e riposta saviezza. La Venere di cui parliamo, non è certamente un sogno di Platone. Parecchi accreditati scrittori ci assisicurano che a questa Venere virtuosa si erano eretti magnifici templi in Cipro, in Atene, e presso i Fenicj, dove non era permesso agli uomini di entrare1.

Osserviamo ordinariamente Venere accompagnata dalle Grazie, o da Amore, assisa su di un carro tirato da cigni, o da colombe. Queste furono a lei sacrate al proposito di un picciolo avvenimento. Stava la Dea un giorno cogliendo dei fiori in un boschetto : Amore vantossi di esser egli più sollecito in raccoglierli : ed agile saltellando da fiore in fiore mercè le ali, l’avrebbe vinta, se una Ninfa chiamata Peristera non {p. 48}avesse ajutata Venere. Crucciato perciò Amore cangiò la Ninfa in colomba.

L’ornamento principale di Venere era una zona, o sia cintura, che aveva la proprietà di darle sempre nuove attrattive. Giunone una volta la chiese in prestito per comparir più bella al suo sposo.

I luoghi dove si esercitava il culto di Venere, erano principalmente Gnido, Amatunte, Pafo, Idea, Citera1.

 

Cupido, o sia Amore.

Amore era figliuolo di Venere, e di Marte. Egli è sempre figurato qual fanciullino pieno di grazie, e di astuzie con un arco alla mano, ed un turcasso su gli omeri2. Le sue picciole ali sono di colore azzurro, di porpora, e dorate. Il Riso, il Gioco, il Piacere, il Vezzo vengono espressi egualmente che lui sotto le forme {p. 49}di alati Amoretti. Sul nascere di Cupido ognuno prevedeva, che sarebbe il più tristo fra gli Dei. Giove voleva obbligar Venere sua madre a disfarsene : ma ella per sottrarlo allo sdegno del Sovrano dell’Olimpo, lo nascose ne’ boschi, ove succhiò il latte delle bestie feroci. Appena che Amore arrivò all’età di poter maneggiare l’arco, se ne formò uno di frassino, e si servì de’ rami di cipresso per fare le frecce. I primi suoi saggi furono sugli animali, per indi dirigerli ai cuori degli uomini. Amò Psiche, e la fece da Zefiro trasportare in un luogo di delizie, ove la trattenne per molto tempo, senza che costei lo avesse conosciuto. Venere afflitta per vedere il suo figlio fatto suddito di questa giovane, la perseguitò con tanta stizza, che infelicemente alla fine se ne morì. Ma Giove, ch’era della parte di Cupido, restituì a Psiche la vita, e gliela destinò per isposa. Psiche è rappresentata come una ragazza ingenua, e colle ali di farfalla.

Vulcano.

Si è già detto, che Vulcano1 nacque {p. 50}talmente brutto, che Giove con un calcio lo fece cadere dal Cielo. Il nume bambino si rotolò lungo tempo nell’aria, e sarebbe senza dubbio morto, se gli abitatori di Lenno non lo avessero raccolto nel cadere fralle di loro braccia. Egli si ruppe ciò non ostante una coscia, e restò zoppo1. Come era ingegnoso, ed inventore, abbracciò una professione dove poteva far mostra de’ suoi rari talenti, che fu appunto quella di fabbro ; e stabilì la sua fucina nell’isola di Lenno, in quella di Lipari, e secondo alcuni poeti, sotto l’Etna2. Compagni de’ suoi lavori erano i Ciclopi, specie di giganti figli della Terra, che avevano un occhio solo nella fronte. I più conosciuti erano Bronte, Sterope, e Piracmone. Vulcano fece uscire dalla sua fucina una quantità di capi d’opera, che formavano l’ammirazione degli Dei, e degli uomini. {p. 51}Opera delle sue mani furono il fulmine di Giove, e le saette di Amore. Alle preghiere di Teti egli s’indusse a lavorare l’armatura di Achille, e ad istanza di Venere fece quella di Enea. Vulcano finalmente era il Dio del fuoco, e la sua figura è poco vantaggiosamente espressa, cioè, con una gamba più corta dell’altra, e con un martello alla mano, per lo più assiso innanzi alla sua incudine. Vulcano ad onta del suo rozzo impiego sulla terra, ne aveva non pertanto un altro nel Cielo molto più decente, qual’era quello di porgere il nettare agli Dei. Vero è, che la poca grazia, colla quale esercitava le funzioni di coppiere, fu cagione che Ebe avesse un tale incarico. Questa giovane, e leggiadra Dea, essendo caduta in presenza degli Dei, lasciò pur essa un tale impiego, dato poi da Giove al suo caro Ganimede1.

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Minerva.

Minerva nacque in una maniera del tutto singolare. Giove dopo la guerra de’ Titani sposò Meti ; ma avendogli detto Urano, che questa donna avrebbe dato alla luce una bambina dotata di una perfetta saviezza, ed uu fanciullino a cui il Destino aveva riserbato l’impero del mondo, egli divorò Meti. Dopo qualche tempo gli venne un male di capo, ed essendo ricorso a Vulcano, questi con un colpo di accetta gli aprì il cervello, ed immantinente ne uscì fuori Minerva già fatta grande, ed armata. La Dea appena nata cominciò ad eseguire un ballo detto Pirrico, annunciandosi con soverchia gentilezza per una Divinità, che durante la sua vita doveva mantenere un portamento oltremodo sostenuto.

Minerva al pari delle altre Dee fu egualmente gelosa de’ suoi dritti. Ella non la perdonò ad Aracne figlia di Idimone nativo di Colofone per essersi vantata di sapere l’arte del ricamo al pari di Minerva istessa. La Dea in segno di disprezzo le diede varj colpi di navicella sulla testa. Disperata Aracne per tale affronto voleva impiccarsi : ma impietositi gli Dei la sostennero nell’aria, e la cangiarono in ragno.

La controversia ch’ ebbe con Tiresia, terminò {p. 53}all’istante. Avendo questi avuta la temerità di guardarla mentre stava nel bagno, fu privato della vista.

Questa Dea si contrastò il dritto con Nettuno pel nome, che doveva darsi alla nascente città di Atene. I Dei decisero, che chi de’ due rendesse un più utile servizio alla nuova città, avesse tal facoltà. Nettuno con un colpo del suo tridente battè la terra, e fece uscire un cavallo. Minerva ivi fece nascere una pianta di ulivo, ed ottenne l’intento. Iu seguito questo arbore fu il segno della pace, ed a lei fu consagrato.

Minerva chiamavasi anche Pallade1. Sotto la prima denominazione ella era la Dea della sapienza, ed aveva la preminenza sulle scienze, sulle belle arti, e sulla pace. Sotto la seconda presedeva alla guerra, ed era la protettrice degli Eroi. La sua figura era nobile, ed alta la sua statura : la fisonomia era bella, ma fiera nel tempo istesso. Portava in testa un caschetto con una civetta, uccello sno favorito2 : un’asta alla mano, ed il braccio armato dell’Egida, {p. 54}ch’era per l’appunto uno scudo fatto dalla pelle di un mostro chiamato Egi, che Minerva aveva ammazzato nella guerra de’ Giganti. Ella aveva sopra questo scudo fatto incidere la terribile testa di Medusa con i capelli di serpenti. Vi ha chi dice, che l’Egida era fatta dalla pelle della capra Amaltea da Giove a lei donata.

Marte Dio della guerra.

Piccata Giunone contro Giove, che da se solo aveva fatto nascere Minerva, volle ella fare altrettanto, creando un Dio, senza che Giove ci avesse parte1. Forte nel suo proposito si consigliò con Flora, che le indicò un fiore, che al solo toccarlo concepì Marte. Questa è l’origine per altro gentile della nascita di un Dio così terribile, qual’era quello della guerra. Tal favola ci hanno tramandato i poeti latini : ma1 i {p. 55}Greci, che in lingua loro chiamano Marte Ares lo dicono figlio di Giove, e di Giunone.

Marte è rappresentato armato da capo a piedi, avendo un gallo a lui vicino, simbolo della vigilanza. Il suo carro di acciajo è guidato da Bellona Dea similmente della guerra : i suoi cavalli nati da Borea, ed Erìnni chiamansi il Terrore, e lo Spavento. Parecchi mostri sono effigiati sulla di lui carrozza : il Furore, e lo Sdegno formano l’ornamento del suo elmo : la Fama lo precede da lontano, ed il Terrore gli sta d’accanto. Eccone ne’ seguenti versi il ritratto.

Armato di fierezza il rio Terrore
Con minaccevol voce, e insanguinala
Destra s’apre il sentiero innanzi al Nume,
E in fuga va la Tema, e lo spavento :
Intrepido il Valor gli siede accanto,
Con occhi torvi, e spada in alto alzata,
Con alma, e cor di sicurezza pieno,
Seco traendo la sfidata morte,
Dell’industre Vulcano opra lodata.
Il ferreo carro Attivitade guida ;
I suoi spumanti indomiti destrieri,
Spiran foco, saette, e nembi orrendi,
Che il Mondo d’evitar invan procura.
Terribil questo Dio di lampi cinto
Calpesta al suo passar scettri, e corone,
E de’ troni si fa sgabello al piede ;
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Scaglia i fulmini, l’orbe ognor scotendo,
Di estinti un folto stuol empie l’inferno1.

Mercurio

Dio del commercio, e messaggiero degli Dei. Atlante figliuolo di Giove, e di Climene ebbe sette figliuole, chiamate le Atlantidi. Maja la maggiore di esse fu la madre di Mercurio2. Egli nacque il mattino ; al mezzo giorno inventò la lira, e la sera aveva gia rubato lo scettro a Giove, il martello a Vulcano, il tridente a Nettuno, i dardi ad Apollo, ed a Venere il cinto. Come aveva tutte le disposizioai a saper rubare, così fra tanti suoi attributi ebbe quello di Dio de’ ladroncelli, e rubatori. Non ancor grande in età egli rubò alcune vacche degli armenti {p. 57}del Re Admeto, e da Apollo custodite, che trasportò nei boschi. Un pastore per nome Batto fu il solo, che se ne avvide. Mercurio per timore di essere scoverto gli donò la più bella delle vacche, che aveva involate : ma non fidandosi interamente di lui, finse di ritirarsi : e ricomparso sotto un altro aspetto gli offerì una vacca, ed un bue a condizione, che avesse svelato il luogo, ove il furto stava nascosto. Batto sedotto dal guadagno svelò ciò, che sapeva : allora Mercurio diedesi a conoscere, e lo trasformò in pietra di paragone : pietra che ha la virtu di scoprire la natura de’ metalli da essa toccati.

Nacque da Mercurio, e da Venere un figliuolo chiamato Ermafrodito, voce greca indicante il nome de’ suoi genitori, cioè di Ermete Mercurio, e di Afrodite Venere.

Mercurio era fra gli Dei il più occupato : era il confidente di tutti, ed in particolare di Giove, ed il Messaggiere dell’Olimpo. Egli si mischiava in tutti gli affari, regolava gl’intrighi, si occupava della guerra, e della pace : presedeva ai giuochi, alle adunanze, ascoltava i pubblici indovini, che lo consultavano, e dava ad essi le risposte. Era il Dio dell’eloquenza, del commercio, e dei ladri, come si è detto. Vedevasi da per tutto nel cielo, nella terra, e nell’Inferno, e per potere da per tutto accorrere, aveva le ali {p. 58}nella testa, e nei piedi. Come direttore degli affari tiene in mano un caducèo, cioè una verga intorno a cui sono attorcigliati due serpenti. Come protettore del commercio porta una borsa di cuojo : allorchè poi è incaricato di condurre le ombre de’ morti all’inferno, gli si dà una semplice bacchetta1.

Bacco Dio del Vino.

Bacco è figliuolo di Giove, e di Semele nata da Cadmo2. Ella ad insinuazione di Giunone, che le comparve sotto l’aspetto di Beroe sua nutrice, chiedette a Giove una grazia, obbligandolo {p. 59}a giurare per Stige, che glie l’accorderebbe : questa fu che Giove venisse a visitarla con tutto l’apparato celeste. Tremò Giove per Semele a tale inchiesta, ma non avendo potuto rimuoverla dal suo proposito, fu astretto ad eseguire il suo giuramento. Egli rimontò all’Olimpo, ed indi ne discese decorato da’ suoi raggi, ed armato della folgore. All’accostarsi tutto avvampò, e la stessa Semele fu divorata dalle fiamme. Mercurio, che accompagnava il Sovrano degli Dei, ebbe appena il tempo di salvare il picciolo Bacco, che stavasi ancora nel seno di sua madre. Ma siccome non era giunto il tempo, che doveva nascere, Giove aprì una sua coscia, ed ivi racchiuse il bambino. Quando nel trasse, il diede a Mercurio, che lo consegnò a Niso. Questi lo educò nelle caverne del Monte Nisa nell’Arabia. Le figliuole di Atlante, e ’l vecchio Sileno satiro, che amava molto il vino, ebbero cura della sua infanzia. Bacco a suo tempo contestò la sua gratitudine, cangiando le figliuole di Atlante in stelle dette Jadi, e facendo presso di se restare il giocoso Sileno, che lo seguiva sopra un asinello, sul cui dorso talvolta appena si reggeva, perchè semiebrio.

Bacco combattè con ardire nella guerra de’ giganti : indi disceso in terra conquistò le Indie. Tutta la sua armata era composta di uomini, e donne, che portavano un tirso, cioè frecce {p. 60}circondate di pampini, e di edere, che ne nascondevano la punta. Per tale conquista Bacco fu detto il domatore delle Indie, o del Gange, fiume che attraversa questa contrada.

Era cosa pericolosissima l’irritare questo Nume, che acremente volle vendicarsi di Penteo, e di Licurgo.

Avendo Penteo Re di Tebe proibito a’ suoi sud diti di celebrare le feste di Bacco, questo Dio ispirò alla madre del Re, ed alle sue Menadi, o siano Baccanti un sì fatto furore, che esse lo ammazzarono senza conoscerlo. Licurgo Re della Tracia, che aveva osato di dichiararsi nemico di Bacco, si ruppe le gambe, mentre s’impegnava di tagliare tutte le vigne che stavano ne’ suoi stati.

Vedesi ordinariamente rappresentato Bacco sotto l’aspetto di un bel giovane imberbe1 con capelli biondi inanellati, e coronati di edera2, o di pampini. In una mano tiene un tirso, e nell’altra de’ grappoli d’uva, o un vaso da bere. Una pelle di pantera gli covre gli omeri {p. 61}si talvolta assiso sopra una botte, e tirato da due tigri1.

Nettuno Dio del mare.

Nettuno figliuolo di Saturno, e di Clbele nella divisione del Mondo ebbe, come si è detto, l’impero del mare, dove principalmente esercitava il suo potere, come Sovrano di tutt’i Dei delle acque. Si suole rappresentare in piedi sopra un carro, formato di conchiglie, tirato da cavalli marini : tiene in mano il tridente, col quale comanda ai flutti di sollevarsi, o di mettersi in calma : impone altresì ai venti, o di spirare per tutta la terra, o di rinserrarsi nelle loro caverne. La sua corte è composta di Tritoni, che fanno echeggiare l’aere al suono delle conche marine, e degli Dei del mare, che tutti circondano, e sieguono a nuoto il suo carro, che galleggiando vola sulle acque.

Noi abbiamo già osservato le principali vicende di Nettuno : ve ne ha di più ancora ; ma è inutile di quì rapportarle.

Egli sposò Amfitrite figliuola dell’Oceano, e di Dori Dea del mare.

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Plutone Dio dell’inferno.

Plutone figliuolo di Saturno, e di Cibele, germano di Giove, e di Nettuno, ebbe in porzione il regno degli estinti, e stabili la sua sede nell’inferno, che stava nelle viscere della terra. Si figura assiso sopra un trono di ebano, avendo uno scettro a due punte in una mano, e nell’altra delle chiavi, per dinotare, che a chi entrava nel suo regno, non era permesso di più uscirne. Cerbero cane con tre teste stava immobile ai di lui piedi.

Abbiamo già osservato in qual maniera egli involò Proserpina figliuola di Cerere, per farla divenir sua moglie. Questo Dio non era sicuramente bello : la sua reggia non era la più ridente ; ed in conseguenza non si sarebbe ritrovata una Dea, che di tutto suo genio si fosse a lui accoppiata.

Descrizione dell’Inferno.

Situavasi dagli antichi l’inferno fra le immense sotterranee voragini, ove risplendeva una luce diversa da quella, che sfavilla sotto le volte de’ Cieli. L’Averno era una dell’entrate principali per ivi penetrare. Alla porta dell’inferno stava una moltitudine di Esseri malefici, fra i quali soprattutto le Malattie, la Vecchiaia, la Paura, {p. 63}la Fame, la Guerra, la Discordia, ec. ec. : ma questi erano veri fantasmi, e non già immagini effettive.

Lasciati questi mostri fantastici, vedevasi Acheronte fiume grande, e torbido, che deponeva il suo limo nello stagno di Cocito, dopo avere attraversato l’impero di Plutone. Bisognava tragittarlo. Appena che Mercurio armato della sua verga, aveva condotte le ombre novelle alla riva di questo fiume, Caronte figlio dell’Erebo, e della Notte le riceveva nella sua barca al prezzo di una piccola moneta, e le trasportava nella ripa opposta. Questo rigido barcajuolo poteva ricevere quello ombre soltanto, che avevano avuto gli onori della sepoltura1, allontanando a colpi del suo remo le altre che si affollavano per passare. L’orrida sua ciera bastava a destare lo spavento. La sua barba era bianca, ed arricciata : gli occhi vivaci, e penetranti : vecchio, ma la sua vecchiaja era sempre fresca, e vigorosa. Un pezzo di stoffa di color bigio legata sopra delle spalle era il suo vestire2.

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Sulla riva opposta di Acheronte stava Cerbero, cane di enorme grandezza, che aveva tre teste, e tre gole spaventevoli. Questi abitava in un antro, e vegliava eternamente per impedire alle ombre l’uscita.

Il Tartaro, ed i Campi Elisj formavano la divisione dell’Inferno Cinque fiumi ivi scorrevano, cioè l’Acheronte di cui abbiamo già parlato : il fiume Stige, le cui acque giravano nove volte per que’ contorni, e per le quali i giuramenti fatti neppure gli Dei potevano mandare a vuoto : Cocito da sole lagrime formato : Flegetonte, che in vece di acqua correva in fiamme : e ’l fiume Lete, o sia dell’Obblìo1, le di cui acque facevano perdre la memoria del passato. Gli Elisj erano il soggiorno delle ombre degli Eroi, e de’ giusti. Esse passeggiavano tranquillamente per que’ boschetti pieni di ogni delizia, si sollazzavano in mille guise per quelle vaste praterie, e godevano di una felicità non mai interrotta.

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Ben diverso era il Tartaro, detto talvolta anche Tenaro da’ poeti, ove stavano ristrette le ombre de’ delinquenti soggette ad una moltitudine di pene.

Da tale separazione di buoni, e di cattivi si argomenta, che tutte le ombre erano giudicate al loro arrivo all’Inferno. Discese dalla barca di Caronte, all’istante erano condotte innanzi a tre giudici, cioè Minosse, Eaco, e Radamanto, che colà perpetuamente dimoravano, sedendo nel di loro tribunale con una bacchetta alla mano in segno della loro dignità.

Le Furie aspettavano le ombre de’ condannati per soggettarle alle pene ad esse applicate. Tre erano le terribili esecutrici delle sentenze de’ giudici infernali, Tisifone, Megera, ed Aletto, nomi indicanti rabbia, carnificina, ed invidia. Chiamavansi altresì Eumenidi, cioè dolci, ma per antitesi, cioè per dinotare l’opposto. Il loro aspetto avrebbe sgomentato i più intrepidi : erano macilenti, scarne, con lunghe smunte mammelle, e da per tutto spiravano ferocia : il loro abbigliamento era un gruppo di colubri, con una fiaccola accesa in una mano, e nell’altra una sferza di serpenti, colla quale ffagellavano le ombre a loro consegnate.

Varie erano le pene, che si soffrivano nel Tartaro1. Sisifo, che durante la sua vita aveva {p. 66}colmata di delitti la Grecia, era condannato a trascinare per sempre un enorme sasso alla cima di una montagna, d’onde gravitando pel proprio peso ricadeva immantinente.

Flegia, che aveva appiccato il fuoco al tempio di Apollo, stava inchiodato a’ piedi di una rupe, che sembrava ad ogn’istante di schiacciarlo colla sua caduta.

Il gigante Tizio, che ardì di attentare all’onore di Latona, sentiva lacerarsi i visceri da un avoltojo, che li divorava a misura, che si rinnovavano.

Issione era attaccato ad una ruota, che girava di continuo. Egli aveva osato di aspirare al possesso di Giunone. Giove per assicurarsi del suo delitto, gli avea consegnata una figura fantastica formata di nuvole, e che s’assomigliava perfettamente alla Dea.

Tantalo quel Re crudele, che per mettere a prova la divinità degli Dei in una festa diede loro a mangiare il proprio suo sigliuolo, sente eternamente gli stimoli della fame, e della sete, malgrado che una pianta carica di frutta gli penda sulla testa, ed egli stesso stìa fino al mento tuffato nell’acqua. Quando vuol dissetarsi, le {p. 67}acque spariscono a misura che vi porta le labbra : se stende la mano per cogliere delle frutta, il ramo da se stesso si allontana. Supplizio proporzionato al suo delitto.

Le Danaidi, alle quali era concesso tregua, e riposo allora che avessero riempiuta una botte, che non avea fondo.

La loro istoria esige qualche dettaglio. Danao Re di Argo padre delle suddette, le aveva promesse in matrimonio ai cinquanta figliuoli di Egitto suo fratello Re dell’Egitto : ma fu un tempo istesso l’avanzare questa promessa, e concepire un orribile disegno. Come l’oracolo avea predetto, che uno de’ figli del suo germano lo avrebbe rovesciato dal trono, egli diede di nascosto a ciascuna delle sue figlie un pugnale con ordine di ammazzare i loro sposi nella prima notte, che ad essi si univano. La sola Ipermnestra rifiutò di obbedire, salvando il suo sposo Linceo, che amava teneramente ; e questi verificò il presagio dell’oracolo, con detronizzare Danao in vendetta della morte de’ suoi fratelli.

Fine della prima parte.

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Parte seconda

Divinità del second’ordine. §

GL’Iddj maggiori, di cui abbiamo già letta la storia, partecipavano della natura reale, e della natura immaginaria. Il di loro potere era più, o meno esteso. Essi avrebbero potuto senza dubbio governare l’universo : ma la cecità degli uomini, che non potevano concepire le divinità separate da tutte le passioni, ed esenti dalle umane debolezze, credette indispensabile l’immaginare delle divinità di second’ordine, che si occupavano dei dettagli, che per necessità dovevano sfuggire agli Dei del prim’ordine. Per conseguenza furono gli uomini obbligati a creare altrettanti Dei, secondo quel che loro suggeriva la fantasia riscaldata, o a misura che il bisogno lo richiedeva.

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Divinità Campestri. §

Pane.

Pane occupa il primo luogo tra gl’Iddj campestri, ed è specialmente il Dio de’ pastori. La sua figura non lusinghiera pareva che dovesse spaventare i pastori piuttosto che riscuotere da essi un culto. Vedesi rappresentato metà uomo, e metà becco, avendo le corna sulla testa, il volto umano, le cosce irsute, ed i piedi di capra. Il flauto composto di più canne, che porta fralle mani, ci fa sovvenire di un avvenimento de’ più particolari di sua vita. Amò questo Dio Siringa ninfa del seguito di Diana : ma come questa non voleva per niente ascoltarlo, tentò egli di usare la forza : la ninfa si diede alla fuga, e si rifugiò in un canneto del fiume Ladonte suo padre, dal quale fu cangiata in canna. Pane per consolarsi di tal perdita, tagliò alcune canne accozzandole insieme colla cera, e ne formò uno strumento musicale, chiamato Siringa dal nome della ninfa.

Fauno.

Fauno figliuolo di Pico Re del Lazio cra altresì il Dio de’ pastori, ed è rappresentato sotto {p. 71} la forma medesima di Pane. Pico suo padre non avendo voluto ascoltar Circe, fu da questa trasformato in un uccello detto Picchio.

Satiri,ABCD e Fauni.

Sono rappresentati così gli uni, come gli altri colle corna, e piedi di becco, non altrimenti che Fauno, e Pane.

Sileno.

Sileno figliuolo di una ninfa, aveva educato Bacco, e passò tutti i suoi giorni in ubbriacarsi, piacendogli assai il buon vino. Bacco lo amava moltissimo, e lo portò seco al conquisto delle Indie. Un giorno, che il buon uomo viaggiava per la Lidia, smontato dal suo asinello si fermò presso di un fonte, ed ivi prese sonno. Mida che lo seppe, bramando di averlo per un poco nella Corte, mentre dormiva, fece empire la fontana di vino in luogo dell’acqua che conteneva. Svegliatosi il piacevole vecchio, e credendo ciò un prodigio, volle contestarne la sua gratitudine a modo suo, e si ubbriacò secondo il solito suo costume. Mida allora lo fece trasportare alla sua Reggia, e lo trattò così bene, che Sileno ritornato presso di Bacco parlava sempre in lode di questo re. Bacco in compenso {p. 72}di tanti favori prestati al suo caro Sileno, disse a Mida che avesse dimandato ciò che voleva. Questi chiese al Nume, che avesse convertito in oro tutto ciò che toccava, credendo questo un bene inestimabile. Tal grazia ottenne : ma si accorse ben tosto di aver ottenuto un dono dei più funesti. Allorchè volle mangiare, il cibo che accostava alle sue labbra, diventava oro sotto i suoi denti, in guisachè sarebbe morto per inedia in mezzo alle ricchezze, se Bacco da lui nuovamente chiamato in soccorso non lo avesse consigliato di andare a lavarsi le mani nelle acque del fiume Pattolo, ove perderono la proprietà dianzi ricevuta. D’allora questo fiume colla sua corrente trasporta scagliette d’oro.

Ritornando da’ suoi viaggi Sileno si fermò nell’Arcadia, dove in tutt’i giorni si ubbriacò al suo solito, e si fece amare moltissimo dai pastori, e dalle pastorelle, a’ quali cantava delle tenere canzoni, atteso il suo dolce carattere. Una volta due ninfe lo sorpresero nel fondo di una grotta, ove egli erasi addormentato : da lungo tempo Sileno aveva loro promesso alcuni versi che mai non diede, le ninfe lo legarono con alcune ghirlande, e gli tinsero il volto di mora spina : sorrise Sileno svegliato nel vedersi fralle loro mani : dimandò loro di esser posto in libertà, e non l’ottenne, che dopo di avere adempiuto alla sua promessa.

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Silvano.

È questi uno degli Dei delle foreste, che talvolta si confonde con Pane, perchè rappresentato come il medesimo. I Satiri, i Fauni, i Silvani si rassomigliano perfettamente fra loro.

I Centauri.

I Centauri erano mostri per la metà uomini, e per l’altra cavalli ; la parte superiore fino al principìo delle cosce era in forma umana ; il più apparteneva al cavallo. Si crede nata l’invenzione di questi esseri favolosi, per designare i primi uomini domatori de’ cavalli.

Chirone.

Chirone figliuolo di Saturno, e di Filira ninfa dell’Oceano, era il più saggio ed istruito tra i centauri. Celebri furono i suoi allievi, fra quali si distinse Esculapio, Giasone, Castore, Polluce, ed Achille. Egli suonava benissimo l’arpa, scoccava l’arco perfettamente, conosceva la forza dei semplici, ed era eccellente medico. Come figlio di Saturno aveva il dono dell’immortalità : ma essendosi fatta cadere sopra di un piede una freccia avvelenata di Ercole, {p. 74}provò un dolore tanto sensibile che cercò in grazia agli Dei di poter morire : il suo voto fu esaudito, e dopo morte ottenne un luogo nel Zodiaco sotto il nome di Sagittario. Ociroe sua figlia parimente istruita nelle scienze che possedeva suo padre, sapeva altresì presagire il futuro : ella volla annunziare il destino di Esculapio, e ne fu punita con perdere la sua figura essendo divenuta una cavalla1.

Pale.

Pale è la Dca de’ pascoli, de’ pastori, e degli armenti. Il suo culto era in voga presso i Romani : i Greci però non han punto conosciuta questa Divinità.

Flora.

Flora così conosciuta dai Greci, come Pale fu adorata dai Romani, era la Dea de’ fiori, e le si dava Zefiro per amante, o per isposo.

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Vertunno,ABCD e Pomona.

Vertunno era il Dio dell’autunno, e sposo di Pomona Dea de’ frutti. Allorchè arrivarono entrambi all’età avanzata, riacquistarono la loro giovinezza, e non ismentirono quella fedeltà, che a vicenda avevano giurato di mantenere.

Era rappresentato Vertunno sotto l’aspetto di un bel giovine coronato di foglie di diverse piante, portando nella sinistra mano delle frutta, e nella destra il corno dell’abbondanza. Una giovanetta armata di una biscia, e recando un ramo carico di frutta, era l’effigie di Pomona.

Termine.

Il Dio Termine, la cui statua non era altro che una pietra, o un tronco di albero, vegliava ai confini delle campestri possessioni.

Termine sii tu pietra, o informe tronco,
Il tuo poter egual è a quel di Giove.
Salva tu l’orto mio, e ’l campicello
Dalle trame di avaro, e rio vicino :
Che ingordo ognor se d’usurpar pretende
Parte de’ miei sudor, ah ! dal tuo seggio
Ove immobil ti stai, lunge là grida,
Lunge o vicin, non attentar miei dritti :
Ricalca il tuo terren : io sol quì impero.
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Priapo.

La statua di Priapo collocavasi ne’ giardini ad uso di fantoccio per ispauracchio : questo basta per dimostrare, che questo Dio non era bello : aveva l’aspetto di un satiro. La sua effigie consisteva nella sola parte superiore del corpo : il rimanente era un tronco, o pietra. Talvolta gli si adattava una falce alla mano.

Ancorchè brutto, era pertanto figliuolo di Venere, e fratello di Cupido. Giunone che per effetto di rivalità odiava Venere, mercè i suoi incantesimi, trovò il mezzo per rendere mostruoso il bambino che questa Dea portava nel seno : fu inoltre così proclive al vizio, che se ne formò il Dio del libertinaggio. A lui fu sagrato l’asino.

I fiumi.

I Fiumi, o per dir meglio i Genj che preseggono alla sorgente, ed al corso de’ fiumi, erano altresì Dei. La loro figura era di vecchi con capelli, e barba grondanti acqua, e sovente in vece di barba, e capelli avevano minutissime canne. Essi stanno sdrajati sulla nuda terra poggiati ad un’ urna situata a rovescio, d’onde l’acqua scorre in abbondanza. Questa è la sorgente dei {p. 77}fiumi sottoposta alla loro sorveglianza. Spesso portano le corna di bue, e talvolta l’intiera testa di questo animale.

Le Ninfe.

Nereo, e Dori figli dell’Oceano, e di Teti diedero alla luce un’ infinità di figliuole conosciute sotto il nome di Ninfe. I particolari loro nomi derivavano dai diversi attributi, che loro si davano. Chiamavansi Driadi, e Amadriadi quelle che presedevano alle foreste : Napèe quelle delle praterie, e de’ boschetti : Najadi le ninfe che vegliavano alla sorgente dei fiumi, e delle fontane : Oreadi le ninfe che guardavano i monti : tutte quelle che avevano l’impero sulle acque del mare, erano dette Nereidi da Nereo loro genitore.

Eco.

Eco figlia dell’Aria, e della Terra era una ninfa, che si nascondeva ne’ boschi fralle rupi, e le montagne. Ella abitava le sponde del Cefiso. Aveva la proprietà di parlare tutte le lingue : ma abusò di un tal dono, e quindi fu condannata a ripetere soltanto le ultime voci degli altrui discorsi.

Ridotta a tale stato infelice vide il bel {p. 78}Narciso figliuolo del fiume Cefiso, e della ninfa Liriope. Era questi insensibile verso tutte le ninfe, che lo amavano. Eco fu egualmente che le altre sfortunata : fu tale il suo dolore, che si ritirò ne’ siti i più solitarj, ed ivi fu cangiata in rupe. Sopravisse solamente la sua voce, per ripetere le ultime parole di chi la interrogava.

Narciso.

Narciso passò i suoi giorni alla caccia. Un giorno mentre si riposava sulla riva di un fonte, vide la sua immagine che traspariva nell’acqua : fu talmente sorpreso della sua bellezza, che divenne amante di se stesso. Ma inutilmente egli si studiava di ottenere l’oggetto de’ suoi desiri : le onde cristalline non offrivano che una lusinghiera immagine. Non volle pertanto abbandonarla, e si contentò di morire sulla riva di quel fonte ; fu cangiato in un fiore, che conserva anche oggi il suo nome.

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Divinità del mare. §

L’Oceano, e Teti.

Dopo Nettuno, il più grande de’ Dei marini, era Oceano figliuolo di Urano, e di Titea, o sia la Terra. Sposò Teti sua germana, dalla quale ebbe Nereo, e Dori che si maritarono insieme. Questi, come si è detto, procrearono le Ninfe, e le Nereidi. Tra il numero di quest’ultime vi ha Teti, che bisogna distinguere da Teti sua madre. Giove la guardava di buon occhio : ma avendo saputo dal Destino che da quella nascerebbe un bambino, che avrebbe un giorno superato la gloria di suo padre, la maritò con Peleo, dalla qual coppia nacque Achille il più celebre fra gli Eroi della favolosa antichità.

Tritone.

Tritone figliuolo di Nettuno, e della ninfa Salacia, altri dicono Amfitrite, aveva la figura di uomo fino alla cintura : il resto del corpo terminava in pesce con doppia coda. Il suo impiego era di dar fiato ad una conca avanti il carro di Nettuno. I suoi figliuoli chiamavansi al par di lui Tritoni.

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Proteo.

Proteo figliuolo dell’Oceano, e di Teti era il conduttore degli armenti di Nettuno. Questo gregge componevasi di foche, ed altri mostri marini. Proteo possedeva il dono di presagire il futuro : ma bisognava stentare moltissimo per carpirne una risposta sull’avvenire. Ciò si otteneva con fargli violenza, involandosi in ogni momento con prendere sempre nuova forma, e figura. Virgilio ci ha fatta la descrizione di questo Dio nel quarto libro delle sue Georgiche. Il pastore Aristeo avendo perduto l’intero sciame delle api, recossi a sua madre Cirene, che così gli parlò :

Est in Carpathio Neptuni gurgite vates
Caeruleus Proteus, magnum qui piscibus aequor,
Et juncto bipedum curru metitur equorum.
Hic nunc Emathiae portus, patriamque revisit
Pallenem : hunc et Nymphae venerantur, et ipse
Grandaevus Nereus : novit namque omnia vates,
Quae sint, quae fuerint, quae mox ventura trahantur.
Quippe ita Neptuno visum est, immania cujus
Armenta, et turpes pascit sub gurgite phocas.
Hic tibi, nate, prius vinclis capiendus, ut omnem
Expediat morbi caussam, eventusque secundet.
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Nam sine vi non ulla dabit praecepta, neque illum
Orando flectes ; vim duram, et vincula capto
Tende : doli circum haec demum frangentur inanes :
Ipsa ego te medios cum sol accenderit aestus,
In secreta senis ducam, quo fessus ab undis
Se recipit, facile ut somno aggrediare jacentem.
Verum ubi correptum manibus, vinclisque tenebis ;
Tum variae illudent species, atque ora ferarum.
Fiet enim subito sus horridus, atraque tigris,
Squamosusque draco, et fulva cervice leaena :
Aut acrem flammae sonitum dabit : atque ita vinclis
Excidet, aut in aquas tenues dilapsus abibit.
Sed quanto ille magis formas se vertet in omens,
Tanto, nate, magis contende tenacia vincla :
Donec talis erit mutato corpore, qualem
Videris, incepto tegeret cum lumina somno.
Haec ait, et liquidum ambrosiae diffudit odorem.
Virg. Geor. lib. IV.

Portunno,ABCD o Melicerta.

Portunno Dio presidente ai porti chiamavasi Melicerta nella sua infanzia. Ino figliuola di Cadmo, e di Ermione fu la terza moglie di Atamante re di Tebe, dalla qual coppia {p. 82}nacque Melicerta, Frisso, ed Helle figli di Atamante nati da un altro matrimonio divennero l’oggetto dell’odio di Ino loro madrigna. Intimoriti volendo sottrarsi da tale indignazione, sen fuggirono seco portando un superbo Ariete, la cui pelle era di oro. Traversando il mare sul dorso di questo magnifico Ariete, Helle cadde nelle onde, dove si annegò. Il sito ove morì fu detto Hellesponto. Frisso proseguì il suo viaggio, e giunse felicemente in Colco, ove sasagrificò a Marte il suo ariete, che dopo fu situato fra i dodici segni del zodiaco. Questa fuga afflisse molto Atamante, che trasportato dalla rabbia volle ammazzare Ino col suo figliuolo Melicerta. Ella non potè salvarsi, se non che precipitandosi nel mare col figlio, dove furono ammessi fra i Dei marini. Ino prese il nome di Leucotoe, e Melicerta quello di Palemone, che i Romani chiamarono Portunno.

Glauco.

Glauco era un celebre pescatore della Città di Anteona nella Beozia. Un giorno si avvide, che alcuni pesci che aveva nascosti sotto una cert’erba, ripresero nuove forze, e si slanciarono nelle acque. Egli si assicurò, che quest’erba aveva una proprietà particolare : ne mangiò, e si senti al momento la voglia di tuffarsi nelle {p. 83}onde. I Dei marini lo accolsero, e lo ascrissero alla loro classe.

Eolo Dio dei venti.

Eolo regnava nelle isole chiamate di Vulcano poste fra la Sicilia, e l’Italia, e dipendeva dai cenni di Nettuno, che gli ordinava di mettere i venti in libertà, o d’incatenarli nelle loro caverne. Quattro erano i principali venti conosciuti dai poeti. Borea il più impetuoso partiva dal settentrione. Egli rapì Orizia figliuola di Erettèo re di Atene, dalla quale ebbe Zeto, e Calai effigiati cogli omeri coverti da scaglie dorate, e co’ piedi alati. Austro che spira dal mezzodì ; Euro che parte dall’Oriente ; e Zefiro che viene dall’Occidente. Fra’ venti è questi il più dolce, e lusinghiero : lo invocano, e lo credono uno de’ compagni di Amore. I poeti sovente lo dipingono in aria di un bel garzone colle ali di farfalla.

Le Sirene.

Le Sirene erano tre ninfe leggiadre chiamate Leucosia, Ligia, e Partenope1, dotate di {p. 84}estrema bellezza, e di una voce bellissima, seguaci di Proserpina. Allorchè questa Dea fu rapita da Pluto, chiesero le ali agli Dei per andarla cercando : ma nell’impossibilità di trovarla, fissarono la loro sede sulla sommità delle rocce, occupandosi di dar la morte ai naviganti tirati dalla dolcezza del loro canto. Tanto loro aveva promesso il Destino, finchè non si fosse ritrovato chi sapesse ingannarle. Al saggio Ulisse spettò l’esecuzione di un tale decreto. Evitò il loro canto insidioso, turando con cera gli orecchi de’ suoi compagni, e facendosi egli stesso legare ad un albero del naviglio. Per la rabbia di essere stata elusa la loro arte, le Sirene si precipitarono nel mare, ove furono cangiate in pesci dalla sola cintura in giù.

Le Arpie.

Malgrado che le Arpie fossero figlie di {p. 85}Nettuno, e della Terra, non appartenevano però alla classe della divinità marine. Erano mostri col viso di donna fornite di ali con orecchi di orso, ed artigli alle mani, ed a’ piedi.

Cariddi, e Scilla.

Cariddi era una donna crudele, che dava addosso, o assassinava i passeggleri. Fu ammazzata da Ercole, al quale aveva rubato alcuni bovi : indi cangiata in mostro marino.

Scilla figliuola di Forco Dio del mare, e di Ecate, o sia della Notte era altresì un altro mostro del mare. Per lo innanzi era stata una ninfa bellissima amata da Glauco : ma Circe sua rivale avvelenò la fontana, ove questa ninfa era solita bagnarsi. Appena che Scilla si tuffò in quest’acqua, disparvero all’istante le sue dolci attrattive, e la bellezza istessa cangiò figura. Ella comparve con sei teste orribili, con altrettante gole, tre ordini di denti, e dodici braccia armate di artigli. Ingozzava i vascelli tutt’intieri, e la sua cintura era armata di cani che abbajavano senza interruzione, e che divoravano chiunque aveva la disgrazia di cadere in poter loro.

Scilla, e Cariddi spogliate degli ornamenti della favola sono due scogli pericolosi. Scilla è un golfo tra Reggio, e Messina, il di cui {p. 86}fragore rassomiglia all’abbajare de’ cani. Cariddi altro golfo a lui opposto giace poco lontano. Come spesso accadeva che i naviganti mentre volevano evitare uno di questi scogli incorrevano nell’altro, ebbe origine il proverbio, che incontrava Scilla, chi fuggir voleva Cariddi, allorchè taluno per isfuggire un malanno corre incontro ad un altro.

Divinità dell’Inferno. §

Le Parche.

Tre erano le Parche nate dall’Erebo, e dalla Notte. Abitavano nel Tartaro per dinotare l’oscurità che vela l’avvenire. I loro nomi erano Cloto, Lachesi, ed Atropo. Cloto la più giovane presedeva al momento della nascita degli uomini, e teneva in mano la conocchia, Lachesi filava i varj accidenti della vita, ed Atropo ne tagliava il filo colle forbici. Sorde ai prieghi dei mortali seguivano il loro lavoro, e lo interrompevano all’ora stabilita dal Destino.

La Notte.

La Notte figlia del Caos, sposa dell’Erebo, madre del Sonno, e della Morte regna fralle tenebre. In mancanza del Sole ella percorre la {p. 87}superficie della terra in un carro tirato da due cavalli neri. Il suo velo, e la veste sono di color nero ornato di stelle. Porta talvolta una fiaccola rivolta verso la terra. Gli antichi sacrificavano alla Notte il gallo, perchè turba il suo silenzio, ed a lei era sagrato il gufo uccello amico delle tenebre.

La Morte.

La Morte figlia della Notte, e germana del Sonno, è la Dea che presiede agli ultimi istanti della nostra vita. Ella è dipinta come uno scheletro colle ali, ed una falce. Gli antichi non offrivano voti, nè fabbricavano templi a questa Divinità, perchè la più dura, ed implacabile.

Il Sonno.

È annoverato fra gli Dei il Sonno, perchè sospende i nostri mali, e ci toglie ogni inquietudine. Era figlio della Notte, e fratello della Morte, ch’è un sonno perpetuo. La pittura, che fa Ovidio di questo Dio, è sì bella, che ci fa chiaramente conoscere la natura, e gli effetti del sonno. Situa egli il suo palazzo nel paese de Cimmerj1 ove raggio di luce non {p. 88}penetra, ed altro non si sente che il solo mormorio del fiume Lete, che c’invita a dormire. Innanzi alla sua abitazione si trovano de’ papaveri, ed altre erbe, che hanno la virtù d’addormentare i mortali. Riposa il Nume in una stanza sopra il letto coverto di piume circondato da cortine di color nero. Gli si vede appresso una quantità di sogni, che dormono ammonticchiati l’uno sopra l’altro. Morfeo, Fobetore, e Fantaso, erano i tre figli del Sonno. Il suo altare era collocato presso quello delle Muse per dinotare, che gli uomini di lettere hanno bisogno del riposo, e della calma dello spirito1.

Le Ombre.

Manes erano dette dai Latini le ombre degli estinti, o i Genj, che assistevano ai sepolcri.

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Nemesi.

Figliuola dell’Erebo, e della Notte era Nemesi Dea della vendetta, e vendicava i delitti in questo mondo, e nell’altro ; abbassava l’orgoglio, e dispensava a suo arbitrio il male, ed il bene. È rappresentata in diverse guise or come Furia, or con sembianze più dolci : talvolta porta un velo sulla testa per dinotare, che la celeste vendetta è impenetrabile, e colpisce all’istante i colpevoli, che si credono in sicurezza. Vedesi altresì assisa sopra un timone, o pur avendo a suoi piedi una ruota per correre da pertutto, e giudicare del merito di ognuno.

Divinità domestiché. §

I Dei Lari, ed i Penati.

Fa di mestieri distinguere di Lari dai Penati. I Lari erano Dei particolari delle famiglie, ed i Penati delle Città, o altri luoghi. Nell’ingresso delle abitazioni stavano i Lari per allontanare una qualche disgrazia che avesse potuto entrare. Questi Dei erano piccole statuette, o Idoletti convenevoli al culto particolare del padrone della casa : spesso era un semi-Dio, o un Eroe della famiglia trapassato. Presso queste immagini stava anche un cane, che egualmente era rispettato.

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I Genj.

Credevano gli antichi, che i Genj fossero destinati alla custodia degli uomini, che erano assistiti secondo il proprio naturale da due Genj, uno buono, l’altro cattivo1. Tal credenza è stata tramandata fino a’ tempi nostri, e persiste tuttavia in questa opinione una moltitudine di sciocchi, ed ignoranti2.

Di varie altre Divinità del second’ordine. §

Pluto, o sia il Dio delle ricchezze.

Era questi il Dio delle ricchezze figliuolo di Cerere, e Giasone. Vedesi rappresentato qual vecchio zoppo, ma alato per dinotare che le ricchezze con pena si ammassano, e con celerità {p. 91}possono svanire. Come ha gli occhi bendati, dovunque passa questo Dio, spande a capriccio l’oro, l’argento, che cava dal corno dell’abbondanza che porta con se.

La Fortuna.

La Fortuna è dipinta, come Pluto, col corno dell’abbondanza, e gli occhi bendati con un piede in aria, e l’altro su di una ruota, che gira con velocità. Gli antichi credevano ch’ ella dispensasse capricciosamente i beni, ed i mali, ed era soggetta alle imprecazioni degli uomini, allorchè gli affari non avevano un esito felice, come fanno anche oggidì i giuocatori, quando perdono tutto.

Ha dippiù la Fortuna le ali ai piedi, indizio della sua incostanza, ed un ciuffo di capelli sulla testa, che fa d’uopo afferrare, perchè non iscappi dalle mani. La Fortuna, al dir di Cicerone, è un nome vano ; e si potrebbe credere lo avesse l’antichità inventato per evitare l’occasione di lagnarsi contro la Providenza1.

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Arpocrate.

Arpocrate era il Dio del silenzio, in origine filosofo Greco. Egli è rappresentato con un dito sulla bocca, è vestito di una pelle di lupo picchiettata d’occhi, e di orecchi per indicare, che bisogna vedere, e sentir molto, e parlar poco. I Latini avevano ascritto anch’essi il silenzio nel numero degl’Iddii, e lo dipingevano in forma di una donna che chiamarono Muta.

Temi.

Figliuola del Cielo, e della Terra era Temi Dea della Giustizia. Fu creduta da Eusebio quella tale Carmenta donna savissima di Arcadia, che presagiva il futuro. Le matrone Romane le avevano eretto un tempio con istituire le feste Carmentali. I pagani supponevano in lei una grande penetrazione, per indicare che la giustizia scopre la verità più nascosta. È rappresentata assisa sopra una pietra quadrata per dimostrare la solidità de’ suoi giudizj, colla bilancia in una mano, e con una spada nell’altra per vendicare egualmente i dritti della gente bassa, e dei grandi.

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Astrea.

Vi ha tra poeti, chi crede Temi la stessa che Astrea, figliuola di Giove, e di Temi. Durante il secolo di oro Astrea conversò cogli uomini : ma stanca, ed annojata dai delitti che si commettevano, involossi dalla terra, e volle ritornare al Cielo, ove fu situata nel Zodiaco : oggi detta la Vergine.

Como.

Dio de’ piaceri, e della mensa era Como. Egli è rappresentato coronato di fiori, e con una fiaccola in mano, perchè gran parte della notte era a lui consagrata.

Momo.

Era questo l’amico stretto di Como. La buffoneria ben si accoppia con i piaceri della mensa. Il primo degli oggetti di Momo era mettere in ridicolo le azioni degli Dei, e degli uomini. Avendo Nettuno formato un toro, Vulcano un uomo, e Minerva una casa, questo Dio ebbe a ridirci qualche cosa. Le corna del toro dovevano essere più vicine agli occhi per potersi difendere a colpo sicuro. Dirimpetto al cuore dell’uomo {p. 94}doveva situarsi un finestrino per osservar tutto. La casa era male immaginata, perchè non poteva cangiar sito, dove ci fosse un vicino pericoloso. L’origine di Momo non sembra conveniente al suo carattere, giacchè lo fanno figlio del Sonno, e della Notte. Il suo fare è grottesco, e porta in mano una maschera, ed un bamboccio.

Imenèo.

Imene, o Imenèo era il Dio delle nozze. Egli per aver salvate alcune donzelle dalle mani de’ corsari, e che restituì ai proprj genitori, era dalle donne invocato allorchè si maritavano. Vedesi Imenèo sotto l’aspetto di un giovane leggiadro, coronato di rose, e con una fiaccola in mano.

Le Grazie.

Le Grazie eran figlie di Giove, e di Venere. Seguivano per lo più la loro madre, ed assistevano al suo abbígliamento. Erano tre Aglaja, Talia, ed Eufrosine. Erano contente delle semplici attrattive che avevano sortite dalla natura. Vengono rappresentate ignude, dandosi fra di loro la mano. Avevano picciola statura ; ma un’aria dolce, e ridente, accompagnata da una fisonomia parlante, ed atta a conquistare i cuori più duri.

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Divinità allegoriche. §

Oltre le tante fin quì da noi descritte Divinità, avevano i Greci, ed i Romani fatta l’apoteosi alle passioni umane, non che alle virtù, ed ai vizj, ai beni, ed ai mali. Non altrimenti che a Giove, si erano a questi Dei innalzati templi, ed altari, ed erano rappresentati con que’ caratteri, ed attributi che avvertivano gli uomini di quanto potevano temere, o sperare. Eccone un esempio. Assisa una donna con ispada in una mano, e nell’altra una bilancia rappresenta Temi, Dea della giustizia. Colla bilancia ella pesa le azioni di ciascuno, ed egualmente giudica del merito di chicchessia : colla spada punisce i malfattori. Il di lei tranquillo aspetto annunzia, che i suoi giudizj sono sceveri di qualunque prevenzione. Talvolta è dipinta con benda avanti gli occhi, perchè non vegga chi si presenta al suo tribunale : sia ricco, sia povero, ognuno è uguale innanzi a lei.

Queste Divinità per noi sono semplici allegorie. I poeti, i pittori, gli scultori lor danno per lo più tali attributi per aggiungere naturalezza, e vivacità ai loro lavori.

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Eudemonia, o sia la Felicità.

Era questa Dea rappresentata assisa sul trono qual Regina, tenendo in una mano un caducèo, e nell’altra il corno dell’abbondanza. Gli Ateniesi le avevano eretto un tempio : altrettanto fece Lucullo, dopo aver vinto Mitridate, e Tigrane. Crede il Vossio che la Felicità adorata da Greci col nome di Ευδαιμονια sia la stessa che Salus la salute pubblica.

L’Abbondanza.

Vedesi l’abbondanza sotto la figura di una donna robusta, rovesciando un corno pieno di frutta di ogni sorta.

La Povertà.

Era questa figliuola del Lusso, e dell’Ozio dipinta come una donna pallida, magra, e coverta di cenci, spesso in atto di darsi alla disperazione.

La Speranza.

A questa Divinità due tempj erano dedicati in Roma. In doppia guisa è rappresentata : cioè col {p. 97}corno dell’abbondanza con frutta di ogni specie, e fiori : ma per lo più vedesi appoggiata ad un’ancora.

La Virtù, e l’Onore.

Avevano queste due Divinità ciascuna il suo tempio in Roma, ma fatto in modo che non si poteva entrare nel tempio dell’onore senza passare per quello della virtù. L’allegoria era tanto bella, quanto istruiva, per insegnare agli uomini che bisogna essere virtuoso per poter aver dritto all’onore.

La virtù è figlia della verità. La sua figura era quella di una donna di fresca età con veste bianca, e sedendo sopra di pietra quadrata per indicare la fermezza, ed aggiustatezza del suo carattere.

La Verità.

La sua figura è di una giovane vergine vestita di un abito bianco, e semplicissimo, e talvolta vedesi nuda con uno specchio alla mano. Era figlia di Saturno, o piuttosto del Tempo.

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La Menzogna.

Vediamo la Menzogna spesso rappresentata sotto l’aspetto di Mercurio Dio dell’eloquenza, bugiardo e facile ad ingannare.

La Prudenza.

Si ravvisa la Prudenza allo specchio, a cui si attorciglia un serpente.

La Fama.

I Moderni la dipingono qual donna con alí larghissime, e due trombe per palesare il bene, ed il male. Gli antichi la credevano messaggiera di Giove. Virgilio ce la rappresenta come una donna di statura orribile, e gigantesca, ornata di piume, occhi, lingue, e bocche. « Ella, al dir di un poeta, è una Diva, o piuttosto un mostro di straordinaria grandezza coverto di occhi, e di orecchi, la cui voce imita lo scroscio del tuono : i piedi poggiano in terra, e la testa si nasconde tra le nuvole. Messaggiera indifferente della verita, e della bugia, corre tutti gli angoli della terra, spargendo veri, e falsi rumori. »

Leggasi la bella descrizione che fa Ovidio del palazzo della Fama.

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La Concordia.

Due tempj aveva in Roma la Concordia. Era figliuola di Giove, e di Temi. Il suo potere si estendeva sulle famiglie, e sulla Città. La sua figura era simile a quella della Pace. I Greci la chiamarono Ὀμονοια, ed aveva un tempio in Olimpia.

La Pace.

Era altresì figlia di Giove, e di Temi la Pace. Vien ella rappresentata con corona di alloro, con una immaginetta di Pluto in una mano, e nell’altra un ramo di ulivo. Questa Dea si ricovera nel Cielo, allorchè la guerra la discaccia dalla terra.

Dalle volte del Ciel aureo lucenti
Discendi, o bella Pace, e col tuo ciglio
Arresta Tu del Ciel la troppo giusta
Meritata da noi tarda vendetta.

La Fedeltà.

La fedeltà, o la buona Fede aveva il suo culto nel Lazio prima di Romolo. Ella presedeva ai trattati, alle alleanze, al commercio. Inviolabili erano i giuramenti concepiti per lei. Vien dipinta {p. 100}con veste di color bianco, e colle mani giunte, segno della fede data, e ricevuta. A lei non si offriva alcuna vittima, ed i suoi sacerdoti avevano una veste parimente bianca.

Le Preghiere.

Omero le chiama figlie di Giove. Egli le rappresenta umili, timide, e zoppicanti, e sovente malconce1.

Il Pudore.

Vedesi il Pudore in sembianza di una donna coverta da un velo.

La Sanità.

Vien espressa con una coppa alla mano, ed accanto un altare, intorno al quale un serpente si aggira. Ella è denominata anche Igia.

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La Voluttà.

Una femina nuda coronata di rose con coppa d’oro dove beve una biscia, è l’effigie della Voluttà.

La Legge.

Da Giove, e da Temi è nata la Legge. Porta in mano uno scettro per simbolo del suo impero.

La Sfrenatezza o la Licenza.

Compariva fulminata da Giove, mentre ella si sforzava d’infrangere una tavola delle leggi, e la bilancia della Giustizia.

La Natura.

Era questa la Dea che sovrastava a quanto esiste, e vediamo. Vien ella rappresentata qual donna robusta, avendo doppio ordine di mammelle per indicare la sua fecondità, e la cura che si prende per la sussistenza di quanto ha creato.

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La Providenza.

Gli antichi la dipingevano sotto l’aspetto di una venerabile matrona col corno dell’abbondanza in una mano, e nell’altra una bacchetta, che si stende nell’intero globo.

L’Amicizia.

Meritava questa Dea degli altari, ed in fatti gli antichi a lei ben molti ne innalzarono. I Romani la figuravano qual donna vestita di una tunica, nel di cui lembo si leggeva questo motto : la morte, e la vita. Sulla di lei fronte era altresì scritto : l’està, e l’inverno. Il suo fianco era aperto fino a vedersi il cuore che mostrava col dito, ov’era il detto, da vicino, e da lontano : simboli ingegnosi per mostrare, che l’amicizia è la stessa in ogni tempo, in ogni luogo inalterabile nella felicità, e nelle disgrazie. Il suo cuore aperto indicava che non ha ella segreti per gli oggetti a lei cari.

La Fatica.

Era espressa in figura gigantesca, e circondata da tutti gli strumenti che indicavano la sua attività. I suoi genitori erano l’Erebo, e la Notte.

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L’Inerzia.

Aveva per genitori il Sonno, e la Notte. Erano a lei sagrati due animali di lentissimo moto, la tartaruga, e la lumaca. Gli antichi la chiamavano anche Vacuna.

La Frode.

La sua fisonomia era ridente per meglio ingannare. Il resto del corpo terminava in serpente colla coda di scorpione. Una stretta di questa coda cagionava la morte1.

Il Terrore.

Una testa di lione sopra il corpo di una donna disegnava il Terrore. Portava in mano un pugnale, una fiaccola, e de’ serpenti.

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L’Occasione.

È rappresentata presso a poco come la Fortuna con un piede sopra di una ruota che gira rapidamente. La sua testa è calva al di dietro : nella parte d’avanti presenta soltanto un ciuffo che bisogna afferrare. La sua mano era armata di un rasojo1.

La Necessità.

Figlia della Fortuna comandava agli Dei, ed agli uomini. Le sue mani erano di bronzo, ed avevano una caviglia ed una zeppa. Gli abitanti di Corinto le avevano innalzato un tempio.

L’Invidia.

L’Invidia abita sotto la volta di una rupe sterile, e senza verdura. Si asconde in un antro spaventevole, ove raggio di luce non penetra. Smunta, pallida, con ciglio torvo, e viso malinconico. Il veleno che ha nel cuore sbocca dalle {p. 105}labbra. Ella non ride mai, se non per le nostre disgrazie, o per i disastri ch’essa stessa ci cagiona. Le lodi e gli encomj offendono il suo orecchio. Il suo supplizio è di vedere innalzati i talenti. In somma è un mostro, che da se stesso si macera, e da tutti è detestato.

La Vittoria.

Era figlia di Stige, e del gigante Pallante. Si dipinge alata con un ramoscello di palma in una mano, e nell’altra con una corona tessuta di alloro, e di ulivo.

La Primavera.

È rappresentata sotto l’effigie di Flora con ghirlanda, ed un cestellino di rose.

L’Està.

Per esprimere questa stagione vedesi Cerere col corno dell’abbondanza, e una corona di spighe.

L’Autunno.

Un giovane con corba di frutta, e carezzando un cane rappresenta l’Autunno.

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L’Inverno.

Vedesi ordinariamente dipinto l’Inverno sotto l’aspetto di un vecchio che si riscalda, o stassene rinchiuso in una grotta. Egli è vestito di un abito che tutto lo circonda ; i suoi capelli, e la barba bianca sono coverti di ghiaccio1.

La Discordia.

Una donna con serpenti sulla testa, una fiaccola in una mano, e nell’altra una biscia, ed un pugnale rappresentava la Discordia detta puranche Erinni. Il suo volto era livido, e tetro : torvo lo sguardo, e la bocca spumante. Giove l’aveva scacciata dal Cielo, perch’ella destava continue risse fra gl’Iddii.

Gli antichi, come si è detto, avevano ascritto nel numero degli Dei tutt’i mali, che circondano l’umano genere. Essi li credevano tanti Esseri capaci di allontanare, o di attirarci le disgrazie. Così sagrificavano alla Febbre per non esserne attaccati, I Romani invocavano la Paura, perchè non li avesse sorpresi quando combattevano. Il {p. 107}delirio andò tanto innanzi, che immaginarono un Nume, che non abbiamo l’ardire di nominare in lingua nostra, detto crepitus ventris1

La serie di tante stravaganze, nel momento che prova la debolezza dello spirito umano, ci avverte del bisogno che abbiamo della mano di Dio in tutti gli eventi della nostra vita. Non avendo potuto gli antichi aver l’idea giusta di un Dio vero, unico, e creatore dell’Universo, formarono altrettanti Dei di tutti gli attributi, che al vero Ente supremo si convenivano.

Fine della seconda parte.

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Parte terza

De’ semidei, e degli eroi. §

Semidei chiamavansi quei ch’ erano nati da un Dio, e da una mortale, oppur da un uomo, e da una Dea. Davasi il titolo di Eroe a chi per qualche impresa segnalata o illustre azione si fosse distinto, con aver richiamata l’attenzione degli Dei, e la meraviglia degli uomini. Così nella prima classe bisogna situar Ercole, Perseo, Cadmo, Castore, e Polluce, ec. Alla seconda classe appartengono Teseo, Agamennone, Ulisse, e tanti altri. Le gesta dei primi vanno sotto il nome di Storia favolosa, perchè combinata da un miscuglio di fatti veri, e di favole. Storia eroica diremo quella che narra i fatti, e le azioni degli uomini, e de’ guerrieri, che hanno meritato un tale distintivo.

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Questa storia porta l’epoca della nascita del mondo, al momento che Prometeo formò il primo uomo, e l’animò con una particella del fuoco celeste.

Prometeo.

Prometeo figliuolo di Giapeto, e di Climene figlia dell’Oceano, era il più ingegnoso de’ Titani. Egli per emulare la potenza di Giove ardì creare, un uomo, servendosi del semplice limo della terra cui diede l’anima con una particella di quel fuoco celeste, che dal carro del sole aveva rapita. Ingelosito Giove, che un mortale si fosse usurpato il dritto della creazione, che a lui solo si apparteneva, diede l’ordine a Mercurio, o a Vulcano d’incatenar Prometeo in una roccia del monte Caucaso, ove un’ aquila, o un avoltojo gli rodeva il fegato, che la notte si rinnovellava per essere al dì vegnente divorato di nuovo. Eterno sarebbe stato il suo supplizio, se Ercole che si trovò di là passando, non lo avesse liberato.

Non contento Giove di tale vendetta, e per punire gli uomini delle loro temerarie intraprese ordinò a Vulcano, che avesse formata una statua. Volle altresì che ciascuno degli Dei le avesse comuuicato qualche pregio. In fatti Venere le diede la bellezza, Minerva il senno, Mercurio la parola, Apollo il talento per la musica. Finalmente {p. 111}ricevette tutt’i doni immaginabili, e fu chiamata Pandora, nome composto da due voci Greche indicanti ch’ ella aveva tutt’i doni. Volle altresi Giove adempiere la parte sua. Egli le donò un vaso, che doveva presentare a Prometeo, forse allora non ancora condannato al testè detto supplizio. Epimeteo meno sospettoso, e diffidente di suo fratello Prometeo, volle aprir questo vaso donde scapparon fuori tutt’i mali che inondarono la terra. La sola speranza. restò nel fondo del vaso1.

Licaone.

Moltiplicatisi gli uomini vissero in una perfetta innocenza. Qual tempo fu detto l’età dell’oro, tanto decantala da’ poeti sotto il regno di Saturno. {p. 112}A questa tenne dietro l’età dell’argento, ed ebbe meno puri costumi. Nell’età di bronzo spuntarono i primi semi della guerra, e dei delitti. Finalmente nell’età di ferro non potendo più gli Dei tollerare la perversità degli uomini, Giove si decise a schiantarne la cattiva razza ; ma per non confondere i giusti cogli empj, intraprese colla guida di Mercurio un viaggio sulla terra, e si fermò presso di Licaone re dell’Arcadia. Questi dubitando della divinità de’ suoi ospiti, immaginò una prova terribile. Fece scannare un ostaggio, che abitava nella sua reggia, e ne apprestò delle vivande alla mensa degli ospiti Numi. Irritato Giove per tale indegnità, incenerì con un fulmine il palazzo di questo mostro. Licaone tentò sottrarsi alla vendetta, ed all’istante diventò un lupo, che cerca immacchiarsi nel fondo delle foreste.

Inesorabile allora Giove giurò la perdita del genere umano ; ma senza far danno alla terra, che voleva popolare di una nuova specie. Ordinò ai venti, che avessero unite insieme le nuvole, d’onde caddero le acque in tanta copia, che tutta ne fu inondata la terra.

Deucalione, e Pirra.

Da questo generale diluvio due sole persone furono preservate, cioè Deucalione, e Pirra sua {p. 113}sposa che non avevano partecipato dei delitti degli uomini. Questi si salvarono in una barchetta che si fermò nella cima del monte Parnaso, e dopo aver ringraziato i Dei, pensarono alla maniera di ripopolare la terra. A tale oggetto consultaron Temi, la quale loro rispose, che avessero scavate le ossa della gran madre, e col capo velato le avessero gittato dietro i loro passi. Pareva in apparenza questo oracolo che contenesse un sacrilegio, ma riflettendo, che la gran madre era la terra, e le pietre le di lei ossa, eseguirono a puntino il consiglio. Dai sassi gittati da Deucalione nacquero gli uomini, e da quei che gittava Pirra ne usciron fuori le donne1.

Cecrope.

Cecrope dall’Egitto venne a stabilirsi nella Grecia, e propriamente nel luogo, dove Atene fu fabbricata. Sposò la figliuola di Attèo re del paese, e della sua colonia se ne formarono {p. 114}dodici borghi, che diedero principio al Regno di Atene. Al culto degli Dei del paese aggiunse quello de’ suoi, e sopra tutto quello di Minerva, e di Giove, e di tanti che aveva dall’Egitto portati.

Cadmo.

Figliuolo fu di Agenore re di Fenicia, e fratello della bella Europa rapita da Giove sotto l’aspetto di un toro. Disperato Agenore, che non aveva nouve di sua figlia, impose a Cadmo di andarla cercando sin che la trovasse. Essendo stata vana ogni ricerca, Cadmo consultò l’oracolo, dal quale gli fu risposto che avesse fabbricato una città in una contrada della Grecia, e propriamente dove avesse veduto fermarsi un bove. La novella sua patria fu detta per tal ragione Beozia. Prima di edificare la città capitale, volle offrire de’ sacrifizj agli Dei, a quale oggetto avendo spediti alcuni suoi compagni ad attinger dell’acqua in una fontana consagrata a Marte, un dragone che ivi era in guardia, li divorò tutti. Cadmo non vedendoli ritornare, si recò egli stesso sulla faccia del luogo, e gli riuscì di ammazzare quel mostro. Per ordine di Minerva seminati i denti del dragone produssero de’ nuovi soldati che si scannarono fra di loro, restandone soli cinque che lo ajutarono alla fabbrica della famosa Tebe. Cadmo {p. 115}regnò lungo tempo con Ermione sua sposa, ma sopraffatto dalle disgrazie si ritirò nell’Illiria perseguitato dalla gelosia di Giunone, e finalmente dagli Dei fu cangiato in serpente.

Perseo.

La nascita di Perseo fu assai singolare. Acrisio re di Argo aveva una figliuola di rara bellezza chiamata Danae. Come l’oracolo gli aveva predetto, che da costei nascerebbe un bambino, che avrebbe dato la morte all’avo, rinchiuse Acrisio la sua figliuola in una torre di bronzo. Spinto Giove dalla curiosità di vedere questa giovane, si trasformò in pioggia di oro, e mentre i custodi erano intenti a raccorre l’oro, riuscì a Giove di penetrare nella torre. Divenne Danae madre di Perseo : del che accortosi Acrisio la fece mettere in una barchetta, e l’abbandonò alla discrezione del mare. Battuta dai venti Danae per azzardo arrivò ad una delle isole Cicladi dove regnava Polidette, che volentieri accolse la madre col bambino, con prendere somma cura dell’educazione di questo principe. Ma in seguito Polidette divenuto amante di Danae, e temendo di Perseo, cercò di allontanarlo fingendo di volere sposare una principessa di Grecia, ed in tale occasione per ostentare il suo fasto voleva quanto di più raro esistesse nel mondo. Per rendere {p. 116}adunque il viaggio di Perseo più lungo, e pericoloso gli ordinò di andare in cerca della testa di Medusa, ch’ era una delle tre Gorgoni figliuole di Forco Dio marino, che regnavano nelle isole Gorgonidi. Medusa, Stenio, ed Euriale chiamavansi queste tre sorelle, che avevano un occhio solo, ed un solo dente, che s’improntavano a vicenda. La loro chioma era composta di serpenti, che si rizzavano, e fischiavano di continuo. Taluni poeti credono che tal sorte infelice avesse avuta solamente Medusa per odio di Minerva, che in tal guisa la sfigurò perchè amata da Nettuno, che con poco rispetto di questa Dea attestò la sua premura per questa giovane nel tempio di Minerva.

Poichè Perseo fu allontanato dalla reggia da Polidette, i Dei ebbero cura della sua salvezza. Minerva gli diede l’egida, Mercurio le ali, ed un cimiero lavorato da Vulcano. Allora l’Eroe si levò rapidamente a volo per l’aria, e giunse tosto alle isole Gorgonidi. Nascosto sotto l’egida vinse le tre Gorgoni, e ritornò in Argo colla testa di Medusa, di cui si servì per cangiar gli uomini in pietra. Tal sorte toccò ad Atlante re della Mauritania, che gli aveva negata l’ospitalità. Chi guardava questa testa era soggetto ad un tale destino, e le stille di sangue che ne grondarono, divennero serpenti.

Continuando i suoi viaggi per l’Etiopia, Perseo {p. 117}liberò Andromeda1 legata nuda ad uno scoglio per esser preda di un mostro marino, che uccise all’istante, ed in premio sposò questa giovane figliuola di Cefèo, e di Cassiope. Perseo sbrigatosi da’ suoi nemici ritornò da Polidette : indi con sua madre Danae ritornò ad Argo. Ivi ammazzò Preto che aveva cacciato Acrisio dai suoi stati, col quale si riconciliò. Ma fatalmente giuocando al disco, con un colpo imprevisto uccise suo avo, con essersi così verificato l’oracolo.

Bellerofonte.

Ascoltiamone la storia per bocca di Glauco suo discendente. « Questo Eroe (diceva a Diomede durante la guerra Trojana) era figliuolo di Glauco re di Corinto : Giove lo aveva sottoposto a Preto re d’Argo. Come aveva una vantaggiosa figura, Antea moglie di Preto ebbe per lui {p. 118}qualche inclinazione, ma senza esserne corrisposta. Irritata questa principessa dal disprezzo, volle vendicarsene con un’infame calunnia. Preto soverchiamente credulo diede orecchio all’accusa, ma per non violare il diritto delle genti, lo mandò a Giobate suo suocero re della Licia con ordini segreti di prendere vendetta dell’oltraggio a lui fatto. Bellerofonte partì colla scorta degli Dei protettori dell’innocenza, e della virtù. Giobate lo accolse con gioja, e nove giorni durarono le feste, ed i divertimenti nella reggia per il suo arrivo. Nel giorno decimo avendo aperto le lettere del re d’Argo, impose immantinente all’Eroe di andare a combattere con un mostro terribile chiamato la Chimera, di razza immortale colla testa di lione, il corpo di capra, la coda di serpente, e che gittava fiamme dalla gola. L’intrepido figliuolo di Glauco alla vista de’ segnali a lui mostrati dagli Dei obbedì al comando, disfece il mostro, e ne riportò compiuta vittoria. Conoscendo allora Giobate, che il valore di Bellerofonté era superiore ai perigli, gli diede sua figlia in isposa colla metà del suo regno ».

Minosse.

Gli Ateniesi avendo assassinato Androgeo figliuolo di Minosse re di Creta, questo principe alla testa di una armata poderosa assediò Atene, e non si {p. 119}ritirò fino a che non fu segnato un trattato, col quale gli Ateniesi si obbligarono di dargli annualmente sette donzelle, ed altrettanti garzoni, che dovevano essere divorati dal Minotauro, mostro metà uomo, e metà toro. Vedremo nell’articolo Teseo in qual maniera Teseo ammazzò questo mostro, e liberò Atene da sì crudele tributo. Minosse servendosi dell’opera di Dedalo architetto ingegnosissimo, formò un edifizio detto Laberinto, nel quale chi entrava non ritrovava mai l’uscita, consistendo la struttura in mille tortuosi giri inestrigabili. Ivi Minosse fece rinchiudere il Minotauro ; e lo stesso Dedalo ch’ era incorso nella di lui disgrazia con il suo figlio Icaro. Questi però escogitò la maniera come uscire di prigione coll’ajuto delle ali composte di cera, e di penne per se, e per Icaro. Avvertì pertanto il figlio che spiccandosi a volo non si levasse troppo in alto, mentre il calore del Sole avrebbe potuto liquefare la cera. Lanciaronsi dunque nell’aria : ma Icaro vedutosi in libertà, poco profittando del consiglio del padre temerariamente s’innalzò tanto, che staccatesi le penne per l’ardore del Sole, cadde infelicemente nel mare, cui diede per tale occasione il suo nome. Icarus Icariis nomina fecit aquis, Ovidio.

Minosse fu padre di molti figli : i più conosciuti furono Androgèo, Fedra, ed Arianna. Il suo governo fu sì giusto, e regolato, che divenne {p. 120}il modello de’ principi. Per la sua giustizia, ed esattezza fu Minosse eletto dopo morto per uno dei tre giudici nell’inferno con Eaco, e Radamanto.

Teseo.

Etra, ed Egèo re di Atene furono i genitori di Teseo. Volendo questo Eroe fin dalla fanciullezza imitare il valore di Ercole, e ritrovandosi nella Corte di Piteo re di Trezenia, e padre di Etra volle intraprendere un viaggio per Atene per vedere Egèo suo genitore. Cammin facendo diede i primi saggi del suo valore. Passando pel territorio di Epidauro, uccise Perifeto che lo aveva sfidato a battersi seco. Di là traversando l’istmo di Corinto, punì Sinni assassino, che aveva una forza prodigiosa, solito ad attaccare le vittime che cadevano fra le di lui mani, a due rami di pino curvati, che poscia si raddrizzavano collo squarcio de’ loro corpi. Teseo lo fece morire nella stessa guisa. Passando per le frontiere di Megara precipitò dall’alto di una rupe l’infame Scirrone che spogliava i viandanti, e li faceva rotolare nel mare. In Eleusi vinse alla lotta Cercione, ed arrivato a Termione diede la morte all’empio gigante Procruste. Questo scellerato faceva stendere i forestieri sopra di un letto di ferro, e tagliava le parti che sporgevano in fuori. Coll’istesso supplizio pagò la pena delle sue crudeltà.

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Giunse finalmente ad Atene, dove non potendosi vedere ozioso volle combattere col toro di Maratona, che menò vivo in Città per sacrificarlo ad Apollo. Vennero dopo poco tempo i deputati di Minosse a chiedere per la terza volta il solito tributo de’ sette giovani, ed altrettante donzelle. Volle Teseo ascriversi fra quelli, e malgrado le lagrime di suo padre si pose in viaggio ad oggetto di combattere col Minotauro, e liberare Atene da sì umiliante tributo. Sarebbe però senza dubbio perito in questa per altro gloriosa impresa, se Arianna figliuola di Minosse non lo avesse consigliato di attaccare un filo all’entrata del Laberinto ove il mostro abitava. Si valse Teseo dell’avviso : uccise in battaglia il Minotauro, e coll’ajuto del filo uscì dagl’intrighi tortuosi di quel luogo. Volle Arianna seguire i passi di quest’Eroe, che amava per il suo valore : ma questi ebbe la crudeltà di abbandonare nell’isola di Nasso colei, che gli aveva salvata la vita. Restò l’infelice Arianna in quell’isola fino all’arrivo di Bacco, che ritornava vincitore dall’Indie ; questo Dio asciugò le sue lagrime, e la sposò.

Teseo nel partire, aveva promesso ad Egèo, che se ritornava vittorioso avrebbe fatto inalberare al suo vascello una bandiera bianca in vece della nera che ivi si trovava. Disgraziatamente tanto egli, che il piloto obbliarono questa promessa. Egèo che impaziente attendeva sulla riva il ritorno del {p. 122}figlio, osservando il bruno segnale, che indicava la morte dell’Eroe, per disperazione gittossi nel mare, che dal suo nome fu chiamato Egèo. Teseo montò sul trono di Atene : promulgò delle leggi, che contribuirono moltissimo ad accrescere la potenza di quel popolo.

Il resto di sua vita fu un misto di azioni grandiose, e riprensibili talvolta, come altresì di felicità, e di disgrazie. Trovò in fine da pertutto occasioni per accrescere la riputazione che godeva. In compagnia di Ercole fece la guerra alle Amazoni, donne sommamente guerriere, e sposò la loro regina Antiopa, dalla quale nacque Ippolito. Fu Teseo uno degli Argonauti, che andarono alla conquista del Vello d’oro. Accompagnò Meleagro alla caccia del cignale Calidonio. Dopo la morte di Antiopa, Teseo sposò Fedra figliuola di Minosse, e sorella di Arianna. Ben sapendo egli, che le madrigne guardano di mal occhio i figli del primo letto, inviò Ippolito presso il suo avo Piteo. Divenne questo figlio in seguito l’odio del padre per una nera calunnia di Fedra. Volendo Teseo vendicarsene, pregò Nettuno che gli promise di esaudire i suoi voti. Un giorno, mentre Ippolito passeggiava alla riva del mare, fece venir fuori delle acque un mostro metà uomo, e metà serpente, che gittava fiamme per la bocca. Spaventati i cavalli a tal vista non sentirono nè la voce, nè la mano d’Ippolito. Il carro si {p. 123}fracassò fra i dirupi, e l’infelice giovine spirò l’anima protestandosi della sua innocenza. Fedra lacerata dai rimorsi confessò il suo delitto, e si diede da se stessa la morte.

Contrasse Teseo un’amicizia strettissima con Piritoo re de’ Lapiti. Alla fama del valore di questo Eroe, Piritoo volle farne la pruova, e lo sfidò a singolar tenzone. Nel punto però di azzuffarsi, furono entrambi sorpresi del proprio coraggio : quindi mossi da sentimenti di vera stima, si diedero vicendevolmente la mano, e giurarono un’eterna, e verace amicizia. Dopo qualche tempo Piritoo sposò Ippodamia. I Centauri invitati alle nozze ebbri, ed impazzati tentarono di rapire la sposa. I Lapiti diedero di piglio alle armi, e Teseo non si fece pregare per fare lo stesso.

In ricompensa Piritoo contribuì al ratto di Elena figliuola di Tindaro, e di Leda, per averla veduta Teseo ballare con molta grazia nel tempio. Questa indegna azione di Teseo fu causa di una guerra terribile. Castore, e Polluce germani di Elena ostilmente entrarono ne’ suoi stati, ed i sudditi l’obbligarono ad andare in esilio.

Questa lezione non bastò a correggere Teseo. Piritoo suo amico, e compagno d’armi volendo imitarlo, gli venne la smania di rapir Proserpina. Arrivati all’Inferno, Plutone fu avvertito della trama, e fatte sciogliere le catene di Cerbero, si avventò questi a Piritoo, e lo strangolò. {p. 124}Teseo fu preso vivo, e condannato a restar per sempre nel Tartaro. Per sua fortuna Ercole gli ottenne di potere abbreviare la sua pena. Teseo di ritorno alla terra procurò di rientrare ne’ suoi stati che aveva occupati Mnesteo : ma i sudditi malcontenti di un re che loro attirava una folla di sventure, non vollero in niun conto riceverlo. Quindi si ritirò nell’isola di Sciro, ove Licomede regnava. Ivi visse miserabilmente, e dopo la sua morte gli furono renduti gli onori, che vivendo aveva meritati.

Castore, e Polluce.

Rapito Giove dalla bellezza di Leda sposa di Tindaro re di Sparta, volle un dì visitarla trasformatosi in cigno perseguitato da un’aquila. Questa principessa lo accolse nel seno, e ritrovandosi incinta dopo nove mesi si sgravò di due ovi, in uno de’ quali stava rinchiuso Polluce, ed Elena, nell’altro Castore, e Clitennestra. I primi due furono riguardati come figli di Giove, e gli altri due per figliuoli di Tindaro, detti in seguito indifferentemente tutti e quattro Tindaridi.

Divenuti adulti i due germani, si distinsero nel valore, Polluce riuscì il più bravo fra gli Atleti, avendo ucciso il terribile Amico al giuoco del cesto. Castore si segnalò nel corso, e nell’arte di domare i cavalli. Entrambi andarono al {p. 125}conquisto del vello d’oro, e fecero la guerra a Teseo che aveva rapita Elena germana. Essi punirono soltanto quei che avevano preso parte al ratto. Tal moderazione loro fece meritare la stima e l’ammirazione degli Ateniesi. Mercè la nobile cura che entrambi si presero di purgar l’Arcipelago dai corsari che lo infestavano, furono riguardati quai Numi da’ marinari. Nel corso della tempesta che assalì gli Argonauti, si viddero de’ fuochi scintillare sul capo de’ due fratelli, e cessò tosto quel fiero temporale. Le fiamme di tal sorta che apparivano nel sorgere, o nel mezzo di qualche tempesta si credevano segni felici, chiamati i fuochi di Castore, e di Polluce.

Amarono i due fratelli nel tempo istesso le figliuole di Leucippe, Febe, e Talaria, che bisognò rapire, perchè promesse a Ida, e Lincèo. Si venne alle mani per giustificare, e per sostenere l’oltraggio. Castore uccise Lincèo, che da Ida fu vendicato colla morte del primo. Polluce vendicò parimente Castore colla morte di Ida.

Polluce perchè figlio di Giove era immortale. Ma il vivere gli era insoffribile perchè, diviso da Castore. Quindi supplicò Giove o che lo avesse privato della vita, o avesse divisa la sua immortalità col fratello. Esaudì Giove i suoi voti, e fu deciso, che i due germani passassero sei mesi nell’inferno, ed altrettanti sulla terra. Finalmente furono trasportati nel cielo, e diedero il nome {p. 126}a due segni del Zodiaco chiamati i Gemelli1.

Giasone.

Regnando in Tessaglia Esone principe debole, ed incapace di difendere i dritti del suo popolo ; fu sbalzato dal trono da Pelia suo fratello. Questi per palliare l’usurpazione promise di restituire il regno a suo nipote Giasone, allorchè venisse all’età di poter governare. Divenuto adulto gli fu proposto dallo zio la conquista del vello d’oro, che il giovane avido di gloria non esitò punto d’intraprendere a traverso di tanti pericoli, che ne impedivano il possesso. Bisogna sovvenirsi quì di quanto sì è detto riguardo a Frisso, ed Elle figliuoli di Atamante re di Tebe. Perseguitati questi da Ino loro madrigna, sen fuggirono sul dorso di un ariete, la cui lana era di oro, e traversarono un canale del mar nero. Elle ebbe la disgrazia di cadere, e diede il nome di Ellesponto a quel mare. Frisso più fortunato guadagnò l’opposta riva, e continuando il suo viaggio arrivò in Colco, ove offerì in sacrifizio a Marte quel bello ariete, che fu poi collocato in {p. 127}un campo consagrato a quel Dio, e sotto la custodia di un dragone terribile. Fu Marte tanto contento di questa offerta che promise immense ricchezze a chi avrebbe il possesso di quella lana, e ne propose a tutti gli Eroi la conquista.

Giasone risoluto di partire, chiamò a parte della gloria di quell’impresa tutti gli Eroi della Grecia. Il vascello detto Argo fu quello che trasportò questa schiera di Eroi, perciò detti Argonauti. Noi non ci daremo la pena di fare la diceria di tutte le avventnre precedenti al viaggio, e degli ostacoli che sormontarono mercè l’assistenza di Giunone, e di Minerva. Il viaggio però era il minore de’ mali a fronte di quelli dell’acquisto del vello. Bisognava in primo luogo rompere una barriera custodita da due tori (dono di Vulcano) che avevano le corna, e i piedi di bronzo, dalle cui fauci correvano torrenti di fuoco, indi assoggettarli al giogo, e lavorare un campo vergine con seminarci i denti di un dragone, da’ quali dovevano venir fuora alcuni uomini armati, che faceva d’uopo sterminare fino a che non ve ne restasse un solo : finalmente uccidere un mostro, che stava alla guardia di sì prezioso deposito. Il più difficile era che tutto questo doveva effettuarsi nel breve corso di un giorno. L’impresa avrebbe sgomentato lo stesso Ercole : e Giasone ci avrebbe perduta la vita, se Minerva, e Giunone non {p. 128}avessero ispirato amichevoli sentimenti per Giasone a Medèa figliuola del re di Celco, maga espertissima, al cui potere ubbidiva il cielo, e la terra. Venuto il giorno prefisso si accinse al cimento il valoroso Giasone. Appena che comparve, i tori diventarono manieri, si sottoposero al giogo, fu lavorata la terra, uscirono dal di lei seno gli armati, che in vista di una pietra ad essi lanciata posti in iscompiglio a vicenda si scannarono : fu assopito, indi ucciso quel mostro mercè l’efficacia di alcune erbe, o di una bevanda apprestata da Medèa. S’impadronì Giasone dell’aureo vello che portò sulla nave con istupore de’ suoi compagni, che si erano scoraggiti all’aspetto di tanti pericoli.

Ciò fatto di concerto con Medèa, che sposò, pensarono di fuggirsene col favore della notte trasportando seco i tesori di Eta padre di Medèa. Questi senza perdita di tempo cominciò ad inseguirli : ma la perfida figlia avvezza ad ogni delitto, preso Absirto suo fratello minore lo trucidò, spargendo le membra lungo la strada che doveva battere suo padre, perchè si occupasse il medesimo a raccogliere gli avanzi dell’infelice garzone.

Il ritorno di Giasone, e degli Argonauti riempì di gioja tutta la Tessaglia. Ivi si celebrarono delle feste in tale occasione. Cessò intanto la buona intelligenza fra i due sposi. Medèa {p. 129}ritirossi a Corinto dove Giasone la seguì. Ma incostante quest’ultimo cercò la mano di Creusa figliuola di Creonte re di Corinto, e l’ottenne. Sdegnata Medèa per tanta infedeltà, finse di volere intervenire alle nozze per felicitare la nuova coppia, con aver fatto il dono a Creusa di una veste avvelenata, ma coverta di diamanti. La sventurata figlia di Creonte appena ne fu vestita, che fu consumata da un fuoco sul momento. Non contenta la maga di tale strepitosa vendetta prese i figli che aveva avuti da Giasone, ed al cospetto del padre barbaramente li trucidò : indi montato un carro s’involò alla vista di tutti, e recossi ad Atene, dove procurò di sedurre il vecchio Egèo.

Passò Giasone il resto de’ suoi giorni ora in un luogo, ora in un altro. Finalmente ritornò in Tessaglia, dove standosi un giorno sul vascello Argo che stava sulla riva, fu schiacciato dalla caduta di una trave che si era staccata.

Ercole.

Nacque quest’Eroe da Alcmena, e da Giove, che la sedusse sotto l’aspetto del suo sposo Anfitrione figliuolo di Alcèo. Come Giove aveva detto nel concilio degli Dei, che il bambino, che doveva nascere, sarebbe divenuto un Eroe, irritata Giunone spiegò un odio implacabile {p. 130}contro di Ercole, detto anche Alcide, perchè nipote di Alcèo. Standosi ancora in culla, la Dea gli aizzò due serpi per farlo affogare. In questo rincontro fece Ercole conoscere di esser egli figliuolo di Giove, avendo preso ambo i serpenti, e stretti talmente, che li schiacciò.

Creonte re di Tebe prese cura della sua educazione, che fu qual si conveniva ad un Eroe. Ercole gli mostrò tutta la gratitudine, avendo liberata Tebe nell’età di anni dieci dal giogo de’ Miniani. Ammazzò Ergino loro re, e saccheggiò Orchomeno città capitale de’ medesimi. Creonte in compenso gli diede in isposa Megaride sua figlia.

Questi non furono che piccioli saggi del suo valore, e preludj de’ travagli, che gli aveva riserbati lo sdegno di Giunone, che noi in un fiato accenneremo. Il primo tratto della sua fortezza fu l’aver ucciso un lione che infestava la selva Nemèa, della cui pelle si vestì. Il secondo fu contro l’Idra, che desolava le paludi di Lerna presso Argo. Questo mostro aveva cento colli, che terminavano in altrettante teste spaventevoli rinascendo a misura, che si tagliavano. Ercole le sterminò coll’ajuto di Jolo suo cugino, a cui impose di bruciarle appena ch’egli le recidesse. Temprò egli in seguito le sue frecce nel sangue di quest’Idra, che conteneva un veleno potentissimo. Per mano di Ercole caddero {p. 131}caddero altresì gli augelli straordinarj del Lago Stimfalo in Arcadia. Era tanto numeroso il loro stuclo che oscurava l’aria. Avevano il becco di ferro, e dal rostro lanciavano delle particelle dello stesso metallo. Furono questi mostri abbattuti, e scacciati dal rumore di alcuni timpani di bronzo, che Minerva gli aveva donati. La quarta spedizione fu la presa della cerva del monte MenaIo, che aveva i piedi di bronzo, e le corna di oro, che per un anno intero inseguì. Fu ucciso parimente da Ercole il famoso cinghiale di Erimanto che trasportò vivo sulle spalle. Era tanto grande, e terribile, che in vederlo ritornare Euristeo si nascose per la paura in una botte di bronzo. Erano tante sporche le stalle di Augìa re di Argo, che l’Eroe per nettarle deviò il corso del fiume Alfeo. Un toro che gittava fiamme dalle narici desolava l’isola di Creta. Nettuno colà lo aveva spiccato perchè Minosse non gli aveva sagrificato un bove di maravigliosa bellezza, come gli aveva promesso. Ercole vinse anche questo mostro. Punì questo Eroe anche Busiride, e Diomede. Il primo immolava a Nettuno tutt’i forestieri, ch’entravano ne’ suoi stati. Il secondo pasceva di carne umana i suoi cavalli. La pena medesima fu loro applicata. Fece in seguito la guerra alle Amazoni, e diede in isposa a Teseo la loro regina. Uccise Gerione, che aveva tre corpi. Essendosi {p. 132}altresì fatto iniziare ne’ misteri Eleusinj discese poscia all’inferno, ove dopo aver liberato il suo amico Teseo, costrinse Cerbero per la prima volta a vedere la luce, ed incatenato lo trascinò sulla terra. Finalmente conquistò i pomi d’oro, che stavano agli orti dell’Esperidi guardati da un dragone che ammazzò. L’Esperidi erano tre, Egle, Aretusa, ed Esperusa figliuole di Espero germano di Atlante, che fu cangiato in una stella che comparisce al levarsi, ed al tramontare del sole, detta perciò Lucifer, ed Hesperus. Osservammo già che Atlante era stato trasformato in una montagna, che sostiene il cielo ; le sue quattordici figlie cangiate in altrettante stelle dette Plejadi, ed Jadi.

Oltre tanti fin quì descritti travagli illustrò quest’Eroe la sua vita con tante altre brillanti azioni. Egli fu che diede la morte a Caco, che abitava in un antro sotto le falde dell’Aventino1. Questo insigne, ma accorto ladrone nel rubare ad Ercole alcuni bovi ebbe l’avvertenza di condurli nella sua caverna, tirandoli per la coda per non far conoscere la strada che avevano battuta. Ercole li avrebbe affatto perduti, se non avesse udito il muggìto de’ bovi. Pagò Caco {p. 133}la pena del suo delitto : si riprese Ercole i bovi, ed uccise l’indegno ladrone. Stupenda è la descrizione, che fa Virgilio di questa grotta nel lib. 8. Dell’Eneide.

Stava nelle arene della Libia un famoso gigante chiamato Antèo, che attaccava i viandanti. Aveva questi promesso a Nettuno suo padre d’innalzargli un tempio di cranj, ed ossa umane. Ercole andò a fargli una visita, gli diede addosso, e lo stramazzò più volte ; ma come figlio della Terra ripigliava nuove forze Antèo sempre che la toccava ; del che avvedutosi Ercole lo tenne sospeso in aria finchè spirò l’ultimo fiato. Una fucinata di uomini che avevano picciolissima statura detti Pigmei per vendicare la morte di Antèo loro re si affollò intorno di Ercole, che ridendo li pose in fuga.

Questo Eroe diseese duc volte all’Inferno per liberare Teseo, indi Alceste figliuola di Pelia, ed Anassabia. Suo padre per sottrarla dalle premure degli amanti che la circondavano, fece loro sentire che per ottenerla in isposa dovevano condurla sopra di un carro tirato da due bestie feroci di differente specie. Admeto ebbe la fortuna d’impalmare questa principessa, avendo adempito a tale condizione mercè un lione, ed un cinghiale che Apollo gli diede. Ma il Destino geloso della felicità di Admeto era presso a troncare i suoi giorni, quando Alceste che lo {p. 134}amava alla follìa, si offrì di morire per lui. Fu questa l’unica fiata che le Parche s’intenerirono : recisero quindi il filo della vita di Alceste, e lasciarono vivere Admeto. Mentre si celebravano i funerali di questa grande Eroina, esempio dell’amor conjugale, arrivò Ercole alla corte di Admeto. Commosso dalla sposizione del fatto non volle, che un’azione sì grande restasse senza compenso. Scese tosto all’inferno : combattè colla Morte : la vinse, e rimenò la tenera Alceste al suo sposo fedele, malgrado la renitenza di Plutone.

Volle Ercole per la seconda volta maritarsi, e chiese la destra di Jole figliuola di Eurito, che domandò tempo per pensarci, sull’idea che sua figlia non potesse essere contenta accoppiata ad un uomo, che aveva ammazzato di propria mano i suoi figli. Ercole che fra le sue virtù non contava la pazienza, credendo tal pretesto un vero rifiuto, crucciato si portò via i cavalli di Eurito : suo figlio Ifito, che volle reclamarli, cadde vittima di Ercole. Il suo rimorso avendo costretto Ercole a consultare l’oracolo, gli fu risposto, che l’uccisore avrebbe espiato il suo delitto a solo patto che si fosse pubblicamente lasciato vendere. Ercole vi acconsentì, e diventò schiavo di Onfale regina di Lidia Da schiavo divenne amante, e per guadagnarsi l’affetto di Onfale si ridusse colla conocchia a filare tra le sue donne.

{p. 135}
Vedesi quì tra le Meonie ancelle
Favoleggiar colla conocchia Alcide ;
Se l’inferno espugnò, resse le stelle,
Or torce il fuso, Amor se ’l guarda, e ride.
Tasso Gerusal. Canto 16.

Navigò Ercole l’Oceano fino a Calpe, ed Abila, quali due monti prima erano uniti, ed esso li separò, dove innalzò una colonna col motto Non plus ultra.

Finalmente ritornando nella Grecia sposò Dejanira sorella di Meleagro, che volendo condurre alla patria, pregò Nesso centauro a trasportarla di là del fiume Eveno. Nesso gli avrebbe nel passaggio del fiume involato la sposa, se Ercole non lo avesse arrestato con una freceia avvelenata. Questo mostro si vendicò in una maniera terribile. Consigliò prima di morire alla credula Dejanira di conservare una camicia intrisa nel suo sangue perchè la dasse allo sposo, allorchè aveva motivo di sospettare della di lui fedeltà. Questa principessa volendo interamente frastornarlo dall’affetto per Jole gl’inviò questa fatale camicia, mentre andava a fare un sagrifizio sul monte Eta. Appena Ercole ne fu rivestito che sentì divorarsi da un fuoco interno, indi preso da furore precipitò dall’alto della montagna il suo schiavo Lica, che gli aveva recato quel dono così {p. 136}funesto. Finalmente gittossi in un rogo, pregando i suoi amici di appiccarvi il fuoco. Il solo Filottete fra tanti che ricusarono, secondò il suo volere. Per compenso n’ebbe l’arco, e le frecce, senza le quali non poteva cader Troja. Le fiamme consumarono solamente quel tanto che aveva di mortale ; ma come figlio di Giove dopo morto fu dal medesimo trasportato nel Cielo.

Filottete.

Filottete figliuolo di Peano mercè l’amicizia di Ercole fu collocato nel numero degli Eroi. Dicemmo già ch’egli aveva assistito alla morte di questo Eroe con aver giurato di non rivelare il luogo della sua tomba ; ma i Greci, che avevano bisogno delle frecce che ivi erano rinchiuse per poter prendere Troja, lo fecero mancare al giuramento. Egli intanto credette di eludere il sacro voto battendo col piede la terra, in quel luogo ove stavano le ceneri di Ercole : ma gli Dei lo punirono egualmente che se avesse colla viva voce indicato quel sito. Appena imbarcatosi per recarsi a Troja, gli cadde sul piede che aveva battuta la terra, un dardo avvelenato dal suo amico ricevuto. Il veleno s’insinuò negli umori, e la sua ferita divenne insanabile. L’infezione, ed il fetore era tale, che i Greci lo lasciarono nell’isola di Lenno, ove menò un vita {p. 137}miserabile. Intanto come le sue frecce erano necessarie per la presa di Troja, i Greci dopo la morte di Achille furono costretti di ricorrere a lui. Crucciato Filottete dal tradimento ricevuto, non volle vederli : ma Ulisse ch’era destro nel tempo istesso, ed aveva il dono della lingua, calmò la sua collera, e lo persuase a venire ancor egli a Troja. Partì dunque, e giunto al campo de’ Greci, il bravo medico Macaone figliuolo di Esculapio trovò la maniera di guarire la di lui piaga.

Orfèo.

La saggia antichità ha onorato la memoria non solo degl’illustri guerrieri, ma quella ancora degl’iusigni poeti. Orfèo fu celebre antichissimo legislatore, e poeta, e meritò altresì il culto al pari delle altre Divinità, ch’aveva nella Grecia introdotte. Egli era figlio di Eagro re della Tracia, e della Musa Calliope. Apollo conoscendo in lui un raro talento per la musica gli regalò la sua lira, alla quale Orfèo aggiunse due altre corde. Allorchè questo famoso musico insieme, e poeta scioglieva la voce al canto, uscivano da’ loro covili le bestie feroci, e divenivano altresì sensibili le piante, ed i sassi.

Dopo i suoi viaggi per l’Egitto si ripatriò, ed ebbe per sua sposa la bella Euridice. Ma disgraziatamente nel giorno stesso delle nozze, {p. 138}cogliendo Euridice de’ fiori in una prateria, fu morsicata al calcagno da una biscia, e dopo pochi momenti infelicemente morì. Orfèo inconsolabile per questa perdita volle scendere all’inferno per chiedere in grazia a Plutone la sua sposa, lusingandosi di ammansire que’ mostri al suono della sua lira. Gli riuscì in fatti di riavere da Plutone la cara sua sposa a condizione però, che non si fosse rivoltato indietro fino a che non fosse uscito dall’inferno. Lo smanioso Orfèo dimenticò l’ordine di Plutone, e sparì per la seconda fiata Euridice. Questa perdita lo afflisse in modo, che giurò di fuggire per sempre la compagnia delle donne. Le femmine di Tracia furono sì offese da tale disprezzo, che avendolo incontrato mentre celebravano le feste di Bacco, lo fecero in pezzi, e ne dispersero le membra, che poi le Muse raccolsero, e seppellirono in un luogo decente : la sua lira fu situata nel Cielo1. Non possiamo {p. 139}dispensarci qui dal rapportare il divino squarcio di Virgilio su tale proposito. Descrivendo questo sublime poeta la morte di Euridice, ne attribuisce la cagione al pastore Aristèo che la inseguiva mentre coglieva de’ fiori, e nella fuga fu da una serpe morsicata. Quindi Aristèo a consigli di sua madre avendo consultato Proteo, così questi gli parlò.

Non te nullius exercent numinis irae :
Magna lues commissa : tibi has miserabilis Orpheus
Haudquaquam ob meritum poenas (ni fata resistant)
Suscitat, et rapta graviter pro conjuge saevit.
Illa quidem, dum te fugeret per flumina preaceps,
Immanem ante pedes hydram moritura puella,
Servantem ripas, alta non vidit in herba.
At chorus aequalis Dryadum clamore supremos
Implerunt montes : flerunt Rhodopeiae arces,
{p. 140}
Atque Pangaea, et Rhesi Mavortia tellus,
Atque Getae, atque Hebrus, atque Actias Orithyia.
Ipse cava solans aegrum testudine amorem,
Te, dulcis conjux, te solo in litore secum,
Te, veniente die, te decedente canebat.
Taenarias etiam fauces, alta ostia Ditis,
Et caligantem nigra formidine lucum
Ingressus, manesque adiit, Regemque tremendum,
Nesciaque humanis precibus mansuescere corda.
At canlu commotae Erebi de sedibus imis
Umbrae ibant tenues, simulacraque, luce carentum :
Quam multa in silvis avium se millia condunt,
Vesper ubi, aut hybernus agit de montibus imber :
Matres, atque viri, defunctaque corpora vita
Magnanimum heroum pueri, innuptaeque puellae,
Impositique rogis juvenes ante ora parentum.
Quos circum limus niger, et deformis arundo
Cocyti, tardaque palus innabilis unda
Alligat, et novies Styx interfusa coercet.
Quin ipsae stupuere domus, atque intima lethi
Tartara, caeruleosque implexae crinibus angues
Eumenides : tenuitque inhians tria Cerberus ora,
Atque Ixionei vento rota constitit orbis.
Jamque pedem referens, casus evaserat omnes :
Redditaque Eurydice superas veniebat ad auras,
{p. 141}
Pone sequens (namque hanc dederat Proserpina legem),
Cum subita incautum dementia cepit amantem
(Ignoscenda quidem, scirent si ignoscere manes) :
Bestitit, Eurydicemque suam jam luce sub ipsa
Immemor, heu ! victusque animo respexit, ibi omnis
Effusus labor, atque immitis rupta tyranni
Foedera : terque fragor stagnis auditus Avernis.
Illa, quis et me (inquit) miseram, et te perdidit Orpheu ?
Quis tantus furor ? en iterum crudelia retro
Fata vocant, conditque natantia lumina somnus.
Jamque vale : feror ingenti circumdata nocte,
Invalidasque tibi tendens, heu non tua, palmas.
Dixit, et ex oculis subito, ceu fumus in auras
Commixtus tenues, fugit diversa : neque illum
Prensantem nequicquam umbras, et multa volentem
Dicere praeterea vidit : nec portitor Orci
Amplius objectam passus transire paludem,
Quid faceret ? quo se rapta bis conjuge ferret ?
Quo fletu manes, qua Numina voce moveret ?
Illa quidem Stygià nabat jam frigida cymba.
Septem illum totos perhibent ex ordine menses,
Rupe sub aeria, deserti ad Strymonis undam
Flevisse, et gelidis haec evolvisse sub antris,
{p. 142}
Mulcentem tigres, et agentem carmine quereus ;
Qualis populea moerens Philomela sub umbra
Amissos queritur foetus, quos durus arator
Observans nido implumes detraxit : at illa
Flet noctem, ramoque sedens miserabile carmen
Integrat, et moestis loca questibus implet.
Nulla Venus, nullique animum flere Hymenaei
Solus Hyperboreas glacies, Tanaimque nivalem,
Arvaque Riphaeis nunquam viduata pruinis
Lustrabat, raptam Eurydicem, atque irrita Ditis
Dona querens, spretae Ciconum quo munere matres
Inter sacra Deum, nocturnique Orgia Bacchi
Discerptum latos juvenem sparsere per agros.
Tum quoque marmorea caput a cervice revulsum ;
Gurgite cum medio portans Oeagrius Hebrus
Volveret, Eurydicem vox ipsa, et frigida lingua,
Ah, miseram Eurydicem anima fugiente vocabat :
Eurydicem toto referebant flumine ripae.
Haec Proteus, etc.
Virg. Georg. IV.
{p. 143}

Edipo.

Lajo re di Tebe aveva sposata Giocasta figliuola di Creonte, che aveva prima di Lajo parimente regnato in Tebe.Gli fu predetto dall’oracolo, che il figlio che nascerebbe da questo matrimonio avrebbe a suo tempo ammazzato il genitore ; quindi sgravatasi la regina, ordinò ad un suo familiare, che avesse esposto il bambino in un deserto. Ma questi in vece di abbandonarlo alle bestie feroci, lo legò ad un albero per un piede. Per tal ragione il faneiullo ebbe il nome di Edipo, voce Greca, che dinotò piè gonfio. Forba guardiano degli armenti di Polibo re di Corinto a caso lo trovò, e mosso a compassione de’ suoi vagiti lo staccò dall’albero, e lo presentò al re, che lo fece educare con attenzione, adottandolo anche per figlio.

Edipo divenuto adulto seppe, che Polibo non era il padre suo. Volle a tale oggetto consultare l’oracolo, da cui gli fu risposto, che giammai non pensasse a far ritorno alla patria, perchè avrebbe ucciso suo padre, ed indi sposata la propria madre. Intanto credendo egli Corinto la sua patria non volle ritornarci, e prese la strada della Focide. In uno stretto del monte Citerone ebbe la sventura d’incontrarsi con Lajo, che avendogli imposto bruscamente di scostarsi, Edipo che nol {p. 144}conosceva, credendosi offeso tirò fuori la sua spada, e dopo essersi battuto uccise Lajo, e l’oracolo fu pienamente adempiuto.

Questa fu la sorgente delle disgrazie che afflissero Tebe. Un mostro alato chiamato Sfinge colla testa, e mani di donna, il corpo di un cane desolava le campagne di Tebe, e standosi in aguato in un passo del monte Ficèo, assaliva i passaggieri, che uccideva dopo aver proposto ai medesimi degli cnigmi indissolubili.

Creonte, che dopo la morte di Lajo aveva ripreso le redini del governo, fece noto al publico, che colui che uccidesse la Sfinge, sarebbe divenuto l’immediato successore del trono, ed avrebbe sposato Giocasta. La vita del mostro dipendeva dallo scioglimento di uno degli enigmi che proponeva. Edipo intraprendente, ed ardito, malgrado che tanti prima di lui fossero periti, ebbe il coraggio di presentarsi al mostro, che gli dimandò qual era quell’animale che sul matino và brancolando a quattro piedi, sul mezzo dì a due, e verso la sera con tre piedi. Edipo senza punto esitare rispose che questi era l’uomo, che nell’infanzia si rotola sovente anche colle mani per terra ; nello stato della sua robustezza camina a due piedi ; e nel declinare dell’età si poggia ad un bastone. Appena spiegato questo enigma, la sfinge si precipitò dall’alto di una roccia, e spirò. Così Tebe fu liberata : Edipo {p. 145}sposò sua madre, e divenne re. Da questa coppia incestuosa nacquero Eteocle, e Polinice, e due femine Antigone, ed Ismene.

Gli Dei vollero far presenti ad Edipo tali per altro involontarj delitti. Suscitarono una pestilenza spaventevole in Tebe ; si ebbe ricorso all’oracolo, e la risposta fu, che il flagello cesserebbe allora quando l’uccisore di Lajo fosse stato riconosciuto, e punito. Lo sventurato Edipo convinto del delitto, e vedendo che al parricidio aveva aggiunto l’incesto, andossene volontariamente in esilio, ed increscendogli la propria esistenza, si cavò anche gli occhi.

Giocasta spaventata egualmente dalla sua posizione, si diede da se stessa la morte.

Eteocle, e Polinice.

Il delitto di Edipo fu cagione di altre disgrazie nella sua famiglia. Eteocle, e Polinice suoi figli convennero di regnare un anno per ciascuno. Eteocle come primo di età prese le redini del governo : ma terminato l’anno, non si sentì la voglia di deporre il comando. Sdegnato Polinice ritirossi in Argo, dove regnava Adrasto che gli fece grande accoglienza, e gli diede una sua figliuola in isposa. Questi tentò di aggiustare le differenze tra i due fratelli, inviando Tidèo altro suo genero ad Eteocle, che violando il dritto {p. 146}delle genti fece tendere un’imboscata all’ambasciatore. Tidèo potè appena salvarsi, e ritornato ad Argo raccontò il fatto ad Adrasto, che si accinse tosto a vendicare i suoi dritti colle armi. Dopo lunga, e varia fortuna di questa guerra, stanchi i due fratelli risolvettero di terminarla in un combattimento a corpo a corpo. Si azzuffarono dunque entrambi, ed era tale l’accanimento, che l’odio reciproco loro ispirava, che dopo aversi dato de’ colpi terribili, restarono nel tempo istesso morti sul campo. La loro rabbia si manifestò anche dopo la morte, giacchè le ceneri de’ due fratelli non si poterono mai unire nella tomba, ed allorchè furono esposti sul rogo per bruciarsi i cadaveri, le fiamme si separarono con meraviglia, e spavento degli astanti.

Nomi de’ principali Guerrieri, che si distinsero nella guerra di Tebe.

La guerra di Tebe fu una delle più famose nei tempi eroici. Ella è stata il soggetto del canto di molti poeti, come quella di Troja, che diede occasione al poema di Omero. Tra i capi che allora si distinsero, si contano Adrasto, Polinice, Tidèo, Amfiarao, Capanèo, Ippomedonte, e Partenopèo.

Adrasto, come si è già detto, fu la molla principale di questa guerra, avendo aceolto nella sua reggia Polinice.

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Tidèo contemporaneamente con Polinice rifuggissi ad Argo, dopo avere ucciso i suoi zii. Adrasto parimente lo ricevè, e gli diede una sua figliuola in isposa. Tidèo era bravo, ed esperto capitano, e disfece più volte Eteocle ; incontrò non ostante la morte all’assedio di Tebe. Egli fu padre del celebre Diomede, che si segnalò nella guerra di Troja.

Amfiarao famoso indovino, sposo di Erifile figliuola di Adrasto, fu anche pressato ad armarsi : ma sapendo egli che doveva perire in questa guerra, si ritirò dalla corte di suo cognato, e si nascose. La sola Erifile sapeva il luogo della sua ritirata, che non tardò a scoprire mercè di una bella collana a lei donata da Polinice. Amfiarao fu obbligato a partire con aver però imposto al suo figlio Alcmeone, che appena intesa la nuova di sua morte, avesse tolta di vita Erifile. Morì egli in fatti : ed Alcmeone esegui l’ordine paterno. Ma tosto il sangue di Erifile fu vendicato, essendo stato consegnato alle Furie l’empio matricida, il quale per liberarsene si rifugiò a Psofi in Arcadia, per ivi fare de’ sacrifizj colla speranza di riacquistare la perduta tranquillità. Fegèa re del paese lo accolse, e gli diede per moglie Alfesibea sua figlia, a cui Alcmeone donò la fatale collana. Avendola però dopo ripudiata per Calliroe figliuola di Acheloo, chiese di nuovo questa collana ai fratelli, che vendicarono l’affronto fatto {p. 148}alla sorella colla morte del perfido Alcmeone.

Capanèo è l’Eroe, che forma il soggetto del poema di Stazio intitolato la Tebaide. Questo principe era fornito di un feroce coraggio, ma accompagnato dalla prudenza. Sprezzava il fulmine di Giove, che credeva incapace di offendere. Giove volle punire tale empietà, e col fulmine appunto lo schiacciò sulle mura di Tebe, ove era salito il primo di tutti. La sua sposa Evadne figliuola d’Ifi per lo contrario era il modello della dolcezza. Ella non potè sopravvivere a suo marito. Colla massima indifferenza si gettò sul rogo, ove si bruciava il cadavere di Capanèo, e mischiò le sue ceneri con quelle del marito.

Ippomedonte, e Partenopèo ebbero poca fama, e perirono sotto le mura di Tebe.

Adrasto fu il solo, che ritornò alla patria. Del resto questa guerra fu fatale a tutti coloro, che ci avevano preso parte.

Fra i personaggi, che si segnalarono in questa celebre epoca, non possiamo dispensarci dal nominare Tiresia famoso indovino, che per sette anni fu donna. Suscitatasi fra Giove, e Giunone la quistione sugli attributi de’ due sessi, fu chiamato Tiresia, che decise a favor di Giove, e contro di Giunone. Spiacque alla Dea una tale decisione, e per vendicarsi di Tiresia, lo privò della vista. Giove però lo compensò di tanta perdita conpermettergli di poter leggere nel libro dell’ {p. 149}avvenire, e col dono della vita cinque volte di più del resto de’ mortali.

Dopo la morte de’ figli di Edipo, cioè Eteocle, e Polinice, Creonte fratello di Giocasta salì sul trono di Tebe, e la prima delle sue cure fu di proibire che si desse la sepoltura alle ceneri di Polinice, perchè aveva chiamati de’ forestieri per difendere i suoi dritti contro la patria ; ma Antigone non tollerando quest’ultimo insulto fatto al suo fratello, uscì di notte, e rendette al fratello gli ultimi uffizj. Ciò saputosi dal re, condannò Antigone a morte, che di sua mano precedentemente si era uccisa prevedendo lo sdegno di Creonte. Tal morte fu seguita da quella di Emone amante di Antigone, e figliuolo di Creonte : e la madre di Emone non potendo reggere al dolore parimente da se stessa si uccise. Creonte visse soltanto per sentire il peso delle sue disgrazie, e benchè regnasse sovranamente, era non pertanto considerato qual tutore di Leodamante, figliuolo di Eteocle. Giunto questi all’età della ragione, si riaccese la guerra di Tebe per opera di Adrasto, che stuzzicava i guerrieri della Grecia a vendicare le ombre de’ loro padri. Questa seconda guerra fu detta degli Epigonidi : Leodamante fu spogliato del trono, e vi ascese Tersandro figliuolo di Polinice.

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Tantalo.

Rimontiamo frattanto ai tempi eroici, per indagare l’origine della famiglia de’ Pelopidi, che figurò molto in tal’epoca. Tantalo ne fu il capo : egli era figliuolo di Giove, e della ninfa Plota, e regnava nella Frigia. Non essendo questi stato chiamato da Troe in una festa che si celebrò nella città di Troja, per vendicarsi di tale oscitanza, rapì al padre il gentile Ganimede. Ecco la prima scintilla, che produsse a suo tempo l’incendio di Troja.

Abbenchè di stirpe divina, Tantalo non fu punto attaccato all’idea della religione. Un giorno avendo accolti gli Dei in sua casa, volle mettere alla pruova la divinità, con preparar loro in un banchetto le membra di Pelope suo figlio. Fremettero di orrore gli Dei : la sola Cerere stordita dal dispiacere della rapita sua cara Proserpina, si rivolse a tali odiose vivande, e mangiò una spalla di Pelope. Con un fulmine Giove incenerì Tantalo : indi ordinò a Mercurio, che lo avesse confinato in un lago dell’inferno, incatenandolo in guisa che vedesse bensì l’acqua, ma senza poter giammai dissetarsi ; nè tampoco cavarsi la fame, mentre l’acqua gli arrivava al mento, e le frutta gli pendevano sul capo.

{p. 151}

Pelope.

Tornò in vita Pelope per opra degli Dei, che in luogo della spalla mangiata da Cerere, gliene sostituirono un’ altra di avorio. Suo padre gli lasciò in retaggio una guerra cagionata dal ratto di Ganimede, onde fu obbligato di abbandonare la Frigia, e ritirarsi presso Enomao re di Elide. Questo principe aveva una figliuola chiamata Ippodamia, che voleva maritare a condizione, che lo sposo dovesse superare al corso i suoi cavalli, ch’erano velocissimi, perchè figli del vento. Pelope che anelava di ottenerla, se la intese con Mirtilo auriga di Enomao, che gli promise di spezzare l’asse che sosteneva le ruote del carro, a patto però, che Pelope gli desse per un solo giorno Ippodamia. Ciò fatto, Enomao si uccise in mezzo della corsa, e Pelope s’impossessò de’ suoi stati, facendo gittare nel mare Mirtilo sotto il pretesto di vendicare la morte di Enomao. Pelope s’impadronì del paese, che fu detto in seguito Peloponneso, oggi la Morea.

Atrèo, e Tieste.

Fra i figli di Pelope sono celebri Atrèo, e Tieste. Ad insinuazione d’Ippodamia loro madre ammazzarono il loro fratello Crisippo nato da una {p. 152}concubina di Pelope chiamata Astiochea ; perlochè furono cacciati dalla Corte di Crisippo insieme con Ippodamia. Rifuggironsi presso Euristeo re di Argo, la cui figlia Erope sposò Atrèo, che divenne re, essendo stato ucciso Euristeo dagli Eraclidi nell’Attica. Tieste che restò in sua corte corruppe il cuore di Erope, e ne ottenne due figli. Avendo Atrèo scoverto l’incestuoso commercio, si contentò da prima di cacciare il fratello dalla sua corte : ma non credendosi vendicato abbastanza, finse di riconciliarsi con lui. Lo richiamò quindi alla Corte, dove invitatolo a solenne banchetto, svenati i due figli del fratello, li diede a mangiare allo stesso padre, ed alla madre Erope. Dicono i poeti, che in quel giorno il sole si oscurò, per non vedere un sì atroce misfatto.

Tieste non aveva a rinfacciarsi che un solo delitto. Avendo una volta incontrata una giovanetta in un bosco consagrato a Minerva, la violentò. Questa era Pelopea sua figlia, che da gran tempo aveva perduta. Ella gli strappò la spada, e la conservò. Nacque Egisto da questa violenza, che esposto dalla madre fu allevato da’ pastori. Atrèo, seguita la morte di Erope, sposò Pelopea che non riconosceva per sua nipote, facendo allevare nella sua reggia anche Egisto insieme con Agamennone, e Menelao. Tanta complicazione di errori finalmente si scoprì. Atrèo spirando nuova vendetta, mandò Agamennone, Menelao, ed {p. 153}Egisto in cerca di Tieste, che lo colsero nel tempio di Delfo. Alla vista di quella spada Tieste riconobbe il suo figlio Egisto ; Pelopea sopraggiunta, ed istruita del fallo involontariamente commesso si diede la morte con quella spada medesima. Avendola Egisto portata tutta insanguinata ad Atrèo, si credette questi vendicato abbastanza, e ringraziò gli Dei. Egisto ben presto lo disingannò con dargli la morte, e con far salire sul trono d’Argo Tieste, che non vi stette gran tempo.

Agamennone, e Menelao.

Agamennone, e Menelao detti gli Atridi perchè figli di Atrèo, cacciati dalla patria dopo la morte del padre, si ritirarono presso Polifide re di Sicione, che gl’inviò ad Eneo re dell’Ecalia. Maritati entrambi per opra di questo principe generoso alle due figliuole di Tindaro Clitennestra, ed Elena, giurarono la vendetta di Atrèo, e perseguitarono Tieste, che per altro non uccisero. Allora nel tempo stesso Agamennone ascese sul trono d’Argo che trasferì a Micene, e Menelao divenne il successore di Tindaro re di Sparta. Essi regnarono in pace, quando Paride figliuolo di Priamo re di Troja recossi alla Grecia per reclamare Esione sua zia, che Telamone altra volta aveva menata via sotto il regno di Laomedonte. Il giovane ambasciadore, che spirava {p. 154}galanteria, ebbe l’attività di sedurre Elena moglie di Menelao, indi la rapì. Furono spedite a Priamo in tale circostanza diverse ambascerie : ma il veochio re in vece di restituir Elena, affacciò fuori tempo diverse ragioni, e sopratutto l’affare di Ganimede figliuolo di Troe, rapito da Tantalo. Ecco la terribile guerra, che interessò tanto tutta la Grecia contro di Troja. Agamennone fu il generale in capo di quest’armata, che doveva vendicare l’insulto fatto a suo fratello. Questo re prima di partire si riconciliò sinceramente con Egisto, a cui con poca prudenza affidò Clitennestra, ed i figli. Il perfido Egisto lungi dal corrispondere all’amicizia di Agamennone, sedusse la di lui sposa, e fece uccidere un rapsodo1, che il re aveva lasciato presso la regina, per sapere tutto ciò che si faceva nella sua corte. Giunse tant’oltre la di lui scandalosa condotta, che fece assassinare {p. 155}Agamennone nel proprio palazzo in una festa, nel giorno medesimo che ritornò dalla guerra.

Oreste, e Pilade.

Clitennestra vedutasi libera dopo la morto di Agamennone sposò Egisto, e lo fece montar sul trono. Oreste suo figlio sarebbe stato parimente vittima di sua madre, se Elettra sua sorella non lo avesse celato, ed indi fatto partire per la Focide, ove regnava Strofio, che aveva in moglie la sorella di Agamennone. Colà Oreste trovò Pilade figlio di Strofio, ed alla parentela unì puranche la più stretta amicizia, che divenne celebre. Dopo qualche anno volle Oreste vendicare la morte del padre ; arrollò delle truppe, e prese congedo da Strofio insieme col caro suo Pilade. Elettra segretamente lo fece entrare in Micene, e sparse dei falsi rumori di sua morte. Egisto, e Clitennestra caddero nella retc, e recatisi al tempio di Apollo per rendere grazie al nume, entrato Oreste con i suoi soldati di propria mano ammazzò la rea coppia. Ciò fatto, Oreste fu assalito dalle Furie, che malgrado tante espiazioni non lo lasciarono giammai fino a che non liberò sua sorella Ifigenìa, che languiva sotto la tirannia di Toante. Da costci fu riconosciuto in Tauride, e nel punto di dover essere sacrificato a Diana, il suo amico Pilade gli diede i più veraci segui della sua {p. 156}sincera amicizia. Avendo finalmente Oreste ricuperato il trono di suo padre, diede Elettra per isposa a Pilade, e visse fino ad età avanzata.

Tutto questo, se si eccettuino le ultime cose, accadde prima della guerra di Troja, di cui daremo una minuta descrizione nella seguente quarta parte del presente corso di Mitologia.

Fine della terza parte.

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Parte quarta

Origine della guerra di Troja. §

L’origine di questa guerra bisogna ripeterla, al dir de’ poeti, dal Cielo. Giove sempre infedele a Giunone sentiva una forte inclinazione per Teti figliuola di Nereo, e di Dori, che fa d’uopo distinguere da Teti moglie dell’Oceano. Sapendo però per detto di Temi, che il figlio che nascerebbe da Teti avanzerebbe di gran lunga la gloria di suo padre, rinunziò di buona gana agl’impulsi del suo cuore, e maritò Teti a Peleo figliuolo di Eaco re della Ftiotide nella Tessaglia. Achille, che superò la gloria del padre, nacque da questa coppia.

Tali nozze furono celebrate con gran pompa. Crucciata la Discordia di non esservi stata chiamata gittò un pomo di oro nella sala del festino, col motto alla più bella. Ecco sorgere una briga fra Giunone, Minerva, e Venere. Da Giove fu eretto in giudice Paride, detto anche Alessandro, {p. 158}per decidere a chi delle tre Dive spettasse quel pomo. Era questi figliuolo di Priamo re di Troja, e di Ecuba, allora occupato a custodire i suoi armenti sul monte Ida, colà confinato da Ecuba senza che Priamo lo sapesse, giacchè gli era stato predetto, mentre Ecuba era incinta, che il bambino che stava per nascere, sarebbe stata la causa della ruina della patria : quindi diede ordine ad Archelao, che appena nato lo facesse morire ; ma avendone compassione quest’uffiziale di Priamo, lo consegnò ad alcuni pastori. Alla fama della bellezza di questo pastorello volle Priamo vederlo : ne restò sorpreso ; seppe altresì ch’era suo figlio, e malgrado la minaccia dell’oracolo, ebbe la debolezza di volerlo tenere presso di se nella reggia. Mercurio intanto condusse le tre Dive da questo fortunato pastore. Ciascuna di esse procurò di corrompere il di lui cuore. Giunone gli promose degli onori : Minerva la saggezza : Venere la più bella donna ch’ esistesse. La lite fu decisa a favore di quest’ultima. Giunone, le Minerva giurarono di vendicarsene, e mantennero esattamente la loro parola. Venere adempì fedelmente alla sua promessa. Essendo Paride partito per la Grecia per ordine di suo padre, ebbe colà l’occasione di vedere Elena la più bella tra le donne di que’ tempi : se ne invaghi, e favorito dalla Dea degli amori ebbe la fortuna di piacerle. Egli tentò un volo più {p. 159}sublime. Menelao marito di Elena er’assente : la rapì, e la condusse seco a Troja.

L’ingiuria fatta a Menelao pose in rivolta tutta la Grecia, e tutti lo assicurarono di secondare la sua vendetta. Furono non pertanto inviati ambasciatori a Priamo per finir colle buone la faccenda, ma tali mezzi di riconciliazione non ebbero l’effetto desiderato, opponendo Priamo, che i Greci non avevano data alcuna soddisfazione ai Trojani, allorchè fu rapito Ganimede, come sopra si è detto. Fu quindi risoluto di farsi la guerra, e dopo lunghi preparamenti si fece in Argo la rassegna del numero de’ combattenti.

Questa bella armata radunatasi in Aulide incontrò il primo ostacolo nel mare, dove regnando una calma perfetta, non potè passare l’Ellesponto. Consultato in tale circostanza Calcante celebre indovino rispose, che la flotta non avrebbe avuto giammai favorevole il vento, se prima non si fosse placato lo sdegno di Diana contro di Agamennone, che le aveva uccisa una cerva a lei cara : questo delitto non poteva espiarsi, se non col sangue di una principessa della famiglia del reo. Mostrossi pronto Agamennone a sacrificare sua figlia Ifigenia alla collera della Dea, che placatasi dell’offerta sostituì in luogo di quella una cerva, e trasportò Ifigenia in Tauride, destinandola ad assistere ai suoi altari.

Fecero vela finalmente i Greci, e trovarono i {p. 160}Trojani ben disposti a riceverli. Durante il corso di nove anni varia fu la fortuna delle armi. La presa di Troja, che accadde nel decimo anno della guerra, non dipendeva soltanto dal coraggio degli aggressori, ma dall’adempimento ancora di molte fatalità. In primo luogo doveva trovarsi in quest’armata uno de’ discendenti di Eaco, che aveva in compagnia di Apollo, e di Nettuno faticato ad edificare le mura di Troja. Achille discendeva da questo principe : ma Teti sua madre sapendo che il figlio morirebbe nell’assedio, lo aveva vestito sotto le spoglie di donna col nome di Pirra, e lo aveva inviato alla corte di Licomede re di Sciro fra le damigelle di Deidamia sua figlia. Ulisse il più astuto, e prudente fra i Greci s’incaricò di condurre Achille alla guerra. Egli si mascherò per la strada, ed introdottosi nella reggia di Licomede, espose innanzi alle donne varj giojelli, e fra questi si fece scappare delle armi. A tal vista sentì Achille destarsi gli spiriti marziali, e svelò egli stesso il segreto. Ulisse allora presa l’occasione, parlò forte a questo giovane Eroe : gli fece conoscere quanto era preferibile la gloria ad una vita così vergognosa. Un altro decreto del fato comandava, che si cercassero le frecce di Filottete lasciategli da Ercole, che i Greci avevano vilmente abbandonato, come si è detto, nell’isola di Lenno : riuscì anche ad Ulisse di condurlo a Troja. Ma la più difficile {p. 161}tra le leggi imposte dal Fato era di portar via una statuetta di Minerva chiamata Palladium, nella quale consisteva la salvezza della città. Ulisse, che accorreva da per ogni dove, colla sua destrezza seppe involarla coll’ajuto bensì di Diomede. Impedì parimente che i cavalli di Reso re della Tracia bevessero nel fiume Xanto. Trovò anche la maniera di far venire Telefo figliuolo di Ercole ferito da Achille con un colpo di lancia, e che si era dichiarato nemico de’ Greci. Come questi non poteva guarire, se non per mezzo di quella lancia medesima, il saggio re d’Itaca glie ne portò la ruggine. Tolti di mezzo questi ostacoli, sarebbe Troja caduta prima del tempo, se lo spirito di partito, e di divisione non fosse entrato nell’armata : divisione appunto che forma il soggetto del divino poema del grande Omero.

Analisi dell’Iliade.

Del figliuol di Pelèo, del divo Achille
Al par nell’odio, e nell’amor sublime
L’opra maggior, la memorabil morte
Del Trojano campion, morte che a Troja
Fu d’eccidio final terribil pegno,
Cantami, o Musa etc. etc.
Ces. traduz. di Omero.
{p. 162}

Nella divisione del bottino dopo la presa di Tebe spettò ad Agamennone Criseide figliuola di Crise gran sacerdote di Apollo. Si affrettò questi di venire al campo de’ Greci carico di doni per riscattare la sua figlia, che Agamennone volle onninamente tenere presso di se. Sdegnato Apollo suscitò nell’armata una fiera pestilenza. Consultato Calcante rispose, che il flagello non cesserebbe, finchè non si restituisse Criseide. A sì giusta dimanda Agamennone non volle ostinatamente condiscendere. Si destò allora un bisbiglio fra i capi dell’esercito. Achille il più risentito giunse a minacciare Agamennone, che vinto dalle premure di tutti, fu costretto a cedere la prigioniera, ma per vendicarsi spedì due araldi alla tenda di Achille, che rapirono Briscide schiava del figliuolo di Pelco, e che amava alla follìa.

Montato in furie Achille giurò di non combattere più per la Grecia, se prima non si fossero vendicati i suoi torti. Teti fin dal fondo del mare intese le querele di suo figlio, ed immantinente volò sull’Olimpo per indurre Giove a punire i Greci con far vincere i Trojani, perchè ognuno conoscesse il danno che poteva produrre alla Greca armata il riposo di Achille. Mosso Giove ai prieghi di Teti, inviò ad Agamennone un sogno ingannatore onde ne deduceva un esito felice, dando un assalto alla città. Credette vero questo sogno Agamennone : tosto si sveglia, balza dal letto, {p. 163}raduna i capi dell’esercito, loro espone quanto aveva sognato. All’istante fumano gli altari per implorare il favore degli Dei, e le due parti schierate in battaglia vengono alle mani.

Nel forte dell’azione Paride, cagione di questa guerra, uscito dalle file propose una pugna a corpo a corpo con Menelao per terminare così le contese. La dissida fu accettata dal momento a condizione, che il vincitore sarebbe il pacifico possessore di Elena. Ma al semplice balenar delle armi Paride ch’ era un vile cominciò a tremare, e prevedendo di dover restarci di sotto, si raccomandò alle gambe. Il poeta per palliare questa fuga l’abbellisce con dire, che Venere inviluppò in una nuvola il guerriero da lei protetto, e lo ricondusse in città. I suoi fratelli, i parenti, i Trojani tutti, e la stessa sua sposa diedero del ridicolo a questa fuga vergognosa. Pretesero giustamente i Greci l’adempimento del trattato, ma gli Dei che si erano radunati per decidere sulla sorte di Troja, vollero che l’assedio si fosse prolungato. Minerva stessa, che non sapeva perdonarla ai Trojani per il giudizio di Paride, discese sulla terra, e regolò la mano di uno de’ combattenti a lanciare una freccia diretta al re di Sparta. Il colpo arrivò leggiermente a Menelao ; ed Agamennone, spirando nuova vendetta schierò il suo esercito, e cominciò la pugna con maggior accanimento di prima.

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L’invincibil Diomede, figliuolo di Tidèo, oprò prodigj in questa battaglia. Lo spavento, e la morte camminava innanzi a suoi piedi. Egli si rendette formidabile agli Dei medesimi. Ferì Venere, che voleva torgli d’innanzi Enea al punto di essere sagrificato : diede altresì un colpo a Marte Dio della guerra. Finalmente Ettore il solo de’ Trojani, che ardì di farglisi innanzi, ritornò in città a consiglio di Eleno suo fratello a fine di persuadere sua madre, e le matrone Trojane di recarsi al tempio di Pallade, per pregare la Dea, che allontanasse Diomede dalla mischia. Andromaca sua sposa per sottrarlo al pericolo, che correva, gli presentò il piccolo Astianatte suo figlio : ma l’Eroe dopo aver abbracciato il fanciullo, e la sposa volò di nuovo al campo, portando lo scompiglio nelle file de’ Greci. Discende Minerva dal Cielo : Apollo, che favoriva i Trojani, s’incontra colla Dea, ed insieme stabiliscono di suggerire ad Ettore il progetto di chiedere una tenzone singolare col più forte de’ Greci. Tal dimanda sgomentò i più bravi : il solo Menelao accettò la disfida : ma nol permise Agamennone. Finalmente nove guerrieri animati dal saggio, e vecchio Nestore si fecero innanzi, e gittarono i loro nomi in un elmo : cadde la sorte sopra di Ajace figliuolo di Telamone. Corre questi alla pugna, che malgrado terribile, restò dubbia. {p. 165}Spossati i due guerrieri proposero una tregua, per aver campo da rendere gli onori della sepoltura ai cadaveri degli estinti.

Gli Dei, che avevano preso grandissimo interesse per questa guerra, furono convocati nell’Olimpo, e Giove ordinò, che nessuno avesse sposato partito per l’una, e per l’altra parte : indi montò sul suo carro, e si diresse sul monte Ida.

Disperando intanto Agamennone di poter sottoporre i Trojani, pensò di sciogliere l’assedio : ma i Greci tutti credendo ciò una viltà, furono di contrario avviso. Ciascun diceva essere miglior consiglio di persuadere ad Achille di tornare, e fargli presente quanto fosse necessario il suo braccio. Ne fu dato l’incarico ad Ulisse, ed Ajace, che partirono all’istante. Ulisse procurò d’interessare Achille a favore della Grecia con fargli conoscere quanto potrebbe giovare il suo valore : che la sua collera finalmente doveva aver fine, e gli promise da parte di Agamennone dieci talenti di oro, venti vasi dello stesso metallo, sette tripodi, altrettante donzelle di Lesbo, e quel ch’era più, la sua cara Briseide. Queste grandiose promesse, accompagnate dall’eloquenza di Ulisse, furono inutili : Achille fu inflessibile.

Nel dì seguente le due armate si schierarono in ordine di battaglia. Ma Giove, che voleva donare la vittoria ai Trojani, inviò Iride ad {p. 166}Ettore con ordine di ritirarsi dal campo, e ricomparirvi, allorchè Agamennone ferito fosse stato obbligato a ritirarsi nella sua tenda. Così fu fatto, e la presenza di Ettore animò talmente i Trojani, che respinsero i Greci, e li astrinsero a ricovrarsi ai loro vascelli. Agamennone nuovamente parlò di levare l’assedio, ma Ulisse lo distolse.

Mentre Giove dal Monte Ida proteggeva i Trojani, Giunone per l’opposto implacabile cercava tutt’i mezzi, come distruggerli. Ella dimandò a Venere una zona, o sia cintura, che aveva la proprietà di aggiungere nuovi vezzi, e maggior pregio alla bellezza, e rendeva amabile quella Dea che la portava. Giove non potè resistere a tale incantesimo : dimenticò i Trojani, e corse fra le braccia della sua sposa, dove tranquillamente fu preso dal sonno. Dormiva Giove, ma vegliava Nettuno a danno de’ Trojani, che furono posti in fuga, allorchè Giove si svegliò. Accortosi del cambiamento per arte di sua moglie, la rimproverò fortemente : ma riuscì a Giunone di placarlo prima di partire.

Vedendo Giove il bisogno di aiutar Priamo, spedisce Iride a Nettuno con ordine di ritirarsi, e nel tempo stesso comanda ad Apollo di recarsi al padiglione di Ettore ferito da Ajace figliuolo di Telamone. L’Eroe erasi già ristabilito, e questo Dio gl’ispirò un coraggio quasi divino. {p. 167}Marcia Ettore guidato da Apollo : abbatte le trincee de’ Greci, che per la seconda volta dovettero ritirarsi ai loro vascelli. I Trojani erano al punto di attaccarvi il fuoco, ed Ettore si era già accostato ad uno de’ più belli, quando sopraggiunse arditamente Ajace, per opporsi al figliuolo di Priamo.

Patroclo intanto vedendo minacciata la flotta corse ad implorare l’ajuto di Achille : lo scongiurò a prendere le armi : ma tutto fu inutile. Gli permise soltanto di servirsi delle armi, e de suoi soldati a condizione però di niente intraprendere all’infuori della difesa della flotta. Vestito Patroclo delle armi di Achille, e seguito da’ Tessali si gitta in mezzo ai nemici, che credendolo il figlio di Peleo, si danno alla fuga. Superbo pel terrore che spargeva, e per la morte data a Sarpedone re della Licia, obbliò l’ordine del suo amico : più voleva inoltrarsi, ma Apollo si oppose ai suoi progressi. Questo Dio per la terza volta spinse Ettore a combattere, che venuto a battaglia con Patroclo, dopo un’ ostinata tenzone, l’uccise. Patroclo nel cadere gli predisse la sua morte per mano di Achille. Ettore si burlò del presagio, e lo spogliò delle sue armi.

Appena che giunse a notizia di Achille la morte di Patroclo, il suo dolore non ebbe limiti. La sentì sì vivamente che l’avrebbe vendicata all’istante, se avesse avute le sue armi. Assisa al fianco {p. 168}del vecchio Nereo, intese Teti negli abissi dell’Oceano il pianto di suo figlio : si affrettò di asciugare le sue lagrime con promettergli le armi pel dì vegnente. Infatti recossi ella da Vulcano che spese tutta la notte a fabbricarne delle nuove, di cui armato Achille ricomparve fra i capi dell’Armata, con protestarsi che scordava l’antica sua collera. Agamennone per non farsi vincere in generosità, mandò alla tenda di Achille la cara Briseide, carica di que’ doni, che gli aveva inutilmente prima offerti.

Impaziente Achille di sfogare la sua rabbia col sangue de’ Trojani, appena diede tempo ai Greci di prendere il necessario riposo. Fu deciso di darsi una nuova battaglia, e’ gli Dei stessi fra loro si attaccarono. Achille intanto immolava all’ombra del suo amico estinto chiunque gli si opponeva : ma queste vittime erano per lui volgari : anelava di versare tutto il sangue di Ettore. S’incontrarono alla fine i due guerrieri, e insieme si azzuffarono. Era tanto fiera, ed ostinata la pugna, che gli stessi Numi erano ondeggianti per chi si decidesse la vittoria. Achille finalmente la vinse, e la trista rimembranza del suo amico perduto lo rendette inesorabile fino alla ferocia : negò allo spirante nemico fino la consolazione di sapere, se la sua spoglia mortale si recasse all’afflitto padre. Il barbaro legò il cadavere al suo carro, e lo trascinò intorno le mura della città. {p. 169}Funesto spettacolo agli occhi di un vecchio padre, di una madre, d’una sposa ! Priamo, Ecuba, Andromaca dalle torri di Ilio ebbero la sciagura di guardare l’infelice Ettore intriso di sangue, ed asperso di polvere. Le lagrime di dolore, e le grida arrivarono al Cielo : l’aria risuonava de’ loro lamenti : l’intera città era in lutto.

La prima cura di Achille fu d’innalzare un rogo alla riva del mare, sopra del quale fece collocare il corpo del suo amico, e vi appiccò il fuoco. Indi recise la sua bella chioma, che divenne preda delle fiamme : volle inoltre, che quattro de’ suoi più belli cavalli con alcuni cani fossero gittati nel fuoco, chiudendo la cerimonia con immolare dodici prigionieri Trojani scelti dai più valorosi, ed appartenenti alle famiglie più distinte. Poichè il fuoco consumò tutto, furono raccolte le ceneri, e rinchiuse entro di un’ urna d’oro, e portate nel padiglione di Achille. Per celebrare ancora con maggior pompa la memoria dell’estinto amico, Achille intimò de’ giuochi, e de’ combattimenti, facendo preparar premj grandissimi, ed adattati ad eccitare l’emulazione.

Tutto questo non bastò a soddisfare la collera di Achille. Per lo spazio di nove giorni trascinò tre volte il mattino il cadavere del suo nemico, che Apollo covrì col suo scudo per non farlo corrompere. Finalmente si contentò di cederlo al vecchio Priamo, che in persona era venuto {p. 170}supplichevole a dimandarlo, e che offrì de’ doni di gran valore rifiutati peraltro da Achille.

Ecco il contenuto dell’Iliade. Omero non ci dice in questo poema in qual maniera fu presa Troja, contento soltanto di aver descritto gli effetti dell’ira di Achille. Si accenna nell’Odissea la distruzione di quest’ infelice città, e l’artifizio che usarono i Greci per rendersene padroni.

Fine della vita di Achille.

Achille morì per mano del più vigliacco de’ figliuoli di Priamo. Quest’Eroe divenne amante di Polissena figliuola di Priamo, che aveva veduta sulle mura di Troja. La chiedette a suo padre con promessa di rivolgere le sue armi a difesa degli stati di questo re. Priamo accettò l’offerta ; ma nel punto che tali nozze si celebravano, da Paride fu lanciata una freccia, che Apollo diresse al calcagno di Achille. Era questa la sola parte del suo corpo soggetta ad essere ferita, poichè Teti sua madre lo aveva tuffato nelle acque del fiume Stige per renderlo invulnerabile : il solo tallone, per il quale lo teneva, non fu bagnato da quest’acque salutari. È inutile quì notare, che Omero non abbia fatta menzione di tale favola : il suo Eroe sarebbe stato meno grande, se lo avesse dipinto fornito di un tal dono. I poeti che scrissero dopo di {p. 171}Omero, immaginarono questa favola, come accessoria alla storia di Achille.

Fu un punto stesso l’esser ferito, e morire il figliuolo di Peleo. I Greci per potergli fare gli onori della sepoltura, furono obbligati a fare altrettanto che fece Priamo per avere il corpo di Ettore. Pel corso di dieciassette giorni furono celebrate l’esequie coll’intervento di Teti, e delle Nereidi. A lui fu eretta una superba tomba sulle rive dell’Ellesponto presso il promontorio Sigèo. Presa Troja, Pirro suo figlio immolò sulla sua tomba Polissena, innocente cagione della morte di quest’Eroe. Ajace figliuolo di Telamone, ed Ulisse si contrastarono le sue armi al cospetto di tutta l’armata : ma questa volle che si dessero ad Ulisse. Ajace ne fu tanto indispettito, che giunse a massacrare una moltitudine di porci, credendo di sacrificare Agamennone con tutt’i Greci. Ritornato in se, n’ebbe tanta vergogna, che si diede da se stesso la morte, ed indi fu cangiato in un fiore.

Analisi dell’Odissèa.

L’Iliade di Omero ci ha presentate delle sanguinose battaglie, e degli Eroi, che diedero pruove non equivoche del più sublime coraggio. Abbiamo osservato in persona di Achille un esempio funesto delle umane passioni. L’orgoglio, e la collera indussero questo Eroe a far {p. 172}morire il migliore dei suoi amici, ed una quantità di guerrieri, che avrebbe potuto soccorrere. Abbiamo per l’opposto veduto gl’Iddj dominati da uno spirito di partito : il ritratto che il poeta ce ne ha lasciato sarebbe pur troppo a giorni nostri umiliante, e poco orrevole per gli uomini, tralasciando per brevità altre riflessioni che potrebbero farsi.

L’ Odissèa, di cui ci accingiamo a fare l’analisi, racchiude la storia de’ viaggi di un Eroe, la cui prudenza e saviezza abbiamo già ammirata. Questo poema ci offre de’ quadri ben diversi, ma preziosi, ed interessanti per la società. Vedremo Ulisse senza perdersi di coraggio far fronte ai perigli, ed alle disgrazie, e trar profitto da suoi lunghi, e penosi viaggi.

Dic mihi, Musa, virum captae post tempora Trajae

Qui mores hominum multorum vidit, et urbes.

Traduce così Orazio il principio di questo secondo parto di Omero.

Ulisse partì alla volta della Grecia dopo la presa di Troja : ma ritenuto da Calipso nell’isola di Ogigia, ove regnava, aveva quasi perduto la speranza di ritornare ad Itaca sua patria. Bramava Calipso di divenire sua sposa : ma questo principe stancava gli Dei, pregandoli di fargli rivedere la sua cara {p. 173}Penelope, e’ l giovanetto Telemaco. Minerva intanto, che aveva spiegata per lui la sua protezione, discesa dall’Olimpo sotto l’aspetto di Menta Re de’ Tafj, si presentò a Telemaco, consigliandolo a recarsi presso di Nestore, o pure alla corte di Menelao, dove probabilmente avrebbe avuto nuove di suo padre. Si avvide Telemaco, che Minerva stessa gli parlava per essersi ritirata la Dea sotto la figura di un uccello, come altresì perchè si sentì animato da una forza più che naturale. Intima pel dì vegnente un’assemblea generale : si duole aspramente di quei che aspiravano alla mano di sua madre : ordina che siano cacciati dalla reggia, scongiurando i suoi sudditi di ajutarlo a reprimere la loro temerità. La notte s’imbarca, dirige la prora verso Pilo per ivi trovar Nestore, dal quale non avendo avuto notizie soddisfacenti, si reca a Sparta da Menelao. Colà appena arrivato, è chiamato ad una festa che si celebrava per le nozze di una figliuola di quel re, che gli disse aver inteso da Proteo Dio marino, che suo Padre Ulisse è trattenuto da una ninfa in un’isola, dove sospira notte, e giorno il ritorno alla patria. Tal novella comecchè non consolante, apportò nondimeno grande sollievo alle angustie di Telemaco.

Lascia quì il poeta questo giovanetto principe a Sparta, e per far passare i leggitori da un luogo all’altro, espone quel che accadeva nel Cielo.

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Conoscendo Giove, che si accostava il giorno fissato dal Destino, in cui Ulisse doveva uscire dall’isola di Calipso, spicca Mercurio a questa ninfa coll’intimazione di lasciarlo partire. Convenne ubbidire, il figliuolo di Laerte si aveva già costruito un battello : lo ascende, e si dà tosto in balìa del mare. Per il corso di dieciassette giorni la sua navigazione fu felice con avere approdato all’isola de’ Feaci : ma Nettuno sempre a lui contrario suscita una burrasca cotanto furiosa, che il naviglio di Ulisse ne resta fracassato, ed egli stesso resta seppellito negli abissi dell’oceano. Non si perde l’Eroe di coraggio : in preda del pericolo comparisce sulla superficie del mare, ed abbracciandosi ad un piccolo avanzo del suo naviglio, stretto a quello si tiene, errando a discrezione dell’onda furiosa.

Ino di fresco ammessa fralle divinità del mare viene a soccorrerlo : lo consiglia di andare a nuoto nell’isola de’ Feaci, dove ritroverà la sua salvezza : gli dà un velo, che lo garantisce da ogui periglio, con ordine di gittarlo nel mare allorchè avrà afferrato il lido. Ulisse ubbidisce, e dopo dieci giorni, ed altrettante notti di fatica, e di timori arriva all’imboccatura di un fiume, e prende terra alla fine. Fuor di pericolo, ma nudo si veste di secche foglie di alberi, e si mette placidamente a dormire. Minerva intanto sempre intenta a proteggerlo corre a {p. 175}volo alla reggia di Alcinoo, re de’ Feaci : apparisce in sogno a Nausicae sua figlia, e la consiglia a lavare le più belle sue vesti, con dirle di più, che le sue nozze erano vicine a celebrarsi. Appena svegliatasi la principessa, espone quanto ha sognato ai genitori, e caricato un carro de’ suoi pannilini, si affretta colle sue compagne di andare al fiume per lavarli. Ciò fatto, e dopo breve campestre ristoro, si fermano alquanto chi per bagnarsi, chi per giocare alla palla. Desta allora Minerva il figliuolo di Laerte, che prima di farsi innanzi a Nausicae si avvolge in un vestito formato di foglie, e di piccoli ramicelli. Ma asperso ancora di polvere spaventa le giovani donzelle, che fuggono da pertutto. La sola figliuola di Alcinoo non si sgomenta, che anzi lo aspetta. Ulisse la prega d’indicargli la strada che conduce alla città, e dargli qualche panno per vestirsi. Nausicae dopo aver chiamate, ed assicurate le sue compagne, gli dà degli abiti, della biancheria, ed un’ampollina d’oro piena di odori per potersi profumare. L’eroe essendosi lavato nel fiume, e vestito degli abiti che aveva ricevuto, si presenta alla sua benefattrice con nobile contegno, e con aria maestosa, onde guadagnò il cuore di tutti. Aveva gran bisogno di ristorar la sua fame : gli si apprestano de’ cibi, indi vien condotto alla città. Lasciata Nausicae alle porte, si presenta ad Aleinoo in qualità di uno straniero, rifiuto {p. 176}delle onde furiose. Il buon re lo accoglie con quella bontà che forma il carattere di quei temdi remoti. Ulisse in contracambio del gentile accoglimento espone la cagione, ond’era stato spinto dalla tempesta negli stati di Alcinoo : soggiunge, che un fulmine di Giove avendo sfasciato il suo naviglio, egli si salvò su di una panca nell’isola di Ogigia ; isola dove regnava Calipso, Dea pericolosissima per le sue attrattive. Ella dopo averlo bene accolto, lo ha trattenuto per otto anni in quest’isola, impegnandolo a divenire suo sposo. Finalmente il destino ha permesso che scappasse da questa terra fatale, e battuto da nuova burrasca è stato gittato sul lido de’ Feaci, dove ha trovato la più sincera ospitalità. Dopo tale racconto, si ritira Ulisse a goder le dolcezze del riposo.

Il dì seguente il buon re Alcinoo raduna l’assemblea de’ grandi del Regno : loro presenta il suo ospite : espone la di lui trista situazione, e li dispose a fargli de’ doni proporzionati alle loro ricchezze. Tal dimanda è bene accolta. All’istante si danno le disposizioni per allestire un vascello, che debba condurlo alla patria : un’ecatombe1 si offre in sacrifizio agli Dei, alla qual tien dietro un solenne banchetto. Diversi giuochi {p. 177}successero alla mensa : Ulisse dà pruova non dubbie della sua destrezza nel maneggiare il disco, e ne riporta la vittoria. Il cantore Demodoco fa sentir la melodia della sua voce, cantando varie avventure, durante l’assedio di Troja. Alla rimembranza de’ fatti colà accaduti non potè Ulisse frenare le lagrime. Alcinoo che se ne avvide gliene dimanda la cagione, ed Ulisse narra quanto gli era accaduto Ecco la sua narrativa.

Dopo la presa di Troja, egli con i suoi compagni si pose alla vela, e sbattuto da una tempesta approdò alle Coste de’ Ciconi dove fece un gran bottino. Se ne vendicarono ben tosto questi popoli, uccidendo sei uomini per ogni vascello. Scappato dalle loro mani dopo una pugna sanguinosa, uscì di strada per la seconda fiata con averlo il vento sbalzato ai liti de’ Lotofagi nell’Africa. Ivi fu maggiore il pericolo : gli abitanti offrirono a suoi compagni il loto2, frutto che aveva la proprietà di far dimenticare la patria a chi lo mangiava. Ulisse usò l’accortezza di far legare sulle panche de’ navigli chiunque aveva avuta la disgrazia di gustarlo. Lo stesso vento {p. 178}portò la di lui flotta all’isola de’ Ciclopi, fermandosi in una picciola isoletta della Sicilia che stava a fronte del porto. Avendo posto piede a terra con i suoi compagni entrò in una vasta caverna dove abitava Polifemo figliuolo di Nettuno, gigante di enorme grandezza, che avea un occhio solo nel mezzo della fronte. Questo mostro che riconduceva i suoi armenti, accortosi che vi era gente nella caverna, ne chiuse l’ingresso con un sasso, che la forza di venti uomini non avrebbe potuto smuovere. Al primo incontro divorò due marinari : e ’l dì vegnente altri due gli servirono di colezione. Ulisse che per tutte le vie trovava mezzi per salvarsi, tenne a bada il Ciclope con i suoi racconti, e lo ubbriacò con vino generoso, che aveva portato, e ch’ ebbe la forza d’immergerlo in un sonno profondo. Profittando allora del momento, Ulisse preso un forte bastone, che aveva aguzzato, lo ficcò nell’occhio di Polifemo, che al sentirsi ferito cominciò ad urlare altamente. Accorsero i vicini Ciclopi, e gli dimandarono la cagione delle strida : Uti, cioè Nessuno mi ha ferito, ripigliò Polifemo1 : (aveva Ulisse avuta l’accortezza di dirgli che questo era il suo nome). Credettero i Ciclopi, che avesse perduta la ragione, e lo lasciarono {p. 179}così. Trattavasi di uscire dalla grotta : anche a questo pensò l’astuto Ulisse. Impose a suoi compagni, che nell’uscire gli armenti, si fossero tenuti fermi sotto i montoni, per non essere schiacciati dal gigante. Nello staccare la pietra si situò Polifemo in maniera, che i montoni potessero ad uno ad uno passare fra le gambe. Allorchè si avvide che eran fuori Ulisse con i compagni, volle inseguirli, e gittò a caso un macigno di straordinaria mole, di cui fu facile evitare l’incontro. Indi corsero al lido, e s’imbarcarono colla perdita di soli quattro socj dal gigante ingojati.

La flotta spiegò le vele verso l’isola Eolia, dove regnava Eolo re de’ venti : Volendo questi favorire la navigazione di Ulisse, dopo avergli fatto una gentile accoglienza, ordinò, che tutt’i venti si fossero rinchiusi in un otre, con lasciare in libertà il solo Zefiro. Erano già a vista d’Itaca : si vedevano oramai torreggiare i palagi di quest’isola, quando i socj di Ulisse, credendo che in quell’otre si conservasse qualche sorta di vino prezioso, lo aprirono. All’istante scapparono fuori tutt’i venti che posero in iscompiglio le onde, e suscitarono una fiera tempesta.

La nave sbalzata quà, e là a discrezione dell’onde, si diresse alla fin fine verso il paese dei Lestrigoni, popoli che si dilettavano di mangiar la carne umana, ed in fatti furono divorati due {p. 180}compagni del figliuolo di Laerte. Di là la flotta approdò all’isola di Circe, famosa maga figlia del Sole, i di cui incantesimi sorpassavano le forze della natura istessa. Gli esploratori osservarono nell’atrio della sua reggia degli uomini da Circe cangiati in leoni, in orsi, in lupi. La maga, dopo aver fatto gentile accoglimento agl’inviati, loro offrì una bevanda, che li trasformò al momento in porci. Avvisato l’Eroe di questo nuovo disastro, strada facendo ricevè da Mercurio un’ erba, che lo garantiva dalle più funeste malìe. Ulisse al coverto di ogni pericolo snudò la spada minacciando Circe di ucciderla, se tentasse a sorte d’ingannarlo. Intimorita la Dea cadde a suoi ginocchi : giurò di far quanto avrebbe dimandato, e restituì allo stato di prima i suoi compagni. Ulisse si trovò così contento del trattamento, e dell’amor della Dea, che si trattenne volentieri per un anno nell’isola. Di là partito si recò al paese de’ Cimmerj1, per ivi invocare le ombre de’ morti, e consultare l’anima di Tiresia Tebano. Istruito dalla maga seppe evitare {p. 181}evitare gl’inganni delle Sirene, ed i rischi nel passaggio fra Scilla, e Cariddi.

Circe lo aveva altresì avvertito a non toccare i bovi, che faceva pascere la bella Lampezia in un’isola consacrata al Sole presso le coste della Sicilia. I suoi compagni nella sua assenza sagrilegamente ne rubarono alcuni. Lo sdegno degli Dei si manifestò all’istante : le carni de’ bovi scannati muggivano sopra le braci, e le pelli da per se si stendevano. Un tale prodigio li spaventò in modo, che sen fuggirono alle navi : ma la collera degli Dei colà li raggiunse. Un fiero temporale pose le onde in sconquasso, e tutta la flotta fu subissata : Ulisse soltanto si salvò con essersi abbracciato ad un albero della nave. Le onde lo portarono all’isola di Ogigia, come si è detto, dove regnava, la vaga Calipso, sovrana dell’isola.

Questo fu il contenuto della narrativa di Ulisse, che Alcinoo, ed i Feaci ascoltarono con ammirazione. Essi riconobbero in lui un Eroe favorito dal Cielo. Ognuno fece a gara per offrirgli un dono corrispondente al suo rango, come pure fu allestito un naviglio ben equipaggiato per condurlo alla patria.

La navigazione fu felice : il dì seguente furono a vista d’Itaca. Allorchè il vascello vi abbordò Ulisse placidamente dormiva : i marinari non, vollero per rispetto destarlo, e lasciatolo sopra {p. 182}di un letto di verdura, ripresero il camino verso l’isola de’ Feaci. Svegliatosi Ulisse, non riconobbe affatto il proprio suo regno : ma Minerva sotto l’abito di un pastore l’avvertì del luogo ov’egli si trovava. Mai sempre prudente riunì i tesori, e li pose in serbo entro una caverna. Indi la Dea toccandolo con una bacchetta, cangiò gli abiti di Ulisse in tanti cenci, ed immantinente involandosi recossi a Sparta, dove stava Telemaco. Sotto la figura di pitoccante, e fingendosi un vecchio Cretese, il figliuolo di Laerte portossi alla casa di Eumeo suo amico, dove bene accolto si tenne sconosciuto fino al ritorno di Telemaco, a cui Minerva aveva ispirato il desiderio di lasciare Sparta1. Poichè Ulisse e Telemaco furono riuniti, pensarono a mezzi onde disfarsi de’ persecutori di Penelope. Entrano separatamente in città. Ulisse da pitoccante entra nella sua reggia per dimandare la limosina ai principi radunati a solenne banchetto. Fattosi introdurre nell’appartamento della saggia Penelope, le narra una falsa istoria delle sue avventure, con aggiungere di aver egli in Creta accolto {p. 183}Ulisse in sua casa, e che a momenti avrebbe riveduto. Le dà parimente de’ consigli, onde ben regolarsi con i suoi persecutori.

Nel dì vegnente questa principessa promette di dar la sua mano a chi meglio sapesse maneggiare l’arco di Ulisse. Tutt’i pretendenti sono radunati, non escluso lo stesso Telemaco, ma inutilmente si affaticano per tendere quest’areo maraviglioso. Ulisse parimente si fa innanzi : i principi danno del ridicolo alla di lui pretenzione, e non gli permettono d’impugnar l’arco, se non a forza degli ordini di Penelope. L’Eroe prende l’arco, lo carica di una freccia, e la fa passare per dodici anelli attaccati ad altrettante colonne. Questo era il segnale convenuto con Telemaco, che avvicinatosi a lui snuda la sua spada, e piomba sopra ai persecutori di Penelope. In un istante le strade sono inondate dal sangue di questi perfidi, e da quello dei loro aderenti.

I sudditi che attendevano con impazienza il ritorno del re, fanno risuonare la reggia delle loro grida : va l’avviso a Penelope, che Ulisse è in Itaca : egli viene riconosciuto, e corre da suo padre Laerte, che piangeva la perdita di un figlio, che credeva di non mai più rivedere. Restituito Ulisse a suoi stati, vi stabilì la pace, e fece fiorire le arti, e la tranquillità nel suo regno.

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Analisi dell’Eneide.

Virgilio ad imitazione di Omero ha cantato i viaggi, e le imprese guerriere di Enea, figliuolo di Venere, e di Anchise. Questo poeta Latino nell’Eneide ha imitato le bellezze dell’Iliade, e dell’Odissea : il suo protagonista va errante come Ulisse, ed all’occasione è coraggioso, quanto Achille. L’oggetto che si ha prefisso Virgilio, è quello di dare una origine illustre ai Romani, facendoli discendere da un principe Trojano. L’eroe da lui scelto non occupa un posto luminoso nell’Iliade : ma fa grande comparsa nell’Eneide, dove Virgilio ce lo dipinge in qualità di un uomo pietoso, saggio, e valoroso. Seguiamolo pertanto.

Era memore ancora Giunone del giudizio di Paride, e voleva perseguitare gli avanzi di Troja scappati dal ferro de’ Greci. Col veleno nel cuore discese nell’Eolia, e scongiurò il re de’ venti perchè avesse posto il mare in iscompiglio, ed avesse ingojato i vascelli del figliuolo di Venere. Eolo ubbidisce, ed all’istante una terribile burrasca si alza dal profondo degli abissi del mare : una porzione della flotta si separa, e sarebbe sicuramente perita, se Nettuno sorpreso da tanto tumulto che regnava nel suo impero, non fusse uscito dall’umida sua reggia, ordinando ai venti di rientrare nelle proprie caverne. Enea che {p. 185}vedeva appena sette de’ suoi vascelli credendo non senza fondamento che i rimanenti fossero divenuti preda dell’infuriato elemento, entra in una picciola baja di Libia. Ivi frattanto i suoi compagni pensano a ristorare la flotta ; egli si avanza lungo la costa, per vedere se scopriva il resto de’ legni.

In questo mentre Venere si dà moto per suo figlio : si presenta a Giove, e gli rammenta le promesse fatte in di lui favore. Questo Dio le rinnova, ed assicura Venere, che il suo figliuolo arriverà felicemente in Italia, ove la sua discendenza regnerebbe per lungo tempo. Spedisce intanto Mercurio a Didone regina di Cartagine per indurla a bene accogliere il principe Trojano. Venere intanto discesa dall’Olimpo avvisa Enea, che i suoi vascelli sono salvi, menochè un solo, in un porto vicino, indi dopo averlo coverto per mezzo di una nuvola per involarlo alla vista di tutti, gli ordina di recarsi a Cartagine. Seguito dal suo fedele Acate s’incamina l’Eroe verso Cartagine, e coverto da un velo che lo rende invisibile, si approssima alla bella Didone detta anche Elisa1. Dopo un istante vede i suoi {p. 186}compagni, che credeva annegati, avanzarsi, e dimandare l’ospitalità a Didone, che gentilmente li ricevette, e diede gli ordini che si andasse in cerca del principe Trojano. Venere allora fa sgombrare la nuvola, e vedesi Enea in atto di offrire i suoi omaggi alla regina. Didone incantata dall’aria nobile di questo Eroe, e sensibile alle di lui disgrazie, gli contesta la gioja che sente pel suo arrivo, dando le disposizioni per una grandiosa festa. Sul finir del banchetto è richiesto Enea di fare il racconto dell’assedio di Troja, e dei malanni da lui sofferti dopo un’epoca così funesta.

« Stanchi i Principi della Grecia, Enea imprese a dire, di anni dieci di assedio, che li teneva lontani dalla patria, escogitarono uno stratagemma per sorprendere Troja. Costruirono un cavallo di legno di straordinaria grandezza, e rinchiusero nel di lui fianco i più accreditati guerrieri. Indi fingendo di sciogliere l’assedio si nascosero dietro l’isola di Tenedo.

Credendo allora i Trojani di essere sicuri corrono a vedere questo smisurato cavallo, che i Greci lasciarono nel sito dove stavano {p. 187}accampati. Varj sono i sentimenti sopra questa macchina immensa : alcuni pretendono che si butti nel mare : altri che ci si attacchi il fuoco : taluni la vogliono introdurre nella città. Laocoonte sacerdote di Nettuno è di avviso che si abbatta questo mostruoso cavallo, ed egli stesso lancia un dardo nel fianco di quello. Arrestano intanto i Trojani un giovine Greco per nome Sinone, che andava errando. Quest’impostore inganna i Trojani con un falso racconto, dicendo, esser egli l’odio de’ Greci : soggiunge, che il cavallo di legno è un’offerta fatta a Minerva prima di partire per placarla : di più li consiglia ad introdurre questo colosso nella città, che conservando un tal pegno, sarebbe sotto la protezione della Dea, e diventerebbe inespugnabile. Mentre ondeggiavano i Trojani, un avvenimento terribile interamente li determinò.

Laocoonte che aveva scagliata la sua asta contro del cavallo, stando in atto di fare un sagrifizio a Nettuno, fu assalito da due grossi serpenti, che uscirono dal mare. Questi rettili prodigiosi si attorcigliarono al corpo de’ due figli di Laocoonte, e si avviticchiarono sopra di lui medesimo, ch’era venuto per soccorrerli. Ciò credettero i Trojani un segno manifesto della collera degli Dei, che gradivano le offerte de’ Greci. Quindi ognun crede al perfido Sinone : si abbatte un’ ala delle mura, e s’introduce a forza di uomini il cavallo {p. 188}fatale nella città : indi ciascuno si ritira, e pieni di sicurezza si danno in preda ai piaceri della mensa.

Intanto al far della notte i Greci s’incaminano colla flotta verso Troja : sbarcano le truppe, penetrano nella città per la breccia dianzi aperta. Lo scellerato Sinone avendo aperto il fianco del cavallo, ne fa uscire gli armati ivi nascosti ; in un istante l’infelice città è piena di soldati, che portano da per tutto il ferro, il fuoco, e la desolazione.

Durante un tale disordine una gran parte degli abitanti tranquillamente dormiva : dormiva parimente Enea. Ettore gli apparisce in sogno, lo avverte dell’arrivo de’ Greci, e di essere oramai giunto l’esterminio di Troja. Enea vuol morire colle armi alla mano, ed alla testa di pochi suoi amici attacca quanti Greci incontra. Ma i suoi essendosi serviti delle armi stesse tolte ai nemici nella mischia, restano nel tempo istesso inviluppati fra i Greci, e fra i concittadini, che non li riconoscono. Corre pertanto Enea in soccorso di Priamo, assediato nel suo palazzo da Pirro, che ivi l’uccide con quanti a lui si presentano.

Non avendo potuto Enea salvare la vita del vecchio re, si affretta per la difesa della sua sposa Creusa, del figlio suo, e di Anchise suo padre. Presi gli Dei Penati, che diede in mano di {p. 189}Anchise, si accolla questo vecchio rispettabile sulle sue spalle, traversa l’incendiata città col disegno di ritirarsi sul monte Ida. Fuori le porte inseguito dai Greci perde Creuso. Col favore delle fiamme ritorna colla speranza di rinvenirla, ma gli apparve l’ombra soltanto della sposa morta nell’incendio, che lo consiglia a fuggire, con predirgli ch’egli anderebbe lungo tempo ramingo, ma sarebbe finalmente felice in Italia : così disse, e sparì.

Ritornato al luogo dove aveva lasciato Anchise, ed Ascanio suo figlio con tutti quelli che avevano abbracciata la stessa sua sorte, Enea forma il progetto di andare in cerca di quella terra che il Destino gli prometteva. Fa costruire all’infretta una flotta con alberi tagliati sul monte Ida, e si scosta dai patrj lidi con venti legni. Dopo di essersi fermato nella Tracia, in Delo, in Creta, nelle Strofadi, a Leucade, aborda finalmente a Trapani nella Sicilia, dove regnava Alceste Principe Trojano : ivi morì il vecchio suo padre Anchise. Trapani fu il termine de’ suoi viaggi, allorchè volendo di là far vela per l’Italia, un Dio tutelare l’aveva condotto nell’impero di Didone. »

Avendo Enea dato fine al suo racconto, si ritira negli appartamenti che gli aveva assegnati la regina. Rapita intanto Didone dalla virtù di Enea, confessa la sua inclinazione ad Anna sua {p. 190}germana, che la consiglia a farlo suo sposo. Giunone per impedire il corso dei destini a favore di Enea propose a Venere queste nozze, che finse di acconsentirvi. Profittano le due Dive del momento di una tempesta suscitatasi mentre tutta la Corte della regina era impegnata in una caccia : Enea con Didone si rifugiano in una caverna, con uscirne divenuti già sposi.

Ma Giove, che aveva riserbato quest’Eroe a più sublimi imprese, gli spedisce Mercurio che lo persuade ad abbandonare Cartagine. Docile Enea agli ordini del Sovrano degli Dei, si dispone alla partenza, e fa preparare segretamente la flotta. Penetra Didone il di lui disegno : lo rimprovera, e si duole di sì barbaro tradimento. Cerca Enea di scusarsi, ma nel tempo stesso dispone il tutto per la partenza, e col favore della notte scioglie le vele da un lido, dove era stato accolto con tanta cortesia.

Accortasi del tradimento Didone monta il piano di una loggia a vista delle fuggenti vele : carica l’ingrato Enea di maledizioni, che dopo molti socoli si verificarono fra i Cartaginesi, ed i Romani, e non potendo resistere al dolore risolve di darsi la morte. Fingendo di volere fare un sagrificio agli Dei dell’inferno, innalza un rogo : lo ascende, e si ammazza con quella spada medesima che aveva donata ad Enea, e che colà aveva questi lasciata. Accorre Anna {p. 191}mente colle donne per impedirla : muore l’infelice Didone, trafitta dalla disperazione, e dal dolore.

Enea intanto sopraffatto da una burrasca fu costretto a fermarsi in Trapani, ove da un anno era morto il vecchio suo padre Anchise, in onore del quale fece celebrare de’ giuochi dopo avere adempiuto alle funebri cerimonie. Stanche le donne Trojane dalla navigazione, e temendo d’incontrare nuovi pericoli, ad insinuazione d’Iride inviata da Giunone sotto l’aspetto di una vecchia, appiccarono il fuoco alle navi. La flotta sarebbe divenuta preda delle fiamme, se Giove non avesse fatta a tempo cadere una pioggia abbondante : quattro soli vascelli non pertanto furono bruciati.

Nella seguente notte apparve in sogno ad Enea l’ombra di Anchise, che lo consigliò a lasciare in Trapani i vecchi, e le donne, ed a condur seco soltanto gli uomini d’armi. Gl’insinuò parimente di portarsi a Cuma per consultar la Sibilla, che lo avrebbe condotto all’inferno. Eseguì a puntino Enea gli ordini di Anchise. Arrivato a Cuma, recossi all’antro della Sibilla Deifobe, che gli predisse quanto doveva accadergli nell’Italia prima di fondare una città. Indi gli ordinò di penetrare in una oscura foresta, dove avrebbe ritrovata una pianta, che aveva un ramicello, senza del quale non avrebbe potuto {p. 192}penetrare nell’inferno, per offrirlo in dono a Proserpina. Riuscì ad Enea di trovar questa pianta. Finalmente colla scorta della Sibilla, passando per lo Lago di Averno, discende al soggiorno de’ morti : ivi ritrova molti de’ suoi amici, e gli addita Anchise sulle rive di Lete le ombre di quelli Eroi, che dovevano un giorno formare la gloria dell’impero di Roma.

Ritornato sulla terra il figliuolo di Venere, levò l’ancora, dirigendo la sua flotta verso l’imboccatura del Tevere. Il Re Latino regnava in questa contrada. Una sua figliuola unica, che l’Oracolo destinava in isposa a questo principe straniero, era l’erede de’ suoi stati ; Amata sua madre, ad onta dell’Oracolo, l’aveva promessa a Turno Re de’ Rutuli. In tale occasione spedì Enea i suoi ambasciadori al Re Latino, per fare alleanza col medesimo. Questo re non solamente gentilmente accolse i deputati ; ma loro promise dippiù, cioè che Enea sarebbe divenuto suo genero. Piccata Giunone de’ fortunati successi di questo principe, si affrettò ad interromperne il corso, facendo uscire dall’inferno Aletto : inviò questa furia alla reggia d’Amata, ispirandole il progetto di nascondere sua figlia Lavinia in seno delle vicine montagne : di là la Furia passò alla corte di Turno, lo stimola a prendere le armi col nerbo de’ suoi soldati. I principi vicini prendono parimente lo armi contro Enea, il quale {p. 193}non ha in suo favore, che il solo Evandro, che abitava sul monte Palatino. Questo principe gli spedisce Pallante con quattrocento cavalli.

La guerra cominciò, e fu ben lunga. Giove affidò tutto l’affare in mano del destino, e i due partiti stanchi dai disagi della guerra, proposero una pugna a corpo a corpo fra i due principali rivali. La disfida fu accettata con solenne giuramento. Enea, e Turno si avanzano in mezzo dell’armata schierata in ordine di battaglia, e con pari accanimento si azzuffano. Restò Turno perditore, e terminò così una guerra, che mettea sossopra l’Italia intera1.

{p. 194}

Giunta di varie altre favole.

Comecchè le seguenti favole non abbiano un interesse immediato colla religione, nè tampoco contengano avvenimenti che possano illustrare la storia de’ tempi eroici, come la guerra di Tebe, l’incendio di Troja, ecc., è necessario nondimeno di formarne un’ idea per aver piena cognizione della mitologìa. Queste favole inventate {p. 195}in diversi tempi sono fatti isolati semplicemente, e se talvolta hanno un qualche rapporto colla religione del Gentilesimo, non ne formano parte : in generale il principio è in riguardo alla morale. Noi qui esporremo le più conosciute.

Bauci, e Filemone.

Giove, e Mercurio erano discesi dal Cielo per viaggiare sulla terra. Essi arrivarono sconosciuti nelle campagne della Frigia, chiedendo ospitalità agli uomini, che dapertutto loro la negarono. Bauci, e Filemone abitavano in una meschina capanna coperta di giunchi, dove appena si trovava una tavola di legno, che ne formava tutto l’addobbo. Furono questi intanto i soli, che accolsero il sovrano degli Dei, e Mercurio, con preparar loro una mensa assai frugale, non permettendo Giove che ammazzassero un’ oca, ch’ era tutta la loro ricchezza. Gl’immortali viandanti nel di vegnente per punire gli abitanti del paese, e per mostrare il loro potere a chi gli aveva alloggiati, li conducono alla cima di una montagna con far loro vedere tutto il villaggio sommerso, e gli abitatori in preda dell’acqua, all’infuori della capanna, che gli aveva accolti, che fu cangiata in un tempio magnifico. Bauci, e Filemone pieni di riconoscenza dimandarono in grazia di essere i sacerdoti di questo tempio, e di morire in un {p. 196}giorno istesso per non soffrire il dispiacere di dover uno di essi piangere la morte dell’altro. Questa grazia loro fu concessa : un giorno mentre narravano i prodigj operati a loro favore, furon cangiati, Filemone in una quercia, e Bauci in tiglia.

Piramo, e Tisbe.

Piramo, e Tisbe erano due amanti : ma i rispettivi parenti, che appartenevano a due principali famiglie di Tebe, per antica nimicizia non erano di accordo. Quindi non potendosi i due amanti accoppiare con i nodi d’imeneo, pensarono di fuggire dalla patria, e stabilirsi in un paese lontano. Fermi nel loro proposito si diedero un appuntamento in un sito, dove stava un moro biance. Tisbe partì la prima : mentre aspettava la sua cara metà, si avvide, che un lione se le avvicinava : quindi fuggì, ma nella fuga le cadde un velo, che preso dal lione, dopo averlo lacerato, lo intrise di sangue della sua gola. Sopraggiunto Piramo, vide questo velo, e credendo che Tisbe fosse stata la vittima di qualche belva, con un pugnale si diede la morte. Non tardò a colà far ritorno la sfortunata Tisbe, che ritrovò sotto la pianta del moro l’infelice Piramo, che spirava l’ultimo fiato. Sospettando la vera cagione del funesto avvenimento, egualmente {p. 197}Tisbe raccolto il pugnale, si uccise per il dolore. Il loro sangue zampillando sulla pianta del moro, le sue frutta da bianche divennero di color rosso.

Polifemo, e Galatea.

Il ruvido Ciclope Polifemo amava alla follìa la bella Galatea, una delle tante figliuole di Nereo. Assiso sulla riva del mare, ad alta voce la chiamava, pregandola di venir fuori dalle onde. Ma il povero Ciclope non era corrisposto : la sua figura gigantesca, un solo occhio sulla fronte spaventavano anzi che no questa ninfa. Inutilmente si ornava il crine, e si radeva la barba. Galatea era sorda, malgrado che non fosse insensibile. Ella amava Aci figliuolo di Fauno. Sorprese un giorno Polifemo la bella coppia a piedi di una roccia. Galatea ebbe tempo di tuffarsi nell’onde : ma Aci ebbe la sventura di essere schiacciato da un gran sasso, che il Ciclope gli scagliò. Inconsolabile la ninfa, pregò gli Dei, ed il sangue di Aci diede la nascita ad un fiume che fu chiamato Aci dal nome del pastorello.

Driope.

Driope ninfa di Arcadia, e sposa di Andremone strappò alcuni rami di una pianta detta Loto, per darne a mangiare le frutta a suo figlio. {p. 198}Alcune gocce di sangue caddero da questa pianta che prima era stata donna, ed inseguita da Pane aveva perduta l’antica bellezza, e figura : il suo nome era Loto. Driope nel vedere stillare il sangue si arrestò, e sentì germogliarsi sotto i piedi le radici, diventando ancor essa una pianta di simile natura.

Pigmalione.

Pigmalione fu uno scultore abilissimo. Formò una statua bellissima, e pregò Venere che l’avesse animata. I suoi voti furono esauditi : il marmo si ammollì, e diventò carne. Pigmalione la sposò, e da questa coppia nacque Pafo, che fabbricò la città di Pafo nell’isola di Cipro.

Ifide.

Era tanta la miseria di un abitante di Festo in Creta chiamato Ligda, che fece sentire a sua moglie Teletusa, allora incinta, che se desse alla luce una femmina, avrebbe data la morte alla bambina, se per l’opposto un maschio, lo avrebbe allevato, perchè a suo tempo avrebbe potuto sollevare i genitori dall’indigenza. Teletusa non potendo resistere a tanta crudeltà, si raccomandò alla Dea Iside, che le ispirò il progetto di allevare la bambina sotto spoglie maschili. Così fece la povera madre, ma stava per iscoprirsi il segreto {p. 199}all’istante di doversi maritare Ifide (tale era il nome della fanciulla) Iside non l’abbandonò : in sì pressante congiuntura cangiò in maschio la ragazza, e le nozze furono conchiuse.

Ero, e Leandro.

Ero, e Leandro perdutamente si amavano, benchè separati fra loro dall’Ellesponto. Leandro abitava in Sesto, ed Ero in Abido sull’opposta riva. Questo non impediva che gli amanti non fossero sovente insieme. Leandro ogni notte traversava a nuoto lo stretto alla vista di un fanale, ch’ Ero accendeva su di una torre. Leandro aveva acquistato la superiorità sul mare ; ma una notte sorta all’improvviso una fiera tempesta, divenne preda dell’infido elemento. Avendo il mattino osservato Ero il cadavere di Leandro dal mare gittato sul lido, vinta dal dolore non gli volle sopravvivere, gittandosi ancor essa nel mare.

Aconzio, e Cidippe.

Era Cidippe una delle più belle di Delo. Aconzio la vide nel tempio di Diana, e la chiedette per isposa ai suoi parenti : ma si oppose Cidippe a queste nozze. Aconzio ricorse ad uno stratagemma. Gittò nel tempio una palla, dove era scritto : io giuro per Diana di essere la sposa {p. 200}di Aconzio. Cidippe prese quella palla, e lesse il giuramento. Allorchè questa giovane era sul punto di maritarsi, era sorpresa da una febbre violenta, finchè i suoi parenti si determinarono di darla a Aconzio.

Anassarte.

Amava Ifi inutilmente Anassarte, figliuolo di un ricco abitante di Cipro. Legò una notte Ifi alla porta di Anassarte una corda, e con quella per disperazione si strangolò. Il dimani niente curando Anassarte il tragico fine dell’amante, volle vederne l’esequie dalla sua finestra. Ma gli Dei punirono tanta insensibilità, la cangiarono in pietra, simbolo della durezza del suo cuore.

Coreso, e Calltroe.

Calliroe donzella di Calidonia non volle giammai corrispondere all’inclinazione, che aveva per lei Coreso sacerdote di Bacco, che vendicò il suo ministro con far sorgere una malattia in Calidonia, la quale prima alterava la fantasia, indi rendeva furiosi tutti gli abitanti. Fu consultato l’oracolo : la risposta fu, che il malore cesserebbe, quando si fosse sacrificata a Bacco una vittima umana, ed in mancanza di questa la stessa Calliroc. Nessuno ebbe la voglia di morire, onde {p. 201}Calliroe fu condotta all’ara. Coreso generoso all’eccesso, nel punto di sagrificarla, rivolse contro se stesso il coltello, e si diede la morte di propria mano. Conobbe allora Calliroe la fedeltà di quel cuore, e mossa da compassione volle immolarsi per placare in tal guisa l’ombra di Coreso.

Cleobide, e Bitone.

Questi due giovani, figliuoli di una sacerdotessa di Argo, sono l’esempio dell’amor filiale. Essi trascinarono il carro dov’era la loro madre, che si recava al tempio. Gli Dei per compensarli, ed esaudire nel tempo istesso la madre, che li supplicava a renderli felici, li fecero all’istante morire insieme, non potendo gli Dei renderli abbastanza contenti sulla terra.

Ceneo.

In compenso di essere stata amata Ceneo da Nettuno, ottenne in grazia di essere cangiata in uomo, e colla proprietà di essere invulnerabile. Perì questa ninfa nella guerra de’ Centauri, e de’ Lapiti, i quali non potendola ferire strapparono degli alberi, e la fecero morire soffogata. Da tanti legni ammonticchiati ne nacque un uccello.

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Ceice, e Alcione.

Ceice re di Trachinia nella Tessaglia morì naufragato, mentre andava a consultare l’oracolo di Apollo a Claro. Alcione sua moglie, che teneramente lo amava, stavalo attendendo con impazienza, ma Giunone in sogno le fece intendere la disgrazia di suo marito. Spaventata la misera Alcione del sinistro presagio, corse forsennata al lido, e restò convinta della verità, vedendo il cadavere dello sposo gittato dal mare sulla riva. Al momento che si accostava, si avvide di avere sul dorso le ali, che la sostenevano all’aria, essendo stata cangiata in uccello. Ceice ancor esso fu trasformato in uccello, ed entrambi ebbero il nome di Alcioni. Dicono i poeti che questi uccelli fanno il loro nido nel mare, che sta in calma, durante il tempo che lo formano, e ne nascono i figli.

L’Aurora.

L’Aurora non contenta di aver amato Titono figliuolo di Laomedonte, volle altresì trasportarlo nel cielo, con dirgli che avesse dimandato quanto sapeva desiderare. Titono chiedette una vita lunghissima, ma non avendo avuta l’accortezza di domandar benanche una perpetua gioventù {p. 203}unita alla vecchiaja, divenne tanto debole, e scarno, che l’Aurora istessa per compassione lo cangiò in cicala.

Deifobe.

Deifobe figliuola di Glauco, e Sibilla di Cuma ebbe presso a poco la medesima sorte di Titono. Ella fu amata da Apollo, al quale dimandò di poter vivere tanti anni, per quanti granellini di arena poteva stringere in mano sua. Il Nume la esaudì. Divenne tanto vecchia, che appena le restò la voce.

Cefalo, e Procri.

L’Aurora avendo concepito una forte inclinazione per Cefalo figliuolo di Mercurio, e di Ersete lo trasportò nel suo carro mentre era alla caccia, facendo di tutto per fargli dimenticare Procri sua sposa. Ma fu vano qualunque tentativo : quindi dovette rimandarlo con dirgli, che un giorno si pentirebbe di tanta poca sua sensibilità. Tal minaccia fece diventar Cefalo geloso, e sospettoso. Travestito volle mettere a pruova la fedeltà di sua moglie, che per vergogna sen fuggì fra le selve. Cefalo che non poteva vivere lontano da Procri, la richiamò con premura. Al suo ritorno ella diede in dono a suo marito un cane {p. 204}velocissimo, ed un giavellotto che si scagliava a colpo sicuro, e ritornava dopo fralle mani di chi lo aveva lanciato. Per parte sua Procri divenne egualmente gelosa, spiando senz’esser veduta tutti gli andamenti dello sposo. Un giorno mentre Cefalo si riposava stanco dalle fatiche della caccia, si avvide di un certo calpestio in un vicino cespuglio : credendo che fosse una qualche bestia feroce, scagliò il suo giavellotto. Un grido che si alzò lo fece avvedere dell’errore, avendo uccisa la propria sposa. Trafitto Cefalo dal dolore, si trafisse con quel medesimo giavellotto. Giove trasportò nel cielo questi sposi, che cangiò in due stelle.

Filomela, e Tereo.

Tereo figliuolo di Marte sposò Progne figlia di Pandione re di Atene, e la condusse nella Tracia, ov’egli regnava. Aveva Progne lasciata nella casa paterna una sorella per nome Filomela, che amava colla massima tenerezza. Dopo cinque anni di lontananza volle Progne rivederla. S’incaricò Tereo di fare il viaggio di Atene per contentare la sua sposa, ma nel condurla, per istrada concepì una violenta passione per Filomela. Quindi strada facendo, dopo averla oltraggiata, aggiungendo al primo un secondo delitto, le strappò barbaramente la lingua per impedirle di poter {p. 205}palesare la sua disgrazia. Continua lo scellerato il suo cammino, e reca a Progne l’annunzio che Filomela più non esiste. Quest’ultima era rinchiusa in una torre gelosamente custodita. Trovò però la maniera d’informare sua sorella Progne dell’accaduto, con aver ricamato in un velo la storia funesta delle sue sciagure. Inorridì Progne a tal nuova, e come d’indole risentita escogitò una terribile vendetta. Profittando delle feste di Bacco prese l’abito di una baccante : liberò sua sorella dalla prigione : indi con un pugnale trapassò suo figlio Iti, e lo diede a mangiare a Tereo in un solenne banchetto. Cercando questi di vedere suo figlio, allora Filomela infuriata si presenta a Tereo, e per maggiormente avvilirlo gitta innanzi a suoi piedi il capo intriso nel sangue dell’infelice figliuolo. Avvampando d’ira Tereo diede di piglio alla spada per inseguire le due sorelle : ma queste gli scapparono dalle mani, involandosi da lui coll’ajuto delle ali, essendo stata Progne al momento cangiata in rondinella, Filomela in usignuolo, e lo stesso Tereo in uno sparviero.

Aristeo.

Fu Aristeo figliuolo di Apollo, e della ninfa Cirene. Egli si occupò dell’agricoltura, a saper rappigliare il latte, coltivare gli ulivi, e {p. 206}sopratutto ebbe cura delle api. Sposò Aristeo Autonoe figliuola di Cadmo, fu padre di Atteone, che Diana cangiò in cervo. Dopo la morte di questo suo figlio, si ritirò in Sardegna da lui per la prima volta coltivata : indi passò nella Sicilia, e finalmente nella Tracia, ove Bacco lo volle per compagno delle sue fatiche. Morì sul monte Emo : i Greci l’onorarono qual Dio, ed i pastori gl’innalzarono degli altari.

Pico, e Canente.

Fu Pico figlio di Saturno, padre di Fauno, ed avo di Latino. Sposò Canente figliuola di Giano, e di Venilia. Fu amato da Circe famosa maga, e figlia del Sole, e che lo vide mentre andava in cerca di erbe, e dalla medesima fu cangiato in picchio1.

Egeria.

Seguace di Diana era la ninfa Egeria. Credevasi ch’ella consigliasse Numa Pompilio secondo re di {p. 207}Roma per ben governare. La morte di Numa le cagionò tanto dolore, che fu cangiata in una fontana.

Arione.

Arione fu un musico celeberrimo nativo di Metimna di Lenno, molto amato da Periandro re di Corinto. Un giorno mentre navigava, i marinari lo volevano buttare nel mare, per arricchirsi delle sue spoglie. Lusingandosi Arione di poterli intenerire, dimandò in grazia di poter toccare un’altra volta la sua lira : ma non potendo ottenere tal grazia si lanciò nelle onde, ed uno de’ delfini, che si erano accostati al naviglio per sentir la sua voce, lo prese sul dorso, e lo portò sano, e salvo alla riva. Periandro fece severamente punire i marinari, e gli Dei assegnarono un posto nel cielo al Delfino, che aveva salvato un musico tanto ben veduto da Apollo, e dalle Muse.

Anfione.

Era questi un altro eccellente cantore, figlio di Giove, e di Antiope regina di Tebe. Il suono della sua lira, e la sua voce era tanto dolce, che per sentirla gli corsero dietro le pietre, e si situarono in tal modo, che ne formarono le mura di Tebe.

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Ciò basti per un corso di Mitologia elementare. Potranno i giovani lettori in età più matura consultare i fonti, gli originali delle favole, e gli scrittori che hanno ampiamente trattato un tale argomento : contentandoci noi de’ ristretti limiti fra’ quali ci siamo contenuti.

FINE.

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Avviso. §

 

Si è creduto opportuno di quì inserire il seguente trattalo dello stesso Sig. Tomeo autore di quest’opera, pubblicato fin dall’anno 1817 - per comode della gioventù studiosa.

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Proemio. §

Pbbiamo finora come in un quadro abbozzato l’origine, lo scopo, lo sviluppo della Favola. Nel breve corso di poche pagine ci siamo studiati di accennarne almeno l’applicazione, l’oggetto, la morale che conteneva. Abbiamo altresi osservato il gran numero degli Dei adorati dal Gentilesimo. Questa serie numerosa di false Divinità sarebbe stata maggiore, laddove per poco si fosse data un’ occhiata alla folla degl’Iddj, che adoravano gli Egizj, i Fenicj, i Caldei, i Persiani ed altre nazioni. Saremmo in tal caso usciti dal piano, che da principio ci abbiamo proposto : riserbandoci non per tanto di darne cammin facendo un’ idea, benchè superficiale.

Non abbiamo potuto però senza taccia dispensarci dall’aggiugnere quì un breve trattato degli Dei indigeni, che ricevevano un culto particolare dai Napoletani. Siccome sarebbe strana cosa l’aver piena contezza del Greco, e Latino idioma, ed ignorare nel tempo istesso la lingua che parliamo ; così stranissimo sarebbe lo affaticarci ad indagare l’eccessiva capricciosa folla degl’Iddj della {p. 212}Grecia, e del Lazio, senza conoscere quelli che riscuotevano un culto nel suolo ove siamo nati. Gareggia la nostra Patria con Roma istessa madre, e cultrice delle belle arti, e delle scienze. Dapertutto veggonsi de’ capi di opera della pittura, e scultura, e della più ricercata architettura, che malgrado il corso di tanti secoli, l’edace tempo ha rispettato. Non vi ha angolo nella città, e nel Regno, in cui non ritrovansi preziosi monumenti, marmi, iscrizioni nell’una e l’altra lingua, che ci mettono al giorno de’ sacri riti, e della vita civile di que’ tempi. Se non altro, gli scavi di Ercolano, e di Pompei ci hanno aperto un campo larghissimo, dove può ampiamente spaziarsi l’ingegno degli eruditi indagatori della più remota antichità. Nel nostro suolo per l’appunto il fasto de’ Romani, conquistatori dell’Universo, spiegò tutta la sua grandezza, onde fralle Greche città andò superba la nostra Napoli, che favorita dalla natura di un dolce clima, e fertile terreno, formava il domicilio, e l’onesto ritiro della gente tranquilla 1. Fin dall’epoca della sua fondazione anteriore a quella di Roma, avrebbe potuto dirsi di lei :

{p. 213}

Quam tu Urbem hanc cernis, quae regna futura !

 

Ci duole soltanto che in mezzo a tante patrie ricchezze non possiamo con certezza e precisione dar fuori un trattato di quanto riguarda il nostro assunto. Le tante vicende, alle quali è stata soggetta la nostra Patria, il lungo andare di tanti secoli ha dovuto per necessità contribuire alla perdita d’infiniti monumenti. Possiamo solamente per via di congetture stabilire le basi del nostro argomento. Dee credersi certamente che istituiti i nostri padri coi costumi della Grecia, abbiano similmente adottati gli usi medesimi, e la Religione della madre comune. Il Circo, gli avanzi del nostro teatro, il corso lampadico, la palestra ci somministrano bastante materia da parlare delle varie Divinità, che presedevano a tali giuochi, e giornalieri esercizj. Oltre a ciò le rispettive reliquie di templi che ancor oggi ammiriamo, fanno fede abbastanza delle Divinità Napoletane, e della magnificenza della loro città : giacchè quanto vi ha di grande e magnifico nelle più vaste Capitali, per lo più dalla Religione ha tratto la sua origine, e contribuirono all’accrescimento della grandezza Romana più gli altari a Giove innalzati, che la potenza degli Augusti medesimi.

Quindi ci è sembrato non inutile, che anzi necessario lavoro il presentare alla Gioventù {p. 214}studiosa un picciolo trattato delle antiche patrie Divinità. Egualmente interessante pregio dell’opera abbiam creduto lo aggiugnere qualche cosa riguardante le Deità comuni alle altre nazioni. Quantunque di questa ne abbiamo abbastanza parlato nella prima parte, era però di somma necessità rinnovarne il discorso per l’intelligenza de’ monumenti, che anche a nostri giorni sono esistenti. Senza dipartirci punto dall’oggetto di dare delle cognizioni elementari, potrà di leggieri acquistare la Gioventù le idee necessarie del primo antico culto. Vero è che l’argomento che trattiamo non è nuovo : ma piace lusingarci che l’ordine almeno, e ’l vantaggio di veder tutto ad un colpo di occhio potrà dargli un’ aria di novità ; risparmiando ai giovani la pena, e noja lunghissima di andar rintracciando le patrie memorie sparse quà, e là in tanti libri, e scrittori per lo più fra di loro discordi. A tale proposito abbiamo procurato di scegliere quello che pareva più plausibile, avendo dovuto aggirarci tra l’oscurità dei secoli con andar quasi a tentone. Potranno in età più matura i Giovani amatori della storia Patria consultare i fonti, onde attingere pienamente le notizie delle nostre primitive costumanze, ed osservare il delirio, e le fantastiche idee di religione de’ nostri maggiori, che ad imitazione degli altri popoli professavano un culto tutto loro proprio verso le assurde e false {p. 215}Divinità ; culto che immantinente cessò, allorchè furono a nuova vita rigenerati mercè il lume del Vangelo, e della santa nostra Religione Cattolica, nel cui seno abbiamo avuto la fortuna di nascere.

{p. 216}

I.

Partenope. §

Dicemmo già che una delle Sirene chiamata Partenope, che colle altre abitava nella spiaggia di Sorrento, e che in vicinanza di Napoli cessò di vivere, diede il nome alla nostra Città. Fra le altre così dette, la più celebre credesi figliuola di Eumelo re di Fera in Tessaglia. Scrivono taluni che questa giovane amantissima della castità ritirossi nella Campania, ed ivi elesse il suolo dove oggi è Napoli per sua abitazione, guidata dal volo di una colomba, della quale così cantò il nostro Stazio nel libro IV. Silv.

 

Dii patrii, quorum auguriis super aequora magnis
Littus ad Ausonium devexit Abantia classis. 1
Tu ductor populi longe emigrantis Apollo,
{p. 217}
Cujus adhuc volucrem laeva cervice sedentem 2
Respiciens blande felix Eumelis adorat.

 

Dove la voce Eumelis vale lo stesso che Partenope.

Noi lasciando da parte le poetiche opinioni, che trattandosi dell’origine delle grandi città sogliono essere, al dire di Livio, se non favolose, almeno sospette, volentieri ci atterremo al sentimento dell’insigne geografo Strabone. Attesta egli di essere stata Napoli edificata dai Cumani, chiamata Partenope dal Sepolcro della estinta Sirena. Colà in seguito a cagione del suo amenissimo clima concorsero diversi altri popoli, onde Neapolis, nuova Città fu detta, per distinguerla da Palepoli, cioè vecchia città.

Andò però quasi in disuso il nome di Napoli, ritenendo per lo più quello di Partenope fino a che Augusto, al dire di Solino, dopo di aver ornato di marmi il di lei fabbricato, volle che Napoli, o sia nuova città, e non già Partenope fosse denominata.

Alla testè lodata favolosa Sirena, o alla pudica figliuola di Eumelo furono assegnati gli onori divini, e fralle tutelari Divinità ebbe Partenope un luogo distinto. Vedesi nelle nostre monete {p. 218}inciso il capo di Partenope ; ed attesta Licofrone antichissimo poeta, che al di lei sepolcro bruciavano saci i Napoletani, e l’Ateniese Diotimo venne con una flotta per consultarne l’oracolo. Quindi il celebre Gioviano Pontano, e l’ameno Giacomo Sannazaro poeticamente scherzando, celebrano le nozze di Partenope col Sebeto, annoverato anch’ esso fra i Numi tutelari : ed i Napoletani con tanta gelosia ne conservano la memoria, che anche a dì nostri osservasi una grande testa presso la Chiesa di S. Eligio, che credevano essere appunto quella che apparteneva alla statua colossale di Partenope.

Ignorasi il luogo preciso del sepolcro di lei, da molti situato nel monticello, dove oggi è la Chiesa di S. Giovanni Maggiore. Altri, e fra questi il Pontano, gli assegnano un sito alquanto più lungi. Itaque sepulchrum ipsum indicio est Parthenopen colli imperitasse, qui subjectae imminebat stationi, atque ad sinus ipsius caput, e qua regione Surrentum spectabant, quae Sirenum ipsarum sedes tunc esset. Quem ad locum, quod naves quasi in quemdam portum applicarent, collis ipse frequens erat habitatoribus, atque ab accolis, et nautis celebratus, itaque obliterato priori nomine, post matronae memoriam, atque ab ejus sepulchro, Parthenope cognominatus. Pont. de bello Neap. Di questo colle samoso così pure cantò il nostro {p. 219}concittadino Stazio piangendo la morte di suo padre :

 

Exere semirutos subito de pulvere vultus
Parthenope, crinemque, afflato Monte, sepulti
Pone super tumulos, et magni funus alumni.

 

Invitando Partenope a cacciar fuori la testa dalla tomba, ruinata dalla scossa di un gran terremoto (afflato monte), e compiangere la morte del suo allievo, cioè del padre di Stazio.

 

II.

IlSebeto. §

L’antichissimo culto che professavano i primi abitatori di Napoli a questo patrio siumicello, esige da noi di doversene quì far parola, ed appunto dietro l’articolo Partenope. Quale sia stata l’origine di questo nome Sebeto, si disputa dagli antiquarj. Vi ha chi crede di ricavarla dal Sabbato degli Ebrei, giorno in cui cessavano da ogni lavoro, per indicare l’indole della voce riposo, quiete, adattando questo nome a que’ rigagnoli, che con lentissimo corso scaricavansi al mare, qual è il nostro Sebeto. Parecchi fanno decrivarlo altresì dall’Ebraico Sibboleth, fluentum, cioè piccolo siume.

{p. 220}

Comunque sia, certa cosa è che fu egli ascritto fralle patrie Divinità. Probabilmente ciò dinota il celebre motto Nama 1 Sebesio scolpito nel collo del toro ne’ sacrifizj a Mitra, cioè, al Sole, e più l’antichissima iscrizione

P. Maevivs EvtychvsAedicvlamRestituitSebetho. §

Dov’è da notarsi che questo tale Eutico di origine Greca rinnovò l’antichissimo culto dovuto al Sebeto. Nè cio dee far meraviglia, giacchè i primi fondatori delle Città in vicinanza de’ fiumi, erano soliti di attribuire ai medesimi gli onori divini, e presso di noi si celebravano in Capua le feste del Volturno, dette Vulturnalia. In un fierissimo terremoto accaduto nell’anno 1688, allorchè con gravissima perdita dell’Architettura rovinò il famoso tempio di Castore, e Polluce, oggi Chiesa di S. Paolo, ritrovossi una elegantissima Greca iscrizione sottoposta ad un eccellente bassorilievo, nel quale stavano scolpite {p. 221}diverse sacre immaginette, e fra queste vi era quella del Sebeto.

Il suo nome però e la sua gloria mal corrispondono al piccolo volume delle sue acque. Malgrado che sia egli decantato in ogni pagina dalla fervida fantasia de’ poeti, la sua picciolezza è tale, che Boccaccio allorchè recossi a Napoli, al momento che lo vidde, stupefatto esclamò : Minuit praesentia famam. Il gran poeta Cesareo di lui scrisse :

Quanto ricco d’onor, povero d’onde.

Non ha guari l’accurato nostro P. Sanfelice de situ Camp. così scrisse : Quod prope littus est, Sebethus alluit fluviolus, ne lintrium quidem patiens, non tamen inglorius :

III.

Eumelo. §

Se i primi nostri padri adorarono Partenope come colei che diede il nome alla Città, dovettero per conseguenza accordare il culto Divino anche al di lei padre Eumelo. Fralle antichissime Fratrie1 che in Napoli esistevano ad imitazione {p. 222}di Atene, trovasi annoverata quella degli Eumelidi, così detta dal patrio nume Eumelo, situata verisimilmente nel circuito del quartiere, o sia regione Capuana. Citano gli antiquarj diverse iscrizioni in conferma di quanto da noi si assersce. A questa Fratria crede il Martorelli che fosse stato ascritto Stazio poeta, nostro concittadino, che vivea a’ tempi di Domiziano.

IV.

Eunosto. §

Di questo giovane Dio, o Eroe piuttosto così lasciò scritto Plutarco, il cui testo alquanto lungo in poche parole esporremo. Eunosto di Tanagra nella Boezia fu un giovane eroe conosciutissimo per la sua elegante figura, e diverse virtù che {p. 223}lo adornavano, e fra queste in grado eminente quella della castità. Di costui innamorossi una ragazza chiamata Ocna figliuola di Colono. Accortosi il giovane Eroe di tale inclinazione, oltre di averla bruscamente cacciata via, denunciò schiettamente l’affare ai fratelli di lei. Ocna pensò di prevenirlo, ed indusse i fratelli ad ammazzare Eunosto, accusandolo di avere il mdesimo attentato alla sua pudicizia. Seguito sì atroce misfatto, la giovane si pentì, e svelato l’arcano, da se stessa con un laccio si diede la morte. I Tanagrei ad eterna ricordanza di questo avvenimento, innalzarono un tempio ad Eunosto, dove non era permesso alle donne l’ingresso.

Ciò diede occasione ai Napoletani di ascrivere anch’ essi Eunosto fralle patrie tutelari Deità. Il nostro ch. D. G. Giacomo Martorelli nella sua laboriosa opera de Reg. theca cal. parlando della Fratia dove adoravasi Eunosto, azzardò una congettura, che in seguito dopo la di lui morte il tempo verificò. Credeva egli che una tale Fratria, alla quale non erano ammessi, se non quelli che conservavano il celibato, avesse dato il nome al quartiere della città, oggi detto borgo dei Vergini, et che ivi appunto avesse la suddetta dovuto esistere. Non fu bene accolta una tale opinione : ma scavandosi li fondamenti parecchi anni sono di una casa in vicinanza della porta di S. Gennaro, si avvidero i muratori di alcune {p. 224}vecchie fabbriche sepolte molti palmi al di sotto del livello della strada. Pervenuto ciò a notizia del Governo, furono deputate persone intelligenti, che recatesi sulla faccia del luogo, ritrovarono in fatti e marmi, ed iscrizioni, che chiaramente manifestavano colà avere esistito la Fratria o sia Curia degli Eunostidi. Siffatta scoverta avrebbe colmato di gioja il Martorelli già trapassato se avesse veduto verificata la sua congettura.

Vi ha in fine chi ha creduto, che Eunosto fosse stato il Dio che presiedeva ai mulini ; opinione che ha procurato di confutare a tutta possa il mentovato Martorelli.

V.

Apollo. §

Oltre quanto si è detto in questo corso di Mitologia nell’articolo Apollo, è da notarsi riguardo a questo Nume, che un culto assai esteso riceveva dai Napoletani, come quello che fu il Duce della colonia Eubea venuta a Napoli, guidata dal volo della colomba, onde Stazio :

Tu ductor populi longe emigrantis Apollo.

E virgilio nel 6 dell’Eneide parlando del famoso di lui tempio :

Arces, quibus altus Apollo
Praesidet.
{p. 225}

Le vestigia di questo tempio ancor oggi si veggono accanto all’arco Felice poco discosto dalla Palude Acherusia al presente il Fusaro. Sotto diverse sembianze fu Apollo in Napoli adorato col nome di Ebone, di Mitra, di Serapide. Di ognuno di questi nomi imprendiamo a distintamente parlare.

Ebone. §

Una nostra Greca antica iscrizione ci fa acquistare la conoscenza di questo nume tutelare.

ΗΒΩΝΙ ΕΠΙΦΑΝΕΣΤΑΤΩΙ ΘΕΩΙ
Heboni clarissimo Deo.

L’ etimo di questa voce benchè alquanto stiracchiato, potrebbe ripetersi dall’Ebraico Abir, taurus. In fatti era egli rappresentato sotto l’aspetto di un bove con faccia di uomo, e propriamente di un vecchio con lunga barba. Nelle nostre antiche monete segnate col motto Heboni, e Neapolitae, si vede di altri emblemi fregiato. Macrobio ne’ suoi Saturnali ci dice la ragione, onde Ebone sotto la figura di un toro era adorato : Taurum vero multiplici ratione ad Solem referri Aegyptius cultus ostendit, vel quia apud Heliopolim taurum Soli consecratum, quem Netiron, seu Neton cognominant : vel quia bos {p. 226}Apis in civitate Memphi solis instar excipitur : vel quia in oppido Hermunti magnifico Apollinis templo consecratum Soli colunt taurum. Nè è da dispregiarsi l’opinione di taluni, che credono adorato il toro in Napoli, in Pozzuoli, Atella, Capua, ed in tutta la terra di Lavoro per essere questo animale il più utile e necessario per l’agricoltura.

Della varia figura di questo Nume, secondo lo stesso Macrobio, dee dirsi, che i Napoletani lo veneravano sotto l’aspetto di un vecchio, a differenza delle altre nazioni, che lo riconoscevano col volto di un fanciullo, di un giovanetto, di un uomo : alludendo alle quattro età del Sole nel tempo degli equinozj, e de’ solstizj. Trasportati i nostri Maggiori per lo studio dell’astrologia, come è noto, non dee recar punto maraviglia che avessero professato un culto particolare verso il principe de’ pianeti col nome di Ebone. La nostra Cattedrale edificata sulle ruine del tempio di questo Dio abbastanza ce ne assicura. Anche il nostro Pontano parlando di Ebone, così cantava :

Urbs Hebone salutat, agrique Hebona frequentant,
Hebona et referunt simul antra, et littora, et amnes.
{p. 227}

A questo Nume il nostro Mazzocchi asegnò anche una fratria, ma senza daccene idea precisa.

VI.

Mitra. §

Adoravano gli antichi Napoletani Mithram, Mitra, con vocabolo Persiano indicante il sole medesimo. Se non che il culto che professavano a questo Nume si esercitava negli antri, e ne’ sotterranei, per alludere forse alla virtù de’ raggi solari, che vibrati sulla terra hanno l’attività di animare quanto contiensi nelle viscere di lei. Una antica iscrizione ci somministra piena cognizone di questa esotica Divinità.

Omnipolenti Dei Mithrae Appius Claudius Terronius Dexter §

Dicavit.

A questo, Mitra, al dire di Suida, immolavano i Persiani molte vittime, e specialmente bianchi cavalli. Senefonte attesta, che il gran Ciro giurava per questo Dio, e Lampridio nella vita di Commodo fa menzione de’ sacri riti praticati ne’ sacrifiz di lui. La sua figura eccola espressa da Lattanzio Grammatico : Colebatur in antro, {p. 228}fingebaturque leonis vultu, habitu Persico cum thiara, et ambabus manibus reluctantis bovis cornua retentare. Quo simulacro innuebant lunam ab eo lumen accipere, cum incipit ab ejus radiis segregari. Ipsa enim indignata sequi fratrem, occurrit illi, et lumen subtegit, obscuratque : ideoque in antro esse dicitur, quia eclipsin patitur. Ideo leonis vultu, quia sol leonem signum principale habt, vel quod ut leo inter animalia, ita sol sidera excellit.

Conservasi dalla nobilissima casa Borghese in Roma una lapida col motto

Soli Deo invicto Mithrae.

VII.

Serapide. §

Ecco in iscena nuovamente il sole col nome di Serapide. Il di lui culto era etesissimo nell’Egitto. Crede Varrone che questa voce abbia tratta la sua origine dalla cassa, o tumulo detto σορος in cui fu riposto dopo morto, onde i Greci prima lo chiamarono Sorapis. Oltre di un tempio grandioso a lui eretto in Pozzuoli, i di cui superbi avanzi ancor oggi si ammirano, credesi vicino agli scolgi Platamoni 1 in Napoli fra gli {p. 229}screpoli avere esistito il suo tempio, onde leggiadramente scrisse il Sannazzaro :

Aequoreus Platamon, sacrumque Serapidis antrum,
Cum fonte, et nymphis adsultavere marinis.

In somma pressochè generale era il cutlo del Sole in Napoli antica. Oltre le mentovate denominazioni si dava ad Apollo l’epiteto di servator, sanator. Quindi alla buona salute (Hygiae) furono altresì eretti monumenti, ed altari. Presso di Orazio :

Sic me servavit Apollo.

Troviamo il sole insignito ancora degli attributi di Bacco, presso alcune delle nostre monete, cioè con pampini ed edere : e ciò perchè nell’Egitto Serapide, cioè il sole, era stato l’inventore del vino. Il decantato nostro Cecubo, Falerno, Sorrentino, Massico, e tanti altri diedero occasione alle piacevoli feste di Bacco in Pozzuoli. Ivi queste feste erano colla massima solennità celebrate, e non ha guari fu ritrovata una lapida col motto Dusari sacrum, così chiamato ancora {p. 230}Bacco con voce Araba secondo il Bochart vel ab uvarum expressione, vel quia dominus libertatis erat.

VIII.

Artemisia, o sia laLuna. §

In grandissimo credito era a tempi di Napoli Greca Artemisia, o sia la Luna, sì perchè germana di Apollo, sì perchè erano trasportati i Napoletani per lo studio dell’astrologia. Di questa scienza erano tatalmente appassionati, che Virgilio istesso ne era istruitissimo, come apparisce dalle sue georgiche, e dall’egloga intitolata Pharmaceutria. Non altro significa quell’ignobile otium che la perfetta cognizione del corso e dell’influsso de’ pianeti,

Illo me tempore dulcis alebat

Parthenope studiis florentem ignobilis otî.

Artemis è chiamata da Omero la luna, e con questo motto eran segnate le antiche nostre monete. Nelle medaglie di Sicilia vien denominata altresì Σωτειρα, servatrix. Non senza fondamento il Can. Celano esatto indagatore delle cose patric, crede che il tempio della luna fosse dov’è al presente la Chiese di S. Maria Maggiore (la Pietrasanta), luogo in cui mentre a suoi tempi si {p. 231}edificava, furono ritrovati non pochi antichi monumenti riguardanti questa Deità. Ed è verisimile, che siccome al tempio del sole fu sostituito il nostro Duomo, e consegrato dai Cristiani al nostro Divino Salvatore, ch’è il vero Sole, così quello della luna fu dedicato alla Vergine SS., cioè Lunae Virgini Majori. Infatti la nostra strada dei Tribunali chiamasi Via Solis, et Lunae : ed assicura il testè lodato Celano, che nella casa d’Ippolita Ruffo fondatrice della Chiesa suddetta, si conservavano moltissimi monumenti di questo tempio famoso.

Il circondario del tempio della luna era il più rispettabile di Napoli. Colà a sentimento dell’accurato Capaccio stava la Fratria, o sia Curia degli Artemisj, addetti all’amministrazione di questo tempio, e dov’era, al dire di Martorelli, ascritto il nostro concittadino egregio poeta Stazio. In queste vicinanze vedevasi l’antico nostro teatro, dove il folle Nerone volle far pompa dell’arte sua musicale : ed in questo sito fu ritrovato l’insigne cavallo di bronzo di Greco lavoro, antico stemma della Città, la cui testa vedesi oggi nel Regale Museo de’ Regj Studj, ed il resto del corpo fu destinato a formare le campane del Duomo per opera del Cardinal Caraffa. Colà tuttavia si ammirano diverse reliquie di fabbriche a mattoni, che ritengono presso di noi il nome di Anticaglie.

{p. 232}

IX.

Orione. §

Secondo la testimonianza di Esiodo, ebbe questo Nume a padre Nettuno, e sua madre fu Euriale. Di lui narra la favola, che amato da Diana era già presso a sposarla. Mal soffriva Apollo queste nozze della germana : onde sfidatala un giorno a tirare una freccia ad un punto nero che nel mare si vedeva (ch’era la testa di Orione), fu pronta costei, come abilissima nel trattar l’arco, a vibrare a quel segno un dardo, e mortalmente ferì l’amato suo oggetto. Gittato Orione dal mare semivivo sul lido, si dolse dell’affronto con Diana, che amaramente piangendo non potè far altro per lui che trasportarlo nel Cielo, ed ivi situarlo nel Zodiaco, formandone una costellazione col nome di Orione.

La di lui statua osservasi oggigiorno nel luogo detto Seggio di Porto, portando in mano un pugnale, e vestito il corpo di lunghi ispidi peli, indicanti o i raggi solari, ovvero un segno della pioggia. Era questo Dio tutelare adorato in Napoli dalla gente di mare, e nel sito da noi enunciato è probabile che stesse il tempio a lui dedicato, perchè vicinissimo al mare. Sappiamo per tradizione, che fino a’ tempi da noi non {p. 233}molto remoti avevano per costume i Napoletani di celebrare una festa in onore di Orione, nella quale fralle altre formalità si bruciava una barchetta in ogni anno nella notte della Natività di Nostro Signore.

Chiamasi oggi questa statua dal volgo falsamente il pesce Nicolò : ingannato dalla storia di un tale Nicola Pesce espertissimo nuotatore, che vivea a tempi del Governo Viceregnale. Costui con grandissima facilità caminava sott’acqua da Reggio a Messina, portando lettere, ed altro. Ma sparì finalmente il poverino mentre una volta faceva il solito tragitto, e fu creduto che un qualche grosso cetaceo lo avesse ingojato.

X.

Cerere. §

Fralle patrie Divinità tutelari del prim’ordine ascrivere si dee Cerere Attèa, o sia Attica. Il nostro Stazio a chiare note lo indica :

Tuque Actèa Ceres, cursu cui semper anhelo
Votivam taciti quassamus lampada mystae.

Le feste di questa Dea erano celebrate con grandissima pompa ad imitazione delle feste Eleusinie, {p. 234}che con solenne rito nella Grecia si rinnovavano. Durante : il loro corso, e con assegnate cerimonie si alludeva al ratto di Proserpina, figliuola di Cerere rapita da Plutone nelle fertili campagne della Sicilia. Il nostro Capaccio ce ne ha trasmesso il contenuto, ricavato da pitture antichissime, e da un basso rilievo situato nella sommità della facciata della Chiesa di S. Giovanni Evangelista, appartenente alla nobile famiglia Pappacoda accanto S. Gio : Maggiore. Correvano in queste feste i sacerdoti da disperati, e fra questi si annovera egli stesso il nostro Stazio, portando accese faci nelle mani in atto di andare in cerca della rapita Proserpina.

Tra i ministri di questa Dea erano ammesse altresì le donne. I sacrifizj erano segreti, e tutti dovevano conservarne gli arcani, come rilevasi dalle parole taciti mystae di Stazio. Il tempio di questa Dea, secondo il più volte citato Capaccio, ed altri, era la presente Chiesa di S. Gregorio Armeno, dove nello scavo dei fondamenti furono ritrovati diversi monumenti, e statue di marmo.

{p. 235}

XI.

Castore, e Polluce. §

La presente magnifica Chiesa di S. Paolo era il tempio dedicato ai due gemelli Numi Castore, e Polluce. Una insigne iscrizione scritta a caratteri cubitali nel frontespizio chiaramente ce lo addita : eccola qui tradotta :

Tiberius Julius Tarsus Dioscuris et Parthenope Templum.
Et quae in templo sunt Pelago Augusti libertus et
Procurator fecit sua pecunia dedicavitque.

In mezzo a diversi altri monumenti furono nell’anno 1591 rinvenute le immaginette di questi due fratelli. Questo gran tempio scosso da un fiero terremoto, come si è detto, nel 1688 quasi interamente ruinò, e per conservarne almeno gli avanzi grandiosi, furono lasciate due sole colonne di ordine Corintio, come al presente si osservano.

Malgrado però che la mentovata testè iscrizione ci manifesti un’epoca recente, qual’è quella di Tiberio, il culto non pertanto assegnato dai Napoletani ai Dioscuri è molto anteriore. I busti, {p. 236}e gli altri emblemi di Castore, e Polluce erano scolpiti nel teatro, e specialmente nel circo : ed avendo i Napoletani sì l’uno che l’altro, è da supporsi che adorassero cotali Deità fin da tempi più remoti. Oltre a ciò essendo questi Numi immediati protettori de’ naviganti, come nel di loro articolo abbiamo dimostrato, sembra naturale che Napoli antichissima città marittima li avesse per Numi tutelari riconosciuti. Quindi non senza fondamento crede il Capaccio, che questo tempio fosse stato rifatto e ristorato, vivendo Tiberio.

XII.

Ercole. §

Merita quì in certo modo di farsi menzione di Ercole. Le centinaja di statuette e di marmo, e di bronzo rappresentanti questo Eroe, fanno credere di essere stato egli ascritto fra i Penati e gl’Iddj tutelari della Patria. Attesta il Pontano, che ritornato Ercole vittorioso dalla Spagna, ed ucciso il famoso ladrone Caco nel Lazio, visitò varie contrade del nostro regno, a cui diede il suo nome. Oltre di Eraclea nella magna Grecia, chiamasi in Napoli vico Eraclio, o sia di Ercole, una straduccia nelle vicinanze della Chiesa di S. Agostino Maggiore. L’antico Ercolano, oggi {p. 237}Resina, vanta da Ercole la sua origine, come altresì il Portico di Ercole, Portici, di cui parla Petronio nella cena di Trimalchione. Credesi però che tali luoghi ripetano il loro nascimento dai Fenicj, che loro adattarono una denominazione corrispondente all’indole del suolo, che dava fuoco dapertutto, perchè sottoposti immediatamente al Vesuvio1.

XII.

Vesta. §

L’antichissima Chiesa di S. Maria della Rotonda a nostri giorni demolita, ha fatto credere a parecchi eruditi antiquarj che fosse stato il tempio a Vesta dedicato. Infatti la rotonda figura del medesimo, ed alcuni marmi colà rinvenuti, oltre di un tripode, ed un lavacro di marmo, possono abbastanza persuaderci di una tale verità. Affermano taluni che di forma rotonda era il tempio di Vesta per indicare la rotondità della terra, o per meglio dire dell’Universo, nel cui centro collocavano il fuoco i Pittagorici, che chiamavano Vesta.

{p. 238}

Osservavasi questo tempio accanto il palazzo del Duca di Casacalenda, e propriamente a fronte della porta grande della Chiesa di S. Angelo a Nilo. In questa regione abitavano gli Alessandrini, ed Egiziani, come rilevasi dalla statua del Nilo, ivi ancora esistente con iscrizione del dotto Matteo Egizio, ed ornata da varj simboli, e diversi putti indicanti le molte ramificazioni di questo fiume. Colà altresì stava la Fratria degli Alessandrini (Cynaeorum, da Κυων, il cane) poichè gli Egiziani oltre di Osiride, Iside ed altri, adoravano Anubi, effigiato sotto le sembianze di un cane.

XIV.

La Fortuna. §

Anche alla Fortuna indrizzavano i loro voti gli antichi abitatori di Napoli, come dal motto ΤΥΧΗΙ ΝΕΑΠΟΛΕΟΣ, Fortunae Neapolis.

Dalla seguente antichissima iscrizione ritrovata sul colle di Posilipo verso la parte che guarda Euplea, la Gajola o scuola di Virgilio, apparisce che a lei erano consegrati templi ed altari.

Vesorius Zeloius
Post assignationem aedis
Fortunae signum Pantheum
sua pecunia D.
{p. 239}

Secondoche attesta Strabone dal promontorio di Nettuno fino alla Magna Grecia erano innalzati de’ tempj alla Fortuna, bisogna tuttavia confessare che nella Campagna Felice esigeva questa Dea un culto particolare. Ciascuna città aveva la propria Fortuna, come quella de’ Napoletani, de’ Romani presso Plutarco detta ancora Pubblica. I Greci chiamavano Χαριστηρια Charisteria le feste in onore della Fortuna. I Romani dissero Charistia i conviti, ne’ quali si univano i parenti, ed affini in contrassegno e conferma del comune attaccamento fra di loro.

Proxima cognati dixere Charistia Chari :
Et venit ad socios turba propinqua Deos.1

Teofane negli anni sacri si serve della voce Charisteria per ringraziamento al sommo Iddio.

XV.

Il Genio. §

Molte sono le opinioni degli scrittori sull’influenza de’ Genj. Vi ha chi lo crede padre degli uomini, e Plutarco un Nume tutelarc. Apulejo gli assegna un posto eguale a quello dei Demonj, e dei Lari. Cebete Tebano asserisce che il {p. 240}Genio sia un Dio animatore de’ mortali allora che nascono, consigliandoli a non fidarsi della Fortuna, e lo chiama Δαιμονιον Demonio. Censorino lo crede un continuo assistente ed osservatore di tutte le nostre azioni. Servio parla di due Genj : uno che ci esorta a bene operare, l’altro che le prave opere ci consiglia. Filone chiama Genj le facoltà dell’animo inclinati al bene ed al male.

Comunque sia, ogni luogo aveva il particolare suo Genio. Leggiamo nelle antiche iscrizioni Genio loci, Genio coloniae, Genio theatri etc., che anzi Prudenzio gli dà maggiori facoltà :

Quamquam cur Genium Romae mihi fingitis unum ?
Cum portis, domibus, thermis, stabulis soleatis
Assignare suos Genios, perque omnia membra
Urbis, perque locos Geniorum millia multa fingere ?

Molte antiche iscrizioni ritrovate in Pozzuoli, ed in Napolï ci dimostrano il culto che al Genio si professava.

Nelle monete di Adriano, e Diocleziano viene espresso il Genio colla figura di un giovine guerriero con lunga veste, portando in una mano una patera, e nell’altra il corno dell’ {p. 241}za. Celebre fu il Genio di Socrate, ed a questi Genj che noi chiamiamo folletti, e farfarelli attribuire si debbano le tante fole e fattarelli dalle femminucce, e dagli oziosi inventati.

XVI.

Le Grazie. §

Resta a dire brevemente qualche cosa di quelle Divinità, a cui la nostra patria dispensava gli onori divini, e ne ha conservato qualche memoria. A questa classe possono appartenere le Grazie, Priapo, Giove Ejazio, e gl’Iddii delle Fratrie detti ancora tribules.

Riguardo alle Grazie, oltre quanto si è precedentemente osservato, si può aggiugnere che nelle antiche nostre monete da una parte si leggeva. Νεοπ. Nepolitae, e dall’altra era impressa la testa di una delle Grazie col motto Χὰριτες, Charites.

Di Priapo sappiamo, che nelle feste di Cerere, di cui sopra abbiamo parlato, si portava processionalmente l’immagine di questa sozza Divinità : costume peraltro indecente. Quindi come si desiderava l’abbondanza, e questa se non dalle campagne, sperar non si poteva, fu detto perciò Priapo il Dio degli orti.

Di Giove Ejazio parla una nostra iscrizione :

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Titus Flavius Antipater
Una cum Flavia Artemisia uxore
Jovi Ejazio libens votum solvit.

La radice di questa voce è affatto ignota, se pure non si dovesse leggere Jovi Sabbazio dal Greco σαϐάζειν, saltare, come praticavasi nelle feste di Bacco. Probabile è altresì che la vera lezione fosse Jovi Abazio, cioè taciturno, dai sacrifizj a questo Nume istituiti dal re Dionigi col massimo silenzio, e rammentati da Cicerone. Il Capaccio azzarda varie altre congetture, ma poco soddisfacenti.

Finalmente ciascuna delle Fratrie ne’ tempi di Napoli Greca aveva il proprio Nume tutelare. In esse celebravansi le feste nei giorni assegnati, e si facevano de’ conviti detti lectisternia, a stratis lectis, nei quali sedevano gl’invitati. Questi al dire di Livio, s’imbandivano presso i Romani colle carni delle vittime immolate, e nei casi di qualche seria disgrazia della Repubblica.

Si è già osservato, che gli Eumelidi avevano Eumelo per loro Nume tutelare, gli Artemisj la Luna, i Cinei Anubi, e così gli altri, dei quali con ingegnosa sottigliezza lungamente scrisse il nostro Martorelli nell’aureo trattato de Fratriis Neapolitanis, nel secondo tomo della Theca Calamaria.

Ed eccoci alla fine del nostro trattato {p. 243}elementare sulle antiche favolose Divinità adorate dai Napoletani. Questo picciolo saggio bastar potrà alla gioventù studiosa per acquistare un’idea della prima religione de’ nostri padri, e dei tanti monumenti che nelle pubbliche piazze, e nei Regj Musei gelosamente si conservano, mercè le provvide cure del Re nostro Signore. Il di più la gioventù medesima potrà ricavarlo dalla lettura di tanti scrittori, che diffusamente hanno trattato un tale argomento.

FINE.

{p. 248}

Mitologia. §


ERRATA CORRIGE
Pag.10 vers. 22 ascendere ascendere
42 9 Glasio Glasio
61 4 Cibele Cibele
63 25 Sibilia Sibilla
74 7 volla volle
82 1 Melicerta, Melicerta.
id. 10 sasagrificò sagrificò
id. 22 Anteona Antedone
125 16 Leucippe Leucippo
139 15 preaceps preaceps
141 6 Bestitit Restitit
142 7 flere flexere
143 13 Polibo Polibio
172 18 Trajae Trojae
176 3 temdi tempi
181 28 non, vollero non vollero
214 5 di questa di queste
222 17 Boezia Beozia
240 8 inclinati inclinanti