Luigi Rasi

1897

I comici italiani : biografia, bibliografia, iconografia

2019
Luigi Rasi, I comici italiani : biografia, bibliografia, iconografia, volume II, Firenze, Fratello Bocca, 1897, 2 vol. in-8. PDF : Archive.
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I comici italiani §

Laboranti Regina. Genovese, fu artista di grandissimo pregio, fiorita nella metà di questo secolo. Fu moglie dell’attore Tommaso Degola (V.), e buona amica di Gustavo Modena, che nell’album di lei scriveva :

Io nacqui morto, cara signora, e tale fui giudicato anche dalla levatrice. Fu il chirurgo Zuliani, celebre chirurgo di Venezia, che mi mise il sangue. in circolazione e mi fece miagolare a forza di sculacciate.

Era nel 1850 la prima attrice della Compagnia Astolfi, Capodaglio e Venturoli. La Moda di quell’anno (25 giugno) parlando della Compagnia che recitava all’I. R. Teatro alla Cannobbiana, dice :

Primieramente fermeremo la nostra attenzione sulla gentile prima donna Regina Laboranti. Questa giovinetta, dotata di naturali requisiti per riescir ottima artista drammatica, imprese a studiarne i precetti dalla rinomata Ristori, la quale seppe guidare il {p. 4}genio della nobilissima allieva, ed infondere nella di lei azione gran parte di quella perizia che la elevarono al grado delle prime celebrità drammatiche dei nostri giorni. Nella Laboranti traluce il dire ed il gesto della Ristori…………

Nella sua serata di benefizio scelse un nuovo dramma francese dei signori Scribe e Legreve (sic), Legouvé, tradotto dall’artista comico Gaetano Vestri, col titolo Adriana Lecouvreur. Se in altre produzioni la Laboranti è fedele all’ indole della sua parte, e sa, diremo cosi, convertire in verità l’illusione delle scene, nella parte di Adriana superò sè stessa. Nell’atto quinto, dove la francese commediante rimane avvelenata fiutando un mazzolino di fiori inviatole dalla sua rivale, il lento processo della venefica emanazione fu così bene dipinto dalla Laboranti, che a giudizio dei provetti frequentatori della commedia, ella ragguinse la sublimità della Ristori.

Lampredi Anna. Trascrivo da Fr. Bartoli :

Accademica fiorentina, che recitò nel Teatro della Piazza Vecchia nella sua Patria. Luigi Perelli capocomico la stabili per la sua compagnia l’anno 1778, ond’ ella potè incominciare ad apprendere le buone regole dell’arte, e collo studio e collo spirito fece degli avanzamenti, e fu lodata specialmente in Bologna nel nuovo Pubblico Teatro l’anno 1779. Passò poi con la Faustina Tesi l’anno medesimo in qualità di seconda attrice, e poscia acquistando maggio concetto, Fedele Venini la volle nella sua Truppa per assoluta prima donna. Dopo la morte di questo comico, ella è rimasta tuttavia co' suoi stessi compagni, e per il Piemonte fa presentemente (1781) distinguersi piena d’abilità per la sua professione, inclinata alle cose della musica, e pronta a' più ardui impegni nel faticoso mestier delle Scene.

Lancetti-Modena Luigia. (V. Bernaroli).

Landi Orazio. È fra i Comici costanti che firmarono il reclamo al Duca di Modena, citato al nome di Degli Amorevoli Vittoria. Nella lettera, tra Aurelio di Secchi e Vittoria Amorevoli è la firma : « Io Oratio landi Afermo quanto in ciò si contiene, » che fu omessa per errore.

Landi Luzio. Fiorentino, fu artista di assai pregio per le parti comiche, fiorito al tempo in cui Goldoni era al soldo di Medebach. Furon scritte per lui le parti di Leandro nel Teatro comico, nella Gastalda, e in qualche altra commedia. Passò nel 1753 al Teatro S. Luca, e ci fa sapere il Bartoli che {p. 5}inaugurò le recite di quell’autunno col rappresentar bravamente il personaggio del signor Gio. Maria della Bragola. Sostenne le parti di Curcuma, di Donna Rosimena, di Donna Rosega e altre ancora, scritte a posta per lui dal Goldoni. Poco prima dell’autunno del '55, fuggì da Venezia colla moglie, mettendo lo scompiglio nella Compagnia, che non sapeva come sostituirli. E tal fatto mise innanzi al pubblico il Goldoni nella introduzione a quelle recite autunnali, che è nel tomo quinto del Nuovo teatro comico (Venezia, Pitteri, mdcci. viii).

Rimasto vedovo, il Landi passò a seconde nozze con un’attrice di merito per le commedie improvvise, di nome Assunta, senese, con la quale fu a Napoli, d’onde tornò poi in Lombardia nel '68, scritturato nella Compagnia di Pietro Rossi. L'anno seguente, fattosi capocomico, uccise nel teatro di Reggio l’apparatore Spisani, e fu messo in carcere, poi assolto, per constatata provocazione, come dai due documenti che trovo nell’Archivio di Modena.

Siamo riscontrati dal Giudice di Reggio, che nella sera de' 30 dello scorso novembre, restò gravemente ferito in rissa tra le scene di quel Teatro con colpo di Spada dal Comico Lucio Landi fiorentino Giuseppe Spisani Bolognese vomo al seruigio della Compagnia Comica, che attualmente sta in esso recitando ; e che nella sera de'5 corrente cessò di vivere. Il feritore trovasi in Carcere, e contro di Lui abbiamo ordinato allo stesso Giudice di sollecitamente proseguire il Processo con ogni rigore di giustizia, ed a norma delle Istruzioni dell’aula Criminale, per riferirne in seguito le risultanze.

……………………………

……………………………

Con nostro ossequiatissimo Dispaccio de' 13 del prossimo passato Dicembre fu riscontrata Vostra Altezza Serenissima dell’ Omicidio commesso in Reggio dal Comico Lucio Landi, stato colà sin’ora carcerato, in persona di Giuseppe Spisani Bolognese Vomo al servigio della Compagnia Comica, che in allora recitava in quel Teatro, e di cui l’Omicida n’ è il Capo, viene in oggi d’essere dal Consiglio Criminale risoluta la di lui Causa colla decretata dichiarazione, che attese le circostanze concorse nel predetto Omicidio, e particolarmente la qualità del medesimo stato eseguito a propria necessaria difesa, debba rilasciarsi « ex quo satis » quindi secondo le provvidenze portate da' Sovrani regolamenti abbiamo ordinata la esecuzione dell’ anzidetto Decreto nell’ atto stesso, che ne facciamo il presente rispettabilissimo rapporto a Vostra Altezza Serenissima a disimpegno de' proprii nostri doveri.

{p. 6}Dice il Bartoli che la grazia gli venne dalle intercessioni della moglie. Nonostante l’ottenuta libertà, il Landi, aggiunge il Bartoli, non ebbe più buon successo negl’interessi suoi, e morì del '74 a Grosseto.

Viveva ancora nel 1782 la moglie « la quale – dice il Bartoli – ad una vita piena d’inerzia, decaduta quasi interamente dall’acquistatosi concetto, in compagnie di niun valore andava passando con stento la propria vita. »

Landi Caterina. Moglie del precedente. Cominciò a recitare in compagnie nomadi, poi in quella di Medebach al S. Angelo di Venezia. Passò il 1753 col marito al S. Luca, dove creò la parte di Fatima nella Sposa persiana, e d’onde uscì del '55 per voler del marito, per non tornarvi mai più. Carlo Goldoni ritrasse i suoi pregi fisici e artistici nel seguente sonetto che nel Poeta fanatico recita Tonino (scena X dell’atto II) a Beatrice, sotto le cui spoglie si nascondeva appunto la Landi :

Morbido e folto crin fra il biondo e il nero,
spaziosa fronte, e bianco viso e pieno,
occhio celeste or torbido, or sereno,
angusto labbro, vigoroso, austero.
Tenera e breve man, degna d’impero,
candido, bipartito, amabil seno,
d’ogni proporzion corpo ripieno,
aria sprezzante, e portamento altero.
Questa è di voi visibile bellezza,
ma di gloria maggio degna vi rende
la velata beltà che più si apprezza.
Spirto che tutto vede e tutto intende,
arte che tutto brama e tutto sprezza,
cuore che manda fiamme e non s’accende.

Landi Anna, fiorentina, nata Sarti, figliuola di un lavoratore di seta, fu attrice di molti pregi per le parti di prima donna {p. 7}assoluta, che sostenne la prima volta in Malta nella Compagnia di Andrea Patriarchi. La via dell’ arte le fu contesa dal padre, tanto che per imprenderla, dovette sottrarsi alla soggezione di lui, prendendo marito. Fioriva al tempo del Bartoli (1781), che di lei così lasciò scritto : « Anche in Palermo fu lodato il suo merito, e così pure in molte città della Lombardia e della Toscana, come non meno nella Liguria e nel Piemonte. È fornita questa attrice di buona presenza, la natural favella molta grazia le dona, e co'proprj studj non lascia di rendersi ben accetta universalmente a' di lei spettatori. »

Landi Giovanni, nato a Bologna il 1760, e rimasto in tenera età orfano del padre, fu allevato ed istruito da illustre famiglia bolognese. Recitò, giovanissimo, le parti di amoroso in una compagnia di poco conto, poi nelle ben note di Bianchi, Pellandi, Goldoni e Granara. Venuto a matura età, si diede al ruolo di caratterista col quale salì in bella rinomanza. Creò con molto successo la parte di Mamma Agata nelle Convenienze Teatrali del Sografi, e recitò anche talvolta colla maschera di Arlecchino. Morì nel 1835 a Ferrara.

Landini Raffaello. Di lui, il più celebre degli stenterelli moderni, nato a Firenze nel 1823, discorre diffusamente Jarro nella sua opera Origine della maschera di stenterello, da cui riferisco in ristretto. Da compositore nella stamperia Cellai in via de' Martelli passò allo studio della maschera, esordendo in un teatrino popolare di via delle Ruote con la Compagnia di Vincenzo Da Caprile, di cui sposò nel '50 la figliuola Anna. Piacque ad Amato Ricci, che il Landini, giovanissimo, studiava dalla platea della Piazza Vecchia, e recitò con lui il '46. Nel '48 fece la quaresima come Stenterello alla stessa Piazza Vecchia, mentre il Cannelli spopolava al Borgognissanti. Morto il Ricci di colera nel '55, Raffaello Landini prese lo scettro della maschera di stenterello, nè più ebbe chi lo imitasse o gli si accostasse. Nell’ Homme blasé, nonostante la innata modestia che {p. 8}lo faceva tremar di spavento al ricordo del Ricci, insuperato in quella parte, fu grandissimo. Si ebbe l’ammirazione e la stima di valenti, quali Gherardi Del Testa, Pietro Fanfani, Vittorio Bersezio e Valentino Carrera, del quale ultimo recitò con molto plauso la Quaderna di Nanni. Il 17 maggio dell’84 recitava per sua beneficiata all’Arena Garibaldi di Livorno, nella commedia Stenterello e il suo cadavere. La sera del 21 alle sei e mezzo era morto.

« Dalla luce abbagliante della ribalta - conclude Jarro con belle parole - dal fragore degli applausi passar, quasi senza intervallo, alla oscurità, al silenzio della tomba ! – Stenterello e il suo cadavere non era più una commedia, ma l’epilogo tragico di un’esistenza : quasi appena cessato il suono della sua ultima risata, e gittati gli screziati abiti della Maschera, dava l’ultimo sospiro…. era avvolto nello squallido lenzuolo funerario. »

Landozzi Giacomo. Artista egregio per le parti amorose, nacque a Siena il primo maggio del 1812 da Vincenzo e da Teresa Benvenuti. Recitato prima co' filodrammatici senesi, poi con quelli di Firenze, ove s’era fissato dopo la morte del padre al principio del '29, esordì in Compagnia Villani, quale primo amoroso nell’ antico teatrino della Carconia, allora del Giglio, oggi Nazionale. Dalla Compagnia meschina del Villani, voglioso di levarsi a più spirabil aere, il Landozzi passò per l’anno '30-'31 in quella dell’Anna Pieri, qual semplice generico, salendo poi a grado a grado, perseverante e studioso, al ruolo di primo attor giovane, che sostenne degnamente per lunghi {p. 9}anni. Passò il '31, dalla Compagnia Pieri, in quella di Domenico Verzura, poi, nel '33, primo attore in quella di Lorenzo Cannelli, nel '34 di Corrado Vergnano, e nel '35 di Carlo Gol- doni diretta da Augusto Bon, in cui stette due anni. Fu poi dal '37 al '40 con Romualdo Mascherpa, il '40-'41 con Luigi Vestri, il '42-'43 di nuovo col Mascherpa sino al '46, il '47 con Cipro e Soci, poi in società con Vincenzo Gandolfi. Entrò il '48 con Gaetana Rosa, e il '49 sino a tutto il '50 con Antonio Giardini. Andò il '51 a' Fiorentini di Napoli a sostituirvi il primo attore Pietro Monti, e vi rimase fino al '54, nel qual anno prese in Compagnia Lombarda il posto di Alamanno Morelli.

Dal '55 al '75, anno della sua nomina a direttore artistico nell’Accademia de' Filodrammatici di Milano, fu con Santecchi, ancora col Giardini, col Tassoni, colla Baraccani, col Boldrini, coll’Aliprandi, coi Duse, coll’Ajudi, colla Biagini-Pescatori, col Bozzo, col Lambertini, col Moro-Lin, col Mazzola, col Pascali, con Tommaso Salvini, con cui fu in America generico primario di nuovo coll’Aliprandi, e con Codecasa-Senatori……

2. – I Comici italiani. Vol. II.

Giacomo Landozzi si trovò al fianco di Clementina Cazzola, di Adelaide Ristori, di Luigi Vestri e di altri sommi, e s’acquistò fama di artista valoroso, ne'tre generi diversi, rappresentando con ugual perizia il Fulgenzio degl’ Innamorati, il Guglielmo de' Due Sergenti, e il Rinaldo della Pia. E se come attore e direttor di compagnie s’ebbe moltissime lodi, non minori furon quelle tributate al direttore de' filodrammatici, {p. 10}l’affetto e il rispetto dei quali l’accompagnarono fino all’ultimo giorno di sua vita che fu il 6 maggio dell’ '88. Giovanni Emanuel salutò l’egregio artista al cimitero con brevi e commoventi parole.

Aveva il Landozzi sposata del '34, mentr'era in Compagnia Vergnano, una Maria Chiavistelli, fiorentina, attrice mediocre, ma siffattamente pazza da avvelenar gli ultimi anni del pover uomo, dalla quale ebbe dodici figliuoli, e la quale morì nel Pio Albergo Trivulzio, il 20 ottobre del '91.

Fra le mie note d’arte ne trovo una di Enrico Montazio, il valoroso aristarco, che concerne la beneficiata del nostro attore al Cocomero di Firenze il 28 gennaio del 1847. E 'sta volta il fiero articolista ha ragioni da vendere, dacchè rimprovera al Landozzi di avere nella Clemenza di Tito distesa una sentenza su candida carta di Bath, con penna d’oca intinta in calamajo di carta pesta dorata ; e di avere assicurato nell’ annunzio della rappresentazione che « non vi sarebber mancate le proprie e devolute decorazioni, nè avrebber mancato di zelo li attori nel rappresentarle…. » le decorazioi ?…

Lapy Giuseppe. Così ci è descritto da Antonio Piazza nel suo Teatro (Venezia, Costantini, 1777) :

Venne colà, per recitare in Primavera, la Comica Compagnia del L…… Bolognese, nomo assai famoso per la sordidezza della sua avarizia, e per la sua temerità di metter mano negli altrui scritti. Barbiere dì professione, passò dalla bottega al Teatro, mettendosi la maschera del Doctore, perchè sapeva partar Bolognese. Il celebre Goldoni, inimitabile a ben vestire anche i corpi più malfitti, si valse di quella rozza, per la sua Carcuma nella Sposa Persiana , e per [illisible chars] negli Innamorati. In que’ tempi, che bastava assai poco a far ridere, colui ebbe fortuna. Magro quanto il diginno, con una faccia secca, e intagiuta, affettando una voce sottile, e camminando come le anitre che menano sempre la coda, non ci volle di più, perchè il Popolo gli battesse le mani. Stabilito in una delle prime Compagnie di Venesia, guadagnò molto per molti anni, spese poco pochissimo, e in questo modo arricehi. Vecchio, com’è presentemente, parla ancora il suo disgustoso dialetto, con quella stessa [illisible chars] di pro[illisible chars], che usavav da giovine, facendo la barba. Eppure [illisible chars] il coraggio di recttare nelle Tragedie. Oh Popolo ! Popolo ! È bontà la tua, o [illisible chars] ? Un Erve di Roma ti parla Bolognese vestito da [illisible chars], e tu non lo [illisible chars] Non si [illisible chars]scene attore [illisible chars]. Eppare credesi egli il [illisible chars]del nostro [illisible chars] e a tutti [illisible chars], e della [illisible chars] quando trova, el che [illisible lines] da comparsa. [illisible lines] che si {p. 11}esibiscono per la sua Compagnia. La narrativa di Egisto nella Merope è il suo pezzo diletto, per conoscere l’altrui abilità. Sdraiato magistralmente, corregge, applaude, biasima, approva, s’ alza dal suo tribunale, tira le braccia al suo discepolo, gli torce il collo, gli piega la vita, e poi non si conchiude nulla. Ogni giorno qualche infelice và alla gran prova, e sappia leggere, o no, egli lo lusinga, vantandosi, per la sua abilità d’insegnare, di poter fare in pochi giorni, un gran Comico, anco di un guattero che non sà l’ alfabeto. Pazienza se i delirii della sua ignoranza si limitassero all’arte sola di recitare ; ma in oltre vuol esser autore, e correttor degli autori. Sicario da Originali, osa con quella roano vilissima, che la saponata faceva per i biricchini del suo Paese, d’aggiungere, di cangiare, di deturpare i sudati scritti de' Poeti, senza rispettare nemmeno il Moliere dell’ Italia, il famoso Goldoni, a cui egli è debitore di tutto quello che al mondo possede. Sprezzatore dell’altrui merito, non fa mai conto de'Personaggi, che recano decoro e vantaggio alla sua Compagnia, crede di bastar egli solo al sostentamento della medesima, lascia andar chi vuole andare, mai non prega nessuno, è villano ed insolente con tutti. Per queste sue pessime qualità egli ha privato il Teatro Italiano del suo migliore ornamento, disgustando la Prima Donna, che allora era seco, e sostenendo un puntiglio contro di lei.

Francesco Bartoli difende con grande calore il Lapy dalle accuse ingiuriose del Piazza…. Forse l’uno e l’altro esagerarono le tinte ; ma io credo assai meno quello di questo. La chiusura dell’articolo del Piazza, per esempio, potrebbe far supporre, in quell’accenno all’allontanamento dalla Compagnia della Prima Donna (la Caterina Manzoni, a cui l’opera del Teatro è dedicata), ch' ella avesse a veder qualcosa in quelle ingiurie ; tanto più che sei anni avanti, nella Giulietta (Venezia, mdcci.xxi), non aveva il Piazza saputo trovare in lei altra dote fuorchè una particolare bellezza, come vedremo all’articolo di questa attrice.

A Giuseppe Lapy si deve più specialmente la importazione forestiera dei drammi così detti lagrimosi che sostituì al teatro di Goldoni, non più tanto proficuo per lui, tradotti a posta da Elisabetta Caminer. Il repertorio dunque della Compagnia fu a iniziativa sua de' più varj, sapendo egli con buon discernimento alternar le commedie, coi citati drammi, e colle tragedie : e di tal discernimento accoppiato a una operosità senza pari, egli potè godersi i frutti nella vecchiaja. « Vive il Lapy tuttavia (1782) – scrive il Bartoli – in buona prosperità, ed ha la consolazione di vedere la sua famiglia incamminata ad un auge, per cui anche dopo la di lui morte rimarrà al mondo una degnissima ricordanza degli onorati meriti suoi. »

{p. 12}In una lettera che si conserva autografa nella biblioteca di Verona, e che trovasi pubblicata nel catalogo descrittivo dei manoscritti della Biblioteca stessa, il Lapy dà ragguaglio da Venezia il 22 ottobre del 1770 a Domenico Rosa-Morando del successo ottenuto colla sua tragedia La Andromaca, già replicatasi quattro sere, e reclama aggiunte e modificazioni per le nuove repliche da farsi quando la quantità delle genti che presentemente sono in Villeggiatura si saranno restituite in Venezia. E anche a lui si raccomanda perchè il signor Girolamo Pompei favorisca i versi che desidera di aggiungere alla sua Calliroe, avendo il bisogno di darla nuova a Venezia, poichè – aggiunge – in questa Dominante, se non si fanno cose nuove, e non vedute, non si fa mai bene il nostro interesse.

Lapy-Belloni Luigia. (V. Belloni-Lapy).

Lapy-Della Seta Laura. (V. Della Seta-Lapy).

Laurenziis Giuseppe Antonio. Recitava – dice il Bartoli – intorno al 1710 ai Fiorentini di Napoli. Era la prima donna della Compagnia di tal bellezza maravigliosa, che il Laurenziis se ne invaghì, corrisposto : e provò, pare, tutti i tormenti della gelosia pel pittore napolitano Domenico Brandi, il quale, affascinato dalle rare doti di lei, riuscì a entrar, con donativi da pazzo, nelle sue grazie. Tormenti assai fuggevoli, chè dopo di averla il Brandi seguita a Roma, in Ancona, a Venezia, vedutosi posposto al compagno d’arte, se ne tornò a Napoli. È veramente strano che di tal meravigliosa bellezza, prima donna rinomata, a detta di Bernardo de'Dominici (Vite de'Pittori napoletani), da cui il Bartoli riferisce la notizia, non sia giunto alcun cenno sino a noi. Forse la Palombera (V.) ?

Lausti Francesco. Lodigiano. È citato dal Bartoli come artista di prosa e di canto. Recitava da comico le parti dell’innamorato, e fu nella Compagnia di Pietro Rossi…. Era però {p. 13}più valente nell’ arte del canto che esercitava con la moglie, alternandola pur sempre con quella di comico, secondo gli tornava più il conto.

Lavaggi Gaspare. Nacque il dì d’Ognissanti del 1849 a Milano, da Giuseppe, cuoco, e da Caterina Checchi. Studiò ben poco agl’ Ignorantelli, poi, giovinetto, fu messo in uno studio d’avvocato, che abbandonò all’insaputa dei parenti per recarsi a recitare in una Compagnia Raspini al Teatro Stadera. Vagò per alcun tempo in accozzaglie di commedianti dell’ infima specie, finchè, udito da Bellotti-Bon, fu da lui scritturato, passando in breve al ruolo assoluto di primo attore giovine, in cui per l’ardore della passione e per la spontaneità non ebbe mai chi gli stesse a fronte. Con Giacinta Pezzana, Cesare Rossi, Bellotti-Bon, Annetta Campi, fu tra'primi ornamenti di quella gran compagnia, che, sbocconcellata di poi, segnò il primo passo della rovina di Bellotti. Da quello sbocconcellamento nacque la società di Pia Marchi, Francesco Ciotti e Gaspare Lavaggi, che per comica brevità solea chiamarsi la Compagnia Ciotti Lavamarchi. Una compagnia tutta freschezza, tutta passione, tutta vita, che fu per più anni la diletta dal pubblico. Lavaggi fece poi società con Zerri ; poi, sposatosi a Giuseppina Boccomini, diventò capocomico solo, con varia fortuna. Scritturatosi colla moglie nella Compagnia di Alamanno Morelli, si recò in America, dove (1881), un colpo d’apoplessia, prostrò d’un tratto quella fibra gagliarda {p. 14}d’artista, che, moribondo, sorretto dalla compagna sua, volle subito essere restituito in patria. Recuperata una parte delle perdute forze, si riebbe così da poter riapparire con la moglie alla luce della ribalta ; ma fu un lampo fuggevole, fu l’ultimo guizzo della lampada vicina allo spegnersi. Fermatosi a Livorno, non bastandogli l’animo di restare estraneo a quell’arte in cui visse più anni acclamato, acquistò le Arene Alfieri e Garibaldi, nelle quali scritturava compagnie di varia specie, conservando con l’ avvedutezza e con la operosità a sè e alla famiglia quella vita di agiatezze che s’ era formata col teatro.

Gaspare Lavaggi fu anche uno de'più eleganti attori della nostra scena di prosa, e se ne compiaceva. Quando non era ancor uomo, nè omai più giovinetto, ebbe la brutta e perdonabile vanità di ripudiar suo padre al conspetto dei compagni, per l’altro Lavaggi, fabbricante di fiammiferi, se non erro. Conosciuta il padre la bambinata del figliuolo, volle farsi un ritratto in perfetto costume di cuoco, con la casseruola in una mano e il mestolo nell’altra, e glie ne mandò una copia.

Del valor suo nell’arte molti testimoni abbiamo negl’innumerevoli giornali. A me basti ricordare qui che se taluno dopo di lui potè avere maggior finezza di recitazione, niuno mai lo superò nell’ardore della passione e nella spontaneità. L'Armando della Signora dalle Camelie, il Ferdinando della Celeste, lo Scoronconcolo della Notte a Firenze, e altre parti di varia indole ebbero in lui un interprete indimenticabile. A Roma pe' 'l centenario di Voltaire gli fu coniata una medaglia d’argento, ed ebbe frequenti onori di rime. Morì d’ un cancro alla faccia a Livorno, nel '98, lasciando un figliuolo, Armando, datosi da poco all’ arte, e che promette, dicono, di mostrarsi degno erede della gloria paterna.

Lavinia. Riferisce il Croce (op. cit.) :

Nel 1662 era a Napoli, tra i comedianti lombardi, ano chiamato Zaccagnino, che recitava da Zanni, « qual godeva una donna chiamata Lavinia, similmente comediante e si stimava che fusse e che non fusse sua moglie, et haveva acquistato con la scena e con gli amanti qualche commodità di considerazione ; questa, com’ è solito dell’oziosa nobiltà {p. 15}napoletana, che oggi si è avanzata assai nel bordello, lussi, ignoranza, e povertà, fu posta in conditione dalli donativi del Principe d’Avellino, dal Principe di Belmonte, et altri nobili et ignobili, che con pochissima moneta la goderono. Venuto frescamente Don Vincenzo Spinelli, Principe di Tarsia a Napoli dal suo stato, cominciò ancor iui a vagheggiar la Lavinia, che volle mascherarsi da Zaccagnino, non bastandolo quello che aveva speso in Calabria a buffoni, comedie, cacciatori, conviti, musica continua, cavalcatori, mastri di scrima, ecc. » In quel carnevale Don Vincenzo Spinelli fece una mascherata, in abito da Zanni, e distribuiva cartelli, fece la scritta : la moglie del Principe Zaccagnino. (V. Fui- doro ms. Bibl. naz. ad an. – ).

Chi si nascondesse sotto questo nome di Lavinia non saprei dire. Antecedenti le sono la Ponti (V.) e l’Antonazzoni(V.), e posteriori l’Isola (V.) e la Torri (V.). Strana coincidenza : mentre nel 1690 l’Anna Maria Torri sosteneva le parti di Lavinia in Compagnia del Duca di Modena, Giulio Cesare Torri quarant’ anni prima (1650) sosteneva quelle di Zaccagnino nella stessa compagnia.

Lavinio. Sosteneva la parte d’innamorato il 1634 nella Compagnia degli Affezionati.

Di lui è detto nella Scena illustrata : Lavinio che s’ingegnava di formarsi un Eco, il quale rispondesse dal Teatro voci di fama al desiderio della sua gloria, udendo il rimbombo delle sue elaborate fatiche.

Lazzarini Luigi. Cominciò a recitar nella Compagnia di Nicodemo Manni, dalla quale passò poi in quelle di Girolamo Brandi, di Pietro Rosa, di Francesco Paganini e di Nicola Menichelli, col quale trovavasi del 1782. Fu reputato attore di pregio così nella maschera di Brighella, come nelle parti d’innamorato, di tiranno e di padre.

Lazzaro Battista. È citato dal Baschet come capocomico in Francia del 1583 all’Hotel de Bourgogne, ma con poca fortuna. Forse, concordando le date e il luogo, questo Lazzaro potrebbe non essere altro da Battista Veronese (V.), o da Battista da Rimino ? E forse non altro da Battista Lazarone, a cui si viene ora accennando ?

{p. 16}Lazarone Giambattista. Una lettera dell’ Arlecchino Martinelli a un famigliare del Duca di Mantova, con data di Cremona 4 decembre 1595, ci dà notizia di questo comico in Compagnia della Diana, al quale il Martinelli fa indirizzar le sue lettere per maggior sicurezza.

Leandro. (V. Pilastri Francesco).

Leigheb Giovanni. Attore brillante rinomatissimo, nacque il 1812 a Venezia da famiglia non d’artisti.

Ernesto Rossi, col quale Giovanni Leigheb fu in società dalla quaresima del '49 a tutto il carnovale del '51, così ce lo descrive :

….. era una buona pasta d’uomo, giovialone, spensierato, ma onesto : era sempre stato in primarie compagnie, Mascherpa, Domeniconi, ecc., ecc. Poco fortunato nelle parti di primo amoroso, passò a quelle di brillante, e fu cosi fortunato il passaggio, che riuscì a contendere il primato a Bel lotti Amilcare, Bellotti Bon, Giardini ed altri che non ricordo. Se tu lo avessi veduto nelle parti di Balandar, nella Catena di Scribe, nel Marchese Ciabattino e nel Bruno filatore, nel Capitano Carlotta, nelle Damigelle di Saint-Cyr, come l’ho veduto e udito io, comprenderesti come abbia potuto trasfondere il suo brio e la sua vivacità al figlio Claudio, che molto rammenta il padre suo. Possedeva una viscomica naturale, una facilità di memoria, una scioltezza di lingua, una castigatezza di gesti e di modi, che lo rendevano atto alla interpretazione ed esecuzione di ogni carattere comico e semiserio. Nella commedia in dialetto veneziano, poi, era qualche cosa di geniale, grazioso, oserei dire inarrivabile. Chi mai ha potuto come lui dar vita alla parte di Ludretto nel Ludro e la sua gran giornata di F. A. Bon ? – Nessuno – tutti gli altri che ho veduto dopo, non furono che pallide copie. Lo stesso Bellotti Bon non lo potè arrivare. Il brav' uomo era carico di famiglia. Aveva moglie, quattro figli e un quinto per via.

I rovesci politici lo avevano ridotto, come me, a chiedere un rifugio ed un pane alla Compagnia Moncalvo, nella quale, come già ti dissi, la paga veniva come la febbre terzana, se le cose andavano per il loro verso ; se poi malandavano un pochino, allora era una quartana, una quintana, e della settimana non restava che la domenica. – Miseria per miseria, dicemmo, facciamo da noi ! se ci sarà un solo pezzo di pane lo divideremo, e ringrazieremo messer Domine Dio.

{p. 17}E qui continua a discorrer della Compagnia, e delle traversie patite pel colera a Trieste, ove perderon la prima attrice Ferrari (V.), e d’ onde fuggirono per recarsi a far l’ autunno a Fiume.

Cessata la società col Rossi, Giovanni Leigheb passò con lo stesso ruolo in Compagnia Colomberti, poi in altre, ora socio, ora scritturato. Morì a Sebenico il maggio del '66.

Leigheb Claudio. Figlio del precedente, nato il 20 agosto del 1848 a Fano, è l’ultimo brillante della vecchia grande scuola, uno de' migliori allievi, se non il migliore, di Luigi Bellotti-Bon, del quale prese e saviamente si assimilò suoni e atteggiamenti.

Esordì bambino nella Compagnia di suo padre, e così, egli stesso, mi descrive i suoi primi passi : « quella che non mi andava giù era la parte di uno dei figli nell’ Edipo Re : non potevo resistere allo strazio di vedere all’ ultimo atto mio padre senza occhi ; anzi, al Filodrammatico di Trieste, una sera, ho piantato tutti e me ne {p. 18}sono andato via di scena piangendo. Si vede che non ero nato per le parti tragiche. Dove però mi son fatto onore fu nel figlio nei Due Sergenti, e nel paggetto milanese nel Parini. » Dopo le peripezie toccate al suo povero padre nel '59, si scritturò come generico giovine, secondi brillanti e mami, in varie compagnie, ultima quella di Sterni, Rosaspina e Bonivento, in cui, animato da suo padre che gli fu primo maestro, finì coll’ assumere il ruolo di primo brillante, mantenuto poi nella Compagnia di Raffaele Lambertini, della quale faceva parte Enrico Capelli e Giuseppina Ferroni, sua moglie, e nella quale stette fino a tutto il carnovale del '67. Dal '68 al '70 fu con Luigi Bellotti-Bon, che nella quaresima del '69, più padre che capocomico, gli organizzò una grande rappresentazione per esonerarlo dal servizio militare, al Teatro delle Logge di Firenze, ove si recitaron Le smanie per la villeggiatura, col concorso del celebrato Cesare Dondini. « Ciò che fece Bellotti per me in quella occasione – egli mi diceva – non posso descrivertelo : un padre non avrebbe potuto fare di più !… Rammentalo e molto nel tuo libro ; ci tengo che lo si sappia. » E questo fervore di riconoscenza non genera meraviglie nella bocca di Claudio Leigheb, che con la rettitudine scrupolosa dell’uomo, con il culto profondo dell’artista si acquistò la benevolenza e la stima di quanti lo conobbero.

Entrò il '71, brillante e primo attor comico, nella Compagnia di Fanny Sadowski diretta da Cesare Rossi ; compagnia nuova, piena di entusiasmi, di giovinezza, di forza. N'eran.parte principale, oltre al Rossi, la Campi, la Zerri-Grassi, la Migliotti, divenuta poi sua moglie a Genova nella quaresima del’73, la Bernieri, Ceresa, D'Ippolito, Giulio Rasi, Pesaro, Bosio, Luigi Rasi, ecc. ecc.

Fu dal '74 al '76 nella Compagnia N.° 3 di Bellotti-Bon, diretta da Cesare Rossi ; dal '77 all’ '81 in quella della Città di Torino, l’'82 con la Marini, dall’ '83 all’ '87 con la Compagnia Nazionale di Roma, dall’'88 {p. 19}al '90 con la Marini, dal '91 al '93 in Società con Novelli, dal '94 al’96 con Andò, dal '97 al '99 con la Reiter.

Sono dunque trent’ anni di vita d’arte vissuta, in cui il trionfo non s’andò mai attenuando, per la modestia grande dell’uomo e dell’artista accoppiata a una volontà di ferro, e ad un rispetto di sè e del pubblico, direi incredibile. Lo stesso fervore di una prima rappresentazione noi troviamo in lui alla cinquantesima replica : rade volte, al momento di andare in {p. 20}scena, egli non rilegge all’ uscio d’ entrata o non ripete a memoria la sua parte per addentrarsi nel personaggio. E che deliziose macchiette egli produsse, rimaste incancellate nella storia del nostro teatro ! Chi non ricorda, per esempio, l’abate del Nessuno va al Campo di Paolo Ferrari ? Che irresistibili effetti di riso in quella misurata, aristocratica comicità ! E con che arte, con che sentimento egli seppe a'suoi ideali piegare i varj generi che si rincorrono, s’incalzano, s’intrecciano con prodigiosa rapidità ! Che nota elegante, che sciccherìa egli ha saputo mettere nel più grottesco delle moderné pochades ! La zia di Carlo, Il marito di Babette ! E quel vario, ricco repertorio di farse, dinanzi a cui scaturivan fresche, spontanee le più gaje risate ? Ricordate L'uomo d’affari ? L'amore dell’arte ? Il paletot ? Narciso il parrucchiere ? E, tra' monologhi, chi meglio di lui, o come lui, direbbe il punto interrogativo di Salsilli ?

Nè v' ha chi abbia maggiore il culto dell’arte : a volte parrebbe mutarsi in esagerazione o in posa, se non si conoscesse pienamente la sua buona fede. Nemico per principio, o per consuetudine, del soggettare, egli ripete il suo testo con una fedeltà scrupolosa. Non mai accolse l’idea di circondarsi d’astri minori per emerger di tra essi come sole, ma volle sempre che le altre figure del gran quadro fosser tra le migliori. Avverso all’applauso o alla risata prodotti da una inconsulta scurrilità, egli sopprime le soverchie arditezze, a scapito non sol dell’ effetto, ma dell’ interesse.

Nè Claudio Leigheb costringe le sue doti nei confini del teatro. Dotato di un singolare spirito di imitazione egli disegna, dipinge, pupazzetta con correttezza e spigliatezza incredibili, mettendo nelle sue macchiette quel sentimento che manca assai volte negli artisti di professione. Anche la scoltura delle castagne d’india entra ne' suoi pregi di artista ; e il Boutet nella Tribuna della Domenica gli dedicò a questo proposito un grazioso articolo illustrato.

Di lui scrisse anche Tommaso Salvini : e credo di non poter finir meglio questo breve cenno, che riferendo qui le sue parole :

{p. 21}Claudio Leigheb è l’attore comico più castigato e più preciso ch'io m’abbia conosciuto ! Egli possiede il segreto di esilarare con modi e mezzi sempre dignitosi, e col non lasciarsi trasportare dall’uditorio, che spesse volte, a torto, pretende più di quello che l’arte deve concedere. È un artista che non pone mai il piede in fallo, sia che tratti il genere totalmente burlesco, sia che a questo si congiunga alcun che di serio : coscienzioso esercita la sua arte religiosamente, e l’unico appunto che mi permetto di fargli è quello di mostrarsi talvolta, nella movenza della fisonomia, nell’intonazione di qualche frase, troppo imitatore del non mai abbastanza compianto egregio artista Bellotti-Bon. Non pertanto il Leigheb resterà indimenticabile negli annali della storia dell’arte.

Due suoi fratelli, Achille ed Ugo, seguiron l’arte del padre ; il primo come brillante, artista mediocre, fermatosi poi a Bologna a insegnarvi recitazione : il secondo generico e secondo carattere, coscienzioso, accurato, che recitò quasi sempre al fianco di Claudio.

Leigheb-Migliotti Teresa. Moglie del precedente, seconda donna, magnifica di forme, ha serbato nella fatale corsa del tempo, la espressione d’infantile gioialità, che la fece sempre {p. 22}una delle più simpatiche attrici del teatro italiano di prosa. Nata a Carmagnola, cominciò ad esercitarsi bambina coi filodrammatici della Malfatti, recitando poi talvolta in piemontese coll’artista Gemelli. Entrò il '72, ancor giovinetta, nella Compagnia della Sadowski, come prima attrice giovane e amorosa sotto l’Annetta Campi, passando, dopo non molti anni, nello sviluppo precoce della persona, alle parti di seconda donna, che non abbandonò più.

Lelli N. Bolognese. Recitò con molto plauso le parti di Dottor Balanzoni nelle Compagnie della Battaglia, del Paganini, del Perelli e della Colleoni. Abbandonata l’arte, si restituì in patria, ove stette più che trent’anni. Molte notizie di comici del suo tempo furon da lui date al Colomberti, che le affidò in vario tempo alla carta, se non con perfetta esattezza, certo con moltissima cura.

Leonardi Giacomo. Veronese, alternativamente Brighella e padre nobile, fu artista egregio così nel premeditato, come all’improvviso. Fu lungo tempo con la Battaglia, il Sacco, e il Lapy. Scrupolosissimo ne'suoi doveri, non lo era meno ne'suoi diritti. Un giorno di ritardo nello spesato, provocava il suo immediato licenziamento dal capocomico. Non volle che la moglie recitasse per non esser distratta nelle faccende di casa, ch'ella dovea fare con matematica precisione : e guai se la colazione, il pranzo o la cena subiva qualche ritardo. Alla stessa ora, per tempissimo, s’alzava, e studiava la parte se premeditata, o passeggiava su e giù per la stanza, se improvvisa, componendo, ricomponendo lo sceneggio e i discorsi. Giunto a casa dalle prove, solea far l’ispezione alla casa, per ben accertarsi che tutto fosse a suo posto. Questa specie di orologio vivente morì a Venezia sui primi di questo secolo.

Leonardo. Era secondo e terzo amoroso a vicenda con Odoardo nella Compagnia che desiderava di unir Fabrizio (V.) pel 1664 al servizio del Duca di Modena.

{p. 23}Leonesi Alamanno, bolognese, dopo essere stato applauditissimo filodrammatico, andò nel 1825 con Fabbrichesi in qualità di padre nobile a sostituir De Marini ne'suoi riposi. Morto il Fabbrichesi, passò con Angelo Rosa, poi con altri, sinchè affari di famiglia nol richiamarono a Bologna, ove cessò di vivere nel 1840.

Libanti Giovanni, nato a Verona da onesti parenti nel 1756, entrò, compiuti gli studi di latino, nella Cavalleria de'Cappeletti al servizio della Repubblica Veneta. Lasciata poi la milizia per l’arte della scena, si scritturò quale amoroso dando subito prova di certa riuscita, mercè le sue doti fisiche e intellettuali che mostrava con ugual successo e nel premeditato e nell’improvviso. Fu acclamatissimo nella Compagnia di Domenico Narini, poi al S. Luca di Venezia in quella di Luigi Perelli, nella quale si sposò colla giovane attrice Chiara Mattordese. Passò da quella del Perelli nelle Compagnie di Marta Coleoni e di Maddalena Battaglia, colla quale, al S. Gio. Grisostomo di Venezia, il carnevale del 1800, creò la parte di protagonista nell’ Abate della Spada, traduzione dell’Andolfati, che replicò fra le universali acclamazioni per undici sere. Fu due anni a Napoli con Giacomo Modena, poi con Antonio Goldoni col quale creò il protagonista nel dramma l’Incognito, che replicò diciotto sere a Torino e venti a Venezia, il carnevale del 1806, traendo il pubblico all’entusiasmo. Ma fu l’ultimo carnevale per lui, chè una fiera improvvisa malattia gli troncò la vita a cinquant’anni.

Liberati Urania, detta in commedia Bernetta, recitava le parti di serva, nella Compagnia che l’Arlecchino Tristano Martinelli (V.) condusse a Parigi nel novembre del 1620.

Lidia detta Da Bagnacavallo. Attrice famosa, intorno alla quale e antichi e moderni hanno fatto il più fitto bujo che si possa dire. Trascrivo le parole del Garzoni :

[…..] non lascio da parte quella Lidia gentile della patria mia, che con si politi discorsi, e con si bella grazia, piangendo un di per Adriano, lasciò in un mar di pene l’affannato core di quel poeta, che perso nel suo amore, le mandò quel Sonetto, che comincia,

Lidia mia, il di, che d’ Adrian per sorte
ti strinse amor con mille nodi l’alma,
io vidi il mar, che fu per lui si in calma,
a me turbato minacciar la morte.

Che dopo le ricerche di Fr. Bartoli col dato di una intera quartina non si sia ancora trovato questo intero sonetto, mi pare un po'strano : e oserei supporre esser opera inedita dello stesso buon concittadino Garzoni. Ma di lui, o del Sommi, come suppone il D'Ancona, non monta. Che la Lidia fosse una donnina allegra, credo si possa affermare, richiamandoci alla memoria quei versi di Bartolommeo Rossi, veronese, comico confidente, il quale nella sua Fiammella (Parigi, Abell’ Angeliero, 1584) fa dire nell’atto III, scena VI, a Bergamino :

Ho vist la Lidia, ma quel so marit
mai non l’ho vist, ma pens che 'l sia andat
dentr'el Zodiaco, per formar quel segn
che scomenza l’invern……

Intanto dunque la Lidia, giacchè d’altre Lidie di quell’epoca non è pervenuta a noi notizia, aveva marito.

Quanto all’essere stata l’amante del Valerini, prima o dopo la Vincenza Armani, vediamo : l’Armani era morta nel 1569, e il Valerini pubblicò l’orazione funebre nel '70. Nel '71 i Gelosi andarono in Francia con Orazio, Adriano, e Lidia ; e Fr. Bartoli dice che la Lidia da Bagnacavallo fioriva nel '75 circa. A me parrebbe dunque molto più logica la deduzione che il Valerini dopo la perdita dell’Armani, traesse conforto dalle grazie della Lidia da Bagnacavallo.

Forse Lidia era già in Compagnia, quando viveva l’Armani ? Il Rossi nella pastorale citata fa dire a Bergamino che

La Signora Vincenza i so cavai
de bianc son trasmutad tutt in carbon.

{p. 25}I so cavai ?… I so cavei ?… I capelli della Vincenza tinti ?… Avea i capei lunghi di finissim’oro, dice il Valerini. O eran questi del Rossi comici non a noi pervenuti ? Eppure l’unione di questi tre nomi, Vincenza, Lidia, Orazio, potevan benissimo essere insieme a quell’epoca : Orazio era il Rossi stesso, autore della Fiammella. E se Lidia era nella Compagnia con la Vincenza, forse dovette ella entrare un po', per dispetto, invidia, e gelosia, nell’attossicamento dell’Armani ? Forse la Lidia è nome di guerra preso dopo la morte dell’Armani, la quale sappiamo chiamarsi così appunto nelle commedie ? Naturalmente il Garzoni allora avrebbe parlato di lei, morta l’Armani, poichè, rimpiazzatala nel ruolo di prima donna in commedia, ebbe modo soltanto allora, sotto il nome di Lidia, di spiegare i suoi forti talenti artistici : assai diversi, veramente, da quelli dell’Armani, se stiamo ai due ritratti di virilità e di maestà nell’una, del Valerini, di gentilezza e di grazia nell’altra, del Garzoni. Ma chi si nascondeva sotto questo nome di Lidia ?… Nessuna risposta.

Limbergher Gioacchino. Fu tra'comici della Compagnia italiana in Dresda, e sosteneva il ruolo di amoroso. Prese parte il carnevale del 1749 alla rappresentazione Amor non ha riguardi (V. Bastona Marta), e nel 7 febbraio 1752 a quella del Zoroastro (V. Arbes (D') Cesare), in cui sosteneva il personaggio di Abramane, primo sacerdote degli Idoli.

Gioacchino Limbergher, o Limperger, fu de'peggiori se non il peggiore della compagnia. Così ce lo descrive l’anonimo critico di Stuttgart nel suo Contributo alla storia e alla prosperità del Teatro :

Gioacchino Limperger è giovane ; ni arte, nè natura lo innalzano. È di media statura, magro, e di una fisonomia molto stupida. La andatura, l’azione, la parola sono forzate ; dovrebbe imparare a ballare. Le mani e i piedi gli sono d’impaccio ; e a volte non sa come muoverli. Non par fatto per il teatro. Il sao ruolo è di un giovane amoroso che ha poca intelligenza, ed è ciò che gii si conviene.

Lipparini Angelo, nato a Bologna il 1801, si diede giovanissimo all’arte, esordendo in compagnie secondarie nel ruolo {p. 26}di amoroso : e tanto vi progredì, che nel biennio '28-'29 lo vediamo primo attore assoluto nella rinomata Compagnia di Lucrezia e Amalia Bettini. Sposata poi la vedova dell’attore Iarcos, Marietta Borgi, pregiata servetta. formò compagnia, mantenendosi per quasi un trentennio uno de'più esperti capocomici. E dice il Colomberti nelle sue note che la Compagnia del Lipparini, non mai primaria per celebri attori, non fu mai secondaria a nessun’altra per piacere al pubblico delle primarie città d’Italia. In essa nonostante, al fianco della Marietta, già di per sè un de'più grandi ornamenti, militarono la Santoni, la Fumagalli, il Coltellini, il Marini. Avanti il '60 il Lipparini, abbandonato il teatro, si restituì in patria, dove morì sul cadere del '79.

Lasciò molti figli dedicati all’arte paterna, tra'quali uno che sposò Lucrezia Bettini, figlia della celebre Amalia.

Lipparini-Borgi Marietta, moglie del precedente, già vedova dell’artista Giovanni Iarcos, nacque il 1810, e morì a Bologna l’ottobre del 1880.

Principal colonna della compagnia di suo marito, fu con lui dal '29 al '60, sorgente non interrotta di lauti guadagni. Dice il Colomberti che « nulla potevasi vedere sulla scena di più grazioso. Il di lei spirito, le grazie, la civetteria decente e gastigata, una profonda conoscenza del carattere della sua parte, e tutto ciò unito ad una figura non alta ma proporzionata perfettamente, congiunta ad un bel volto adorno da due occhi nerissimi pieni di malizia, e ad una voce, benchè un poco nasale, gratissima all’orecchio : tutte queste belle doti la rendevano la favorita del Pubblico. Non si creda però che il Lipparini s’illudesse sul merito della moglie : egli se ne serviva in caso di bisogno anche come Prima Donna, ma non dimenticava che questa è il vero pernio di una Compagnia…. »

{p. 27}Livini Ferdinando. Artista di molto pregio per le parti di primo attore così in commedia come in tragedia, poi di brillante, nacque a Pisa il 1790 da civili parenti. Fatti gli studi in quella Università, si diede all’arte comica, la quale esercitò dapprima in compagnie di second’ordine, poi in quelle primarie di Taddei, di Raftopulo, e di Tessari, Prepiani e Visetti ai Fiorentini di Napoli il 1825, sostituito poscia dal Gottardi, nel qual tempo abbracciò il ruolo del brillante. Datosi poi al capocomicato, percorse il Regno di Napoli e Sicilia, ma con non troppa fortuna. Morì a Foggia nel 1845.

Locatelli Domenico, detto Trivellino in teatro, recitava mirabilmente le parti di spiritoso intrigante, in costume di arlecchino senza la maschera. Dovè recarsi a Parigi verso il 1644, perchè il 9 gennaio dell’anno seguente fe'battezzare nella chiesa di Saint Germain-l’Auxerrois, un figlio per nome Carlo Francesco, ch'egli ebbe dalla moglie Luisa Gabrielli (comica anch'essa, sotto nome di Lucilla, che recitò molto applaudita nella Finta pazza di Giulio Strozzi), tenutogli a battesimo da Francesco di Bassompierre, maresciallo di Francia, e da Anna Dufay per conto dell’alta e potente principessa Carlotta-Mar- gherita di Montmorency, principessa di Condè. Non c’è male ! Domenico Locatelli era amato e stimato alla Corte, e il padre di Gueullette che lo sentì recitare, affermava essere stato valentissimo artista. Del '48 compose in francese l’argomento della commedia italiana, Rosaura Imperatrice di Costantinopoli, recitata poi al Petit Bourbon soltanto nel '58. Ma del '51 e '52 lo vediamo in Italia, come appare dalla supplica del 10 agosto 1651 da Verona, di cui s’è parlato al nome di Fiala Giuseppe Antonio ; e da queste lettere che riferisco inedite dall’Archivio di Modena, in cui troviamo anche notizia della moglie Gabbrielli :

Ser.mo Sig.re mio S.re e Prone. sempre Coll.mo

Hieri mandai un piego per un Padre zoccolante a V. A. Ser.ma con le lettere dell’ordinario di venetia e di milano sono anciosissimo di sapere se V. A. S. le habbi hauute per mia quiete.

{p. 28}Triuellino hieri sotto la parola del S.r Co. Baiardi fu attacchato alla corda in Piazza, e poi fu rilasciato per il manchamento comesso l’altra sera, e recitò hiersera. Ottauio è ritirato nel Carmine e non se lasciato trouare, che ha timore di peggio, ma S. A. S. è addirato contro di lui, e piu d’ogn’altro un Nobile venetiano, che si trouaua in modena che haueua seguito lucilla moglie di Triuellino nella quale è fieramente inamorato, parti la mattina subito da modena questo Nobile cum mali pensieri uerso Ottauio, Che è quanto e sucesso sin’hora e ui sia di nouo, e faccio hum.ª et oseq.ma riuerenza a V. A. Ser.ma Modena li 3 febraio 1652.

Di V. A. Ser.ma Huni.º e dev.mo Ser.e oseq.mo sempre
Alessandro Superchi.
Ser.mo Sig.re mio Sig.re e Pron. sempre Coll.mo

Questa passata notte alle X hore mi sono comparse le lettere di V. A. S. e in conformità de suoi da me ambiti comandi ho recapitato subito la sua al S. Sassi ; quella della S. marchese Constanzo questa mattina.

Hiersera i comici nell’ultimo atto della comedia uenerono un pocho alle mani, cioè Triuelino e Ottauio dentro pero, e dicono che fosse Triuellino che dasse un pugno ad ottauio. che subito cio seguito Triuellino uenne fuori senza maschera e domandò perdonanza allo Ser.mo S. P.e che si trouaua alla comedia, sin hora non si è ueduto alcuna dimostratione di castigho, e si spera anchora che S. A. li perdoni.

Inuio a V. A. S. le annesse littere uenute di venetia e portate dall’ordinario di milano, Che sarà il fine col fargli hum.ª et osseq.ma riuerenza. Modena li 2 febraio 1652.

Di V. A. S. Hum.º e deu.mo Ser. uero e oseq.mo
Alessandro Superchi.

Tornò poi nel '53 a Parigi (vedi il brano di lettera del 16 agosto nella Muse historique di Loret, riferita al nome di Adami Beatrice), sposò il 9 giugno del '65 in seconde nozze e alla presenza di Cristoforo Contugi detto l’Orvietano, di Giuseppe Giaratoni, Pierot, e di altri, Maria di Creil vedova di Francesco de Houpy. Sotto questa data abbiamo un ordine di pagamento dal tesoro reale a Domenico Locatelli di lire 1200 per la sua pensione dell’anno stesso. Morì a cinquantotto anni il 26 aprile del '71 e fu sepolto il dì dopo nella chiesa del convento dei Grands-Augustins. Era nato dunque il '13, e andò in Francia la prima volta a trentadue anni. Robinet, continuatore della Muse historique di Loret, così annunzia la morte di Locatelli nella sua lettera del 2 maggio 71 :

La Parque souvent très-cruelle,
(o justes cieux ! quelle nouvelle !)
par un tour traître & fort vilain,
{p. 29}nous vient d’enlever Trivelin,
qui dedans la troupe italique,
etoit un si charmant comique :
elle a fait ce tour, par dépit
comme je crois, de maint repit
qu’il falloit que la maricaude,
qui ne veut pas que l’on la fraude,
accordât, sans nul doute, à ceux
qui voyoient ce facétieux,
lequel leur inspirant la joye,
lui ravissoit ainsi sa proye.
O vous, qu’il a fait vivre ainsi,
daignez donc en lisant ceci,
faire pour lui quelque prière,
c’est le moins que vous puissiez faire.

Pel ritratto e costume di Locatelli, V. Cantù Carlo.

Lodovico da Bologna. (V. Bianchi De Ludovico).

Lolli Eustachio. Recitava il 1650-51 nella Compagnia del Duca di Modena le parti di Zanni sotto il nome di Fichetto. Di lui non abbiamo altre notizie che queste rintracciate in alcune lettere dell’Archivio di Modena, fra cui la seguente allegata a un’altra del comico Nelli, che riferisco intera :

Al nome di Dio

Noi sottoscritti Comici facciamo fede come sono uenute da Padoua tre lettere dirette a fichetto nostro compagno, scritte da Cauaglieri di colà, con le quali ci persuadono a non andare a recitare in quella Città, altrimenti scoreremo graui pericoli per essersi diuisa la Città nel prethendere, chi la nostra Compagnia, e chi quella della Sig.ra Armellina, che per ciò ci consigliano a non andarui per non mettere a rischio la uita d’uno di noi ; le quali tre lettere se gli è ritirato a se un Cauagliere Bolognese hauendoci imposto il non palesare ne lui, ne chi ha scritto le suddette tre lettere. In fede di che noi tutti habbiamo sottoscritto per far conoscere, che è la uerità, e non inuenzione, ne della Sig.ra Angiola, ne del Dottore suo marito ecc.

ioisabella Franchini detta Colonbina afermo quanto di sopra.

IoBernardCoris detto Siluio comico affermo quanto di sopra si contiene.

IoEustachio lollifichetto affermo quanto di sopra.

IoGio. Andrea Zanotti detto Ottauio affermo ecc.

IoGiuseppe Albani detto Pantalone affermo.

IoGiacinto Bendinelli detto Val.º affermo ecc.

{p. 30}Ma il Duca di Modena non si lasciò intimidire dalle minaccie di quei cavalieri, e diè ordini, col mezzo dell’ Obizzi, al Podestà di Padova, perchè senz'altro la sua compagnia si recasse a recitar colà, com’era già stabilito. Ai quali ordini seguì la seguente lettera dell’Obizzi :

Ser.mo mio Signore

Ho presentata la lettera di V. A. al Sig.r Luigi Molino hora nostro Podestà, col quale non ho hauuto mestieri d’accompagnamenti di parole per indurlo a seruir V. A. professandoli egli, come sa, grandissima diuozione, e credo non rispondere se non l’ordinario che uiene in riguardo di douer mandar la lettera in Senato per le loro strette proibizioni. Veramente io come quello che suol prouedere ogni anno questa città di comici, non sapendo la mente di V. A. hauea promesso il luogo coll’assenso de'Rettori alla compagnia di Parma, ma subito riccuuti i commandi di V. A. ho scritto, che si prouedano, e pertanto la supplico deuotamente a commandar a Fichetto, e compagni che siano qui per l’ottaua di Pasqua, e m’inchino a V. A. humilissimamente. Di Padoua l’ultimo d’aprile 1651.

Di V. A. S. humiliss.mo e fedeliss.mo Ser.re
Pio Enea degli Obizzi.

Di fuori : Al Duca di Modena.

L'avere scritto quelle tre lettere accennate a Fichetto, e non ad altri, e l’avere scritto l’Obizzi di « comandare a Fichetto e compagni, ecc. ecc. » prova mi pare che il Lolli avesse in quella compagnia principalissima parte.

Lolli Giovan Antonio. Abbiamo in molte lettere dell’Archivio di Modena precise notizie di questo comico, il quale fu rinomatissimo artista sotto la maschera del Dottore, e col nome teatrale di Dottor Brentino, a differenza del suo omonimo Giovan Angiolo Lolli che sotto la stessa maschera fu celebre in Francia col nome di Dottor Baloardo. La prima notizia troviamo in una lettera del 1661, che ci fa sapere come innanzi a quel tempo il Dottor Brentino facesse parte della Compagnia del Principe Alessandro Farnese. È lo stesso Duca di Modena che si rivolge al Cardinal Legato di Bologna, pregandolo di chiamare a sè il Lolli e di persuaderlo con belle promesse ad accettare l’invito di far parte della Compagnia del Duca, al che pare si fosse mostrato renitente.

{p. 31}Da un’altra lettera del 30 giugno 76 di Don Alfonso d’Este si apprende come il Dottor Lolli fosse in Francia. Ma il '77 era a Verona al servizio del Duca di Modena. Il '79 si trovò a recitar nientemeno che a Londra…. con disastrosi resultati, ch'egli stesso ampollosamente e comicamente ci apprende in una preziosa lettera del '79 che pubblico integralmente :

Ill.mo et Ecc.mo Sig.or Sig.or et Padron Col.mo

In fine, la Suprema bontà, di Sua Altezza Reale là Sig.ra Duchessa di lorch, là quale non inuidia punto la Generosità del nostro Ser.mo Padrone, hà ottenuta là dà noi tanto desiderata licenza ; doppo esser stati per tre mesi Infruttuosi appresso questa Real Corte, è quello che piu importa anco à noi stessi, non hauendo potuto rapresentare che solo u…. sei Comedie con Pochissimo Applauso, è niente d’Vtile ; È be[nsi vero] Però che si hebbe già in due uolte per ricorso fatto alla Nos[tra] Ser.ma Prottetrice è Padrona, cento cinquanta Pezze, è si die[de] tredici Pezze per uno ; beuanda, che serui non per smorzare ma per accendere maggiormente là sete à questo Idropico corpo di Compagnia ; Potati che furono à pena i Rami dei Vechio debito, ripulullorno in breue in tanta copia che mossa di nouo à Pietà là Prodiga mano di Sua Altezza Reale hà ritrouato il modo di sradicare questa infruttuosa Pianta. Indi in quantità sufficiente seminando Argenteo Sale nel fertile terreno della nostra Pouertà, già sterille l’hà reso ; Siamo dunque richi, perchè la Compagnia [è| senza debiti ; Infermità, che ci haueua ridotti poco [più] che alli estremi ; se con Aurei siroppi non ueniua cu[ra]ta ; Piaga così Vasta, che per medicarla Vna sol uol[ta] è stato neccessario Adoprare ottocento Pezze ; rissanati dunque, senza altra licenza del Medico, Vogliamo mutar aria à Dio Piacendo, è si i disgusti ch'io prouo dà questa turba di Compagni sregolata, non mi fanno ricadere, spero di ritornare con salute à riuedere il Panaro, terminato che haurò di piu mirare l’Abhorito Tamiggi ; Attendo perciò un Ostro fauoreuole per scostarmi quanto prima dà questi lidi ; Nel’ quali' tempo là prego di nouo à non scordarsi di me'è di quanto nel’ultima mia lè scrissi poichè là mia Flemma si è resa in tutto è per tutto in habile à poter più proseguire auanti ; ò mutatione di Compagni, ò libertà ; Londra li 17 febraro 1679.

Di V. E. Hum.mo Ser.re Deuot.mo
Gio. Antonio Lolli detto il Dottore Comico.

Di fuori : Al’Ill.mo et Ecc.mo Sig.r et Padron Col.mo il

Sig.r Don Alfonso D' Este

Franca per Mantoa Modena.

A questo viaggio di Londra si riferisce l’altra sua lettera da Lione al comico Francesco Delli Angioli (V.). Con lettera del 3 marzo 1683, il Duca di Mantova scriveva al Duca di Modena, per chiedergli insieme ad altri comici il Dottor Brentino, da aggregare alla propria compagnia.

{p. 32}Ma il Duca di Modena continuò a tener compagnia, e in essa il Lolli, di cui abbiamo la seguente lettera curiosissima :

Altezza Ser.ma

Gio. Antonio Lolli Allias Dottor Brentino Comico, Humil.mo Seruitore di Vostra Altezza Serenissima Doppo di hauere per lo spatio di anni otto seruito con ogni Decoro et honoreuolezza al’ Altezza Vostra fù Già Vn’Anno sà suori di tempo, è senza alcun’Demerito, Dal’Sig.re Don Alfonso, licentiato dal’Ser.mo Seruiggio, à conditione però, di non passare i monti fuori di Itallia, nè di impegnarsi con altri Prencipi ; ondè non hauendo in dodici mesi potuto Impiegarsi nella Comica atteso lè circostanze Sud.te fù neccessitato ricorrere con lettere all’ Sud.to Sig.r Don Alfonso per qualche Sollieuo più Volte Mà sempre senza frutto. ondè ridotto in estrema Neccessità, è Carico di Debiti ; ricorre con Profonda humilta à Piedi di Vostra Altezza Ser.ma Supplicandola à Volere con occhio Pietoso riflettere alla sua Causa non hauendo doppo un’Anno Perduto ; modo di sostentarsi, che di tanta Gratia. Quam Deus &.

Di fuori : Memoriale

All’ Altezza Ser.ma Dell’ Signor

Duca di Modena

Per Gio. Antonio Lolli Comico

detto il’ Dottore.

(Rescritto della Cancelleria) prouisto 21 maggio 1686.

Infatti nel maggio '86 egli figurava nella lista dei comici del Duca, al fianco dei coniugi Fiala, di Antonio Riccoboni, di Carlo San Giorgi, ecc. ecc., ai quali per sussistenza furono assegnate due doppie il mese. E lo troviamo del '92 sempre al servizio del Duca, a cui scrive da Ferrara Luigi Bentivoglio, pregandolo di concedere la permissione al Dottor Brentino di trasferirsi a recitar colà nella compagnia da lui protetta.

Altro non mi fu possibile rinvenire, specialmente per quanto potesse concernere un suo grado di parentela con Fichetto e col Dottor Baloardo, dei quali era contemporaneo.

Lolli Giovanni-Batista-Angelo-Agostino. Bolognese, nato circa il 1628, fu reputatissimo attore in Francia sotto la maschera del Dottore, col nome di Grazian Baloardo. Il Tralage in una sua nota manoscritta parla della eccellenza de'costumi di Lolli, il quale, un po'fors’anco per questo, e un po'pel suo nome di Angelo, era noto più specialmente col nome di {p. 33}l’Ange, o Lange, col quale anche talvolta si firmava. Fece rappresentare nel '70 una commedia intitolata Le Gentilhomme campagnard, ou les Débauches d’Arlequin. Sposò Patrizia Adami (V.), servetta col nome di Diamantina, insieme alla quale fu naturalizzato francese il 16 giugno del 1683, e si ritirò dal teatro, a cagione dell’età e de'malanni, nel 1694, con una pensione di mille lire, sostituito da Marc’Antonio Romagnesi, che avea recitato sin allora gli amorosi. Giov. Angiolo Lolli morì a Parigi nel suo domicilio, rue du Croissant, il 4 novembre 1702, e fu sepolto l’indomani nella chiesa di Sant’ Eustacchio.

Il Loret, nella Muse historique del 14 febbraio 1654, così ci apprende una disputa sorta fra il Dottor Lolli e il Pantalon Turi :

Baloardo Comèdien,
lequel encor qu’ Italien,
n’est qu’un auteur mélancolique,
l’autre jour en place publique,
vivement attaquer osa
le Pantalon Bisognosa,
qui pour repousser l’incartade,
mit soudain la main à l’espade,
et se chatoüillérent long-tems,
devant quantité d’assistans ;
qui croyant leur combat tragique,
n’être que fiction comique,
laissérent leurs grands coup tirer,
sans nullement les sèparer.
Si le conte, ou l’histoire n’erre
Baloardo tombant par terre,
s’écria « Dieu ! quelle pitié !
les François ont peu d’amitié !
{p. 34}Ayant commencé de combattre,
nous pensions qu’on nous tint à quatre ;
sans cet espoir nous n’eussions pas ;
nul de nous n’étant sanguinaire ;
on nous a pourtant laissé faire,
Donc pour m’être un peu trop hâté,
je suis navré par le côté.
Veramente queste personnes
ne sont ni courtoises, ni bonnes. »
Tout chagrin, tout pâle & transi,
Baloardo parloit ainsi,
en regardant saigner sa playe.
Que l’aventure, ou non, soit vraye,
en la saison de maintenant,
tout est de carême prenant.

Lollio Carlo. Nacque a Bergamo nel 1832, e, terminati a pena gli studi ginnasiali, entrò aspirante nel Tribunale di prima istanza ; ma, perseguitato dal governo austriaco pei suoi sentimenti patriottici, fu costretto ad esulare, e consacrarsi alle scene, esordendo nell’autunno 1852 con la drammatica compagnia di Nicola Cola. Venuto a mancare il primo attor giovane in Compagnia Domeniconi, egli fu chiamato a sostituirlo, facendo subito bella prova con la parte di Emanuele nel Segreto. Passò, dopo un triennio, nella Compagnia di Luigi Santecchi, ov'era Enrichetta Abati, che divenne poi sua moglie, indi, assunto il ruolo di primo attore assoluto, nella lombarda diretta da Zamarini. Tentò il capocomicato in società con Federigo Boldrini, ma con poca fortuna ; e si scritturò, terminato l’anno, e per un triennio, con Giuseppe Trivelli, col quale ebbe la fortuna di recitare al fianco di Gustavo Modena, sostenendo le parti di David nel Saul, di Nemours nel Luigi XI, di Lowendegen e del Duca d’Alba nel Cittadino di Gand.

Da quella del Trivelli passò nelle Compagnie di Gaspare Pieri, di Pieri e Dondini, di Colomberti e Casilini, e di Lupi. Entrò poi in società con Augusto Bertini e Leontina Papà, e diresse, a Napoli, la Compagnia del Teatro Nuovo, impresario {p. 35}il Luzi. Fu inoltre nella Compagnia n.º 2 di Fanny Sadowski, diretta da Luigi Monti, da cui si sciolse il '76 per la morte della moglie, diventando di bel nuovo capocomico, e inaugurando il giugno di quell’anno il Politeama Alfieri di Genova. Fu con la Pezzana in Ispagna e Portogallo, e, tornato in Italia, con Bollini ; passando poi di società in società fino all’anno, in cui fu nominato Professore secondario alla R. Scuola di Recitazione di Firenze.

Ebbe dall’ Abati una figliuola, Antonietta, già seconda donna, poi prima, moglie dell’artista Giuseppe Strini, e sposò in seconde nozze l’attrice Annetta Cavallotti, da cui ebbe due figliuoli.

Dire della squisitezza dell’animo e della integrità di Carlo Lollio non potrei. Mite, affettuoso, debole financo, si faceva leone contro la umana ingiustizia. Di fronte al suo dovere di uomo onesto non conosceva ostacoli. E questa sua rettitudine senza pari gli costò la vita. Disfatto dalla malattia di cuore, impotente quasi a muoversi dal letto di morte, con uno sforzo supremo un giorno levò il capo, e si diede a sciamare con voce rotta dal pianto : « perdono ! perdono !… perdono tutti ! perdono tutto !… » E dopo qualche giorno, il 22 nov. 1893, morì ; e io nulla ho più da aggiungere, ubbidiente e devoto all’amico, al padre, al protettore e difensore mio ; ma voglio qui, in questo libro, ov'è trasfusa tanta parte di me, chiudere i cenni della vita di Carlo Lollio con una parola : gratitudine !

{p. 36}Lombardi Bernardino. Recitava le parti di Graziano nella Compagnia dei Comici Confidenti, che tanto grido levaron tra noi e in Francia nella seconda metà del sec. xvi. Non è ben chiarito in quale epoca si recassero a Parigi, ma non prima, pare, del '75 ; nè in quale si fondessero coi Gelosi, formando la Compagnia dei Comici Uniti, e da quelli poi si risciogliessero. Al nome di Alberghini-Angelica, è pubblicato il madrigale di Cristoforo Corbelli che generò la notizia data dal Quadrio della loro unione circa l’ '80. Ma una supplica pubblicata dal Belgrano abbiam nell’'83 di Bernardino Lombardi a nome degli Uniti Confidenti per recitare a Genova nei mesi di aprile, maggio e giugno, ed altra ne abbiamo nell’'86 al Senato Genovese, de'soli Confidenti.

Fu il Lombardi anche autore di una commedia in prosa, intitolata l’ Alchimista, e dedicata a Giulio Pallavicino (Ferrara, Baldini, 1583, poi Venezia, Sessa, 1586, e Spineda, 1602), in cui, scrive Adolfo Bartoli nella sua introduzione agli Scenarj, « noi troviamo quello che è così raro nella commedia italiana del secolo xvi, qualche carattere studiato e disegnato. La satira dell’Alchimista è ben fatta, e Momo, Lucrezia, il servo Volpino hanno qualche originalità, si staccano dal solito e monotono convenzionalismo di quasi tutti i personaggi drammatici del cinque e seicento. Le stesse Nafissa vecchia ed Angelica cortigiana si può asserire che non sono come tutte quelle altre infinite cortigiane e vecchie della scena italiana. »

Alla fine di essa è un suo sonetto, non brutto, al Pallavicino, che il Bartoli riferisce nel suo cenno : ma io preferisco metter qui una scena del Graziano (la 3ª dell’atto II), la quale ci darà meglio un’idea dello scrittore e dell’artista :

III

Pocointesta & Gratiano

Poc. Che cosa vorrà il suo seruitor dal mio patrone cosi allo scuro, che non ne habbiamo anchora tredici del Mese ? & sono decinoue miglia sonate in torre di Nona, & non ho finito ancho il primo sonno, & la patrona della sua serua mi manda, per ch'io parli col mio padrone : ma eccolo a fede mia, e nò burlo già, che volete voi da me ?

Gra. Desedet zucca senza sal, tu duorme an ualenthom, Oh quand qstu no dorm l’è pur vizilant as pò ben dir che essendo con mi, ch'ai sia insiem du huomn dlla caplina {p. 37}lu in te la tutia, e mi in quel ch se sa. Dim Pocintesta, che cosa voi similitudinar quel che t’hà in quel Alcest ?

Poc. Mad. s’io vo dal patrone, volete ch'io mi leui di questo letto, o pure ho d’andarui cosi ignudo : horsu apritimi la porta, e fatemi lume, che gli è vn giorno di notte, che par di mezzo Agosto. o bel solaio alla sala del mio patrone ; ho patrona dite al messere, che non voglio leuarmi.

Gra. A son masculin, e no famulin, & ti no nie in casa, ne in tal lett es t’auuri i occhi t vedrrà se ti no srà orb, dim vn poc, mat purta qle rob, cha t’ho scritt in qella plizza.

Poc. Eccoci il giorno, ma chi mi ha portato qui senza mia licenza, & m’ha riuestito, che paio vn huomn di legno ? patrone son qui ; perchè M. & il mio messere con Pocointesta madorono la casa del seruitore in villa p portare in vn cesto le corna del bufolo caprino, che voi sete, suo amico.

Gra. Tn sa dir al to concet, zuè la tua vpilation, tu vuo dir Mad. la qual parland cun mi vuol vnfrir l’infurnad parol, che te ne par, nonella qsi ?

Poc. Signor si, eccomi viuo da donero ; e s’io muoro mai più, che possiate essere castrato ; mi pareua hora dormendo, che haueuate perduto il ceruello, & che il mio per cercarlo era restato pegno per la vettura del cauallo alla Storta.

Gra. Non tant derimonie, at domand le robeno al ceruel.

Poc. O vi dirò. il messo, che mi fù portato dalla lettera, dicea cosi. Per vn presente ti lauerai il viso, come voglio, che tu pigli co tre pesci in porto, e vn passo in mezo il Teuere co 'l dissegno d’vna tetta vecchia, & che tu metta vna buona cura alle cose del hamingo, accio resti sano, & teghi l’acqua, & ch'io venissi col subito per vna cossa ch'importa. si che intendete il presente. la lettera no me la diede ; il viso me lo lauai ; i tre pesci eccolli, il passo in mezo il Teuere lo farò, se voi pagate la spesa del ritorno ; il disegno della tetta vecchia non se ne troua ; il Fiamingo, perchè non è stitico, non volse la cura ; ne li diedi l’acqua, perchè li piaceua più il Vino : il subbio eccolo. che ve ne pare ? non son’io lesto ? & se non mi credete ecco la lettera.

Gra. Ti n’ sa liezer, lassa far à mi, da qui che te m’hà srui in ti garit ; la dis qsi ascolta quest è al suzett, al tintor della littera, pr la patent t’haurà auis, com’a vuoi, ch t’ pii al cumtrapes, e vn cumpas mezan, cum al dsegn d’ceuetta vecchia, & met bona cura alle cos del fiameng azzò che le tiengan ben l’aqua ferma, .. subi pr vna cosa dè porca : mo fat qui, va in tal mia studi, e tuà al mia cumtrafat dpint int l’voli dal naturai, e puortal alla sgnora Angzielica da mia parte, e dii cha vuoi parlar cun lià stà sira sacchettamente, chin dit ? t’bastard l’amit d’far l’imbastarda con la và.

Poc. E di che sorte ; dirò così. M. ritrat mi manda da voi la cortigiana, acciò le mandiate vn sacchetto di mente per il bastardo, da far l’amito al basto del mio patrone, & contrafarà nello studio del Pittore l’olio nell’rerinale, non va così ?

Gra. Si si o bon tia al più bon rutori al più bel vrlador pr dir la to intintation, che sia ma vsci dalla scola d’Zezaron, potta d’Zuda, s’Roma perdes qstù, a mi la free po castrà da vera, va mit zo qste rob, e tua quel cha t’hò dit, e vsa bona salcizza da Vdine di gratia intorno à Fiora, che vaga a cà d’la sorella d’la patrona, sat Pocintesta garbat ? e mi andarò dal mia cumpar per vn mia disegn.

Lombardi Francesco. Nativo di Alessandria della Paglia, commesso un omicidio in patria, esulò per sottrarsi ai rigori della giustizia, e si fece frate dell’ordine di S. Francesco. Stanco poi della vita monastica, fuggì dal convento in paesi {p. 38}ov'era sconosciuto, sinchè, unitosi alla Compagnia di Nicola Petrioli, si diede al teatro recitando le parti di secondo innamorato (era l’estate del 1740, al Teatro Ducale di Milano). Nella chiesa parrocchiale detta S. Maria della Mascarella in Bologna, prese moglie, con cui visse molti anni senza figliuoli, e che gli morì del 1768 in Venezia. Passato nella Compagnia di Vincenzo Bazzigotti, e recatosi a Siena, tentò in vano di passare a seconde nozze con una giovane del paese, per nome Caterina, divenuta poi la moglie di Antonio Fiorilli. Sempre in Compagnia del Bazzigotti fu il carnovale del '70 in Ferrara, dove, scoperto alla fine, risolse di palesare il suo stato al Marchese Camillo Bevilacqua, coll’aiuto del quale potè ottenere la protezione del Cardinal Crescenzi, Legato di Ferrara, che inviollo a Roma a'piedi di papa Clemente XIV, dal quale ottenne la più ampia assoluzione di ogni sua colpa. Tornò all’ordine de'cappuccini, e da una sua lettera a un Facchini di Ferrara, in data del 2 febbraio 1771, firmata Fra Gian Fedele d’Alessandria, studente cappuccino indegno, e pubblicata per intero da Fr. Bartoli, sappiamo com’egli, appena entrato, avesse avuto la direzione spirituale, che durò sei mesi, dal Padre Maestro Bonaventura di Ferrara ; poscia un Lettore, il Padre Giuseppe Maria d’Alessandria, per passar la filosofia. All’ottobre avrebbe mutato convento per lo studio della teologia, e avrebbe officiato a Pentecoste.

Si diede poi alle Missioni apostoliche, e lo vediam percorrere tutta la Marca Anconitana, e fece con grande successo il quaresimale del '77 a Bologna, in quella stessa chiesa della Mascarella, ove, rinnegata la fede, avea preso moglie. Suo vivo desiderio sarebbe stato quello d’andar tra'barbari, missionario, beato di affrontare e sostenere il martirio per la fede di Cristo, ma la morte lo colse del '78, mentre stava predicando in Romagna.

Lombardi Stefano da Nizza di Provenza. Il Bartoli lo dice comico di qualche merito. Recitò le parti d’innamorato in {p. 39}Compagnia di Nicodemo Manni, con la moglie Anna, egregia servetta, con la quale passò poi a Napoli e a Palermo (1782).

Lombardi Rodrigo. Bolognese, comico eccellente per le parti di Dottore, nelle quali e per la intelligenza e per la vivacità non ebbe chi gli stesse a fronte. Fu uno de'principali ornamenti della Compagnia di Antonio Sacco, di cui sposò la sorella Adriana, moglie poi in seconde nozze dell’artista Atanasio Zannoni. Ebbe da tal matrimonio molti figliuoli, e ne vediam due suiteatro : Benedetto, prima ballerino nella Compagnia del Sacco, rimasto in tal carica sul teatro a Lisbona per undici anni al servizio di quella Corte, poi, tornato in Italia e già maturo, Arlecchino di molto pregio, morto a Torino nel carnovale del 1795 ; e Rosa, graziosa e pregevole donnina, che sposò Francesco Arena, il figliastro del Pantalone d’Arbes, e morì giovanissima. Quando dalla Compagnia Grimani uscì il Dottore Monti, Rodrigo Lombardi andò a sostituirlo, e Gol- doni lasciò scritto di lui (Pasquali, XIV, 9) ch'era bravo, eccellente : e valente lo disse pure il Gozzi nell’appendice al suo Ragionamento ingenuo (IV, 45). Fu autor di Scenarj di commedie all’improvviso, ch'egli recitava mirabilmente, intitolate Il Dottore giudice e padre, e Chi trova un amico trova un tesoro, o sia Il Dottore avvocato dei poveri. Nel 1749, sceso all’osteria della Croce Bianca in Parma, ove dovea far la stagione d’estate coi Parenti, fu colpito da sì repente e terribile male, che dovette, in capo a pochi dì, soccombere nella pienezza della virilità.

Lombardi Giovanni. Figlio di Benedetto, di cui s’è fatto cenno all’articolo precedente, fu attore pregiatissimo in Roma per le parti di donna. Passò poi in varie compagnie nel ruolo di primo amoroso, e tale fu molti anni in quella di Giacomo Moggio. Scrisse molte commedie rappresentate e non istampate, e, lasciata l’arte, si ritirò prima a Mirandola, poi a S. Giovanni in Persiceto, dove morì nel 1836.

{p. 40}Lombardi Federigo. Fratello del precedente, fu come lui artista egregio per le parti di primo amoroso, che sostenne nelle migliori compagnie del suo tempo. Sposò in Siena una certa Giuseppa Zacchea di Milano. Venuto a maturità, vestì la maschera del Brighella, sotto la quale si mostrò pur valentissimo, e morì in Bologna nel 1850.

Lombardi Rosa. Sorella dei precedenti, nacque a Venezia nel 1741, e cominciò da bimba a mostrar grandi attitudini alla scena. Fu coi parenti nella Compagnia Sacco, e recatasi poi con essa a Lisbona assieme ai fratelli e ad altri fanciulli, recitò con gran maestria le parti di prima attrice, protetta e remunerata da quei Sovrani sino al dì del famoso terremoto del 1755, in cui fu costretta a tornarsene con la Compagnia in Italia. Progredendo in età, in perizia, in bellezza, potè assumere il ruolo di prima attrice assoluta, in cui fu acclamata a Venezia e altrove come una delle più chiareartiste del suo tempo. Sposò a ventidue anni Giuseppe Arena, il celebre inventor delle macchine, trasformazioni, voli, ecc., per le favole teatrali scritte da Carlo Gozzi pel capo-comico Sacco, ma, non compiuti i ventiquattr'anni, le si palesò tal grado di anemia che in pochissimo tempo la estinse in Venezia nel 1765, seguìta nel sepolcro a breve distanza dallo sposo accoratissimo.

Lombardi Francesco. Primo figlio di Federigo, nacque a Bergamo il 1792, e, con l’esempio del padre, si mostrò fin da giovanetto egregio amoroso in Compagnia di Antonio Goldoni, poi di Giacomo Dorati ; riuscendo quindi, sotto gli ammaestramenti di Giovanni Libanti, artista de'più pregiati. Venuto a morte in Compagnia Fabbrichesi il celebre Giovanni Bettini, andò il Lombardi a sostituirlo ; e sì bene uscì dal cimento, che partito il Belli-Blanes, egli ne sostenne le migliori parti di amoroso, passando di trionfo in trionfo. Indescrivibile è il fanatismo da lui destato a Napoli, solo uguagliato dal fratello Alessandro. Fu quindi nella Compagnia di Luigi Vestri, stipendiato dal vecchio {p. 41}DucaTorlonia per tre stagioni annuali in Roma, e quivi anche si rinnovarono i trionfi di Napoli. Passò da questa primo attore con Giacomo Modena, poi, intollerante di giogo, formò da sè compagnia della quale fu prima attrice l’ Amalia Vidari. La quaresima del '25 diede improvvisamente addio alle scene per ritirarsi a Bologna, ove aveva segretamente sposata la Principessa Maria Hercolani.

Il Colomberti dice di lui : che sortì dalla natura

un carattere inquieto, atrabiliare, puntiglioso e prepotente. Villano e sprezzante di tutto e di tutti, non aveva amici perchè voleva suppeditar tutti con il suo prepotente contegno, e con il suo basso e triviale frasario. Osteriante, bene spesso era preso dal vino, ed in allora nessuno sapeva il modo di contenersi con lui. Secondandolo, se ne offendeva, opponendosegli, bisognava litigare, e anche venire alle mani. Dotato di una forza erculea, su di essa affidavasi per insolentire a dritto o a torto……

{p. 42}A questo carattere violento, irruento, dovè il Lombardi la più tragica delle morti, che il Colomberti ancora ci racconta ne' suoi particolari :

Sentivasi egli una mattina indisposto di salute ; aveva ordinato un brodo, e tardando a riceverlo, si recò egli stesso in cucina dal cuoco, uomo già vecchio, e che da molti anni serviva nel palazzo della Principessa. Là giunto, corse fra loro un dialogo con minaccie da parte del Lombardi, e di scuse da quella del cuoco ; ma queste non servirono che a iritar maggiormente il padrone, il quale fini col percuotere il vecchio. Questi che stava sventrando un pollo, aveva in mano un lungo coltello e affilato. Alla provocazione, l’insultato e percosso rispose avvertendolo di fermarsi : ma seguitando quegli brutalmente a percuoterlo, il cuoco, perduto il lume della ragione, gli piantò il coltello nel basso ventre, e Lombardi cadde immerso nel suo sangue. A quella vista, il disgraziato vecchio fuggi dal palazzo, col coltello grondante sangue in mano, urlando lungo la via, e correndo a costituirsi in prigione, dove mori di dolore dopo pochi mesi. Mentre il cuoco correva alla polizia a palesare il fatto, Federigo, padre di Francesco, che non abitava con lui, lo andò a cercar nel suo appartamento, e avendo saputo dal cameriere ov'era, andò alla cucina ; ed entrato in quella, gli si presentò l’orribile spettacolo del figlio steso in terra, ed immerso in un lago di sangue. Come il povero Federigo rimanesse, immagini il lettore. Il figlio, dopo pochi secondi, gli spirò fra le braccia, dopo averlo riconosciuto, ma senza pronunziare una parola.

Era il giugno del 1845.

Molti testimoniaron della grandezza del suo valore. Francesco Righetti nel suo Teatro italiano (II, 104), parlando de' comici figli di comici, dice : il solo Francesco Lombardi s’alza gigante in mezzo a tanti suoi confratelli, che, o giacciono nell’oscurità, o appena toccano la mediocrità.

Nella Galleria de' più rinomati attori drammatici italiani, da cui ho tolto il presente ritratto, è uno scritto di Tommaso Locatelli, il quale dice di lui :

Il Lombardi è dotato dalla natura di alta e bella persona, d’una corretta e chiara pronunzia, e di una voce forte e soave, atta in singoiar modo a piegarsi a tutte le infinite varietà di quegli affetti, ch'ei vuole esprimere, e che sa cosi mirabilmente trasfondere negli animi de' suoi uditori. Benchè le parti tutte gli stieno bene del pari, pure la tragedia è quasi il suo campo d’onore, dov'egli in quelle, che sostiene, si addentra cosi, che più in lui non vedete l’attore, ma vi trovate dinanzi l’eroe ch'ei rappresenta. Milano n’ebbe già una prova solenne, che poteva riuscire per lui troppo fatale, allorquando del 1821 su quelle scene rappresentando l’ Emone nell’ Antigone dell’ Alfieri, nell’atto ch'ei dovea simulare di uccidersi, veramente si feri del pugnale nel fianco.

Tal fatto ci è descritto nel seguente sonetto, che tien dietro allo scritto del Locatelli :

{p. 43}Sei tu, Lombardi, o il furibondo Emone,
d’ Antigone svenata al crudo aspetto,
che col barbaro padre in ria tenzone
d’ira trabocca e disperato affetto ?
Chi pingendo natura, al paragone
starà di te, cui l’orrido subbietto
sul brando micidial tragge boccone,
tal che piaga non fìnta apri nel petto ?
Surse il popolo allora e un grido mise
visto il garzon che si scolora e langue,
e pietoso terror l’alme conquise.
Il cordoglio comun piagnealo esangue ;
sola dell’astigian l’ombra sorrise
allo stillar d’inaspettato sangue.

a. p.

Lombardi Alessandro. Fratello del precedente, nacque a Mantova nel 1796, nè fu men celebre di Francesco, poichè se a lui non si accostò nella tragedia, lo uguagliò nel dramma, e lo superò nella commedia. Di bella figura, se bene alquanto esile, di voce armoniosissima, d’ingegno pronto, di coltura non comune venutasi acquistando da sè con l’assidue letture, di maniere dolcissime, fu amato da quanti lo conobbero. Si tolse dalla famiglia il 1815 per andare amoroso in Compagnia di Angelo Venier, col quale dopo un anno, assunse per due anni ancora il ruolo di primo amoroso assoluto. Passò poi qual primo attor giovine in Compagnia di Gaetano Goldoni-Riva, in cui stette fino al '21, per entrar poi a Napoli in quella di Salvador Fabbrichesi, superando la più difficile prova, dacchè andava ad affrontar quello stesso pubblico, che sino a poche sere innanzi, aveva avuto incredibili entusiasmi pel fratello Francesco. Ma una sì preziosa esistenza doveva essere anzi tempo troncata, non così tragicamente come quella del fratello, ma non men stranamente. Alessandro Lombardi, in una cena di amici a Trieste nella primavera del 1820, forse un po'alterato dal vino, fe' scommessa di stritolar co' denti un bicchiere di cristallo, e tutto inghiottirlo. Già egli ne avea fatta la prova {p. 44}senza conseguenza ; ma l’ebbe 'sta volta, e fatalissima. Da quella sera, al momento della digestione, acutissimi dolori al pilòro lo mettevano alla tortura. Giunto a Napoli, si fece visitare dallo Scottugno, una celebrità medica d’allora, il quale, per mettere in opera ogni mezzo, all’intento di strapparlo alla morte, gli fe' dividere la sua casa e la sua mensa ; e tali e tante furon le cure affettuose di lui, che il povero giovane si riebbe alquanto. Ma, sciaguratamente, il Fabbrichesi ruppe contratto coi Fiorentini, per recarsi un triennio nell’ Italia centrale ; e il Lombardi, non ostante le supplicazioni dello Scottugno, volle seguir, come di dovere, il suo capocomico, accettando le conseguenze, qualunque esse si fossero. Giunto a Trieste nella primavera del '24, si riaffacciarono i sintomi del terribile male, a cui dovette soggiacere in Venezia dopo pochi mesi, non ancor compiuto il ventinovesimo anno.

Lombardo Gio. Donato detto il Bitontino. Il D' Ancona dice che il Gio. Donato, che è tra gli Uniti firmati nella supplica del 3 aprile 1584 da Ferrara al Principe di Mantova per andar colà a recitare, potrebb'essere Lombardo nostro. Che abbia poi questi che vedere con Bernardino Lombardi, del quale il Belgrano non sarebbe alieno dal crederlo figlio o fratello, e suo successore nella maschera di Pedrolino, non mi riesce di capire. Più probabile è la congettura del D' Ancona, benchè, senza prova di fatto e con la sola opera alla mano del Lombardo stesso (Nuovo Prato di prologhi di Gio. Donato Lombardo da Bitonto, detto il Bitontino. In Venezia, 1618), si potrebbe fin anco supporre ch'ei non fosse comico, ma semplice direttor di compagnie e autore di prologhi per tutti coloro che glie li ordinarono. In fatti : non solamente egli ne compose (sono in tutti sessantatrè, due dei quali soltanto in versi : della primavera e della impietà) per comici di professione, ma anche per dilettanti.

Nella licenza del prologo nono (d’ Amore) dice : ho congiunti dietro questo teatro certi amorosi Accademici, per recitare alla vostra presenza un’opera amorosa.

{p. 45}In quella del prologo ventunesimo (della Gloria), dice :

Oggi coronerò di qncsta corona di lauro, di fiche, e di rose quest’ Accademia, la quale s’ ha proposto recitarvi una graziosa, piacevole e sentenziosa comedia : li dono le rose per la fatica pigliata ; li porgo le fiche per il compito travaglio, e al fine gli ornarò il capo di lauro, perchè l’ avranno recitata. Fate silenzio, ch'io anco mi porrò qui dietro ad udirla, e non vo star qui per non invaghirli tanto della mia bellezza, che sol mirando il premio, che se gli darà, incorressero in atto disdicevole, rozza prononcia, gesti disconci, difforme venustà, disusati vestimenti, et altre cose non convenienti al grado loro.

E in quella del XXII (della Pace) :

Io son venuto a darvi saggio di questa bell’opera, c’oggi vi recitaranno questi dotti figli ; et se non avrà pronunzia Varroniana, disposizione Aristotelica, e locuzione di Plauto, ornata facondia di Cicerone, gesti del greco Demostene, et eccellenza dell’africano, iscusati siano appresso voi, ch'a tal mestiero di recitare usi non sono, ma ritrovandosi Genio Dio del piacere secretamente tra tutti, in questo festivo giorno, pieno di contenta gioja, et immenso giubilo, oggi ve lo mostreranno con l’animo pronto in rappresentarvela ; piacendovi con lieto volto ascoltarla, e donargli manifesti segni, ch'ella sia riuscita conforme al vostro desiderio.

La licenza del prologo LIV (della Fatica), dice :

Ogni cosa che giovamento apportar suole, da me fatica, procede, sicome vedrete in questa nuova Comedia, la quale con fatica è composta, e s’ hanno affaticati alcuni Accademici farvene un presente in questo giorno.

Nè solo per Compagnie comiche, o per Accademie componeva i suoi prologhi, ma anche per Compagnie di canto, come abbiamo da quello de gl’inventori della musica, il ventiquattresimo della raccolta, che termina così : abbiamo proposto in questo luoco con la musica dei dolci concenti di cotanti amanti, ai cigni rassomigliati, e con le note di cotante Progne e Filomene, cantarvi dolcemente col suono delle vostre parole un’opera composta in Madrigale di dodeci voci.

Fu anche autore di una commedia intitolata II fortunato amante e stampata in Messina da Fausto Buffalini, in-8, il 1589.

Lucchesi Domenico. Romano. Abbiamo di lui notizie nell’operetta di Francesco Bartoli. Esordì in patria recitando le parti d’innamorato, poi trasferitosi il 1768 in Lombardia, si scritturò nella Compagnia di Pietro Colombini, mostrandosi artista egregio nelle commedie all’improvviso. Passò poi in {p. 46}quella migliore di Vincenzo Bugani, col quale stette più anni ; e sotto gl’insegnamenti di Giustina Cavalieri tanto progredì, che Girolamo Medebach lo volle con sè a Venezia nel S. Giovan Grisostomo. Uscito Luigi Benedetti dalla Compagnia di Antonio Sacco, andò il Lucchesi a sostituirlo, e quivi si trovava ancora nell’ '83, ammiratissimo dai comici e dal pubblico per la prontezza di spirito nella commedia dell’arte, e per la intelligenza e diligenza in quella studiata……

Lucio Fedele. Forse lo stesso Lutio, che firmò la supplica degli Uniti con Gio. Donato (V. Lombardo) e altri ? Forse lo stesso Burchiella, come abbiam detto al nome di questo (V.) ? Ma il Burchiella era dottore, e nella supplica degli Uniti è appunto il Gratiano, accanto a Lutio. A meno che come abbiam in essa Batista da Treviso Franceschina, non s’avesse a legger Gratiano Lutio, senza la virgola. Ma è ipotesi forse arrischiata.

Lugo Olga, nata a Genova da famiglia borghese, e recatasi giovanetta a Milano, entrò in quella maggiore filodrammatica, e nell’ '80 esordì quale amorosa con Luciano Cuniberti, passando poi con lo stesso nel ruolo di prima attrice, al quale era più adatta, anche per la figura matronale, ond’era dotata. Passò poi con Lavaggi e Drago, e a questo si unì in matrimonio nell’ '85. Andò nel '92 a sostituir la povera Silvia Pietriboni nel ruolo di prima attrice assoluta ; e formò poi Compagnia col marito che tenne a intervalli e con varia fortuna.

Lustrini Geminiano. Fiorito – dice il Colomberti – tra il 1790 e il 1820, sostenne con massima lode nelle migliori Compagnie del suo tempo, Coleoni, Dorati, Goldoni e Perotti, il ruolo di tiranno tragico. Le parti di Creonte così nel Polinice come nell’ Antigone, di Egisto nell’ Oreste, di Appio nella Virginia, furon da lui magistralmente recitate ; ma dove non ebbe rivali, fu nelle due di Opimio nel Cajo Gracco, e di Zambrino nel Galeotto Manfredi. Lasciò l’arte ancor giovane, e si recò a {p. 47}Roma, custode del Palazzo di Firenze, ove albergava l’ambasciatore del Granduca di Toscana, e morì verso il '40.

Luttiani Francesco e Giulio. Sono citati dal Bertolotti (op. cit.) fra i commedianti che furon di passaggio in Mantova, e presero alloggio all’albergo del Cappello il 29 dicembre del 1591.

[n.p.]
[n.p.]

I comici italiani §

Maffei Benedetto. Sappiamo dall’aggiunta del Bartoli all’articolo di Flaminia, che il famoso brighella Atanasio Zanoni possedeva di lui un manoscritto del 1625, intitolato : Discorsi da Commedia di me Benedetto Maffei detto il Furioso, allievo della signora Flaminia Comica detta Orsola Cecchini.

Maggi Andrea. Fu al suo apparir sulla scena uno de' più promettenti giovani, preconizzato il successore degno di Tommaso Salvini e di Ernesto Rossi. Nato a Torino da famiglia agiata, passò dal collegio di San Francesco di Paola, ove compiè il corso ginnasiale, al ministero delle finanze, qual volontario. Fu della scuola di Carolina Malfatti (V.), e del '72, poco più che ventenne, era a' Fiorentini di Napoli, amoroso, in {p. 52}Compagnia Alberti, di cui eran parti principali la Pezzana e l’ Aliprandi, Bozzo e Serafini. Di fisionomia dolce ed aperta, di figura maestosa ed elegante, di voce forte e soavissima, non tardò molto ad abbandonar la stabile Compagnia napoletana per entrare in una delle nomadi di primissimo ordine. Accolto primo attor giovane da L. Bellotti-Bon, fu assunto, dopo alcune prove, a cagione appunto de' suoi mezzi fisici, al grado di primo attore assoluto, cominciando a entrar nelle maggiori grazie del pubblico col Ferréol di Sardou, che egli recitava magnificamente, e diventandone poi il Beniamino col Conte Rosso di G. Giacosa, di cui fu, si può dire, interprete unico.

In brevissimo tempo il giovane e già forte artista passò dal repertorio regolare di compagnia, alle parti del grande {p. 53}repertorio, allettato, nel costante favore del pubblico, da speciali interpretazioni di Amleto e di Otello. E infatti egli si mostrò sotto le spoglie de' varj grandi personaggi di Shakspeare, salutato, se non forse come un avvenimento, certo come una promessa ; e la fama del trionfo corse ovunque nel vecchio e nuovo mondo, ed egli s’ebbe onori inaspettati in Russia, in America, in Austria, in Polonia, ecc.

Forse alle sue interpretazioni mancava .quello studio paziente, analitico, profondo che accoppiato alle naturali attitudini, innalza l’artista alle sfere più alte ; forse allo addentrarsi in esse profondità mancava in lui l’acume indispensabile ; forse…. ma lasciamo a tale proposito discorrer Tommaso Salvini, che il valoroso giovane seguì amorosamente a traverso le varie fasi :

Andrea Maggi è uno dei più prestanti attori che abbiano calcate le scene nostre da mezzo secolo in qua. In alcune parti, per la prestanza fisica, non ha rivali. Se non potè salire alla sommità, deve incolpare sè stesso. Può egli asserire di avere assiduamente e profondamente studiata l’arte sua ? Non lo credo. Quali tesori di doni naturali egli possiede ! Quale intuizione estesa, feconda, ma attutita dalla poca applicazione. Sembrerebbe ei pensasse che l’arte non abbisogna di studio e che, apprese le parole, il resto venisse da sè. Se per poco questo pur giovane artista avesse potuto persuadersi nel principio della sua carriera che l’arte va coltivata con maggior cura e serietà, con indagini perseveranti, con profonde meditazioni, affinchè renda frutti maturi e prelibati, non ne raccoglierebbe degli scialbi ed acerbi. Tanto ingegno, tanta naturale attitudine avrebbero promesso miglior resultato. La esuberanza dei suoi mezzi fisici, con l’invidiabile suo organo vocale, credo che in luogo di giovargli gli furono dannosi, poichè, se avesse dovuto combattere qualche lieve imperfezione, si sarebbe maggiormente addentrato nello studio dei segreti, che dirò psicologici, dell’arte, e ne avrebbe ottenuto uno splendido effetto. Nuli ameno egli occupa uno dei primi posti nell’areopago dell’arte drammatica italiana.

E lo stesso giudizio avea dato due anni prima Giulio Piccini (Jarro) ne' suoi primi studj Sul palcoscenico e in platea (Firenze, Paggi, 1893) : al quale anche potè aggiungere parole di gran lode per l’arte di mettere in iscena, e per l’indole dolcissima dell’artista e dell’uomo.

Al momento in cui scrivo, egli si trova in Società con l’attore Della Guardia al Teatro Valle di Roma ove ha creato in italiano la parte di De Cyrano Bergerac con tal successo, che Adelaide Ristori ha dichiarato essere a suo avviso la {p. 54}interpretazione di Andrea Maggi la più bella e completa interpretazione di attore ch'ella abbia sentito dacchè ha abbandonato il teatro.

Maggi-Marchi Pia. (V. Marchi).

Magnano. Fu artista del San Salvatore di Venezia, tartassato con Medebac, Falchi e la Marliani da Carlo Gozzi nel suo ditirambo pel Truffaldino Sacchi, e in un sonetto burchiellesco. (V. Falchi Francesco).

Magni Carlo, milanese, recitava con molto plauso le parti di primo innamorato sotto il nome di Odoardo. Fu lungo tempo nelle Compagnie di Francesco Berti e di Pietro Rossi, poi, nel 1762, in quella di Onofrio Paganini, per tornar poi, dopo un solo anno, in quella del Rossi. Affetto da aneurisma nel collo, dovè, dice il Bartoli, abbandonar le scene del '65, e stabilirsi a Milano sua patria, dove morì del '68. A cagione di tale infermità fu accusato talvolta di freddezza : nullameno ebbe fama di comico egregio ; e nel Baldassarre di Ringhieri, ch'egli creò, e nella Favola del Corvo, non ebbe chi gli stesse a fronte. Scrisse alcun che di poesia, e il Bartoli dà come saggio del suo stile il brindisi in versi martelliani (bruttini anzi che no) ch'egli recitò a Brescia nel Convitato di pietra, e in cui sono le lodi sperticate di quella città.

Majani Francesco. Nato a Bologna nel 1718, abbandonò il mestiere del sarto per l’arte del teatro, dopo di aver dato prove di singolare attitudine tra' filodrammatici della sua città. Recitò lungo tempo a Venezia e specialmente nel Teatro di San Luca, pel quale dettava il Goldoni le sue commedie. Creò degnamente il Majani le parti di protagonista nel Padre per amore e nel Medico olandese ; e aggiunge il Bartoli che nel Disertor francese, sostenne tanto eccellentemente la parte del padre di Dorimel, che fu di molti applausi onorato. Avanzando {p. 55}negli anni, abbandonò la Compagnia, ch'era allora al Sant’ Angelo, e messa la maschera del Brighella, si andò scritturando in Compagnie di giro, ultima delle quali fu quella di Onofrio Paganini, in cui morì a Bologna nel carnevale del '78. Carlo Goldoni fa cenno, nel XIV volume dell’edizione del Pasquali, della moglie di lui, bolognese, punto inclinata al teatro per la estrema sua freddezza, e per la incorreggibile pronunzia dialettale, a cui volle affidar la parte di Graziosa nella Bancarotta, chè a cagione appunto della sua melensaggine, riuscì, egli dice, uno de' più dilettevoli personaggi della commedia.

Majani Giuseppe, figlio del precedente, e più noto in arte col diminutivo di Majanino, sostituì il padre, vecchio, nelle parti di primo innamorato, in cui riuscì a perfezione per la eleganza della persona, la pieghevolezza della voce, la facilità della memoria. Venezia, Milano, Genova, Torino, Mantova, Parma furon teatro de' suoi trionfi. Il Bartoli lo dice grande nel premeditato e all’improvviso ; e aggiunge che sapeva anche farsi applaudire ne' semplici annunci fuor del sipario per lo spettacolo del domani. Fu anche autore, e si rappresentaron di lui con successo La donna che non si trova e La bella castellana. Dopo molti anni passati in Compagnia del Lapy, si scritturò col Medebach, poi (1782-83) colla Battaglia al San Giovan Grisostomo. Alle sue belle qualità di artista, il Bartoli mette come contrapposto quelle dell’uomo tutt’altro che lodabili. Fu giocatore nel più largo senso della parola ; e tanto potè la passione cieca sull’animo di lui, che per essa fu più volte ridotto a mal partito, avendo dovuto ricorrere a strattagemmi e raggiri non degni di un uomo dabbene.

Metto anch'io qui, come chiusa, il sonetto del Bartoli, che è alla fine del suo articolo.

Bravo Comico in Scena, e bravo in Piazza
raggiratore ed inventor di Fole ;
ed in Teatro e fuori ei può che vuole
con il talento suo, che ogni altro ammazza.
{p. 56}Convien pur dir, ch'ei sia di quella razza
ch' Argo ingannò perch' Io dappoi gl’invole ;
oppur del ceppo della scaltra Iole,
che ad Ercol feo filar, depor la mazza.
Nel Socco e nel Coturno ei Roscio imita ;
per l’ Arte Teatral niun di più brama,
essendo all’eccellenza in lui salita.
Famoso il Majanino ognun già chiama :
famoso nell’astuzia anco più ardita ;
onde in suo onor suona per tutto fama.

Majeroni Achille. Metto qui intero il breve e bello articolo che il dottor Icilio Polese, direttore dell’ Arte drammatica, pubblicava nel suo giornale, il 21 gennaio del 1888 :

Achille Majeroni è morto a Bologna ieri (20) alle sei pomeridiane.

Che vita artistica spensierata fu la sua ! Era figlio dell’arte. Sua madre fu la famosa attrice veneziana Morelli, quell’attrice che ai primi del secolo fu di moda per lo squisito modo di recitare le commedie di Goldoni.

Majeroni, fatte le prime armi in compagnie infime, a un tratto rifulse in quella rinomata Compagnia Lombarda, fondata e diretta dal milanese Giacinto Battaglia, distinto commediografo. – Povero Battaglia ! Come presto fosti dimenticato, specialmente dai tuoi concittadini ! E sapete chi faceva parte della rinomata Compagnia Lombarda di Giacinto Battaglia nell’anno 1846 ? – La Fanny Sadowski, la gentile Mayer, la Botteghini, Alamanno Morelli (fratellastro di Majeroni), Luigi Bellotti-Bon, Gaetano Vestri e Achille Majeroni.

Poi Majeroni, scritturato da Adelaide Ristori, fece il giro dei principali teatri d’ Europa.

Dopo il primo giro artistico all’estero, Adamo Alberti lo scritturò nella sua compagnia permanente al teatro Fiorentini di Napoli, compagnia sussidiata con biglietto regio borbonico, e là rimase per anni ed anni, passando da un teatro all’altro. Là il suo nome diventò gigante.

Formò Compagnia nel 1866, e quando il nostro esercito prendeva possesso del Veneto, la Compagnia Majeroni era la compagnia di moda.

{p. 57}Guadagnò denari a cappellate – ne spese a sacchi. Visse in un bel momento artistico – non seppe approfittarne. Come abbiamo i milionari Salvini e Rossi, ci debbono essere gli spensierati che all’indomani non pensano.

Amò i molti figli. Fu buon marito ; e dalla sua buona compagna, signora Graziosa, fu pietosamente assistito sino all’ultimo momento della sua vita.

Aveva sessantacinque anni.

Come artista, era bravo senza essere ottimo ; era bello, aveva una voce armoniosa, incantava la sua figura statuaria.

Ecco mostrato in poche parole l’artista e l’uomo ; a complemento delle quali dirò che nacque in Milano il 1824 da Eduardo, ufficiale del primo impero, che lasciò poi la milizia per darsi all’arte, esordendo nella Compagnia Romagnoli, Bon e Berlaffa, e da Antonia Musich, nobile ungherese. Dell’arte sua e della sua vita abbiam testimonianza in un manoscritto contemporaneo di epigrammi (forse del Forti), da cui traggo i seguenti :

A Majeroni

Sei sopportabile nelle commedie,
molto insoffribile nelle tragedie :
giura non più rappresentar l’ Egisto,
e chiedi a tanto ardir perdono a Cristo.

Alla Morelli

Riprender vuoi marito :
e in mezzo a tanti comici birboni,
il più birbo scegliesti in Majeroni ?
Veggo che di te stessa
tu stessa sei nemica.
Tel perdonino i figli, il ciel ti benedica.

Cominciò Achille a sostener nel '40 col padre, in compagnia Modena, le parti di Agostino nel Clermont di Scribe, di Gionata nel Saul, e di Roberto nei Due Sergenti, applauditissimo sempre. Dalla Compagnia Lombarda passò il '49, primo attore assoluto, in quella di Coltellini e Zannoni, con Carolina Santoni prima attrice. Tornò il '50 in Compagnia Lombarda, e fu il '35 in quella di Cesare Dondini. Tornato dopo il’ 60 dall’estero colla Ristori, si unì colla Sadowski e si fermò al Teatro del Fondo {p. 58}in Napoli, ove mise in iscena con allestimenti non più veduti, il Faust e il Don Giovanni, che gli procacciaron lodi nuove e ingenti somme ; e dove, dopo varie peregrinazioni, tornò del '68.

Achille Majeroni fu il più generoso degli artisti drammatici ; ma la sua generosità era piuttosto prodigalità, o meglio scialacquo. Soldato del '49 alle barricate di Roma, si ebbe attestazioni di lode da Garibaldi e dall’ Avezzana. Creò del '65, all’infierir del colèra, la compagnia di Misericordia, essendo capitano della guardia nazionale. I poveri soccorse in ogni maniera, e organizzò grandi recite gratuite pei militari di bassa forza, reduci dalle patrie battaglie. Colpito il Taddei d’apoplessia, il Majeroni gli diè gratuitamente per due anni la cospicua somma di diciottomila lire, procurandogliene poi altre dodicimila con una solenne rappresentazione ch'egli fece insieme a Tommaso Salvini. Fu nel lusso pari a principi : ebbe cavalli e carrozze di ogni specie, e servitori di ogni razza. Vòltegli la sorte le spalle, incalzando la vecchiaja e i malanni, i suoi compagni d’arte si ricordaron di lui, ma non così da risparmiargli l’ultima ora nella miseria.

Aveva sposato del '59 Graziosa Bignelti, comica e figlia di comici, compagna d’arte di lui, a' Fiorentini di Napoli, ove sosteneva con buon successo le parti di prima attrice giovane.

Una caratteristica di Achille Majeroni fu il gran pizzo ch'egli non tolse mai, fuorchè pel Goldoni e le sue sedici commedie di Paolo Ferrari, ch'egli recitò stupendamente al Teatro Gallo di Venezia il 16 dicembre del '53.

Ebbe un fratello, Odoardo, artista di qualche pregio, che si diede ai primi attori del gran repertorio, nei quali riuscì talvolta sufficientemente.

Majone Domenico. Una delle più forti speranze del nostro teatro di prosa, dileguata improvvisamente dopo soli dieci anni di vita artistica. Povero e caro Mimì ! Era nato il 2 febbraio 1844 a Napoli da Giuseppe Majone e da Rosa Demiccolis. {p. 59}Se ben compiuto gli studi legali, ebbe amore profondo, radicato pel teatro, al quale avrebbe voluto sagrificare codici e pandette. Ma il padre vi si opponeva recisamente. Venuta al Fondo la Ristori, ed ammalatosi l’amoroso della compagnia, il Majone, dilettante egregio, andò a sostituirlo sotto nome di Morandini. Morto il padre nel febbraio del '62, egli entrò di punto in bianco primo amoroso ai Fiorentini di Napoli, dove, mercè gli ammaestramenti del Taddei, dell’ Alberti, del Salvini, della Cazzola, della Pezzana, della Marini, salì a tal grado d’arte, che la quaresima del '70 partiva con la madre per Cremona a raggiunger la Compagnia di Alamanno Morelli, della quale egli era il primo attore assoluto. Due anni di arte, due anni di trionfo ! Nella Signora dalle Camelie, nell’ Onore della famiglia, nel Falconiere, nella Suonatrice d’arpa, ecc., mostrò a quale altezza avrebbe potuto salire : s’ebbe onori e lodi dai critici migliori, e Paolo Ferrari, Filippi, Arbib, dichiararon riserbato per lui il posto di Tommaso Salvini. E tante speranze, tanti bei sogni distrutti d’improvviso a soli ventotto anni. Assalito fieramente da febbre miliare, la mattina del 30 novembre 1872, rendeva l’anima al Signore.

Domenico Majone aveva soavissima l’indole, che gli traspariva in tutti i lineamenti della faccia. Di forme più tosto erculee, se ben corto di braccia, male gli si attagliavano le parti sdolcinate. In quelle che richiedevano accenti di passione gagliarda era artista de' più forti.

Maldotti. « Fanciullo grazioso – dice Fr. Bartoli – che in età puerile recitava la parte d’ Amorino in Bologna l’anno 1634 nella Compagnia de' Comici Affezionati. È molto lodato da Bartolommeo Cavalieri nella Scena Illustrata. »

{p. 60}Maldotti Antonio. Nato il 1773 a Venezia da poveri parenti, si diede all’arte, dopo la lor morte, riuscendo in breve, artista di grido per le parti di brighella nelle commedie all’improvviso, e di tiranno nelle tragedie e ne' drammi scritti. In tali ruoli lo vediamo a' primi del 1800 con Antonio Pellandi, applauditissimo. Dicon le note del tempo che i versi dell’astigiano declamasse mirabilmente, e che niuno gli stesse a petto nella maschera del brighella. Formò poi compagnia per far salire al grado di prima donna assoluta sua moglie Giovanna, avvenente e pregevole prima amorosa ; e dopo dodici anni di capocomicato, or fortunato or disastroso, si scritturò per un triennio in Compagnia Perotti, poi, il 1820, coi figli Luigi e Adelaide (Luigi, sposatosi alla figlia del capocomico Cavicchi, abbandonato dalla moglie, ridotto alla più squallida miseria, si suicidò, avvelenandosi, verso il 1828), in quella di Velli e Mascherpa, nella quale cessò di vivere la primavera del 1823.

Maldotti Adelaide. Figlia del precedente, nacque sul principio del 1803, e fu mirabile servetta. Nè solamente fu pregiata come attrice, ma altresì come cantante, possedendo essa una voce magnifica di contralto e mezzo soprano. Era il '24 col fratello Luigi in Compagnia Fini, che lasciò dopo un anno per quella della Toffoloni, nella quale tanto piacque al Teatro Nuovo di Firenze come cantante, che l’impresario Feroci le offrì di abbandonar l’arte comica per la lirica, scritturandola per quattro anni ; compiuti i quali, ella passò stipendiata dal celebre Lanari per altri quattro. La sua carriera artistica fu gloriosa, ma brevissima ; chè nell’autunno del’ 35, scritturata al Carcano di Milano, morì di consunzione a soli trentadue anni.

Malfatti-Gabusi Carolina. Figlia di un bravo macchinista teatrale, nacque a Piacenza il 1809. Passata con lui dalla Compagnia di Napoli diretta dal Fabbrichesi in quella di Righetti e Blanes, entrò, dopo tre anni, in quella di Bazzi e Righetti, che più non lasciò, e che divenne più tardi la celebre {p. 61}Compagnia Reale Sarda. Esordì, bambina, il 1821, nelle Risoluzioni in amore del Nota, e, cresciuta in età, diventò una pregevole generica. Si sposò a un certo Malfatti, il quale, impazzito, fu ricoverato in un manicomio, e da lei mantenuto. Ma non potendo ella sopperire a tante spese, si tolse dall’arte, trovando aiuto ne' compagni, che le affidarono per l’istruzione teatrale le loro bimbe, tra le quali Adelaide Tessero, Luigia Robotti, Cristina Andrà, ecc. Fu nominata maestra nel '51 all’ Accademia Filodrammatica di Torino, e da quell’ora datò la rinomanza vera della Malfatti. Licenziata dalla carica, ma non abbandonata da una sola delle sue allieve, tanto perseverò, serena e fidente, che la sua scuola fiorì per trenta e più anni, dando all’arte attori e attrici, come il Maggi, l’ Emanuel, la Campi, la Reinach, la Boccomini, la Migliotti, il Diotti……..

Fra le prime alunne che lasciaron la scuola dal '59 al '60, eran la Tessero e la Pezzana, la quale dettò alcuni cenni biografici della maestra (Torino, Paravia, 1893), da cui son tratte le presenti notiziole. Nè solo come artista e maestra va ricordata la Malfatti, ma anche come cittadina. Del '59 fondò il Comitato femminile per soccorso ai feriti delle patrie battaglie, e ne fu sempre il vice-presidente. Le recite di beneficenza date dalla sua scuola non si contano. E questa donna, la cui vita fu tutta un generoso e spontaneo sagrificio in pro' degli altri, è morta più che ottantenne, povera e abbandonata, nel suo quinto piano, in cui non eran nè men più i mobili, ch'ella, ammalata, vendè per trovar modo di tirare avanti, e da cui — bene dice la Pezzana — la forte donna avea veduto sorgere e tramontare parecchie generazioni d’artisti, rimanendo essa in piedi per piangere sugli amici perduti.

Malloni Maria. È davvero a dolersi che in nessuna delle biblioteche pubbliche o private d’Italia e di fuori abbia rinvenuto il libretto, che già Fr. Bartoli chiama raro, stampato a Venezia da Gio. Pietro Pinelli il 1611 col titolo : Corona di lodi alla Signora Maria Malloni detta Celia Comica ; il quale {p. 62}anche ha in fine una Scrittura — dice il Bartoli — sopra i meriti della stessa, dettata in prosa dal Commendatore Cleoneo Accademico Oscuro. Molte cose avremmo forse potuto riferire sui pregi di codesta donna che fu incontestabilmente a testimonianza di molti una delle più forti attrici del suo tempo, sì per dottrina, sì per valore artistico. Ma ci basti sapere da Francesco Gabrielli, il celebre Scappino (V.), ch'ella fu di ingegno e di memoria prontissimi. La Celia — egli scrive da Ferrara, ov'egli si trovava con la Compagnia e con la stessa Malloni, ad Antonio Costantini, segretario del Duca di Mantova, il 6 gennaio 1627 (pag. 964)  — è la prima donna che reciti, poichè se la Compagnia od altri mettono fuori opere 0 comedie nove, lei subito le recita, che la Lavinia (l’ Antonazzoni) nè altra donna non lo farà, se prima di un messe, non si hanno premeditato quello che nel soggietto si contiene.

Intanto resta dunque assodato che sì il Sand (op. cit.), sì il Magnin nel suo Teatro Celeste in Rev. d. deux m. del 1847, erroneamente fanno comparire in Francia la Celia il 1571 e '72. Nel 1627, giudicata dal Gabbrielli prima fra le prime donne, avrebbe avuto al meno al meno settant’anni.

L'oroscopo rinvenuto nella Biblioteca Nazionale di Firenze ci dà l’anno di nascita che è il 1599 e la città natale : Ferrara ; più, l’anno del viaggio in Francia : il 1602. Il resto, come sempre, è indecifrabile. Ma anche per l’andata in Francia come concorderebber {p. 63}le due date 1599 e 1602 ? A tre anni andò in Francia ? Forse ella v'andò colla madre, comica anch'essa, e forse prima a portar sul teatro il nome di Celia, della quale il Magnin avrebbe potuto notar l’apparizione a Parigi il 1572 ? E chi son codeste Malloni, o almeno codesta Lucilla Malloni, di cui trovo la seguente domanda senza data nell’Archivio di Stato di Modena ?

Ser.mo Sig.re Duca,

Virginia et Lucilla Maioni commici con la loro Compagnia supplicano a Vostra Altezza Serenissima a volergli concedere licenza di poter recitare Commedie nella Città di Reggio per tutto questo Carnouale, ch'il tutto otterrà per gratia singolarissima dalla benignità di Vostra Altezza Serenissima quale Dio mantenga felicissima con tutta la Ser.ma Casa.

Di fuori : A Vostra Altezza Serenissima

per la Virginia et Lucilla Commici.

(Rescritto della Cancelleria) s’è scritto.

Alla testimonianza Gabbrielli, va subito congiunta quella del Beltrame Barbieri, che nella Supplica (1634) chiama la Celia giovane di belle lettere e comica famosa ; alle quali poi tengon dietro quelle di letterati illustri, e, prima, del Cavaliere Marino, che, nell’ottave 68, 69 e 70 del Canto XVII dell’ Adone, la mette quarta fra le Grazie :

Un’altra anco di più, che 'l pregio ha tolto
D'ogni rara eccellenza a tutte queste,
Aggregata ve n’è, non è già molto,
E sempre di sua man la spoglia, e veste,
Celia s’appella, e ben del Ciel nel volto
Porta la luce, e la beltà Celeste ;
Ed oltre ancor, che come il Cielo è bella,
Ha l’armonia del Ciel nella favella.
O con abito pur, che rappresenti
Ninfa selvaggia, il suo Pastore alletti,
O dolce esprima in amorosi accenti
Fatta Donna civile alti concetti,
O talor spieghi in tragici lamenti
Reina illustre i suoi pietosi affetti,
Co' sospiri non men, che con la laude
Chi ne langue traffitto, e chi l’applaude.
{p. 64}Talia, che ha de' Teatri il sommo onore,
Invida, a costei cede il primo vanto,
Onde veggendo pur la Dea d’ Amore,
Che le Grazie di grazia avanza tanto,
Non sol degna la fa del suo favore
Fra l’altre tutte, e del commercio santo,
Ma per renderla in tutto al Cielo eguale
Sempiterna l’ha fatta, ed immortale.

Egregia dunque appar qui in ogni genere di poesia drammatica. E per la pastorale infatti abbiamo nuova testimonianza nel seguente sonetto che le indirizzò il conte Ridolfo Campeggi, quand’ella recitò in Bologna l’ Aminta del Tasso :

Alla Signora Celia Comica Confidente, Silvia nell’ Aminta rappresentando

Donna, s’io miro gli occhi, o il crine in onde,
La bella fronte, e le serene ciglia,
In sè (dico al mio cor) con meraviglia
Le bellezze del Ciel Celia nasconde.
Ma se al rigor, cui pudicizia infonde,
Risguardar la ragion pur mi consiglia,
Soggiungo : al nome fier, che altera or piglia,
Il rigor delle Selve ahi ben risponde.
O Silvia, o Celia pur ; co' detti grati
Rendi, s’armino alfin di fiamme, e gelo,
Pietose l’ire, e gli odj innamorati.
Anzi, ch'eguale ai nati lumi in Delo,
Spargendo di virtù raggi animati,
Il nome hai fra le Selve, e il core in Cielo.

Dagli altri sonetti pubblicati dal Bartoli ne tolgo uno del Cavaliere Gerosolimitano Fra Ciro di Pers, dettato con ingegnosa strampaleria, e che trovo ancora nella raccolta di motti Brighelleschi di Atanasio Zannoni (Torino, 1807), da lui probabilmente recitato a qualche innamorata, sotto la maschera di Brighella :

{p. 65} Alla Signora Maria detta Celia in Commedia

Celia, e Maria, voi siete e Mare, e Cielo,
E sono i pregi in voi del Ciel, del Mare.
Vi dà le perle, ed i coralli il Mare :
La luce avete, e l’armonia dal Cielo.
Pien d’augelli canori è il vostro Cielo :
Di musiche Sirene il vostro Mare.
Beato il Ciel, ch'è tetto a sì bel Mare,
Beato il Mar, ch'è specchio a sì bel Cielo.
Mentre è sereno il Ciel, tranquillo il Mare,
Icaro esser vorrei per questo Cielo,
E dar novello nome a questo Mare.
O pur mi concedesse amico il Cielo
Morir nuovo Leandro in sì bel Mare,
Perir nuovo Fetonte in sì bel Cielo.

E metto qui ancora il seguente, non citato dal Bartoli, che tolgo dalle Rime di Pace Pasini, edite a Vicenza nel 1642, per gli eredi di Francesco Grossi :

Sopra Celia Comica

Scioglier la lingua, & annodare i cori,
melar le labra, e amareggiar gli affetti,
piagare i seni e non aprire i petti,
strugger la speme et animar gli amori ;
Scoprir la neve e suscitar gli ardori,
nutrire angoscie e partorir diletti,
influir tema e implacidir gli aspetti,
sono in Celia d’amor forze e stupori.
Ma co' vezzi condir grave alterezza
maturir gli anni in immaturo crine,
e maritar l’Honor con la Dolcezza ;
Il sesso sublimar sopra il confine,
gli oceani capir de la Bellezza,
sono in Celia del cielo opre diuine.

{p. 66}E ora, come saggio del suo stile, do anch'io il sonetto ch'ella dettò in risposta a uno di Paolo Fabbri, pubblicati entrambi da Fr. Bartoli :

Risposta di Celia

Pompa d’onor, che dall’obblio di Lete
Sempre fuggendo accresci gloria agli anni,
E quasi Cacciator tendi la rete
Alla virtù con onorati affanni.
Poggia pur tu colà, dove si miete
Eterna fama ; mentre io spiego i vanni
Inutili, e tarpati a basse mete
Nel troppo affetto il tuo sapere inganni.
Veggio (Talpa non son) che in te risplende
Ciò, che può far, ciò che può dar natura,
Che di bearti eternamente intende.
O rara contro Morte, alta ventura,
O virtù, che in te sol l’anima accende
Perch'ella viva d’immortale arsura.

Maria Malloni, detta Celia, fu dunque comica confidente e spensierata, e fiorì nella prima metà del secolo xviii. Ch'ella accoppiasse al grande valore artistico un’altrettale bontà dell’animo non pare : si sarebbe anzi portati a credere che avesse con le compagne di palcoscenico e di ruolo comune la diavoleria ; scusata in parte dal fatto, che mai madre di comica spinse la petulanza, il pettegolezzo, la malignità, l’abbiettezza sì alto, come la madre di Maria, a cui s’aggiungeva poi come braccio destro delle sue male azioni un figliuolo, fior di canaglia, disperazione vera del povero direttore Flaminio Scala. I dissapori, le battaglie, le accuse a Don Giovanni de' Medici, (il capocomico), e le scuse poi, le invidie, gli scandali sulla scena tra i partigiani di Celia e quelli di Lavinia (l’ Antonazzoni), le sonore fischiate a quella in pubblico teatro, e le pubbliche difese dello Scala, e le lettere di Celia, sono pubblicate e chiarite in un articolo di Achille Neri, uscito nella Scena illustrata del {p. 67}1° agosto 1887. Dal quale anche appare, dopo un reciso richiamo all’ordine, come Celia si andasse ammansando, cosi da farsi chiamar dallo Scala stesso coppa d’oro, e chiedere in isposa da Iacopo Antonio Fidenzi detto Cintio ; matrimonio che non potè poi farsi per solenne divieto della madre infame, che vedea morto con esso ogni sorgente di lucro.

Malossi Carlo. Di Parma : recitava sotto la maschera di Pantalone ; ed è citato dal Bertolotti fra i comici che nel 1658 abitavano in Roma nel distretto della Parrocchia di San Pietro.

Malucelli Carlo, bolognese, nato il 1650, recitava le parti del Dottore ; e fu tra i comici che andaron da Venezia a Varsavia, scritturati a posta da Tommaso Ristori, l’anno 1714, per la Corte di Dresda. Fu ascritto a quel teatro come socio, e quando, il 1732, tutto il personale italiano fu licenziato, fu fatta eccezione per la coppia Bertoldi, per Bellotti, e per questo vecchio ottantenne, a cui fu assegnata la pensione annua di 500 fiorini, e che quivi morì nel 1747, a novantasette anni. (V. Bellotti Natale).

Manni Nicodemo. Fiorentino…. Fu conduttore — dice Fr. Bartoli — di una Comica Compagnia per molti anni e recitò nel tempo istesso con grazia ne'caratteri caricati…. Fu scrittore di commedie, tra cui La Fannì, pubblicata per le stampe, e viveva ancora nel 1783.

Mantovani Mariano. Bolognese. Fu attore di gran pregio per le parti d’innamorato. Fu con Onofrio Paganini, poi, nel 1764, con Pietro Rossi. Sposò Regina Cicuzzi, rimasta vedova (V.), ed è questo il secondo marito, che al nome di lei si cita come sconosciuto. Quando il Magni lasciò l’arte, il Mantovani passò con molto successo alle parti di primo attore : ma recatosi colla Compagnia a Vercelli, l’autunno del '65, vi morì, a trent’anni circa, colpito da malattia violenta.

{p. 68}Manzani Francesco. « Comico che fioriva — dice Fr. Bartoli — intorno il 1655. »

Recitava le parti di Capitano col nome di Capitan terremoto, suggeritogli dalla grande statura e dalla voce potente. Scrisse talvolta pel teatro, e tradusse dallo spagnolo in prosa italiana la tragedia : A gran danno gran rimedio (Torino, Zapata, 1661).

Manzoni Giovan Battista, piacentino, nato verso il 1730, esordì col ruolo d’innamorato, dedicandosi poi esclusivamente alla maschera d’arlecchino, che sostenne con molto favore, e per la novità e spontaneità de' lazzi, e per le ariette musicali che mescolava con molto garbo nelle varie commedie. Fu molti anni con Pietro Rossi, poi col Paganini, poi di nuovo col Rossi, poi col Lapy al San Luca di Venezia, dal quale passò con la stessa Compagnia al Sant’Angelo. Si ritirò con la moglie a Venezia, in cui viveva ancora al tempo di Fr. Bartoli (1782).

Manzoni Caterina, moglie del precedente, viveva in un ritiro di Padova, sua patria, quando il Manzoni la sposò (1762). Esordì nella Compagnia di Pietro Rossi con parti di poca importanza, nelle quali però die' subito a vedere a qual grado sarebbe salita col volere e lo studio. Passò da quella del Rossi nella Compagnia di Onofrio Paganini, in cui progredì rapidamente, facendosi molto applaudire e come attrice e come cantante. Destata poi l’invidia della prima donna della compagnia, artista provetta, ma già vecchia, non fu riconfermata dal Paga- nini, e tornò con Pietro Rossi, col quale a Livorno, a Parma, a Verona, s’ebbe i maggiori onori nelle cose studiate e improvvise. L'autunno del 1768 entrò col marito al San Luca di Venezia in Compagnia Lapy ; e dice il Bartoli esser giunto a tale il successo, che il pubblico, non contento di applaudirla in teatro, l’accompagnava ogni sera a casa fra le più festose acclamazioni. Delle parti ch'ella sostenne, vanno citate più specialmente quelle di Cleri nel Disertor francese, e della {p. 69}protagonista nella Gabbriella di Vergy, in cui la Manzoni raggiunse il sommo dell’arte. Grande nella commedia, fu grandissima nel dramma. E tuttavia nel vigore degli anni, al colmo della gloria, più che circondata, assediata dal favore del pubblico, abbandonò l’arte, dopo il carnovale del 1774, fermandosi in Venezia, in cui viveva floridamente ancora dell’ '81, tutta intenta all’austera educazione dei due suoi figliuoletti.

Francesco Bartoli le indirizzò il seguente sonetto :

Alla Signora Caterina Manzoni

Io, nel fiorir de' bei vostri anni acerbi
sul picciol Ren per quella via vi scorsi,
che a sottrarsi del tempo ai fieri morsi
insegna, ed a' suoi fasti empj e superbi.
Sul lido d’ Adria poi spargendo verbi
di virtù colmi, orecchio anco vi porsi ;
e ch'è l’ingegno vostro atto m’accorsi,
a far, che il duolo altrui si disacerbi.
Crebbe virtude in voi, crebbe in me stima
pe' vostri merti, e pel saper profondo,
che ad Elicona fa salirvi in cima.
Ond’oggi il mio desir più non v'ascondo,
il qual con prosa incolta e bassa rima,
tenta innalzarvi, e farvi eterna al Mondo.

Alla testimonianza di Fr. Bartoli fo seguir quella di Carlo Gozzi (Memorie inutili, vol. II), il quale, accennando al fatto che la Manzoni, da lui scritturata pel Sacchi, si sciolse poi dall’impegno, vinta dalle supplicazioni e dalle lagrime de' suoi compagni e delle sue compagne, che vedeansi alla rovina, abbandonati da lei, conchiude :

Ella ha abbandonata in età giovanile la comica professione in cui si distingueva dalle altre attrici, per abilità, e per educazione, pochi anni dopo l’accennato accidente, e s’è ben meritata la fortuna che la pose in istato di poter fare un tal passo, per dedicarsi, com’ella fa con tutto lo spirito, a istillare in due suoi figliuoletti, le massime più austere della virtù sociale e spirituale.

{p. 70}E l’altra non meno attendibile, sebbene il Bartoli non abbia troppe tenerezze per lui, di Antonio Piazza, il quale dopo di averla acerbamente giudicata nella Giulietta (1771), dicendo :

…… ha una lettera di raccomandazione nel volto che dovunque presentasi non le manca mai un accoglimento umanissimo. Giovine, ben fatta, di statura mediocre, e d’una bellezza particolare, le si farebbe un torto a non applaudirla ; ma invece di brava sarebbe meglio gridare bella per non ingannarla. In lei merita una gran lode il suo buon volere che fa tutti i sforzi possibili per renderla capace della sua professione, ma la meschina non è nata per la medesima……

le dedica poi, sei anni più tardi, Il Teatro, nel quale sono a profusione le lodi per l’incomparabile artista. Delle qualità della donna egli discorre così nella lettera dedicatoria :

Quando dirò che una donna voi siete che fece onore al Teatro coll’abilità sua e col suo contegno ; che del medesimo nulla serbate, nell’ozio grato della vostra vita presente ; che alla vivezza dello spirito accoppiate la docilità del core, e alla finezza del discernimento l’indole di compatire ; che ne' divertimenti co' quali il secolo invita la freschezza della età vostra, mantenere sempre sapete la decenza muliebre, la eguaglianza de' modi, il tratto affabile, le maniere cortesi ; quando, ripeto, dirò tutto questo di Voi, non avrò dato che un saggio del vostro carattere, ma robusto di verità, mallevadori delle quali potranno farsi tutti quelli, che vi conoscono e trattano.

Marcheselli. Trovo a questo nome il seguente curioso documento nell’Archivio di Stato di Modena :

Ser.ma Altezza,

Solo mi trouo in obligo di vmiliare à V. A. S. come oggi a mezo giorno è urtata in uno di questi Molini una Barca, in cui ui era la Compagnia Comica detta Marcheselli, quale da Turino con passaporto del Sig.r Ambasciatore di Francia passaua a Verona per recitami questo Carneuale ; fortunatamente e con stento si sono saluate le persone, che molto hanno soferto, auendo per altro perduto quasi tutto l’ Equipaggio con loro gran danno.

Altro non ho che auanzare a V. A. S. mentre con la maggiore vmiltà sempre ai miei doueri mi dico.

Di V. A. S.
Vmilissimo Dev.mo Ob.mo Senuitore Suditto
Prospero Malaguzzi.

Marchesetti Carlo. Era il 1714 l’arlecchino della Compagnia italiana di Varsavia, formata a Venezia da Tommaso Ristori per la Corte di Dresda. Aggiunge il Barone O Byrn (op. cit.) {p. 71}per questo artista, che dipinse pel teatro di Varsavia una scena di camera.

Marchesini Antonio, veneziano, ebbe molto grido come capocomico. Recitava le parti d’innamorato, e Fr. Bartoli lo dice « Uomo di molto ingegno, che non solo in Teatro, ma al Tavolino ancora mostrar sapeva uno spiritoso talento. » Non ebbe alcuno mai in società, e cumulò denari quanti volle : ma proprio al momento, in cui credè la sua sorte assicurata per sempre cominciò a esser da essa perseguitato, e con siffatta costanza, che in capo a pochi anni fu ridotto in miseria. Aveva sposato la vedova Brigida Sgarri, da cui ebbe una femmina, monaca a Fano, e un maschio, Giovanni, marito della famosa Regina Cicuzzi (V.). Rimasto vedovo passò a seconde nozze con la prima donna Lucrezia Tabuini di Modena, artista pregiatissima nelle parti studiate e nelle improvvise, mortagli in Bologna il 1762. Antonio Marchesini si ritirò poi in Venezia, ov'ebbe – dice il Bartoli – pietosi sussidi da Gerolamo Medebach, e dove morì del 1765.

Si mantenne viva nei repertori del tempo una sua commedia, intitolata La Maga avvocato, che aveva in fine il seguente sonetto :

Diede natura all’uom sul proprio Core
un assoluto, indipendente impero.
Questo nel nascer nostro don primiero
da lui si riconosce per favore.
Ma a chi reca piacere, a chi dolore ;
ed io il provai finora acerbo, e fiero :
se per serbarne il suo dominio intero,
di due morti sugl’occhi ebbi l’onore.
Pur mercè a' Numi liberai lo sposo,
il germano placai, contenta sono ;
scevra d’ogni periglio avrò riposo.
Ma perchè dell’arbitrio io goda il dono,
cortesi voi quel che sperar non oso,
donate a' falli miei gentil perdono.

{p. 72}Metto qui la patente accordatagli dal Duca di Modena, che tolgo da quell’Archivio di Stato, a testimonianza de' suoi meriti, e del conto in cui egli era tenuto :

Antonio Marchesini dichiarato attuale Servitore di Sua Altezza Ser.ma Francesco &.

Partendo dai Nostri Stati per portarsi altrove Antonio Marchesini Capo della Compagnia de' Comici, che ha esercitata per più mesi tal professione ne' Teatri di Modena, e di Sassuolo con piena nostra sodisfazione, e della nostra Corte, ed’auendo percio motivo d’accordargli la nostra prottezione, con ascriverlo nel numero de nostri attuali Sruitori, l’accompagniamo colle presenti nostre lettere patenti, in vigore delle quali preghiamo i Signori Principi per i Stati de quali gli occorrerà transitare, e rispettivamente ricerchiamo i loro Ministri a far godere allo stesso Marchesini i suoi cortesi riguardi, lasciandolo passare liberamente col suo seguito, e Bagaglio, e tanto poi comandiamo espressamente aj Ministri, Officiali, e Sudditi Nostri per quanto stimano la gratia. In fede &.

Dal Paglicci-Brozzi (op. cit.), sappiamo che nell’estate del 1738 recitava al Teatro Ducale di Milano. Aveva in Compagnia il figliastro Francesco Sgarri, buon arlecchino, e Pietro Vidini, buon comico anch'egli, forse marito della Maddalena (V.), e tanto vi piacque che fu riconfermato per la seguente estate.

Marchesini Regina. (V. Cicuzzi Marchesini).

Marchetti Stefano. Recitava nella seconda metà del secolo xvii le parti d’innamorato sotto il nome di Lelio. Nella lettera di Giuseppe Fiala, accennata al suo nome (V.), è questo brano che si riferisce al Marchetti :

…… pongo auanti gl’occhi di Vostra Signoria Ill.ma che sono in Napoli con

cinque persone carico di debiti fatti per uenir in questa Città, non con altro ogetto che di leuarmi dalla tirannia e persecutione di Lelio marchetti e suoi adherenti, che è stato la rouina di mia casa, che se io hauessi hauto minimo comando nel tempo sono dimorato in modona non mi sarei partito e non sarei cosi consumato.

………………………..

Altre due lettere (entrambe dell’archivio Rasi) si hanno di lui : una da Venezia del 2 dicembre 1673, non sappiam bene a chi diretta, nella quale sono i ringraziamenti per l’avuta parte intera, e le assicurazioni della concordia completa della {p. 73}compagnia ; e l’altra da Bologna del 4 aprile 1679 appena decifrabile, nella quale domanda una lettera di raccomandazione pel Cavaliere Bartolomeo Longhi a Genova, a favore di sua moglie, comare della persona sconosciuta, a cui è indirizzata la lettera. Molto probabilmente la moglie è quella tal Marchetta, citata al nome di Girolamo Chiesa, la quale appunto, nel 1664, s’era fatta autrice d’una Compagnia, in cui s’erano impegnati il Dottor Violone e Bagolino : impegno che, a detta dello scrivente Ludovico Bevilacqua, era più atto di perfidia, e liuorc contro la signora Marzia (la Fiali) che sincero, et anteriore à quello, che haueuano con questa signora…. Il che concorderebbe forse col fatto dell’essere stato il Marchetti, come abbiam visto, la rovina della casa Fiali.

Marchetti Angelo, di famiglia lucchese, studiò pittura in patria, andando poi a perfezionarsi a Viareggio sotto due fratelli di sua madre, Emilia Rustici. Colà, entrato nella Società filodrammatica, esordì colla parte di Paolo in Francesca da Rimini del Pellico, e tale ne fu il successo che tutti lo consigliarono a gettare i pennelli per darsi all’arte del comico. Il nonno, contrarissimo sul mutamento, profittò della partenza di una tartana per Napoli, e v'imbarcò il nipote assieme a un altro giovane pittore, certo Prati. Non potendo sfogare in altro modo il suo fervore pe 'l teatro, si diede il Marchetti a declamar nelle società napoletane le poesie del Giusti e del Berchet, per le quali s’ebbe non so quanti giorni di carcere. Tutto intento nel pensiero del teatro, conobbe a Napoli varj comici, tra' quali Rafaele Negri, padre di Adelaide Falconi, del quale sposò più tardi l’altra figliuola Ergilda. Dopo alcune recite al Teatro Partenope, fu scritturato da Adamo Alberti a' Fiorentini, quale amoroso a vicenda con {p. 74}Luigi Monti, assumendo alla sua partenza il ruolo di primo attor giovine a fianco della Sadowski, della Cazzola, della Monti, di Taddei, di Alberti, di Bozzo, di Majeroni, di Tommaso Salvini, di Angelo Vestri, di Marchionni e di Virginia Marini, con la quale passò poi in Compagnia di Alessandro Monti. Quindi cominciò veramente a farsi popolare il nome di Angelo Marchetti, che fra le tante sue interpretazioni, ammiratissimo per castigatezza e slancio, diventò sorprendente in quella di Armando nella Signora dalle Camelie, colla quale, a fianco di Virginia Marini, il grande astro saliente, allora, formava il più bel duetto artistico che mai si potesse credere. Alla fine del carnovale del 1868 fu aggredito in Milano ; derubato dell’orologio e del portamonete, e minacciato di morte se avesse parlato. Affetto da vizio cardiaco, e di fibra singolarmente sensibile, ammalò poco dopo ; e, trasportato a Viareggio, quivi morì il 6 febbraio del 1869.

Sulla pietra che suggella il suo sepolcro nella cappella del Vecchio Camposanto, è la seguente epigrafe :

Qui presso all’avo ed al padre piangendo deposero le spoglie mortali di Angelo Marchetti della drammatica arte cultore egregio - Ergilda consorte, Alessandro fratello.

Il fratello Alessandro fu comico anch'esso, e anche capocomico solo e in società. Giovane colto, si adoperò con qualche suo scritto in pro dell’arte drammatica, alla quale, non ostante il posto che oggi occupa di rappresentante di una compagnia d’assicurazioni, è sempre legato di vivissimo affetto.

Marchi Francesco e Isabella. (V. Fiala Giuseppe).

Marchi-Maggi Pia. Figlia di Cesare e Carlotta Marchi, artisti drammatici, quello brillante, questa prima attrice giovine, poi prima attrice e madre, nacque a Verona del 1846. Diventata la prima attrice assoluta di una Compagnia di L. Bellotti-Bon, si diede all’interpretazione del gran repertorio moderno, facendosi ammirar schiettamente in ogni lavoro, non esclusa la Moglie di Claudio ; ma il suo vero periodo di gloria fu di quei {p. 75}sei anni passati nella Compagnia di Alamanno Morelli, a fianco di Luigi Monti, col quale formava la più deliziosa coppia d’innamorati che si potesse mai veder su la scena. Svegliatissima di mente, di spirito pronto, ebbe attitudini singolari alle parti comiche, che coltivò amorosamente sul tardi, acquistandosi con Niniche, Ma Cousine, Femme à Papa, e altro, il nome di Iudic italiana.

Recitò come tutti i figli d’arte, piccolissima ; poi fu messa in collegio a Milano, dal quale uscita, tornò a recitare, esordendo al Carcano con la parte di prima donna nel Cavalier di spirito di Goldoni, in Compagnia di Adelaide Ristori, colla quale visitò Londra, Parigi, Barcellona. Del repertorio di Achille Torelli, e specialmente di Fragilità che fu scritta per lei, fu a'bei tempi antiqui interpetre eccellente, unica : in quello di Dumas figlio, Francillon, Moglie di Claudio, Diana di Lys, non ebbe rivali, fuorchè Eleonora Duse. Di comicità irresistibile, e d’ingegno come abbiam detto vivacissimo, seppe trar grande partito da ogni situazione la più semplice ; una piccola scena recitata da lei, assumeva proporzioni gigantesche ! Che deliziosa macchietta, ad esempio, quella dell’operaja nell’Ispettore dei vagoni-letto, che invita ai baci col falso tic !… Sembrò a tutti e per un pezzo ch'ella dovesse avere il cuore {p. 76}invulnerabile ; ma un bel giorno con universal sorpresa, si ammogliò al bello e forte attore Andrea Maggi, dal quale poi si distaccò artisticamente avendo così diverse le attitudini e le aspirazioni ! Benchè non più giovane, essa continuava a farsi ammirare ed applaudire nelle sue vecchie interpretazioni. Se si fosse decisa ad assumere un ruolo più conveniente, ella sarebbe certo tornata a' bei giorni dei più clamorosi e sinceri trionfi. Colpita a Roma d’influenza, che poi andò mutandosi in polmonite, vi morì il 29 aprile 1900, assistita dal marito, dalla sorella, dal figliuolo, desolati. Fu pianta sinceramente da molti amici, dalla stampa e da ogni specie di pubblico che si vide rapir d’improvviso una delle sue più dilette artiste.

Marchi Adelina. Sorella minore della precedente, ricca d’intuizione artistica e di squisito sentire, fu, per più anni, amorosa eletta nella Compagnia di Luigi Pezzana a fianco di Giovanni Ceresa. Benchè difettosa alquanto nella pronuncia, potè passare con una recitazione calda e spontanea, al ruolo di prima attrice assoluta in Compagnie di primo ordine, come della Sadowski, diretta da Luigi Monti, nella quale io l’ebbi collega affezionata, di L. Bellotti-Bon, e di Giovanni Emanuel. In questa, una delle sue ultime e più belle interpretazioni fu della protagonista in Odetta di Sardou, che replicò acclamatissima per più sere al Teatro Alfieri di Torino. Oggi la egregia artista è fuor della scena maritata a un ufficiale dell’esercito.

Marchioni Angelo. Fiorentino. Giovane di sicura abilità nelle parti di Innamorato. Addestrossi nell’arte del recitare fra gli accademici della sua Patria ; e poi passò a Napoli, dove si fece onore. Ritornato a Firenze, recitò nel Teatrino della Piazza Vecchia, ed oggi scorre l’Italia con la Compagnia di Giovanni Roffi, facendo sempre più conoscere con certezza i teatrali meriti suoi.

{p. 77}Così Francesco Bartoli. Ma io credo che s’abbia a leggere Marchionni anzichè Marchioni, figliuolo di Casimiro, non sappiam dire se comico, marito di Elisabetta di Pompeo Bai- desi e padre della celebre Carlotta che gli nacque, mentr'egli e la moglie (1796) trovavansi a Pescia in Compagnia di Giovan Battista Mancini.

Marchionni Carlotta. Figlia del precedente e di Elisabetta Baldesi, nacque a Pescia nel 1796. Messa nel collegio delle Orsoline di Verona, si vuole che fosse trovata in estasi dinanzi a una statua di sant’Orsola, alla quale recitava certe sue filastrocche. Recitazione, che ripeteva poi per invito della stessa direttrice e delle compagne nelle ore di ricreazione. Balzò di punto in bianco dai silenzi del chiostro alle lusinghe della scena, in cui passò di compagnia in compagnia sostenendo parti or di paggetto, or di amorosa, or di seconda donna, sinchè il 1811 fu scritturata prima attrice dal capocomico Lorenzo Pani, sino al '14 ; nel quale anno appunto, essendo a spasso in Firenze gli artisti Antonio Belloni, Ferdinando Meraviglia, Carlo Calamai e Luigi Domeniconi, formarono con Elisabetta Marchionni una società, di cui fu prima donna assoluta la diciassettenne Carlotta, la quale esordì al piccolo teatro della Piazza Vecchia nella Pamela nubile del Goldoni. – Narra il Colomberti che la società iniziò il corso delle sue recite, non solamente senza alcun corredo di scena, ma senza fin anco il libro della commedia che fu per buona ventura trovato sur un banchetto. L'esordire della giovane attrice fu il primo passo alla celebrità, che divise, unica fra le donne, con Luigi Vestri e Gustavo Modena.

Ma il Modena si chiuse nella cerchia della tragedia e del dramma. Il Vestri e la Marchionni personificarono forse meglio quella varietà di attitudini che è degli attori italiani soltanto, e che permette a ciascuno di loro, che sia veramente nato all’arte, di suscitare le commozioni più disparate e diverse ; di passare con stupenda volubilità e occorrendo in una sera medesima dal tragico al comico, dall’Al fieri al Goldoni : d’essere come la Marchionni ora Mirra o Clitennestra, più tardi Mirandolina o Rosaura : come il Vestri oggi Don Marsio, domani II povero Giacomo.

{p. 78}E più largamente il Colomberti :

La naturale sensibilità, il nobile gestire, l’espressione del volto, e più di tutto il suono armonioso della voce donavano alla Carlotta un fascino che dominò per quasi trent’ anni tutti i pubblici d’Italia. Chi la vide rappresentare L'Alexina, La Fiera, La Lusinghiera, e La Vedova in solitudine del Nota ; La Sposa sagace, le due Pamele, Gl’Innamorati, le tre Zelinde del Goldoni ; La bella Fattora, traduzione del conte Piosasco ; le due Chiare di Rosenberg, La figlia della terra d’esilio, L'Orfanello suissera, drammi scritti a posta per lei dal fratello Luigi, non potè a meno di riconoscere e di applaudire in lei quei tratti di grande attrice, che caratterizzano il vero genio. Un altro genere da lei insuperabilmente rappresentato era quello delle parti ingenue. La Giurlì o La famiglia indiana, la Lauretta di Gonzales, e varie altre erano da lei con tale innocenza rappresentate, e nel tempo stesso con una verità si grande da far supporre che l’arte non vi aggiungesse nulla del proprio, quando invece era la sublimità di questa che le faceva raggiungere il vero ; e se questa somma attrice fu a tante superiore nella commedia e nel dramma, con non minore maestria seppe innalzarsi nella tragedia, poichè la Francesca da Rimini, ch'ella creò, la Pia de' Totornei, la Mirra, l’Ottavia, e tante altre le procuraron sempre nuovi trionfi.

E Francesco Righetti nel suo Teatro italiano, dopo di avere accennato alle invidie suscitate da lei nelle compagne d’arte, e di avere enumerati alcuni difetti di gesto e d’intonazione dovuti a mancanza di scuola, viene a concludere così :

Ma io sfido tutti i delicati conoscitori dell’arte comica a dirmi in chi, dove, e quando si è veduto nella commedia italiana una donna, che con tanta grazia, con tanta decenza, e con tanta nobiltà passeggi la scena ? Io m’appello a tutte le dame di tutte le corti più galanti, se si può con miglior dignità ed amabilità in una nobile e gentile conversazione, dir sedete come lo dice la nostra Marchionni ; con quale vivacità di colorito sa ella moltiplicare e compartire le tinte in una scena di gelosia ! Chi sa comporre quello sguardo, accomodar quel labbro, emettere quel suono di voce in una scena d’ironia al pari di lei ? Della felicità sorprendente nelle transazioni, e nel passaggio d’un affetto all’altro, della dizione semplicissima e naturale, dell’artifizio che par tutto natura, ne abbiamo un esempio parlante nella Lusinghiera dell’avvocato Nota.

E qui fa un’analisi minuziosa e interessante dell’interpretazione, in cui la Carlotta si mostrò più che in altre artista di genio ; alla quale fa seguir quella della Mirra, che ne fu la creazione più maravigliosa, approdando alle stesse conclusioni, e terminando poi con queste parole : « la nostra Marchionni ha dei difetti : e chi non ne ha ? Ma dove ella è grande, è più grande di tutte. »

La società con tanta modestia e direi meglio povertà costituita, andò innanzi dodici anni tra l’ammirazione e l’applauso di ogni pubblico, esempio unico di artistica fratellanza. {p. 79}Terminati i quali la Carlotta passò (la quaresima del '23) nella Compagnia Reale Sarda, in cui portò coll’arte e co' costumi l’amore del pubblico verso di lei al grado d’idolatria, e da cui si staccò nel '39, per ridursi a vita privata, e non tornar più sulle scene, fuorchè tal volta a scopo di beneficenza. Morì nubile di paralisi al cuore in Torino nel 1861. Nubile ! A proposito del sagrificio ch'ella avea fatto all’arte degli affetti di sposa e di madre, Giuseppe Costetti (op. cit., 38) dice :

E quando si rifletta che la verginità di Carlotta Marchionni non fu una maschera astuta per gabellare irresponsabilmente non dirò la scostumatezza, ma nemmeno le facili mondanità della vita del teatro, ma fu invece una castità immacolata e tersa, non appannata mai neppure dal soffio della maldicenza che, fra le quinte, è vipereo ; è da pensare {p. 80}piuttosto che quell’anima forte e quella vigorosa fantasia si piacessero del contrasto fra la severità del costume che s’era imposta, e le sfrenate amorose passioni che doveva rappresentare.

E più oltre (pag. 41) :

Carlotta Marchioimi, la estatica di Verona (allude al Collegio delle Orsoline), la immancabile alle messe meridiane della Consolata o di San Filippo, che prima di uscir sulla scena ogni sera si faceva senza ostentazione, nè sotterfugio, il suo bravo seguo di croce, rappresentò alla perfezione Donna Giulia (La Lusinghiera) e le sue spinte civetterie, come già aveva reso le fiamme incestuose di Mirra.

E il Colomberti :

Carlotta Marchionni fu donna adorna di modi squisiti e gentili ; d’ingegno perspicace e pronto. Tanta era l’attrattiva del suo conversare, che la di lei casa era in ogni città frequentata dai più rinomati ingegni in Arti, Scienze, e Letteratura. L'arte che professava fu sempre per lei una seconda esistenza. Nè questa le impedì d’essere figlia amorosissima, perchè non volle mai separarsi dalla sua genitrice ; e quando la morte glie la tolse, le fece innalzare nel Campo Santo di Torino un monumento che racchiuse, dopo varj anni, anche le di lei spoglie mortali.

La madre morì d’anni 65 il dì 24 marzo 1835 ; ed ebbe sulla sua tomba questa iscrizione :

Ad Elisabetta Marchionni Sanese | dalla figlia Carlotta | cui raddoppiò gli affanni nel mancar della madre | amata sopra tutte le cose umane com’era degna.

Giovanni Prati dettò il seguente sonetto :

Visitando la tomba di sua madre

Sì ; vidi anch'io quell’urna e quelle forme
sculte nel marmo, e che tu piangi estinte :
E volto a quella che là dentro dorme,
e per aura miglior l’ali ha sospinte,
sclamai : « Beata, che traesti l’orme
da queste zolle in vanità dipinte,
dove s’indraca un popolo difforme,
che troppo ha l’alme nella creta avvinte.
Beata ancor, che dietro te lasciasti
una che piange in queste basse rive,
come cosa mortai più non la tocchi.
Troppo le tombe scordano i rimasti !
Troppo, e Dio se ne accora. Ella non vive
dal dì che ha chiuso alla sua madre gli occhi. »

{p. 81}Gli onori tributati alla grande Carlotta ricordan quelli tributati più di due secoli a dietro a Isabella Andreini ; onori di rime, di medaglie, di marmi. Madame di Staël, a una rappresentazione della Mirra in Milano, lei che all’ammirazione del teatro italiano non fu molto inchinata, vòltasi a Silvio Pellico, sciamò : elle à le génie de son art au dernier point. Tra'versi dettati in suo onore, del Pezzòli nella Galleria dei più rinomati attori drammatici italiani, del Vico nell’opera del Costetti, ecc., scelgo il principio e la fine del sermone di Giuseppe Barbieri, Il Teatro, a lei dedicato, che è men facile a trovarsi :

……………
Pochi nel genial comico ludo
surgono ad alta meta insigni attori ;
e Tu forse nel tragico lamento
unica sei, che l’anime distempri
d’ineffabil dolcezza ; e ben Tu fosti
a miracol mostrar, di Ciel venuta,
soavissima Venere del pianto.
O rara donna ! A questo erami dunque
la tua maravigliosa arte serbata,
questo voleva il mio destin, che tutto
l’amaro e il dolce, in che passai la vita,
« quand’era in parte altr'uom da quel ch'i' sono ; »
tutto m’avesse a ribollir nel petto,
e traboccarmi in lagrime dagli occhi ;
e me da me diviso, e in te pendente
confondermi con teco ? Illustre donna,
chi non t’ammira ? Di vivaci plausi
ferve al tuo comparir l’Itala scena ;
che dove a Te simile altra sorgesse,
di Melpomene alunna e di Talia,
men sonerebbe glorioso il vanto,
che le galliche prove a noi rinfaccia.
……………
……………
……… o delle Muse
verace figlia, e delle Grazie alunna,
a Te mi volgo, in Te conforto e speme
{p. 82}giovami por ; che Tu Roscia de' palchi,
Tu del bello imitar casta, decente,
affettüosa, amabile, maestra
farai le scene di lor meglio accorte ;
e sarai vivo specchio, in che guardando
attori e spettator, prendano forma
d’ogni sincera teatral virtude.
Opra è questa da Te. Natura ed arte
Ti componeano al bello ed all’onesto.
Sirena del dolore, io ti saluto.

Marchionni Luigi. Fratello della precedente, nacque a Venezia il 2 novembre 1791. De' primi anni dell’arte sua riferisce il Colomberti il seguente aneddoto :

Il direttore Antonio Belloni che trova vasi con la Compagnia Paganini nel 1803 unitamente all’Elisabetta, da poco divenuta vedova, possedeva un piccolo cane, che, divenuto idrofobo, fuggi di casa, e si recò in quella della Marchionni, forse per non mordere i padroni. Giunto colà, incontrò in una stanza Luigi e la di lui sorella (non già la Carlotta, ma la Luigia, che appena aveva raggiunti i dieci anni). Fratello e sorella in quel punto litigavano per un motivo qualunque, e Luigi, veduto il cane, lo aizzò contro la sorella, che venne morsicata, e mori dopo pochi giorni. La madre, furiosa contro del figlio, cagione innocente della morte della sorella, lo cacciò di casa. Inutili furono le discolpe del giovinetto, e le preghiere di tutta la Compagnia ; la madre rimase inflessibile. Il Capocomico ed il Belloni lo impiegarono con la Compagnia condotta dal caratterista Francesco Pieri ; e là il disgraziato giovinetto fu obbligato a suggerire, copiare originali e parti, non meno che a far parti adattate alla sua età. Benchè da tanti obblighi non ritraesse che un piccolo stipendio, pure non solo provvedeva alla propria sussistenza, ma siccome era studiosissimo, toglievasi spesso il pane dalla bocca, per comprare dei libri. Nelle ore in cui poteva esser libero da' suoi doveri (e queste non erano tali che nella notte), si occupava continuamente a leggere ; ed essendo pieno d’ingegno naturale, e dotato di ferace memoria, seppe profondamente istruirsi, e in seguito diventare un buon autore teatrale, ed un ottimo artista. Sembra che il tempo e l’amor materno, non meno delle preghiere della sorella, gli ottenessero il perdono della severa Elisabetta dopo diciassette anni di esilio dalla famiglia : e infatti lo ritroviamo nel 1820 nella Società drammatica della madre e della sorella al posto di primo amoroso assoluto, dopo la scelta del primo attore Meraviglia, con la moglie Teresa, brava prima e seconda donna giovane.

(Era questa figliuola del buon secondo caratterista e servo sciocco Giuseppe Grazzini).

Entrò il 1825 con l’impresa Tessari, Prepiani e Visetti a' Fiorentini di Napoli, ove stette sino al '64, anno della sua morte. Il Marchionni fu l’attore generico per eccellenza. {p. 83}Brillante e tiranno, padre nobile e amoroso, caratterista e promiscuo, s’ebbe fama di Garrick redivivo. La Moda di Napoli dice : « è difficile veder due volte il Marchionni con la stessa sembianza : diverso sempre da sè sotto le diverse forme che veste su le scene, ei non somiglia a sè stesso che in una sola cosa, cioè in esser sempre eccellente. »

Di lui abbiamo tragedie : I Martiri, Olindo e Sofronia, Edea Zavella o La presa di Negroponte, La Vestale, che meritò gli elogi di Vincenzo Monti e di Ugo Foscolo ; spettacoli : Pirro, o i Venti Re all’assedio di Troja, La figlia della terra d’esilio ; drammi : Chiara di Rosenberg calunniata, Chiara innocente, L'Orfanello svizzera ; lavori questi scritti per la sorella Carlotta e da lei con molto successo recitati. Poi libretti d’opera, come L'Esule di Roma e Belisario, musicati dal celebre Donizetti, e una infinità di traduzioni dal francese e riduzioni in prosa e in versi che furon vive per molti anni ne'repertorj delle nostre primarie compagnie.

Marchis (De) Giuseppe. Uno dei primi attori della Compagnia di Gioacchino Petrelli. Autore di un dramma, La morte di San Nicola, che fu rappresentato per più sere nel 1800 a Tolentino.

Marcucci Anna. (V. Fiala-Narici Marzia).

Mariani-Zampieri Teresina. Dei primi anni di questa egregia artista, nata a Firenze al principio del 1871, e andata {p. 84}il '77 e '78 a sostener colla Ristori a Parigi e in Ispagna le parti di uno dei bimbi nella Medea e del Delfino nella Maria Antonietta, una delle più intellettuali tra le giovani prime donne del nostro teatro di prosa, così parla Gacc nel Resto del Carlino del 29 novembre 1897 :

Scioltasi la Compagnia Ristori, le sventare domestiche cominciarono a sperimentare la tempra del cuore della piccola attrice, educandola alla scuola del dolore. Il padre di lei, Antonio, oriundo romano, buon attore, formò una discreta compagnia, che dopo brevi tentativi, si scioglieva : e recatosi a Torino colla famiglia, prestò l’opera sua a quella Società Filodrammatica ; ma rottosi l’accordo, quei bersagliati si trovarono ancora in balia della ventura.

Dimenticati dalla famiglia comica, si stabilirono a Torino ; il padre con un impiego di copista, le due donne ad agucchiare per la sartoria del Teatro Regio. La madre tornò per alcun tempo nella Compagnia Milone Vazer ; ma ben tosto ancora al lavoro dell’ago. Poi, anche questo mancò col cader della stagione teatrale, e fu allora un travagliarsi, un assoggettarsi a fatiche nuove, ad occupazioni penose e di tenue guadagno. Le belle manine della giovinetta lavorarono alla fabbricazione delle cartucce nell’arsenale militare, e trapunsero ricami di crochets pel convento delle Josephines.

In quei giorni, la famiglia Mariani, più per sfogo che per guadagno, andava coi dilettanti alla Venaria Reale, dove la giovine attrice interpretava i caratteri più disparati e più strani, quali la Linda di Chamounix o il Maino della spinetta. Il direttore della Filodrammatica del Teatro Nazionale, Alessandro Emanuel, ammirato dai pregi della bionda attrice, la scritturava per le recite del carnevale ; e in questo periodo di tempo incominciano i suoi primi trionfi.

A quindici anni, la Compagnia Diligenti-Pezzana l’accoglieva con amore ; e nel 1885 nella parte di Edith del Figlio di Coralia debuttava applaudita al teatró dei Rozzi di Siena ; continuando negli anni successivi, colle Compagnie Novelli, Pasta e Drago, a rafforzare sempre più la sua delicata fibra d’artista.

Dopo gli anni, che chiameremo di noviziato, ma che furono anni di vita artisticamente vissuta, nei quali la prima attrice giovane colla intelligenza svegliata, colla voce insinuante, colla dizione limpida e piana, era diventata l’idolo del pubblico, passò prima attrice assoluta nella Compagnia di Cesare Rossi, osteggiata dai più, che vedevano in lei nelle grazie del viso, la eterna ingenua, ma accompagnata dall’incoraggiamento dei pochi, che vedevan nella gagliardìa della sua mente, e della sua volontà, nello sviluppo ognor crescente delle sue attitudini, una giovane forza che sarebbe arrivata in breve agli alti gradi dell’arte. E i pochi non s’ingannarono : alla Fernanda, alla Ivonne, alla Pia, alla Iolanda, seguì la Dorina, la Parigina, la {p. 85}Innamorata, la Santuzza, non esclusa la inevitabile Margherita Gauthier, in cui la Mariani si cimentò, cosciente della battaglia grande che ingaggiava col pubblico, ma fidente nelle sue forze. E vinse. E il pubblico l’acclamò ; e proclamò artista fine e potente…. D'ingegno pieghevolissimo, passò con singolare sicurezza e rapidità ai generi più disparati, riuscendo interprete felice della nuova scuola. Oggi è capocomica, e maritata a Vittorio Zampieri ; e dopo un viaggio breve ma fortunato in America, tornò tra noi al Valle di Roma, ove interpretò mirabilmente Zaza, l’affascinante mosaico teatrale di Berton, per riprendere il largo verso la Spagna, ove l’attendevano onori non isperati. Le più che festose, entusiastiche accoglienze di Madrid e di Barcellona la compensarono a esuberanza de'tristi anni della fanciullezza, che, tra le acclamazioni di un popolo artista, le torneranno alla mente con naturale e vivo compiacimento, sentendo di dovere a sè sola, alla sua tenacità, al suo amore per l’arte, all’ingegno suo, se potè da quelli balzar nella vita presente tutta intessuta di rose.

Marini Giuseppe, veronese, esercitatosi tra'dilettanti della sua patria, si diede all’arte nel 1810, dedicandosi per la sua maestosa figura al ruolo di tiranno, che sostenne con {p. 86}moltissima lode nelle primarie compagnie di Raftopulo, Goldoni, Dorati, Internari e Paladini, Perotti e Fini.

Morì a Firenze l’anno 1854.

Marini Virginia, figlia di Carlo e Teresa Weiss, nacque ad Alessandria della Paglia il 19 novembre del 1844. Essendo il padre custode del teatro d’Alessandria, la piccola Virginia attendeva ogni mattina alla ripulitura dei palchi e della platea, ingannando il tempo con tirate di commedia che aveva imparate la sera in teatro. Il fiorentino Giovan Battista Marini, discreto artista (era generico dignitoso il 1853 in Compagnia Sadowski-Astolfi), sorpresala nelle sue declamazioni, scoprì il tesoro magnifico della sua voce, e, vedovo da poco e per giunta con figliuoli, propose alla Virginia di sposarla, coll’intento d’iniziarla alla vita dell’arte. Essa accettò, il matrimonio accadde nel 1858, e Virginia Marini diventò nello stesso tempo attrice.

Questa la leggenda.

Fu i suoi primi anni servetta con Meneghino Preda ; poi, il '62, ingenua ai Fiorentini di Napoli, ove mostrò subito quali altezze avrebbe saputo raggiungere. Era la prima volta che recitava in italiano. Tita Nane, pseudonimo che cela uno dei più modesti e più intelligenti cultori dell’arte nostra, così descrive quello e gli altri primi passi in un bello e appassionato articolo apparso nella Tribuna illustrata del settembre '94 :

Adamo Alberti scelse per il debutto un vecchio pasticcio del Bayard : Il nuovo Figaro e la Modista. La modista era lei, la Marini. La sala metteva paura. Il pubblico aveva avuto per una settimana i grandi della Compagnia, Salvini, la Clementina Cazzola, e non dico altro. Della Marini nessuno aveva mai sentito ripetere il nome. Quand’ecco arriva sulla scena lei con una scatola in mano, vestita proprio come una sartina che si rechi a domicilio, e, senza uscire dalla naturalezza, fa sentire la musica di quella voce. Apriti cielo ! Fioccarono gli applausi, e lei, poveretta, non credeva a sé stessa ; subito Tommaso Salvini la slanciò nel genere drammatico, e il successo fa eguale. Essa non perdeva sillaba della Cazzola, che, per eleganza, naturalezza, profonda intuizione d’arte, si collocò fra la Ristori e la Sadowsky, e in certe parti non trovò chi riuscisse a superarla ; e più tardi, a Firenze, quando la Cazzola ammalò, Tommaso Salvini ricorse alla signora Virginia ; e la signora Virginia, improvvisando sera per sera un’interpretazione, cominciò a spiccare il gran salto, sempre sotto gli auspici del gran colosso Salvini, artista completo, dividendo il regno dell’arte con la Tessero e la Pezzana, e tutte tre facendo credere con i grandi successi fatti ottenere alle commedie di Gherardi Del Testa e di Achille {p. 87}Torelli, ai proverbi del Suner, ai drammi del Costetti, ai lavori mastodontici dell’ultima maniera di Paolo Ferrari, al medio evo di Giacosa, alla romanità di Pietro Cossa, alle galanterie di De Renzis, di Martini, di Castelnuovo, e tutto il resto di Cuciniello, di Muratori, di Montecorboli, di Castelvecchio, di Sabbatini e di tanti altri, facendo credere all’esistenza d’un moderno teatro italiano.

Virginia Marini fu il '63 con Luigi Domeniconi, e il '64 con Gaspare Pieri. Il '64-'65 era di nuovo con Adamo Alberti ai Fiorentini di Napoli, e questa volta prima attrice giovane ; dal '66 al '68 con Alessandro Monti, dal '68 al '69 con Tommaso Salvini, dal '69 al '72 con Alamanno Morelli. Poi ebbe Compagnia propria, entrò nella Compagnia Nazionale, tornò a formar Compagnia…. Fu con Ermete Zacconi e con Giovanni Emanuel…. poi…. mutati i tempi, mutati i sistemi, mutati {p. 88}gl’indirizzi, mutate le scuole, si ritirò dall’arte in Roma, ov'è tuttavia, chiamata a coprire la cattedra di arte della recitazione nel Liceo musicale di Santa Cecilia, creata per decreto del Ministro Baccelli. Questa la cronaca della vita artistica di Virginia Marini.

Enrico Panzacchi, analizzando la interpretazione dell’Adriana Lccouvreur di Clementina Cazzola (V.) e di Virginia Marini, di questa viene a dire :

L'Adriana invece rappresentataci dalla Marini è altra donna. Forse meno ligia alle intenzioni di Scribe e Legouvé, forse mero fedele alla biografìa, ma più conforme a natura e verità. Sulle prime è la giovine donna che ama e crede nell’amore, che pare profonda e confidente nei gesti, nel volto, nei toni pacati della sua bella voce ! La passione regna dentro poderosa, assoluta, una di quelle passioni che decidono il destino di tutta una vita, ma pare che dorma e sogni tranquilla carezzata dalla fede e dalla speranza. Sotto le belle vesti di Rosane, nell’anticamera della tragedia, Adriana non ismentisce un solo istante la sua naturalezza di giovine attrice spigliata, allegra, carezzevole, a cui l’amore ha fatto sempre buon sangue e buona cera.

Chi in quella bonaccia profonda indovinerebbe la tempesta del quarto atto ? È una trasfigurazione compiuta. Il portamento, il gesto, gli occhi assumono un fare prepotente e fulmineo ; la voce ha sibili come il serpente e inflessioni laceratrici come d’aculeo. L'invettiva di Fedra gittata a guisa d’uno schiaffo o d’un pugno di fango sul volto della rivale, ci rivela a un tratto tutta la potenza tragica dell’amore d’Adriana e ci fa anche presentire il terribile scioglimento del dramma.

………………..

Ai successi dell’Adriana Lecouvreur dovrebber qui aggiungersene migliaia ; chè, per oltre un ventennio, Virginia Marini ha tenuto con Adelaide Tessero lo scettro del teatro italiano di prosa, e, direi quasi, di canto, tale e tanta era la carezzosa musicalità della sua voce. Quando non si andava svogliatamente com’oggi a teatro, per veder la riuscita di un nuovo lavoro, sul quale si ha già una preventiva poca fede ; ma ci si accorreva entusiasti a giudicar di una interpretazione, suscitante poi ne' confronti le più vive discussioni, la vita artistica di Virginia {p. 89}Marini era il trionfo non interrotto di ogni sera. Passando dalle schiette e composte comicità della Serva amorosa agli sfrenati e sfacciati ardori di Messalina, e da questi alle sospirate romanticherie del Cuore ed arte, poi a Frine, all’Adriana Lecouvreur,

alla Signora dalle Camelie, al Trionfo d’amore, alla Straniera, a Cecilia, al Falconiere, alla Donna e lo Scettico, al Fratello d’armi, alle Donne curiose, a tutto un repertorio de'più vasti e disparati e in verso e in prosa, Virginia Marini non sentiva il bisogno di correr dietro alle solleticanti e stimolanti sudicierie di una pochade per attirare e guadagnarsi il pubblico ; ma bastava lei, lei sola, circondata da una modesta schiera di compagni, i quali potevan chiamarsi Alamanno Morelli, Giovanni Ceresa, Francesco Ciotti, Guglielmo Privato, Giulio Rasi, Sante Pietrotti, Pierina Giagnoni, Anna Job, e via discorrendo.

Ricordiamo ancora Virginia Marini alla vigilia della celebrità con Alessandro Monti al Teatro Alfieri di Firenze ! Quale Signora dalle Camelie allora ! Che duetti d’amore con Angelo Marchetti !… E tutto il periodo Salviniano ? Quale armonia, che fusione di sospiri ! Che Figli delle Selve allora ! Che Otelli ! Che Zaire !… Perchè, Virginia Marini, al fianco di Tommaso Salvini, diventò una di quelle artiste, rimasta unica poi, che sollevava, come il suo grande compagno e maestro, le platee con una semplice inflessione di voce ; era quella una forza sua. I versi, nella sua bocca, si andavano aprendo e sviluppando in melodie nuòve…. forse non sincere talvolta, forse non sempre d’intonazione perfetta, ma di una maravigliosa efficacia sul pubblico, che rimaneva vinto di sorpresa, e soggiogato…. L'arte della Marini fu plastica nella dizione e nel portamento. Artista non troppo sincera, forse, al molto studio sagrificò di conseguenza la spontaneità. Gli scatti subitanei, le improvvisazioni inattese, e diciam pure gl’improvvisi lampi d’arte della Tessero mancavano a Virginia Marini ; ma nella {p. 90}grande, grandissima artista del momento mancavan le elette qualità dell’altra, che, se bene un po'meccanicamente, si mostrava tutte le sere colla stessa voglia, colla stessa arte, cogli stessi mezzi, che formaron sì lungo tempo l’idolatria del pubblico pagante. Perchè anche questo va pur notato. Di Virginia Marini non si potè mai dire : « stasera son capitato male ; recita col sangue al naso ! » Ma tanta gloria, tanti entusiasmi, dovevan finire come per incanto. A' venti anni di acclamazioni, che avrebber dovuto lasciarne ripercossa l’eco per tanti e tanti anni ancora, seguì un silenzio di tomba. Il pubblico teatrale, che in Italia è l’espressione più viva e chiara dell’umana ingratitudine, vòlte le spalle all’idolo vecchio, ne cercò di nuovi ; e, non trovatili, li creò, e a quelli si prosternò. I trinciamenti d’aria col braccio e l’indice distesi, le inflessioni di voci ad alti e bassi, a scatti voluti, tutto il grande convenzionalismo dell’antica scuola, cedè il campo alle dizioni incolori nella lor naturalezza, alle movenze studiate nella lor trascuratezza, a tutto insomma il grande convenzionalismo della scuola moderna. Virginia Marini ha chiuso il vecchio periodo, che comprese con lei la Ristori, la Tessero, la Pezzana, la Marchi, la Campi, la Giagnoni, Morelli, Ciotti, Ceresa, Pasta, Salvadori, Bellotti, Rasi, Vestri, ecc….. Eleonora Duse ha aperto il periodo nuovo,che comprende………………….

Mariotti Olinto. Fiorentino, primo attor giovine de'più intelligenti, nacque il 1850. Cominciò a recitare in compagnie di poco o niun conto, finchè, morto Giulio Rasi, andò a sostituirlo in Compagnia Morelli, acquistandosi in breve la stima e benevolenza de'pubblici più arcigni, per la svegliatezza della mente, lo slancio della passione, la interpretazione mai errata. Le due parti che tra l’ultime gli crebber fama, furono il Duca Valentino nei Borgia, e l’Ammiraglio Rotei nella Cleopatra di Pietro Cossa. Aveva sposato Laura Tessero, sorella minore di Adelaide, prima attrice giovane di qualche pregio, e morì, giovanissimo, compianto da tutta l’arte.

{p. 91}Di lui riferisco le parole di Yorik, come quelle che ci dàn chiaro il ritratto dell’artista e dell’uomo :

Aveva appena trent’anni, era pieno di vita e di speranza, forte, robusto, gagliardo, ricco d’ingegno, lieto della sua sorte, felice della simpatia, dell’affetto, della stima, in che lo tenevano i suoi concittadini. Era entrato di fresco nell’ arte, e non per la solita porta delle disillusioni e delle stanchezze. C'era venuto per vocazione vera, e ci aveva portato un animo generoso, una mente colta, un’istruzione non comune. Scriveva con garbo in prosa ed in verso ; aveva anche fra le sue carte qualche non infelice tentativo drammatico ; si era fatto largo nella schiera degli artisti per l’ingegno suo vivace, per la festività dello spirito, per l’arguzia della parola, per la bontà del cuore, per l’ardore infaticabile de'suoi studj continui. Festeggiato da per tutto, applaudito, incoraggiato, camminava a fronte alta, e con passo spedito verso un avvenire che non pareva troppo lontano.

E nel pieno fiore delle sue speranze mori a Matelica, la mattina del 27 settembre, alle ore tre, pronunziando a stento col labbro agonizzante il nome di personaggi drammatici che gli rammentavano i suoi più lusinghieri trionfi…. Rotei…. Valentino….

Cosi muojono gli artisti veri ! Il povero Olinto vivrà però lungamente ancora nella memoria degli amici fedeli, e nel compianto del pubblico italiano.

Paolo Ferrari dettò, in nome della vedova, la seguente iscrizione che trovasi nel monumentino erettogli in Firenze a San Miniato al Monte :

OLINTO MARIOTTI FIORENTINO
COLTIVÒ LE LETTERE SCRISSE PEL TEATRO
FU ARTISTA DRAMMATICO
APPLAUDITISSIMO
ALLE DIFFICOLTÀ DELLA VITA
OPPOSE ANIMO SALDO
VOLONTÀ PERTINACISSIMA
AVEVA VINTO
COMINCIAVA A GUSTARE LE GIOIE
DELL'ARTE DEGLI AMORI DELLA FAMIGLIA
QUANDO
TRENTENNE APPENA
IL DÌ XXVII SETTEMBRE MDCCCLXXIX
MORÌ
IO LAURA TESSERO VEDOVA DI LUI
GLI POSI QUESTO RICORDO
DEL MIO AMORE DEL MIO DOLORE
IL NOVEMBRE MDCCCLXXX

{p. 92}Marliani Giuseppe, piacentino. Trascrivo da Francesco Bartoli :

Fece egli in sua gioventù il Ballerino da corda in una Compagnia di saltatori diretta da Gaspare Raffi Romano, di cui sposò la Maddalena di lui sorella ; e vedesi ancora andare attorno una stampa in Rame con espressevi tutte le forze, ch'egli faceva, e con sotto questa iscrizione :

Giuseppe Marliani Ballerino da corda.

Fu il Marliani istruito nell’arte comica da Alessandro d’Afflisio Innamorato di merito ; e però in Venezia ballava di giorno co'suoi compagni e colla moglie, in un casotto nella Piazza di San Marco, e la sera recitava con gli stessi nel Teatro di San Moisè, esercitandosi nella maschera di Brighella.

Questi i principii di questo artista, che, passato poi nella Compagnia di Girolamo Medebach, col quale stette più anni, potè, al Sant’Angelo e al San Gio. Grisostomo mostrare più largamente i veri pregi ond’era ornato. Il Bartoli cita una commedia, particolare fatica di lui, nella quale sosteneva parecchi personaggi, parlava più dialetti, e faceva mille giuochi capricciosi. Nè solo all’improvviso fu attore pregiato, ma anche nelle cose studiate, in cui, deposta la maschera del Brighella, si mutava egregiamente in tiranno, come nell’Attila e nell’Ezzelino dell’abate Chiari. Passò vecchio, con la moglie, da quella del Medebach nella Compagnia della Battaglia, nella quale viveva ancora al 1781.

Sappiamo dal Bartoli essere stato un uomo de'più capricciosi ; giuocatore arrabbiato del Lotto, dilettante alchimista, era riuscito a comporre un metallo somigliante all’argento, di ben poco valore ; ma, soprattutto, uomo probo, e come tale amato, e stimato da tutta l’arte. (V. Medebach Teodora).

Marliani-Raffi Maddalena. Veneziana, moglie del precedente, e attrice egregia nelle parti di serva, fu sempre col marito sotto il nome di Corallina, eccettuato un triennio, in cui se ne staccò, per inconsideratezza, come dice il Goldoni. Nelle {p. 93}cose improvvise non aveva chi le stesse appetto : e nelle premedicate fu tale il valor suo. che il Goldoni e il Chiari serisser più epere a posta per lei : quegli La serva amorosa. La donna di garbo. La Locandiera : questi La [illisible chars]amorosa. La [illisible chars]. Di lei, a proposito della Serva amorosa. Carlo Goldoni scrive. Mem., II, 110 :

Mar[illisible chars], il Brighella della Compagnia, era maritato : sua [illisible chars], la quale era stata ballerima da corda al pari di lui, era una giovine veneziana molto bella ed [illisible chars], poema di spirico e di talenti, e mostrava felici disposiricai per la commedia : ella aveva abbandonato suo marito per giovanile inconsideraterra, e venne a riunirsi con lui dopo tre anni, preadendo l’impiego di serva nella Compagnia di Medebach sotto il nome di [illisible chars].

Era gentile, rappresentava le parti di serra, e quindi non mancai d’interessarmi per lei. Presi cura della sua persona, e composi una commedia per la sua prima sperienan.

Madama Medebach mi somministrava idee interessanti, commoventi, e d’un comico semplice ed innocente ; e madama Marlisni viva, piena dì spirito, e naturalmente accorta, dava un nuovo stimolo alla mia immaginativa, e incoraggiavamì a lavorare in quel genere di commedie che richiedono artifizio e finezza.

Cominciai dalla Serva amorosa……………

………………………….

Questa commedia ebbe un incontro completo. Corallina fu estremamente applaudita, ma divenne tosto una rivale formidabile per madama Medebach.

E nella prefazione alla Serva amorosa (Edizione Pasquali, vol. III, pag. 76) :

Non nego che molto non abbia contribuito all’ ottima riuscita di tal commedia il merito personale di quell’ eccellente attrice, che sostenne mirabilmente il personaggio di Corallina ; ma appunto conoscendo io dove potea fare maggior risalto la di lei abilità, ho procurato vestirla d’una prontezza di spirito, che a lei suol essere famigliare, e mi è riuscito l’effetto, a misura dell’intenzione.

Recatasi col marito nella Compagnia Battaglia, rimase tuttavia, benchè in là con gli anni, quella celebre Corallina che fu nella sua fresca giovinezza, e le lodi — dice il Bartoli — che a lei si dànno in alcuni moderni romanzi sono degne di lei ; ma meglio sarebbero state in una storia vera, di quello che figurano in mezzo alle favole. Patente allusione all’opere del Piazza, che ha parole di vivissimo encomio per l’ incomparabile artista. (Vedi Medebach Teodora).

Martelli Antonio. Bolognese. Di sarto ch'egli era, si mutò in Brighella, esordendo nella Compagnia di Antonio {p. 94}Marchesini ; e tanto progredì nell’ arte, che, venuto a mancar l’Angeleri (V.) al S. Luca di Venezia, egli vi fu chiamato a sostituirlo, l’autunno del 1754. Nè solamente apparve buon Brighella, ma buon caratterista in genere ; e Carlo Goldoni scrisse per lui il Todaro Brontolon, il Fabrizio degl’Innamorati, il Don Policarpio della Sposa sagace, il Don Mauro dell’Amante di sè stesso, ed altro ; commedie tutte, nelle quali, a detta del Bartoli, mostrò tanto valore da diventare il Beniamino di Venezia, dove stette lunghi anni, prima al San Luca, poi al Sant’Angelo, sotto la direzione di Giuseppe Lapy, del quale, sempre a detta del Bartoli, fu più che amico, fratello.

Ho messo, a detta del Bartoli, poichè a detta invece di Antonio Piazza, l’autor del Teatro, il valore artistico del Martelli e l’amor suo pel Lapy furon di assai bassa lega. Ecco in fatti ciò ch'egli ne dice alla pagina 18 del secondo volume :

Il Brighella di quella Compagnia era un bolognese nasuto che faceva il sartore di professione, e cangiata l’aveva in quella di commediante. Il suo pregio maggiore è un gran tuono di voce da spaventare un’armata, tuono che mai non si cangia, e che stordisce l’udienza. Egli si crede il più bravo di tutti i comici dell’Universo, per i caratteri. In che consiste la sua bravura ? Nel fare da vecchio in una scena, e in un’altra da giovine, senza mutar personaggio ; anzi, spesse volte, queste mutazioni succedono in una scena medesima ; perocchè la comincia tremante, e piegato col capo a terra, e la finisce ritto, ritto sulla persona. Oh che bravo caratterista ! Bisogna poi goderselo nelle tragedie. Se pare, l’Impresario, vestito all’ eroica il Re di Coppe, costui pare una figura de' Tarrocchi, e quando sono fuori tutti e due, non si può dare di meglio. Uno, che nel Foro Romana parla da Dottore, l’altro che urla, senza poter mai piegare quella voce da bufalo, formano una coppia galante da far ridere anche quando si ammazzano. Li gondolieri del mio paese hanno sempre sostenuto colle loro mani callose, che quel Brighella è un grande uomo. Con coloro, chi grida più ha più merito, e dove trovare tra i comici una voce da stali e premi più sonora di quella ? Qualora detto venivagli, che qualche altro recitava bene delle sue parti ; come, diceva, se il Goldoni le ha scritte per me ! Io sono stato il primo a farle ; non può darsi, non è vero : o saranno mie copie, o reciteranno male. Ah ! Che forza di argomentare ! che testa da foro ! Era gran amico dell’ Impresario, ma ancor più di sua moglie, donna giovine e non brutta. Le scene di gelosia, che tratto tratto nascevano tra di loro, erano delle più bizzarre ch' uscir possano da una poetica fantasia. Dottore faceva la barba a Brighella, e questo cuciva la roba dell’ altro ; cosi aveva il comodo di star sempre vicino alla sua Bella. Che bel vedere in Casa uniti que' due celebri Personaggi I L'Impresario al tavolino in veste da camera, in berretta bianca, cogli occhiali sul naso, a rovinar Commedie, pareva un moribondo che scrivesse il suo testamento ; e brighella, coll’ago in mano, il suo sartore che gli facesse l’abito da morto. E poi la sera, sul palco a fare da Imperatori, da Re ! !…

{p. 95}Forse, alcun po' delle lodi togliendo all’uno, e alcun po' de' biasimi all’altro, avremo nel Martelli un bravo artista per le parti comiche, non essendosi egli mai spacciato, e in ciò conviene anche il Bartoli, per attore tragico.

Era al Sant’Angelo di Venezia il 1795-96, brighella e caratterista della Compagnia Pellandi, e fu primo a recitarvi la parte del vecchio di centoquattr'anni nella Madre di famìglia del Sografi. Il 24 gennaio 1797 ri recitò al Sant’Angelo Guglielmo e Carolina, dramma tradotto dall’Albergati ; e vi fu « illuminazione a giorno, perchè recitò il signor Martelli, ricuperatosi da una grave malattia. » (Teatro app., vol. 8, pag. 10)

Martelli Francesco. Figlio del precedente, iniziato al teatro da suo padre e dal capocomico Lapy, con l’esempio di Majanino e del Pettinaro (Grandi Tommaso), ch' erano in compagnia, recitava le parti d’innamorato. Il Bartoli lo incita a un più serio studio, e a un maggiore riserbo col bel sesso, potendo, per tal modo, « giungere — egli dice — ad acquistarsi in tutto quella pregevole fama, che ancora sull’ali librata si va pigramente arrestando, sino che un più lodevole stimolo di questo attore le faccia incessantemente più alto spiegar il volo. »

Martinelli Tristano. Figlio di Francesco e Lucia, mantovano, fu, se non il più antico, il più grande certo degli antichi arlecchini, fiorito tra gli ultimi venti anni del '500 e i primi trenta del '600. Le prime notizie che abbiamo di lui son del fratello Drusiano dalla Spagna, ov' erano entrambi, l’uno attore, l’altro direttore, nel 1588. Lo troviamo poi nella Compagnia di Pedrolino, Giovanni Pelesini, dalla quale, com’egli scrive a un famigliare del Duca da Cremona, il 4 dicembre '95, si partì per mali trattamenti e più per insofferenza di giogo, passando in quella de'Desiosi o della Diana, in cui lo troviamo ancora l’anno successivo a Mantova e a Bologna, il '97 a Piacenza, onde scrive gajamente a Ferdinando de'Medici, {p. 96}chiamandolo nell’ intestatura misericordioso tutore, e nella sopra- scritta « suo come fratello minore Messer Ferdinando Medici, ma non de quei che toccano il polso », e il '99 a Verona, anno appunto, in cui, con decreto del 29 aprile, fu fatto dal Duca Vincenzo soprastante ai Comici mercenarj, ciarlatani, ecc., di Mantova e distretto ; carica che gli suscitò contro l’invidia de' malevoli, com’ egli ebbe a dolersi col Duca in una lettera del 7 di agosto, riferita intera dal D'Ancona.

Enrico IV, entrato il maggio 1599 in trattative di matrimonio colla principessa di Toscana, Maria de' Medici, e divenuto ufficialmente suo promesso sposo nell’ inverno del '600, avendo stabilito di andarla ad incontrare a Marsiglia o a Lione, pensò per la fine del '99 di accaparrarsi in Francia la Compagnia del Duca di Mantova, di cui era ornamento principale il Martinelli. A questo infatti, col mezzo del signor di Rohan suo cugino, allora in Firenze, fece, il 21 dicembre '99 da Parigi, l’invito formale di recarsi nel suo regno, promettendogli ogni buon trattamento : e l’invito fu accettato per la Pasqua vegnente, e il Duca Vincenzo I il 19 aprile raccomandava con ogni calore al Duca d’Aiguillon e al Duca di Nevers i suoi bonissimi recitanti. I quali non si recaron subito in Francia, trattenuti a Torino dal Principe di Savoja, che di essi molto si dilettava ; ma Drusiano Martinelli, fratello dell’Arlecchino, e marito dell’Angelica (V. Alberghini), che da tre settimane si trovava già in Lione, ebbe ordine da Enrico di tornare a Torino a prendervi la Compagnia ; che si recò subito in fatti a Lione, come appare dal dispaccio dell’ambasciador di Venezia delli 8 di agosto, che ci fa sapere come andasse il Re quasi ogni giorno alle commedie degl’ italiani. Ma venuti Enrico e il Principe di Savoja alle armi pe 'l Marchesato di Saluzzo, i comici italiani furon messi in disparte sino alla vittoria del Re francese, il quale, dopo la presa di Montmélian, si recò trionfante a incontrar la sposa in Lione, ove, il 17 dicembre, fu celebrato il real matrimonio, e ove si trattennero un mese e mezzo circa. A questo tempo il Martinelli, che, avido com’ era, {p. 97}non lasciava nulla d’intentato pel mantenimento sollecito d’ogni promessa che gli veniva fatta, pubblicò un libro per ottenere dal Re e dalla Regina la promessa collana con medaglia d’oro, del quale il Baschet, alla cui opera magistrale più volte citata vo queste notizie attingendo, ha fatto un largo cenno, ma il quale per la sua curiosità e rarità, riporto qui per intero.

Esso trovasi nella Biblioteca Nazionale di Parigi, e ha l’indicazione : Y2 — 922 — di Riserva. È composto di 70 pagine in 40, inquadrate da un doppio filetto bruno, e pressochè tutte bianche, con in testa le parole COMP. DE RHETOR. a dritta ; e LIVRE I o II o III a sinistra.

{p. 98}

Dietro al frontespizio (V. pag. preced.), ridotto della metà, è una pagina bianca, poi, pagine 3 e 4, la seguente lettera di dedica :

AL MAGNANIMO

Monsieur, Monsieur HENRY de BOURBON, premier burgeois de Paris, chef de tuts les Messieurs de Lyon, Conte de Mommeillan, Chastellan du fort de Santa Caterina, Gouverneur de la Bressa, Pretentor del Marquisat de Saluces, Armiral de la mer de Marseille, maistre de la moitié du pont d’Auignon, & bon amis du maistre de l’autra moitié, Conseiller Souuerain au Conseil de guerra contre les Plamontois, Gratieusissimo courreur de bague, Cappitaine general de France et de Nauarre, Despensier liberal de canonades, Terreur de Sauoyard, Spauente de Spagnols, Colonel des soldats, qui sont en Sauoye, Secretaire Secret du plus secret Cabinet de Madama MARIA DI MEDICI, Reina du Louure, Grand Thresorier des Comediens Italiens. & Prince plus que tout autre digne d’estre engraué en Medaille tant de moy desirée & plus ultra,

SALUT,
ET
A MAdama
Madama sa femme autant.

{p. 99}Pagina 5 :

Ha REINE, Colana
Quantumque donni moy,
Autrement m’en iray cert
ROY Medaglia
per la morbin
in Itaglia.

Qui è il ritratto d’Arlecchino in ginocchio della pagina 25.

ET HARLEQVIN DONNERA A V. M.

Un mezo (C) Niente,
Con un (O) Niente entiere,
Accompagnato con un (RE).

La pagina 6 ha il ritratto che trovasi a pagina precedente, leggermente ridotto.

Pagina 7 :

LIVRE PREMIER

DE RHETORIQVE

Quantumque la chaine & la Medaglia
Pour la monstrer à ces Messieurs d’Itaglia.

Seguon pagine bianche dalla 8 alla 24.

Riproduco la pagina 25, ridotta della metà.

{p. 100}Seguon pagine bianche dalla 26 alla 47.

Riproduco la pagina 48, ridotta della metà.

Alla pagina 49 è l’ indicazione del terzo libro, ma senza testo, sormontata da un fregio.

Alla pagina 50 è il ritratto di Pantalone, riprodotto al nome di Pasquati.

Alla pagina 51 è il ritratto di Capitano, riprodotto al nome di Garavini, preceduto dal distico :

Vammo à Paris à fe' da Cauaglier
que gannaremo aglia bien da comer.

e colla leggenda :

LEVANTA QVE NO'MATO HOMBRE ENTIERA.

Seguon pagine bianche dalla 52 alla 56.

Pagina 57 :

Songe

le me suis insomniato ce matin,
Qu'un fachin d’importanza
mi tiroit par la panza,
{p. 101}et mi disoit, Monsieur Arlequin,
Habebis medagliam & colanam.
le respondis en dormant,
si non me burlat opinio :
Piaccia a Iddio
di sarci vedere il maturo parto
di queste pregne speranze.
Per la mia foy en songeant au guadagno
io parlo Toscolagno.

Pagina 58 :

Sonet in

ottaua rima.

Vient, void & vince, el grand Cesar Roman,
Così ha faict HENRY Roy de BOVRBON,
Qu'a prins la Bressa, le Fort, & Mommeillan
Plus facilment, que manger maccaron.
A Moy, qui suis Arlequin Sauojan
Me semble bien qu’HENRY a grand reson
De far'que Carlo li tienna parole
De luy rendre Salux et Carmagnole.
Que venga la verole
A son conseil, qui l’a mal conseillé,
Qu'est causa qu’Arlequin est ruiné.
Ah sacra Majesté,
Fais moy doner tout astheure pour streina
La medaglia, attachee à una grossa chaina.

Poi tutto bianco fino alla fine.

Gli Accessi erano ancora l’ottobre del 1601 a Parigi, d’onde, nonostante le richieste della Contessa Maria di Boussu per averli nelle Fiandre e in Brabante, pare tornassero in Italia nel prossimo autunno.

Il 10 novembre 1606 da Fontainebleau Enrico scriveva gajamente a suo cugino Ferdinando Gonzaga, cardinale un anno dopo, nonostante i suoi vent’ anni, perchè la Duchessa di Mantova tenesse la promessa fatta alla cognata di Francia {p. 102}d’inviarle novamente i comici italiani ; i quali però non andaron altrimenti, allegando la malattia d’Arlecchino, e le difficoltà delle attrici per avventurarsi a un tal viaggio d’inverno. Seguiron nuovi inviti a più riprese del Re e della Regina al Duca e alla Duchessa e ad Arlecchino medesimo, il quale tuttavia persistè nel rifiuto. Morto Enrico (30 maggio 1610), si adoperò vivamente un anno dopo la Regina Reggente per avere alla Corte il Martinelli, di cui fe' tenere in suo nome a battesimo un figliuolo, l’ottobre del 1611, come annunzia il Martinelli stesso al Vinta in una lettera datata da Bologna il 4 gennaio 1612 ; e corser trattative fra loro e il Cardinal Gonzaga, per lo spazio di due anni, a cagione delle difficoltà che nascevano ad ogni istante, generate per invidia di mestiere ora da Lelio, Giovan Battista Andreini (V.), che sopr' a tutto, voleva avere egli l’incarico di formare e condurre la compagnia, ora da Florinda, Virginia Andreini (V.), che s’era scatenata contro la Flavia, Margherita Luciani, moglie del Capitano Rinoceronte (V. Garavini), la quale col marito aveva risolto di voler non più saperne di viaggi all’estero. Ma finalmente, dopo un carteggio ben nudrito da ambe le parti, la Compagnia si mise in viaggio in piena estate del 1613 per alla volta di Parigi, fermandosi a dar qualche rappresentazione dal 26 agosto a Lione, e arrivando ai primi di settembre a Parigi, ove recitarono il 10 al Louvre : di questa e di altre rappresentazioni riferisce il Baschet le parole di Malherbe, che non son le più tenere pei componenti la Compagnia in genere e per Messer Arlecchino in ispecie. Passaron poi da Parigi a Fontainebleau, e di qui novamente a Parigi, ove esordiron in pubblico all’ Hôtel de Bourgogne il 24 novembre. Recitarono a Parigi fino alla fine di luglio del 1614, ora all’ Hôtel de Bourgogne per divertimento del pubblico, ora al Louvre per quello della Corte ; e a mostrar la famigliarità che Arlecchino s’era in essa acquistata, attesta il Malherbe che il 27 gennaio il Re e la Regina Reggente in persona tennero nuovamente un suo figliuolo a battesimo.

{p. 103}La Compagnia allora era composta di : Tristano Martinelli, Arlecchino ; Federigo Ricci, Pantalone ; Ricci, suo figlio, Leandro ; Giovanni Pellesini, Pedrolino, che aveva allora ottantasette anni ; Baldo e Lidia Rotari ; Gio. Battista e Virginia Andreini, Lelio e Florinda ; Girolamo Garavini, Rinoceronte ; Nicolina ; Bartolomeo Bongiovanni, Graziano.

Il Baschet non ci dice altro che dal '14 al '20 non vi fu più Compagnia di comici italiani in Francia ; ma non mancaron per lo meno i soliti negoziati, come appare dalla lettera interessantissima del '15 di Arlecchino alla Comare Cristianissima, che riproduco fedelmente (Raccolta Rasi), proveniente dalla casa Charavay di Parigi.

Contro il Tesoriere dalla mezza collana, al quale accenna, s’era già scagliato Arlecchino in un poscritto di altra lettera con data di Mantova, 3 dicembre 1611, in cui lo chiama cane cornuto, e gli prepara un purgante per renderlo uomo dabbene. La terza comparsa di Arlecchino in Francia fu dunque alla fine del '20. Questa volta la Compagnia aveva in meno il Pellesini, la Niccolina, Baldo Rotari, Bongiovanni, e perdè in viaggio a Chambery il giovane Ricci, Leandro. Aveva in più : Giovanni Rivani, Lorenzo Nettuni, Fichetto, e Urania Liberati, serva, sotto nome di Bernetta. Assente il Re, pare non recitasse che al suo ritorno, il 12 gennaio 1621, all’ Hôtel de Bourbon ; poi, dal 6 al 28 aprile, a Fontainebleau. In una lettera della Regina Anna al Duca di Mantova del 6 marzo, sono lodi particolari del Martinelli, e in altra di Maria, la Regina Madre, raccomandandolo per la prioria di San Ruffino, a favore di un ecclesiastico suo parente. Quando il Re annunciò la sua partenza nel mezzogiorno della Francia per andarvi a raggiungere la sua armata, confermò i comici a Parigi, per trovarveli al suo ritorno ; ma Arlecchino, allegando in iscusa l’età avanzata e il bisogno di riposo, domandò umilmente congedo, il quale poi, non essendogli stato accordato, si prese da sè dopo una serie non breve di accuse e di difese di tutta la Compagnia, dinanzi a cui Messer Arlecchino non era più il conduttore, ma il {p. 104}tiranno. Egli fuggì alla fine di giugno, e si restituì a Mantova, a godervi la pace sospirata nella sua casetta di via dell’ Aquila ; pace, che non fu, pare, di molta durata ; giacchè vediamo il Martinelli co'Fedeli a Venezia il carnovale del '23 ; e il luglio del '26 accennava ancora al desiderio di comparir novamente in Francia.

Morì nel '30 a settantacinque anni circa, e nella soprintendenza de' comici, escludendosi questa volta i virtuosi del Monferrato, furono confermati i figliuoli con decreto del 13 settembre 1639.

Martinelli Drusiano. Fratello del precedente, Arlecchino anch' egli, era nel 1572 capocomico in Inghilterra, secondo il Collier, citato da Adolfo Bartoli (op. cit., CXXIX), e in Ispagna l’ '88 col fratello Tristano, come abbiam da una sua lettera alla madre del 18 agosto, di cui lo stesso Bartoli (ivi, CXXX) riferisce le parole : staremo tutto quest’anno qui in Spagna. Abbiam veduto nell’ articolo precedente, com’ egli nel '600 fosse, se non il direttore della Compagnia che andò a Parigi, per lo meno il conduttore o amministratore…. Nessun documento ci parla del valor suo artistico ; e forse egli era più bravo armeggione che buono attore, se, più tosto che Drusiano Martinelli, spesse volte veniva altrui designato fratello di Arlecchino, o marito di Madama Angelica, com’ egli medesimo si sottoscrive in una lettera al Duca di Mantova, del 17 settembre 1580, da Firenze. (V. Alberghini).

Ma se notizie non ci son pervenute di lui come attore, a bastanza ne abbiamo come uomo e come marito, in due lettere sue da Milano del 27 ottobre '91 e da Caravaggio del 9 novembre al capitano Alessandro Catrani, che il D'Ancona riferisce per intero (op. cit., II, 504), e in cui son descritti i garbugli e le minaccie di morte per conto di una Malgarita comica, che si potrebbe credere, come già dissi, la Luciani, moglie del Capitano Rinoceronte (V. Garavini), e che il D'Ancona propenderebbe invece a ritener quella Margherita {p. 105}Pavoli (V.), che il Duca raccomandava il '92 ai Comici Uniti. Da essa lettera, naturalmente, risulta evidente la onestà così di Angelica, proclamata dal compagno d’arte Leandro, come di lui homo dabene et che sempre fece onore alla sua patria, e la disonestà di Margherita, amante di Gasparo Imperiale, che, avuto il mandato di sfregiar nel volto l’Angelica, mentr'era in palco a recitare, lo aveva passato a un tal Piazza, che poi confessò tutto, non volendosi immischiare in sì losca faccenda. Da altre lettere pubblicate dallo stesso D'Ancona, lo sappiamo a Firenze il I° giugno del '92, e a Mantova il 20 luglio, dove pare armeggiasse presso il Duca, suo nuovo padrone, per certi suoi segreti. Poi troviamo ancora (ivi, 523) una lettera dell’ 11 marzo '98, in cui designa due individui imbauttati, che pare lo posteggiassero innanzi alla porta di casa. Dopo di averne avvertito infruttuosamente il luogotenente del bargello, e lo Schermidore Giulio Tornelli, ne scriveva per ajuto al Consigliere Chesipio. I due imbauttati, a detta del Martinelli, erano certo Ottavio Caura, e un guantaro, soldati entrambi di corte. Ma la lettera più curiosa, e che ci mette al nudo Drusiano e Angelica nella lor intimità conjugale, è quella che il Capitano Catrani scriveva di Mantova il 29 aprile '98 al Consigliere Cheppio, riferita anch' essa per intero dal D'Ancona (ivi, 523), nella quale spicca in mezzo alle accuse di uomo falso, calunniatore, senza onore, infame, questo brano edificante :

Mentre Drusiano è stato ultimamente in questa città che son da cinque mesi in circa, à visso sempre de mio con il vivere ch' io mandavo a sua moglie, et egli atendeva a godere e star alegramente sapendo bene de dove veniva la robba, et comportava che sua moglie stesse da me et venisse alla mia abitatione, et non atendeva ad altro che a dormire, magnare, et lasciava correre il mondo : come di questo ne farò far fede avanti S. A. da più testimonie degni di fede. Ma perchè circa otto giorni sono io li ho fatto intendere per la massaia che si trovi da vivere, che non voglio ch' egli viva de mio, mena rovina et parla di ricorso al Alt.ª Sua, et di più per haverli fatto sapere che quella casa è mia, poi che io ne pago il fitto (come mostrarò) et che se ne proveda d’una, tratta alla peggio sua moglie, con farli quella mala compagnia che S. A. potrà sapere ; et di più per haver saputo che 'l mobile che è nella suddetta casa, è maggior parte mio et che io lo vorrò quando mi tornerà comodo. Questi son li capi che lo han fatto mettere in fuga a parlar di ricorso a S. A. et non zelo di honore come à detto, poichè mentre io ò speso per mantenerlo, esso à consentito a qualunque cosa che io ho, come infame che egli è.

{p. 106}Da lungo tempo durava la tresca fra il Catrani e l’Angelica, se v'era di mezzo un figliuolo di sei anni, tenuto sempre dal Catrani che l’amava, e or per vendetta disputatogli al Duca dal Martinelli, il quale non cessò mai di vituperar la moglie, scacciandola di casa, e obbligando così il Catrani stesso a provvederla di un letto e lasciarli tanto da alimentare il figliuolo, se non volea che andasse mendicando, ovvero aprisse bottega pubblica. E di queste accuse e dello sparlar contro il Duca stesso, e dell’ avere il fratello Arlecchino strapazzato in Firenze e in Parma il servo di S. A. chiama il Catrani a testimonio Carletto che sosteneva in commedia le parti di Franceschina, Pedrolino e Cardone. E anche Tristano era siffattamente intricato nelle faccende del fratello, che da lui stesso sappiamo in una lettera del 2 maggio '98 al Duca, come entrambi fosser perseguitati e minacciati di morte ; onde chiedeva protezione al Duca, non volendo ricercar nè vendetta, nè giustizia, ma desiderando solo di viver da cristiani e giustamente.

Martorini Baldassarre. Citato dal Bartoli come ottimo commediante e per le commedie improvvise e per quelle studiate. Fu con Antonio Marchesini ; poi, a Malta, con Maria Grandi ; poi a Napoli (nel 1774 era al San Carlino, con Teresa Martorini, probabilmente la moglie, e firmava, insieme a' suoi compagni, con a capo Don Tomaso Tomeo, una supplica al Re per ottenere che fosse attenuata la gran concorrenza che avevan ne' teatri Nuovo e Fiorentini) (V. Di Giacomo, op. cit.) e a Roma, serbandosi anche in età avanzata comico eccellente. Viveva ancora al tempo del Bartoli (1782), il quale ci fa sapere com’ egli a Malta scrivesse un Prologo in versi martelliani, « dove finse che i comici agitati da una burrasca si trovassero vicini a naufragare ; e che poi assistiti da Netunno (il quale lasciavali con questi due versi :

restate dunque amici al puro aer sereno,
che a riposar men torno ad anfitrite in seno),

{p. 107}potessero felicemente in quell’ Isola approdare, e far servitù a quella Nazione, come di fatto poi fecero. »

Martorini Elisabetta. Figlia del precedente, e allevata, fanciulla, dal Pantalone Giovanni Vinacesi, di cui il Bartoli non ci dà notizie, esordì nella Compagnia di Vincenzo Bazzigotti, facendosi notar subito per chiare attitudini alla scena ; e tanto con la volontà e l’ingegno vi progredì, che fu il 1775 al S. Cassiano di Venezia prima donna assoluta di Gerolamo Medebach. Entrò il 1780 con Antonio Sacco al Teatro S. Luca, ove trovavasi ancora il 1782. Fr. Bartoli, contemporaneo, ha per lei parole di alto encomio e come attrice e come donna. « È la Martorini molto commendabile — egli dice — nelle parti tenere ed amorose, mostrando coll’ espressione della voce gl’ interni affetti dell’anima ; distinguendosi in singolar modo con attenzione indefessa anche nelle più minute cose, senza ommetterne alcuna, e tutto volendo che giovi, e contribuisca alla perfezione di ciò che ella rappresenta. » E più giù : « nel nubile suo stato, al fianco d’una vecchia tutrice, esposta agli occhi del mondo, fornita di bellezza e di grazia, ella ha saputo schermirsi dall’insidie del secolo. »

Marzocchi Giovanni. Comico assai pregiato nella maschera del Dottore che sostenne al Teatro S. Luca di Venezia al servizio dei nobili Vendramini. Fu in Germania e in Italia festeggiatissimo sempre, anche in parti a viso scoperto, e morì in Udine del 1772.

Marzocchi Caterina. Bolognese, moglie del precedente, fu espertissima prima donna in ogni genere di rappresentazioni. Recitò sempre a fianco di suo marito, e morì a Verona del 1768.

Marzocchi Gaspare, bolognese, figlio dei precedenti, fu egregio artista per qualsivoglia genere di parti. Dopo di avere {p. 108}recitato in alcune compagnie di giro, si fermò al S. Gio. Grisostomo di Venezia con Girolamo Medebach, passando poi con Maddalena Battaglia. Si dedicò più specialmente alla maschera del Brighella, che sostenne assai degnamente, e in cui fu sostituito dal Marliani, serbandosi egli attore generico de' più provetti. Il 1795-96 era al S. Gio. Grisostomo con la Battaglia, e vi recitava i caratteri sotto nome di Anselmo.

Mascherpa Romualdo. Celebre capocomico, figlio di Abramo, piccolo possidente, nacque in Casal Pusterlengo verso il 1785, ed ebbe una mediocre educazione, nonostante gli anni trascorsi al seminario di Lodi, ove fu testimonio di sul campanile della chiesa della battaglia data sul ponte della città agli austriaci dal generalissimo Bonaparte. Venuta nel suo paesello una piccola compagnia di comici, egli, da essi istigato, si diede al teatro, passando di peripezia in peripezia, ma acquistandosi pur sempre una crescente fama di buon attore. Le interpretazioni dell’Abate de l’Epée, di Misantropia e pentimento, del Cavaliere di spirito, del Cavaliere di buon gusto, delle due Pamele, e di altri lavori comici, drammatici, o tragici, lo collocarono fra i migliori del suo tempo. Sposò in quel torno Maria vedova Buccinieri, già servetta di buon nome, e formò la quaresima del 1818 una buona società col primo attore Luigi Velli, di cui facevan parte comici egregi, quali : il Vismara, il Dones, lo Zuanetti, il Baraldo, la celebre Polvaro, ecc.

Lo vediamo in quest’ anno citato nella sentenza del tribunale statario di Modena, dove si afferma che Carlo Zucchi imputato « assistette alla recezione…. dei comici Velli e Vismara nella setta massonica, non che al conferimento del grado di maestro all’altro comico Mascherpa, sottoscrivendone le relative patenti. » (V. Doc. rig. il Governo degli Austro-Estensi pubblicati per ordine del dott. Farini, vol. I, parte I, pag. 35. — Comunicazione F. Martini).

Notizie comunicate alla I. R. Polizia di Milano fanno credere che egli abbia introdotto, o restaurata in Modena la {p. 109}massoneria come incaricato dai comitati superiori di quella setta. Fece molti proseliti.

Da un quadro storico sulle Sette, tratto dalla Inquisizione istituita negli Stati Estensi, risulta che Romualdo Mascherpa fu aggregato alla massoneria nel 1818, per opera dell’ ex-officiale Carlo Zucchi e del capitano Sirelli. Tale notizia venne confermata dallo stesso Mascherpa in uno scritto da lui presentato alla I. R. Polizia di Venezia.

Il 1824 si fece capocomico solo, e potè aver l’onore, mercè la sua probità e la buona accolta degli artisti, di mettere la sua Compagnia al servizio di Maria Luigia Duchessa di Parma, con uno stipendio annuo per quelle stagioni che doveva passar nella capitale. Dal '25 al '49, anno della sua morte, avvenuta in Torino, ebbe scritturate le seguenti prime attrici, le migliori del tempo : Maddalena Pelzet 1825-27 – Isabella Belloni Colomberti 1828 – Maddalena Pelzet 1829-30 – Erminia Gherardi 1831-34 – Amalia Bettini 1835-36 – Laura Della Seta 1837 – Carolina Santoni 1838-39 – Antonietta Robotti 1840-41 – Adelaide Ristori (due compagnie fatte a posta per lei) 1842-46 – Carolina Santoni 1847-49 ; e i seguenti primi attori : Luigi Carraresi 1825-26 – Luigi Domeniconi 1827-31 – Antonio Colomberti 1832-36 – Giacomo Landozzi 1837-39 – Antonio Colomberti 1840-42 – Giacomo Landozzi 1843-49 – Luigi Gattinelli, caratterista, fu con lui dal 1826 al '44, anno della sua morte improvvisa. Il Guagni che lo sostituì stette in Compagnia fino alla morte del Mascherpa. Sei anni fu con lui il brillante Costantino Venturoli, e dieci anni Cesare Dondini. L'Adelaide Fabbri, che sostituì nel '32 la madre nobile e caratteristica Isabella Buggi Brangi, restò in Compagnia finchè visse. Il Mascherpa insomma serbò uniti il maggior tempo che potè i suoi scritturati, convinto che principal forza di una Compagnia fosse nell’ affiatamento. Sappiamo ch' egli fu capocomico de' più onesti e miti, e di pochissime parole. Non si occupò mai di direzione, ch' egli affidava a uno de' suoi artisti ; e v'eran mesi in cui non compariva sul palcoscenico, se non per recitarvi.

{p. 110}A complemento di questi cenni, metto qui l’elenco della Compagnia per la quaresima del 1842, secondo la distribuzione dell’ originale, e il suo repertorio :


Prima amorosa

Matilde Chiari

Servetta

Amalia Colomberti

Prima attrice

Adelaide Ristori

Madre nobile

Adelaide Fabbri

Attrici generiche

Angela Buccinieri

Rosa Rizzoli

Maria Leigheb

Maria Mascherpa

Altra amorosa

Argenide Dondini

Caratteristica

Teodora Dondini

Primo attore assoluto

Antonio Colomberti

Primo amoroso

Giovanni Leigheb

Altro amoroso

Agostino Buccinieri

Generici

Ettore Dondini

Enrico Ristori

Giuseppe Bignami

Francesco Paolini

Parti brillanti

Cesare Dondini

Parti d’aspetto

Luigi Cardarelli

Parti ingenue

Augusta Ristori

Cesare Ristori

Suggeritore

Astorre Rizzoli

Poeta

Iacopo Ferretti

Caratterista e Promiscuo

Luigi Gattinelli

Tiranni e Padri

Paolo Fabbri

Primo generico di riguardo

Achille Dondini

Generici

Giorgio Vismara

Antonio Ristori

Paolo Riva

Macchinista — Trovarobe — Due Traduttori — Apparatore

repertorio

Torquato Tasso di Goldoni – La discordia di quindici anni – Il figlio assassino per la madre – La fedeltà alla prova – Il diadema di Nota – Ditta Scaff e Clerambeau di Scribe – Un fallo – La finta ammalata di Goldoni – Il mulatto – Un matrimonio in Francia sotto Luigi XV – Rifiuto e vendetta – Il custode della moglie altrui – Il galantuomo per transazione di Giraud – Un bicchier d’acqua – Il dominó nero – Pamela nubile di Goldoni – Una catena di Scribe – Gl’ innammorati di Goldoni – Il flagrante delitto – Eulalia Granger – La calunnia di Scribe – Maria Stuarda – Don Cesareo Persepoli – La lettrice – La Pia de' Tolomei – La fuga dal forte di Sant’Andrea di Venezia – Il testamento di una povera donna – La cognata – Don Marzio alla bottega del caffé di Goldoni – Il proscritto – Malvina – Felice come una principessa – Filippo – Papà Goriot – I due Sergenti – Marion de l’Orme.

{p. 111}Masi Napoleone. Nato a Rimini da artisti drammatici, il 28 febbraio del 1857, cominciò a recitar parti di bimbo con Salvini e con Rossi, entrando poi, grandicello, come secondo brillante in Compagnia di Luigi Pezzana e Achille Dondini che del Masi aveva sposato la sorella Marietta. Divenuto il cognato capocomico, Napoleone Masi dovè sostituire nelle parti di brillante assoluto gli attori Bonfiglio e Tramonti, parti che poi, per costante favore di pubblico, non abbandonò più. Fu socio di Calamai, poi scritturato da Sterni e Majeroni, poi da Morelli e dalla Tessero, coi quali s’ebbe, assieme al Mariotti, il diploma d’incoraggiamento del giurì drammatico milanese. Dopo due anni, andò per un triennio nella Società Meschini e Casilini ; poi con Marini, dal quale si tolse, non terminato il contratto e pagata una rilevante penale, per andar a sostituire Claudio Leigheb nella Compagnia di Cesare Rossi, col quale stette dall’ '82 al '94, tranne l’ '87, in cui, avendo voluto il Rossi riposare, passò brillante con Eleonora Duse. Smessa il Rossi compagnia, il Masi entrò brillante nella nuova Società Rosaspina e Paradossi, scioltasi dopo pochi mesi a Rimini, e finì l’anno a stento in quella Cocconato De Chiara. Sostituì il Talli nel '96 con Sichel e Tovagliari, e fu il '97-'98 con Paladini e la Mariani, da cui si tolse, per entrarvi poi il '900, dopo di essere stato un anno in società con Sichel e Zoppetti.

Questo lo stato di servizio di Napoleone Masi, il quale, senza elevarsi alle massime altezze, fu sempre attore assai festeggiato per una vena di comicità spontanea e vivissima, e per correttezza di dizione.

{p. 112}Massa Innocenzia. « Romana. Giovane, che partita dalla sua Patria diedesi alla comica professione ; e che in alcune vaganti Compagnie da circa sei anni va ritrovando impiego. I suoi pregi d’avvenenza, non meno che la sua abilità, la vanno sostenendo sui teatri con una mediocre fortuna. » Così Francesco Bartoli.

Massaro Francesco. Comico napoletano di gran pregio per la parte di Don Fastidio ch' egli creò. Dell’ origine del tipo così parla Di Giacomo (op. cit.) :

Giuseppe Pasquale Cirillo che, assieme al Lorenzi, recitava nel teatrino domestico del Duca di Maddaloni ed aveva anche un altro teatro di filodrammatici a casa sua….. e che, per mettere in burla un paglietta molto conosciuto per la sua bessaggine cercava l’attore che ne sapesse vestire i panni e l’ignoranza, capitò un giorno in un barbiere alto allampanato e con un naso meraviglioso : proprio tal quale il paglietta di cui voleva far la caricatura. Costui si chiamava Francesco Massaro……

Cerlone lo adocchiò e se ne giovò per le sue commedie…. Una sera, nel 1768, il pubblico della Cantina, mentre applaudiva freneticamente al Massaro, lo vide, d’un subito, arrovesciarsi addietro e stramazzar, con un grido, sul palcoscenico. Cessarono, come d’incanto, la risata e gli applausi. Gli attori, sgomentati, affollarono il palcoscenico, e Pulcinella, con gli altri, si chinò sul povero Massaro inerte. Vi fu un gran silenzio : gli spettatori aspettavano, ansiosi, ritti nella platea, ritti nei palchi. E a un tratto la voce d’un di quegli attori annunziò, tremante, in quel lugubre silenzio : Signori, Francesco Massaro è morto !…

Francesco Bartoli ha pel Massaro parole di gran lode, come quegli che era « fornito di una grazia prodotta in lui dalla natura e coltivata dall’ arte…. Tutto in lui parlava, e camminando e gestendo e levando il cappello e stando immobile : effetto di uno studio fondato, e fatto da lui nella difficile scuola del teatro. »

Materazzi Francesco. Nato a Milano, verso il 1652, era parte il 1686 della Compagnia del Duca di Modena in qualità di Dottore, a vicenda con Galeazzo Savorini. Fu scritturato dal Riccoboni per la Compagnia italiana del Reggente che si recò a Parigi il 1716, e vi recitò sotto la stessa maschera per molti anni. Passò a seconde nozze il 13 novembre del '31 per puro atto di pietà, con Vincenza Gallini-Bertoï, vedova del Pantalone {p. 113}Alborghetti, e morì il 29 novembre 1738 a ottantasei anni, naturalizzato francese, e ufficiale del Re. Il D'Origny annunzia così la sua morte : s’il ne fit pas regretter le Comédien, on regretta sincérement l’honnête homme, l’homme vertueux, l’époux tendre et le bienfaiteur des pauvres.

Mattagliani Vittoria. È ricordata da Fr. Bartoli, come attrice di merito per le commedie improvvise e studiate. Fu in qualche Compagnia di Venezia, poi seconda donna con Onofrio Paganini, al fianco di Rosa Brunelli, prima donna, poi, avanzando negli anni, in Compagnie varie di pochissimo conto.

Mazza Onofrio. Comico egregio per le parti d’innamorato, che sostenne nelle varie Compagnie di Napoli. Il 1754 era con Domenicantonio di Fiore al Casotto del San Carlino ; dal '63 al '69 ottenne, per farvi commedie, un rimessone dei Reverendi Padri Agostiniani a Portici. Il '70, fatto vecchio, fu per essere licenziato di compagnia, ma con una supplica al Re, vi rimase fino all’ '82. Vistosi abbandonato e ridotto alla miseria, avanzò una supplica al Re per ottener grazia di « esporre una statua di cera del Servo di Dio Benedetto Labre, senza riscuoter nulla eccetto che qualche limosina che graziosamente gli si darà. » Ma la statua non attira nulla. Nell’ '86 dimanda di essere ripreso in compagnia, e ne tenta il modo accusando e denunziando il Tomeo come despota e « ingannatore della R. Udienza, avendo registri falsi. » Naturalmente in compagnia non fu ripreso, e dovè finire la vita nel modo più miserevole. (Di Giacomo, op. cit.).

Mazzocca Ida. Nata a Monselice il 16 novembre 1876 da Giuseppe Mazzocca primo attore e Maria Santato, non comica, è stata una delle poche buone prime attrici giovani che vantasse il nostro teatro di prosa. Fatte le prime armi nella Compagnia di suo padre, si scritturò prima attrice giovane con Arturo {p. 114}Garzes pel’92, passando poi nello stesso ruolo, il '93, con Angiolo Diligenti, il '94 con Francesco Garzes, il '95 con Andrea Maggi, e il '96 con Flavio Andò ; dal quale staccatasi, passò il '97 nella Compagnia Mariani-Zampieri, e il '98 in quella di Eleonora Duse, andando nell’ ottobre a sostituir con Ermete Zacconi la Varini ammalata. Dopo il qual tempo, maritatasi fuor del teatro, abbandonò definitivamente l’arte.

Mazzocchi Luigi. Mantovano. Recitò le parti di Dottore nelle Compagnie di Pietro Rossi, di Domenico Bassi, e (1781) di Francesco Paganini. Il Bartoli lo dice « fornito di qualche cognizione intorno alle lettere ; ed occorrendo sa recitare ancora in parti serie nelle studiate rappresentazioni. »

Mazzotti Pietro. Avvocato veneziano. Dopo di aver preso moglie, e consumato ogni sostanza di entrambi, si diede all’arte comica, nella quale riuscì buon attore per le parti d’innamorato. Fu nelle Compagnie di Pietro Rossi e di Luigi Perelli. Viveva ancora nel 1782.

Mazzotti Margherita. Attrice di bella rinomanza, fu nella giovinezza prima donna egregia ; egregia madre nobile nella maturità, e caratterista perfetta e unica nella vecchiezza. Nel 1827, vicina ai settant’anni, serbava ancora tutto il fuoco della prima età, la morbidezza del gesto e della persona.

Francesco Augusto Bon scrisse per lei non pochi lavori, tra' quali : La donna e i romanzi, L'importuno e l’astratto, La lotteria di Vienna, Ludro e la sua gran giornata, ecc. Fu eccellente nelle commedie del Goldoni, e si vuole che colla sua morte, {p. 115}avvenuta in Livorno nel 1836, scemasse d’assai l’importanza del suo ruolo.

Medebach (Metembach) Girolamo. Il più celebre capocomico del secolo xviii, che dovè gran parte della sua celebrità, se non tutta, a' vincoli artistici ch'egli ebbe con Carlo Goldoni, nacque a Roma nel 1706 circa da Giovanni Francesco, e gli furon messi i nomi di Agostino, Raimondo, Girolamo. A tredici anni abbandonò Roma con una compagnia di attori, e l’autunno del 1739 fece la sua prima comparsa a Venezia, ove agiva la Compagnia di ballerini da corda e comici insieme, diretta da Gasparo Raffi, dal quale fu scritturato, e del quale, divenuto poi direttore della Compagnia, domandò in moglie ufficialmente, il 15 gennaio 1740, la figlia Angela, Teodora, Giovanna, lucchese, di circa diciassette anni, che trovavasi da pochi mesi a Venezia. Furon testimoni, fra gli altri, della domanda, il padre della sposa Gasparo Raffi del fu Lazzaro, romano, di quarantadue anni, l’attore Giuseppe Marliani, piacentino, zio della sposa (V.), esperto ballerino da corda, ed egregio Brighella, e i comici Gasparo Zorni di Gorizia, e Francesco Monti di Milano. Ma, o in questa domanda il Medebach di fronte alla giovinezza della sposa si è scemato gli anni, o il Bartoli, che glie ne dà novanta circa nel 1781, ha voluto esageratamente aumentarli. Il nome di Metembach, messo fra parentesi, trovo in una istanza a Sua Eccellenza il signor conte Cristiani, amministratore generale di Stato di Modena a dì 3 luglio 1748 :

Geronimo Metembach, e Gaspare Raffi, condutori di una Compagnia di comici e servidori umilissimi di Vostra Eccellenza. Ossequiosamente la suplicano, a degnarsi di concederle licenza per rappresentare nel corr.te estate un corso di Recite nel Teatro Rangoni che della Grazia etc.

E il permesso fu accordato. E la Compagnia vi recitò la prima volta, col Goldoni presente, la Vedova scaltra. Il 10 marzo era stata firmata fra l’autore e il capocomico la scrittura, in forza della quale doveva quegli scrivere otto commedie all’anno, e averne in compenso dal Medebach 450 ducati, con {p. 116}obbligo di seguir la Compagnia anche nelle città di terraferma. Pare che la Compagnia tornasse al Rangoni di Modena anche l’estate del '49. I patti di scrittura furon mantenuti da ambe le parti ; e se il buon successo delle commedie stabilì la fama dello scrittore, non meno formò la fortuna dell’ impresario. Il Medebach recitava in esse la parte di Ottavio, scritte a posta per lui. Fatto poi questi pubblicare dal Bettinelli il teatro di Goldoni, senza il di lui consenso, tanto egli se ne asprì che ruppe il contratto, passando a scrivere pel Teatro San Luca : e ciò fu al 15 febbraio del 1752. Ricorse allora il Medebach all’ opera dell’ Abate Pietro Chiari, il quale, se ben per nulla comparabile al Goldoni, ne fu tuttavia un formidabile antagonista. Alle di lui commedie romanzesche, salite alle stelle, altre non men romanzesche contrapponeva il Goldoni, come : La sposa persiana, Le Ircane, La Peruviana, La bella selvaggia ; a queste altre nuove e più romanzesche, o meglio, più ancor bislacche contrapponeva il Chiari ; e, tra' due litiganti, chi godeva era il solito terzo, che accumulava danaro. E il Medebach ebbe colla sua Compagnia luminosi successi dovunque ; e lo vediamo, partendosi da Milano, ove avea fatto il migliore degl’ incontri nell’ estate del '55, munito di Lettere-Patenti del Duca di Modena, Francesco III, dettate nella forma più larga e laudativa. Nel '61 gli venne a morte la moglie, e visse di tal perdita addoloratissimo per molti anni, passando poi a seconde nozze con la figlia del noto dottore Scalabrini di Bologna, che sopravvisse al marito, e che vediamo più tardi in Compagnia di Pietro Rosa. L'agosto del '62 fino a tutto il settembre recitò al Rangoni di Modena, d’onde dovea recarsi a Reggio per la fiera, invitatovi in nome del Capponi da Alessandro Frosini, che dice la Compagnia di lui, la migliore che si conosca. Partito quello stesso anno e quello stesso mese il Goldoni per Parigi, cessaron le gare poetiche ; e il Medebach per alcun tempo continuò a condur Compagnia con relativa fortuna. Lo rivediamo l’estate del '63, del '66 e del '74 in Milano, e al suo partirne, gli furon volta per volta rinnovate le Patenti del Duca. L'agosto {p. 117}del '70, nonostante il contratto già firmato, non andò più a Milano, ove con nuova deliberazione, fu abolita la stagione di prosa, per surrogarvi le opere buffe. Si recò invece a Modena ove ottenne il solito gran successo ; avendo seco il comico cantante, Sante Vitali, che sosteneva egregiamente le parti di Dottore, e che poco dopo il suo arrivo in Modena fu tocco d’apoplessia, e vi morì a trentotto anni. Ma recitandosi con buon successo le nuove traduzioni della Caminer al Sant’Angelo, e con immensa fortuna le imitazioni dallo spagnuolo di Carlo Gozzi al San Luca, il povero Medebach (recitava allora al San Gio. Grisostomo) n’ebbe in poco tempo deserto il teatro, e dovè ricorrere, l’autunno del 1772, a Maddalena Battaglia, prima donna allora di grandissima fama, che gli recò non comune sollievo, specialmente con le molte rappresentazioni della Semiramide di Voltaire. Sollievo effimero codesto ; dappoichè concesso ingiustamente il teatro alla stessa Battaglia, il Medebach, rassegnato, si rifugiò a quello di San Cassiano, dove le sorti non furon delle più prospere. Passò poi, o meglio, tornò al Sant’Angelo, partitosene il Lapy, e con miglior fortuna ; non tale però da non costringerlo il 1780 ad abbandonar quella Venezia, per la quale avea così indefessamente e onestamente lavorato, e cercar altrove con una Compagnia sociale, un qualche miglioramento alla sua condizione, divenuta omai delle più misere. Di lui scrisse Francesco Bartoli :

È stato il Medebach un esperto conduttore della sua Truppa, un eccellente recitante in que' suoi particolari caratteri ; ed ha saputo acquistarsi il concetto d’uomo di probità. Egli ha tollerato con pace la sua non cercata, e non meritata espulsione dal Teatro di San Gio. Grisostomo procuratagli ingratamente da chi mai nol dovea. Egli, urbano con tutti, egli prudente e saggio, egli pietoso soccorritore delle miserie altrui, merita bene il nome d’uomo onorato, e rendesi degno della stima d’ognuno. Essendo egli poi stato l’unico movente, per cui l’Italia possa pregiarsi d’aver sortito anch' essa un Eccellente Poeta comico nel celebratissimo Goldoni, non avendo perciò da invidiare alla Francia il suo Molière, si viene per lui a stabilire un’ epoca considerabile nella storia del nostro Teatro.

Medebach Raffi Teodora. Moglie del precedente, e figlia di Gasparo e Lucia Raffi, conduttori di una Compagnia di ballerini da corda, nacque il 1723 circa a Lucca, di dove fu {p. 118}portata via a tredici giorni. Ecco come il Goldoni descrive la Compagnia Raffi nel XVII volume delle sue Commedie, edizione del Pasquali :

Erano già tre anni, che portavasi in Venezia regolarmente in tempo di carnovale Gasparo Raffi Romano, Capo de' ballerini di corda colla sua Compagnia, ch' era una delle più famose in tal genere. Eravi la bravissima Rosalia, sua cognata, moglie in allora di un saltatore tedesco, e passata ad esserlo in secondi voti, di Cesare Darbes, celebre pantalone (V.). La Teodora, figliuola del Raffi, moglie in appresso del Medebach, ballava sulla corda passabilmente, ma danzava a terra con somma grazia ; la Maddalena, che fu moglie in seguito di Giuseppe Marliani, era una copia fedele della Teodora, e il Marliani suddetto, che faceva il Pagliaccio, era un saltatore e danzatore di corda, il più bravo, il più comico, il più delizioso del mondo. Questa compagnia di quasi tutti congiunti era amata ed apprezzata in Venezia, non solo per la bravura, ed abilità in tal mestiere ; ma per l’onesta e saggia maniera di vivere sotto la buona direzione dell’ onestissimo Raffi, e l’ottima condotta della prudente, devota, e caritatevole signora Lucia sua consorte. Il Marliani, non so, se stanco di quel pericoloso mestiere, o eccitato dal genio comico, avea gran voglia di recitare delle Commedie. Capitò il secondo anno in Venezia il Medebach accennato ; e unitosi co' Ballatori suddetti, avendo egli cognizione bastante dell’ arte comica, gl’ instrui, forni loro i soggetti, e preso il picciolo Teatro di S. Moisè, colà, terminato il Casotto, recitavano delle Commedie, le quali sostenute principalmente dalle apparenze, dai giuochi, e dalle grazie del Marliani, che facea l’Arlecchino, non lasciarono di attirare buon numero di spettatori. La Teodora faceva la prima donna, e la Maddalena facea la servetta ; il Medebach era il primo amoroso, e qualche altro personaggio avean preso per eseguir le loro Commedie. Così principiò quella Compagnia, che poi si è resa famosa, e che trovai ben formata, ed in credito quattr'anni dopo a Livorno.

Alle attitudini per la scena congiungeva la Medebach – dice il Bartoli – una figura leggiadra, un volto tutto spirante grazia, e una voce dolcissima e chiara. Pare che il genere suo fosse più specialmente il patetico, dacchè il Goldoni scrisse per lei La figlia ubbidiente e La moglie saggia, e il Chiari La pastorella fedele, nella quale più specialmente si mostrò somma. Riferisco dal Bartoli :

Ella esprimeva assai bene il carattere di quella Pastorella innocente, innamorata del suo agnellino più che d’Ergasto ; umile e rispettosa col vecchio suo genitore ; fiera e risoluta col Castellano suo tentator disonesto ; e vivamente spiccava il salto lanciandosi nel fiume per sottrarsi all’ insidie del di lei seduttore. Moltissime sere fu replicata in Venezia nel 1754, ed infinite lodi furon date alla tenerissima Irene. Questa brava attrice, che molto lustro avrebbe recato a' Teatri italiani, divenne cagionevole nella salute affliggendola continuamente alcuni effetti convulsivi. Stava quasi sempre guardata in letto, e quando talvolta sentivasi un po' sollevata, lasciavasi vedere in Teatro. Ma crebbero in lei a dismisura i suoi incomodi, e gli oppiati rimedj che i medici le apprestavano, non fecero che abbreviarle la vita, onde rese l’ anima al suo Creatore in età di anni quaranta nel 1761.

{p. 119}La riputazione artistica della Medebach si stabilì con la Donna di garbo del Goldoni, recitata qualche sera dopo della Griselda, nella quale il pubblico avea già avuto modo di notar le qualità dell’ attrice. Da quella sera fu un successo ognor crescente. Dallo spoglio delle memorie goldoniane abbiamo che

Madama Medebach era un’ attrice eccellente ed attaccatissima alla sua professione, ma una donna soggetta a vapori. Era sovente ammalata, sovente credeva d’esserlo, e qualche volta non aveva che vapori di soio comando.

In questi ultimi casi bastava a propor di dare una bella parte da rappresentarsi ad un attrice subalterna, che l’ammalata tosto guariva.

Mi presi la libertà di farla rappresentar sulla scena da sè medesima. Se ne accorse alcun poco ; ma trovando bellissima la sua parte, se ne incaricò volentieri, e rappresentolla a perfezione.

A questi vapori che il Goldoni crede più immaginari che sinceri e che come tali dipinge Paolo Ferrari nella sua incomparabile commedia, la Medebach univa la gelosia di mestiere. I successi della Marliani, Corallina, specialmente nella Serva amorosa, furono un gran pruno nell’ occhio della direttrice, per la quale, a guarirla radicalmente, dovè il Goldoni scrivere La moglie saggia.

Ma egli errava certo nel suo giudizio. La Medebach, gelosa de' successi di Corallina, faceva un grande sforzo per vincere quel male che realmente l’ opprimeva, e che la condusse immaturamente al sepolcro. E la prova abbiamo in quest’ ultima citazione, la quale ci mostra chiaro come la povera donna non trovasse come prima nel suo coraggio la forza di lottare col male, e nella quale a me par di vedere un pizzico di crudeltà nell’ animo del Goldoni.

Madama Medebach era sempre ammalata. I suoi vapori divenivano sempre più nojosi e ridicoli : rideva e piangeva in una volta, mandava grida, faceva mille smorfie e mille contorsioni. La buona gente di sua famiglia, credendola affascinata, fece venir Esorcisti, e carica di reliquie, giuocava e scherzava con quei monumenti pii come una fanciulla di tre o quattro anni.

Vedendo la prima attrice fuor di stato d’ esporsi sopra la scena, all’ apertura del carnevale feci una Commedia per la cameriera o servetta. Madama Medebach si fece veder in piedi ed in buon essere il di di Natale ; ma quando seppe che si era affissata pel giorno appresso La Locandiera, commedia nuova fatta per Corallina, andò a rimettersi in letto con convulsioni di nuova invenzione, che facevano impazzire sua Madre, suo marito, i suoi parenti ed i suoi domestici.

{p. 120}Medebach Giovan Battista. Figlio dei precedenti, veneziano, fu attore e capocomico ; e fu la sua, la prima compagnia venale che, nel novembre del 1798, Tolentino ascoltasse a memoria d’ uomo. Pare anche fosse Tolentino, con questa compagnia, una delle prime città delle Marche a veder le donne sulla scena.

Sposò, il 6 dicembre 1786, Clemente Giovanna, figlia di Bartolommeo Paltrinieri del Finale di Modena, di cui si conserva nell’ Archivio di Stato di Modena l’ elenco de' mobili e oggetti da lei recati in dote. Il 6 di ottobre del 1790 gli furon sequestrati in Modena, mentre recitava al Teatro Rangoni, a istanza di Domenico Torricelli, oste, creditore, per cibarie somministrategli, di lire 104.15, i cassoni contenenti gli oggetti costituiti in dote dalla moglie, la quale con istanza del 13 ottobre, richiedeva la restituzione delle robe sequestrate, contro pagamento del debito : restituzione che non fu accordata, nè anche dopo rifatte le spese contumaciali se non, parzialmente, per il solo vestiario femminile. Infatti, la mattina del 13 dicembre 1790, tutti gli oggetti sequestrati, di lui, Medebach, furon messi all’ incanto, e venduti per lire 175.29. E a questa risoluzione fu spinto il dottor Bellagi, procuratore del Torricelli, stante – dice il testo – la notoria condotta del Medebach di aver praticato lo stesso con altri Locandieri, e somministranti vitto in altre città, senza che in quelle sia stato appurato anzi costretto non ostante a pagare, ecc. ecc.

Lo vediamo, assieme alla matrigna, la Scalabrini, ma non sappiam dire in quale anno, in Compagnia di Pietro Rosa.

Medoni Nicola, nato in Genova nel 1803 da onesta famiglia, e fatto un corso regolare di studi, si diede all’arte comica, nella quale, mercè l’ingegno svegliato, la bella figura, e la voce magnifica, riuscì egregio, occupando in breve il ruolo di primo attore assoluto nella Compagnia del suo concittadino Luigi Favre. Sposò in essa la giovinetta Elena di Paolo Bacci (V.), esimia attrice, che gli morì a soli trentacinque anni. I pregi {p. 121}artistici del Medoni erano alquanto scemati dalla cattiva pronunzia dialettale, ma compensava tal difetto con la coltura e l’ ingegno non ordinari in un comico (è stato autore di molte tragedie applaudite, tra le quali, applauditissima, la Dirce) e con la eloquenza, che, tra' comici del suo tempo, oserei dire, unica. Egli soleva tra il penultimo e l’ ultimo atto della rappresentazione invitare il pubblico, secondo il costume, alla recita del domani : e tale e tanta era la grazia delle sue parole, tanta la varietà ed elevatezza dei concetti, e tale ancora la dovizia delle trovate, che molti degli abbonati recavansi a teatro in quell’ ora solamente.

Il Medoni fu il 1829 a fianco del gran Vestri, della Marchionni, del Boccomini, del Righetti nella Compagnia Reale Sarda ; ma condusse quasi sempre compagnia propria. Abbandonato il teatro, si ritirò in patria, ove morì nel 1882.

Menghini Giovan Battista, bolognese. Recitò con molto spirito sotto la maschera di Tabarrino, prima con accademici nel Teatro Malvezzi, poi con comici in altri teatri della sua patria ed in quello del marchese Rangoni di Modena. Francesco Bartoli che lo vide, quando nel carnovale del 1764 recitava a Bologna con la Compagnia di Onofrio Paganini, ci dà il seguente ritratto dell’ uomo e della maschera :

Era egli d’ una statura alquanto piccola, pingue oltre il dovere, con faccia rotonda di sembianze geniali, con un gran ventre, e due gambe grossissime, ma tutte eguali, a cui s’ appiccavano picciolissimi piedi. Rappresentava per lo più un uomo del ceto mercantile vestito di nero in abito da collare, detto altrimenti da città, con calze bianche, e due liste di color rosso nelle estremità laterali del suo tabarro. Aveva la chioma divisa in due parti, che pendevagli per le spalle, e sopra il petto, e portava in testa un nero cappello tirato su a due ali con alta cuba nel mezzo, quasi simile a quella del Giangurgolo calabrese. Parlava egli un grossolano linguaggio di Bologna, meschiandovi delle parole toscane di {p. 122}tempo in tempo, che davano grazia a' suoi ragionamenti. Era egli lepido nel suo discorso, accorto, e pronto nelle risposte, ed i lazzi suoi pantomimici dilettavano per la loro varietà e per essere fatti nella debita situazione del teatro, che da' Comici a tempo si appella.

E venendo a parlar delle Torri, due commedie di sua particolare fatica e di sua invenzione, il Bartoli assicura aver egli toccato il sommo dell’ arte, in una scena specialmente, per la quale ci dice che bisognava vederla per giudicare s’ ella meritava ogni lode di chi sa intendere la forza di quell’ arte, che è tutta propria d’ un bravo Comico e che non è permesso alla penna d’ uno scrittore d’ estenderla al Tavolino in pari modo. E aggiunge che fu stimato dal Duca di Modena Rinaldo I, che volle sentirlo. Il Menghini faceva l’ indoratore, ed ebbe un figliuolo che gli diede molti dolori. Tornato di Modena, ove fu, come dicemmo, a recitare a quel Teatro Rangoni, non si levò mai più dalla sua Bologna, dove morì nel 1767.

Menichelli Nicola. Buon comico per le parti improvvise sotto la maschera dell’ Arlecchino. Recitava – dice il Bartoli – una commedia, intitolata Arlecchino finto scimmiotto, in cui vedevasi eseguire diverse forze sopra una cordicella volante. Fu con Pietro Rossi, con Onofrio Paganini, con Domenico Bassi e con altri. Passò con Giovanni Simoni e Angiola Dotti nel 1768 a Vienna, ove fu molto applaudito, e formò poi società per lungo tempo con Pietro Ferrari, sino al 1780, nel quale anno cominciò a condurre compagnia da sè con buona fortuna. Viveva ancora il 1781 insieme alla moglie Teresa, la quale, non ostante l’ avanzar dell’ età, dotata di svelta ed elegante persona, di spirito pronto e vivace, recitava ancora egregiamente le parti di serva, specialmente in scene improvvise.

Menichelli Francesco. Figlio del precedente. Recitava le parti d’ innamorato, e il Bartoli lo dice nel 1781 di freschissima età. Lo vediamo capocomico nell’ autunno del 1795-96 al San Cassiano di Venezia. Era prima donna della compagnia Gaetana Menichelli, moglie probabilmente di Francesco ; e Arlecchino, {p. 122}il famoso Giovanni Fortunati. De' pregi del Menichelli come attore abbiamo un cenno nel Teatro mod. app. il quale dopo aver detto, che seppe acquistarsi una gloria non disgiunta dall’ utilità, venendo a parlar dell’ Amleto di Ducis, applauditissimo a Bologna col Menichelli, protagonista, nell’ estate del 1795, dice ch' egli esprimendo con tragica energia il sopraeminente carattere del protagonista, seppe ricordare il gran Molè a tutti quelli che udito l’ avevano a Parigi.

Menicucci Angela. Figlia di Pietro Rosa, e moglie del ballerino Menicucci, che, fattosi poi comico, lasciolla vedova nel 1780. Il Bartoli non accenna punto alla di lei abilità. Sappiamo solo che recitava le parti di donna seria, e che fu con la Battaglia, col Camerani, col Sacco ; da cui passò in una Compagnia vagante, ove trovavasi ancora nel 1781.

Meraviglia Ferdinando, nato da onesti parenti a Brescia nel 1786, si diede il 1808 alle scene, esordendo quale amoroso generico in Compagnia di Antonio Goldoni, dal quale fu poi riconfermato ma col ruolo di primo attore assoluto. Fece parte della società formata il 1811 da Belloni, Calamari, Domeniconi, con Carlotta Marchionni prima donna, e ne fu per tutto il tempo applaudito primo amoroso e primo attore. Scioltasi quella, altra ne formò la quaresima del '23 con Antonio Belloni, passando per la prima volta al ruolo di caratterista. Una nuova società formò il '27 con l’ amoroso Carlo Gnudi ; e altre poi con altri, cessando di vivere a Brescia nel 1834. Il Meraviglia fu attore di grandissimo pregio, specialmente per le commedie Goldoniane, nelle quali, passando al ruolo di caratterista, serbò col Don Marzio, con la Locandiera, col Ventaglio, la stessa grandezza, alla quale era salito in gioventù con gl’Innamorati, le Zelinde, le Pamele, il Tasso, il Cavalier di spirito, il Cavalier di buon gusto, ecc.

Merli Cristoforo, nato a Bologna verso il 1741, fece le prime donne cogli accademici fortunati della sua patria, {p. 124}cominciando poi a recitare da innamorato in compagnie di giro verso il 1768. Fu un anno a Venezia con Girolamo Medebach, poi, il '70, in Portogallo con Onofrio Paganini, col quale tornò in Italia. Entrata Faustina Tesi in compagnia, egli visse con lei maritalmente. Furono scritturati il '76 con Pietro Rossi, e nel '77 formaron essi stessi compagnia, che scorreva ancora nel 1781, mediocremente accreditata, le varie città di Lombardia. Come attore fu il Merli amoroso assai reputato ; come uomo, dice il Bartoli ch' ebbe indole tanto mite, quanto l’ebbe stravagante la sua compagna.

Merli Giovanni. Minor fratello del precedente, recitò con lui nell’ accademia de' fortunati, sostenendo le parti di serva. Entrato in arte, si diede anch' egli al ruolo dell’ innamorato, nel quale fu molto apprezzato, specialmente per le parti spigliate. Fu a Napoli più anni ; poi entrò nella Compagnia della Tesi col fratello, con cui era sempre nel 1781. Lo vediamo l’ autunno del 1795 caratterista nella Compagnia di Marta Coleoni al San Cassiano di Venezia.

Messieri Camillo. Bolognese. Sosteneva coi Merli nell’accademia de' fortunati le parti di seconda donna. Entrò innamorato con Pietro Rossi, col quale stette quattr' anni. Sposò Brigida Sgarri, ballerina, divenuta poi comica anch' essa, e dalla Compagnia del Rossi passò nel '70 in altre di giro, abbandonando le parti d’ amoroso e sostituendo, alla sua morte, il suocero Francesco Sgarri (V.), nella maschera dell’ arlecchino.

Miani Rinaldo. Veneziano. Dall’ arsenale della sua patria, dov' era impiegato, passò a recitar le parti di Pantalone, sostituendo con onore, l’autunno del 1780 e il carnovale del 1781, il rinomato Gio. Battista Roti, mancato ai vivi nel precedente settembre. Al San Cassiano di Venezia fece rappresentare, il 26 dicembre del '97, una sua azione spettacolosa, intitolata il Gran Torneo della Grecia, ch' ebbe una replica.

{p. 125}Miani Anna. Nacque a Udine da Pietro Miani ed Anna Sella il 26 aprile del 1817. Giovinetta entrò in un laboratorio di sarta per impararvi il mestiere, ma, educata alle scene, nella filodrammatica della città, dall’ ex-artista drammatico Zuccato, fuggì di casa, dopo la morte del padre (1836), per sottrarsi alla risoluzione della madre che volea far di lei una istitutrice, e si recò a Venezia, ove fu scritturata amorosa, in Compagnia di Corrado Vergnano, dalla quale passò in quella di Giovannina Rosa, a farvi le parti di seconda donna che meglio si attagliavano alla sua bella e slanciata figura. Fu poi, nello stesso ruolo, con Carolina Internari, poi, prima attrice assoluta, col Meneghino Moncalvo, col quale recitò, dopo la Carolina Santoni che l’aveva creata, la parte della protagonista nella Maria Giovanna. Abbandonò dopo qualche anno il ruolo di prima attrice per darsi a quello di madre e caratteristica ; e tale fu scritturata da Giorgio Duse, da Gaspare Pieri, da Tommaso Salvini, ammiratissima, in ogni tempo, e nelle parti comiche, fra cui la goldoniana Cate, e nelle tragiche, fra cui l’ alfieriana Clitennestra. Fu poi con la società Ciotti, Marchi, Lavaggi ; e con Achille Dondini ; poi, seconda madre e caratteristica, con Alamanno Morelli e con Bellotti-Bon, in Compagnia n.° 2, nella quale recitò la prima volta a fianco del figlio Belli-Blanes (V.). Questi, nel 1878, formata società con Ciotti e Bozzo, la tolse dalle scene, e nel 1883 la fermò a Castel San Pietro, ove tranquillamente visse fino al 18 dicembre del 1888, giorno della sua morte.

Milanta Giuseppe. Comico, fiorito nella seconda metà del secolo xvii, con la maschera del dottore, e famoso col nome di Dottor Lanternone. In una lettera al Duca di Modena da Parma in data 4 giugno 1655, si accenna al Milanta, richiesto per la Compagnia di Parigi, e dal Principe Alessandro negato. Nel '64 {p. 126}era ancora fra' comici che Fabrizio (V.) desiderava mettere assieme per l’ Altezze di Parma. Era nel 1687 al servizio del Duca di Modena, nella Compagnia di Giuseppe Fiala il Capitano Sbranaleoni (V.).

Millita Anna Maria. Comica del Serenissimo di Modena, sotto il nome di Cintia. Abbiam di lei la lettera seguente, tolta a quell’ Archivio di Stato, l’ eroe della quale è certo quel Domenico Antonio Parrino (V.), comico e istoriografo napoletano, che in quel tempo appunto era al servizio del Duca di Modena. E chi era il Padre Francesco ? Forse il buon Dottore Materazzi ? Ma ecco la lettera :

Alt.za Ser.ma

La supplico a condonarmi dell’ ardire che io ho preso di scriuere a V. A. S. La causa è la prigionia del Sig.r Antonio è si troua in secreta con molto pericolo della sua uita. Se l’A. V. non lo soccorre di quanto accena nella sua. Io in tempo della sua malatia ho impegnato ogni cosa dell mio, et adesso per la prigionia l’ ho uenduto è non so più come mi fare, à mantenerlo la dentro, onde lascio considerare alla prudenza di V. A. S. in che labirinto stiamo tutti dui. Io ho procurato di dare la sigurtà all’ Hoste d’ un Caualiero quale è l’Ill.mo Sig.r Co. Claudio Canossa et il detto hoste non l’ ha uoluto, ho procurato medesimamente di farlo uenire alla larga è fu risposto dal Sig.r Cap.no di Giustitia che è ordine espresso del Sig.r duca di Mantova perche quest’ hoste li è andato a dire al istesso Sig.r Duca che il Sig.r Antonio erra una spia di V. A. S. et per queste parole fu datto ordine espresso che fosse carcerato. Io ho saputo che si uogliono dare li tormenti per farli dire quello che non è la uerità la causa è il Sig.r Co. Violardi onde che aforza di denaro in testa al Sig.r Antonio che io farò il resto. La suplico per l’Amor di Dio et per la fedeltà del Sig.r Antonio appresso di V. A. S. ad aiutarlo in questa necessità che subito sortito delle Carceri sarà a baciare le mani di V. A.

Circa il Padre Francesco non occorre che uenghi a Mantoua perchè lo fariano prigione è se l’ esaminarano li essami non si confrontariano dell’ uno e dell’ altro è potrebbe succedere del danno tanto al Sig.r Antonio : è se V. A. S. uole honorare il Sig.r Antonio del denaro è non lo uoglia rimettere puole spedire il Padre Francesco doue io li ho scritto che non ui sarà pericolo, è questo sarà all’ hosteria di Cerese et l’ istesso Padre mi puol mandare auisare che anderò io in persona acciò sia sicuro à leuare il denaro che per uia denaro si cauerà fuori, La suplico per l’Amor di dio a far questa gratia acciò che possi fare le sante feste costì in Modena mentre per fine resto facendoli profondissima riuerenza.

Di V. A. S.
Humiliss.ma devot.ma obb.ma Serua
Anna M.ª Millita Comica detta Cintia.

{p. 127}Minelli Giulio. Veneziano. Ebbe, dice il Bartoli, tutte le doti necessarie per riuscire un ottimo Pantalone ; alle quali però non seppe nè volle accoppiar mai la fatica dello studio. Grande lazzista e pantomimo grazioso, fu in molte compagnie applauditissimo. Nel 1780-81 trovavasi in quella di Antonio Sacco, e nel '95-'96 in quella di Pellandi al Sant’ Angelo di Venezia, assieme a un Agostino Minelli, probabilmente suo figliuolo. Coll’ avanzar dell’ età, s’ andò sempre in lui allontanando l’ amore allo studio ; onde pervenne a vecchiezza guitto e misero. Nei momenti suoi più calamitosi ebbe la sorte di vincere un terno al lotto di 400 bavare (quasi 2000 lire), che avrebbe dovuto sanargli molte piaghe. Nè men per sogno ! Egli si fe' portare il letto a una osteria, e di là non si partì che dopo speso fin l’ultimo quattrino in pranzi e cene da pazzo. Ridotto al mendicare, ricorse a uno strattagemma che l’arte gli suggerì. Egli recitava solo, per via, intere commedie…. ma lasciam la parola all’attore Colomberti che di quelle recite singolari ci lasciò la seguente descrizione :

Nella primavera del 1824 io mi trovavo a recitare al Teatro San Benedetto di Venezia colla Compagnia di Luigi Fini ; e una mattina, trovandomi a passeggiare sulla riva degli Schiavoni, vidi giungere un vecchio, seguito da un ragazzo che gli portava una sedia, che pose in mezzo al vacuo fra le colonne di Marco e Todero, ed il vicino canale che dalla Laguna va al Ponte dei Sospiri. Giunto in quel largo, il vecchio si fermò ; prese il suo cappello, lo pose sul suolo, ed aspettò. A poco, a poco, e dalle vicine gondole, e da quegli che passavano si formò un semicircolo intorno alla sedia, sulla quale era seduto il suddetto, che tutti salutava, e sorrideva a tutti. Quando il concorso gli sembrò al completo, si alzò dalla sedia, e rivolto agli accorsi, disse loro in dialetto alcune parole di ringraziamento, e terminò coll’ annunziare che avrebbe recitato un lavoro tragi-comico, in tre atti, intitolato : la Maga Morgana e Arlecchino vittima delle sue vendette. Grande attenzione nell’ uditorio ; e io guardavo attorno, per vedere se alcun altro artista compariva, quando egli incominciò, gridando : atto primo, scena prima ; e dopo di aver detto che il fatto aveva luogo in una grotta, prosegui notando il nome dei personaggi dei due sessi, che egli avrebbe rappresentato, e così di tutti gli altri sol nominati. Potei ascoltare le prime scene dell’ atto, e confesso che per l’ esecuzione, ammesso che l’ artista potesse fare più personaggi senza travestimenti, la protasi fu abbastanza ben descritta. Ma, benchè di maggio, il sole scottava bastantemente, e pensai bene di andarmene, riserbandomi di domandare informazioni sul passato di quel disgraziato. Nè mi trovai deluso, perchè il vecchio caffettiere del Teatro mi disse che quell’ uomo chiamavasi Giulio Minelli, che alla sua epoca era stato un bravo Pantalone ; ma che, in vecchiaja, datosi al vino, si era ridotto in miseria. Allora inventò di dar quel nuovo spettacolo sulla riva dei Schiavoni, che bastava a farlo vivere, se non bene, mediocremente.

{p. 128}Minuti Barbara, detta in Teatro Florinda. (V. Biancolelli Orsola).

Miti Pompilio. Bolognese. Fu un buon innamorato, e fece parte della Compagnia del San Luca a Venezia. Scrisse il 1735 Ottaviano Trionfante di Marc’ Antonio, dramma-parodia, che fece rappresentare da' suoi compagni con la musica del Maestro Maccari. Nel '36 sostenne con molto successo la parte di Uranio, maggior sacerdote di Apollo nella tragicommedia : La clemenza nella vendetta. Rimasto vedovo, abbandonò l’arte, e vestì l’abito talare, lasciando – dice il Bartoli – delle azioni sue una fama onorata, e morendo in quella città (Venezia) per lui tanto benefica nel decorso dell’ anno 1766.

Miti Vittoria. Moglie del precedente, attrice bravissima per le commedie improvvise, sotto il nome di Eularia. Nè men brava si mostrò nelle opere studiate che richiedevano slanci di passione. Nella parte di Eularia, Principessa de' Faggiani, parte seria in mezzo alla faceta rappresentazione La clemenza nella vendetta, la Miti fu ottima e lodatissima. Ebbe a seconda donna la rinomata Marta Bastona. Gianvito Manfredi nel suo Attore in scena dice di lei : si distinse la celebre non meno che saggia ed onesta Vittoria Miti, detta Eularia, passata all’ altra vita pochi anni sono, da me più volte con non poco stupore ascoltata.

Morì in Venezia nel 1740, non tocchi ancora i 35 anni.

Miutti Francesco. Figlio di un ciabattino di Udine, dove nacque verso il 1780, fu allevato nel mestiere del padre, morto il quale, vagando di paese in paese, or questo or quello frecciando, s’ imbattè in una piccola compagnia di comici che lo accolsero in qualità di socio, e da cui fu licenziato, dopo la prima sua comparsa in pubblico. Lo vediamo in capo a tre anni amoroso generico in Compagnia Rossi, poi cinque con Perotti, secondo e primo amoroso. Dalla Compagnia del Perotti, passò in quella di Antonio Raftopulo col ruolo di secondo caratterista, poi in altra secondaria con quello di primo assoluto ; {p. 129}e tanto crebbe in rinomanza collo studio indefesso, col ferreo volere, e colle chiarissime attitudini, che il Perotti lo richiamò e lo tenne con sè fino alla sua morte, accaduta nel 1820. Fu poi in Compagnia di Goldoni e Riva, poi di Bon, Romagnoli e Berlaffa, coi quali stette più anni, applauditissimo ed amatissimo sempre. Percorse dal '45 al '50 il napoletano e la Sicilia con una società, di cui egli era capo. Tornato a Napoli vi morì, non ancora compiuto il suo settantesimo anno, lasciando la moglie Enrichetta, mediocre seconda donna e madre, poi caratteristica, e due figliuole, una delle quali, la Claudia, che sostenne per alcun tempo il ruolo di prima donna, ma con poca fortuna, a cagione specialmente del fisico nè bello, nè simpatico….

Fu il Miutti un capo ameno, trascurato piuttosto, e gastronomo per eccellenza. Non vi fu Piazza, nella quale, al momento della partenza, non trovasse che dire pei debiti fatti con questo e con quell’oste. A Livorno (in quaresima del '22), la signora Perotti dovè pagare, all’oste della Pera, quaranta francesconi per tanti tordi mangiati dal Miutti, il quale era tenuto in ostaggio…. A Napoli, avuto dal capocomico un magnifico soprabitone, e non avendo un soldo in tasca, per certa merenda che s’era proposto di fare coi compagni Bon e Romagnoli, corse alla Villa e ne vendè le lunghe falde a un rigattiere per quindici carlini, coi quali potè allo Scoglio di Frisi far la sospirata merenda. Come artista ebbe valore incontestabile, e Francesco Augusto Bon scrisse apposta per lui parecchie delle sue commedie.

Modena Giacomo. Attore insigne in ogni genere di parti, ma più specialmente in quelle di padre nobile e tiranno tragico per le quali si aggiungevano all’intelligenza superiore la imponente e proporzionata persona, la robusta e pieghevole voce, nacque a Mori nel Tirolo italiano da poveri montanari il 1773. Si recò a quindici anni a Verona, per impararvi il mestiere di sartore ; ma innamoratosi del teatro, entrò in una piccola compagnia, in cui dalle ultime parti potè salir ben presto a {p. 130}quelle di prima importanza, quali di padre e di tiranno ; e con tal successo, che in capo a pochi anni lo vediam già nello stesso ruolo in Compagnia del vecchio Zanerini, di cui potè seguire, senza servilità, la vecchia scuola, e di Maddalena Battaglia (1795-96), destando a Venezia, al San Gio. Grisostomo, coll’ Ubaldo nel Galeotto Manfredi di Vincenzo Monti, specie nella scena del quarto atto con Zambrino e Manfredi, siffatto entusiasmo, che se ne volle la stessa sera la replica. E « il Carlo XII nel Carlo XII a Bender del Federici, e l’ Enrico Traslow nel Federico II, mostrarono – dice il Teatro mod. app. (vol. III, XXI) – quanto egli fosse capace di sostenere i più sublimi caratteri e {p. 131}di esprimere le più veementi passioni. » Grande nella parte di Macmut nella trilogia Goldoniana La sposa persiana, Ircana in Iulfa e Ircana in Ispaan, fu grandissimo in quelle del Sacerdote ne' Baccanali e del Padre nell’Elena e Gerardo di Pindemonte. Nè le tragedie di Alfieri, Saul, Agamennone, Oreste, Virginia, Polinice, Antigone, Ottavia, nè i drammi del Metastasio, Attilio Regolo, Temistocle, Catone in Utica, ebbero più forti interpreti di lui. A questi si univan l’Abate de l’ Epée, il Cugino di Lisbona, il Ministro d’onore, il Medico olandese, che accrebber nuova fama all’artista già famoso. La robustezza del suo petto era tale, ch'egli potè a sessantacinque anni replicar più sere il Saul e l’Aristodemo ; quel Saul, nel quale egli fu sommo, e pel quale vuol la leggenda di palcoscenico ch'egli si mostrasse geloso del figlio Gustavo. Ma è da credersi, che la frase a lui detta, se pure fu detta, quando salì sul palco, dopo ascoltato il Saul :« no g' avè rispeto gnanca de vostro pare » ebbe più un tuono di amorosa compiacenza, che di sciocco risentimento ; dacchè pare irrefragabilmente provato da chi lo avvicinò, che egli fosse d’indole buona e avesse un amore sviscerato per la famiglia (sposò il 1801 la valorosa attrice Luigia Bernaroli (V.), vedova Lancetti, da cui ebbe due figliuoli) ; e che la serenità dell’uomo e la coscienza dell’artista non mai venissero meno in lui, mostrandosi in ognun de'casi (o attore stipendiato, o socio, o capocomico solo), direttore eccellente e galantuomo rarissimo. Nei sette anni di esilio di Gustavo, egli, con sacrifici di ogni maniera, privandosi quasi del pane per sè e i suoi, gli fu largo di soccorsi in Francia e in Isvizzera, sopportando sempre con rassegnazione i molti dolori che per tristizia di tempi ebbe a patire nel corso non breve della sua vita. Sazio d’encomi, e ben fornito di danaro, pensò di lasciar le scene per darsi alla vita tranquilla della famiglia. Ma il suo riposo non durò che sei anni. Costretto dalla sorte a riprender la via dell’arte, entrò nella Compagnia Internari (1823), ove stette più anni, festeggiato e acclamato. Morì a Treviso fra le braccia del figlio e della moglie, in tardissima età.

{p. 132}Lauro Corniani d’ Algarotti gli dedicò il seguente

SONETTO

Ai prischi di della Superba Roma
Roscio dal palco gli animi volgea,
e dai signori della terra doma
alta mèsse di plausi allor cogliea.
De'più gravi pensier posta la soma
l’Anglo al teatro cupido movea,
e or lieto, or irto per terror la chioma,
dal multiforme Garrico pendea.
Modena, e tu così se il sire argivo
micidïal del proprio sangue additi
agli atti, al viso d’ogni pace schivo.
E pur cosi quando del Norte ai liti
in te lo Sveco eroe par redivivo,
e le sue gesta e sua fierezza imiti.

Modena Gustavo. Figlio del precedente ; il più grande, il più completo, per comune consentimento, degli attori del nostro secolo, nacque a Venezia il 13 febbraio del 1803. Iniziato alle lettere nel liceo di Verona sotto le discipline di Ilario Casarotti, passò poi a studiar legge nell’ Università di Padova. Apertosi il 1820, quel teatro, restaurato, colla Fedra dell’Orlando, di cui eran parti principali la celebre Grassini, la Pasta e Debegnis basso, egli fu dopo reciproche provocazioni generate dal divieto agli studenti di partecipare alle prove degli spettacoli, ferito a un braccio la notte del 25 giugno così gravemente, che i dottori Fabris e Ruggeri nel lor rapporto lo dichiararono in pericolo di vita. Dopo un mese di malattia, « espulso, – dice il Leoni (Dell’ Arte e del Teatro di Padova. Ivi '73) – per la colpa d’essere stato ferito dai manigoldi austriaci, » riparò a Bologna, ove si laureò avvocato, recitando talvolta co' filodrammatici le parti di primo attore, nelle quali {p. 133}mostrava di riuscir sommo. Morto Alessandro Lombardi, Salvator Fabbrichesi pensò di sostituirlo col giovane Gustavo, il quale, chiamato a Venezia (1824), esordì colla parte di David nel Saul di Alfieri ; e s’andò man mano acquistando tal fama, che poco dopo entrò nella Compagnia di Antonio Raftopulo come primo attore.

Formò dopo un anno, e per un triennio, una fortunata società col padre e la celebre Carlotta Polvaro ; e abbiam d’allora, al Giglio di Lucca (15 maggio 1830), un programma particolareggiato di una rappresentazione straordinaria di spettacolo straordinario con colpi di scena e scenari straordinari del solito pittore della compagnia sig. Pietro Venier, ecc. Si trattava della Scimia liberatrice ossia Il naufragio del capitano La Peyrouse. Il protagonista era Gustavo Modena, Comandante la flotta francese il padre Giacomo, e la Scimia Welenfeldt.

Oltre ad essi, la Compagnia contava allora tra' suoi principali artisti : Andrea Vitalliani, Angelo Venier, Angelo Pisenti, Carlotta Polvaro, Adelaide Vitalliani, Caterina Venier, ecc., ecc.

Le cose procedevano floridamente, quando le agitazioni politiche del’ 31 nello Stato della Chiesa, e la rivoluzione di Bologna, ove Modena trovavasi la quaresima con la Compagnia, lo fecero risolvere ad abbandonar questa per correre a difender sui campi di Rimini la libertà d’ Italia contro gli austriaci. Vinti i liberali, ei dovè riparare in Francia. Tornò il '32 a Bologna, ma i fatti di Cesena lo ricacciarono in esilio : e fu a Brusselle correttore di stampe, maestro di scuola e commerciante di maccheroni e di cacio lodigiano ; poi in Isvizzera, poi di nuovo in Francia, d’onde tornò, dopo sette anni di esilio, a riveder la patria e i parenti, per amnistia del nuovo imperatore austriaco Ferdinando I. Comparve allora sulle scene del Teatro Carcano di {p. 134}Milano sotto le spoglie del divino Alighieri, declamandone, sviscerandone alcuni canti, fra cui di Ugolino e di Francesca, che suscitaron l’entusiasmo. Si unì poi a varie compagnie, colle quali dava or qui or là poche recite, maturando il disegno di formare e condurre una Compagnia propria di giovani forze da avviare, da ammaestrare, da guidare : e la Compagnia fu fatta, e alcuno de' nuovi accolti riuscirono attori splendidi. Ammirato e amato come artista e come patriota, percorse il Veneto e la Lombardia, ove potè mettere assieme una mediocre fortuna ; ma quando la rivoluzione di Milano preluse a quella del '48, egli, chiamato a soccorrer la patria del suo braccio e del suo nome, tutto abbandonò e sacrificò, come nel '31 ; e fu il primo a entrare in Palmanova con in mano spiegata la bandiera d’ Italia. Ma rientrati gli austriaci vittoriosi e trionfanti nel Veneto, si vendicaron tristamente di lui, atterrando e distruggendo la casa e la terra ch'egli aveva in Treviso, frutto del suo ingegno e delle sue fatiche. Esiliato dalla Lombardia, dal Veneto, dalla Toscana, dallo Stato Pontificio, dal Napoletano e dalla Sicilia, dovè rifugiarsi nel Piemonte, ove fino al '61 restò, percorrendone le varie città or con compagnie rilevate, or con formate di nuovo. Lo vediamo alla fine del '58 all’ Apollo di Genova, ove diede il mercoledì 22 dicembre un’ultima rappresentazione compresa nell’ abbonamento del carnevale col dramma di Delavigne, Luigi XI. Cacciati i borboni da Napoli, deliberò di presentarsi colà come artista ; ma côlto da un malessere generale dovè tornare a Torino, ove, sviluppatosi il male, cessò di vivere a soli cinquantott’anni, il 21 febbraio del 1861.

Molte cose abbiamo a stampa di lui, o che discorron di lui, uomo politico ed artista ; e principali fra esse :

I. L' Istruzione al popolo italiano e l’Insegnamento popolare di Gustavo Modena« scrittura – dice il Martini (Giusti studente in Simpatie. Firenze, Bemporad, 1900) – a cui l’enfasi dello {p. 135}stile guerrazzeggiante non scema vigore e non toglie efficacia. » Dell’ Insegnamento popolare egli riferisce il sunto che ne fece il Lami al Presidente del Buon Governo e ch'egli dice fedele ; e quella parte del dialogo riguardante il Canosa, a proposito della quale egli sarebbe incline a credere che lo spiedo immaginato dal Modena generasse la Ghigliottina descritta dal Giusti (Ivi, 112, 113).

II. Tutta l’opera sua nella stampa della Giovine Italia.

III. L' Epistolario, che doveva essere raccolto da Mauro Macchi, secondo afferma il Ricciardi, e pubblicato con prefazione di Giuseppe Mazzini, ma che vide soltanto la luce nel 1888 per opera della Commissione editrice degli scritti di G. Mazzini, col quale egli eresse a sè l’oraziano monumento più durevole del bronzo, e nel quale è un’ampia e bella biografia dettata amorosamente da Ettore Socci, rilevante in ogni sua parte la grandezza dell’affetto che a lui legava la incomparabile compagna Giulia Calame di Berna, che lo aveva sposato fuggiasco, e che fu – dice il Mazzini – donna mirabile, come per bellezza, per sentir profondo, per devozione e costanza d’affetti e per amore alla sua seconda patria ; corse più tardi ogni pericolo di guerra accanto al marito nel Veneto……

IV. Una lettera al celebre attor dialettale Giuseppe Moncalvo, meneghino, nella quale sono espressi i suoi intendimenti d’arte, e le vie da seguirsi ad arrestarne il precipitoso decadimento, riprodotta poi dal Bertolotti nel suo studio sul Moncalvo.

V. Gustavo Modena e l’arte sua di Luigi Bonazzi, che ha data un’idea abbastanza chiara, a noi che non avemmo la sorte di sentirlo, della sua artistica grandezza.

VI. Un capitolo nelle memorie di Tommaso Salvini, intitolato : Come G. Modena istruiva.

VII. Una conferenza di Adriano Palombi (Roma, '99).

{p. 136}VIII. Una conferenza di Edmondo De Amicis (Speranze e Glorie. Milano, Treves, 1900), alta, appassionata, piena di fervore patriotico.

IX. Una conferenza di Carlo Zangarini (Bologna, Zanichelli, 1900), ov'è tutto l’entusiasmo della sua gagliarda giovinezza.

E alle cose già edite e citate aggiungo oggi due lettere inedite che riferisco intere : la prima del 15 aprile 1845 da Bergamo a Mariano Somigli impresario del Cocomero, oggi Teatro Niccolini, a Firenze ; la seconda del 1° febbraio 1848 da Venezia all’abate Iacopo Ferrazzi a Bassano.

I.

Caro Mariano,

Mascherpa ha ragione di mettersi in collera con Montazio. Quando un giornalista vuol gridare contro la meschinità della mise en scène, deve anche dire al pubblico : « tu pubblico asino e spilorcio, che dài tanti paoli all’ opera ; e voi accademie orecchiute che per l’opera date migliaja di scudi, date anche alla commedia i mezzi di decorare la scena. » Ma egli, il giornalista, comincia dall’ abonarsi con due crazie per recita, tante quante ne dà al decrotteur per pulirgli gli stivali ; e poi grida : arte, arte ! – arte un cazzo : poveri saltimbanchi che vi facciamo i buffoni per strappar la vita ; ecco cosa sono i comici. – Mi fa da ridere quando parla dei Faigny e dei Doligny, e altri francesi : quei poveri infelici, dopo d’aver divertito il colto pubblico italiano, han dovuto far delle collette per tornare {p. 137}in Francia ; e qui si son mangiati gli abiti, i bijoux, le camicie, e fin le unghie. Io ho seguitato fino a pochi mesi addietro a spendere e spandere per decorare le produzioni con una esattezza di costumi e con uno sfarzo ignoto fino ai nostri giorni ; e qual è la città che me ne ha tenuto conto ? La sola Milano : senza Milano, io fallivo. Qui, a Bergamo, perchè ho messo il biglietto a una lira, m’avean minacciato di fischiarmi nei pubblici caffè. E a questo proposito il pubblico di Firenze è forse più indietro di quel di Bergamo. Imparo da te che Taddei è vivo : non ne sapevo nulla da lui. Che non piaccia a Civitavecchia è possibile : perchè il pubblico di Civitavecchia non avrebbe da esser asino ? Lo son tutti.

Il Battaglia vuol fare una compagnia per il suo teatro Re ; ma in questa io non entro per nulla. M'ero obbligato a far tre recite per settimana in Milano colla detta sua compagnia, se egli avesse trovato i duecento sovventori che chiedeva nel suo prospetto stampato ; non li ha trovati ; ed io mi son chiamato sciolto. – Ho già licenziata la mia compagnia, ed ho messa in libertà la quaresima di Padova, e coll’ultimo di carnovalone 45 in 46 finisce il mio capocomicato. Probabilmente verrò a passar l’anno venturo in un villaggio di Toscana, alla campagna. Battaglia è in trattato con alcuni de' miei artisti : colle Botteghini madre e figlia, colla Sadowski, con Bellotti-Bon, col ragazzo Vestri Angelo, e con Lancetti. So che ha scritto alla Santoni, alla Fusarini, perchè vorrebbe riunire molte brave donne e farle lavorare a vicenda, ma a questo non riuscirà : le conveniense ! ! – In fin dei conti io credo che la Compagnia del Battaglia finirà prima di cominciare come quella di Alì impresario per le Smirne. Addio. Saluta tutti. Il tuo

Modena.

Dammi notizie della Internari.

II.

Pregmo. Sig.r Professore,

Mi ascrivo ad obbligo il dare pronto riscontro al gradito di Lei foglio 28 spirato gennaio. E dopo di averle resi i più vivi ringraziamenti per le gentili espressioni che in quello Ella si compiace dirigermi, La prego di voler manifestare a cotesto illustre Ateneo i sensi della mia riconoscenza per l’onore che mi ha fatto di nominarmi suo Socio corrispondente. Mi è poi di grandissima compiacenza l’entrare seco Lei in tali rapporti, che mi procureranno il piacere di conoscer La personalmente, e di riconoscere in pari tempo il di Lei merito anche in fatto di pubblico insegnamento. Frattanto ho il vantaggio di potermeLe dichiarare

Obblmo. Devmo. Servitore
G. Modena.

Grande e bella figura questa del Modena, di cui non sappiam bene se più e meglio valesse la modestia sincera, l’arte potente, o il patriottismo caldissimo. Leone Fortis delineò l’uomo politico nel Capitan cortese del 12 aprile '96 con queste parole :

Fu tutto di un pezzo : repubblicano sin dalla prima giovinezza, fiero nemico così dell’ oppressione straniera, come di qualunque arroganza anche tribunizia che mirasse ad imporsi, sia con la dittatura della piazza, sia con quella della Reggia.

Mi ricordo di averlo veduto nell’Assemblea Toscana in cui era deputato, capitanare un giorno un tentativo di rivolta dell’Assemblea Toscana in cui era deputato, capitanare un giorno un tentativo di rivolta dell’ Assemblea contro la dittatura di Guerrazzi – dittatura {p. 138}acre, aspra, sgarbata, che non salvava nemmeno le apparenze, e che trattava la Rappresentanza del popolo a scudisciate. – Il tentativo falli. – L'Assemblea era troppo sfiaccolata per reggervi. – Il dittatore impose il voto di fiducia e l’ottenne. – Ma l’urto fra i due uomini, entrambi di ferro, fra i due caratteri irti di punte e di angoli, fu terribile. – Guerrazzi rispose alla interpellanza di Modena, secco, sdegnoso, iracondo, e chiuse dicendo : E così rispondo al discorsoRecitato (e marcò sprezzante la frase) dal Deputato Modena. Modena scattò in piedi, rosso in viso contro il suo solito, tremante, schizzando fuoco dagli occhi : Comprendo l’allusione insolente e la raccolgo. Sappia il signor Guerrassi che io mi sento tanto altero di recitare la tragedia al Teatro di Borgognissanti, quanto umiliato nel prender parte a questa indegna commedia di Palazzo Vecchio.

Guerrazzi, dal suo banco ministeriale, pallido, terreo, mandando lampi di collera dai cristalli dei suoi occhiali d’oro, irruppe con brusca impazienza : Non feci allusioni : – non si accalori così. È tutto rosso.

E Modena di rimando : « Risponderò a lei come fu già risposto da un uomo libero come me ad un grande tiranno – ma ad un tiranno da tragedia, non da commedia, a Napoleone I : È il nostro destino quando si parla di libertà – per me di arrossire, per voi di impallidire. »

L'Assemblea andò sossopra – il pubblico batteva freneticamente le mani.

Era uomo di passione, ma il sentimento dell’ onestà e della rettitudine prevaleva sempre in lui alla passione politica e ai rancori personali.

………………………..

Nessuno certo potè mai più di lui nè come lui suscitar l’entusiasmo nel popolo affollato, sia si mostrasse sotto le spoglie di Paolo, sia di Luigi  XI, sia di Saul, sia di David ; o di Adelchi, o di Walenstein, o del Cittadino di Gand, o di Maometto, o d’Icilio, o di Remy, o di Raimondo, o di Dante, del quale interpretava (come abbiamo da un programma di sua beneficiata al Teatro del Giglio di Lucca, la domenica 7 giugno 1840, in Compagnia Dorati), Mino – Francesca da Rimini – Cerbero (Canti V e VI). Ladri tramutati in serpi (Canto XXV). Curio – Il Mosca – Bertram del Bornio (Canto XXVIII). Falsatori – Maestro Adamo (Canti XXIX e XXX). Lucifero – Bocca – Ugolino (Canti XXXII, XXXIII, XXXIV).

{p. 139}Nè minore entusiasmo egli suscitava in assurdità incredibili come quella famosa del pugnale infisso con gran violenza sul piano della tavola, che…. doveva essere di marmo. Ma…. altri tempi, allora. La missione del teatro non era, allora, di mostrare al vivo malattie del nostro spirito e del nostro corpo, senza ragione, senza concetto, senza ideali ; o di intrecciar pazzie e bizzarrie per ridar vita alla nostra fibra addormentata. C'era allora una patria da liberare ; c’ era un popolo da educare, da ingagliardire…. E l’artista e il patriotto insieme si servivan di ogni mezzo per riuscir nell’intento. Non occupiamoci ora di stabilire se antiartistica, o poco logica, o addirittura grottesca potesse essere l’apparizione di Modena sotto le spoglie di Dante, che i canti dell’Inferno declamava, immaginando di improvvisarli e dettarli inspirato a un giovinetto seduto a un lato della scena…. Quel che più cercasse il Modena con tali declamazioni, se, cioè, di ravvivar nelle genti l’amore pel grande volume, o non piuttosto di mostrar loro i più riposti sentimenti politici del fiero ghibellino, non sappiam precisamente. Ma sta in fatto che l’uno e l’altro scopo non ottenner dalla cattedra tutti insieme gli eruditi espositori, com’ egli dalla scena al popolo infiammato.

Dice il Leoni ch' « egli tutto possedeva tranne la perfetta voce. Studente ancora, il brutto morbo, figliastro dell’amore, corrodendogli le cartilagini nasali deformò il suo volto, ch'era nobilissimo, e alquanto fessa rese la voce che avea potente e bella, ond’era necessario abituarvisi. Le forme del corpo atletiche e ferrea tempra. »

{p. 140}Di tutte le parole stampate in prosa e in verso a onore del sommo italiano, scelgo la seguente ode, d’altre forse men peggiore, che il Dall’Ongaro dettava nel giorno che Gustavo Modena chiuse le sue rappresentazioni nel Teatro di Palma, intitolato poi dal suo nome.

No – non è l’oro l’idolo,
a cui sacra gl’incensi, e innalza un’ara
la mia terra materna all’arte cara.
No, della gloria il palpito
non è figlio dell’or, nè quel desio
ch'erge al Genio teatri e templi a Dio.
Ferve nel petto agl’ Itali
più nobil foco, e ad alte opre gli appella
l’amore e il culto d’ogni cosa bella.
Questo t’accende, o Modena,
quando rendi a Talìa l’antico impero,
e mostri come il bel s’accoppi al vero.
Questo dettò le semplici
norme a Colui che, del tuo plauso degno,
architettò questo gentil disegno.
E già sacro l’invidia
de'pedanti lo fece, e lo consola
l’eco possente della tua parola.
Forse l’industre artefice
di questa nova gloria era presago,
quando il suo circo immaginò sì vago.
Or nobil premio all’opera
Sien del tuo labbro i non mentiti encomj,
e il Teatro gentil da Te si nomi.

Invano si reclamava dalle gazzette più autorevoli un monumento al grande artista e al gran cittadino…. Invano si dettavano iscrizioni da incidere in un sasso che ne ricordasse ai posteri il nome e le virtù. Il 29 aprile del '900, Torino, rifugio dell’esule, che gli fu seconda patria, inaugurò, per l’opera {p. 141}costante e amorosa di Giuseppe Cauda, un giornalista, che dell’arte del teatro s’è fatto un culto, il sospirato monumento, degno lavoro di A. Bi stolfi, al quale porse il saluto della patria Enrico Panzacchi, e sul quale sono incise queste degne parole di A. Graf :

gustavo modena | per altezza d’ingegno | per carità di patria | per integrita di vita | degno di accompagnarsi coi sommi | l’arte scenica aderse | a magistero supremo | di verita di virtu di bellezza | memorabile esempio | a imitatori ed emuli | di vera gloria bramosi. | 1803-1861.

Moncalvo Giuseppe. Artista celebre nella maschera milanese del Meneghino, giudicato dal Vestri la verità personificata ; ammirato e stimato da Gustavo Modena (V.) che gli diresse lettere su argomenti d’arte, capocomico famoso, a cui fecer capo nel loro inizio artisti sommi ed egregi, quali la Ristori, la Sadowski, la Robotti, la Lipparini, Bellotti-Bon, Gaspare Pieri, Ernesto Rossi, Carlo Lollio ed altri, nacque a Reggio d’Emilia il 4 luglio del 1781 da Carlo, dentista chirurgo milanese, {p. 142}e da Antonia Cianici. Fuggì a diciotto anni dalla casa paterna, ed esordì ad Abbiategrasso. Nel 1804 recitò al Teatro Gottardi di Vercelli, poi, l’autunno, a Magenta, formando l’anno dopo una compagnia regolare in società con G. B. Pucci e Carlo Dondini, della quale era anche primo attore. Richiamato dal padre a Milano, ove gli fu permesso di alternar l’arte della scena con la professione paterna, istituì filodrammatiche società, di cui egli era esperto direttore, recitandovi con successo parti di tragedie alfieriane, quali di Filippo, di Agamennone, di Egisto, ecc. Fattosi capocomico nel '19, trovò la maschera del Meneghino, resa popolare da Gaetano Piomarta, che il Moncalvo in breve emulò e superò, più commerciale della tragedia ; e se ne servì, nobilitandola a segno da sostituirla alle parti caratteristiche delle opere classiche, come ad esempio del Curioso accidente, del Burbero benefico, del Filosofo celibe, degl’Innamorati, ecc. Diventò direttore della Compagnia Guarna, poi di quella Ciarli, passando dal Carcano al Lentasio, e da questo alla Stadera, per metter finalmente il piede sulle scene dell’aristocratico Teatro Re, ove fu, come dovunque, acclamatissimo. Quindi i trionfi del Moncalvo non ebber più tregua. Fu in Piemonte, nel Genovesato, negli Stati Estensi, nelle Romagne, e la stampa d’allora lo chiamava la delizia universale. Naturalmente egli ebbe comuni coi grandi stenterelli le scurrilità, le bottate al governo, e le prigionìe. Ma queste diventavan quasi una celia, confortate dall’ammirazione sconfinata per l’incomparabile artista, la quale su tutti gli profuse in privato epistolario e su per le gazzette Angelo Brofferio, di cui, metto qui il brano seguente :

Ti ringrazio, o mio buon Moncalvo, lume e splendore dei Meneghini, ti ringrazio dell’oblio che spargi sulle mie pene, del sorriso che chiami sulle mie labbra, della serenità che trasfondi nel mio cuore. O sia che servitore in Venezia tu ti accinga al servizio di due padroni, o sia che barbiere in Gheldria, tu abbia la lingua più affilata del rasoio, o sia che scudiere in Benevento tu t’involga nel concistoro delle streghe, sempre spontaneo, sempre spiritoso, sempre giocondo, tu semini la gioia, tu ecciti gli applausi, tu desti l’ammirazione. O quanti attori che calzan coturno e veston manto, debbono umiliarsi dinanzi alla tua modesta livrea ! O quanti Edipi, quanti Eteocli, quanti Filippi, quanti Agamennoni si terrebbero fortunati di essere Meneghini ! Nè fu colpa del destino, {p. 143}ma fu tua scelta, se tu ti aggiri nei trivii di Milano, anzi che aggirarti nella Reggia di Tebe, o sotto le mura di Troia. Tu potevi avere un trono e scegliesti un pagliaio. Fatevi innanzi, o filosofia, ed ammirate ! Ma se la tua parte non è quella d’un eroe, consolati, o Moncalvo, pensando al fato degli Eroi. Eteocle fu ucciso dal fratello, Agamennone fu ucciso dalla consorte, Edipo ha ucciso il padre, Filippo ha ucciso il figlio, e Meneghino non ebbe mai altro nemico che la mestizia de'suoi uditori. Ah ! tu eri il mio Eroe : tu sei la gemma degli Eroi.

Prosegui animosamente nella lieta palestra. Ti sorrida costante la fortuna, come fai costantemente sorridere la platea ; e se avverrà (ah ! mai non avvenga !) che l’oro ti dichiari la guerra, tu allora, novello stoico, appagati degli applausi…. ma tu sogghigni, e mi dici che gli applausi sono una moneta in commercio non ricevuta…. ebbene recita allora le trentatrè disgrasie di Meneghino…. e non sia il mio articolo la trentesima quarta.

E mi par dovrebbero bastare queste parole a dar l’idea esatta dell’arte del Moncalvo e del fascino ch' egli esercitava sul pubblico. Quanto al Meneghino, egli s’adontava ogni qualvolta gli si desse il nome di maschera…. e lo si mettesse in mazzo con Arlecchino, Brighella e Pantalone. « Meneghino – egli diceva – è carattere e non maschera, » e Ambrogio Curti, da cui tolgo le presenti parole, aggiunge : « ed io credo fosse proprio nel vero, perocchè egli fosse la sintesi fedele del carattere milanese o piuttosto ambrosiano, che, per il confluire nella mia città di tanti diversi elementi d’ogni popolazione d’Italia, si va ogni dì più perdendo. »

Alcuni fecer derivare il nome di Meneghino da Domenico, altri da omeneghino, piccolo uomo : altri ancora da Menechino, come s’usò per erronea lettura chiamare I Menechini, facendo risalire il nostro tipo, non so con quali argomenti, alla Commedia plautina.

{p. 144}Nel Mattino di Napoli dell’ 11 agosto '97 un abbonato milanese dice che

Meneghino trae la sua origine da Domenica, essendochè era uso in Milano, nei secoli passati, di chiamare in servizio, per tutta la giornata di Domenica, un uomo del popolo, il quale si prestava al disimpegno di molteplici faccende, acconciandosi anche a fungere da servo straordinario. E poichè quell’ uomo del popolo era di solito sollazzevole e burlone, ed era al fatto di tutti gl’intrighi e degli avvenimenti del quartiere, intorno ai quali emetteva giudizî pieni di acume e di sale ; così si affibbiò il nomignolo di Meneghino alla maschera del popolo milanese, nella stessa guisa che si battezzò col nome di Pulcinella, la maschera del popolo napoletano.

Comunque sia, il Meneghino personaggio comico, ed esclusivamente milanese, apparve la prima volta su le scene in compagnia di Donna Quinzia, Beltramina e Taresca, per opera di Carlo Maria Maggi, al cader del secolo xviii.

Giuseppe Moncalvo ebbe due mogli : Maria Bonetti, la prima, figlia di Francesco e di Teresa Proverbio, nata a Milano nel 1785, e quivi morta nel 1843, con cui condusse vita tormentosa ; e Giovanna Roveda di Carlo e Maddalena Rossetti, nata a Torino nel 1805, con cui visse amorosamente, e che a lui sopravvisse.

Troppo ci vorrebbe a metter qui le testimonianze della grandezza e bontà del Moncalvo. Scrisser di lui distesamente il Ghislanzoni, il Regli, il Brofferio….. abbiam lettere di Adelaide Ristori, di Ernesto Rossi, di Alamanno Morelli….. e poesie di ogni specie, fra di cui una Cantata di addio del '33 a Torino, dalla quale apprendiamo com’egli recitasse in italiano il D. Ippolito nel Filosofo celibe del Nota, riscuotendovi gli universali applausi. Ma, pur troppo, l’oro, come accennava il Brofferio, gli mosse la guerra. Aveva preso in affitto il Teatro della Commenda, e restauratolo ed abbellitolo, lo andava cedendo alle varie compagnie, mettendo per condizione di contratto una recita a suo beneficio, alla quale egli avesse preso parte. Per tal modo egli vide la luce della ribalta a poco men che ottant’anni ; e, se non miseramente per merito della seconda moglie che mise un freno alle inconsulte dissipazioni, non certo quale avrebbe potuto, morì in Milano il 29 di agosto 1859.

{p. 145}Di lui si hanno alcune notiziole biografiche, pubblicate nel '58, delle quali principalmente si servì il Bertolotti nel distender la vita dell’ artista (Milano, Ricordi).

Monti Giuseppe. Bolognese. Era il secondo vecchio, cioè Dottore, della Compagnia di Giuseppe Imer, che poi abbandonò per recarsi a Napoli col figlio Tommaso ; e di lui scrisse Carlo Goldoni nel volume XIII dell’ ediz. Pasquali :

Sosteneva egli mirabilmente un tal personaggio, ma riusciva ancor meglio nel carattere di Petronio. San Petronio è il santo protettore de' Bolognesi, e moltissimi di loro si chiamano con tal nome ; onde il celebre Alessandro Tassoni nella Secchia Rapita volendo parlare de' Bolognesi, li chiama i Petronj. Questo personaggio rappresenta ordinariamente un buon bottegajo, e per lo più un maestro lavoratore di canapa, di che abbonda, più che d’altro, quel Territorio. Figurasi un Uomo di buona fede, facile a lasciarsi ingannare, ed è quasi sempre nelle Commedie dell’ arte lo scopo delle furberie del Brighella, delle impertinenze dell’ Arlecchino, e della derisione degli amorosi.

Monti Tommaso. Bolognese, figlio del precedente. Lo vediam terzo amoroso nella Compagnia di Giuseppe Imer ; e dice il Goldoni ch' egli fu cattivo comico finchè fece la parte dell’amoroso, e che poi divenne eccellente, quando dopo la morte di suo padre prese la maschera del Dottore, nel qual Personaggio la sua grassa e goffa figura non disdiceva, anzi lo rendeva di piacevole caricatura. Anche il Bartoli dice che travagliò con molto spirito nella maschera del Dottore e fu conosciuto per un ottimo commediante. Sposò la figliuola Angela all’arlecchino Gabriele Costantini (V.), col quale, uscito dall’ Imer, fu a Napoli al servizio di Don Carlo. Passò poi a Venezia nella Compagnia di Girolamo Medebach, e in essa, passando a Milano, morì la primavera del 1757.

Monti Carlo. Bolognese, figliuolo del precedente, recitava le parti d’innamorato, alternando l’arte del comico con quella della pittura, nella quale riuscì ritrattista mediocre. Fu con la Compagnia di Gaetano Romagnoli, al posto di Nicola Petrioli che n’ era fuggito, poi con quella di Domenico Bassi. Mortagli la prima moglie, s’abbattè il 1765 in una fanciulla di Cremona, {p. 146}per nome Teresa (V. Avelloni-Monti Teresa), la quale, sposatala, educò alla scena con molto profitto. Ma la sciagurata compensò l’appassionato marito coll’abbandonarlo ; sì che, non potendo egli farsi una ragione del perduto amore, si uccise a Sarzana l’anno 1778, gettandosi in un pozzo. Nè men celebre divenne la moglie per essersi gettata in mare a Livorno, come racconta il Piazza nel suo Teatro :

Eravi un’altra donna in quella Compagnia, che si rese poi celebre nella Comica Storia, per un salto da grottesca che fece dal molo di Livorno, con intenzione di non farne altri mai più. La serbò in vita un marinaio, che trovavasi in uno schifo, vicino al sito dove gettossi, afferrandola alla gonuella. Chi dice che fu Amore cagione di quello sproposito ; chi una disperazione per mancanza di soldi ; e chi per essersi offesa di una imputazione non meritata. Ella è una comica da poter farsi onore, e se nelle Tragedie imparasse meglio a gestire, assai più sarebbe stimabile.

Monti Pietro. Fratello di Carlo, artista di qualche pregio per le parti d’innamorato, recitò in varie compagnie vaganti, e fu diversi anni con Giuseppe Lapy al Sant’ Angelo di Venezia, che poi lasciò, per andare a recitare in compagnie di minor conto. Viveva ancora fuor dell’arte a Venezia nel 1781.

Monti Pietro. Nato a Roma il 1799, vi perdè, bambino, la madre, e dovè, giovinetto appena, seguire il padre in Sicilia, che era maestro di casa di una famiglia d’inglesi. Nei moti popolari di Palermo, gli fu assassinato il padre, e la famiglia inglese prese la fuga su di una nave mercantile. Solo, caduto nella più squallida miseria, il giovinetto Pietro si offerì ai trionfatori in qualità di tamburino, per fuggir poi anch'egli alla prima occasione su di una nave che lo portò a Civitavecchia, d’onde recossi pedestre a Roma. Si conta, che privo di mezzi per pagarsi il più misero alloggio, dormisse il più delle volte accovacciato in qualche nicchia di chiesa, mancante della statua. Venuta in Torino la Real Compagnia Sarda, il giovinetto, che alla mancanza assoluta dell’istruzione sopperiva colla svegliatezza della mente e colla fierezza dei propositi, si presentò al primo attore, Camillo Ferri, offrendosegli come servitore. Fu accettato ; e {p. 147}tanta misericordia destò in lui coi racconti delle sue avventure, e tanta stima si procacciò coll’obbedienza e col lavoro, che il Ferri lo condusse nell’ altre città, avendoselo più amico, che servo. L'amore pe'l teatro gli si andò sviluppando a grado a grado, e, quando il suo ufficio gliel comportava, stava inchiodato alle quinte, pendendo dalle labbra degli artisti, e specialmente del suo padrone. Ora accadde che una sera il Ferri, a ora tarda, scrisse non potere in alcun modo recitare per sopravvenuta indisposizione : la qual cosa mise in impiccio non lieve il capocomico Bazzi che non avrebbe voluto mutar lo spettacolo, nè sapeva a quell’ora in qual modo rimediare. S'offrì il Monti di sostituire il Ferri : e alle meraviglie e obbiezioni degli artisti rispose con tal sicurezza, che ne fu fatto l’ardimentoso esperimento, con riuscita abbastanza buona. La commedia recitata fu Paolo e Virginia, e dice la cronaca che il servo si mostrasse assai più in carattere del suo padrone. Da quella sera cominciò la vita artistica di Pietro Monti. Gli si affidaron parti di generico e di secondo amoroso ; e si notaron subito le sue attitudini spiccate alla scena. Da'secondi amorosi passò ai primi, finchè, nel 1835, sposata Giulietta Alberti, sorella del brillante Adamo (V.), entrò con lei e col cognato nella Compagnia dei Fiorentini, per sostituirvi l’egregio amoroso Giovan Battista Gottardi (V.), di cui non potè sì facilmente cancellar la memoria, a cagione, in ispecie, della voce aspra e nasale. E si narra che una sera, non dandogli più l’animo di sopportare la manifesta avversione del {p. 148}pubblico, fattosi alla ribalta, invocò pietà e misericordia ; e lo fece con tal garbo e con tal commozione, che l’avversione si mutò di subito in indulgenza, e d’allora Pietro Monti diventò il beniamino del pubblico. Toltosi dalla società il Tessari, colpito d’apoplessia il Visetti, l’impresa venne assunta da Prepiani, Monti e Alberti, assumendo il nostro artista per la prima volta il ruolo di primo attore assoluto, che sostenne con clamorosi successi fino al '49, nel quale anno fu colto da alienazione mentale, che lo condusse in breve tempo a morte. Di lui scrisse Michele Cuciniello, uno de'fortunati autori che l’ebber felice interprete delle loro opere.

Pietro Monti, completamente illetterato, chè l’avventurosa sua adolescenza gli aveva chiusa ogni via da istruirsi, fu nondimeno un artista drammatico più ancora prodigioso che egregio. Egli non era stato fatto artista dallo studio, ma creato tale da Dio ; e però di quanto il genio soprasta gl’insegnamenti delle scuole, di tanto il Monti, nel signoreggiar gli animi dei suoi spettatori, superò gli altri artisti. Regolari ed espressivi furono i lineamenti del suo volto, vivi gli occhi e nerissimi, proporzionate ed armoniche le forme della persona, e la sua voce, la quale nella conversazione comune era d’un metallo piuttosto spiacevole, nei momenti poi di passione e di concitamento di affetti acquistava tanta drammatica energia, metteva tali suoni, da scuotere prepotentemente le fibre dei suoi uditori. – Quando un carattere, un personaggio, lo avevano commosso ed interessato, Monti non temeva rivali nell’ immaginarselo col pensiero e nel dargli una forma sulla scena. Egli allora non fingeva più ; ma per uno sforzo di fantasia, di cui solo conosceva il segreto, s’immedesimava, si trasfigurava nel personaggio, che aveva preso a ritrarre, illudeva in somma sè stesso prima d’illudere gli altri ; e quindi, piangendo, tremando, rallegrandosi davvero, senza obliar mai quel bello ideale, che la mano stessa del Bello eterno gli aveva stampato nell’anima, costringeva gli spettatori a piangere, a tremare, ad allegrarsi con lui. – Era tanta la potenza del Monti nel trasfondere, dirò così, in sè stesso il soggetto da lui rappresentato, che spessissime volte, calato il sipario, egli rimaneva come stupito e fuori di sè, e visibile era il suo sforzo per passar da quella esistenza creatasi con la fantasia, nell’esistenza sua propria.

A queste parole vanno unite alcune sestine pur del Cuciniello, di cui riferisco le due ultime :

Addio, bell’alma, addio, prodigio, a cui
Volle il ciel rivelare e donar tutto
Quell’ incanto e quell’ arte, che in altrui
Sol di vigilie e di sudor son frutto ;
Dono fatal però, che consumava
Come fiamma quel petto, che animava :
{p. 149}La farfalla così, l’ala agitando,
Spezza l’invoglio, in cui prigion giacea ;
Così affilato adamantino brando
Logora la guaina, che il chiudea ;
E la perla, che al genio s’assomiglia,
Rode così la povera conchiglia.

E nell’ Omnibus di Napoli del 14 gennaio 1841 a proposito dell’ interpretazione dello Chatterton di M. Cuciniello, P. Vaccaro Matonti scriveva :

……all’ effetto ed al successo gran parte vi ha tenuta Monti, del quale artista sarebbe ingiustizia non promulgare soprattutto il suo ardente zelo nelle parti che esprimono affetti e sentimenti di forte esaltamento ; egli non simula per arte il carattere che sostiene, ma se ne infiamma tanto che va a discapito della propria salute : bel sacrifizio in vero che egli tributa all’ arte sua, e per la quale si fa tanto pregiare ed amare da tutti.

Un degli ultimi tratti di follia che determinaron la sua entrata nell’ ospedale de' pazzi de' Ponti Rossi, ci è raccontato dall’artista Luigi Aliprandi che del Monti fu lungo tempo collega :

…… Cominciò a dire e sostenere che il Re Ferdinando II lo aveva nominato Direttore dei due R. Teatri, San Carlo e Fondo ; e che nessun Cantante, Ballerino o Suonatore vi sarebbe scritturato senza il di lui consenso. In tale illusione si presentò una mattina al Palazzo Reale per voler parlare a Sua Maestà. Il portinajo ignorava lo stato della sua mente, e gli disse che il Re era in colloquio col ministro. Egli rispose : ebbene, lo aspetterò. Accostatosi al letto del portinajo, si tolse in un lampo le scarpe ed il vestito e si cacciò fra le lenzuola. Di tal fatto si mandò avviso al cognato Alberti, il quale si recò colà in compagnia di un medico amico, e lo fece subito rivestire dicendogli che il Re lo attendeva al R. Palazzo di Capodimonte. Lo posero in una carrozza, avviandosi per quella via, ma poi lo condussero all’ospedale dei pazzi, detto de' Ponti Rossi, mentre lo sciagurato andava ognor ripetendo di voler discorrere al Re.

Monti Luigi. Figlio del precedente e di Giulia Alberti, nacque a Napoli del 1836. Esordì generico giovine in Compagnia di Alberti e Colomberti a' Fiorentini, e fu sì rapido il suo progredir nell’arte, mercè una naturale attitudine, ma più ancora lo studio indefesso, che nel '61 si recò a Brescia a raggiungervi la Compagnia Morelli, della quale era il nuovo primo attor giovine assoluto. Non andò lungo tempo ch' egli al fianco di Pia Marchi, fu proclamato il più grande de'nostri amorosi : chè se, forse, a lui mancarono gli slanci potenti della passione, {p. 150}di cui tanto ricco era il Lavaggi, nessuno mai potè agguagliarlo nè accostarglisi per la delicatezza del sentimento, la soavità della dizione, l’aristocrazia de'modi. La Fragilità e la Verità del Torelli, il Romanzo di un giovane povero del Feuillet, il Giovanni Baudry del Vacquerie, i Sogni d’amore dello Scribe, il Figlio di Giboyer di Augier, il Figlio naturale, il Demimonde e l’Amico delle donne di Dumas figlio, e altri molti lavori d’indole più disparata, uscivan dall’arte di Luigi Monti, di Pia Marchi, di Alamanno Morelli, trasfigurati. Stette Luigi Monti nove anni in quella compagnia, per assumere il ruolo di primo attore assoluto nella nuova società Pezzana, Romagnoli e Privato…. e, dopo un triennio, di primo attore e direttore nella Compagnia n. 2 di Fanny Sadowski. Fu a codest’epoca che Luigi Monti mise in iscena l’Amleto, nel quale si rivelò il più intelligente de'nostri artisti. Nell’interpretazione del Nerone di Pietro Cossa toccò le più alte cime, non ostante la esiguità della figura e della voce. Io, allora in sua compagnia, ricordo le magistrali interpretazioni de' Vassalli di Castelvecchio, del Duello di Muratori, dello Chatterton di De Vigny, allor vivi nel repertorio italiano per opera sua soltanto, e la Satira e Parini di L. Ferrari, in cui si mostrò fino agli ultimi anni protagonista insuperato. I nuovi lavori che accrebber nuove fronde alla sua ghirlanda, furono i Fourchambault di Augier, il Povero Piero di Cavallotti, e il Lantenac d’Interdonato. Fu poi capocomico con varia fortuna ; e, or è qualche anno, fu nominato direttore dell’ Accademia de' filodrammatici di Milano, non lasciando ogni tanto, di mostrarsi al pubblico sotto le spoglie di quei personaggi che più gli acquistaron fama di eletto artista.

{p. 151}Monti Alessandro. Figlio di comici, cominciò a farsi notare in Compagnia Alberti a Napoli l’anno 1848. Fu il '49 colla società Colomberti-Internari, nella quale si unì in matrimonio colla prima amorosa Cesira Longhi. Scioltasi la compagnia in Livorno per ragione di guerra nella primavera di quell’anno, il Monti si scritturò assieme alla moglie con Luigi Pezzana, recandosi in Grecia. Si unì poi in società col Meneghino Preda ; poi, abbandonato questi le scene, si fece capocomico solo, conducendo una compagnia, non primaria, ma che salì in grande rinomanza, per l’armonia artistica, l’allestimento scenico, la cura minuziosa con cui eran presentati certi drammi popolari, fra i quali Il gobbo misterioso, che procacciò al Monti guadagni non isperati. Non vecchio, si ritirò in Bologna godendosi tranquillamente il frutto del suo lavoro, insieme al figliuolo, divenuto medico de' più stimati. Quivi morì, assistito da'suoi, dopo lunga e penosa malattia di cuore, il 29 maggio del '94.

Monti-Longhi Cesira. Moglie del precedente, nacque a Bologna il 1829 da un medico reputatissimo. Perduta questi la vista, tentò la Cesira la via dell’ arte, scritturandosi amorosa in una compagnia di poco conto, e tanto vi riuscì, che il 1847 entrò prima attrice giovane in quella di Colomberti, Internari e Fumagalli. Fu l’anno seguente con Romualdo Mascherpa, poi di nuovo colla società Colomberti, nella quale, come abbiam detto, sposò Alessandro Monti. Compagna esemplare non abbandonò mai il marito, sostenendo con decoro il ruolo di prima attrice nella propria compagnia, e passando poi a quello di madre e seconda donna.

{p. 152}Montini Ippolito. « Comico mirandolese, detto Cortellaccio. Diede egli alla luce un libretto di due fogli e mezzo in forma di quarto che porta per titolo : Contesa di precedenza. È questo un Prologo fatto da lui in occasione d’incominciare le sue recite in Bologna l’estate dell’anno 1624. Introduce in questa Contesa la Pastorale, la Commedia, la Tragicommedia, e la Tragedia. A sciogliere la lite di precedenza fra esse, appariscono Apollo nel suo Parnasso coi Poeti ed Aristotele, il quale le affida a Felsina sovraggiunta sopra un carro trionfale, acciocchè essa decida del merito di ciascuna ; la quale dando termine a questa introduzione, così favella :

Pregiate Donne, se alla vostra lite
Sorta sol per aver la precedenza
Delle vostre virtù rare, infinite,
Bramate fine impor con gran prudenza :
Meco omai, che son Felsina, venite
Che m’offero condurvi alla presenza
De'saggi figli miei, da'quali avrete
Giudizio, onde contente alfin sarete.

Il libretto è stampato in quella città presso Teodoro Mascheroni e Clemente Ferroni, ed è dall’autore dedicato agl’ Illustrissimi Signori Gonfaloniere ed Anziani. Oltre la lettera dedicatoria, il Montini diresse ad essi il seguente

SONETTO

Del Felsineo Leon regger il freno,
Librar con giusta lance e premj e pene,
Donar a' Patrj Figli ore serene,
Renderli in pace fortunati appieno :
Nudrir quasi in bel Ciel sul picciol Reno
Lucide stelle di saver ripiene,
Fra' magnanimi Eroi fruir quel bene,
Premio della virtù, che non vien meno :
Poggiar di gloria all’ultimo confine,
Opre son vostre, il cui alato suono,
Vola alle regïoni alte, e divine.

{p. 153}[PAGE 153 MANQUANTE]

{p. 154}l’importanza di una dizione drammatica, accentuata e vibrata nel canto, e rivelandole poi i misteri della Commedia improvvisa, nella quale essa fece in breve sorprendenti progressi. Il Kurz rimasto vedovo, ella ne diventò la seconda moglie, e dopo tre anni di studio indefesso, il 15 aprile del 1758, esordì all’I. R. Teatro della Città nella nuova commedia a trasformazioni di suo marito, intitolata : La felice unione di Bernardone, in cui fu accolta dall’applauso universale sì per la grazia del canto, sì per la eloquenza dell’azione, e ancora per la sicurezza della lingua tedesca. Così il Kurz nel preavviso di tal commedia raccomandò la moglie all’ indulgenza del pubblico : « La signora Teresa Kurzin si mostrerà maestrevolmente in tutti quei caratteri che una perfetta attrice è capace di rendere. Ed essendo essa italiana, e però non padrona della lingua tedesca, tanto più ne sarà maravigliosa l’azione. Mi hanno gli Dei concessa tanta grazia ; e spero che anche il pubblico che diè continue prove di benevolenza verso di me, vorrà oggi partecipare alla mia gioja. » (V. il lavoro sul Kurz di Ferdinando Raab, pubblicato a Francoforte da Rütten e Loening il 1899). Anche il Veilen nella sua Storia dei Teatri di Vienna (Cap. III, pag. 144), accenna a Teresina Morelli, che chiama bella e fiorente ; e dice che il Kurz diede una splendida prova del suo magistero, trasformando in soli tre anni una inesperta ballerina in una delle più grandi Colombine tedesche. Il Kurz rimasto vedovo il 15 giugno del 1755, sposò la Morelli nel 1758, poco avanti all’esordire di lei.

Morelli Antonio. Nacque da onesti parenti in Venezia. Giovinetto, entrò in una filodrammatica della città, e vi si fece notare pe' l modo garbato e spontaneo con cui recitava talvolta parti di ingenua e di prima donna. Entrò poi in arte ; e non tardò ad acquistarsi le lodi di tutti i pubblici nel ruolo di amoroso e nelle Compagnie di Goldoni, Perotti e Dorati. Sposò Adelaide Salsilli, giovine artista, figlia di artisti, che bene prometteva di sè ; e venuto egli poi al grado di primo attore, e non degli ultimi, {p. 155}formò compagnia con la moglie, ch'era salita e con molto onore a quello di prima donna, resuscitando le commedie di Goldoni, e facendone base del lor repertorio. Il 1822 li troviamo applauditissimi a Tolentino con Benvenuti e il Giandolini. Antonio Morelli morì a Venezia del '27, non ancor giunto a vecchiezza ; e Adelaide sposò in seconde nozze l’artista Majeroni che continuò a condur compagnia.

Morelli Alamanno. Figlio del precedente, uno dei più forti e gloriosi artisti del nostro tempo, che regnò sessant’anni sulla scena italiana fra gli astri di maggiore grandezza, nacque a Brescia il 12 giugno 1812. Fece per volontà del padre i primi studj classici, e si dedicò alcun tempo al violino, pel quale mostrava singolari attitudini ; ma poi, chiamato alla scena, abbandonò tutto, dopo la morte del padre, per entrare in una di quelle meschine compagnie che andavan guitteggiando di borgata in borgata. Dopo una non breve stagione in Arzignano nel Vicentino, la compagnia, impegnata la misera condotta, si sciolse ; e Morelli, che non avea da pagar l’oste che gli avea dato il vitto e l’alloggio a credito, se gli offerse, e fu accettato in qualità di cameriere, pagando così coll’ opera sua di uomo onesto, il debito del primo attor giovine. Entrò a diciotto anni in Compagnia di Giacomo Modena, di cui faceva parte anche il figliuolo Gustavo, facendosi notar subito per la recitazione spontanea di alcune particine in commedie di Goldoni, Zelinda e Lindoro, Il Medico olandese, I quattro Rusteghi, della quale specialmente il personaggio di Sior Filipetto s’ebbe in lui uno de' più ingegnosi e brillanti interpreti, e per la quale la prima attrice Carlotta Polvaro gli preconizzò splendido avvenire. Fu scritturato il '40 in Compagnia Florio, come brillante e tiranno : recitava maravigliosamente nella stessa sera il tiranno Filippo in Bianca e Fernando e il brillante nel Cuoco e il Segretario ; sì che Maria Luisa, la Duchessa di Parma, ebbe per lui speciale ammirazione, e, nelle sere di suo beneficio, speciali elargizioni.

{p. 156}Entrò il '42 amoroso nella Compagnia Favre, passando l’anno dopo primo attore in quella Bergamaschi e Cappelli, nella quale restò sino al '45 e recitò per la prima volta, primo in Italia, il Kean, la Signora di S. Tropez, La Catena e il Giovan Maria Visconti di Porta e Grossi. Fu il primo attore della Compagnia di Giacinto Battaglia, che andò in iscena il 7 marzo '46 a Padova, e in cui egli dovette lottare coi successi della Sadowski e di Bellotti-Bon ; ma dopo la Clotilde Valery e il Chatterton, il trionfatore fu lui. Ritiratosi Battaglia, Morelli continuò la compagnia sino al '53, recitando nel '50, primo de'viventi attori italiani, l’Amleto, ch'egli stesso adattò alle scene sulla traduzione del Rusconi. Chiamato il '54 a diriger l’Accademia de'filodrammatici di Milano, vi recitò fino al '58, tornando in arte il '59, direttore della Compagnia Cazzola-Dominici, e rifondando il '60 la Lombarda che visse quindici anni di vita gloriosa, e in cui militaron gli artisti di maggior fama, quali Pia Marchi, Luigi Monti, Guglielmo Privato, Virginia Marini, Francesco Ciotti, Giulio Rasi, Sante Pietrotti, Anna Job. Il '76 formò società con Adelaide Tessero che sciolse l’ '81, al suo ritorno dall’America, per farsi di bel nuovo capocomico solo, scritturando l’ '82 la coppia Lavaggi, l’ '83 Cesarina Ruta, l’ '84 Emilia Aliprandi-Pieri. Poi divenuto capocomico il Pieri nell’ '85, Morelli ne divenne lo scritturato. Stette un anno in riposo a Scandicci, e tornò l’ '88-'89 alle scene, direttore della Compagnia Marazzi-Diligenti e Zerri.

Fu poi con altre compagnie di minor conto, e terminò la sua lunga e gloriosa carriera del '91 con Calamai. Dopo lo accolse il paesello di Scandicci, ove s’era fatto dono in tanti anni di lavoro, di una romita e modesta casetta, e quivi morì fra le braccia della moglie e dei figli il 10 gennaio 1893.

Fu banditore il '74 del primo congresso drammatico in Firenze, e pubblicò nel '77 un Manuale dell’artista drammatico in cinque dialoghi, col Prontuario delle pose sceniche, già edito nel '54, che si può dire, senza offendere la memoria del grande attore, l’antitesi dell’arte sua, fatta tutta di verità e di {p. 157}spontaneità. Nè gli anni valsero a piegare o infiacchire la sua tempra gagliarda : a poco men che ottant’ anni rappresentava ancora con efficacia incredibile la Riabilitazione del Montecorboli e la Signora di San Tropez. Noverar qui l’opere drammatiche che gli furon argomento di trionfo, troppo sarebbe ; citiamone le principali : Il Duello, Il Figlio di Giboyer, La Straniera, L'Importuno e il Distratto, Amleto, Fausto, Guglielmo Tell, Il Giuocatore, Fieschi, Giovanni Baudry, La Signora Caverlet, La calunnia, Il Vetturale del Moncenisio, Macbeth, La Riabilitazione, Kean, La Signora di San Tropez, Chatterton, Stifellius. Dalle quali si può capire a che grado di pieghevolezza egli era {p. 158}pervenuto collo studio, colla riflessione, coll’ arte, nonostante l’aspetto non bello, e la voce asprissima.

Di lui scrissero il Piazza, il Bonazzi, il Regli, il Piccini, il Polese, il Pavan ; di lui parlaron sul feretro Tommaso Salvini e Gattesco Gatteschi.

Moretti Pietro. Fu tra' comici della Compagnia italiana a Dresda (1749….), e recitava le parti di Brighella (V. Arbes (D') Cesare e Bastona Marta).

Secondo il giudizio del tempo, egli era

……un cattivo attore, dalla voce insopportabile. Gridava e s’affannava. La sua azione consisteva in un esagerato agitar delle mani, con assoluta mancanza di spontaneità. In breve : non piaceva.

Moretti Anna, veneziana. Ebbe a maestro l’artista Pietro Ferrari (V.), e riuscì un’attrice di gran pregio. Dopo di aver fatto parte di molte Compagnie di giro, si fermò il 1774 con quella di Lapy al Sant’Angelo di Venezia, ove recitò La pazza per amore, sua particolar fatica, in cui oltre al rappresentar vari personaggi, cantava ariette musicali non senza grazia. Pare, a detta del Bartoli, ch'ella non fosse artisticamente grande ; ma un cotal grado di altezza raggiungesse con sufficiente valore, a cui s’univano tal prestanza della persona e leggiadria del volto, e tal gaiezza e vivacità di espressione e saettar d’occhi neri, che la reser, se non attrice perfetta, attrice, per fermo, ammiratissima ; aggiunge il Bartoli che vestita da uomo mostravasi di membra tondeggianti e formose. Fu un anno solo col Lapy ; dal quale tornò in Compagnie vaganti, trovandosi il 1781 in quella di Antonio Camerani.

Fra i tanti versi ch'ella ispirò, metto qui il seguente

SONETTO

Sì, che maggior d’ogni Apollineo canto
Sono, egregia Moretti, i pregi tuoi ;
Per te non arte, ma natura i suoi
Vivi affetti spiegar par ch'abbia vanto :
{p. 159}Ben sanno quale a i cor formasti incanto
Di Terme Il Conte, e i Veronesi Eroi ;
Corrado e Clarendon san quel che puoi
Se sciogli il freno a l’ira, a i vezzi, al pianto.
Nè cred’io già che d’altri sensi impresso
Sia il tuo bel cor ; essi (non l’abbi a sdegno)
Fan testimon di tua bell’alma espresso ;
Così quest’opra tua recando al segno,
Gli atti, gli accenti che t’è usar concesso
Fan testimon del tuo felice ingegno.

Moro-Lin Angelo. Veneziano, attore dialettale di moltissimo pregio fu, insieme alla moglie Marianna, uno de'più grandi se non il più grande illustratore del teatro di Giacinto Gallina. Iniziato agli studi ecclesiastici, buttò via un bel giorno l’abito talare per indossar la divisa di ufficiale della guardia nazionale, che dovè smettere al ritorno delle truppe austriache. Fu garzone d’un sensale di granaglie, fu impiegato doganale, poi filodrammatico, poi suggeritore con Copellotti e compagnia, poi attore, suggeritore, segretario, trovarobe, omnibus insomma della Compagnia Lombarda, poi amministratore di Aliprandi, poi segretario di Ernesto Rossi.

Sposatosi a Marianna Torta, attrice della Compagnia Aliprandi, fu con lei scritturato da Alessandro Salvini ; e, sciolta poi la Compagnia, egli risolse, mosso a pietà di tanti sciagurati, di rilevarla, correndo da una città all’altra, in lotta aperta con la fame. Abbandonato allora il capocomicato, diventò segretario {p. 160}del Toselli ; poi, tornato capocomico, tentò riduzioni di commedie piemontesi nel dialetto veneziano, quali Maridemo la putela, e La fia de Sior Piero all’asta ; e vistone il successo, formò una vera e propria compagnia dialettale, e andò a riaprire a Venezia quel Teatro Comploy, dove appunto la commedia veneziana era morta.

E da quel momento fu un trionfo, un vero e grande trionfo, nè solamente veneziano, ma italiano. Selvatico e Gallina. Questi due nomi apparver sui cartelloni inattesi, e non ne furon più banditi. Le commedie La bozzetta dell’ ogio, Le barufe in famegia, El moroso della nona, I recini da festa, La famegia in rovina, Mia fia, I oci del cuor furon la fortuna di Moro-Lin ; ma quest’ ultima segnò anche la sua nuova e non più mutabile sciagura. Dopo dieci giorni dalla rappresentazione del capolavoro galliniano, la povera Marianna, che vi aveva profuso tanta arte, tanta grandezza, gli venne a morire, e, lei dileguata, dileguò anche il bene che con la sua attività, con la sua onestà, con la sua mente egli s’era procacciato. Senza più attori di grido, senza repertorio, egli dovè piegare fatalmente, privo del più tenue fil di speranza per una prossima o lontana resurrezione, e dalle gloriose battaglie del capocomicato passò alla snervante monotonia dell’impiego per dar pane a' figliuoli…. Tornò dopo dieci anni alla scena, prima con Micheluzzi, poi con Corazza ; ma il suo ritorno fu una delusione di più. Ricoveratosi a Venezia, si fece maestro di recitazione, finchè, vinto dagli anni e dai fastidi, abbandonò il mondo la mattina del 9 febbraio 1898.

A dare un’ idea di quel che fosse l’attore, basti dire che l’attore Colomberti, dopo la recitazione del Prima el Sindaco e po el Pievan, lasciò scritto che rivedeva nel Moro-Lin il bravissimo Augusto Bon, di cui ricordava la stessa prontezza e naturalezza, la stessa grazia e spontaneità.

Moro-Lin Marianna. Moglie del precedente, nata in Alba il 30 giugno 1840, mosse i primi passi nell’arte in Compagnia Robotti-Vestri nel '54 come amorosa. Esordì nel Sior Todero {p. 161}brontolon. Fu poi prima attrice col famoso Toselli col quale era a Venezia il '67, dov'ebbe un successo di lagrime nel Ciochì del vilage, quando con affetto profondo esprimeva il dolore della povera derelitta nella festa di tutto il villaggio.

Maritatasi al Moro-Lin, con tanta facilità si diede a recitare in veneziano, e con tal nitidezza di pronunzia, che tutti la credean figlia della Laguna. Nei Ciasscti e spasseti, nel Moroso de la nona, ecc., ecc., e più ancora nei Oci del cuor, la sua ultima creazione, fu artista unica. Il Covi, che le fu compagno e consigliero al suo esordire, assistè anche all’ultima sua recita.

Il 23 dicembre del 1880 fu inaugurata al Goldoni di Venezia una lapide in ricordo di lei colla seguente iscrizione :

a

marianna moro-lin

che del veneto dialetto
quantunque non suo
sentì le grazie
e sulle scene col cuore e coll’arte
inimitabilmente lo espresse
la società filodrammatica carlo goldoni
in segno di affettuoso ricordo
pose

Ella morì a Verona la notte del 19 giugno '79, quasi improvvisamente.

A. Gentile, che della Moro-Lin è illustratore amoroso, osserva che essa fu in certo modo la protagonista di una commedia del Gallina, anche dopo morta. Nella commedia La mama non mor mai, rappresentata la prima volta a Trieste il {p. 162}12 febbraio 1880, la vera protagonista, come lo dice il titolo stesso, è la madre morta ; e questa ci vien descritta simile alle altre donne che il Gallina creò per la Moro-Lin : 1875, Rosa — El moroso de la nona ; 1877, Marina — Telèri vechi ; 1878, Marianzola — Mia fia ; 1879, Teresa — I oci del cor.

Morrocchesi Antonio. Nato a San Casciano in Val di Pesa il 15 maggio del 1768 da agiati parenti, Francesco Morrocchesi e Marianna Zaccagnini, fu condotto dal natìo paesello a Firenze, e raccomandato per l’educazione ai Padri Scolopi. Di mente svegliatissima, egli fece ottime prove non solamente nella lettura di classici greci e latini, ma anche nell’arte del disegno. Nullameno l’amore della drammatica prevalse in lui ; e i primi applausi tributatigli nelle sale dell’aristocrazia e dalle platee di teatrini privati, gli fecer prendere la risoluzione di darsi tutto alla scena, ove in breve conseguì, collo studio in ispecie delle tragedie di Alfieri, fama di attore insuperato e insuperabile.

Lasciò scritto un enorme volume di ricordi, dei quali Jarro pubblicò in appendici della gazzetta fiorentina La Nazione, poi in volume (Firenze, Bemporad, 1896) i punti più salienti ; e di lui dettò una breve memoria il noto scrittore Melchior Missirini.

Il Morrocchesi cominciò col recitare al pubblico nel Teatro di Borgognissanti a Firenze, rappresentandovi, primo in Italia e sotto il nome di Alessio Zuccagnini, l’ Amleto di Shakspeare.

Fu in vario tempo nelle Compagnie di Luigi Del Buono(V.), di Luigi Rossi, di Vernier, Asprucci e Prepiani, ma il più sovente conduttor di compagnie egli stesso.

{p. 163}Da lui le grandi protagoniste venivano oscurate : nella Semiramide, a Milano, mandò in visibilio il pubblico, recitandovi l’Assur, e facendo fremer di gelosia la prima attrice Checcati, artista valentissima ; a Firenze, nell’ Ottavia, destava non minore entusiasmo recitandovi il Nerone, e facendo fremer di gelosia la prima attrice Perotti, artista famosissima. Fu, si può dire, il Morrocchesi che rivelò a'pubblici d’Italia le riposte bellezze delle tragedie alfieriane. I successi dell’ Oreste e della Virginia, ma più ancora del Saul, che tenner con altre pochissime opere per un intiero carnovale i cartelloni del teatro di {p. 164}Santa Maria a Firenze, furon tali ch'esso d’allora innanzi s’intitolò dal nome di Alfieri. Io mando lo studioso alla lettura di quel saporitissimo libretto di Jarro, ove della prima recita del Saul, e della quinta alla presenza dell’autore, è riferita la cronaca del Morrocchesi : qui basterà dire che il nostro attore dovè ripetere alcun brano subito la prima sera fra le acclamazioni del pubblico, e che la quinta, al cospetto di Alfieri, si abbandonò con tal violenza su la spada nel proferir l’ultimo verso

Me troverai, ma almen da re
[quì…. morto….

che, feritosi gravemente, cadde alienato di sensi, e quando rinvenne, si trovò nel suo letto, circondato dagli amici, tra i quali si potè contar da quel punto il grande astigiano.

Nè solamente a Firenze gli accadde di dover cedere alle insistenze del pubblico, e replicar sul momento or questo, ora quel brano, chè anche la narrazione di Pilade dovè replicare immediatamente « siccome un pezzo applauditissimo di scelta musica — com’egli ci {p. 166}avverte — nelle scene illustri di Ferrara, di Siena, di Pavia, di Torino, di Bologna. »

[n.p.]

Fu il 1811 nominato Professore di declamazione e d’arte teatrale nella Accademia di belle arti a Firenze, e vi stampò nel 1832 un corso di lezioni, corredando la duodecima, dei gesti, di quaranta tipi che rappresentano l’attore ne'momenti più importanti della sua arte, e di cui do qui dietro un piccol saggio. Tipi, che, siccome è accaduto e accade, non dànno, io son certo, che assai miserevolmente e, diciam pure, grottescamente, l’idea dell’autore. Scrisse anche non poche opere teatrali, che si veggono a stampa in quattro volumi in-8 (Firenze, Ciardetti, 1822).

Morì d’idrope pettorale a Firenze ; e sulla pietra che sigillava il suo sepolcro nel chiostro di Santa Croce, a destra e in prossimità della cappella Pazzi, toltane alcun tempo pei lavori di restauro, e ricollocata poi, ma sebben sempre a destra di chi entra, non più allo stesso luogo, fu incisa la seguente iscrizione che dettò Giovanni Battista Niccolini, il quale non l’ebbe in vita troppo nel suo libro :

qui riposa

antonio morrocchesi di san casciano

nell’i. e r. fiorentina accademia di belle arti
professore di declamazione
fra i tragici attori del suo tempo
per consentimento d’italia
a nessuno secondo
e luogo gli tenga di maggior elogio
l’essere nell’arte sua piaciuto
a vittorio alfieri
maddalena morrocchesi
al consorte desideratissimo
non senza lacrime
q. m. p.
nacque ai xv maggio mdcclxviii
mancò ai xxvi novembre mdcccxxxviii

Fu amico de'più ragguardevoli italiani del suo tempo, fra' quali, oltre all’Alfieri, i Pindemonte, i Perticari, Pellico, Albergati, Vannetti, Caluso.

Sfogliando le sue lezioni di declamazione, guardando a quelle odiose figurine che le illustrano, pensando a quelle {p. 167}repliche immediate di narrazioni, e il tutto comparando al giudizio che ne dà il Righetti nel secondo volume del suo Teatro Italiano, e che qui riferisco, c’ è da credere che il Morrocchesi fosse un grandissimo artista di maniera.

Fra tutti gli attori italiani da me veduti, e che meritarono una particolare considerazione, nessuno ha presentato alla mia mente un contrasto più bizzarro quanto il nostro Morrocchesi, celebre attore tragico. Ben fatto della persona, braccia, coscie, gambe corrispondenti ad un corpo nè magro nè pingue. Un occhio vivo, una fronte spaziosa, bellissimi denti, in somma un bell’ uomo. La sua voce era rauca, e mal atta a colorire tenere espressioni, imponente, terribile nell’espansione di violenti affetti ; il suo portamento, il suo gesto erano nobili, e dignitosi, nè perdevano della loro dignità, e della loro nobiltà, che quando voleva dipingere gli oggetti fisici con gesti di contraffazione. La sua dizione ora lenta, ora precipitata, non cra sempre quadrante colla qualità dei pensieri che doveva esprimere, quasi sempre sublime nella pittura di vive immagini, e nell’entusiasmo si trasportava talvolta al di là di quel confine stabilito fra la sublimità, e la stravaganza : infine nessun attore ha presentato all’occhio dell’intelligente osservatore maggior riunione di bellezze tragiche miste a difetti del tutto particolari. Quest’attore si applicò quasi esclusivamente alle tragedie del grande Alfieri, e fu dei primi che le fece assaporare sui pubblici teatri, ed in queste sviluppava tutte le sue qualità fisiche e morali. Nessuno potrà contrastare al nostro Morrocchesi esser egli stato il primo fra' comici a penetrare ben addentro ne' reconditi pensieri di quel gran tragico, a colpirne i caratteri, a regolare la declamazione de' suoi versi meno pomposi, che ricchi di pensieri, ed indigesti alla più gran parte de' comici d’allora. Fu acclamato nelle principali, e più colte città d’Italia, e stette gigante in mezzo a' suoi rivali che pur volevano atterrarlo, assalendolo da ogni lato. Questi è il solo valente artista con cui, nella mia carriera teatrale, mi sia trovato in contatto fino che non fui aggregato alla drammatica compagnia al servizio di S. S. R. M. il re di Sardegna, e non temo d’errare se dico, che questo tragico attore era l’attore di genio ; il suo difetto nell’analisi dei caratteri traspariva nelle particolarità, non nel tutto ; e se talvolta deviava dalla retta declamazione, e si abbandonava a conati troppo più violenti del bisognevole, era meno per mancanza d’intelligenza, e d’arte, che per la foga di strappare al pubblico que'clamorosi applausi, che lo inebriavano, e di che era quasi sempre padrone.

Non m’uscirà mai dalla memoria il modo straordinario con che rappresentava l’ultimo atto del Saulle d’ Alfieri. Eccellente in tutta la tragedia, tranne alcuni abbagli di situazione, e di minute particolarità, in quell’ atto era perfetto. Io lo presi a modello in tutta quella difficilissima scena perchè, per quanto studio avessi posto onde variare modi, ed atteggiamenti, m’ avvedeva che tutto sarebbe rimasto al disotto d’ una felice imitazione.

Chiudo il breve cenno col sonetto che è in fine alla memoria di Melchior Missirini :

SONETTO

Giacea il Coturno Ausonio, e bassi e inetti
Carmi rendeano suon sterile e vano,
e fu de' Roscj lo atteggiar sovrano
scena scurril di turpi Mimi abbietti.
{p. 168}Di fieri Agitator tragici affetti
e di franchi pensieri, alto, ed umano
Tu, l’ira del terribile Astigiano
Infondesti primier nei nostri petti.
Ei ti udi, e sen compiacque, e ai forti e nuovi
modi, Te scelse adatto all’ onorato
ufficio di rifar l’itale menti !
Ei gl’ingegni già adulti, e tu i nascenti
coltivi, in ciò di Lui più avventurato,
ch'egli un corrotto, e un vergin suol tu trovi !

Mozzana Francesco. Attore fiorito nella metà del secolo xvii. Recitava sotto la maschera di Truffaldino, e abbiamo di lui un Curioso capriccio di bellissimi giuochi non più veduti, edito dal Malatesta a Milano, senza data. È un libriccino di dieci pagine in 12°, compreso il frontespizio, e contiene ventitrè scipitaggini, di cui ecco un esempio :

A far parere molte persone senza testa

Piglia sale armoniaco, sale gemma, e sale di canfora tanto dell’uno, quanto dell’ altro, & acqua vita di sette cotte ; fa fondere tutto insieme, & ongi con quello la candela di sevo, o di cera ; col chiaro di detta candela pareranno senza testa.

Probabilmente in simili giuochi era celato il chiapperello, e apparivano senza testa chi facevan la prova.

Di questo Mozzana non abbiam notizie ; ma due lettere di Anton Maria Coccino da Venezia del 18 febbraio 1650 e del 4 marzo 1651 al Duca di Modena che lo richiedeva di alcuni artisti, accennano a un Truffaldino, che non s’è potuto identificare, ma che potrebb' essere il nostro attore.

Ecco i passi che lo riguardano :

Truffaldino m’ ha detto che quando parti da Mantova fu honorato da quella Altezza d’una medaglia d’oro, e lo impegnò per l’anno uenturo, et che desobbligato da questo ambise de seruir a V. A. pur che unita con lui habbia la moglie al recitare.

Auisai con altra mia humilissima lettera all’ A. V. Sere.ma come in ubidienza de suoi sourani commandi procurai d’obbligar li comici nominati nella lettera sua di 2 spirato, a seruir per questo prossimo carnevale V. A. ma che la bizzaria di questa gente non mi prometteua quella consolatione che tanto ambisco in pontoalmente seruire a suoi cenni, {p. 169}escusandosi chi con uno chi con altro pretesto ; dopo di che insistendo nel mio debito hò condotto da M.r Residente suo Fabritio e Trufaldino, pur sperando d’auttorizare gl’impulsi colla presenza di quel Ill.mo suo Ministro, ad ogni modo delle lettere di detto Sig.re l’ Altezza Vostra sentira la continuatione de loro iscuse, et insieme la premura de miei ufitij tributati all’adempimento de suoi commandi.

Mozzi Giustiniano. Attore e capocomico non ispregiato. Fu il primo amoroso, nel 1850, della Compagnia che Antonio Colomberti formò in società con Eugenia Baraccani, sposata la quale, si fece capocomico egli stesso, separandosi poi amichevolmente dalla moglie, e ritirandosi dopo alcun tempo dall’arte per andare a seguire il figliuolo, divenuto tenore de' più ammirati.

Musi Maria Maddalena. Di lei non abbiamo che la seguente lettera, comunicatami dall’egregio Davari dell’ Archivio di Mantova :

Ill.mo et Ecc.mo S.re Pad.ne col.mo

La venuta del S.r G. B. Celini a Bologna con ordine del S.r Padrone d’aquistarmi per la recita nel teatro di S. Lucca di Venezia nel venturo carnevale in precio di mille ducati effettivi e casa finita, ha fatto ch'io mi impegni a servirli mentre m’ hano in tutto sodisfatta di quanto richiedevo ; onde mi dispiace n’ poter sortir fortuna di ricevere le sue gracie con Sig.ri Grimani, m’ honari riserbarmi il desiderio che con tanta bontà si da a conoscere per favorirmi, ch'io n’ mancherò di procaciarmi occasione di conservarmeli per quella che senza fine mi confesso di V. S. Ill.

Devot et Oblig.maServa
Maria Madalena Musi.

Muzio Angelo Antonio. Recitava le parti di Dottore nella Compagnia che il Duca di Modena aveva formata pel 1688. (V. Torri Antonia). Abbiamo per lui la seguente raccomandazione al Duca della Boncompagni, che traggo dall’ Archivio di Modena :

Alt.za Sereniss.ma

Con quella humiltà douuta al Alto Merito, di V. Serenità humilissima supplico la di lei Clemenza in socorerre Angelo Antonio Muzzio, il quale per auer moglie e cinque figlioli et al presente maggiormente sfortunato per quello che sono certa cioè della moglie {p. 170}che mesi souo uiue inferma et essendo suddetto fori della Compagnia de' Comici di V. Serenità non puo più aggiutare la sua famiglia, la quale è in necesita grandissima, io mi spiace non potere solo che in cosa minima soleuarli : V. Serenità dispensi l’ardire di questa racomandazione ; le prerogative di V. Serenità che uolano per tutto il mondo, anno animata la mia humilissima oseruanza di venire a' suoi piedi supplicante della gratia. Nostro Signore conserui la Persona di V. Serenità per gloria del secolo ; mentre riuerentissima, li facio un profondissimo inchino.

Di V. Alt.za Sereniss.ma
Humiliss.ma Deuotiss.ma et Oblig.ma Serua
Caterina Boncompagni.
[n.p.]
[n.p.]

I comici italiani §

Nadasti Lucinda. Non sappiam se il nome di Lucinda col quale solamente fu chiamata nell’elenco de' Comici di Parma del 1664 (V. Fabrizio Napolitano), fosse anche il suo nome di battesimo. Lucinda è la prima donna, quasi sempre amante di Valerio, tal volta di Orazio, tal volta di Ubaldo, de' Scenarj pubblicati da A. Bartoli, un de' quali, di P. C., ha per titolo : L'onorata fuga di Lucinda.

Troviam Lucinda col suo casato di Nadasti nell’elenco de' Comici del Duca di Modena pel 1688, in cui ella sosteneva le parti di seconda donna. (V. Torri Antonia).

Nanini Giovanni. Attore e capocomico fiorito nella seconda metà del secolo xvii, di cui abbiam notizia soltanto nella citata opera di Paolo Trautmann sui comici italiani in {p. 174}Baviera. Stanchi i bavaresi della Compagnia tedesca capitanata dal Treu, e desiderosa forse la stessa Adelaide di Savoia, riandando la sua giovinezza e i godimenti provati alla rappresentazione del Cid di Corneille, di riviver quell’ore di esaltazione dello spirito, risolse di chiamare a sè una buona Compagnia francese, che si recò a Monaco l’estate del 1671, condotta da Filippo Millots, e vi rimase fino alla morte della principessa elettorale. Congedati i Francesi, i comici di Treu signoreggiarono ancora una volta alla Corte, con un repertorio de' più svariati ricco di drammi, farse, pastorali, ecc. Ma la lor signoria durò ben poco. La fine e pur frivola società di Corte bavarese, e soprattutti il giovine Max Emanuel, si stancò presto di quelle rozze rappresentazioni : la riapparizione di Treu e compagni sul teatro di Corte a Monaco ebbe per resultato la chiamata di comici stranieri : e questa volta furono italiani, venuti da Venezia sullo scorcio del 1689, e capitanati da Giovanni Nanini, che rappresentava in commedia la maschera del Dottore.

Nanini Giuseppe. Bolognese. Fu prima ballerino, poi Arlecchino di pregio. Ebbe da un colpo di pistola sì malconcia una mano, che si dovette amputargliela ; e però fu cognominato il monco. Nullameno egli continuò a recitar con favore, e il 1781 si trovava con Antonio Camerani, applauditissimo.

Napolioni Marco. Napoletano, fiorito alla metà del secolo xvii, recitava nella Compagnia del Principe di Parma le parti d’ Innamorato col nome di Flaminio. Oltre all’essere attore pregiato e pregiato capocomico, era ancor traduttore di opere drammatiche, delle quali l’ Allacci nella prima edizione della sua drammaturgia dà l’elenco che qui riferisco :

Il Re rivale del suo favorito, da D. Geronimo di Villa Assan.

Il Purgatorio di San Patrizio, opera, da D. Pietro Calderon.

La gran Zenobia, opera.

La vita è sogno, opera.

La casa con due porte, commedia, da Ivan Perez de Montalban.

{p. 175}Il Sansone, opera.

Il gran Seneca di Spagna Filippo II, opera, da Lopez de Vega.

Il Nigno diabolo, opera.

L'armata navale vittoriosa sotto D. Giovanni d’ Austria.

Il cane dell’ortolano, tragicommedia, da Mora de Mesqua.

Lo schiavo del demonio, ovvero ilD. Giliz, opera.

La fortuna di D. Bernardo di Cabrera, eD. Lopez de Luna, opera, da Ivan de Vigliega.

La verità bugiarda, opera, da tre autori.

Il gran Catà an Sacralonga, tragicommedia, da D. Francesco de Roxa.

Il Macometto, opera.

Theagene e Cariclea, opera.

Il pericolo ne' rimedj, opera.

Il maritarsi per vendetta, opera.

Persile e Sigismondo, opera.

Il generoso nemico, commedia.

Gli aggravj trionfanti della gelosia, commedia, da D. Ivan d’ Allarion.

L' Anticristo, opera, da D. Gabriel del Dovel.

Lo troviamo il 1647 a Roma, al servizio di Donna Olimpia Panfili, conduttor della Compagnia, insieme al Buffetto, Carlo Cantù (V.), nelle di cui lettere è riferita la storia dei subbugli, avvenuti in pubblico teatro, e la partenza per Napoli del Napolioni, che seco trasse buona parte di quei comici, da lui, come dice il Cantù, subornati. E lagnanze gli mosse contro anche la Fiorillo (Beatrice), come si vede dalla lettera del '51 pubblicata al suo nome (vol. I, pag. 929), per le solite gelosie di mestiere, e convenienze, e invidie suscitate non sappiam bene se dalla stessa Fiorillo, o dalla moglie del Napolioni, che ci sembra poter identificare per Argentina, come quella che insieme a lui assalse Beatrice con dispetti di ogni maniera (V. anche Fiorillo Giovan Battista).

« Nel Diario del Capecelatro, riferisce Benedetto Croce (op. cit., 126, nota), si parla di un Flaminio Napoleone o Nobilione, che nel 1648 era a Roma coll’ambasciatore di Francia e aveva intelligenze coi ribelli napoletani. Era il nostro comico Flaminio. »

Una sua lettera del 30 agosto del '57 da Bologna a un Ministro del Duca, ci fa sapere come il settembre e l’ottobre la Compagnia si recasse a Firenze e l’autunno a Venezia al {p. 176}San Samuele, chiamatavi da S. E. Grimani (V. pel 58 le lettere di Orsola Coris).

Il luglio del '59 si trovava a Siena, come abbiamo da una sua lettera a Francesco Toschi, colla quale accettava di far parte della Compagnia del Duca di Modena sì per l’autunno, sì fino a tutto il carnovale. La Compagnia di Flaminio era stata rotta dal signor Podestà di Galicano, e il Toschi dandone l’annunzio al Duca, e proponendogli il Napolioni, lo dice il Melio che calchi sena…. e aggiunge : se V. S. Ill. ma volesse scriuere, certo veriano, e si faria una Compagnia di tutto Paragone ; li do questo motivo acciò S. A. resti ben seruito come merita.

Il Croce, nel quarto punto dell’appendice, oltre a' titoli delle parti, ond’è composto, riferisce alcuni brani di un codice dal titolo : La pazzia di Flaminio nel presupposto tradimento di Cintia –  a 15 maggio 1680, ove sono soliloqui, parlate e dialoghi, relativi tutti alla parte di Flaminio. Il D' Ambra di Napoli ha ristampato (1884) una commediola, intitolata : Flaminio pazzo per amore, con Pulcinella studente spropositato, Commedia nuovissima, secondo il buon gusto moderno, che è certo – aggiunge il Croce – una manipolazione dello Scenario, del quale dovea far parte la scena di spropositi ch'egli riferisce tra Flaminio matto e Polcinella.

Trovo in una nota inedita del Gueullette che

Marco Napolioni detto Flaminio era conosciuto in teatro col nome di Flaminione per distinguerlo dagli altri Flaminj della Comedia italiana. Egli era nonno di Agata Vitaliani, che sotto il nome di Flaminia recitava in Italia le amorose, moglie di Francesco Balletti, primo del nome, che recitava gli amorosi.

Flaminione fu illustre nella sua professione e amato da' più grandi d’ Italia, specie da Cosimo III granduca di Toscana. Egli era a Napoli il 1647 al tempo della rivolta di Masaniello, che lo conosceva assai bene. Incontratolo per via, sapendo com’egli era amato dai grandi e dal popolo, gli ordinò di seguirlo. Il Napolioni dovette obbedire, e lo sciagurato lo nominò ambasciatore per aggiustar le differenze tra il popolo e la Corte di Spagna. Flaminione accettò ; ma l’ambasciata non ebbe luogo, perchè in capo a quindici giorni Masaniello fu destituito dalla sua pretesa regalità, e Flaminione di cui fu riconosciuta la probità, potè restituirsi a sè stesso.

Il padre di Flaminione era nipote del Cardinale. La sua casa era presso al Convento delle Fanciulle. Egli s’innamorò di una religiosa, e scavalcato il muro di cinta, la rapì. Gli fu fatto processo in contumacia. Egli si ritirò in questo tempo a Napoli, e vi si fece mercante sotto il nome di Napolioni. Fu là che divenne padre di Marco, il quale, montato sul teatro, mutò il nome di Napolioni in quello di Flaminio.

{p. 177}Nardelli Gaetano, nacque il 1786 da onesti parenti a Verona. Entrò il 1807 coscritto nei veliti italiani, e prese parte alla battaglia della Favorita presso Mantova. Poi, scioltasi l’armata italiana per l’entrata degli Austriaci in Milano, e rifiutatosi il Nardelli di continuar nel servizio, se ne tornò alla natìa Verona. Morti i genitori, egli, che avea già tal volta recitato nella filodrammatica della città, non avendo più legami di sorta in patria, si diede alle scene in cui riuscì valente caratterista e valentissimo capocomico. Formò il 1830 società con Luigi Ghirlanda, che fu poi sostituito da Giovanni Boccomini fino al '35. Ne fu per tutto quel tempo prima attrice l’ Amalia Bettini, che, cominciando allora a destar fanatismo, procacciò al Nardelli denaro e riputazione. Facean parte della Compagnia gli artisti Tessero, Rossi, Pelizza, come si vede nella poesia pubblicata al nome della Bettini (vol. I, pag. 390). Andata lei con Romualdo Mascherpa, e andato il Boccomini con Angelo Rosa, Nardelli si ritirò a Verona, ove comprò il teatrino dell’ Accademia, e de' vigneti in Valpolesella ; non tardando poi a formare una società per un triennio con Carlo Re, proprietario dell’antico teatro di questo nome in Milano, e con un caffettiere presso San Carlo, per nome Gottardi, i quali, saputa la provata esperienza di lui, gli affidaron la direzione dell’azienda. La Compagnia doveva rimanere al Teatro Re ogni anno dal 1° settembre al 15 dicembre, e ne eran principale ornamento, oltre a un buon numero di generici e generiche, Amalia Bettini, prima attrice ; Carolina Fabretti, poi Giardini, prima attrice giovane ; Adelaide Zannoni, madre e seconda donna ; Amalia Colomberti, servetta ; Lucrezia Bettini, caratteristica ; Antonio Colomberti, primo attore ; Giovanni Boccomini, padre nobile e promiscuo ; Gaetano Coltellini, caratterista ; Pietro Boccomini, primo amoroso ; Antonio Giardini, brillante e secondo amoroso ; Giuseppe Zannoni, generico primario.

L'entrata, un anno per l’altro, fu dalle 80,000 alle 90,000 lire, e l’uscita dalle 50,000 alle 55,000 ; e il biglietto serale allora era normalmente di centesimi 60, non mai più {p. 178}di 80. Non v'eran poltrone, posti chiusi o riservati…. Niente altro che incasso di Platea e Palchi che non eran di proprietarj. Il primo autunno fruttò lire 47,000, il secondo 27,000, il terzo, che si mutò poi in carnovale, 22,000 : e alla fine del triennio, prelevata largamente ogni spesa, i soci ebber di loro parte 20,000 lire austriache nette. Ritiratasi la Marchionni dalla R. Compagnia Sarda, andò la Bettini a sostituirla, e il Nardelli si ritirò per sempre in Verona, ove si diede al commercio de' vini forestieri.

Passò a seconde nozze (la prima moglie, una mediocre servetta figlia di comici, gli morì nel '39) con certa Barbato, figlia d’un suggeritore, e morì non ancor settantenne.

Nardi Antonio. Francesco Bartoli dedica una mezza pagina di lodi a questo comico, per aver potuto, dopo uno studio indefesso, accurato e minuzioso, sostituire Agostino Fiorilli nella maschera del Tartaglia, quando questi si tolse dalla Compagnia d’ Antonio Sacco per recarsi in quella di Maddalena Battaglia, riproducendone fedelmente i soggetti ed i lazzi.

Nardo. Sotto questo nome è citato dal Bartoli un certo Ferrasani, fiorito a Palermo il 1750 circa, secondo Zanni rinomatissimo, vestito di bianco alla foggia de' Pierò. Secondo i varj sentimenti che lo moveano, egli sapeva a suo talento diventar pallido come un cadavere, o rosso infiammato ; nasconder la testa fra le spalle, apparendo senza collo, o risollevarla d’un tratto, il collo allungando per modo da farlo parer quello d’una gru. Toltosi dalla professione, correva le strade di Palermo chiedendo del suo fallo perdono con queste parole : Vi chiedo scusa del cattivo esempio che v' ho dato, e m’accuso d’essere stato un furfante ; ma più furfanti siete stati voi altri portandovi così vogliosi ad ascoltarmi. E il popolo seguivalo ridendo e applaudendo. Venuto a morte, fu il suo corpo disseccato a guisa di mummia, e collocato in un pubblico cimitero, d’onde però, vista la poca devozione de' visitatori, fu tolto per esser messo {p. 179}sotto terra ; e aggiunge il Bartoli, che la memoria di lui, viveva ancora al suo tempo (1781).

In tuttociò è probabilmente una grande fantasticheria del Bartoli, dacchè un tal Nardo Ferrasani esistesse davvero semplice servitore, il quale per la sua balordaggine passò in proverbio ; e solevasi dire in Palermo : Stupido come Nardo Ferrasano !

Narici Bernardo, genovese, recitava le parti d’innamorato sotto il nome di Orazio. Lo vediam sempre nella Compagnia del Duca di Modena, insieme al Capitan Fiala (V.), e a sua moglie Marzia, della quale il Narici era parente ; probabilmente fratello (V. Areliari, al cui nome è l’elenco della Compagnia pe 'l 1675). Abbiam di lui una ricevuta di prestito del 28 aprile 1677 da Alfonso D' Este per doppie sette d’ Italia, e una lettera dell’ '84 che riferisco intera :

Seren.ma Altezza,

Bernardo Narice detto Orazio, Comico, e seruo humilissimo di V. A. S. riverentemente gl’espone ritrouarsi la Compagnia in stato da non poter così tosto andar fuori a proccacciarsi il uiuere, anzi douer star mesi, essendo, come è noto, inferma malamente la Corallina in Verona, e la figlia non poter lasciar la madre pericolante ; al che prima pendeua e pende il non uedersi comparire la Diana, ne sapersi, quando mai sia per uenire, perilche Cintio il Marito si protesta non uolere uscire fuori senza la moglie, essendosi già portato a Verona, doue è la Madre inferma ; oltre che partendo anche questa senza gl’anzidetti per le piazze prescritte, gli riuscirebbe di poco proffitto, essendo sempre auuezze a uedere, e sentire le più fiorite, e scielte Compagnie di Principi. Stante dunque le presenti emergenze il pouero oratore prostrato à piedi dell’ A. V. S. sogiunge, esser egli in un stato più che miserabile, hauendo, doue di certo haurebbe guadagnato nella Compagnia, ou'era stato ammesso prima di riceuere la lettera dal S. D. Alfonso da parte di V. A. dieci doppie, le quali nel tempo, che qui si tratiene ha fatto di debito e non potendosi più sostenere supplica V. A. S. a degnarsi di porgerli qualche soccorso o pure darli licenza di andare a proccacciarsi il uitto, sino a tanto che la Compagnia dell’ A. V. S. sia in stato di andar fuori. Che della grazia Quam Deus etc.

Di fuori : All’ Altezza Seren.ma del Sig.r Duca di Modona

Per Bernardo Narice detto Orazio Comico.

(Rescritto della Cancelleria) : (1684) – Si riporti.

Corallina era Domenica Costantini, moglie di Gradellino.

Diana era Teresa Corona Sabolini.

Cintio era Giovanni Battista Costantini, fratello di Mezzettino e figlio di Domenica.

{p. 180}Narini Domenico. È citato dal Bartoli, come attore del suo tempo (1781) di sufficiente abilità per la maschera del Brighella, e più ancora per le parti serie. Di voce robusta ma gradevole, gli si affidavan volentieri parti imperiose e risentite corrispondenti forse più tardi a quelle di padre e tiranno. Sua moglie recitava con lui le ultime parti.

Nazzari Eugenia. Veneziana. Dopo di essere stata il 1778 seconda donna nella Compagnia di Faustina Tesi, attrice lodevole nelle parti serie e appassionate, passò prima donna assoluta non ispregiata di una compagnia di giro.

Negri Luigi. Fiorentino, nato di civile famiglia verso il 1790, si diede all’arte, dopo compiuti gli studi all’ Università di Pisa. Fu ottimo amoroso, e fece parte delle Compagnie di Lorenzo Pani, del vecchio Andolfati e di Gaetano Bazzi. – Venuto a maturità, prese il ruolo del padre nobile, nel quale riuscì attore non meno pregiato. Sposò la vedova di Giovanni Bazzi, la celebre Maria Anna, e con essa andò a stabilirsi nel 1849 a Firenze, ove, pochi anni dopo, morì.

Negrini Anna. Figlia o moglie di un Giovanni Negrini, di cui non so altro che era capocomico nel 1803. Ella recitava le parti di prima donna con molto successo, e al Teatro Valle di Roma le fu dedicato il seguente sonetto con in fronte il ritratto qui riprodotto. Opera {p. 181}l’uno e l’altro, a quanto sembra, dello stesso autore, nascosto sotto le iniziali C. C. :

Qual comparve il tuo volto al mio pensiero,

tal l’incise la man : guancia di rosa,

vago ciglio, ora mite, ed or severo,

labro gentile, e fronte maestosa.

Ma l’arte, che su i cuor ti dà l’impero,

e quei modi, con cui tratti animosa

il Socco umile, ed il Coturno altero,

mano incider non puole, oppur non osa.

« Melpomene, che grave il cuor conquide »

sembri, e poi colle tue spoglie cangiate

sei Talìa, che l’error percuote, e ride.

Del tuo volto le forme ho lineate,

ma i varj moti tuoi qual mano incide ?

Ceda l’ Artista tanta gloria al Vate.

Nelli Ercole. Recitò le parti di primo Zanni, che vediam sostenere il 1650 nella Compagnia del Duca di Modena (V. Zanotti Andrea). In una lettera del Coccino al Duca del 18 febbraio '50 da Venezia, e nella sottoscrizione della Compagnia, in data 15 aprile 1651 da Bologna (V. Lolli Eustachio), egli è chiamato il Dottor Nelli. Il 10 di agosto era colla compagnia a Verona, come si vede dalla supplica di cui si è parlato al nome di Fiala Giuseppe Antonio (V.) ; e vi era ancora l’ 8 di settembre, sotto la qual data riferisce a un famigliare del Duca, come non essendosi negoziata a dovere l’andata a Venezia, probabilmente la compagnia non avendo l’autunno, dovrà sciogliersi, per riunirsi poi nel carnovale ; annunzia che Colombina (la Franchini) vuol andarsene a Bologna, e ch'egli è costretto, secondo l’ordinazione de' medici, a condur l’ Angiola sua moglie a Venezia per una tosse di cattiva conseguenza ; e conchiude con l’annuncio di due lettere (non potute trovare), le quali avrebber fatto conoscere le doplicate malignità de' comici parmiggiani, capo de' quali è Brighella(V. Cantù Carlo) e Mario (V. Grisanti Agostino) ; che non contenti d’ haverci stancato le città (la Compagnia del Duca di Parma aveva prima d’essi recitato a Verona trenta commedie) dove dovevamo andarci noi, cercono ancora di non lasciarci fare le nostre opere, che sono mie, in Venetia.

Anche nel '54 pare vi fosse timore di smembramento della compagnia, e il Nelli avendo saputo che le carrozze eran già state licenziate, si rivolge il 3 di aprile a un famigliare del Duca per sapere se la compagnia debba andare a guadagnare, o pure aspettare in Bologna, a ciò possano tutti i compagni dipendere dai commandi dell’ A. Sua.

Nelli Angiola. Moglie del precedente. Recitò le parti di prima donna al fianco sempre di suo marito. Non volendosi recare il '51 a Padova, allegando in iscusa ch'ella era impegnata per Milano, ma temendo in realtà qualche dispiacere nella concorrenza di Armellina (V. Lolli Eustacchio), indirizzò una lettera a un Segretario del Duca, sottoscritta Angiola lig.ni Nelli ; ma per quanti raffronti fatti, non m’è riuscito di trovar con quell’abbreviatura il nome di famiglia. Paolo Abriani nella prima parte delle sue rime, recitando essa Lo Spirito Folletto, dettò il seguente

SONETTO

Spirto sei finto, e con veraci incanti
stilli ne' sensi altrui gioje e dolori.
Tratti fiamme da scherzo, e vivi ardori
spiran dal volto tuo gli occhi stellanti.
Cangi, Proteo novel, forme e sembianti,
e in te trasformi immobilmente i cori ;
varie lingue e costumi, e industri amori
rendono a' cenni tuoi l’anime amanti.
Spettro ti fingi, eppur chi t’ode e mira
ti giura Angel Celeste ai gesti e al viso,
e all’alte grazie tue fervido aspira.
E in un rogo d’amor da sè diviso,
teco brama cader, ch' Angelammira,
che può dar fra gl’ incendj un Paradiso.

{p. 183}Di tutte le scenate dei coniugi Nelli e dei coniugi Buffetto e Colombina, vedi al nome di Cantù Carlo, il quale ha lettere interessantissime su tal proposito.

Nelvi Andrea. Bolognese. Attore reputatissimo, recitasse egli a viso scoperto, o con la maschera del Dottore o del Brighella. Fu con Gabriele Costantini a Napoli al servizio del Re Carlo, poi, tornato in Lombardia, con Pietro Rossi.

Divenuta celebre una certa canzonetta, che cominciava gnora luna, compose una commedia intitolata Lo sposalizio della signora Luna, alla quale accorreva il pubblico in folla, e nella quale egli rappresentava una parte di ebreo a meraviglia. Avanzato in età e trascurato dalle buone compagnie, dovè ricorrere alle più meschine, cessando di vivere in Romagna nel 1768, « attorniato – come dice il Bartoli – dalla miseria e di sozzure ripieno. »

Nettuni Lorenzo, bolognese, rappresentante le parti di secondo Zanni con molto valore, apparteneva il 1610 alla Compagnia dei Comici Confidenti, con cui lo vediam recitare in Reggio, Modena e Carpi. Passò poi nella Compagnia del Duca di Mantova, e il '20 era fra gli artisti che si recarono in Francia, di cui è l’elenco al nome di Martinelli Tristano. Firmò anch'egli la lettera al Duca di Mantova in data 12 maggio 1621, in cui protestava pei mali disegni dell’arlecchino Martinelli di smembrar la compagnia, privandola del Capitano (Garavini), a cui avrebbe sostituito Matamoros e suo figlio (S. e G. B. Fiorillo), e soprattutto di volersene fuggire, come fece poi, ora che avea fatto bottino ; e faceva istanza, conforme i desiderj di Sua Maestà, di restare a Parigi un anno ancora…. istanza, che fu accolta favorevolmente, rimanendo allora alla testa della compagnia Giovanni Battista Andreini. Nè la collera dei compagni contro il fuggitivo si spense sì facilmente : essi obbligarono l’ Andreini a redigere una lunga requisitoria, che firmarono tutti, compreso il Nettuni.

{p. 184}Nicoli Lodovico. Recitava nella maschera del Dottore, e il 1736 trovavasi in Compagnia di Argante(V. Franceschini Antonio) al San Luca di Venezia, ove sostenne la parte del Dottore Marchesc de' Merlotti nella tragicommedia intitolata : La clemenza nella vendetta.

Nicolini Filippo. Recitò le parti d’innamorato con molta lode. Fu con Nicola Petrioli e con Alessandro Gnochis (1760) insieme alla sorella Barbara, e al cognato Gaetano Romagnoli : morti i quali, s’unì alla Compagnia della Faustina Tesi, recitandovi da Brighella. Fu artista il Nicolini di non comune versatilità, uno degli ultimi e fortunati campioni della commedia improvvisa, la quale, mercè la pratica ch'egli avea cogli scenarj dell’arte, e la sua prontezza di spirito, sapeva ancor concertare con rara intelligenza.

Nobili Orazio. Era il primo innamorato di quella famosa Compagnia dei Comici Gelosi, che pose termine alla drammatica arte, oltre del quale non può varcare niuna moderna compagnia di comici (V. Andreini Francesco). Di lui abbiamo anche la testimonianza del comico G. Bruni (V.), il quale dice nella introduzione alle Fatiche comiche (pag. 11-12), che il Valerini (V.) non ispaventava Orazio Nobili che solamente grazioso, con due o tre Sonetti (che si potevano adimandar Protei poichè in mille guise ad altre tante occasioni li trasformava), ha tenuto il luogo di buono tra i primi (V. Pasquati).

Nobili (De) Nobile. Citato dal Bertolotti fra' comici che furon di passaggio a Mantova nel 1590. Egli era bolognese, e il 12 settembre giunse in casa di Cesare Gonzaga assieme a Lodovico Albergina da Venezia.

Nobili Sante. Comico egregio, che recitava nella Compagnia del Duca di Modena sui primi del '700 le parti d’innamorato col nome di Lelio. Pubblicò il '14 da Giulio Rossi a {p. 185}Bologna una traduzione in prosa dell’ Irene Imperatrice dell’ Oriente, dramma in versi per musica dell’abate Silvani, e dedicolla al Marchese Antonio Ghisilieri, col titolo : La Virtù trionfante del Tradimento negli accidenti d’ Irene augusta vedova di Leone Imperatore de' Greci. Ristampolla il '15, dovendosi recitare al Teatro Rangoni di Modena, da quello stampatore Bartolommeo Soliani, intitolandola solo La Virtù trionfante del Tradimento, e dedicandola Al Merito sempre grande dell’ Ill.mo Sig.r Conte Cristoforo Tardini Fattore Generale e Commissario delle Battaglie di tutto lo Stato di S. A. Ser.ma il Sig.r Duca di Modena. La lettera con cui il Nobili chiede la licenza di dedica, trovasi nell’ Archivio di Modena e ha in calce : Imprimatur – Inquisitor Mutina Carolus Barberius.

Nolfi Guido, di Fano, è citato dal Bertolotti (op. cit.) tra' comici che l’ 11 dicembre 1590, di passaggio a Mantova, presero alloggio presso M. Cesare Galassi pure di Fano.

Novelli Ermete. L'artista più generico del nostro tempo, che fa pensare nella spontaneità maravigliosa, e nella prodigiosa multiformità, a' più grandi attori della Commedia dell’arte, i quali, recitando e le buffonate e la tragedia, eran capaci di rendere le idee più alte de' poeti drammatici, e d’imitar le più straordinariamente ridicole della natura (V. Bertinazzi) : pregio, avverte il Riccoboni, che è una particolarità de' comici italiani. Tuttavia nessuno, come il Novelli, anche tra italiani, dalle altissime cime della tragedia potè scendere alle più basse della pochade, passando pel dramma moderno in tutte le sue svariatissime forme esprimenti le più calde passioni, e destando le più disparate commozioni in chi lo vede e ascolta. Il repertorio di Ermete Novelli si direbbe un repertorio acrobatico :…. Otello, Papà Lebonnard, Mia moglie non ha chic – Shylock, Morte Civile, Distrazioni del signor Antenore – Amleto, Bisbetica domata, Barbiere di Gheldria – Dramma nuovo, Burbero benefico, Tre mogli per un marito – Luigi XI, Kean, {p. 186}Michele Perrin – Nerone, Gerla di Papà Martin, la Zia di Carlo…. Poi una infinità di monologhi drammatici, comici, grotteschi, coi quali egli può far valere tutte le sue qualità di trasformista, dirò così, naturale, poichè la mobilità di fisionomia di Ermete Novelli è un miracolo vivente. Egli ha il fascino. Una larghissima vena di comicità, che gli zampilla su dal cuore, è entrata per modo nelle sue consuetudini, che non sappiam più se in iscena reciti, o se fuor della scena discorra, tanto si fondono e confondon l’uomo e l’artista. E codesta fusione e confusione, a volte, gli permette famigliarità col pubblico, le quali niun altro artista si permetterebbe…. Ma se il pubblico va' sta sera in visibilio dinanzi alle prodezze del suo beniamino improvvisate in Mia moglie non ha chic, o in Tre mogli per un marito, domani resta soggiogato dall’arte grandiosa ch'egli profonde in Papà Lebonnard, o in Un dramma nuovo.

Un’altra qualità, non so più se buona o cattiva, di Novelli, è quella di rimaneggiar tal volta le opere che rappresenta, di guisa che non rimanga più traccia della forma primitiva. Tagli, aggiunte, riduzioni, scene d’una tal commedia incastrate in tal altra, soppressioni o creazioni di personaggi…. tutto egli si permette…. Ma coglie giusto sempre ; e il lavoro da lui così trasformato, non a caso, ma perchè così veduto e sentito, si rinsangua, ripiglia vigore, e sfida glorioso a' lumi della ribalta l’edacità del tempo. Come si è rivelato il genio dall’artista ? Col mezzo di quali profondi studj è salito a tanta altezza ? A quali torture del cervello ha dovuto soggiacere per ottener certe maraviglie di bulino ? Fino a qual grado ha egli esercitata la pazienza nelle discipline degli studj per fondere il comico e il drammatico in modo da far piangere e ridere il pubblico in su lo stesso punto, con una perfetta musicalità d’inflessione, con un atto, con uno sguardo ? Nessuna risposta. Nell’arte di Novelli non saprei determinare nè modo e tempo di rivelazione, nè profondità di studj, nè torture di cervello, nè esercizj di pazienza !… Le profondità degli studj sono il più spesso, rispetto agli artisti di teatro, nella immaginazione dello {p. 188}spettatore ; e gli attori, in genere, che ne senton solleticata la propria vanità, a coltivarla, e ad afforzar quella immaginazione, discuton volentieri di malattie e di ospedali che non han mai visto, di notti vegliate su libri, di cui non sanno nè meno il frontespizio, di pensieri riposti dell’autore in una parola della lingua originale, di cui non conoscono l’alfabeto. Novelli è venuto su…. da sè, come a un dipresso vengon su tutti i genj. Nato a Lucca il 5 maggio del 1851 da Alessandro e Teresa Novelli, comici non primarj (il padre era un modesto suggeritore), cominciò a birichineggiare tra le quinte di un teatro molto uccio, dando noia al trovarobe, e aiutandolo a fabbricar gli oggetti ; contraffacendo i compagni, tormentando le ragazze, facendo le comparse, recitando parti di ogni genere, e recitando bene senza saperlo. Col crescere degli anni, gli si andò sviluppando, naturalmente, il cervello e la forza : e allora, invece di aiutare il trovarobe nella fabbricazione degli oggetti, aiutò il macchinista a rabberciare e ridipinger le scene, recitando sempre bene. Uomo, invece di aggiustare e ridipinger le scene, fece parrucche e vestiti all’antica, e fabbricò acque odorose, recitando sempre bene. Oggi, a cinquant’anni, fa il negoziante di oggetti antichi, e recita sempre bene. Il teatro, non occupandolo intero, non basta alla sua attività ; poichè Novelli è sempre stato ed è sopr'a tutto un grande lavoratore : nè oggi, che pur avrebbe il diritto e il comodo a un po' di riposo, può starsi in ozio un momento. E però, imitando alcuni de' suoi grandi predecessori, fra cui primo il Coltellini famoso, egli ha aperto nella sua casa di Venezia un ricchissimo negozio di oggetti antichi, ai quali è già tanto affezionato, che tra' più gustosi aneddoti della sua vita è questo, che, venduto un orologio antico a un forestiero, tanto se ne accorò, che non potè riacquistar l’antica pace, se non quando con perdita non lieve ebbe recuperato l’oggetto. Figuriamoci i lauti guadagni dell’artista mercante !

E nell’acquisto di un’alabarda egli mette lo stesso entusiasmo che in una recita dell’ Otello. E, naturalmente, essendo {p. 189}la tragedia e le antichità quelle cose ch'ei predilige, son quelle ancora che gli dànno il maggior dei dolori. I più tra noi che di arte antica non capiscon jota, ridon delle compere del Novelli, che dicon vittima della propria ignoranza ; i più, tra noi, che dell’arte tragica del Novelli non han pur l’ombra d’idea, ridon d’una sua interpretazione di tragedia, dicendolo vittima della sua presunzione. I successi clamorosi avuti nel vecchio e nuovo mondo, attenuaron la crudeltà del giudizio de'suoi connazionali ; ma il grande, unico premio, a cui egli ambisse, di veder le platee tra noi riboccanti di popolo sì all’Otello, come alle Tre mogli per un marito, gli fu lungo tempo conteso. Le lotte per ciò sostenute, i rammarichi senza fine, i propositi nuovi son descritti in articoli di lui stesso, di Vamba, di Boutet, di Gandolin, di Panzacchi, di Yambo il figliuolo di Novelli, che li raccolse in un album dedicato interamente a papà, arricchendolo di un centinaio di pupazzetti che ritraggon l’uomo e l’artista in ciascun momento della sua vita (Roma, 1899). Ma di tal reluttanza al pubblico non va dato il torto. La colpa è più tosto delle circostanze. La interpretazione dell’alto dramma e della tragedia fu buttata dall’artista al pubblico, quando questi era più imbevuto di tutta l’arte comica di lui…. La pretesa che di punto in bianco il pubblico corresse a giudicar nell’Otello il grottesco protagonista delle Distrazioni del signor Antenore, era soverchia forse…. Il pubblico ha delle crudeltà, delle prepotenze, delle vanità, e delle sicumere tutte sue…. L'assenza dal teatro gli sembrò la più giusta delle lezioni all’audace…. diciamo la sua parola, allo sfacciato invasore, di cui la comicità fisica si congiungeva alla comicità del personaggio, di maniera che niuno, per quanto amico di buona volontà, voleva o sapeva vedere in lui un eroe da tragedia. Ricordo il Novelli Generico primario di quella Compagnia di Giuseppe Pietriboni, che si acquistò gran rinomanza per l’insieme omogeneo, per l’armonia delle voci, per la ricchezza dell’allestimento scenico, per la fedeltà storica dei costumi, per la sobrietà della dizione. Ne eran parti principali, oltre ai Pietriboni, la Glech, la Peracchi, {p. 190}Bassi, Barsi, Novelli e io. Vi entrai di punto in bianco primo attor giovine ; e ricordo che in una recita di prova al Valle di Roma, del Suicidio di Ferrari, Novelli, col quale ci legammo da bel principio di forte amicizia sin qui immutata, mi dettava, dirò così, di tra le quinte, la controscena dell’ultimo atto avanti il riconoscimento del padre. Una commozione viva lo agitava tutto…. le braccia, li occhi, le labbra si movevano…. e ogni tanto afforzava l’espressione del gesto colle parole su !… così ! anima !… Adesso !… Forza !… Bravo !… Coraggio !… Sinchè, gittatomi al finir della scena tra le braccia del padre, uno scroscio di applausi coronò l’opera del maestro sapiente e dello scolaro divoto. Il Novelli d’allora era ben altro dal Novelli d’adesso. La celebrità e l’agiatezza gli erano sconosciute. In quella compagnia disciplinata, egli, se bene spirito indipendente, sapeva essere disciplinato, perchè la disciplina era fatta tutta d’amore. Mostrava già allora la grandezza della sua duttilità artistica ; e il pubblico se ne compiaceva, poichè non era stato avvezzo a vedersi d’innanzi più specialmente un carattere ; ma sì i caratteri più varj del repertorio. Marecat degl’ Intimi, Francesco I de' Racconti della Regina di Navarra, Vouillard del Rabagas, Mario Amari del Duello…. Stasera caratterista, domani primo attore…. Un artista indisposto era surrogato da lui sul momento : e quando ei non sapeva che dire, infilava un discorso a modo suo, magari estraneo alla commedia, e aveva sempre ragione lui. Gli amorosi diventavan brillanti, le situazioni più scabrose, momenti di grandissimo effetto, ogni particina un partone. Sgambettava, capriolava, rideva, piangeva, e si faceva batter le mani. Un aneddoto : egli si seccava mortalmente a recitar nelle farse. Da quelle del primo brillante, Bassi, era stato generosamente liberato, ma da quelle del secondo, Canevari, no. O meglio : non vi recitava ; ma era una continua lamentazione del giovine attore col capocomico, perchè persuadesse Novelli a prender parte al meno a una farsa. E il capocomico pregò, e Novelli, tediato dall’insistenza, accondiscese. La sera della farsa venne, e a un dato punto Novelli {p. 192}entrò in iscena. Che cosa facesse, o dicesse non so ; e nessuno seppe, e forse non seppe mai nè anch'egli : improvvisa un discorso pazzo, con alzate e abbassamenti di tono di una comicità irresistibile, poi a piccoli salti, a gemiti interrotti, a grida soffocate, fugge, inciampa, va a gambe all’aria, si alza, esce zoppicando, e il pubblico frenetico lo vuole alla ribalta. Terminata la farsa, Canevari si recò nel camerino del capocomico, rammaricandosi del successo ; e Pietriboni, chiamato a nome il Novelli, dal suo camerino ammonì : « ti proibisco d’ora in avanti di farti applaudire. Vergogna ! » Canevari capì la lezione, e se ne andò livido di rabbia ; e Novelli ottenne il suo intento : da quella sera non ebbe più parte nelle farse del secondo brillante.

Una grande qualità del Novelli di allora, attenuatasi poi col sopravvenir della gloria, fu l’arte del trasformarsi. La camuffazione, o truccatura, toccava tal volta la perfezione. Chi non ricorda, per esempio, il Marecat de' Nostri intimi con quella enorme pancia, con quella faccia rosea, ridente, piena, fatta di bambagia, nè già grottesca come quella di un siur Cámola, ma ritraente un de'più belli e simpatici tipi di grasso borghese ? E chi nel Vouillard del Rabagas, una indovinata e non voluta caricatura carducciana, avrebbe riconosciuto a prima vista il Novelli ? Quando la poca o niuna responsabilità della parola gli lasciava una piena libertà di azione, egli soleva allora dedicare al suo personaggio insignificante, un minuzioso studio di trasformazione e di ingrandimento. Per tal guisa il pubblico era sempre alle prese con un forte e geniale artista, dicesse quattro parole, o recitasse i primi attori. E se egli avesse continuato in quella via, il pubblico avrebbe visto, come la cosa più naturale di questo mondo, la parabola ascendente dell’artista generico per eccellenza, assistendo con soddisfazione al tramutarsi di Marecat in Shylock, di Francesco I in Amleto, di Mario Amari in Otello. Invece egli passò caratterista con Bellotti-Bon, soggetto a Bellotti-Bon, poi caratterista nella Compagnia Nazionale, a vicenda col Vestri, e vincolato da un mondo {p. 193}di convenienze e sconvenienze, che impedivan l’esplicazione della sua forza e della sua volontà. Fu in quei vincoli troppo stretti ch'egli avvertì il peso del giogo, e sentì il bisogno di scuoterlo : fu allora ch'egli risolse di formare una compagnia modesta da avviare, da manipolare, da rendere primaria, mercè la sua forza direttiva, mercè il suo ingegno artistico, mercè la sua tenacità di propositi. Una compagnia comica…. Non aveva un soldo. Battè a tutti gli usci ; non gli fu aperto :…. nè men risposto : ma non si perdè di coraggio. Lottò con una pertinacia degna di chi ha la coscienza della propria forza, e vinse : chi gli rispose fu il pubblico…. Dalla prima sera fu tutto un trionfo di ilarità : il nome di Novelli sui cartelloni era già fonte di gaudio : si andava a teatro a rifarsi il sangue…. a ridere…. a ridere…. a ridere. E quando dopo tanti anni di buon umore, l’artista si presentò al pubblico, dicendogli bruscamente : « domani a sera venite a piangere : — Morte civile ! —  » il pubblico sconoscente sì, ma perdonabile nella sorpresa, saltò su a dire : « Tu farci piangere ? Tu ? Ammattisci, figliuolo ? Che ! Che ! De'miei non ne buschi ! » E disertò il teatro ! E ci volle la Francia, ci volle l’America, ci volle la Russia, ci volle la Germania, l’Austria, l’Ungheria, la Spagna, ci volle il mondo intero per piegar l’Italia a ricredersi dal suo primo giudizio.

Oggi Novelli è tutto vòlto alla erezione in Roma della Casa di Goldoni, di cui mise la prima pietra al Teatro Valle il 1° novembre del 1900 con pompa solenne e con accoglienze entusiastiche ; pensiero alto e generoso di cui gli deve saper grado ogni italiano. Di mezzo alle parole di gran lode, altre, naturalmente, se ne levan di incredulità e di scherno da coloro, e per buona sorte sono i pochi, che a questa del Goldoni voglion contrapporre (che c’entra ?) la casa di Molière. I più continueranno a dare al Novelli il loro aiuto morale e materiale ; e dagli esempi di pertinacia ch'egli ci ha dato più volte, si può concludere che egli dal modesto principio saprà pervenire a una magnifica fine.

Oltre all’album di Yambo, abbiamo sul nostro artista un saporitissimo studio umoristico di Jarro (Fir., Bemporad, 1897), {p. 194}un numero unico illustrato (Pisa, 1886), con una cocente epigrafe di Cavallotti, uno studio novissimo di Antonio Cervi (Bologna, Beltrami, 1900), e finalmente un novissimo scherzo di Jarro(Firenze, 1901) intitolato Il naso di Ermete Novelli.

Olivetta. Non sappiamo chi si nascondesse sotto questo nome, che era un po' della serva e un po' dell’amorosa ingenua, a vicenda con Franceschina, nella Compagnia di Flaminio Scala. Nello spoglio del suo Teatro delle favole rappresentative, ella entra tre volte. Nel Vecchio geloso è figliuola di Pasquella, e amante di Pedrolino ; nel Marito è serva ; nei Tappeti alessandrini è serva. E la troviam serva nella tragedia de'Quattro pazzi, un de' nuovi Scenarj pubblicati da A. Bartoli.

Francesco Bartoli riferisce il seguente madrigale del Conte Gio. Battista Mamiano, che è tra le sue rime edite in vecchiezza nel 1620 :

Per la Signora Olivetta Comica

Pace promette il nome
d’Olivetta gentile,
ma le parole, il volto, e quei lucenti
occhi crudi omicidi
minacciano al mio cor guerre e tormenti.
O che vezzoso stile
di Comica Sirena
col nome gioia dar, cogli occhi pena.
{p. 195}Se di perir non brami in fiero ardore
fuggi, fuggi mio core,
nè ti fidar del finto nome, o stolto ;
ma credi agli occhi, alle parole, al volto.

Il Bocchini (V.) ha nella seconda parte della Corona Macheronica il seguente

Prologo tra Olivetta e Bagolino

Bagolino

Ahimè, che più no posso
spinto dal gran dolor,
portar sto peso adosso,
soffrir sto batticor,
perch' ho el mio ben za perso,
vado desperso
criando adess :
Olivetta mi son zo de gargam,
appassionà d’amor, morto de fam.
La zelosia m’accora
crescendome el martell,
el gargozzo d’ogn’ora
pianze con le budell,
che trovandose senza
la to presenza,
ogn’un languiss,
e bocca, e gola no se puol dar pas,
priva chi de baz offia, e chi d’un bas.
Olivetta mariola
deh, no m’abbandonar,
che una menestra sola
me puol resuscitar ;
e un baso de to bocca
mentre, che 'l scocca
da quei laurin,
puol dar la vita a un servo de'più car,
ne l’amor sì costante, e nel magnar.
Ma gramo in van me sbatto,
ma con rabbia, e desgust,
e fin che no te catto
no posso aver più gust,
che l’appetito adesso
in far progresso
me vuol per mort ;
e sbolzonado da Cupido ogn’or,
ho la fame in la gola, amor nel cor.

Olivetta

Se podesse za mai
con Bagolin mio bell,
{p. 196}ballar, tirarghe dentro,
provandome con ti ;
e per compir el ballo
vogio sul fallo
far comparir,
la sguattara col cogo i quai tutt’unt
interzeran corbette, e contrapunt.

Tutti insieme

Su donca balladori
ciaschedun salta in su,
per confermar i humori
de tanta servitù,
deve la man adesso,
e volzé spesso
le spalle, e 'l bust ;
e tornéve co i petti a rincontrar,
mostrando ch'anca i Zagni sa ballar.
raffrenar tanti guai,
e bandir sto martell :
vorave governarlo,
e restorarlo con un regal
de sbrusadei, lasagne, e macaron,
e vorria de formai darghe un gratton.

Bagolino

No sastu donca, cruda,
se cotto son per ti,
e za mai nol se muda
pensier notte, nè dì,
anzi a quei che nol crede,
ghe ne fa fede
i miei sospir,
che tanti per dessotto va scappand,
che i me rompe i calzon de quando in quand.

Olivetta

E mi grama meschina
priva del mio ben car,
tutto el dì in la cusina
me posso smanizar,
che niente mai concludo,
e tutta sudo
quando me mett
a far l’ajada, e co son in tel bon,
da debolezza me casca il piston.

Bagolino

Vien pur donca speranza
presto a la conclusion ;
confortame la panza
con qualche bon boccon ;
che dospuò te prometto
con un balletto
farte veder
robba, che ti dirà dal gran stupor,
viva el mio Bagolin, viva el mio cor.

Olivetta

Orsù via me contento,
però vogio anca mi
Viva l’amor Zagnesco,
e viva Bagolin,
con la cucina e 'l desco,
e viva Frittellin ;
viva pò Zan Padella,
con Zan Gradella,
e Candellot ;
viva de le Vallade a ogni confin,
Mezettin, e Fenocchio, e Zan Scappin.
E viva Zan Buffetto,
Brighella e Bagattin,
Zan Polpetta e Guazzetto,
Cappella e Trappolin :
e viva sempre intera
tutta la schiera
de i Zagni al Mond,
pur, che nel celebrar le nostre nozz,
ciaschedun vegna a empir el so gargozz.

Olivo. È citato nel dialogo di Leone De Somi fra gli egregi recitatori del suo tempo (V. pag. 109). Si chiamava Pietro ; era mantovano, e famigliare del Principe ; figlio di Giovan Matteo e padre di Volpino, prete, poi canonico della cattedrale di Mantova (V. D'A., 440). Olivo prese parte alla rappresentazione de' Suppositi dell’ Ariosto datasi il 12 giugno del 1553.

Onorati Ottavio. Recitava le parti di Mezzettino nella celebre Compagnia dei Confidenti, sotto il patronato di Don Giovanni De Medici, a fianco di Marina Antonazzoni, la rinomata Lavinia, al nome della quale sono particolari curiosi della discordia regnante allora in compagnia (1615).

Orlandi Giuseppe. Sappiam solo di lui che era ferrarese, e sosteneva la parte del Dottore nella Compagnia che il Duca di Modena avea formata pel 1675, della quale è riferito l’elenco al nome di Areliari.

Orlandini Leo. Nacque a Perugia il 1865 da Carlo, artista comico egregio per le parti amorose che sostenne nelle Compagnie della Robotti, della Ristori, e più tardi di Ernesto Rossi, dal quale fu avuto in conto di attore elegantissimo e di Pilade eccellente. Morì giovanissimo nel manicomio di Bologna.

{p. 197}Il figlio Leo, nonostante l’avversion de'parenti, che lo tennero in collegio fino a quindici anni, si diede all’arte loro, scritturandosi l’ '82 secondo amoroso con Luigi Monti, e serbandosi in tale ruolo con le Compagnie Bellotti, Pezzana, Emanuel, Marini, fino all’ '89. In quell’anno passò primo attor giovine con Novelli, poi ('91-'92) con Favi-Colonnello e Bertini, poi ('92-'93, '93-'94) con E. Duse ; salendo finalmente il '94-'95 con Pasta-Di Lorenzo al ruolo diprimo attore, che non abbandonò più ; e in cui, dopo alcuni anni di traversie in compagnie sfortunate, fu scritturato (1900) dal Novelli per la Compagnia della Casa di Goldoni. E mercè la direzione di tanto maestro e la volontà e l’intelligenza sua, egli salirà certo in maggior fama, avendo già dato prova di un prospero avvenire con le felici rappresentazioni di alcuni personaggi, tra cui primo quello del protagonista in La satira e Parini di Paolo Ferrari.

Paci Luigi. Toscano, nato intorno al 1785 da civili parenti, si sentì, compiuti gli studi, attratto alla scena, ove riuscì in breve tempo un primo amoroso di grido. Sposata l’egregia artista Laura Civili, si fece capocomico ; ma dovè, poco dopo, lasciar le scene, per condursi a Pisa, ove sperava trovar sollievo all’etisia invadente, e ove pur troppo morì consunto nel 1820.

{p. 198}Paderna Giovanni. Bolognese. Dopo studiata la pittura con Matteo Borbone, partì da Bologna, ancor giovinetto, collocandosi in qualità di paggio presso un capitano di vascello ; il quale prese molto ad amarlo per averlo sentito improvvisar bizzarrie poetiche, e recitar maestrevolmente sotto la maschera del Dottore. Abbandonato il padrone, il Paderna si diede a girar l’Italia or con l’una, or con l’altra compagnia di comici, rappresentando sempre la sua parte dialettale di secondo vecchio. Per certa malattia, dovè poi lasciar la professione, e restituirsi a Bologna, ove ripigliò i suoi studi sotto il Dantone e il Mitelli, ch'era — dice il Bartoli — geloso dello scolaro. Chiamato a Modena da quel Serenissimo, in piena estate, riscaldato dal viaggio, si diè a bere vino ghiaccio per modo, che in capo a pochi giorni dovè soccombere (1660 circa), toccati a pena i quarant’anni.

Paganini Onofrio. Milanese. Compiuti gli studi di lettere umane, si diede alle scene, recitandovi gl’innamorati col nome di Odoardo, e restando lungo tempo nella Compagnia di Antonio Marchesini. Essendo a Torino il 1748, dedicò a Madama di S. Gili nata Carpanè l’ Esopo in Corte del Boursault, tradotto da Gaspare Gozzi. Si fece poi capocomico e fu al San Gio. Grisostomo di Venezia al servizio di S. E. Grimani. Nel 1753, andato Antonio Sacco in Portogallo, il Paganini lo sostituì con nuova compagnia per quel teatro, che però non piacque. Costretto a rifornirsi di nuovi elementi, scritturò tra gli altri Giuseppe Zanarini e la moglie Rosa Brunelli (V.), mantenendo così la promessa fatta nell’ Addio, recitato l’ultimo giorno del precedente carnevale dalla prima attrice Francesca Torri, di cui ecco alcune strofe :

Chi di Sorte il cieco dono
amò più del suo decoro
loro infuse l’abbandono
per saziar sua fame d’oro.
E noi pochi e senza lena,
travagliammo con gran pena.
{p. 199}Senza forze e senza Attori,
o almen pochi ed ignoranti,
privi affatto degli Autori
che i lor parti dieno e tanti,
come mai darvi piacere
nel difficile mestiere ?
Come mai…. Ma verrà un giorno
ch'io tornando a queste scene
avrò nuove genti intorno
di bel spirito ripiene,
che le cose altrui ben chiare
sapran meglio recitare.

Tornato Sacco, Paganini condusse la sua compagnia in Toscana, nel Genovesato e in Lombardia, nè mai più pose piede a Venezia. Nel '63, recandosi per mare da Genova a Livorno, fu sorpreso da tal burrasca, che si dovette gettar in mare tutto il carico della compagnia, lasciando nella nave la sola mercanzia di un ricco negoziante il quale, giunti in salvo nel porto di Livorno, risarcì pienamente il Paganini del danno sofferto. L'autunno di quell’anno andò al teatro della Sala in Bologna, con una Compagnia di cui eran parte principale la Brunelli e il secondo innamorato Carlo Magni. Passò il carnovale dalla Sala al nuovo teatro pubblico, accordato per la prima volta a'commedianti, e tornò a Bologna al teatro Formagliari il carnovale del '65 ; ma la compagnia, privata della Brunelli, non vi fece incontro. Fu in Portogallo e in Ispagna, con poca fortuna : e, tornato in Italia, pensò di riformar la compagnia, scritturandovi per un anno la Faustina Tesi. Morì improvvisamente a Venezia la quaresima del 1776. Dice Fr. Bartoli ch'egli parlava egregiamente all’improvviso, che giocava il secondo Zanni a meraviglia, e scriveva in poesia con molta grazia ; la sua figura teatrale non era delle più adatte al personaggio dell’innamorato, perchè piccola e pingue oltre misura. Il Bartoli, secondo il solito, si scaglia, in difesa del Paganini, contro il Romanzier del Teatro che a pagine 45 e 64 del primo volume, così lasciò scritto :

{p. 200}Trovai l’Impresario. Era questi un uomo picciolo e grosso, con una faccia rotonda, e sanguigna. Aveva una voce imbrogliata ed oscura, e pareva che le sue parole uscissero dall’esofago d’uno che mangiasse. L'ho trovato in veste da camera, con una berretta bianca in testa, fatta a pane di zucchero. Apriva la cassetta de'denari, e pria di cavarne, baciava certa immagine stampata che là dentro teneva. Ogni volta, mi disse, che incomodo il mio scrignetto, dò questo bacio, e finora tanti ne diedi, che più non c’è numero. Cominciai a sospettare che fosse un Ipocrita. Sbrigati ch'ebbe alcuni operaj che attendevano soldi, mi chiese, con un’eloqueuza da scena, in che potesse avere la bella sorte e l’onor di servirmi. Gli dissi che un qualunque posto io bramava nella sua Compagnia. Mi oppose subito cento difficoltà, e quando seppe ch'io non aveva mai recitato, quasi quasi mi tolse d’ogni speranza. Dissemi essere necessario ch'io parlassi colla prima Donna per raccomandarmi a lei. Sono Impresario, soggiunse, ma deggio, in molte cose, da essa dipendere. Ella è brava, ma per dirvela in confidenza, il Diavolo è qualche cosa più buono di lei. Se le dò il menomo disgusto non si contenta d’onorarmi col titolo di giumento, ma mi balza agli occhi come una furia, e se non usassi prudenza menerebbe le mani. Finito l’anno corrente, la lascio per chi la vuole, e gramo quel misero che se la piglierà. Intanto, Figlia mia, tenetevela pure con essa ; se volete ottenere quanto bramate, e col tempo…. chi sà ?… siete Ragazza, bella, spiritosa, d’una nazione che piace, e forse forse diverrete la più famosa delle Commedianti. Ciò detto mi toccò una guancia con una compiacenza più che paterna, s’ingalluzzò, e mi fece avvertita che al Vecchio volpone ancora piacevano i pomi, benchè non avesse più denti.
Quel botticino, recitava sul gusto del passato secolo, e aveva la smania di far ancora quelle parti, che gli stavano bene quarant’anni avanti. Nel mondo comico gli uomini sono soggetti ai pregiudizj del sesso Donnesco, quando si tratta di età. Non vogliono persuadersi mai d’esser vecchi, e senza denti in bocca balbettano cose amorose. Negli inviti al Pubblico ci entrava sempre il procureremo di superar noi medesimi ; e quando invitava per qualche Commedia del Goldoni, qualunque fosse, la chiamava la più bella che avesse fatta quel celebre Autore. Recitando all’improvviso diceva sempre le stesse cose, colle stesse parole ; eppure da'Commedianti che stavano tra le ventitrè e le ventiquattro, era riputato uno degli ultimi grandi uomini dell’arte. Chiamava ognuno suo Monarca volesse, o non volesse, e adulava perfettamente.

Riferisco anch'io volentieri i sonetti pubblicati dal Bartoli, come saggio dello stile poetico del Paganini, e come prova della stima in cui lo tennero uomini egregi.

Per l’acclamata memoria della perfetta arte Comica professata dalla Società dipendente dal governo del Signore Onofrio Paganini, avendone dato un cospicuo saggio nel pubblico Teatro della Città di Pisa nelle sue recite di varie commedie l’estate dell’anno 1762.

Qual mormorio di voci si festive
oggi quà s’ode a rallegrarne i Cori ?
fors’è che Apollo coll’Aonie Dive
Sparga delle sue glorie Inni Canori ?
{p. 201}Di pace amico stuol quà dalle rive
dell’ Adria, cinto il crin di rose e allori
vantando il suo valor tra Fole argive
sen venne a sollazzar gli alfei Pastori.
Il genio teatral candide piume
spiegando, va tra l’aure più serene
sull’ Arno, ove n’appar suo chiaro lume.
Del Paganini il nome alle Tirrene
sponde vivrà, che per nuovo costume
senno e onestà trionfa in dotte scene.
In segno di vero applauso l’avvocato Ranieri
Bernardino Fabbri Pisano fra gli Arcadi
Odisio Licurio Vice Custode perpetuo della
Colonia Alfea.

Risposta d’ Onofrio Paganini al suddetto

Le tue dotte, Signor, rime festive
sanno incantare ed obbligarsi i cori,
tal che superbe le Castalie Dive
vanno, a ragion, de'versi tuoi canori.
Aman tuo vago stil d’Arno le rive,
che altro non fa, che meritarsi allori,
quai meritò là sulle arene argive
Pindaro eccelso in fra gli achei Pastori.
Per l’aereo sentier candide piume
spiega Cigno sublime, e le serene
aure sormonta ov'è più chiaro il lume.
E il tuo nome, o Signor, l’onde Tirrene
rendan sempre immortal, qual per costume
rend’io gli Eroi sull’erudite Scene.

Per le rime antecedenti, Sonetto a Odisio e ad Onofrio dell’avvocato Gio. Francesco Lami.

Mentre voci sciogliete alte e festive,
Odisio e Onofrio, a sollevare i cori,
fanno nascer d’onor le Aonie Dive
bella gara tra voi, Cigni Canori.
{p. 202}Vedo già risuonar d’Arno alle rive
i nomi vostri, e a coronar d’allori
il vostro crin, dalle contrade argive
corre Apollo tra Ninfe e tra Pastori.
Spiegaste entrambi l’onorate piume
di gloria a replicar l’aure serene,
ond’io resto abbagliato a tanto lume.
Veggan pur con stupor l’onde Tirrene,
che di calcar seguite il bel costume
uno i dotti Licei, l’altro le Scene.

Paganini Francesco. Figlio del precedente, dal quale s’ebbe i primi ammaestramenti nell’arte comica, e col quale stette alcun tempo, entrando poi come innamorato nella Compagnia di Giovanni Simoni. Tornò col padre, e fu con lui in Portogallo ove sposò la Corona, assunta la quale al grado di prima donna, al suo ritorno in Italia, si distaccò dal padre per farsi a sua volta capocomico non troppo — a detta del Bartoli — fortunato, negli ultimi anni almeno, nonostante i grandi meriti della moglie.

Il Colomberti lo cita come buon capocomico dal 1790 al 1810.

Paganini-Corona Anna. Francesco Bartoli ci lasciò di lei il seguente ritratto :

Sortì dalla natura i più bei doni, che mai potesse avere una giovane attrice. Una bella e graziosa figura, una voce flessibile e dolce, una pronunzia assai retta, un gesto nobilmente naturale, e un portamento spirante tutto brio, sono i bei vanti suoi. Ciò che poi fornisce i di lei meriti è un’intelligenza piena d’acume, l’investirsi al vero delle passioni, e l’esprimere con grazia e nobiltà vivamente tutte le cose, che rappresenta. Nelle Commedie fa valere il suo spirito e parla con eleganza e con facondia : e la sua rettorica potrebbe riputarsi studiata, quando non si sapesse che ella crea i suoi concetti in quel momento appunto che gli escono dalla bocca.

Andò in Lisbona con sua madre Chiara, comica anch'essa, nella Compagnia di Onofrio Paganini, del quale sposò il figliuolo {p. 203}Francesco, restando sempre con lui, principale ornamento della propria compagnia.

Ecco un sonetto che riferisce il Bartoli a lode di lei, senza nome di autore, ma suo probabilmente.

Al merito impareggiabile della Signora Anna Corona Paganini, che nel Carnovale dell’anno 1777, recita in Carattere di prima comica in Genova nel Teatro delle Vigne con universale applauso.

Qual altra mai sulle notturne Scene
potea cangiar cosi diversi aspetti,
pinger dell’Alma i vïolenti affetti,
quale un tempo già feo la saggia Atene ?
Tu fra le genti di stupor ripiene,
muovi così gli sguardi, i gesti e i detti,
che svegli a tuo piacer ne'nostri petti
sdegno, amor, duol, pietà, timore e spene.
Quindi il tuo nome dell’invidia a scorno
fa la sincera fama a te rivolta,
nel pien Teatro risuonar d’intorno.
E l’attonita Udienza ognor più folta
pende dalle tue labbra ; e al chiaro giorno
preferisce la notte, in cuit t’ascolta.

Paghetti Giovan Battista. Comico reputatissimo per la maschera del Dottore, fiorito nella seconda metà del secolo xvii, di cui scrive Luigi Riccoboni (op. cit., VII) : « quasi tutti i comici erano a quel tempo ignoranti, ed eccettuati Gio. Battista Paghetti, che recitava la parte di Dottore, e Galeazzo Savorini che gli successe nella maschera, non potrei citarne uno che avesse compiuto un corso di studi. » Lo vediamo il 1686 nella Compagnia del Duca di Modena, di cui si è dato l’elenco al nome di Marzia Fiali.

Paghetti Pietro. Figlio, probabilmente, del precedente, nato a Brescia il 1674, si recò in Francia giovanissimo {p. 204}recitando parti generiche in compagnie di provincia. Andò il 1710 a Parigi e fu scritturato nella Compagnia di Pier Francesco Biancolelli, figlio del celebre arlecchino Dominique, di cui serbava il nome, che agiva alla fiera Saint-Germain, impresari Laury e la signora Baron. Passò dal 1712 al 1714 a recitar le parti di Dottore in Compagnia di Gio. Battista Costantini (Ottavio) alla fiera Saint-Laurent, sotto l’impresario Saint-Edme, e il 9 aprile del 1720 esordì nella Compagnia del Reggente, colla parte di Prudent nella Fausse Coquette, commedia francese dell’antico teatro italiano, riportandovi un grande successo. Di lui disse il Mercurio del tempo : « Egli parlava assai bene il francese e l’italiano. Non si son visti facilmente attori accogliere tante buone qualità pel teatro, e per ogni specie di caratteri. E se bene egli non avesse troppo bella persona (era gobbo), ei li rappresentava con tal giustezza e precisione che niente lasciava a desiderare. » Aveva sposato Angelica Caterina Tortoriti, figlia del celebre Pascariello, poi Scaramuccia, e morì il 14 novembre 1732, munito dei SS. Sagramenti, e pubblicamente lodato dal curato di S. Salvatore sua parrocchia, ove fu sepolto il dì seguente, per la cristiana, davvero esemplare, rassegnazione colla quale sopportò il male e passò alla nuova vita.

Paladini Francesco. Nato a Capo d’ Istria negli ultimi del secolo scorso, fu ammaestrato nelle belle arti dal padre pittore ; ma a diciotto anni si fece comico, riuscendo in poco tempo un egregio amoroso nella Compagnia di Carlotta {p. 205}Marchionni. Passò poi il '24 a Napoli col Fabbrichesi, che lo condusse con sè a Trieste, poi, avanti la fine dell’anno lo rimandò a Napoli primo amoroso e primo uomo a sostituire con Mario Internari, stipendiato dal Fabbrichesi, l’attore insufficiente che copriva quel ruolo. Dopo un anno, scritturato dallo stesso Internari, passò nell’ Italia centrale, poi, morto nel '25 l’ Internari, entrò nella Compagnia di Luigi Vestri. Passò, da questa, in quella di Antonio Raftopulo pel triennio '27-28-29, indi, il 1830, formò società per un nuovo triennio colla celebre Carolina Internari, con cui si recò a Parigi. Fu, ancora per un triennio, scritturato dai soci Fabbrici e Petrelli ; poi, sposata l’egregia servetta Clotilde Sacchi, si fece nuovamente capocomico per vari anni (il '56 aveva società con Stefano Riolo), finchè, avanzato in età, abbandonò l’arte. — Il Colomberti lo dice attore di molta intelligenza e di prestante figura, applauditissimo sempre, nonostante il difetto di una voce alquanto nasale.

Paladini-Sacchi Clotilde. Moglie del precedente, e figlia di un bravo Arlecchino, nipote probabilmente di Felice Sacchi, detto Sacchetto, nata nell’anno 1814, si scritturò, rimasta orfana del padre, come servetta, il 1830 nella Compagnia Bon, Romagnoli e Berlaffa, nella quale, sotto gl’insegnamenti del Bon, celebre attore e autore, divenne ben presto ottima nel suo ruolo, rappresentando per ben ventidue sere {p. 206}al teatro di S. Luca, sotto le spoglie della cameriera, la commedia dello stesso Bon, Niente di male. Passò il '32 prima donna giovine con Romualdo Mascherpa, tornando poi subito servetta in Compagnia di Luigia Petrelli in cui stette sei anni dal '33 al '38, e in cui sposò l’attore Paladini, col quale si fece poi capocomica, dovunque ammiratissima.

Paladini Ettore. Figlio dei precedenti, nacque a Firenze il 1849. Determinare con esattezza cronologica il suo stato di servizio non è certo agevol cosa, tante sono le compagnie di vario genere, in cui militò, e per tanti anni si trovò a essere conduttor di compagnie egli stesso ! Figlio d’artisti, dovè naturalmente, come ogni altro, esordire quando gli fu dato a pena d’infilar quattro parole : a soli cinque anni. Nondimeno la famiglia tentò distorlo dal teatro, destinandolo alla vita del mare. Ma i babbi propongono e i figliuoli dispongono. Un bel giorno non volle saper più nè di burrasche, nè di bastimenti, nè di eliche, nè di trinchetti, e a quattordici anni il piccolo ribelle entrò in una delle infime compagnie. E come il sangue non è acqua, così egli potè in breve, a motivo di una dizione purissima, che ha tuttavia serbato il primo nitore, salire ai maggiori gradi di primo attor giovine e di primo attore, diventando poi con la intelligenza non comune e la non comune gagliardia di fibra, un de'più pregiati direttori di compagnie, fra cui quella di Teresa Mariani-Zampieri, nella quale stette assai gran tempo, ammiratissimo. — Fu il 1900 in quella di Bianca Iggius, scritturandosi poi pel '901 con {p. 207}Clara Della Guardia, con la quale si recherà nell’ America meridionale.

Paladini (De')-Andò Celestina. Fu attrice di grandissimo slancio, benchè non di imponente figura, nelle parti tragiche, acclamatissima specialmente in America, ov'ebbe onori di rime non ispregievoli. Nacque a Lucca il 13 luglio 18…., ed esordì a diciassette anni in Alba di Piemonte, salutata come una gentile promessa. Nel '63 era già prima attrice egregia sì nelle parti drammatiche, sì nelle tragiche, ma più in queste che in quelle, e nel '69-'70, conduttrice ella stessa d’una compagnia comica, sollevò quasi all’entusiasmo i pubblici più varj d’Italia. Sonetti, ed epigrafi e articoli di ogni specie s’ebbe dovunque ; e non sarà discaro a'lettori ch'io trascriva qui un epodo, offertole a Ravenna il 7 febbraio del 1877, mentre dilettava quel pubblico del Teatro Alighieri : epodo, il quale, se bene anonimo, sembra a me si levi, con altre poche, dalla schiera infinita di quelle poesie volgari di circostanza che sono la vergogna di chi le scrive e di chi le riceve.

Gli ammiratori di Celestina Andò nata De'Paladini, prima donna drammatica applauditissima sempre nel Teatro Alighieri, D. D.

EPODO

È 'l dolce riso dell’amor che brilla
nell’ardente pupilla ?
È 'l gran cor, che di furia empia si accende
se gelosia lo prende ?
{p. 208}È l’orgoglio d’un anima regale
che a vanità si aggiunge ;
e, com’assillo tormentoso, il punge
d’avvelenato strale ?
È profonda pietà, che l’uman srale
d’alti rimorsi grave
tra gli spettri e le rughe tutto solve ;
e lo gran giorno pave
che Iddio 'l ritorni in poca e muta polve ?
È la ragion che lascia
il pover capo e tra' dolor lo sfascia ;
oppur vi fa ritorno
con l’alma, giovin sempre e innamorata ?
Ond’è che a noi d’intorno
tanta pietà veggiam sì tosto nata ?
Che mai da'nostri cigli
a spremer vale così larga vena,
nella ognor varia scena
o dell’antiqua, o dell’età presente ?
Voi !… siete voi !… voi, piena
di grazia e di saver, che tutta conta
d’ogni fè, d’ogni gente
l’istoria avete, e su verace impronta
gittar sapete accento,
incesso, sguardo, tratto, atteggiamento ;
e divinar quai moti
nella foggia miglior rendano i noti
casi, e adeguarli al lento
o crebro moto d’uman cor. Attèa,
Stuarda, Elisabetta,
Messalina…. or gentile, or aspra ; or saggia
or folle ; or giusta, or rea ;
ma sempre grande, e a tutti sempre accetta,
bella attrice e perfetta.

{p. 209}Celestina De Paladini, sposa a Flavio Andò, primo attore e direttore della Compagnia da lui formata in Società con Tina Di Lorenzo, è oggi di essa compagnia pregiato ornamento nelle parti di madre, ch'ella sostiene con quella innata signorilità, che non è facile di ritrovare nelle sue compagne di ruolo.

Palamidessi Giuseppe. Da padre filodrammatico e avvocato, nacque a Pisa il 1840 circa ; e datosi con l’esempio paterno agli studi legali e del teatro, diventò in breve alla sua volta avvocato e filodrammatico. Ma le scene del teatrino privato eran troppo anguste a soddisfar le vanità e mostrar le qualità del Roscio futuro, il quale, scritturatosi in Compagnia Dreoni per le parti comiche che non abbandonò più, passò poi in quelle di Sterni, e, nel 1874, di Emanuel e la Pasquali, dove colla farsa Il Casino di campagna, da lui raffazzonata, toccò addirittura la celebrità.

Il Palamidessi non fu artista di grande levatura, ma attore castigatissimo, anche nelle bizzarrie comico-musicali, e in quella stessa farsa in cui rappresentava mirabilmente una marionetta, un cantastorie e un poeta, e che replicava sino a venti sere di fila ; e però fu sempre desideratissimo da' capocomici, tra' quali il Morelli. Ma con la fama crebbero in lui le pretese e la baldanza, sì che l’artista celebre, creando ad essi ognor nuovi fastidi, fu da essi abbandonato. Si fece allora conduttor di compagnia, ma con niuna fortuna ; e in breve, consumato ogni suo avere, si trovò costretto a ramingar con piccole compagnie in piccole {p. 210}città, fino a'dì d’oggi, in cui ha la triste ventura di sollazzar la gente con qualche buffonata dalla minuscola scena di un caffè concerto.

Paliotti Carlo e Francesca. Fu la vita di Francesca Paliotti alquanto romanzesca. Nata il 1764 in Ancona da un garzone di sarto e da una rivendugliola di abiti vecchi, s’innamorò a vent’anni di un giovane della sua condizione, dal quale, abbandonata, fu per morirne. Condotta, a sollievo de' suoi mali, a sentire una piccola compagnia di comici che recitava in un’arena modesta di legno, destinata anche alla caccia del toro, tanto s’invaghì dell’ arte, che risolse di consacrarsi ad essa. Sposatasi il 1785 a un giovane attore della compagnia, Carlo Paliotti, divenne ben presto, essendo anche di rara avvenenza, un’ottima amorosa, e la vediamo il 1790 in Compagnia di Luigi Rossi prima donna giovine applauditissima. Nel 1800 formò col marito, lei prima attrice, e lui primo attore, una fortunata compagnia ; e morirono entrambi nel 1825 circa, all’età di poco più che sessant’ anni.

Palma Carlo. Romano, fiorito nella seconda metà del secolo XVII, sosteneva in commedia la parte di secondo Zanni col nome di Truffaldino. Lo vediamo nel’ 58 a Roma, abitante nel distretto della parrocchia di S. Pietro, assieme al Dottor Lolli, al Silvio Coris, al Pantalone Malossi, ecc. Nel '75, assieme al Turri Pantalone e all’Allori Valerio, fa istanza al Serenissimo di Mantova di appartenere alla sua compagnia : istanza che vediam poi accettata, dacchè in data 30 marzo scriveva da Venezia a un famigliare del Duca, avvertendolo di essersi abboccato con Valerio e di esser pronto a partire, secondo i comandi di S. A., la settimana prossima. Altra lettera abbiamo di tre giorni dopo, in cui ringrazia de' passaporti, e raccomanda con molto belle parole Federico Beretta che fa le parti di Capitano Spagnuolo, pubblicata al nome di questo comico (V.).

{p. 211}

Palombera Luisa De Vertamani. Di questa comica celebre e cantatrice insigne non mi è riuscito di trovar notizie in alcun diario napoletano. Forse l’ Ortensia del comico Giuseppe Antonio Laurentiis (V.) ?

Panazzi Francesco. Dopo di essere stato in varie compagnie di giro, si trovava il 1781 a Venezia in quella di Nicola Menichelli. Fu attore pregiato nelle commedie improvvise, sotto la maschera di Brighella, e nelle premeditate senza {p. 212}maschera. Par nullameno ch'egli fosse assai più reputato violinista che attore, e dice il Bartoli ch' ei poteva comparire con lode in mezzo ai più esperti professori di musica.

Pani Lorenzo. Nato a Firenze il 1750, fu un egregio tiranno, e uno de'principali capocomici dal 1785 al 1815. Morì a Firenze il 1825.

Panzanini Gabriele. È questi il famoso Gabriele da Bologna, che sosteneva le parti di Zanni nella Compagnia de' Comici Gelosi sotto il nome di Francatrippe, lodato da Francesco {p. 213}Andreini (V.) nel Ragionamento XIV delle sue citate Bravure. Era il 1593, come abbiam visto al nome di Balestri (V.), nella Compagnia de'Comici Uniti, e in quella de'Costanti, come abbiamo in una lettera senza data citata al nome di Degli Amorevoli Vittoria (V.). Vedi anche (pag. 626) pe 'l costume il Francatrippa di Callot, danzante con Fritellino (Pier Maria Cecchini). Di quel che gli occorse a Mantova recitando la favola de' tre gobbi, vedi Pasquati Giulio.

Panzieri Pietro. È citato da Francesco Bartoli come giovane di buone attitudini all’arte. Recitava le parti di innamorato, e dopo di esser stato nella Compagnia di Luigi Perelli, passò il 1781 in quella di Antonio Camerani.

Paolo di Padova. Conduttore della Compagnia comica italiana che recitò a Nevac il 1579, durante il soggiorno di Caterina de' Medici. Il Baschet (op. cit., 87) riferisce un documento ove sono il rimborso delle spese di viaggio, e una somma di trenta scudi (novanta lire tornesi) per aver recitato più commedie dinanzi a Sua Maestà.

Papà Leontina. Nata a Mogliano (Veneto) l’ottobre dell’anno 1842 da Leone, maggiore, e da Luisa Böchmann, esordì sul finire del '59 in Compagnia Moro-Lin, di cui era prima attrice la Fumagalli e primo attore Alessandro Salvini. Mostrò subito speciali attitudini alla tragedia, della quale fu più tardi cultrice amantissima e ammiratissima ; e, scritturata il '66 al Fondo di Napoli nella Compagnia Majeroni, vi sostituì con molto onore la celebre Sadowski. Passò il '69 con Lollio, poi, il '71, con Coltellini. In quel torno, a Roma, si ammogliò a Raffaello Giovagnoli, e restò fuor del teatro due anni. Fu il '73-74 con {p. 214}Vitaliani e Cuniberti, e andò il '75 a Londra con Tommaso Salvini. Sostituì il '76 in Compagnia Ciotti Virginia Marini, e andò l’ '82 con Emanuel, poi, in Russia, con Ernesto Rossi. Il’ 92-'93 fu scritturata da Giacinto Gallina, il '95-'96 da Ferrati, poi dall’Impresa del Teatro Manzoni di Roma, ove trovasi tuttavia. Leontina Papà nella sua vita non breve di teatro ebbe momenti d’arte felicissimi, e molte lodi sincere, a volte entusiastiche. Creò con assai plauso non poche parti, fra cui, quattr'anni or sono a Firenze quella di Baronessa nella Marcella di Sardou.

Fra le pubbliche testimonianze di ammirazione ch'ella s’ebbe, merita qui un posto la dedica di un opuscolo di versi, che vuolsi dettata da F. D. Guerrazzi.

A Leontina Papà — attrice drammatica — che con la voce ricca d’affetti — e con l’eloquente atteggiar della persona — richiamò sulle scene labroniche — le glorie della Marchionni e della Pasta — i livornesi — augurando alla giovane artista — trionfi maggiori — porgono tributo d’ammirazione.

E questo stornello segnato col nome di Tito Vespasiano, sotto il quale si nascondeva il caldo poeta livornese Braccio Bracci.

O bella fata dagli occhi d’amore,
chi v' ha insegnato a piangere e pregare ?
La vostra bocca è il calice d’un fiore,
e con la voce fate innamorare.
Chi v'ha sentito per gentile usanza,
vi paragona al fior della speranza ;
chi v' ha sentito per desìo di gloria,
vi paragona al fior della memoria.
{p. 215}Voi siete brava e non ve n’ avvedete,
perchè è natura dell’ augel che vola,
canto e passione, e se non lo credete
guardate quella mammola vïola ;
benchè chiusa nell’orto in tra le foglie,
l’odor la scopre e il passegger la coglie ;
così la vostra luce, o fata bella,
vi scopre a tutti che siete una stella.

Papadopoli Antonio. Nato a Zara il 17 aprile 1815 da Costantino Papadopolo, marinaro, poi caffettiere, e da Giovanna Foscari, si diede al teatro dopo due anni di ginnasio, e due d’impiegato all’ Uffizio di Sanità della Dogana, esordendo il '32 in Compagnia Bon Martini, prima come segretario, poi come attore nel Naufragio felice dello stesso Bon Martini, pel quale s’ebbe dal capocomico non pochi incoraggiamenti. Restò con lui sette anni, interrotti nel '36 per pochi mesi, durante i quali si unì alla Compagnia Colli, delle infime d’allora, in qualità di primo amoroso, riuscendo il più cane di tutti gli attori. Sulla fine di ottobre entrò in Compagnia Cavicchi e Bertotti diretta da Domenico Verzura, padre nobile, dal quale il Papadopoli si ebbe la sua prima e salda educazione artistica. Si scritturò il '40 col celebre Vestri, che divinò in lui l’attore caratterista. In fatti in questo ruolo esordì il '47 colla Fusarini, passando poi socio con Lottini il '48 e '49, a fianco della Nardi prima attrice e della {p. 216}Cazzola amorosa, con cui si trovò, sciolta la società, nella Compagnia di Antonio Giardini. Prese, ne l '54, il posto di Luigi Bonazzi nella Compagnia Lombarda, ammiratissimo dovunque, specialmente per la spontaneità e la verità della dizione che furon sempre le principali qualità dell’arte sua. Fu poi dal '60 all’ '80 in quasi tutte le compagnie d’Italia, vuoi di primo, vuoi d’infimo ordine. Tentò a Firenze la maschera di Stenterello, ma fu accolto a fischi ; nella Suor Teresa del Camoletti, per mancanza d’un’ attrice, sostenne la parte di Suor Giuseppa. Non troppo di notevole abbiam nella vita artistica del Papadopoli. Anche vi ebbe chi non riconobbe la grandezza dell’arte in lui, come quegli che non lasciò alcuna di quelle creazioni che eternan la rinomanza di un artista. Ma se creazioni tipiche nello stretto senso della parola non vi furono (nella recitazione del Papadopoli non era celato lo studio, ma, al dire di più contemporanei non era studio affatto), tutti i suoi personaggi acquistaron tale apparenza di realtà, che non era possibile il desiderar di più. Nè si fermò egli a un tipo unico : il suo repertorio fu de'più vasti e de'più svariati : ne furono il fondamento Michele Perrin, Il Sindaco Babbeo, Il Bugiardo, Il Burbero benefico. La Locandiera, Il Ludro, La gerla di Papà Martin, L'inquisizione di Spagna, L'Ajo nell’ imbarazzo, Il Barbiere di Gheldria e altro ; e il Tommaseo disse di Papadopoli che con un cenno rendeva un carattere, con una modulaziane di voce avviava una scena. Alle severità della critica odierna, Antonio Cervi, dal cui opuscolo (Bologna '96) ho tratto in parte questi cenni, contrapponeva queste parole di Alamanno Morelli : « Io che ho saputo contraffare le varie interpretazioni di tutti i più grandi artisti, non sono riuscito mai a contraffare quelle del Papadopoli, tanto esse erano naturali e semplici, e di una meravigliosa efficacia. » Come uomo, egli si formò una travagliosa vecchiaja, confortata a pena da qualche sussidio strappato ai colleghi doviziosi, o che gli eran stati compagni, o che sentivan pietà della miseria sua.

Se molto bene egli fece altrui (il beneficio è più presto scordato) molto male egli fece a sè ; e questo il mondo {p. 217}dell’arte non gli ha perdonato. Simile al suo predecessore della Commedia italiana a Parigi, Antonio Camerani, egli mangiò tutto quanto guadagnò, e più volte anche, non pago, mangiò a credenza. Con la propria coscienza egli potè transigere attenuando le decadi, e tal volta anche impegnando i cassoni de' comici inconsapevoli ; ma non mai con la tavola e con la gola : e si racconta che dopo una recita all’Argentina di Roma, una delle tante di addio, ch'egli era costretto a fare, dicean le gazzette, per trascinar meno peggio la vita travagliatissima, convitò tutti coloro che preser parte alla recita, dando fondo, in una gustosa cenetta, alle duecento lire che avea guadagnate nette per sè. Altra volta mise in tavola, come antipasto, ottanta lire di affettato ; altra ancora, de'petti di tordo per sessanta persone. Di lui si ha un libretto, e qui anche torna a mente il Camerani, intitolato Gastronomia Sperimentale (Zara, 1886), in cui sono le norme particolareggiate per allestire una buona serie di piatti dolci e di piatti di famiglia. Lo sciagurato vecchio è morto a Verona la mattina del 21 ottobre 1899. Avea sposato una Giuditta Girometti, mortagli il 2 novembre 1872 a Milano, mentr' era con Alessandro Salvini e Cesare Vitaliani. Di lui lasciò scritto Ernesto Rossi (op. cit., 164), come contrapposto alle tante accuse : « In questo lasso di tempo furono aggregati alla mia Compagnia la signora Santoni, la signora Baracani e Papadopoli, da tutti proclamato irrequieto, stravagante di carattere, sregolato negli interessi, e da me rinvenuto buono, compiacente, e persino economo e parco nel cibo, che è tutto dire…. »

Parisi Luigi. Comico rinomato dei tempi di Francesco Bartoli (1781), che sosteneva il ridicolo personaggio di Don Fastidio De Fastidiis con grande successo, specialmente nelle Avventure di Donna Irene o La sepolta viva, di Francesco Cerlone. Recitava anche in parti serie, ma con poco buon successo, essendo egli troppo noto come buffone. Lo dice il Bartoli uomo onorato, e ottimo marito.

{p. 218}Parisi Alessandra. Moglie del precedente, nota in arte col diminutivo di Sandrina, nacque a Torino da parenti napoletani, e fu accolta giovanissima, insieme al marito, in Compagnia di Pietro Ferrari. « Ella è — scrive Fr. Bartoli — d’una figura assai gentile, di sembianze geniali, e gli occhi suoi sono due vivi specchi in cui sulla scena conosconsi chiaramente gli affetti interni dell’animo, spiegando con essi valorosamente a meraviglia e il duolo e il gaudio e l’amore e lo sdegno. Ella è molto vivace, ed è inclinata a que' caratteri dimostranti tenerezza ed umiliazione, o abbattimento di forze con rammarico, ed afflittivi, appassionati contrasti. » E più oltre : « Merita questa attrice le più sincere lodi pel suo valor teatrale, e più per i di lei irreprensibili costumi, spiegando a sua gloria il candido vessillo d’una incorrotta onestà. » La brutta commedia del Cerlone, Le avventure di Donna Irene, sollevava, rappresentata da lei, all’entusiasmo. Nel carnovale del 1781 recitando a Bologna in Compagnia Menichelli, ebbe la destra gravemente ferita nell’atto di dividere i duellanti, e ne restò imperfetta nell’articolazione. Il triste caso fu celebrato dal Bartoli col seguente

SONETTO

Deh, se a turbar di bella donna il core
impugnaste l’acciaro arditi amanti,
e perchè fia che uno di voi si vanti
di ferirla, e recarle aspro dolore ?
Bell’ impresa ell’è questa, e bel valore
egli è oltraggiar chi sol si strugge in pianti ?
Scorni saran per voi, non saran vanti,
e puniravvi il tribunal d’Amore.
Donna di sì gentili illustri pregi
da voi s’oltraggia, e dite poi d’amarla,
se a una man le imprimete e doglie e sfregi ?
Itene ; in biasmo vostro il Mondo parla ;
ma di lei, e de'suoi costumi egregi
lode risuona, e ognun brama onorarla.

{p. 219}Parrini Luigi. Pisano, fu attore assai reputato nei primi del secolo, per le parti della tragedia alfieriana, tra cui va particolarmente citata quella del Filippo, nella quale fu ottimo. Passò in seguito al ruolo di caratterista, e si fece sempre notare per una singolare nobiltà, anche ne'personaggi più ridicoli. Ebbe il '25 compagnia in società con Filippo Zinelli, padre nobile, la di cui moglie Sofia Eloisa n’ era la prima attrice, e certo Pietro Simoni il primo attore. Ad avere un’idea del repertorio della compagnia, a codest’ epoca, basti sapere che il caratterista fece a S. Sepolcro la sera del 12 agosto la sua Benefiziata col Viaggio dei Pianeti, ossia Giove e Mercurio in Tianèa, azione allegorica spettacolosa, con promessa in un manifesto reboante, di mutamenti di scena a vista prodigiosi, di macchinismi non più veduti, ecc. Ma lo spettacolo, che fruttò ventiquattro colonnati, fu giudicato dal cronistorico anonimo di quella stagione, infame.

Il Parrini morì nel '32.

Parrini Clementina. Moglie del precedente, nata Lenzi, recitava con molto brio le parti di servetta. La troviamo il '24 in Compagnia di Luigi Fini, di cui ci ha lasciato un curioso notiziario un attore della compagnia : forse Vincenzo Bellagambi (V. Rasi, Il Libro degli aneddoti. Firenze, Bemporad, 1898), il quale ci fa anche sapere che la Parrini era divisa dal marito e conviveva con Ercole Gallina, il primo attore, da cui ebbe il 3 gennaio del '26 una bambina che le morì il 7 successivo.

Parrino Domenico Antonio, napolitano. È ben poco ciò che lasciò scritto Fr. Bartoli di questo comico egregio per le parti d’ innamorato, sotto nome di Florindo, e non meno egregio istoriografo della sua patria. L'opera : Teatro eroico e politico del governo de' Vicerè del Regno di Napoli dal Tempo del Re Ferdinando il Cattolico fino al presente, pubblicata a Napoli il 1692, ebbe l’onore di due ristampe, ch'io sappia, l’una del Gravier nel 1770, l’altra del Lombardi nel 1875. A questa aggiungiamo {p. 220}le Memorie delle notizie più vere, e cose più notabili e degne da sapersi, accadute nella feliciss. entrata delle sempre gloriose Truppe Cesaree nel Regno, ed in questa Città di Napoli, pubblicata dall’ autore il 1708, in 12° ; e la Guida de' Forestieri per la Città di Napoli, stampata il 1725. Il 1675 aveva stampata a Napoli con la data di Venezia una commedia tradotta dallo spagnuolo da altro comico : Amare e fingere, che fu poi ristampata davvero a Venezia, e più tardi a Bologna. Il Bartoli lo dice Comico al servizio di S. M. la Regina di Svezia, e chiude il suo breve cenno facendolo morire intorno all’anno 1730.

Nell’Archivio di Modena giacciono, tra l’altre, inedite alcune lettere di lui, o lui concernenti, dalle quali possiamo avere qualche notizia sicura sull’arte sua e sulla sua vita di comico. Il 1675 arrivò a Mantova da Napoli, comico del Duca di Modena, come abbiamo da una lettera di Alfonso d’Este, il quale chiamandolo principal parte della Compagnia e che si è strecto con promesse di Regalarlo bene, propone a quel Duca non gli si dien meno di 25 dopie, essendo questo un huomo che à testa. L'elenco della compagnia del 1675, in cui Parrino è detto Pannini per errore, è dato al nome di Areliari Teodora. Anche il 9 aprile del '76, il Duca di Mantova ringraziava quello di Modena dell’avergli ceduto Florindo pel futuro carnevale ; e promette di proteggerlo in riguardo dell’efficaci raccomandationi che Sua Altezza à di lui prò gl’ingiungeva : e il 29 marzo '77 lo rimanda a Modena, con grandi elogi all’ artista per le recite di Venezia e per quelle di Mantova.

Il 7 giugno '77 da Genova scrive distesamente al Duca di una aggressione a mano armata per opera di certo Filippo Castellano di Napoli, che n’ebbe mandato da cotal feudatario di Monferrato, il quale a sua volta avrebbe agito d’ordine del Duca di Mantova in persona, indignato contro Florindo che ricusò di servilo, allegando in iscusa il suo prossimo ritorno in patria, e passando invece al servizio del Duca di Modena. Del 15 agosto 1677 abbiamo una lettera del Dottore Gio. Antonio Lolli, nella quale si accenna ad un inganno di Florindo, {p. 221}che non lo mostrerebbe, a dir vero, uno stinco di santo. Egli mandava a richiedere col mezzo d’un cavaliere e d’una lettera le sue cinque casse già pervenute a Verona, ove doveva recitare nella compagnia del Duca di Mantova, e dal Lolli ritirate. Il cavaliere, avute le casse, richiese il Lolli della lettera per vedere, diceva, se il numero e la specie di esse corrispondevano alla descrizione fattane da Florindo ; e datagliela il Lolli in buona fede, quegli se la ritenne, e non volle a niun patto restituirla. Sembra poi da una lettera di certo Capello dell’ 8 dicembre al Duca di Modena, che fra le casse di Florindo ne fosse una di Finocchio, data in errore, e che non gli era possibile recuperare, perchè andata in mano d’altri. Ma Florindo scrive da Mantova il 23 agosto : « le mie Robbe consistenti in cinque casse, per un ordine fattomi fare ad un de' miei compagni a Verona, sono state consegnate non so a chi, mentre nell’ ordine s’esprimeva che si dassero al Cav.re che lo hauesse presentato. Mi persuado però che siano ancora in quella città, mentre non ne tengo altra notizia. » E si raccomanda vivamente al Duca, perchè componga la faccenda. Ma pare che il Duca di Mantova l’avesse davvero a morte col pover' uomo, il quale per non commessi delitti fece rinchiudere in una prigione, riuscendo vane per liberarnelo le intercessioni di Altezze e Potentati. Privo della libertà, fatto inabile al lavoro, privo fin anche delle robbe, frutto di tant’anni di fatiche, non ha più scampo ormai che nella morte. Ma neanch'essa lo soccorre. Ultima delle lettere in cui son descritti gli sciagurati accidenti, è quella del 21 ottobre 1678, interessantissima, che riferisco intera :

Molto Reu.do Sig.r mio Sig.r Padrone Coll.mo

Il mio fiero destino mi riduce agl’estremi, mentre doppo una si lunga serie di disgrazie, e miserie, più fiero, et implacabile, che mai si fa conoscere.

Mercordì dunque di notte, accompagnato da 5 huomini armati, trè delle guardie, e due della Casa del mio hospite, fui d’improuiso condotto fuori di Mantoua, doue fui costretto lasciare il resto delle mie poche Robbe (mentre degl’Abiti è un pezzo che sono priuo) et un mio Nipote febricitante, quale della Patria fortiuamente uenne à ritrouarmi per darmi parte dell’ultimo esterminio di mia Casa ; e li detti huomeni mi conducono per {p. 222}certo nel Castello di Casale ; se bene nel partire mio da Mantoua mi fecero credere di incaminarmi alla Patria con intiera libertà.

Pur consideri pietosamente la Paternità Sua Molto Reu.ª, qual sia il mio stato infelice. Il Giouine, ch' assisteua al mio negozio di libri ; doppo hauere pagato di mano propria molti mesi del suo salario ; se n’ è d’improuiso fuggito in Messina in una Naue Inglese, portandosi uia tutto il buon della Bottega. Due fanciulle mie Nipoti da marito, se ne stanno in Casa de miei Padregni, con poca pace, et è facile, ch' un giorno ne siano scacciate per la mia absenza. Appresso di me non ho nulla ; ne mai ho ueduto in tanti mesi, toltone il Vitto, un soldo solo per riparare all’altre cotidiane mie necessità ; onde non mi auanza altro, che una misera, e mal condotta uita, essendo per tanti guai, peggio, che morte ; e Dio sà quello sarà di mè, doppo, che mi haueranno posto nel sudetto Castello. Eccomi pertanto tutto lacrime à piedi della Paternità Sua Molto Reverenda à supplicarla per amor di Dio à uoler fare quelle parti di pietà, che le pareranno più proprie, appresso cotesto clementissimo Padrone, perche dall’abisso di tante miserie, e calamità mi aiuti à sottrarne. Sono ridotto in mendicità estrema, e senza quel poco, che haueuo riseruato per la mia Vecchiaia alla Patria, per causa, non dico già della prontezza del mio obedire gl’altrui sourani comandi ; ma per i miei peccati chiedo pietà, e sollieuo, quale spero dalla generosa benignità di un tanto Principe, per mezzo dell’efficacissimi offizii della Paternità Sua molto Reuerenda. Non fò poco à scriuere queste due righe di fretta qui in Cremona, in doue passo costandomi più oro, che inchiostro ; si compiaccia far le mie parti con il S.r Ecc.mo e con il S.r C. Ronchi ; e per mezzo di qualche Religioso, mi facci penetrare à Casale sudetto qualche speranza e conforto, per non farmi morir disperato ; che se non fusse per la salute dell’anima ; à quest’ora mi sarei tratto fuori di tutti gl’affanni.

Mi è fuggito il poco di tempo che haueuo : me le raccomando per le uiscere di Maria Vergine, e le faccio profondissima riuerenza restandole pieno

suo schiauo
D. A. P. detto Florindo.

Il giugno dell’ '80 partì da Modena, e giunse dopo ventidue giorni a Napoli, d’onde scrisse al Duca mandandogli una descrizione in versi del suo viaggio, non rinvenuta nel carteggio. Annuncia il gran disordine trovato ne'suoi interessi, che muove alle lagrime gli stessi nemici ; ci vorran parecchi anni per saldar tutte le piaghe ; ma intanto, promettendo di essere l’ottobre a Modena, come da contratto, si raccomanda alla munificenza di S. A. perchè voglia soccorrerlo nel prossimo viaggio. Finito il carnovale a Modena, Florindo si restituì in patria, e il Duca lo raccomandò con ogni larghezza, il 3 marzo 1681, a Francesco Magnacavallo suo Agente a Napoli e al fratello di lui Ortensio, dei quali Florindo ebbe sempre a lodarsi. L' '83 egli chiedeva al Duca una lettera di raccomandazione diretta al Vicerè di Napoli, che subito ottenne. Il 28 di dicembre dell»86, augura {p. 223}da Napoli al Duca il buon capodanno, e ci apprende che ha già abbandonata l’arte comica : io, che a piedi dell’ Altezza Vostra sacrificai gli ultimi sudori de' Teatri, spogliandomi affatto del laborioso coturno ; mi fo lecito hora comparirle colla douuta deuozione auanti ricouerto solo della liurea d’un ossequiosissima osservanza per presentare a V. A. i Voti, ecc., ecc. Il 25 febbraio dell’ '87 manda al Duca i suoi devoti mirallegri per la favorevole impressione da lui lasciata alla Corte e in tutta Napoli, e il primo di marzo il ben tornato a Modena, raccomandandoglisi vivamente per ottenere a un congiunto dottore la provvista d’un governo, per la quale ebbe a scrivere parecchie lettere. Altre molte ne abbiamo insignificanti di augurio, o di congratulazione, o di raccomandazione, o d’invio di doni : talvolta di una cartella miniata superbamente da grande artista di passaggio in Napoli, tal altra della pianta e relazione di feste, tal altra ancora del Teatro Eroico de' Vicerè. Di più, l’Archivio di Modena conserva un sonetto, che qui riferisco, e che ci dà un saggio dello scrivere di questo artista letterato.

La lode degnissima | Ossequioso Tributo all’Eccelsa Grandezza | dell’Altezza Ser.ma di Francesco d’Este Duca | di Modona Reggio etc. | Cesare Augusto del nostro secolo.

SONETTO

Trattò Cesare il brando, à cui soggiacque
D'Ibero il Rio, co' gli erti Sassi Alpini :
E de l’Ibernia, à cui fan mura l’acque,
Fur tributarij, e riuerenti i Pini.
Trattò penna erudita, e sol gli piacque
Vsar tratti magnanimi e diuini.
Quindi al facondo dir Roma si tacque,
E gli fregiò di uerde alloro i crini.
Così fece ammirar nel Ciel la Luna,
Cosi fece stupire il Gang e' il Tago,
E la Ruota spezzare à la Fortuna.
{p. 224}Ma s’oggi di mirare il Mondo è uago
L'Opre d’Augusto, e le Virtudi in una :
Di Francesco à mirar uenga l’Immago.

Nuoua testimoniansa del profond. mo ossequio di Dom. co Ant. º Parrino.

Paruti Giovan Battista e Maddalena Francesca. Furono scritturati nella Compagnia del Duca di Modena, a cominciare dal 15 di luglio 1686. Egli sostituì nelle parti di primo Zanni, collo stesso nome di Finocchio, il Cimadori, e lei recitava le serve col nome di Pimpinella, titolo, già nel 1588, di una commedia del signor Cavalier Cornelio Lanci, pubblicata in Urbino da Bartolomeo Ragusij.

Pasetti Lodovico. Nato a Venezia al principio del secolo XVIII, passò dall’impiego di fattore all’arte del comico, nella quale riuscì felicemente sotto la maschera del Pantalone. Fu anche buon musicista, e cantò più volte negl’ Intermezzi. Dopo di essere stato in varie compagnie si recò in Germania, ov' ebbe qualche fortuna ; ma venuto vecchio, e tornato in Italia, morì nell’indigenza a Venezia il 1781.

Pasquali Elvira. Figlia di un ostetrico, nata a Roma il 1845, e cresciuta a Milano, dove il padre, mazziniano, dovè rifugiarsi, entrò seconda amorosa nella Compagnia Monti e Preda, in cui ebbe compagna Virginia Marini. Fu il '61 amorosa e prima attrice giovine con Ernesto Rossi, e il '62-'63 con Amilcare Bellotti e Calloud, coi quali stette più anni al fianco di Anna Pedretti. Fu in Ispagna con Achille Majeroni, e vi tornò poi capocomica, ma con poca fortuna. Ritiratasi {p. 225}alcun tempo dal teatro, vi ricomparve il '74 in Società con Emanuel, poi, finalmente, sposatasi a un giovane egregio, se ne allontanò per sempre, e andò a stabilirsi con suo marito a Londra, ove conduce tuttavia una vita agiatissima. Fu attrice di molto pregio, e si deve forse alla sua mente scomposta, se non potè esser noverata fra le primissime del suo tempo, com’avrebbe meritato.

Pasqualini Albina. Attrice rinomatissima per le parti comiche, fu unica nel rappresentare I viaggi di una donna di spirito, dell’artista conte Bonfìo. Nacque presso Urbino l’anno 1801 ; e la vediam dilettante ammiratissima il 1817 nel Teatro de'Pascolini rappresentare La famiglia proscritta, Il quadro della moderna filosofia, e soprattutto La Locandiera, che dovè ripeter più sere tra le acclamazioni de'suoi concittadini. Esordì all’ Arena del Sole di Bologna in Compagnia Pisenti e Solmi, di cui, dal 1823, fu per più anni la prima attrice assoluta. Passò poi a far parte di quella Romagnoli e Berlaffa, e nel 1837 ne formò una essa stessa, che comprendeva attori di grido, quali il Fabbri, il Wellenfelt, il Modena padre. Scese coll’avanzar dell’età a sostener parti secondarie, e morì a Trieste in una piccola compagnia il 1854.

Diam qui a titolo di curiosità l’ Addio e Ringraziamento ch'ella soleva recitare al pubblico l’ultima sera della stagione :

Che è mai la gioja de'Mortali ?… Un’aura,
Che lievissima passa, un fior che spande
Le vergini dal sen grazie odorose ;
Ma un fior che cade coll’olezzo e muore.
Se così libra il Fato, a che dolente
{p. 226}Piegar la voce alle querele, e 'l cupo
Mesto sospiro risvegliar dell’Eco ?
Ma vinse il duol, ma sull’ incerto ciglio
Luce stilla di pianto ; un brividio
Mi ricerca le membra, e l’alma anch' essa,
L'alma rifugge sbigottita e muta,
E ad altra sponda…. Ah non v'approdi, e in pria,
Fatta signora di sè stessa, un detto,
Un sospiro, un addio sciolga, e rimbombi
Di nostre voci al suono alterno, e giunga
Alle Valli del Serchio, e lo ripeta
Del bel Tirreno ancor la riva e l’onda.
Or che dirovvi io mai ? Come poss’ io
I favori narrar, que'dolci modi,
L'accoglienza gentil che a noi porgeste ?
Li sente il cor, ma non sa dirli il labbro.
Perchè tanto affrettò l’invido Fato
Questo triste momento, perchè volle ?…
Dunque dovrò, fra mesti lai partendo,
Così lasciarvi ?… Ah non fia mai ; l’affanno
Ceda a ragione : il sospirar che giova,
Quando di rivedervi alta speranza
Profondamente ho nel mio cor scolpita ?
Pur questa speme che avverar si debbe
Può alla perdita mia recar sollievo.
Allettata da questa, in me rinasce
Vigor novello a scior la voce estrema,
Che spiega a Voi d’un grato core i sensi :
Parte di questo cor con Voi qui lascio ;
E parte meco traggo, in cui scolpita
Sta l’immagine vostra, che giammai
Cancellar potrà 'l tempo, che giammai
Sparger d’oblio, che mai…. ma tronca i detti
Un doloroso, e fra i sospiri espresso,
Non dal labbro, dal cor ultimo addio.

Pasquati Giulio. Padovano, fiorito nella seconda metà del secolo XVI, appartenne in qualità di Magnifico alla gran Compagnia de'comici Gelosi, e proprio quando la lor rinomanza era al colmo. Anzi in essa buona parte ebbe il Pasquati, chè, {p. 227}non solo, a dire del Porcacchi, s’ era in dubbio qual fosse maggiore in lui o la grazia, o l’acutezza dei capricci spiegati a tempo e sentenziosamente nella rappresentazione data in onore di Enrico III al Fondaco de'Turchi a Venezia la sera delli 18 luglio 1574 ; ma lo stesso Re, che desiderò poi di avere la Compagnia in Francia, scrivendone al suo ambasciatore a Venezia, Du Ferrier, il 25 maggio '76, gli chiedeva e raccomandava sopra tutto il Magnifico che aveva recitato a Venezia davanti a lui.

Prima di andare a Venezia, Giulio Pasquati si trovava a Milano con la Compagnia al servizio di Giovanni d’Austria, e, richiesta di ufficio la necessaria licenza, e ottenutala, pregò anche il Residente « di rilasciare un certificato, nel quale si {p. 228}dichiarasse la ragione del viaggio, temendo che nel passare per Mantova, quel Duca Guglielmo Gonzaga, o, forse meglio, il Principe Vincenzo, non li trattenesse, conoscendo assai bene qual fosse la passione di quei principi per il teatro, con intenzione fors’ anco di giovarsene per stabilir patti migliori a una prossima occasione. » (Solerti e De Nolhac, Il viaggio in Italia di Enrico III. Roux, '90). Una parentesi : Che i Gonzaga fossero appassionatissimi pel teatro è fuor di dubbio ; ma è anche certo che la loro grande passione non andava discompagnata dall’ambizione di avere in tal materia la supremazia ; nè da questa lettera, giacente nell’Archivio di Modena, della quale non è riuscito ad alcuno finora trovar conferma nelle carte dell’Archivio Mantovano, nè dalle prigionie patite dal Parrino e da tanti, alla liberazion de'quali s’occuparon patrizj e potentati in vano, nè dalla cacciata da Mantova degli stessi Gelosi il '79, ci sarebbe certo da dirli stinchi di santo. Pubblico la lettera intera, perchè mi pare uno de' più strani e interessanti documenti del nostro teatro.

A 28.

Anchora che da Mantoua non habbia hauuto tal auiso nondimeno qua si dice ch' essendo uenuto capriccio al Duca di uedere una Comedia dai Gelosi che fosse tutta redicolosa et faceta, i recitanti lo seruirno con farne una ingieniosissima et ridicolosissima solo che tutti i recitanti erano gobbi della qual cosa Sua Altezza rise tanto, et tanto piacere se ne prese che niente più, finito il spasso, chiamo quei Principali comedianti et disse qual di loro era stato l’inuentore. Il Zani, diceua mi mi, Il Magnifico diceua esser stato lui, et Gratiano uoleua la palma, pensando ogn’uno d’hauerne un grasso premio. Il Duca li fece pigliar tutti 3 et furno condannati alla forca, le gentildonne radunate insiemme tutte di Mantoua suplicaro per la gratia, et non fù possibile mai d’hauerli, solo che ottenero di farli i lacci, a lor modo i quali furno di fune così fragida che tutti 3 cadero in terra, et la città gridò gracia gracia, et benche i meschini fossero condotti alle prigioni semiuiui et che fossero tosati et salassati nondimeno il Duca staua anchor risoluto di uolere che fossero impiccati di nouo, et così, ni e, stata detta da bon autore, ma non gia scritta da quelle bande.

Di fuori : Auisi di Roma di 28 di luglio 1582.

E scusate se è poco. I tre eran dunque il Panzanini, il De Bianchi e il nostro Pasquati : e la favola in discorso era forse l’antichissima delli tre gobbi, ridotta da' Gelosi a scenario, e passata poi tra le opere del Tabarrino. Tornando al Pasquati, {p. 229}egli recitò di nuovo a Venezia con la compagnia alla presenza di Re Enrico il 21 al Palazzo Ducale una tragedia di Cornelio Frangipani, musicata dal Merulo, e il 24 al Palazzo Giustinian una pastorale. Della tragedia del Frangipani è detto nell’avvertimento premesso alla seconda edizione (Ven., Farsi, 1574), che tutti li recitanti hanno cantato in suavissimi concenti, quando soli, quando accompagnati…. Non potè, il '76, recarsi in Francia, poichè, secondo la risposta del Du Ferrier al Re (22 giugno) egli trovavasi momentaneamente alla Corte dell’Imperatore (Rodolfo II). Vi si recò però il '77, recitando prima a Blois, poi a Parigi con immenso diletto di Enrico.

{p. 230}Ora vediam di tracciar qui cronologicamente l’itinerario dei Gelosi (coi quali però non si può affermare se fosse sempre il Pasquati, mutando egli, come tutte le celebrità, di compagnia anche per una sola stagione), riassunto sui varj studj apparsi in giornali e riviste e volumi dal D'Ancona, e arricchito poi di aggiunte dal Solerti nel suo studio in collaborazione col Lanza sul Teatro ferrarese nella seconda metà del secoloxvi. Si trovavan nel 1569 a Milano ; e nel '71, o forse prima, pare andassero a Parigi. Del '72 passaron la primavera a Milano e l’autunno a Genova. Del '73 l’estate a Ferrara e l’inverno a Venezia. Del '74 furon, come s’è visto, a Milano e a Venezia, e del '75 a Milano e a Firenze ; e forse a Vienna, riferendo il Trautmann, che in quell’anno fu largita la somma di cento fiorini a Franceschina Commediante, che era la serva de' Gelosi (V. Roncagli), e a'suoi compagni per aver recitato una commedia davanti a S. M. Imperiale. Son di nuovo a Ferrara nel carnovale del '76, e passan di nuovo in Francia nel '77. Sono nel '78 a Firenze e al principio del '79 a Venezia. Parte dello stesso anno pare fossero a Ferrara ; certo il maggio erano a Mantova, dove alloggiavan precisamente al Biscione, e d’onde furono scacciati il 5 di maggio con ordine reciso e immediato del Duca. Forse il brutto fatto si collega a quello bruttissimo dell’ '82, in cui, graziati, voller per rappresaglia far colla commedia dei gobbi allusioni men che rispettose ? Dal maggio in poi si recarono a Venezia, Genova e Milano. Furon l’ '80 a Bergamo, ove si vuole, desumendolo dal madrigale di Cristoforo Corbelli (V. Alberghini) che i Gelosi si congiungessero momentaneamente alla Compagnia de'Comici Uniti ; poi a Milano, d’onde ancora ebber minaccie di sfratto ; poi a Pisa e a Venezia. L' '82, come abbiam visto dal riferito documento romano, eran di nuovo a Mantova ; l’ '83 a Milano, l’'85 a Firenze e l’ '86 a Bologna, d’onde chiedevan licenza al Duca di Mantova di recarsi colà a recitare. Vi si recavan certo l’ '88, passando poi con raccomandazioni del Duca, per essersi diportati bene, a Milano. Furono il maggio dell’ '89 a Firenze, e il settembre a Milano, {p. 231}ove tornaron poi il novembre del '90. Li vediamo il '91 e il '94 a Firenze, il '96 a Genova e a Bologna, e dal '99 al 1604 in Francia, quando nel ritorno, morta in Lione la prima attrice Isabella Andreini, la Compagnia si sciolse.

S'è detto che non si potrebbe affermare se il Pasquati fosse rimasto sempre coi Gelosi. Io credo, per esempio, si debba senz'altro riconoscere il Pasquati nel Pantalone del documento Romano riferito dall’Ademollo ne'suoi Teatri di Roma, che è un Processo dell’archivio del Governatore pel 1565, nel quale, accanto a cotesto Pantalone, figura Soldino : quel Soldino che noi vediamo del 1570 a Vienna congiunto a un Julio, a cui furon pagati l’ 8 aprile dodici talleri, e che molto probabilmente è il nostro Pasquati. Del 1585 poi abbiamo un invito del Duca Vincenzo di Mantova a Ludovico da Bologna, fatto col mezzo del Pomponazzi a Milano, perchè si rechi a recitarvi nella Compagnia della Diana ; al quale invito si risponde non potere il Gratiano accettare, ove non abbia insieme il Pasquati. E nello stesso anno a Vienna si accordaron per grazia speciale cinquantotto fiorini al Magnifico che recitò a {p. 232}un pranzo di Corte ; nel quale il Trautmann non è alieno dal riconoscere il Pasquati.

Oltre alle testimonianze del Porcacchi su l’arte del Pasquati, ne abbiam del Garzoni nella Piazza Universale, e dell’Andreini (V.) nelle Bravure. Pantalone (l’etimologia non sappiam dire con sicurezza se si trovi nella frenesia dei mercanti veneziani di acquistar terre nel nome della Repubblica, piantando il lion di S. Marco su l’Isole mediterranee, ciò che li faceva derisi dal popolo, che li chiamava piantaleone…., o pure nell’antico patrono di Venezia, San Pantaleone), riproduce il vecchio borghese veneziano. Fu ne'primi tempi semplice, di buona fede, talora amante, talora marito, poi, un secolo più tardi, padre di famiglia, economo più che avaro, moralista, predicatore, nojoso. Dalle speciali attitudini de' varj artisti si diedero al Pantalone altri caratteri, che altri poi ne generarono di ogni specie.

Nelle commedie a soggetto egli appare in tutte le salse…. E in uno degli Scenarj corsiniani, Terza del Tempo, lo vediam tenuto sulle spalle a braghe calate dallo Zanni, e frustato a nudo…. da Lidia sua moglie.

Il Bruni (V.), fra i suoi prologhi ne ha uno anche pel Pantalone, che metto qui a dare una chiara idea di quel che fosse la maschera a'primi del '600.

prologo da pantalone

Se l’homo animal da do man (Magnifici, e Zenerosi Signori) è solo in questo mondo che vuol tegnir el mondo sotto de lù, e tutti i altri viuenti pi che sotto i piè, non desse alle volte in tel bestial noo ghe xe dubbio nigun chi el pareraue el padron de sta casa, el Principe de sta Republica, el Peota da sta Naue, el Monarca de sto Impero e l’anema de sto corpo : daspuò che el mondo xe vna Naue che altre volte se affondete in t’vn deluvio salvandose solo un battello. Una casa dove la natura vivi fa che habitemo in soffita, e morti la ne manda in magazen sotto terra. Vna republica che el primo fondador ordenò che fina le bestie vivesse in libertà. Un imperio dove l’ huomo per la rason vien coguosuo della razza real ; e un corpo che per le sue alterazion o vicisitudini ne fa vegnir in cognizion delle sue infirmitae. Ma per che co diseva l’huomo non cognosendo el so ben, contrastando alla so felicitae da si medemo se fabrica mille desgusti per viver in continue borasche. Considerè no ghe manca chi crede ch'el non haver robba sia una gran felicità, vordè quel balordo de Crate che buttò via i so bezi, e Antippo che venduo tutta la so facultae la butete in mar per che sti balordi diseva che i ghe impediva i studij e {p. 233}nu altri per hauer occasion de studiar con tanta industria cerchemo de cavar soldi da vu altri ; e molti de vu cognosando che i soldi son de comodo e non descomodo, cosi mal volontiera i ne i da e cosi facilmente i ne stronza la paga. Altri dise che l’esser orbo è un gran contento ; openion de quel filosofastro di Asclepiade, che vegnuo orbo ringraziette el cielo che per l’auegnir el faraue andà accompagnao dove prima l’andava solo, e non havevane abuo tanti impedimenti a i so studij. E vu, signori, chi non vorave haver cent occhi per veder in questa cittae donne così belle, fabriche cosi pellegrine, mercanzie così eccellenti, gentill’ huomeni così illustri. Poltroni recever pugni così eccelsi, e bravi correr così forte ? Altri se duol perchè so mojer se troga spasso con un so vesin mantegnando una opinion così diabolica che le corne nassano all’ homo quando se semena in te le vaneze della donna ; sentì cari Signori a consolazion de sti poveri homini. Se l’honor è un premio della virtù, perchè un homo che viva virtuosamente benchè so mojer sia poco manco che puttana non halo da esser premià de honor ? E se l’honor xe un abito dell’anima di chi opera ben : com uodo le aggion d’un altro el pon far vituperoso ? E se tutte le virtuose azzion d’una donna non puol far honorao un huomo infame per che la infamia d’una donna puo desonorar un huomo da ben ? Altri han opinion ch'el non pagar i comedianti sia opera de carità, e nù havemo opinion che chi no paga…. l’opinion xe brutta, non lo vogio dir ; però paghè che farè ben. Ma se anderave troppo in longo se de tutte le opinion eronee de l’huomo volesse trattar. Vegnemo solo alla considerazion che costu animal rasonevole se serva cosi mal della rason. L'huomo è un animal prodizioso composto de pezzi contrarij, l’anema xe come un principe, el corpo come una bestia, con tutto zò queste do parte se abbrazza così ben tra loro, che i non puol vivere inseme senza verra, ne separarse senza dolor ; podendosi con rason buttar in occhio l’un all’altra de non poder con ella ne senz'ella vivere. L'huomo se può distinguer in tre parti : anima e spirito e carne : el spirito e la carne han tiolto in mezzo l’anema ; el spirito per farme intendere xe come el Principe nella republica : non spira e non respira che beni del ciel al qual sempre varda, la carne per contrario xe come la lega d’un popolo tumultuario e furfante, la scovazera e sentina dell’huomo, parte che cala sempre al mal. E l’anima nel mezzo xe come i principali del popular : è diferente tra 'l ben el mal, tral merito e demerito ; vien solecità dal spirito e dalla carne, e secondo da qual parte se butta la si fa spirituale e buona, o carnale e cattiva, come sarave a dir el nostro Portonier xe l’anemo, la cassetta el spirito, e le so scarsele la carne. Questa anima ha quei bezi in man, la cassetta el solicita a meterghei drento, le scarsele mostrandoghe l’util proprio prega per elle : segondo a quel che el se resolve el doventa, huomo da ben o laro. Da queste resoluzion dell’anema ne succiede i varij pensieri e stravagante opinion dell’huomo parte delle quali ne ho trattà cosi in compendio. Concludo dunque che l’huomo xe felice o misero, bon o cattivo segoudo che lu medesmo vuol. Però se in potestà dell’homo xe d’operar ben e mal, che porà sforzar {p. 234}vu, signori, a criar adesso che xe tempo de star zitti ? chi porà sforzar la vostra modestia a non sopportar i nostri mancamenti ? Nigun ; ste dunque ziti, che nu parleremo cercando con una bella comedia recompensar el premio abuo da vu Signori alla porta, e la grazia che receveremo del vostro silenzio.

A ben sostenere la parte di Pantalone nella commedia a soggetto, il Perucci dà questo insegnamento :

Chi rappresenta questa parte ha da avere perfetta la lingua veneziana, con i suoi dialetti, proverbi e vocaboli, facendo la parte d’un vecchio cadente, ma che voglia affettare la vioventù ; può premeditarsi qualche cosa per dirla nell’occasioni ; cioè, persuasioni al figlio, consigli a' Regnanti o Principi, maledizioni, saluti alla donna che ama, ed altre cosuccie a suo arbitrio, avvertendo che cavi la risata a suo tempo con la sodezza e gravità, rappresentando una persona matura, che tanto si fa ridicola, in quanto dovendo esser persona d’autorità e d’esempio e di avvertimento agli altri, colto dall’amore, fa cose da fanciullo, potendo dirsi : puer centum annorum, e la sua avarizia propria de'vecchi, viene superata da un vizio maggiore, ch'è l’Amore, a persona attempata tanto sconvenevole ; onde ben disse colui :

A chi in Amor s’invecchia, oltre ogni pena
si convengono i Ceppi e la catena.

Dopo di che l’autore dell’Arte rappresentativa dà alcuni esempi di Consiglio, di Persuasiva al figlio, di Maledizione al figlio….

Quanto al costume, si posson col soccorso dell’iconografia notare alcune contraddizioni in cui sarebber caduti gli istoriografi del nostro teatro. Tutti son d’accordo nel dare in sul principio alla maschera di Pantalone il calzone intero a coscia, o maglione, mutatosi poi in calzone alla spagnuola a mezza gamba con le calze…. Ma il Pantalone di Martinelli (pag. 229) antecedente al callottiano (pag. 227) ha senza dubbio il calzone corto.

Il colore restò invariato : giustacuore, calzoni e calze rossi, e zimarra nera. Il Sand, riferendosi forse al costume degli antichi veneziani del Gran Consiglio, dice che il Pantalone da principio aveva la zimarra rossa, ma a me non fu dato rintracciarne esempio. Una nuova specie di maschera di Pantalone o Magnifico ci ha dato il Bertelli (V. vol. I, pag. 180) con la coccia intera di cuojo raffigurante un cranio spelacchiato, e lasciante gli occhi scoperti, come quella del Dottore, e una più nuova ancora un anonimo miniaturista in un piccolo {p. 235}interessantissimo album fiorentino di ricordi, del secolo xvi, rappresentante, a quanto pare, una serenata di maschere, e che traggo dal Museo civico di Basilea (V. pag. 233) ; ma qui trattasi forse di una semplice chiassata carnevalesca, come nel frontespizio al Triompho e Comedia fatta nelle nozze di Lipotoppo, con Madonna Lasagna, che trovo nell’Università di Bologna (V. pag. 231), nella quale il costume non è osservato a tutto rigore.

Anticamente il Pantalone o Magnifico ebbe anche tal volta barba intera e lunghi capelli bianchi, come si vede nello stesso Pantalone di Martinelli, e in quelli di Trausnitz (V. Gio. Maria) ; e oggi, in Francia, esso appare coi capelli e la barba incipriati e in costume alla Luigi XV.

Talora fu veduto a viso scoperto, ma generalmente con una mezza mascheretta scura dal lungo naso aquilino, a cui fa contrasto una barbetta a punta arricciata all’insù.

Pasta Francesco. Nato il 4 ottobre 1839 a Roma, da parenti non comici, si diede al teatro giovanissimo, ove non fece i soliti progressi con la solita rapidità, forse per la tempra sua di uomo freddo, calmo, che si rispecchiava su la scena. A lui mancavano, se ben ricordi, gli scatti della grande passione, e soprattutto le sdolcinature dell’innamorato romantico. Per questo forse la sua carriera, che fu lenta fino all’entrata {p. 236}in Compagnia di Calloud e Diligenti nel 1872 come primo attore a vicenda col Diligenti (era stato quattr'anni primo attor giovine in quella di Peracchi), diventò poi rapidissima, affermandosi egli, un anno dopo, primo attore assoluto nella Compagnia N. 1 di Bellotti-Bon, l’aspirazione suprema dei giovani artisti, al fianco di Adelaide Tessero. Francesco Pasta era nato, si può dire, primo attore, sì pel fisico, era di figura più tosto forte e di fisionomia marcatissima, sì pe 'l carattere, come s’è detto, freddo, talvolta serio, talvolta anche accigliato. Aggiungerei anche che il Pasta fosse l’ultimo tipo di primo attore, come s’intendevan una volta, e come dovevan essere : che cominciavan per noi giovani da Alamanno Morelli, e finivan con Giovanni Ceresa. Resta un triennio nella Compagnia N. 1, poi passa il ' 76 fino al ' 78 in quella N. 2, al fianco di Pia Marchi-Maggi, da cui si allontana per entrar nella Compagnia di Alamanno Morelli, con Adelaide Tessero prima donna. Nell’'81 eccolo primo attore e direttore della Compagnia Casilini e Meschini. Un anno di transizione. Pasta, nella sua austerità, nella sua perspicacia, nella sua freddezza, presentiva tutti i requisiti del capocomico…. E non ebbe da aspettar troppo…. E formò l’anno dopo società con Annetta Campi, e mostrò subito le più chiare attitudini agli affari. La società fu delle più fortunate per cinque anni, dopo i quali subentrò alla Campi la Boetti-Valvassura, ma per brevissimo tempo ; chè il Pasta formò da solo una Compagnia di cui eran parti principali Adelaide Tessero e Pierina Giagnoni, e con cui si recò per la prima volta in America, raccogliendovi onori e danaro. Tornato in Italia, riposò un anno per crear poi la società Pasta-Garzes-Reinach, nella quale fu assunta al grado di prima attrice assoluta, e con fortuna inattesa, Tina Di Lorenzo. Terminato il triennio, ne seguì un altro « Pasta-Di Lorenzo, » fortunatissimo, dopo il quale il Pasta (quaresima '900-'901) si unì con Virginia Reiter, con cui si trova tuttavia in qualità di socio e di direttore.

Patella Ettore. Nato a Padova il 1750 da civile famiglia, avea compiuti gli studj per darsi alla chirurgia, secondo il {p. 237}volere de'suoi. Ma in lui crebbe a segno la passione del teatro, che, un giorno, fuggito dalla casa paterna, si unì a una compagnia delle più mediocri, di cui divenne ben presto il sostegno, recitando con singolare perizia, e con meraviglia dei suoi compagni, i disparati caratteri di amoroso, primo attore, padre e tiranno. Morto improvvisamente il primo attore della Compagnia Battaglia (annegò nel Po con altri comici, mentre si recava da Pavia a Piacenza), il Patella andò a sostituirlo ; e, trovatosi in un campo adatto alle sue eccellenti qualità artistiche, potè ne'primi teatri d’Italia ottener successi clamorosi, confermati poi nel San Giovan Grisostomo di Venezia, dove, esordito col dramma di Monvel Clementina e Dorigny, tanto vi piacque, che la veneta aristocrazia disertò gli altri teatri per recarsi ogni sera a sentir lui, il quale, dopo alcune sere, nella creazione dell’Aristodemo di Monti e di Nerone nell’Agrippina di Pindemonte raggiunse il sommo del trionfo. Passò, acclamatissimo sempre, a Roma e a Napoli : ma quivi infermato, morì da tutti rimpianto il 1786, nell’ancor fresca età di trentasei anni.

Patriarchi Andrea, fiorentino. Buon legale, e accanito dilettante di cose drammatiche, formò una compagnia di accademici, che recitava al teatro della Piazza Vecchia, e che in breve gli fe'dar fondo al modesto patrimonio. Non dandogli l’animo che l’arte comica cedesse il campo alla forense, pien di coraggio condusse i suoi comici fuor di Firenze, per tutta la Toscana, in Lombardia e a Malta. Ebbe momenti di buona fortuna, ma assai fuggevole. Viveva ancora il 1781 perseguitato dalla sorte. Pubblicò a Bologna il 1764 pei tipi all’insegna di S. Tommaso d’Aquino una commedia in versi martelliani, intitolata : La Dama di spirito ; e altra in prosa e manoscritta, intitolata : I gelosi, viveva nel repertorio delle varie Compagnie.

Patti Elettra. Nata in Roma il 1839 da onesti negozianti, fu ammessa nell’agosto del '53 nella Filodrammatica Romana qual socia esercente, ed il 4 marzo del '59 vi dava la serata {p. 238}d’addio, scritturata prima attrice giovine in Compagnia Domeniconi, ove stette un anno con Virginia Marini servetta e Silvia Fantechi generica giovane. Passò poi in quella di Alessandro Monti, ove stette l’intero triennio '60, '61, 62, poi in quella de' Fiorentini di Napoli a sostituirvi la Virginia Marini, con Tommaso Salvini primo attore, e Clementina Cazzola prima attrice. Il '66 si ritirò dalle scene per unirsi in matrimonio con certo Enrico Finizio, negoziante in seta, il quale, dopo pochi anni, dovè per infortunj commerciali abbandonar Napoli, e recarsi con la moglie a Roma, ove vivon tuttora agiatamente, lontano dal teatro. La Patti ebbe momenti di buon successo, ma più, dicon taluni che la conobber da vicino, al cospetto dei pubblici dozzinali che degl’intelligenti, abbandonandosi essa a ogni sorta di artifizio pur di aver quegli applausi, che, per vero dire, non le mancarono mai.

Pavoni Ginevra, romana, figlia di un medico, nata, si può dire, con la passione per la scena, che fu divisa dalle sue sorelle, esordì a quattordici anni nella Compagnia di Bellotti-Bon, rivelandosi attrice di assai liete promesse con la parte di Margherita nelle Due Dame di Ferrari, di cui era protagonista Virginia Marini. L' '81 andò prima attrice giovine con Pasta-Casilini-Meschini, poi di nuovo con la Marini, allora capocomica. Fu col Monti, col Maggi, col Pietriboni ; e finalmente, nel '92, volle essere prima attrice assoluta, e conduttrice di una compagnia, alla cui direzione fu preposto il Belli-Blanes. Ai successi di Margherita nelle Due Dame, di Susanna nel Mondo della Noja, di Pia nel Cantico dé Cantici, successer quelli di Dora nella commedia omonima di Sardou, di Cipriana nel Divorziamo, di {p. 239}Fedora, ecc. Poi, più nulla. La morte della madre che l’aveva accompagnata sempre nelle sue peregrinazioni artistiche, le diè tale intensità di dolore, che la poveretta fu per morirne. Si allontanò dalle scene, col proposito di ritornarvi, ma, pur troppo, non vi fece che fuggevoli apparizioni or con Salvini, or con la Compagnia Squillace. Ginevra Pavoni fu una prima attrice giovine nata…. La voce tremola, direi quasi, timida, la figura svelta ed elegante, e la fisionomia infantile, non eran facilmente alterabili dall’ incalzar dell’età : ella avrebbe potuto restar prima attrice giovine fino ad oggi, desiderata e amata da'primarj capocomici.

Pedretti Carlo, veneziano, e perlaro, si sentì attratto alla scena per modo, che, abbandonata un bel giorno l’arte sua per quella drammatica, si scritturò in una modesta compagnia, in cui riuscì egregio Tartaglia, maschera ormai abbandonata dopo la morte di Agostino Fiorilli. Avea sposata Marianna Leonardi, giovine veronese, che seguì l’arte del marito, ottenendovi buon successo nel ruolo di madre nobile e seconda donna ; ed entrambi fecer parte sempre di compagnie primarie, tra cui quelle di Dorati e di Raftopulo. Morì egli in Cremona il 1833, precedendo di poco la moglie, che morì a cinquantotto anni in Milano.

Pedretti Valeriano. Figliuolo del precedente, fu un artista egregio per le parti di Amoroso e di Brillante. Sposò, ancor giovane, Carlotta Castelli, dilettante milanese, che sostenne alcun tempo e meritamente il ruolo di prima donna giovine, poi di madre nobile. Fu con essa più anni nella Compagnia di Corrado Verniano, passando il 1853-54 in quella di Luigi Domeniconi, condotta da Gaetano Coltellini, e diretta da Antonio Colomberti. Fu in Egitto, ad Alessandria e al Cairo, con una compagnia sociale, e, tornato in Italia, si scritturò con la moglie e una figliuola, l’Annetta, in Compagnia di Cesare Dondini. Valeriano Pedretti morì a Torino del 1866, già lontano dall’arte ; e la moglie Carlotta, a Genova.

{p. 240}Pedretti-Diligenti Anna. Figlia del precedente, attrice rinomatissima per le parti tragiche, nata a Genova del 1837, esordì prima donna all’età di sedici anni, come una delle più liete promesse dell’arte. Divenuta in poco tempo artista delle migliori, nonostante il metodo manierato, fu scritturata il '61 in Compagnia di Cesare Dondini, in cui sposò il primo amoroso Angiolo Diligenti, col quale formò subito una buona compagnia, che durò parecchi anni con buona fortuna. Ma sì per voluto sbilancio nelle finanze, sì per la niuna compatibilità dei caratteri, ella domandò e ottenne giuridicamente una separazione di corpo e di beni. Si unì poi all’attore Artale, mantenendo alto lungo tempo ancora, colla prestanza della persona, coll’intelligenza non comune e la voce armoniosa il prestigio della tragedia. Recitò più tardi in compagnie veneziane, e oggi si trova a Napoli, attrice tuttavia encomiata.

Pelandi Giuseppe. Cominciò ad acquistar fama di buon Arlecchino in Compagnia Bazzigotti, e passò col Medebach al S. Cassiano di Venezia, ove con commedie di particolar fatica si fece buon nome, diventando poi socio dello stesso Medebach, col quale stette lungo tempo. Il 1795-'96 fu capocomico e impresario del S. Angelo a Venezia, continuando a recitar gli Arlecchini o Truffaldini. Era parte principale della Compagnia, a vicenda con un Domenico Camagna, suo figlio Antonio, che sposò poi al terminar di quell’anno la celebre Anna Fiorilli (V.).

Pelizza Ettore-Ferdinando. Egregio caratterista ai primi di questo secolo, era nel triennio 1810-11-12 in società con Bartolommeo Zuccato e Teresa Consoli. Fu sempre in compagnie di prim’ordine, e il '36 faceva parte di quella del {p. 241}Nardelli, di cui è riprodotta una poesia a pag. 390, che ha questa orribile quartina :

Se poi a caso ci preme la stizza,
e svogliata noi abbiamo la mente,
il veder sulla scena Pelizza,
tutto quanto obliare ci fa.

Pellesini Giovanni. Fiorito dalla seconda metà del secolo xvi a oltre il primo decennio del secolo xvii (il Malherbe — cf. Baschet 244 — a proposito dei Due Simili recitati al Louvre dai Fedeli la sera del 14 settembre 1613, dice che il Pellesini aveva allora ottantasette anni : sarebbe nato dunque il 1526), fu uno dei più grandi Zanni del suo tempo, più noto col nome di Pedrolino. Antonio Valeri nella Rassegna bibliografica del D'Ancona (Anno IV, 1896, fascic. ii) pubblicò un articolo Chi era Pedrolino ? in cui con uno studio ingegnoso di eliminazione venne a riconoscere nel Pedrolino Giovanni Pellesini : studio che servì a porre in evidenza l’acume di argomentazione del signor Valeri, avendo io rinvenuta nell’Archivio di Stato di Modena, la seguente lettera di Don Giovanni Medici, che toglie ogni dubbio sul proposito :

Ser.mo Sig.r mio et Pron. Oss.mo

Giouanni Pellesini detto Petrolino Comico ha nel dominio di V. A. S. certo campo et pezzo di terra quale certo suo confinante fondato sopra cotesto statuto, intende di potere et uolere comperare, il che tornando in molto disconcio di detto Petrolino mi ha pregato ch' io uoglia raccomandarli questa sua differenza si come fo con tutto l’affetto dell’animo supplicandola a compiacersi per amor mio et per compiacerne me et obligarne singolarmente di {p. 242}derogare a detto statuto non comportando che contra sua uolontà uenga uenduto detto campo. Di che ne resterò obbligatissimo all’A. V. alla quale bacio di cuore le mani. Di fiorenza li 7 Nouembre 1610.

Di V. A. S. Aff.mo Ser.re et Zio
Don Giouanni Medici.

Tracciare con esattezza cronologica l’itinerario artistico del Pellesini, e i suoi passaggi da una in altra compagnia, è opera assai difficile. Io son pur sempre d’avviso che come s’è detto pel Pasquati e per altri, le grandi personalità artistiche potessero essere sballottate da una compagnia all’altra, secondo il volere, o, almeno, il desiderio delle Loro Altezze capocomiche. Infatti noi vediamo il marzo 1581 la Vittoria, prima donna di Pedrolino, supplicare con le più dimesse parole il Duca Alfonso di Ferrara, di ridonar a entrambi la sua protezione, che sembrò loro tolta, quando Pedrolino, trovandosi al soldo di certo Ettore Tron, non potè recarsi a Ferrara a recitarvi il carnevale secondo le richieste del Duca. Di alcuni anni e alcune stagioni possiamo aver date precise ; per altri le nuove costituzioni e frequenti sostituzioni generan tal confusione da non permetterci di dare affermazioni recise.

Gran parte dell’invernata del 1576 il Pellesini passò a Firenze, e questo sappiamo da una lettera del Commissario Capponi al Granduca, riferita dal D'Ancona : poi fu a Pisa, poi a Lucca, poi di nuovo a Pisa, dove però non gli fu concesso di recitare per certi scandali amorosi ch' eran tra le donne della Compagnia.

L'aprile del 1580 come da Relazione di Leonardo Conosciuti al Card. Luigi D'Este (Solerti T. F.) egli era a Ferrara ; e nel medesimo anno la sua Compagnia si fuse con quella dei Confidenti che aveva a capo la Vittoria (Piissimi). Forse fu in quell’anno 1580, al momento della riforma della Compagnia, che il Pellesini prese parte al banchetto descritto dal Rossetti nel suo Scalco (Venetia, MDLXXXII), e già riferito in parte dal D'Ancona e dal Solerti, nel quale egli appariva colla sola testa fuor della tavola, accomodata al bisogno, coperta da un {p. 243}pasticcio, d’entro il quale poi cercato invano da Pantalone, faceva scena con lui, destando le più matte risate.

Il Solerti ritiene che tal compagnia restasse così costituita fino al 1584…. Ma l’ 83, Pellesini era a Milano col Pantalone Braga, capocomico il Valerini (V.) ; con la stessa compagnia ? Il D'Ancona la dice dei Gelosi : ma non eran gli Uniti ?

A codesta epoca a un dipresso io credo si riferiscano le altre due lettere senza data, che qui riferisco dall’Archivio di Modena :

Ser.mo Signore,

Pedrolino, Iacomo Braga, e Compagni Comici Vniti humilissimi serui di Vostra Altezza Ser.ma con ogni debito di riuerenza la supplicano à far loro grazia di una lettera di fauore al S.r Conte de Fuentes, che uoglia dar loro licenza di poter recitar Comedie in Milano, finito c’ haueran di seruir qui à Modona, e pregandole da Nostro Signore felice fine d’ogni suo desiderio aspettano quanto prima la grazia, acciocche altra Compagnia non gli preuenga.

Di fuori : Al Ser.mo Signor Duca di Modona etc.

Per Pedrolino e Compagni.

Pedrolino, et Compagni comici vniti, li quali con mia grandissima sodisfattione, e gusto m’ hanno seruito doi mesi continoui con le comedie, e forse con speranza di tornare questo Carnovale al mio seruitio desiderano per esser più vicini, et commodi al viaggio di venir per l’Autunno à recitar in Bologna nella stanza solita ; pero prego V. S. Ill.ma di conceder la licenza a detta Compagnia che possa in quel tempo recitar sola che l’ascriuero à mio singolariss.mo fauore.

L'89 sappiamo ch'era a Firenze coi Gelosi per le nozze di Ferdinando Medici con Cristina di Lorena. Nella Pazzia d’Isabella, recitatasi il 13 di maggio, l’Andreini……. si mise poi ad imitare li linguaggi di tutti li suoi comici, come del Pantalone, del Gratiano, del Zanni, del Pedrolino, del Francatrippe, del Burattino, del Capitan Cardone, e della Franceschina. Proprio tutta la Compagnia, composta, coll’Isabella e con la Piissimi, l’altra prima donna che aveva recitato il 6 La Cingana, delle solite dieci persone. (Diario del Pavoni, Bologna, Rossi, 1589).

{p. 244}Del 1601 abbiamo la seguente lettera dei Comici Uniti, che ritengo inedita e che traggo dall’Archivio di Stato di Milano :

Archivio di Stato in Milano. Foglio II.
Comici Uniti
Illustrissimo et Ecc. Signore,

Isabella Pedrolini, e gli stessi Compagni, che furono favoriti da V. E. ill. sendo chiamati da Mantova a Milano, e da Milano a Pavia per l’occasione dell’abboccamento di Mons. III. Aldobrandino ed S. Altezza di Savoia con ogni debito di riverenza la supplicano a far loro gratia, che possano in Milano nella stanza solita del suo Palazzo recitar le loro honeste Comedie ; hanno già supplicato, et hora di nuovo supplicano mandando messo à posta ; confidano nella sua benignità ed offrendosi prontissimi ad ogni suo cenno le pregano da N. S. felice fine d’ogni suo desiderio.

1601 a' 12 di giugno.

Facciasi la patente nella forma solita.

A tergo : Ill. et Ecc. Sig.

Gli Comici Uniti etc.

Pelzet Maddalena. Nacque a Firenze da uno scorticatore di agnelli, Gaetano Signorini, e da Porzia Piccardi, il 21 febbraio del 1801. A dodici anni entrò nell’Accademia di Belle Arti, sotto gl’insegnamenti del rinomato attore Morrocchesi, e a quindici a pena si recò a Palermo prima attrice giovine della Compagnia Zannoni e Pinotti, ove sposò il suo condiscepolo e concittadino Ferdinando Pelzet, giovane di eletti studi e di forte intelligenza, salito poi a bella rinomanza più tosto come istruttore drammatico, che come attore. Era nato il 1791, morì il 1881.

Dopo essere stata alcun tempo prima attrice a Roma con Vestri e Belli-Blanes, tornò, il’ 18, a Firenze, ove diventò primo ornamento della nuova Compagnia Nazionale Toscana. La vediamo il '22-'23 con Assunta Perotti e Luigi Fini ; poi, per un triennio, nella ducale di Parma, capocomico il Mascherpa. Fu con Raftopulo il’ 27, e con Rizzo il '28, per tornar poi col Mascherpa sino a tutto il '31.

Formò società il triennio seguente con Luigi Domeniconi, poi andò a riposare un anno a Firenze, per non {p. 245}abbandonar lo sposo, colpito da fiera malattia. Tornò un nuovo triennio col Da Rizzo ; e si scritturò il '40-'41-'42 a' Fiorentini di Napoli nella Compagnia Alberti, Visetti e Prepiani ; ma non vi restò che il primo anno, per malaugurato e preparato insuccesso. Fu infine, per due anni, nella seconda del Domeniconi, condotta da Gaetano Coltellini, e diretta da Antonio Colomberti, in qualità di Prima attrice tragica, e Madre nobile, dalla quale passò a Firenze, ove stette, fuor dell’arte, sino alla morte, che avvenne per idropisia l’8 novembre del 1854.

Di lei dissero Cesare Scartabelli nella Polimazia, e Francesco Regli nel suo dizionario. Molti eletti ingegni dettarono poesie ed epigrafi di alta ammirazione, di cui metto un piccol saggio alla fine. Ma quel che fu la Pelzet si vede più {p. 246}chiaramente dalle lettere sue al Niccolini e del Niccolini a lei. Queste pubblicate, parte da Atto Vannucci nel secondo volume dei Ricordi di G. B. Niccolini e parte da Giulio Piccini (Jarro) in un opuscoletto di soli quarantacinque esemplari, nell’occasione delle Nozze Ridolfi-Borgnini : quelle da Filippo Orlando nella prima serie de' Carteggi italiani inediti o rari.

In un momento di stizza, il Niccolini (la Pelzet, di passaggio a Firenze, vi s’era fermata da tutta una mattina fin verso le tre pomeridiane, facendogli credere invece, che avrebbe proseguito il viaggio) le scrive :

Voi conoscete troppo la mia onestà e la mia sincera ed altissima stima pei vostri rari talenti nell’arte per temere che in me venga meno l’ammirazione che riscotete da tutta l’Italia. Io dirò sempre che siete una moglie virtuosa e una grande attrice.

E chiude così la stessa lettera :

Non temete ch' io venga ad annoiarvi quando passerete per Firenze : ma per la rara abilità della signora Maddalena Pelzet attrice sarà sempre pieno di ammirazione il suo dev.mo servo G. B. Niccolini.

E in altre ancora :

….. Io godo della vostra riputazione più che della mia : avete il suffragio dell’Italia, e voi non avete bisogno di me per avere un gran nome nell’arte vostra, pure non ho desiderato essere un buon tragico quanto adesso che conosco andare in voi le doti dell’animo del pari con quelle dell’ingegno.

….. in voi è tanta l’abilità e l’eccellenza nell’arte, che non avete bisogno d’esser protetta :

….. state dunque certa che io godo della vostra gloria come se fosse cosa mia, e mi piace che abbiate nell’arte quel primo seggio che tenete nel mio core, e nei miei pensieri. Quanto a me che, come sapete, vi amo d’un purissimo affetto, io sento che, per giungere dove io vorrei, mi mancano le forze : e sinceramente vi dico che siete più innanzi nella vostra arte di quello ch'io sia e possa esserlo nella mia.

….. Voi avete per voi il suffragio d’Italia : io che sono l’ultimo dei suoi scrittori, riconosco intieramente da voi la fortuna delle mie tragedie, ed è impossibile far meglio la parte di Teresa.

Un po' di tara dobbiamo fare alle lodi del Niccolini, il quale, con la debolezza di quasi tutti gli autori di teatro, ha lodi per gli artisti che han fatto piacere l’opera sua. A pochi anni di distanza, dopo di avere scritto a essa Pelzet : « non vi {p. 247}faccia specie se (l’Internari) avrà qui quell’applauso che giustamente le nega Bologna. Non è fiorentina e ne diranno bene per far male a voi…. », scriveva all’Internari : « siete senza contrasto la prima attrice tragica d’Italia ; » e per lo contrario dichiara la Santoni, che non ebbe un applauso nel Foscarini, incapace di recitar tragedie e commedie, e le scaglia contro la più volgare delle offese. Ma giudizi abbiamo di attori, i quali, nelle condizioni in cui furon dettati, paiono a me assai meno sospetti. Il Colomberti, per un esempio, suo direttore, di cui la Pelzet in una lettera al Niccolini del 27 luglio '43 da Bologna, dice ogni male possibile, perchè, essendo inabile a recitar la tragedia, la vuol bandita dal repertorio, e lascia lei, scritturata prima attrice tragica, inoperosa, lasciò scritto ch'ella « fu una delle migliori attrici della sua epoca, abilissima in ogni genere di rappresentazioni tragiche, drammatiche e comiche. »

S'è detto, più a dietro, che la Pelzet non restò a' Fiorentini di Napoli che uno de'tre anni, pei quali fu scritturata. Adamo Alberti così ci racconta ne'suoi Quarant’anni di Storia del Teatro de' Fiorentini di Napoli, l’esordire di lei :

L'ultima a presentarsi fu la signora Pelzet. Ella esordi il giorno 14 maggio (1840) col dramma tradotto dal francese intitolato Sedici anni or sono. Il dramma era stato da poco rappresentato dalla signora Tessari con esito felicissimo. La signora Pelzet era venuta a Napoli con molte lettere di raccomandazione dirette a persone stimabili ed influenti. La sera del debutto erano tutti in teatro, per cui la produzione fu molto applaudita, ma la signora Pelzet non persuase la maggioranza degli appaltati. Si trovò prima di tutto che era vecchia (non ancor quarant’anni ?), poi che era manierata, ed in ultimo che faceva pompa di una pronunzia eccessivamente fiorentina, lochè diveniva stucchevole e nojoso. Infine non fu nè un successo, nè un fiasco, si sostenne ma nulla di più.

E più innanzi :

La Pelzet andava ogni giorno decadendo dal favore ricevuto nel suo debutto. L'Impresa per sostenerla le fece rappresentare alcune tragedie da lei scelte, come la Rosmunda, la Medea ; ma il confronto colla signora Tessari era troppo fresco e la signora Pelzet cadde senza potersi alzare mai più ; tanto che ella stessa domandò di esser sciolta per l’anno venturo. Alla quale proposta l’Impresa aderì vedendo che questa attrice non poteva più esser di alcun utile per il teatro de' Fiorentini.

Ma un attore di quella Compagnia, Luigi Aliprandi, così annotò le parole dell’Alberti :

{p. 248}In proposito della signora Maddalena Pelzet, si potrebbe aggiungere qualche riflessione. Che non valesse la Carolina Tessari è innegabile ; ma come fu trattata dall’ Impresa ? — La si fece esordire dopo tutti gli altri artisti nuovi, come una generica, per lasciare che il pubblico accettasse qual vera prima attrice la Pieri-Alberti ; la si tenne inoperosa per molte sere ; le si fecero rappresentare varie parti nuove per lei e vecchie per il pubblico, non la si circondava dei migliori attori ; si trascuravano alcuni accessorj della scena ; le si faceva calare il sipario prima del tempo ; gli amici dell’ Impresa non l’applaudivano per non perdere l’ingresso di favore…. Tutto ciò poteva forse contribuire a farla piacere ? — La Pelzet comprendeva, e molto nobilmente sopportava !

Povera donna ! Nobilmente sopportava ; e s’andava poi sfogando con gli amici, fuor della scena, scrivendo lettere di fuoco, dalle quali però mi pare salti sempre fuori la correttezza del suo costume, e la bontà della sua indole. Nella medesima del '43, discorrendo del capocomico Domeniconi, dice :

Il prossimo carnevale torniamo in questa città, e voi dovreste parlare a Domeniconi, pregandolo, a nome mio, che faccia mettere in iscena questa tragedia (Antonio Foscarini) per la prima attrice tragica. Non entrate in altri gineprai con costui, il quale è troppo amico di questa genia, che egli si è affezionata a forza d’ipocrisia e da cui è contento di farsi mangiare il suo. Io ho fatto il contrario, e mio marito non ha potuto secondare i vizi dei comici e le loro abitudini, ed ecco il motivo per cui non abbiamo amici in quest’arte. Aggiungete i miei successi e l’invidia che hanno prodotto, e giudicate poi come posso vivere allegra con si cara compagnia. Non vedo l’ora di finirla, e voglio venire a mangiare pane e fagioli, ma lontana dalla scena e dai suoi indegni cultori. Vi giuro avanti a Iddio, che non ha rimproveri la mia coscienza ; e se ho potuto far del bene anche ai miei nemici l’ho fatto. Sono stata docile e conveniente, non sono stata attaccata al contratto ed ho fatto le più gran concessioni. Non ha servito nulla, e mi sono convinta che l’invidia non si placa.

E ha ragione veramente ! Ma ancora due anni di pazienza, e avrà lasciato per sempre la galera comica, com’ella dice in altra sua da Roma del 20 luglio '44 allo stesso Niccolini, al quale si raccomanda perchè sia dato un impiego a suo figlio, alla cui sussistenza non può pensare, avendo appena il pane per sè. E conchiude :

Ecco i frutti di ventisette anni di fatiche, di studi, di tribolazioni ! Ecco la ricompensa che hanno le attrici italiane ! Un poco di pane ! E sono tra le fortunate, perchè, come l’Andolfati e la Perotti, non morrò allo spedale.

La Rachel è andata a Marsilia per dodici rappresentazioni, ed ha avuto duemila franchi per sera. Farà tre cose : la Fedra, gli Orazj e la Stuarda che replicherà più volte ! Qua bisogna far di tutto, da Marta e da Maddalena, e questo nostro pubblico impastato di fango non è contento se non ci vede vomitare i polmoni !

{p. 249}Da un omaggio agli attori della Compagnia Pelzet e Domeniconi, per le recite dell’estate 1833 a Pistoja, tolgo la seguente epigrafe :

a
più splendida onoranza
di
maddalena pelzet
tragica maravigliosa comica inarrivabile
singolare commovitrice d’affetti
per portamento e nobile gesto commendevole ;
in matilde bentivoglio
gelosa amante ;
nella gismonda
di contrarie passioni pittrice :
nell’ester d’engaddi
fedele e magnanima
con bello esempio insegnò alle spose
anteporre l’onore alla vita
un ammiratore di tanto merito
pubbliche gratulazioni
e
festivi applausi
affettuosissimo
porge

DI GIUSEPPE MATTEI

Quand’io pendo dal tuo labbro gentile,
e il suon de'detti tuoi mi scende al core,
sia che del vizio alla licenza vile
ti faccian scudo la virtù, l’onore,
sia che di fida sposa e figlia umile,
o di tenera madre immenso amore
t’infiammi il petto, o che cangiando stile
arda tu d’ira e di crudel furore ;
in estasi dolcissima rapito
oltre l’usato il mio pensier veloce
al Ciel s’estolle, e dopo averti udito
muto io resto, nè so dir se potria
bearmi il cor, più della tua, la voce
di Melpomene stessa e di Talia.

{p. 250}LA ROSA DELL'AMICIZIA

di Antonio Guadagnoli

A lei, che Italia
orna ed onora,
ch'è la delizia,
l’amor di Flora,
Cara a Melpomene,
cara a Talia,
l’amistà candida
oggi m’invia.
La vidi nascere,
e a la fanciulla
d’odori eterei
sparsi la culla ;
e da'miei petali
volli poi tocca
la guancia tenera,
e quella bocca,
che a tante grazie
poscia s’apria,
sacra a Melpomene,
sacra a Talia.
La vidi crescere,
e a lei gradita
di liete imagini
spargo la vita ;
per lei si veggano
figlie d’amore
mille risorgere
ridenti aurore,
ed io precedere
possa quel di,
nunzio di gioje
sempre cosi.

DI LUIGI FORTI, COMICO

Di fresche rose e gigli
è il tuo bel viso ornato,
t’ha la madre d’amore
il crine inanellato ;
son d’alabastro i denti,
candido il sen qual neve ;
son di rubin le labbra,
il piede in danza lieve.
Beltà sì peregrina non invidia
le più bell’opre di Canova e Fidia.

Peracchi Giuseppe. Nacque a Piacenza il 7 aprile del 1818, e si laureò medico allo Studio di Parma il 1841. Preso d’amore per Antonietta Robotti, formosissima donna e valentissima attrice della Compagnia Reale Sarda, si diè a seguirla per quasi {p. 251}due anni, finchè ammalatosi quel primo amoroso, Pietro Boccomini, egli, che s’era già acquistata fama tra'filodrammatici di artista promettentissimo, fu scritturato qual primo amoroso a vicenda col Boccomini, passando poi per la morte di Giovanni Battista Gottardi, al posto di primo attore che sostenne con molto onore al fianco di artisti egregi, quali la Robotti e la Romagnoli, il Gattinelli, il Domeniconi, il Dondini.

Il '51-'52 fu aggregato alla Compagnia altro primo attore – Ernesto Rossi – pel quale il povero Peracchi, dapprima legato a lui d’amicizia saldissima, ebbe a patire gran pena, come si vede in una lettera a Francesco Righetti, Capo della Compagnia Reale, in cui è il seguente brano :

………………………..

Voci di poco galantuomismo co'suoi attori su Rossi, l’aver egli cessato affatto di scrivermi dopo mie ripetute lettere, e tante e tante altre cose m’hanno finalmente convinto che tutte le sue dimostrazioni d’amicizia per me in Torino erano interessate, e dirette al solo scopo d’abindolarmi, e far si che io sopportassi la sua concorrenza in Compagnia Reale ; per cui già garantisco fin d’ora, che fra me e lui non vi sarà più accordo, anzi urto continuo, disprezzando io per principio, chi si serve di gesuitico artificio per sorprendere l’altrui buona fede.

………………………..

E si raccomanda a mani giunte alla carità dell’amico perchè lo sciolga, sia pur con penale…. Scioglimento che, sappiamo poi, non gli fu accordato, che dopo un anno di prova, trascorso il quale, egli si scritturò con la Compagnia Astolfi e Sadowski, per un anno. Passò nuovamente, e per un triennio, con Antonietta Robotti, uscita dalla Reale Sarda, poi con Giuseppe Trivelli, conduttore di una Compagnia, famosa allora per ricchezza di arredo scenico, di cui era prima attrice Elena Pieri Tiozzo.

{p. 252}Rappresentò al Teatro Re di Milano il marzo del 1854 la parte di Goldoni nella commedia di Ferrari, coi grossi mustacchi incipriati, e n’ebbe dalla critica acerbo biasimo. E il Costetti ne'suoi Dimenticati vivi aggiunge : « O era la vanità che lo dominava, o la voglia d’imitare l’artista Majeroni che non toglieva per niun conto l’enorme pizzo, serbandolo fin anco nel Luigi XI. » Ma qui erra lo scrittore, poichè, proprio nel Goldoni, il Majeroni sacrificò e pizzo e mustacchi.

Al '59, noi vediamo il Peracchi capocomico, e assistiamo, come ci avverte esso Costetti, al cominciamento della sua parabola discendente.

Fu dal '60 al '65 primo attore di Bellotti-Bon (il '61 aveva sposato Celestina De Martini) poi di nuovo capocomico, poi direttore ('75-'76-'77) di una delle tre compagnie del Bellotti-Bon.

Non posso ricordare il Peracchi nel primo tempo della sua vita artistica, il quale fu, a detta del Costetti, glorioso. Lo ricordo nel secondo, in cui, nonostante certi difetti di recitazione, emergeva l’antico pregio dell’originalità per alcune parti specialmente, come dell’ Oliviero di Jalin nel Demimonde, in cui non ho mai trovato chi per la eleganza e la verità, lo facesse dimenticare, o del Cavaliere d’ Industria, a proposito del quale, l’ Arte del 28 gennaio '55, in una lettera a Fanny Sadowski, dice :

Vi ricordate di Peracchi nel Caralier d’Industria ! È impossibile di trovare qualcosa di più perfetto ; la parte era tagliata per lui meglio del suo abito nero – è tutto dire ! e l’abito faceva sparire i difetti dell’uomo ; o meglio, i difetti dell’artista, per un epigramma del caso, come è stato già detto, in questa parte si camblavano in belle qualità. Io dissi solamente che egli era stato degno della sua parte – se fosse valso meno, ne avrei parlato di più.

Il Peracchi fu lungo tempo maestro della moda : signorilmente austero dapprima, poi grottesco a segno da mostrarsi in abito nero con le falde foderate di raso bianco. Alla quale stravaganza si accoppiò quella di una dizione lenta e nasale, originalissima, a base, tal volta, di improvvisazioni curiose.

A lui si attribuiscono il famoso [ILLISIBLE]mente morta sillabato sul corpo della povera Margherita, e il non men famoso per me non è è più demani, nè dopodomani….

{p. 253}Egli ebbe aspetto funerale… l’occhio aperto, semispento ;… i capelli e i baffi di un nero corvino artificiale…. la faccia incartapecorita. Andava poi così diritto e impettito, che si volle dai più portasse il busto. Fu incline alla melanconia e alla solitudine, e passò talvolta serate intere in compagnia di amici senza aprir bocca. Abbandonata l’arte, si ritirò a Milano, dove morì il 14 settembre del 1887.

Perelli Luigi. Oriundo Monferrino. Nato da civili parenti, e rimasto, giovanetto, orfano del padre, si diede alla scena, in cui sognava di diventare egregio artista sotto la maschera di Truffaldino, per la quale avea potuto ispirarsi all’arte di Felice Sacchi (Sacchetto) prima, poi di Ferdinando Colombo, in Compagnia di Pietro Rossi. Uscitone il 1770, e pervenuto dopo varie vicende a Venezia, contrasse amicizia con Luigi Fabbri, capocomico e artista sotto la maschera del Dottore, e con lui unitosi, potè finalmente realizzare il suo sogno, presentandosi col sospirato vestito del Secondo Zanni. Fu poi, come Innamorato, in Compagnia di Pietro Rosa ; ma ammalatosi l’Arlecchino Bugani, lo sostituì egli più volte. Passò il '73 con Giuseppe Lapy al Sant’Angelo di Venezia, e il '74 formò società con Francesco Majani, che mise allora la maschera del Brighella, e con Antonio Camerani. Entrò il '76 nella Compagnia di Antonio Sacco, e andò lui nelle veci del celebre Truffaldino, a cominciar le recite di primavera a Mantova, ottenendovi il pieno favore del pubblico.

L'aver avuto dinanzi agli occhi, per tutto un anno, esemplare sì egregio, fu gran bene pel Perelli, che potè davvero perfezionarsi nell’arte sua, gloriandosi di potersi dire discepolo del Sacco. In questo frattempo, il capocomico Pietro Rossi offrì la propria figliuola in moglie al Perelli, che andò a sposarla a Gorizia sul finir del carnovale '77, restando poi col suocero tutto il '78, e assumendo l’impresa e la direzione della Compagnia l’anno successivo, in cui il Rossi avea abbandonato l’arte.

Fu a Livorno, a Pisa, a Lucca, e, il carnovale, al teatro pubblico di Bologna. Divenuto un capocomico assai pregiato, {p. 254}gli venner da ogni parte contratti di grande importanza, potendo egli omai frequentare le principali Piazze del Regno. Condusse la Compagnia sino ad Innsbruck, ove le cose volsero alla peggio per la morte di Maria Teresa d’Ungheria. Nonostante, affrontando i disagi d’un lungo viaggio di terra e di mare, andò a far il carnovale a Pesaro, ov'ebbe le più festose accoglienze. Fece poi ritorno a Bologna ; e fu a Piacenza, a Trieste e a Padova. Firmò alla fine dell’ '81 un contratto con cui gli si accordava di poter occupare con la sua Comica Compagnia un Teatro della Dominante per dieci anni di seguito e nelle stagioni di autunno e carnovale. Francesco Bartoli che fu con lui cinque anni, e da lui si distaccò abbandonando le scene, lasciò, oltre alle molte parole di gratitudine, di lode e di augurio, il seguente ritratto, che ci dà chiara l’idea dell’artista e dell’uomo :

È il Perelli un comico pronto nelle risposte, lepido ne'sali, arguto assieme e frizzante. È ben veduto in sulle scene, ed applaudito ; e da particolari nobili Personaggi favorito e protetto. È uomo d’onore, integerrimo e zelante. Provvede a'suoi interessi, ed a quelli de'suoi compagni con molta premura. Ha poste in Teatro alcune Rappresentazioni favolose del signor Co : Gozzi, che furono per l’addietro un solo pregio della Compagnia d’Antonio Sacco ; ed egli medesimo n’ha inventate, e dirette le tanto difficili trasformazioni.

L'autunno del '95 e il carnovale '95-'96 dirigeva la Compagnia al San Luca di Venezia, e vi recitava le parti di Truffaldino.

Perelli Anna, moglie del precedente, e figlia di Pietro Rossi, nacque il 1756. Dalle parole del Bartoli non risulterebbe esser lei stata un’attrice di pregi singolari. Recitava le parti di Donna seria, e piacque maggiormente nelle parti in cui dominavan l’impero e il disprezzo. Recitò anche da Serva con sufficiente successo, e fu sempre al fianco del marito, sposa esemplare.

Perotti Gaetano. Piemontese, un de'migliori capocomici, fiorito dal 1790 al 1820, anno della sua morte, si diede alla {p. 255}scena giovanissimo, come primo amoroso, ma con poca riuscita. Scontratosi, dopo alcun tempo, in una giovinetta, figlia dell’attore Santo Nazzari, la quale recitava allora con molto plauso le parti di prima donna giovine, se ne innamorò e la sposò in capo ad alcuni mesi. Crebbe la giovine artista in bravura a tal segno da decidere il marito a farsi conduttore egli stesso di una buona Compagnia, innalzando lei al grado di prima attrice assoluta. Indi la fama del Perotti, conduttore di una Compagnia, la quale potè sempre competere colle più grandi d’allora, come Pellandi, Fabbrichesi, Dorati, Bazzi, e Goldoni. Arriso dalla sorte s’andò formando una conveniente fortuna, che permise a lui e a'suoi di viver nell’agiatezza. Fu bizzarro e stravagante, e negli ultimi anni anche avaro. Di lui si contan parecchi aneddoti, tra'quali questo che dà un’idea ben chiara del suo cervello. Egli assegnò alla moglie con regolare contratto la paga di quattrocento zecchini veneti all’anno, e una mezza serata per ogni piazza, ove le recite non fosser minori di venti ; e stabilì sul contratto ch'ella dovesse fornirgli un panciotto della stoffa di ogni nuovo abito ch'ella facesse, o per la scena o per fuori, o in costume o in borghese ; tal che alla sua morte si trovò una gran quantità di panciotti di ogni specie e di ogni colore, naturalmente, non mai indossati. Negli ultimi sette od otto anni di vita, fu colpito da insonnia, a vincer la quale si diede all’uso dell’oppio, che lo condusse lentamente al sepolcro.

Morì il 1820 a Brescia, lasciando alla vedova circa centomila lire.

Ecco l’elenco della Compagnia con balli che agiva al Teatro della Canobbiana in Milano il carnovale '19-'20 :

UOMINI


Luigi Romagnoli, primo attore

Santo Romiti, tiranno

Francesco Augusto BonAlessandro Angiolini amorosi

Giovanni Boboli, caratterista

Gaetano Perotti

Paolo Baldigara Santo Nazzari generici

Domenico Verzura, padre nobile

Filippo Conti, secondo padre

Cipriano Cardosi

Giovanni Cardosi

{p. 256}DONNE


Assunta Perotti, prima attrice

Teresa Baldigara, supplemento

Carlotta Polvaro Angiolini, amorosa

Teresa Corona, terza donna

Elisabetta Gaidoni, madre

Eugenia Zocca, caratteristica

Ginevra Guglierini, serva

Rosa Pasini Romagnoli, seconda donna

Caterina Zelmi

Rosa Novo

generiche

Perotti-Nazzari Assunta. Moglie del precedente, artista di gran valore per ogni specie di parte, o tragica o drammatica o comica, divise con la Bazzi e la Goldoni l’eredità artistica della Pellandi, ritiratasi dalle scene.

Rosmunda, Antigone, Sofonisba, Merope, Ottavia di Alfieri, alcuni drammi del Metastasio e del Federici, e molte commedie del Goldoni, del Nota, del Giraud ebbero in lei un’interprete valorosa : e Vittorio Alfieri, uditala a Firenze nell’Ottavia, volle conoscerla davvicino ; e le scrisse una lettera di lode, congratulandosi con lei del modo stupendo con che declamava i suoi versi, e della sovrana intelligenza ch'ella spiegava nell’interpretare con mirabile verità i diversi caratteri. Con grandissimo successo recitò a Roma l’autunno del 1807 la parte di Gilda nell’ Aio nell’imbarazzo di Giraud, e il 3 febbraio 1808 quella della protagonista nella Frenetica compassionevole pur di Giraud.

{p. 257}Il ritratto che do qui, alcun po'ridotto, fu pubblicato a Roma del 1806 da Luigi Perego Salvioni, con in fronte il seguente sonetto :

al merito sublime
della signora
ASSUNTA PEROTTI
che con plauso universale
ha sostenuto in roma nel teatro valle
e nell’altro di apollo
per più stagioni
il carattere di prima attrice
tanto nelle comiche
quanto nelle tragiche rappresentazioni

SONETTO

Là su le piaggie apriche d’ Elicona
avea Talia di propria man contesta
nobil ghirlanda, e dicea lieta : or questa
della PEROTTI io reco al crin corona ;
Ma Melpomene allor : men chiaro suona
forse il nome di Lei, se in regal vesta
calza il coturno, e se feroce, o mesta,
a terrore o a pietà gli animi sprona ?
Ciò detto, intreccia le sue frondi anch'ella.
Sorge aspra gara : il biondo Nume incerto
or di questa in favor pende, or di quella.
Ad ambe alfin toglie di mano il serto ;
ne forma un solo, e dell’attrice bella
scende egli stesso a coronare il merto.

Mortole il marito, rimase fuor del teatro un anno in segno di lutto, poi formò con Luigi Fossi e per un triennio, una società, in cui ella passò al ruolo di madre nobile, lasciando quello di prima attrice a Maddalena Pelzet.

La società, poco fortunata, non durò che due anni, e la Perotti potè scritturarsi il 1824 con Mario Internari, poi con {p. 258}altri fino al suo settantesimo anno di età, nel quale risolse di abbandonar l’arte. Le traversìe ch'ella patì dopo la morte del marito furon terribili. Prima, un amico di lui, tornato d’ Egitto, tanto seppe avvilupparla con parole lusinghevoli, descrivendole gl’ingenti guadagni che si potevan fare colà, ch'ella gli affidò due terzi della sua fortuna. Ma il furfante non diè più segno di vita, e la povera artista col poco rimastole comprò una villetta con podere tra Roma e Frascati, la quale intestò al nome di una amica fedele, e in cui viveva con essa tranquillamente. Ma, ahimè, l’amica la precedè nel sepolcro, e i parenti, impossessatisi per legge di tutto, cacciaron di casa la padrona vera, la quale andò da prima limosinando, poi fu ricoverata all’ Ospizio di mendicità, d’onde usciva una volta la settimana per andare a pranzo dalla poetessa improvvisatrice Rosa Taddei, sorella del celebre caratterista. Povera Perotti ! E che animo buono ella seppe serbare in mezzo a tante amarezze e a tanti inganni ! Nell’album della Internari, che è nella Biblioteca Nazionale di Firenze, si trova una sua lettera a questa, in cui la ring razia di certe medaglie e reliquie mandatele…. Ella trovò nella fede una gran forza a sopportar con rassegnazione la miseria squallida de'suoi ultimi giorni ! !

Pertica Nicola, nato a Roma nel 1769 da Antonio e da Rosa Rossi, onesti e laboriosi cittadini, e iniziato al mestiere di stampatore, si diede giovinetto al teatro, riuscendo in poco tempo il grande emulo di Luigi Vestri, a lui forse inferiore nelle parti promiscue, ma di gran lunga superiore in quelle di caratterista. Noi lo vediamo il 1796 nell’elenco dei componenti la gran Compagnia del San Carlino di Napoli al fianco dei Cammarano e dei Fracanzano, dalla quale uscì il 1803, già ottimo caratterista, a niuno secondo per la grande spontaneità, acquistata su quelle scene, ricercato dai migliori capocomici.

Fu parte integrante della Compagnia reale italiana del Vicerè condotta da Salvator Fabbrichesi, dalla sua instituzione (1807), fino all’anno della sua fine, che fu il 1815. Passato con {p. 259}Fabbrichesi, De Marini, la Tessari alla Corte di Napoli, divenne in breve l’idolo del pubblico, e dello stesso Ferdinando IV, al quale dovette forse la sua morte.

Sia per doverosa gratitudine al suo Grande estimatore, sia per intima convinzione, sia per istinto di ribellione a ogni oltraggio inconsulto alla Regia Dominazione, egli si sentì trascinato a mostrarsi pubblicamente avverso alla sètta dei Carbonari, gli affigliati alla quale viveano in Napoli, facendo temer prossima una sollevazione. Una sera del 1820, terminato lo spettacolo, il Pertica, traversando una strada, secondo il costume, per recarsi a casa, fu arrestato da quattro uomini mascherati, che, puntatigli al petto i lor pugnali, lo minacciaron di morte, se avesse osato non pur di mostrarsi avverso, ma di accennare in qualsiasi modo alla lotta de' Carbonari. E tale fu lo spavento ch'egli ebbe dall’inattesa aggressione, che preso da febbre violenta, ne morì in capo a quattro giorni, compianto da tutta l’arte. Fu il Pertica ricco di grazie comiche ed argutissimo, sempre nobile e castigato ne'lazzi, di una verità prodigiosa. Interpretò magistralmente i varj caratteri delle commedie goldoniane, del Nota, di Giraud ; ma dove apparve davvero gigante fu nelle parti di seconda importanza, come, a esempio, in quella del Maggiordomo Longman di Pamela Nubilc, in cui non ebbe mai chi gli si accostasse.

Pertici Pietro. Sappiamo dalla Corilla Olimpica dell’ Ademollo, ch'egli aveva cantato nel 1731 e 1742. Faceva e recitava le commedie in musica con sua moglie, la Tincanera.

{p. 260}Datosi più tardi alla scena di prosa, vi riuscì attore eccellente, e il '49 lo vediam con la moglie recitar commedie italiane a Londra. Passò poi per due anni al servizio della Corte di Parma con l’annuo stipendio di 350 zecchini, e il carnovale del '51 il Conte di Ricecourt, volendo formare una Compagnia stabile al Cocomero di Firenze, gli offrì, intermediario l’abate Antonino Uguccioni, il posto di maestro o direttore, con l’annua pensione di 100 scudi vita durante sua e della moglie, e d’impresario del detto teatro…. Il Pertici accettò ; e licenziatosi dalla Corte di Parma, formò tal compagnia, che fu poi famosa.

Il Goldoni assistè più volte a rappresentazioni di sue commedie, e alla prefazione del Cavaliere e la Dama, dice :

Penetrai altresi che in Firenze vi erano le commedie mie rappresentate senza le maschere, cambiate in altri caratteri da persone di abilità e di talento, e mi consolai che colà si facessero le mie commedie, trovandomi onorato moltissimo che da si dotta e cólta Nazione si soffrano e si coltivino le imperfette opere mie. Quando poi le ho vedute in Firenze io stesso rappresentare, non posso bastantemente esprimere quanto siasi accresciuto il mio giubbilo, e quanta compiacenza mi abbia recato il vederle con tanta esattezza, con tanta verità e spirito rappresentate. Io le ho trovate si ben dirette, che nulla mi resta da suggerire. Il Direttore di esse è il più bravo attore del Mondo. Io ne sono contento e deggio rendergli pubblicamente giustizia.

E a quel più bravo attore del Mondo, è la seguente nota :

Pietro Pertici, assai noto al Mondo per l’eccellente sua abilità nelle parti buffe per musica, e presentemente bravissimo attore nelle Commedie in prosa in Firenze.

E dedicando Le Donne curiose all’abate Antonino Uguccioni :

Ella ha preso a proteggere una Compagnia di valorosi comici suoi nazionali, dei quali ho fatto altra fiata menzione, e sono, a dir vero, ornamento del teatro italiano.

Il Casanova, trovatolo del '60 mutato in commediante, così ne scrisse :

Vidi Pertici con piacere : essendo vecchio e non potendo più cantare, recitava la commedia e da buon comico, il che è raro, dacchè i cantanti, maschi e femmine, confidando nella durata della lor voce, trascuran l’arte della scena.

Fu maestro di recitazione del Somigli (V.), detto Beco Sudicio.

{p. 261}Pescatori-Biagini-Vanni Giuseppina. Nata a Spoleto il 1835 da Giuseppe Vanni, impiegato governativo, e Giuditta Nalli, rinomata pittrice, fu, ancora in fasce, portata a Roma, patria dei genitori. Ivi educata più specialmente alle belle arti, mostrò particolari attitudini alla musica, al recitare, e all’arte del bulino, che essa prediligeva. Entrata nella Società filodrammatica romana, fu subito assunta al grado di prima attrice, e ammirata e domandata dalla stessa Ristori. Ma la giovinetta non osava abbandonar per la scena l’incisione e il disegno. Propostole il Pezzana, dietro suggerimento del Morelli, che avevala sentita nella Suonatrice d’Arpa, di andar nella sua Compagnia a prendervi il posto di Amalia Fumagalli, vinta dalle lusinghe di lui e dalle preghiere della madre, risolse finalmente di abbandonar l’arte sua diletta, ed esordì a Livorno con grandissimo successo, col nome di Giuseppina Biagini, che fu quello del secondo marito di sua madre.

Passò da Livorno a Firenze, nel Teatro Niccolini, acclamatissima sempre, specie nella Medca, e dopo un anno tornò a Roma al Mausoleo d’Augusto sollevando in una lunga stagione il pubblico all’entusiasmo. Dalla Compagnia Pezzana passò a quella del Bosio, poi tornò col Pezzana, che lasciò ancora per Luigi Santecchi. Invitata da Adelaide Ristori, fece con lei un giro in Europa, festeggiatissima al fianco della gloriosa artista.

Era nella Compagnia il giovane Erminio Pescatori, che aveva lasciato Parma, sua patria, nel '58, per darsi all’arte. Innamoratosi della Biagini, la tolse in moglie il 21 agosto del '60.

Passarono dalla Compagnia Ristori in quella Trivelli, ove la giovane e già forte artista rinnovò, o meglio, continuò i trionfi in ogni città. Si fecer conduttori di Compagnia essi stessi, che {p. 262}dovetter poi sciogliere per vicende politiche, deliberando di ritirarsi dall’arte e fermarsi a Genova, tutt’intesi all’educazione dei figli.

Ammalatasi la Pedretti, in Compagnia di Amilcare Bellotti, la Biagini andò per breve tempo a sostituirla con molta fortuna ; e ritiratasi poi definitivamente dall’arte, si recò a Trieste col marito, ove stette diciotto anni ammirata maestra di recitazione, e d’onde si restituì in Italia, a Milano, ove è tuttavia col marito in ottima salute.

Petito Antonio. Figlio di Salvatore e di Giuseppina Errico, più conosciuta col nome di Donna Peppa, nacque a Napoli il 22 giugno del 1822. Fu il più grande Pulcinella del secolo xix, e il Signore del Teatro San Carlino per ventiquattro anni. (Vi era entrato il 1852 e vi morì il 26 marzo 1876, d’aneurisma).

A chi voglia avere un’idea chiara di quel che fosse Antonio Petito, raccomando la Cronaca del Teatro di San Carlino, di S. Di Giacomo, nella quale è la storia documentata, animata pur sempre da un soffio di poesia, che or vi solleva tutto, e or vi stringe l’anima.

La sera memorabile in cui Antonio Petito prese la maschera al San Carlino, fu presentato al pubblico dal padre Salvatore, come il Pantalone Rubini dal suo predecessore Gio. Batta Garelli. Toltasi il vecchio Salvatore la maschera di sul volto, e adattatala su quella del figliuolo, gli augurò piangendo : « Pecient’annc ! »

Antonio Petito morì sul palcoscenico, come a un dipresso l’Angeleri, il Caccamesi, il Massari, il Pieri padre. Caduto appena il sipario sul terz'atto della Dama bianca, egli era andato a seder, come al solito, nel corridojo sul quale dava il suo camerino. Colpito d’apoplessia fulminante, cadde a terra, e morì dopo cinque minuti.

Il Di Giacomo così descrive con sintesi felice l’attore geniale :

{p. 263}Buon marito, operajo onesto, generoso, talvolta pur coraggioso, spiritoso, non servo, non maligno, non egoista, arguto, non goffo in amore, fine osservatore, intelligente popolano : ecco il Pulcinella in Antonio Petito. La dichiarazione dei diritti dell’uomo rianimava, tardi ma in tempo, fin la maschera acerrana ; il Palcoscenico del San Carlino aveva in Pulcinella un uomo accessibile alle passioni più varie e contrarie, un attore che, di volta in volta, sapeva pigliar così dirittamente la via del cuore da commuovere fin alle lagrime gli spettatori.

………………………..

E dopo di aver accennato alla buffoneria stereotipata del pulcinella cerloniano, e all’opera riformatrice di Pasquale Altavilla, dice :

Antonio Petito, a cui la riforma sorrideva, raccolse la maschera, ma se ne coperse la faccia non per nasconderla sotto una stupida e goffa sembianza. Quando gli parve che non lasciasse trapelare la passione la smise, rimovendo un ostacolo, e diventò Pascariello, tipo popolare ch'egli rappresentò mirabilmente, assorgendo ad arte singolare e penetrante, da vero attore.

{p. 264}E il Petito non fu che attore. Cominciò, è vero, a pubblicar nel '67 le sue commedie, intitolando la raccolta : Selva Comica Nazionale, ma egli sapeva appena leggere e scrivere (imparò a scrivere poco dopo di esser entrato al San Carlino), e i suoi sgorbi drammatici eran corretti da Marulli e Altavilla, i quali, il primo specialmente, concedevan ch'ei desse commedie loro sotto il suo nome. L'opera del Petito non regge d’avanti alla critica ; e a chi tuttavia volesse chiedere la ragione del successo clamoroso di alcuna delle sue commedie, il Di Giacomo risponderebbe che

esso non fu se non il successo personale, comico di Antonio Petito. L'attore era veramente grande, la sua figura illuminava tutta la scena, riempiva tutti i vuoti, raccoglieva tutte le emozioni e gl’interessamenti ; così le volgari stupidaggini della commedia, il suo difetto d’umanità, di nesso logico, di spirito, eran dimenticati in un godimento che pervadeva tutto il pubblico e durava ancor fuori del teatro : una felicità che accompagnava fin a casa gli spettatori, e lasciava ancor sorridere, nel sonno, le loro labbra dischiuse.

Quanto al costume, la maschera del pulcinella è nata con la camicia e i calzoni bianchi larghissimi, cappello di feltro bianco a cono, talvolta ripiegato in avanti, scarpe basse, e mezza maschera nera con enorme naso aquilino. Le modificazioni ch'essa andò subendo coll’andar degli anni furon soltanto nella maggiore o minor lunghezza della camicia, la quale vediam lunga al ginocchio negli ultimi anni (V. il Ghezzi), e più corta ne'primi (V. Callot). Quanto al carattere, il pulcinella, dapprima stragoffissima maschera (V. Fiorillo Silvio), andò poi come le altre tutte rappresentando moltissimi e svariatissimi tipi, mostrandosi tal volta sciocco, tal volta furbo, tal volta popolano, tal volta principe, tal volta pusillanime, tal volta eroe. Gran numero di scrittori e nostri e forestieri si occupò della origine della sua persona e del suo nome : in taluni prevalse l’idea che la maschera fosse invenzione moderna ; in altri, specie dopo la scoperta del famoso Macco dell’ Esquilino, ma non ho ancora capito bene con qual fondamento, che fosse discendente in linea retta dal Mimus albus della farsa atellana, come l’arlecchino dal Mimus centunculus ; quelli fecer derivare il nome or da Puccio d’ Aniello, or da Paolo Cinelli, or da pulcino, {p. 265}pulecino, puleciniello ; questi, or da Πολλή ϰιησις (molto movimento), or da Πόλις città, e ϰἔνός o in forma jonica ϰεινός, vuoto, sciocco, come se si dicesse buffone della città.

Petrelli Luigia. Figlia dell’arte, e moglie del capocomico Gioacchino Petrelli, il quale vediam già nel 1800, a dar quaranta recite con la sua Compagnia a Tolentino, riuscì una egregia prima donna per compagnie di second’ordine. Era il 1820 al San Gio. Grisostomo di Venezia in una Compagnia Sociale diretta da Ermeneghildo Maldotti, aggregata a una Compagnia di balli. Recitava poi senza ballo alla nuova arena Gallo. Lasciò il 25 il ruolo di prima attrice, per darsi a quello di madre nobile e caratterista. Formò nel '30 in società con l’artista Natale Fabbrici una Compagnia primaria, che condusse per varj anni, finchè non ebbe abbandonate col marito le scene. – Si ritirarono entrambi a Venezia, ove morirono tra il '40 e il '50.

Petrioli Nicola, abruzzese, nato ad Aquila il 1710 circa, fu uno de'più noti capocomici del secolo xviii. Recitava le parti di secondo innamorato, riserbandosi di primo soltanto quelle di Attila, Sansone, e Don Giovanni Tenorio. Di sera, affrettava l’alzata del sipario con ripetuti rulli di tamburo, e soleva talvolta partirsi da una Piazza con la condotta e i suoi scritturati, senza un soldo in tasca, e senza sapere ove si sarebbe posato. Una volta, giunto a Firenze in tal contingenza, ottenne dal general Botta, governatore, il permesso di recitare in Livorno, trovando chi gli sborsò il danaro occorrente. Questa e altre bizzarrie lo fecer sinistramente celebre.

Era l’estate del 1740 al Teatro Ducale di Milano, in cui dette un regolare corso di recite, con una Compagnia più che sufficiente, di cui erano parte principale i seguenti artisti :

DONNE


Angiola Costantini, prima donna

Elisabetta Gnudi, servetta

Caterina Silani, per le parti a trasformazione

{p. 266}UOMINI


Giovanni Ant. Foresti, Brighella

Niccola Petrioli, primo innamorato

Giovanni valentini, Dottore bolognese
Francesco Lombardi, secondo innamorato

….. Silani, Arlecchino

Filippo Niccolini

Giovanni Battista Gozzi, Pantalone

Anselmo Porta

Agostino Zurlini

generici

A Ravenna, trovandosi il 1765 in uno de'momenti più critici, fuggì dalla Compagnia, di cui prese le redini la famiglia Romagnoli.

Trasferitosi in Ascoli, ottenne un posto di Maestro di Casa presso un Cavaliere di quella città, ove ancor viveva il 1781.

Petrucci Luigi. Nato, e impiegato governativo in Ancona, entrò, appassionato dell’arte, nella Filodrammatica della Città, e vi riuscì in breve egregio per le parti di caratterista. Carico di famiglia, e ormai non più giovane, determinò di darsi alla scena, esordendo qual caratterista nella Compagnia ch'egli stesso formò in società con Gaetano Colomberti e Luigi Bergamaschi, e diventando in pochissimi anni de'più valenti. Fu con Goldoni, e con Perotti ; e il 1819 si fece capocomico. Prediletto da Maria Luigia Infante di Spagna e Duchessa di Lucca, occupò per lungo tempo quel R. Teatro del Giglio ; e benchè, tormentato dalla podagra, non potesse più volte che recitar tutta la sua parte seduto, Ella non mancava mai alle rappresentazioni di lui. Fu specialmente egregio nelle commedie del Goldoni, del Nota, del Giraud. Ritrovavasi nel Teatro Obizo di Padova, quando, salitogli il male al petto, cessò di vivere.

{p. 267}Petrucci Giuseppe ed Elena. Figlio, il primo, del precedente, e buon caratterista anch'esso, fu scritturato dai migliori capocomici, insieme a sua figlia Elena, egregia amorosa. Gustavo Modena, richiesto d’informazioni dall’attore Giovan Paolo Calloud su l’arte di entrambi, così gli scrisse il 17 agosto del 1851 :

La Petrucci è un buon acquisto ; recita naturalmente, ha forza, ha intelligenza, è un pastone di bontà, e farà progressi : è giovanissima, un po'tozza di persona, ma belloccia di viso, e non sconcia : non ha sentito eroi nè eroine a recitare, quindi non è ancor guasta, - ma venga con voi o con altri si guasterà, grazie al colto pubblico e all’esempio dei compagni. Non lo dire a Marchi, chè non mi perdonerebbe la bestemmia. Ma la Petrucci ha il padre che è caratterista, niente cattivo attore, anzi, a parer mio, buon attore ; e se non sta col padre, passa in podestà del marito, sposa cioè Germoglia che fa il primo attore ; nell’un caso o nell’altro non vedo come possa fare al caso vostro.

Doventò infatti la moglie di Germoglia, e una artista di buon nome.

Pezzana Luigi. Fu attore de'più egregi in ogni genere di recitazione tragica, drammatica, o comica. Mise il primo in iscena a Firenze, dopo la rappresentazione dei filodrammatici Concordi, il Goldoni di Ferrari con grandissimo plauso, e andò famoso per alcune parti di genere opposto, come Luigi XI, e Il Cavalier di spirito. Io ho sentito il Pezzana, capocomico, negli ultimi anni della sua vita artistica, rappresentar tra l’altre con molta verità e molta efficacia la parte di Vincenzo Monti nell’ Ugo Foscolo di Castelvecchio (il Foscolo era Giovanni Ceresa, un artista di gran pregio, formatosi sotto i savj ammaestramenti di lui). Luigi Pezzana era nato il 1814 a Verona da Giuseppe Pezzana, ultimo rampollo d’una nobile famiglia di Venezia, che per rovesci di fortuna aveva ottenuto un impiego giudiziario a Verona. Quivi fece gli studi ginnasiali e liceali, poi si recò all’ Università di Padova, inscritto nella Facoltà di Legge. Non ancora spirato il secondo anno di studj, s’era nel 1833, il futuro avvocato, appassionatissimo dell’arte, in cui ebbe lezioni, dicono, dalla celebre Pellandi, e in cui fece prova eccellente nella filodrammatica della sua patria, si scritturò primo attore nella Compagnia di Marco Fiorio, di cui era prima attrice Carlotta {p. 268}Polvaro, vedova del brillante Angiolini, la quale egli sposò dopo alcun tempo.

Passò con lei dalla Compagnia Fiorio in quelle di Ghirlanda, di Asti, e Domeniconi (1842).

Si fece poi capocomico, ora solo, ora in società col brillante Cesare Marchi, col quale stette sino al 1859 (la moglie era morta nel '51).

Fu il '60 con Adelaide Ristori a Parigi, a Londra, in America qual promiscuo e caratterista, poi di nuovo capocomico, poi, finalmente, direttore di una delle tre Compagnie di Luigi Bellotti-Bon. Ma ormai, gli anni incalzando, si ritirò a Firenze, ove morì il 12 gennaio del 1894.

Il Colomberti dice che mentr'era nella Compagnia di lui il 1859 come generico primario, lo vide eseguir molto bene Saul, {p. 269}Egisto nell’ Agamennone, Zambrino nel Galeotto Manfredi (questa dello Zambrino era rimasta, ricordo, un suo caval di battaglia degli ultimi anni), e i drammi Luigi XI, Il Cittadino di Gand, e La colpa vendica la colpa. E aggiunge che, dotato di buonissima voce e di simpatica figura, sapeva, specialmente nelle Arene, destar fanatismo : e al Mausoleo d’Augusto (Corea) di Roma, fu posta una lapide che ricordasse ai frequentatori i favolosi incassi dell’ estate del 1859.

Pare ch'egli, attore popolare per eccellenza, non avesse gran cura dell’ allestimento scenico. Costetti ne' Dimenticati vivi ci fa sapere che nel palazzo del Conte di Montecristo (il Pezzana ricorreva, costretto, alla risorsa della famosa quadrilogia), tutto il lusso orientale di lui consisteva in due moretti di stucco, che reggevano ciascuno un candelabro, e in un braciere di coccio dorato da cui usciva un fumo, poco voluttuoso, di mirra e di incenso, tal quale nelle chiese al momento della benedizione del Santissimo. Del che il pubblico non sapea muovergli rimprovero : ma glie ne moveva la critica e acerbissimo.

Enrico Montazio (Il Proscenio e La Platea, Firenze, 1845) fu de' suoi più acri censori nella condanna aperta, senza mezzi termini, or de' controsensi di messa in scena, or di quel volere l’ applauso a ogni scena, a ogni parlata, a detrimento della verità, della castigatezza, del pudore : e tanto una volta invei contro l’ artista celebrato, che il Niccolini ebbe a scrivere a Maddalena Pelzet, che il Pezzana, montato in furore per le critiche del Montazio, aveva minacciato per la strada di bastonarlo.

Pezzana-Gualtieri Giacinta. Trascrivo una nota autografa dell’ illustre artista :

« Nata a Torino il 28 gennaio 1841 da Giovanni Pezzana, ricco negoziante di mobili, e Carlotta Tubi. Entrata nell’Accademia Filodrammatica di Torino il '57, e cacciata per mancanza di disposizioni per l’ arte, e ciò per opera del famigerato Garberoglio. Esordito nel '60 con Toselli in dialetto, dal '62 al '64 {p. 270}con Dondini Cesare ed Ernesto Rossi, poi fino al '67 con Bellotti-Bon. '68-'69 ai Fiorentini di Napoli con l’Alberti. '70-'71-'72, Compagnia con Monti-Privato, poi Spagna e America. »

Fin qui la nota, che cercherò io di completare. Alla Spagna e all’America vanno uniti la Rumenia, la Russia, l’ Egitto. Torna in Italia, e solleva il pubblico all’entusiasmo al Dal Verme di Milano con la Messalina di Pietro Cossa. Il '78 riprende il largo per l’America, ove per la prima volta ha l’audacia di cimentarsi nella parte di Amleto.

Di nuovo in Italia, si scrittura ai Fiorentini di Napoli, ove interpreta colossalmente la Teresa Raquin di E. Zola. Entra l’ '80 con Cesare Rossi nella Compagnia della Città di Torino, che abbandona dopo un anno per rivedere la Rumenia, la Russia, l’America.

Poi in Italia ancora scritturata, o capocomica, fino al '98, anno in cui fa parte come prima attrice tragica e prima attrice madre della Compagnia del Teatro d’Arte. Oggi la Pezzana dà or qui or là rappresentazioni straordinarie, che sono pur sempre feste dell’ arte, dacchè i suoi sessant’ anni non han saputo infiacchirle la eccezionale fibra di acciaio.

Giacinta Pezzana Gualtieri (sposò Luigi Gualtieri, scrittore di romanzi e di drammi assai noti quali L'Innominato e La voce della coscienza, mentr' era in Compagnia Rossi e Dondini) formò con Virginia Marini e Adelaide Tessero quella gloriosa trinità, che per circa un trentennio tenne lo scettro dell’arte in Italia. Grande nella Zelinda di Goldoni, non fu meno grande nella Medea di Legouvé. La sua voce maschia e vigorosa nella tragedia, trovava nel dramma moderno note di dolcezza ineffabile. Nessuna attrice del suo tempo, compresa la Ristori, potè vantare tal vastità di repertorio. Tornata dalle Americhe non si atrofizzò ne'pochi lavori ch'ella ammannì a quei popoli lontani, ma, come se allora allora ella entrasse nell’ arte, si diede col fervore della prima giovinezza a interpretar l’opera drammatica più recente, mostrando sempre e dovunque il lampo dell’ antico valore. Chi non ricorda la Pezzana al glorioso tempo {p. 271}della Compagnia di Bellotti-Bon, della quale ella fu principale ornamento ? Quella Signora dalle Camelie, vissuta con Lei e con Gaspare Lavaggi di una vita nuova al pubblico, tutta anima, tutta passione, quella Baronessa d’ Isola nei Mariti di Torelli !… Oh ! se tutti volessimo enumerare i lavori, in cui la Pezzana esercitò il suo fascino di grande artista ci bisognerebbe scrivere un libro. Basti che intanto se ne citino alcuni, i quali, nella lor varietà dànno un’ idea ben chiara della morbidezza e vigorìa del suo talento : Stuarda di Schiller – Medea di Legouvé – Norma di D' Ormeville – Messalina di Cossa – Amleto di Shakspeare – Maria Antonietta di Giacometti – Suor Teresa di Camoletti – Teresa Raquin di Zola – La Signora dalle Camelie di Dumas figlio –  {p. 272}Fernanda di Sardou – Adriana Lecouvreur di Scribe – Il Signor Alfonso di Dumas figlio – Le Gelosie di Lindoro di Goldoni – La Casa Nuova di Sardou – La Donna e lo Scettico di Ferrari – La Giorgina di Sardou – Il Casino di Campagna di Kotzebue – Antony di Dumas – La Vecchia e la Nuova Società di Feuillet – Il Codicillo dello Zio Venanzio di Ferrari – Giuditta di Giacometti…. ecc., ecc., ecc.

Al fianco di Ernesto Rossi pare ella rivelasse in uno scatto improvviso, inatteso, l’arte suprema che avrebbe poi fatto di lei una delle più geniali attrici del nostro teatro di prosa. Si recitava l’ Otello di Shakspeare. Ernesto Rossi nella sua foga furibonda sfiorò, senza volerlo, la guancia della giovane artista. La Pezzana scossa, come se fosse stata realmente colpita, ebbe una esplosione di collera, di passione e di lacrime vere, che trascinò il pubblico all’ entusiasmo. Il vecchio Dumas, che era fra gli spettatori, si affrettò a salir la scena per congratularsi col novissimo astro.

E a proposito di queste sorprese di effetti, Roberto Bracco racconta di lei che la Duse…. ma no : io voglio metter qui come chiusa le parole dell’ egregio commediografo napoletano, come quelle che ci dànno in bella sintesi il ritratto dell’ artista e della donna, mostrandone le qualità meravigliose, non senza toccare quel tanto di male che potè nuocere in parte alla sua gloriosa carriera.

Giacinta Pezzana – alla cui gloria è mancata quella continuità di fulgore la quale non si può ottenere senza che al valore immenso sia accoppiata l’ agilità degli espedienti che mantiene viva la comunione col pubblico irrequieto e variabile – resta, comunque, nella drammatica italiana un sole inoffuscato. E per questa insigne donna, che non ha mai troppo amato l’eleganza, che ha sempre eliminato stranamente dalla sua personalità quella forza muliebre che dai palcoscenici ha tanta virtù soggiogatrice, per questa donna che non s’ è mai riscaldata alla fiamma d’ una grande ambizione, per questa donna che ha facilmente rinunziato alle lotte contemplando senza rancore i fulgidi astri che l’ hanno seguita e indicandoli con fiducia ai diffidenti, io ho una speciale predilezione fatta di convincimenti e di reminiscenze.

In arte, niente mi sembra più meraviglioso e più bello di ciò che pare scaturisca dalla natura stessa d’ un artista come un’ acqua limpida e fresca da una roccia vergine. E la recitazione di Giacinta Pezzana, con tutte le armonie di quella voce dolcissima, con tutta l’eccellenza dei suoi effetti immediati, con tutte le profondità del sentimento che sa destare, con tutte le sue gradazioni di comicità e di drammaticità, con tutto ciò che in altri artisti della scena può essere il risultato di magistero magnifico, ha avuto sempre, per me, quel carattere di vera {p. 273}sincerità e di congenita bellezza che esclude ogni supposizione di sforzo, di ricerche, di lavorio cerebrale e di attività volitiva.

E queste manifestazioni genuine di arte somma paiono specchi che riflettano tutto quanto accade dinanzi ad essi. Nella recitazione di Giacinta Pezzana si sono potuti ritrovare gli atteggiamenti estetici più diversi. La sua recitazione è stata sempre la medesima ; e nondimeno non è improbabile che essa sia apparsa, a volte a volte, romantica, classica, verista, simbolica. Eleonora Duse, ricordando le sue primissime armi fatte accanto a Giacinta Pezzana – l’ unica attrice da cui traesse qualche alimento la meravigliosa genialità dusiana, – mi raccontava come in una scena dolorosa d’ un dramma del quale le sfuggiva il titolo, Giacinta Pezzana, una sera, all’ improvviso, prendesse a ripetere una parola camminando concitatamente e mettendo in ogni ripetizione un suono di voce strano, intenso, irresistibile. Eleonora Duse, giovinetta, ne ebbe una impressione nuova. Ne fu scossa, ne fu meravigliata. E più tardi – cosi ella mi raccontava – provò ancora quella impressione ascoltando certe prodigiose e sublimi insistenze vagneriane.

A complemento delle quali parole, dirò che Giacinta Pezzana Gualtieri prestò l’opera sua sovente all’altrui beneficio. Diede rappresentazioni a Madrid per fondare un ospedale italiano ; altre ne diede a Buenos Ayres per quegli istituti di beneficenza, ed altre ancora a Rosario per la Società patriottica italiana.

Di mente aperta, d’ indole sdegnosa, ribellante a tutto ciò ch'è impunemente e coscientemente iniquo, fu attratta un tempo dalla politica, che, in lei, soverchiò quasi l’arte. Scrisse in prosa con chiarezza e semplicità :… mediocremente in versi.

{p. 274}Un chiaro e gentile esempio di gratitudine ci diede colla pubblicazione di un libricciuolo in memoria di Carolina Malfatti, di cui fu la principale allieva, non solo per attitudine di arte, ma per affezione e devozione profonde alla modesta maestra.

Piamonti Isolina, nata a Firenze il 1841 di famiglia senese (Travaglini), studiò recitazione nel Ginnasio drammatico del prof. Filippo Berti, e nel '58 esordì al Teatro Paganini di Genova, quale amorosa nella Compagnia di Luigi Domeniconi. Fu con Gaspare Pieri ; poi, qual prima attrice giovane, con Cesare Dondini, passando il '61 nella gran Compagnia di Tommaso Salvini. Passò da questa a Napoli nella Compagnia di Achille Majeroni, fino al '65, anno in cui assunse il ruolo di prima attrice assoluta in Compagnia di Achille Dondini. Attrice coscienziosa, ricca di sentimento e d’intelligenza, ottime doti non mai discompagnate da una gentile modestia, percorse i principali teatri d’ Italia e dell’ estero, al fianco de' più famosi artisti, quali la Fumagalli, la Cazzola, la Sadowski, i fratelli Salvini, Taddei, i due Rossi, ecc. Interpretò con molto plauso caratteri opposti, come Ofelia, Desdemona, Partenia, Norma, Messalina, Marcellina e Pamela ; e Tommaso Salvini che l’ebbe lungo tempo a compagna, fa bella menzione di lei ne' suoi Ricordi artistici.

Sposò Alfredo Piamonti, attore generico e amministratore, col quale si trova anche oggi, e dal quale ebbe un figliuolo, che, seguìta l’arte de' parenti, promette di diventare un caratterista egregio.

{p. 275}Pianca Pietro, milanese. Dopo di aver recitato co' dilettanti della città, si diede al teatro, esordendo primo innamorato con Fedele Venini, e passando poi con Francesco Paganini, col quale ebbe campo di mostrare le sue ottime qualità di artista, specialmente per le parti di genere serio.

Pianizza Giuseppe, bolognese. Dopo di avere recitato fra gli accademici le parti di prima donna, sollevando all’ entusiasmo nella Zaira di Voltaire e nella Perselide del Martelli, risolse con un fido compagno, Orazio Zecchi, di formare una Compagnia tutta di giovani, colla quale si recò nella Marca anconitana, ov' era vietato alle donne di presentarsi in Teatro, e ove s’ ebbe i più completi trionfi. Recitò poi le parti d’ innamorato ; e fu col medesimo Zecchi a Napoli, ove molto piacque, specialmente nel personaggio di Signor Pasquino, uomo ridicolo, schizzinoso e affettato, e in quello di ubbriaco.

Giuocatore espertissimo di bigliardo e di pallone, fu anche dedito a disordini non fatti per la sua complessione gracilissima ; talchè, prostrato dal male, si recò da Napoli a Bologna colla speranza di recuperar le antiche forze nella città natale : ma, le cure de' medici riuscite vane, dovè soccombere, ancor giovane, nel 1775.

Piccinini Lorenzo. Nato a Lucca il 1807 da Domenico e da Angela Rosignoli, entrò in arte la quaresima del '26 nella Compagnia di Carlo Spinola. Salito al grado di generico primario, si mantenne in quel posto, ammirato e acclamato, al fianco de' migliori artisti del suo tempo, e scritturato da' migliori capocomici, quali Vergnano, Bon, Mascherpa, Bazzi, Presciani, Alberti, Monti, Domeniconi, Coltellini, Dondini, Salvini, sino al 1879, anno in cui si ritirò dalle scene, poverissimo, soccorso da' suoi concittadini, e da qualche compagno d’ arte.

Fu direttore di una Scuola di declamazione, creata a posta per lui nella sua terra natale, ove morì il 17 di novembre del '91, compianto da tutti. Aveva preso parte attiva {p. 276}il '31 ai moti insurrezionali italiani con la legione del marchese Guidotti.

Ernesto Rossi lasciò scritto di lui :

Piccinini, quantunque non levasse le ali a eccelsa mèta fu artista coscenzioso e distinto e interprete felice delle opere dell’ Alfieri, del Niccolini, di Pellico e del Marenco, opere ormai sconosciute alla presente generazione. La modestia, più che il suo intrinseco talento artistico, lo arrestò nel suo cammino, il quale avrebbe potuto essere più glorioso, ma però quella modestia, che io chiamerei temenza di sè medesimo, gli valse maggiormente la stima dei suoi compagni e della critica, perchè ebbe il piacere e la soddisfazione di recitare sempre a fianco dei più bravi artisti italiani. Come uomo, di una onestà e di una probità veramente esemplare, per cui mai gli mancò la stretta di mano e l’ amicizia vera di quanti lo conobbero.

Pieri Francesco, romano, figlio di onesti parenti, fu, nella prima giovinezza proto di stamperia. Stanco dell’ arte sua, abbandonò la terra natale, e dopo alcune vicende si aggregò a una Compagnia comica di secondo ordine, recitandovi le parti di tiranno. Fu con tale ruolo socio di varj nelle imprese, finchè, impinguatosi alquanto, passò a quello di caratterista, scritturato nella Compagnia Bianchi e Paganini. Fu in processo di tempo socio della Belloni e del Previtali ; poi di nuovo scritturato dal Pani e dal Raftopulo. Tornò col Pani il '23, fece società il '24 con Nicola Vedova, e divenne poi conduttore di Compagnia egli stesso, che tenne fino alla sua morte.

Il Pieri fu coetaneo del Pertica e del Vestri : nonostante, mercè l’ ingegno svegliato, la voce armoniosa, la fisionomia aperta, la figura adatta al suo ruolo, fu uno de' più reputati caratteristi del suo tempo.

Le commedie : La Riconciliazione fraterna (dal tedesco), La Bottega del Caffè, Il Burbero benefico, Il Poeta fanatico, Il Barbiere di Gheldria, e altre molte ebbero in lui un interprete valoroso.

Al Teatro Nuovo di Firenze, nel carnovale del 1834, entrato appena fra le quinte dopo una scena delle Donne Curiose del Goldoni, fu colto da apoplessia fulminante, che in poche ore lo condusse al sepolcro.

Pieri Anna. Moglie del precedente, figliuola di saltimbanchi, che recitavano e ballavano sulla corda in baracche mobili {p. 277}di legno, preceduti e accompagnati da un suonatore di tromba, di gran cassa e di chitarra, fu con essi in Portogallo ; d’onde, restituita in patria, fu veduta e amata dal Pieri, il quale, avutala in moglie, la separò per sempre da' suoi congiunti. Diventò l’Anna in poco tempo un’attrice di liete promesse, e con l’ornamento della persona bellissima, del volto simpatico, degli occhi splendidi, dello spirito singolare, salì in breve al grado di seconda donna, poi di prima assoluta, nel qual ruolo stette sei anni, nella Compagnia Raftopulo, assieme al marito caratterista, poi in quelle di Pani e di Vedova.

Cedè, il 1826, il ruolo di prima donna a sua figlia Amalia, passando essa a quello di madre nobile, sino al '34, anno della morte di Pieri, dopo il quale scritturò le figliuole Amalia e Luigia a' Fiorentini di Napoli, e il’35 andò a viver con esse fuor dal teatro.

Pieri-Cristiani Amalia, figlia dei precedenti, cominciò a recitar quindicenne nella Compagnia che suo padre aveva in società con Vedova. Col padre capocomico, assunse il ruolo di prima donna giovine, e prima donna, nel quale fu scritturata a' Fiorentini di Napoli, a vicenda con Carolina Colomberti, sotto la celebre Tessari. Sposatasi a Demetrio Cristiani, vedovo, che le morì dopo due anni, si recò prima attrice assoluta nella Compagnia Pisenti e Solmi, in cui stette più anni, applauditissima. Passò poi in varie Compagnie, ora socia, ora scritturata, e morì a Roma.

Pieri-Tiozzo Elena. Veramente ella non ha che vedere col nome di Pieri, essendo nata a Napoli il 1840 da Demetrio Cristiani e da Angiola Cavalli. Mòrtagli la moglie, il Cristiani passò a seconde nozze con Amalia Pieri, che s’ebbe la piccola figliastra, come vera figliuola : e questa, entrando in arte, adottò forse, invece del paterno, il nome della matrigna, a cui tanto lustro aveva cresciuto il fratello Gaspare.

A tredici anni Elena Pieri esordì per le parti amorose in una compagnia formata dall’ Amalia, e a poco più di quattordici si {p. 278}sposò a Giuseppe Tiozzo, pizzicagnolo di Chioggia. Ma l’amore dell’arte la ricondusse dopo un solo anno di matrimonio su la scena, prima donna della Compagnia Mazzola, poi della Lombarda ('56) diretta da Luigi Aliprandi, di quelle di Peracchi ('57) (l’elenco l’annunziava come socia onoraria dell’ Accademia Rozzo-Senese), di Gattinelli, di Bellotti-Bon, di Alessandro Salvini.

Formò poscia ('61) compagnia ella stessa per un triennio, dopo il quale ('65) fu con la Compagnia Dante Alighieri, diretta da Riccardo Castelvecchio. Recatasi a Tunisi, vi dimorò parecchio tempo, maestra di filodrammatici ; indi, fatta compagnia la figlia Zaira (un’ artista mediocre per le parti di prima attrice, che pervenne a un certo grado di rinomanza per la rappresentazione della Frine di Castelvecchio, in cui mostrava all’ultima scena tutta la opulenza delle sue forme ; e che oggi trovasi a San Paulo di Brasile), essa andò a farne parte qual madre nobile, e tale passò l’anno dopo con Novelli, con cui stette sette anni ammiratissima.

Fu quindi con la Compagnia Cocconato, poi con quella di Cesare Rossi, dalla quale uscì per recarsi a Livorno, aggregata alla Filodrammatica de' Nascenti. Oggi (1901) ell’ è con Micheluzzi a Napoli. Attrice modesta e amantissima dell’ arte sua, fu sempre decoro delle compagnie in cui militò.

Pieri-Alberti Luigia, sorella minore della precedente, sostenne il ruolo di servetta fino alla morte di suo padre, poi di amorosa nella Società Tessari, Prepiani e Visetti de' Fiorentini di Napoli, della quale, in breve, diventò la prima attrice giovine applauditissima. Uscitane la Colomberti per darsi al canto, e non essendo la celebre Tessari più giovine, la Pieri la sostituì in tutte quelle parti convenienti alla sua età. Succedette alla Tessari Maddalena Pelzet, la quale dopo un solo anno dovette andarsene ; e la Pieri tra pel merito reale, e per l’ intrigo del marito, Adamo Alberti, capo socio della Compagnia, diventò la prima donna assoluta dei Fiorentini, fino al '54, in cui fu sostituita da Fanny Sadowski, assumendo essa il ruolo di madre {p. 279}nobile, che sostenne per varj anni, finchè, stanca dell 'arte, il 10 ottobre del 1885 si ritirò dalla scena. Morì a settantaquattr'anni a Napoli d’ idropisia.

Pieri Gaspare, fratello minore delle precedenti, nato a Roma il 1827, fu il più forte artista brillante del suo tempo. Cominciò giovanissimo a recitar nella Compagnia de' Fiorentini di Napoli, poi si scritturò il '51 come amoroso nella Compagnia di Luigi Domeniconi. Ma dopo alcuni anni di prova infelice, si diede alle {p. 280}parti comiche, nelle quali riuscì in breve grandissimo. Trovandosi il '55 nella Compagnia di Astolfi, morto questi di colera a Pistoia, ne assunse egli la condotta e la direzione, fortunatissimo sempre come capocomico, l’ idolo del pubblico e delle imprese come attore. La rinomanza sua era giunta a tale, che non gli occorreva più spedir l’ elenco della Compagnia a'vari teatri : il suo nome era più che sufficiente. A un colpo di tosse, a una frase, a un saluto da lui appena accennato di tra le quinte, avanti d’ entrare in scena, si propagava in un attimo per tutto il teatro la più festosa allegria. Grazioso, pieno di anima e di vita, eloquente e alquanto istruito (il suggeritore non esisteva per lui), riempieva egli solo tutta la scena. Dire delle commedie ov' egli maggiormente eccelse non è possibile, poichè in tutte egli fu eccellente. Talvolta anche uscì dal suo ruolo, come ad esempio, nella Satira e Parini del Ferrari, in cui passò a quello di caratterista, recitando il Marchese Colombi, e nel Goldoni e le sue sedici commedie pur di Ferrari, in cui passò a quello di primo attore, recitando il protagonista.

A detta de' contemporanei nessuno toccò nel Colombi la perfezione di lui, e quanto al Goldoni egli scriveva a Francesco Righetti il 18 agosto' 54 da Venezia :

Qui la mia Compagnia piace immensamente, qualunque altra in vece della mia non farebbe le spese serali, tanti sono i passatempi gratis, che offre in questo mese Venezia ; pure ò 116 abbonati e nove palchi a stagione. Colla mia destrezza sostengo persino la Dreoni, che viene salutata al suo comparire ; Salvini furoreggia ; ma con la debita modestia io sono il più festeggiato, e ne ho potenti prove pecuniarie. Per mia beneficiata feci il Goldoni e le sue sedici commedie, in cui sostenevo la parte del protagonista ; ebbene, quantunque stravecchia la commedia, pure il teatro era quasi pieno, e rimasero nette 314 lire, senza alcuni regali che mi vennero fatti, mentre in festa con Dramma nuovo, non abbiamo mai incassato più di 160 lire. Ne feci due repliche con bel teatro, e piacqui immensamente, come pure il Raimondi nella parte del Suggeritore. Bellissimi articoli mi scrissero tanto sulla Gassetta officiale, come negli altri fogli di Venezia. Mi dichiararono superiore a molti e inferiore a nessuno dei primi attori che sin oggi hanno rappresentato Goldoni. Lo stesso Paolo Ferrari che me la pose in scena, mi fa i più lusinghieri complimenti. La feci studiare e provare per 14 giorni, per cui t’ assicuro che è affiatata in modo da farsi a memoria ; infatti la prima parte del terzo atto la recitiamo senza rammentatore, lo che fa un bellissimo effetto.

Era stato il '54 nella Compagnia Reale Sarda (obbligato di recitare tutte le parti di brillante e non meno quelle di primo {p. 281}generico amoroso che gli verranno assegnate senza ulteriore pretesa, o contraddizione alcuna, con lo stipendio annuo di lire nuove di piemonte 3400, e due mezze serate), poi diventò per un anno capocomico, anno malauguratissimo, in cui s’ ebbe malanni di ogni sorta un po' : Colera, Leve, Carestia, Imprestiti e altro. Tornava scritturato pel '56, attore e direttore, con Astolfi, e nella lettera al Righetti dianzi accennata, scriveva : « non voglio più dolori di testa, nei più begli anni della mia carriera : questo è il momento di farmi pagar bene, ed infatti me ne sono prevalso : se Astolfi mi ha voluto pel '56, ha dovuto darmi lire settemila, e cinque mezze serate. » Ma l’ Astolfi morì, e il Pieri fu d’ allora in poi capocomico fino alla morte (a Genova, il 3 marzo 1866), e per di più senza dolori di testa.

Pieri-Casali Giuseppina. (V. Casali-Pieri).

Pieri Vittorio, figlio dei precedenti. La sua prima apparizione mi pare facesse il 1865 nell’ elenco della compagnia paterna, per le parti ingenue.

Lo vediamo il '75 secondo brillante, prima con Bozzo e Checchi, poi con De Ogna e Schiavoni. L' '80 era nello stesso ruolo con Morelli e la Tessero, coi quali passò primo assoluto l’ '83 colla moglie (V. Aliprandi-Pieri) prima attrice. Diventò l’ '84, e per un triennio, capocomico solo, poi in società con Cesare Vitaliani e Angelo Vestri. Tornò scritturato in vario tempo poi capocomico, or solo ora in società, passando dal ruolo di brillante a quello di generico primario.

{p. 282}Vittorio Pieri non ereditò la forza comica del padre ; ma sì la sua semplicità e correttezza…. e però ebbe assai più attitudini alle parti dignitose che a quelle di vero e proprio brillante. Oggi, se ben sempre artista, attende all’amministrazione della compagnia, di cui egli è capo assieme all’ attore Enrico Reinach.

Pietriboni Giuseppe. Un de' più forti capocomici e direttori del nostro tempo, nacque a Venezia il 21 dicembre del 1846 dal ragioniere Domenico e da Angela Demartini. Studiò legge, e senza aver appartenuto ad alcuna società filodrammatica, mostrò sin da piccolo amore grandissimo al teatro di prosa, nel quale esordì come autore, facendo rappresentar di giorno al Malibran per beneficiata del primo amoroso della Compagnia Zocchi e Bonivento un suo lavoro in cinque atti, intitolato Antonio Dal Ponte, fondatore del Ponte di Rialto, sotto il Doge Pasquale Cicogna, ch' ebbe l’ onore di due repliche. L' arte lo affascinava ognor più. A Padova, innamoratosi di un’attrice della Compagnia Boldrini-Peracchi, si scritturò a prova secondo amoroso contro il volere del padre, e aiutato segretamente dalla madre ; ed esordì con la parte di Egidio nelle Scimie di Gherardi del Testa. Dopo tre mesi di prova fu accettato attore stipendiato a lire una e cinquanta centesimi al giorno e viaggi pagati. Ma alla madre fu proibito di mandargli il più piccolo soccorso di danaro, di guisa che egli fu costretto a sciogliersi, aspettando il danaro dal padre per tornarsene in patria. Nel frattempo si ammalò improvvisamente il primo attor giovine Giustino Pesaro. Gli affari della Compagnia volgevano alla peggio. Si doveva rappresentar la sera una commedia nuova, in cui tutti prendevan parte. Come rimediare ? Pietriboni si offrì di sostituir l’ammalato la sera stessa. E il successo fu pieno : e anzichè tornarsene a casa, il giovine artista fu confermato con una paga che gli desse da vivere ; e indi a poco egli fu primo attor giovine. Passò in due o tre anni nelle Compagnie di Prosperi, Peracchi e Sterni, finchè raccomandato ad Adamo Alberti dal Comm. Frascani, {p. 283}direttore delle Poste a Milano, potè entrare il '68, qual primo attor giovine, ai Fiorentini di Napoli dove stette sino al '73, anno in cui egli si creò primo attore, direttore, Capocomico e…. marito di Silvia Fantechi, ch' egli aveva conosciuta seconda donna nella Compagnia di Cesare Rossi. Il primo anno fece società con Francesco Coltellini, da cui essendogli pervenute alla resa dei conti cinque o seimila lire di guadagno, oltre a quel tanto da vivere che s’ era assegnato giornalmente per sè e la moglie, si sciolse amichevolmente, e diventò capocomico solo, mettendo subito piede al primo teatro di prosa di Milano (ora Manzoni) il settembre, e all’Arena Nazionale di Firenze la primavera. E qui comincia la grandezza vera di Giuseppe Pietriboni, della quale io posso dire qualcosa, avendolo avuto direttore e fratello per quattro anni : dal’ 77 all’ 81. Prima di tutto egli seppe accoppiare una grande intelligenza a una grande modestia ; e in ciò stette la sua forza. Incoraggiato dai più, accarezzato come una energia saliente, non fu offuscato dal demone della vanità e della superbia…. Egli andava assiduamente a frugar nelle vecchie commedie per rinsanguare il suo repertorio ; e quelle, cito ad esempio la Famiglia Benoiton di Sardou, metteva in iscena con la importanza di una novità ;… alla prima rappresentazione di esse, accortamente preparati, la stampa e il pubblico accorrevan in folla a dare il lor giudizio come si trattasse di grande avvenimento.

Di taluna di esse (del Padre Prodigo di Dumas figlio) affidò la direzione a Paolo Ferrari, il quale, traeva tale gagliardìa dalla disciplinatezza, dalla sommissione, dal volere di noi {p. 284}giovani, che a volte restava in teatro a dirigere dalle dieci di mattina alle quattro di sera. E vi fu chi l’accusò, tanto per fare, di non saper mettere in iscena che opere proprie. Oh ! se lo avesser visto nel Padre Prodigo, nei Fourchambault, nel Torquato Tasso di Goldoni, lavori d’ indole così disparata ! E quali effetti di commozione o di comicità non sapeva trarre da situazioni o da intonazioni nuove, imprevedute !!!

Pietriboni, ricorrendo a Ferrari, ebbe un di quei lampi che non possono avere, ripeto, che gl’ intelligenti e in un modesti ! Egli ebbe aperto da lui un nuovo orizzonte…. il metodo suo seguì, si assimilò ; grande interprete del concetto, non lo era meno della parola. Non gli sfuggiva un monosillabo ! Lo ricordo nei Borghesi di Pontarcy di Sardou ! Distribuite le parti e letta la Commedia, venne alla prima prova con un foglio, ove eran segnati meccanicamente nelle scene più confuse i movimenti de'singoli attori !… Mostrava egli le scene, recitava da donna, da vecchio, da giovine !… Certo non era ingiusta la pecca che trovaron nella sua dizione, saltellata e martellata talvolta in una pronunzia dialettale che non l’abbondonò più…. Ma il concetto della parte era sempre qual si doveva, e si mostrasse egli come Esopo, o Padre Prodigo, o Bernard, o Cavalier di Spirito, o Fabrizio, o Bolingbrocke, o Carlo V o Camillo Blana, o altro…. se non potè essere per l’ orecchio del pubblico attore eccellente, fu certo e sempre pel suo cervello eccellente artista.

Giuseppe Pietriboni fu anche uno de' più coraggiosi capocomici. Per rappresentare al Valle di Roma in una sola stagione di Carnevale il Mondo della Noia, sborsò a Giovanni Emanuel cinquemila lire in oro. Acquistò i Fourchambault di Augier per dodicimila lire in oro…. Commise a Cavallotti un lavoro, che fu poi il fortunato Cantico dei Cantici…. Ma quando ancora tutto arrideva, ahimè, il destino inesorabile venne a prostrare quella forza giovine….

L' '85, a Nizza, Giuseppe Pietriboni, quando si facevan sulla scena lavori di riadattamento nel teatro incendiato, visto nella penombra socchiuso un uscio, e credutolo quello di un {p. 285}camerino, lo aperse e vi entrò. Era quello dell’ ascensore !… Il poveretto precipitò dall’altezza di tre piani…. e n’ebbe tal commozione, che più non riacquistò l’antico vigore del corpo e dello spirito. Sette anni più tardi la sua Silvia gli morì dopo un anno e mezzo di malattia da lei ignorata, e che fu per lui la più atroce agonìa…. Oggi egli è stato chiamato, dicono, ad aiutar nella direzione pel triennio '903-6 la signora Virginia Reiter. Bene ! Dio lo guardi sempre.

Pietriboni Silvia. Moglie del precedente, nacque a Firenze il 1845 da Stefano e Maddalena Fantechi. Alunna della Scuola fiorentina di recitazione, diretta da Filippo Berti, esordì a diciassette anni nella Compagnia di Cesare Mazzola, passando poi in quelle di Luigi Domeniconi, di Papadopoli e Bergonzoni, e in altre. Creò allora (novembre del '69) al Teatro Re Nuovo di Milano Frou-Frou di Meilhac. Fu il '71-'72 seconda donna della Compagnia Sadowski, diretta da Cesare Rossi, al Re Vecchio di Milano e il 3 dicembre '71 vi creò per sua beneficiata la parte di Lidia nella Visita di Nozze di Dumas figlio. Sposatasi il '73 a Giuseppe Pietriboni, ne fu anche la prima attrice assoluta, sino al dì della sua morte, avvenuta a Torino per carcinoma il 21 febbraio del '92 ; e in codesti diciannove anni fu l’anima della Compagnia, nella quale recò tanto di bontà, di grazia, di gentilezza, che non vi fu, credo, compagno d’ arte che a lei non fosse come me affezionato e devoto, e come me non piangesse la sua morte sì come quella di una buona amica, di una sorella. Povera Silvia ! Non grande artista, era {p. 286}veramente una grandissima attrice : alla mancanza del temperamento che non le concedeva lo scatto inatteso, geniale che suscita gli entusiasmi, suppliva con una forza di volontà singolare, accogliendo sommessa i consigli, gl’ insegnamenti assimilandosi, e le parti più disparate analizzando, sminuzzando con tal cura affettuosa, da acquistarsi la benevolenza e l’ammirazione de' pubblici più severi. Creò, prima attrice e capocomica, una infinità di parti, fra le quali primeggiavan la Pia del Cantico de' Cantici, la Maja de' Fourchambault, la Madre de' Borghesi di Pontarcy, la Beatrice del Marito amante della moglie. Se bene a ogni genere di lavori ella fosse esercitata, non esclusi Adriana Lecouvreur, La Signora dalle Camelie, Due Dame ed altro, assai meglio riuscì, per l’ indole sua, in quelli, ove fosser primo elemento il sorriso e la grazia, l’ingenuità e la monellerìa. Così furon commedie predilette e da lei e dal suo pubblico Le prime armi di Richelieu, Il Positivo, Il Cantico, Il Bicchier d’ acqua, I nostri buoni villici, La Sposa sagace, ecc. – Nel primo anniversario della sua morte (21 febbraio '93) il marito raccolse con pietoso pensiero in un volume, che pubblicò a Palermo pei tipi del Barravecchia col titolo In Memoriam, quanto fu scritto e stampato nelle sue esequie dagli amici, dalla critica, dall’ arte tutta.

Pietro Paolo…. ? Per quante ricerche fatte, non mi è riuscito di aver notizia su questo comico, tranne la lettera seguente, che traggo dall’Archivio di Modena :

Ser.mo Sig.r mio oss.mo

Hauendo Pietro Paulo comico vna lite in Reggio, per la cui spedizione egli preme, come importante molto a suoi interessi, ha hauto ricorso da me, acciò che lo raccomandi a V. A. e la prieghi ad ordinare a que' suoi ministri che vogliano troncate tutte le dilazioni spedirgliela per giustizia. Io lo faccio con la presente, e m’ assicuro che l’A. V. si compiacera di far conoscere al suddetto quanto gli sia stata fruttuosa la mia intercessione, e qui raccordando a V. A. il mio solito desiderio di sempre seruirla, le bacio con parzialissimo affetto le mani

Di V. A. Aff.mo Ser.re e Cognato
Odoardo Farnese.
S.r Duca di Modena

Di fuori : (Rescritto della Cancelleria) s’ è scritto al S.r Tenente Borghi che spedischi la sua causa con somma giustizia rimosse, ecc.

{p. 287}Pietrotti Santi. Nacque a Firenze il 24 marzo 1830 da Vincenzo Petrotti (e non Pietrotti come fu chiamato in arte il figlio Santi) e da Rosa Gentilini. Rimasto orfano del padre, si trovò conduttore a sedici anni di una bottega di parrucchiere, la sola rimasta di tante possedute dal padre, colla quale era di sostentamento alla madre e a due fratelli minori. A diciotto anni, in compagnia di Ciotti, Barsi e altri, cominciò a recitare in un teatrino improvvisato, e dal '53 al '62 si scritturò con lo Stenterello Landini al Teatro della Piazza Vecchia, per le sole stagioni di Carnevale e di Quaresima, e con Laura Bon (V.) per le domeniche dell’estate al Politcama. Il '62 fu col Landini, regolarmente, per l’anno intero. Passò il '63 generico nella Compagnia di Gaspare Pieri, e l’anno seguente, per un triennio, in quella di Bellotti-Bon. Scritturato il '67 con Alamanno Morelli, fu con lui Caratterista fino al '79, per passare poi nella nuova Compagnia Marini e Ciotti, dalla quale uscì per recarsi con Emanuel a' Fiorentini di Napoli. Fu poi con Giacinta Pezzana, col Bellotti (Compagnia n. 2), e finalmente ancora con Virginia Marini, per un triennio, dopo il quale (carnevale dell’ '83) si recò a Firenze, dove morì il 23 giugno dello stesso anno.

Fu il Pietrotti attore assai pregiato per la verità e spontaneità della dizione. Diceva il verso con molta efficacia non mai discompagnata da una grande sobrietà. Al tempo in cui fioriron l’ opere di Pietro Cossa, egli fu nella Compagnia di Alamanno Morelli, degno compagno di Virginia Marini, Francesco Ciotti, Giulio Rasi.

Piissimi Vittoria, « celebre comica ferrarese, fioriva del 1579, nel qual anno fu ad essa dedicata da Bernardino {p. 288}Lombardi la Fillide, favola pastorale dell’ acceso accademico Rinovato. » Così il Quadrio. E il Garzoni, dopo di aver parlato dell’Andreini, dell’ Armani, e della Lidia :

Ma soprattutto parmi degna d’ eccelsi honori quella divina Vittoria, che fa metamorfosi di sè stessa in scena, quella bella maga d’ amore, che alletta i cori di mille amanti con le sue parole, quella dolce sirena, ch' ammalia con soavi incanti l’ alme de' suoi divoti spettatori : e senza dubbio merita di esser posta come un compendio dell’ arte, havendo i gesti proporzionati, i moti armonici e concordi, gli atti maestrevoli e grati, le parole affabili e dolci, i sospiri ladri e accorti, i risi saporiti e soavi, il portamento altiero e generoso, e in tutta la persona un perfetto decoro, qual spetta e s’ appartiene a una perfetta comediante.

E Giuseppe Pavoni nel suo diario delle feste per le nozze di Ferdinando Medici con Cristina di Lorena :

Sabbato, che fu alli sei (di maggio del 1589), ritrovandosi in Fiorenza li Comici gelosi con quelle due famosissime donne la Vittoria e l’Isabella, parve al Gran Duca che per trattenimento fosse buono far, che recitassero una Comedia a gusto loro. Così vennero quasi, che a contesa le dette donne fra di loro, perchè la Vittoria voleva si recitasse la Cingana, et l’ altra voleva si facesse la sua Pazzia, titolata la Pazzia d’ Isabella, sendo che la favorita della Vittoria è la Cingana, et la Pazzia, la favorita d’Isabella. Però s’ accordarono in questo, che la prima a recitarsi fusse la Cingana, et che un’altra volta si recitasse la Pazzia. Et cosi recitarono detta Cingana con gli Intermedij istessi, che furono fatti alla Comedia grande : ma chi non ha sentito la Vittoria contrafar la Cingana, non ha visto, nè sentito cosa rara, et maravigliosa, che certo di questa comedia sono restati tutti soddisfattissimi.

L'itinerario della Piissimi troviam quasi interamente tracciato al nome di Pasquati e di Pellesini. Quando i Gelosi eran l’ inverno 1575 a Firenze, Ercole Cortile scriveva al Duca di Ferrara in data del 3 di dicembre :

…… La sera fu trattenuto (il Card.le di Gambara) dalla signora Duchessa a una Comedia di Zani della Compagnia della Vittoria la quale si ritrova qui molti giorni sono, dove era anche il detto Card.le de Medici, il Roncio et Io suso un palco fatto a posta per S. A. sopra una salla grande di Palazzo dove fanno ordinariamente le comedie in pubblico.

Aggiungiamo qui alcuni particolari che traggo da lettere inedite dell’ archivio di Modena, non accennati a' nomi degli attori suddetti.

Il 27 di agosto del 1580 il Principe di Mantova scriveva da Gonzaga al Cardinal d’ Este, raccomandandogli la Vittoria, la quale desiderava recitar le sue comedie a Padova.

{p. 289}E al Cardinal d’Este, scriveva da Ferrara il prevosto Trotti, il 25 di ottobre dello stesso anno :

…… Tutti stanno benissimo et heri sera che fu giobbia in camera della S.ra Duchessa Ser.ma havimo una Comedia della Compagnia della Vittoria con gran gusto di quelle S.re

E ora, ecco integralmente le lettere della Vittoria, di cui è cenno al nome di Pellesini :

Serenissimo Signor,

Hò ueduto quanto Vostra Altezza Ser.ma ha fato scriuer a petrollino et ben che come sua humil serua mi douessi aquetare à quanto conosco esser di sua sodisfacione non dimeno astreta da quella pietà che ogniuno hà di sè stesso uedendomi una tanta ruina cosi uicina et credendo pur che Vostra Altezza perseueri perche non conosca tanto mio danno et dissonore però di nouo la suplico per le Vissere di Gesu Christo a non esser causa de la ruina mia et creda che se cosi non fosse uorei prima perdere la uita che restar di obedirla la mi faccia gratia di farsi dar informacione da chi ha cognicion di questo fato senza che io sapia da chi et non siano persone interessate che la conosserà ch'io dico il uero et da quelli la intenderà quello che per non infastidir taccio chiedendoli perdono de la molestia et mia sforzata importunità, con che gli resto humilissima serua suplicandola di nouo concedermi con pedrolino la Vita del mio honore et del Corpo che nel restar di pedrollino consiste però gratia Ser.mo mio Signor gratia per l’amor de Dio che quale la chiesto con le ginochia a tera et con le lacrime del Cuore nostro Signor la Conserui et a me dia gratia di poterla seruire di Venetia a di 4. genaro 1581.

Di Vostra Altezza Ser.ma Humilissima Ser.ce
Vittoria Pijssimi.

Di fuori : Al Ser.mo Sig.r Duca di Ferrara mio sig.re colendissimo.

Ser.mo Sig.re

Da molti mi uiene referto, che petrollino et io habbiamo persa la gratia di Vostra Altezza Ser.ma per non hauerla potuto seruire questo Carneuale, et perche la riuerenza con la quale l’osseruo da tanti ani in quà supera ognaltra uedendomi così à uiua forza hauer mancato a chi tanto son tenuta, et hò desiderato sempre seruire, uiuo la piu scontenta donna che mai nassesse, et però à suoi piedi ricorro suplicandola ritornarmi nella sua gratia, et l’istesso dico di petrollino, poi che per mia causa è incorso in errore, il quale per l’affano che sente si può dir che facia la penitenza de l’errore, et accresse la mia col suo cordoglio : ma perche una sintilla de quella benignità, con la quale la mi ha sempre fauorita può render noi felicissimi io di nouo caldamente la suplico et humilissimamente me et questo suo deuoto benche basso seruo raccomando, oferendo me et la mia Compagnia suplire al mancamento et pregar Dio per la sua conseruatione, che nostro Signore la feliciti. di Venetia a di. 5. Marzo 1581.

Di Vostra Altezza Ser.ma Humilissima serua
Vittoria Pijssimi.

Di fuori : Al Ser.mo S.r Duca di Ferrara mio sig.re colend.mo

{p. 290}Del 1590 abbiamo questa lettera da Roma comunicatami da Angelo Solerti, autore con Domenico Lanza del Teatro Ferrarese nella seconda metà del secolo xvi :

Ser.mo mio Sig.re Oss.mo

Per l’instanza che me vien fatta per parte di Vittoria Piissima comica, la quale dice già aver avuto una sentenza a favor suo sopra un suo credito di denari prestati, ho voluto pregar V. A. che sia servita d’ordinare i consiglieri di cotesta Città li quali sono giudici di questa causa che venghino all’esecuzione della sentenza, acciò che sia satisfatta, e non sia più straziata dalla parte avversa. La domanda mi par tanto giusta, maggiormente essendovi istrumento in forma camerale, che mi stringe a supplicare V. A. con la presente con molta caldezza. E con questo fine nella sua buona grazia mi raccomando e le bacio la mano.

Da Roma a VII di Marzo 1590.
Di V. A. E.
Aff.mo Ser.re
Il Card. le Aless. no

(R. Arch. di Stato in Firenze ; Carteggio Cardinali ; f.ª 3775). – Una compagnia della Vittoria torna in campo solo nel 1593 (D'Ancona, p. 330).

Grandissima artista dovett’essere in vero questa Vittoria, se si disputò il primato con la famosa Andreini. Nè soltanto si mostrò valorosa nelle parti serie, ma anche in quelle di serva, ch'ella sostenne sotto il nome di Fioretta, e nella danza, esercitate con rara maestria, a testimonianza del conte Gio. Batista Mamiano, che le dedicò, ancor giovine, i due seguenti madrigali, pubblicati poi tra le sue rime a Venezia il 1620.

Per la Signora Vittoria Comica

Con soavi catene
di grazie e di bellezza,
di crudele pietà, di molle asprezza,
l’alma m’avvince, ed incatena il core
questa maga d’amore,
de' Socchi, de' Coturni e delle Scene
Vivo splendore e gloria,
Vincitrice dei cor dolce Vittoria.
{p. 291}Nè già mi dolgo e pento
di servitù sì cara e sì gradita,
dove stimo piacer perder la vita.
Ma sol temo e pavento,
che si nasconda poi
sotto il ricco tesor di tal beltate
finto amor, finto cor, finta pietate.

Per l’istessa, nelle Scene detta Fioretta

Col nome di Fioretta
lusingando m’alletta
questo tiranno amore ;
ma quando ardito il core
s’accosta al vago viso,
incautamente, ohimè, rimane ucciso.
Così mano bramosa
di vermigliuzza rosa,
se troppo s’avvicina
la punge acuta spina,
e prova in un momento
con dilettoso mal gioja e tormento.
O spietata pietate,
o cara feritate,
dal vostro dolce amaro
con mio diletto imparo
come amante gioisce
quando in mezzo ai martir manca e languisce.
che poi dirò se in scena
amorosa sirena
co' lusinghieri detti
l’alme trafiggi e i petti,
e lascivetta ancella
avanzi tutte l’altre in esser bella ?
Se danzatrice altera
con leggiadra maniera
in varïati giri
il piede muovi e giri,
ed ora radi il suolo,
e t’ergi poi con cento salti a volo ?
{p. 292}Ardita musa, taci,
frena i pensieri audaci :
chi si distilla in pianti
ragion non è che canti :
e'l suon d’umana lira
lodar beltà celeste indarno aspira
Accolse questi accenti
la fama, e per sua gloria
intorno fece risuonar Vittoria.

Pilastri Francesco, fiorito nella seconda metà del sec. xvi, sostenne con gran plauso le parti d’Innamorato sotto il nome di Leandro. Lo vediamo il 1593 nella Compagnia degli Uniti, al fianco della Piissimi, la celebre Vittoria, e di Pellesini, il non men celebre Pedrolino, quando chiesero e ottennero licenza di recitare a Genova le loro honeste Comedie (V. Balestri).

Il D'Ancona ci fa sapere che « ai 4 luglio del 1593 si rimborsavano a Leandro commediante le spese occorsegli per mandare ad avvisare i Commedianti di S. A. di tornarsene, di Ferrara e Reggio, ove si trovavano, a Mantova. » Dall’ambasciator ducale a Milano, Ludovico Felletti, si sa, come per conto della Comunità di Milano, e per onorare le Nozze del Conte di Haro, si desse una Comedia dagli Uniti il 13 ottobre del 1594, e si sa dal Pagani come si costruisse in tale occasione un teatro, la cui direzione scenica fu affidata all’attore Leandro. Il Salveraglio pubblicò per le nozze Pupilli-Kruch (Milano, Bortolotti, 1890) la descrizione contemporanea dello spettacolo ; in cui, oltre alla nota particolareggiata e interessantissima delle spese per l’allestimento scenico e il vestiario degli attori, è anche l’elenco di essi e de' personaggi che figuravano nell’Intermedio del precipizio di Fetonte. Leandro sosteneva le parti di Tempo nel Primo Intermezzo, di Po e di Giove nel Secondo, di Giove nel Terzo.

Alle qualità artistiche del Pilastri che lo fecer uno de' più pregiati comici del suo tempo andò congiunta una memoria {p. 293}prodigiosa : e Domenico Bruni nell’introduzione alle sue Fatiche Comiche dice di lui :

Vi è stato un Leandro Pilastri, e dotto e grazioso, che della profondità della sua memoria ha fatto stupire ogn’uno, poichè in molti luoghi, ma particolarmente in Milano ha di tutte le famiglie illustri, in una occasione narrato l’armi, descritto i colori, detto i nomi e la origine col nominare quanti Castelli sono sotto quel Dominio, e le cose notabili che in quelle parti nascono ; ha fatto raccolta di sei e settecento nomi, e con epiloghi differenti di quelli mostrato la sicurezza della memoria sua.

Pilla Cesare. Meglio non saprei fare che trascriver fedelmente le notizie di lui, comunicatemi dall’egregio quanto modesto scrittore di cose nostre teatrali, Antonio Fiacchi, l’antico Piccolet del noto giornale Piccolo Faust :

Pilla Cesare nacque a Bologna nel 1807. Prima di dire di lui come artista, merita la pena di accennare alla famiglia dalla quale usci, assai nota per una specie di eccentricità rivelantesi in tutti i suoi componenti ; assai stimata per la generosità dell’animo, assai ammirata per il patriottismo ; assai temuta per il coraggio e l’eccezionale gagliardia dei muscoli.

Il padre, integerrimo magistrato, allevò quattro figli, forti di tempra e fieri di carattere.

Appena adolescenti, prendevano per passatempo il passeggiare sul cornicione della loro casa, portando sulle spalle enormi pesi, a rischio di cascare nella strada, sfidandosi a vicenda sull’entità del peso da sollevare o sul maggior tragitto da percorrere tanto più preferito quanto più irto di pericoli, specie allorchè lasciando il passeggio usuale salivano addirittura sul tetto…. paterno e su quelli delle case vicine.

Il padre soleva dire che quando aveva attorno i suoi figli si sentiva in mezzo ad scelli, un esercito.

Essendosi incendiato presso la loro casa un fondaco di legname, tre dei quattro fratelli, ancora ragazzi, accorsero fra i primi ; e cacciandosi in mezzo alle fiamme, riuscirono a trasportare parecchie travi non ancora divampanti portandosele come fossero fusicchè togliendogli esca, il fuoco potè essere più facilmente domato.

Il padrone del fondaco, grato a codesti piccoli eroi, volle regalarli di 50 scudi, ma il padre inibi loro d’accettare ed essi non opposero verbo, ossequenti alla patria potestà.

Cesare intanto si senti trascinato per l’arte drammatica, nella quale entrò giovanissimo.

Nel 48 lo troviamo con non si sa quale compagnia in Grecia. Scoppiata da noi la rivoluzione egli pianta tutto, compresi i cassoni, e corre a Bologna a prender parte {p. 294}alla famosa giornata delli 8 agosto alla Montagnola, rimanendo non lievemente ferito all’inguine. Al suo fianco combattevano anche i fratelli Antonio e Carlo ; il primo, coinvolto nei moti del 31 aveva dovuto emigrare a Parigi dove si guadagnò un nome quale maestro di scherma. Tornato in patria, prese parte a tutte le campagne nell’esercito regolare e morì nel 1891 col grado di colonnello, a 90 anni.

Pagato il suo tributo alla causa della libertà, il Pilla tornò all’arte e fu con Salvini, colla Carolina Internari, colla Ristori, per dire dei principali con cui militò.

Onde seguire l’irresistibile inclinazione per il teatro, non si curò di conseguire, come gli altri fratelli, un grado accademico, ma seppe però corredarsi di buona coltura, cosi che se la sua recitazione fu enfatica, colla cadenza dovuta al sistema di battere il sostantivo, come si dice in gergo comico, seppe però farsi apprezzare ed ascoltare con attenzione dal pubblico per la intelligente chiarezza con cui rese sempre il giusto significato di quanto esponeva.

Dotato d’una memoria fenomenale e prediligendo la tragedia, d’altronde allora in voga, sapeva intero l’Oreste, pur sostenendovi la sola parte d’Egisto, e così l’Aristodemo ed il Saul.

In una escursione all’estero ed anche in Italia (tra il 50 ed il 59) diede accademie di declamazione distribuendo agli intervenuti un elenco di titoli di un migliaio di poesie : da alcuni canti della Divina Commedia al Delenda Cartago ; da dei brani dell’Ariosto alla Secchia rapita ; da un brano della Gerusalemme liberata, a certi sonetti metà in italiano, metà in dialetto, che diceva con una comicità ed una naturalezza incantevoli, non trascurando poesie patriottiche assai compromettenti in quell’epoca ; e dal 59 al 66 fu sempre fra i primi a declamare in pubblico le cose del Dall’Ongaro, del Mercantini, del Prati, ecc., ottenendo ovunque successi invidiabili per il vivo sentimento patriottico che in esse sapeva trasfondere mercè i palpiti veri che gli venivano dal cuore.

Di animo generoso, quanto aveva era degli altri, e se nel momento del bisogno gli si ricordavano crediti che aveva per prestiti fatti, andava su tutte le furie, esclamando : « Debbo angariare chi non può dare ? Se non danno è segno che non hanno ; » e di queste candide teorie, molti seppero far tesoro.

Con gli averi, anche la sua forza ed il suo coraggio mise al servizio degli infelici e dei deboli, sicchè di molti e non dimenticati pugni seminò la via percorsa, sempre però per giustificati motivi e non per brutale prepotenza o per vana spavalderia. Per tale sua qualità fu detto il più forte cazzottatore dell’arte.

Se il solito spazio tiranno non mi impedisse di volgere al fine, molti ed interessanti aneddoti potrei narrare ; mi limiterò al seguente, che fa comico contrasto a'molti atti veramente eroici, ai quali si lasciò non di rado :

Si provava un dramma in cui il Pilla doveva lottare con uno degli interlocutori e soccombere.

Tenutosi per un po', si capisce con quale sforzo, nell’attitudine del vinto, ad un tratto si slancia sul vincitore, lo afferra, lo rovescia al suolo gridando nel natio idioma : An’ srà mai dètt che Pilla staga dsòtta !1

Afflitto da un male terribile, conseguenza forse della riportata ferita, morì nella sua Bologna, il febbraio del 1885.

Ed il tempo ed il malanno riuscirono ad infrangere questa fibra d’acciaio, come Luigi, il più giovine di quei quattro fratelli, riusciva a spezzare con due dita una moneta da cinque lire.

{p. 295}Fu anche scritturato il '58 nella Compagnia Reale Sarda per fare tutte quelle parti di generico, di età avanzata, come parti di padre, tiranni generici in parrucca e senza, sia in tragedia che in commedia, ed altre simili che dall’Impresa o dal Direttore gli verranno affidate…………… attenendosi alla direzione del signorGustavo Modena, o di chi sarà destinato : ed ebbe di stipendio 2400 lire.

Pillotti Emma. Nata il 7 febbraio 1876 a Pistoia da Michelangiolo e da Elena Bargiacchi, entrò alla R. Scuola fiorentina di recitazione diretta da Luigi Rasi, il dicembre '91, ove stette due anni, promessa certa di un avvenire artistico de' più lieti. Per l’indole sua e per la sua figura non molto slanciata, poco le si attagliavan parti di sentimento ; ma in quelle comiche profondeva una sì misurata e signorile e spontanea gaiezza, con una dizione delle più nitide da farci sperare che in un tempo non lontano avrebber rivissuto su la nostra scena di prosa le glorie della Romagnoli, della Lipparini, della Cutini. Fu con Maggi, con la Iggius e con altri, amorosa e prima attrice giovine. Fermatasi a Palermo per malattia, il 1896, vi recitò ammiratissima fra i dilettanti,… nell’attesa di raggiunger la Compagnia :… ma colpita dal morbillo, ella si spense in capo a soli due o tre giorni

….. come in su 'l prato,
poichè l’aratro in suo passar l’ha tocco,
spegnesi il fiore.

Pilotti. Carlo Gozzi nel suo ragionamento ingenuo, lo cita « assieme a Garelli, Cattoli, Campioni e Lombardi, come {p. 296}egregio predecessore nella Comedia improvisa di Darbes, Collalto, Zannoni, Fiorilli, Sacchi, ecc. » Ma di lui non ho trovato notizie.

Pilotto Libero. Nato a Feltre il 27 marzo del 1854 da Giovanni e Rosa Milliacci, non comici, dopo di aver recitato fra i dilettanti, con buona riuscita, fu mandato alla scuola di declamazione di Firenze, d’onde uscì dopo due anni, per entrar poi nell’arte, per modo di dire, in una modesta compagnia, condotta, se ben ricordo, da un cotal Silvano.

Dopo molte peregrinazioni artistiche, in cui, talvolta, soddisfare alla fame era problema di assai difficile soluzione, riuscì attore egregio per le parti generiche, e fu nelle migliori nostre compagnie, amato dai compagni per la innata bontà, e ammirato dal pubblico per la sobrietà e verità di recitazione, e per quella specie di bonomia ch'ei sapeva trasfondere ne' personaggi. Fu anche direttore della Compagnia Nazionale, e socio di Ermete Zacconi, ma il suo nome più che all’arte del recitare egli legò all’opere sue drammatiche, nelle quali è sempre un sapore italianissimo di sana commedia, e delle quali alcuna vive tuttora ne' repertorj delle compagnie sì dialettali che italiane, come l’Amoreto de Goldoni a Feltre, il Tiranno di San Giusto, l’Onorevole Campodarsego, Dall’ombra al Sole.

Ecco l’elenco delle produzioni da lui scritte, che traggo da una nota biografica di L. Zasio, inserita in un volume dedicato alla memoria del compianto artista dal fratello Vittorio, e edito il 1901 a Feltre (Castaldi) nel primo anniversario della morte.

Il Seminario – L'amoreto de Goldoni a Feltre – Dall’ombra al Sole – Il Tiranno di San Giusto – Col ferro in pugno – La bugia del secolo – Macchie di sole – Padre e figli – Scuola professional – Il Re di Molinella – Cesarina – L'onorevole Campodarsego – I Pellegrini de Marostega – Maestro Zaccaria – El suicidio de sior Prosdocimo – La bicicletta – I figli d’Ercole – Tenente dei Lancieri – La bella vita – Il banchetto di Montebelluna – La famegia d’un canonico – Storia de geri – Alcuni bozzetti e varî scherzi comici.

{p. 297}Fra questi cito una parodia del Cantico de' Cantici di Cavallotti recitata l’autunno dell’ '81, al Teatro Manzoni di Milano, dalla Compagnia Pietriboni, appunto dopo il Cantico.

Ammalato di diabete, morì a Feltre il 6 maggio del 1900, lasciando nel lutto la famiglia comica, e nella desolazione una moglie affettuosa (Antonietta Moro, figlia dell’arte, egregia seconda donna), e quattro figliuoli.

Per lui, attore, autore, uomo, ebbero tutti parole di lode sincera.

Edmondo De Amicis così degnamente preludeva alle memorie raccolte nel volume citato.

Bastava guardarlo in viso per dire : – è un galantuomo : – udirlo nominare i suoi figliuoli per dire : – è un ottimo padre : – vederlo comparire sulla scena per dire : – è un insigne artista. –

Ma, qualunque parte egli facesse, nonostante l’arte finissima, non poteva dissimulare affatto la bontà affettuosa e la gentilezza squisita dell’animo suo. Lo ammirai prima come autore che come attore : dopo averlo inteso recitare, lo cercai ; non appena lo conobbi, gli volli bene. Ogni volta che venne a casa mia vi portò il sorriso e vi lasciò la serenità. Non lo conoscevamo che da pochi mesi e ci pareva un vecchio amico. In famiglia ci annunciavamo a vicenda l’arrivo della sua compagnia, dicendo : – Viene Pilotto ; – il che significava : – avremo il grande piacere di riveder quel viso buono, di riudire quella cara voce, e di applaudirlo, e di sentirlo applaudire. – Non lo rivedremo più, non potremo più applaudire che le sue commedie. Ci è tolto anche il conforto di quest’amico al grande dolore che ci ha colpiti. Ma io porterò vivo nel cuore la sua memoria fin che avrò sentimento dell’amicizia e dell’arte. Coraggio, buoni fanciulli ! Vi porterà fortuna il nome onorato e caro, vanto dell’arte italiana e simpatia d’ogni cuore gentile.

E degnamente ancora scrisse del comico, amante dell’arte e della famiglia comica, Edoardo Boutet, il maggio del 1900, pochi dì dopo la morte di lui.

Questa morte si rende anche più pungente di commozione per la famiglia dell’arte, poichè Libero Pilotto apparteneva alla breve e egregia schiera di quelli attori che alla fortuna e alla dignità della comica cosa pigliano particolare interesse ; egli, con la fede e l’entusiasmo degli ottimi. Infatti tutto quanto il miglioramento della classe interessava non lo trovava indifferente : e discuteva, scriveva, sempre con quel cuor di galantuomo sulle labbra, e con una visione alta e nobile per il bene e per la gloria del palcoscenico.

{p. 298}Pinotti Francesco. Nato il 1736 a Mantova, è citato dal Bartoli come attore diligente, che all’arte del dire sapeva unir quella del canto. Recitava le parti d’Innamorato, e trovavasi il 1781 a Napoli nella Compagnia de' Lombardi, diretta da Tommaso Grandi, detto il Pettinaro.

Era l’ '87 al Valle di Roma con Petronio Zanerini, e creò il 16 gennajo la parte di Eumeo nell’Aristodemo, e il carnovale dell’ '88 quella di Zambrino nel Galeotto Manfredi di Vincenzo Monti (V. Zanerini Petronio).

Augusto di Kotzebue nelle sue Osservazioni intorno a un viaggio da Liefland a Roma e Napoli (Colonia, Peter Hammer, 1805), dice del Pinotti, a pagina 63 della seconda parte (Teatro a Napoli) :

La drammatica compagnia dei Fiorentini non è, a dir vero, eccellente, ma buona.

Il vecchio Pinotti si distingue particolarmente nelle parti comiche e ingenue, e potrebbe misurarsi coi migliori de' nostri artisti tedeschi (Iffland e Wiedmann eccettuati) : egli è anche il beniamino del pubblico, al quale sfugge un mormorio di contentezza, ogni qualvolta egli appar su la scena.

E a pagina 96 :

Il vecchio Pinotti ha in tutte le parti che gli ho visto recitare, e non son poche, pienamente confermato il mio primo giudicio. È un eccellente artista che io vorrei comparar talvolta ad Iffland e talvolta anche ad Eckhof.

Fu il predecessore, ai Fiorentini, del celebre Pertica, il quale ebbe molto a lottare col pubblico per cancellar la grande impressione lasciatagli dal Pinotti.

Anche sua moglie fu attrice valentissima per le parti caratteristiche, che sostenne al fianco del marito, a cui talvolta riuscì superiore. Nacquer dalla loro unione tre figliuole, educate all’arte del canto, due delle quali riuscirono egregie, e una, la terza, perdè la voce e divenne poi moglie del rinomato La Blache. Francesco Pinotti morì nel 1820.

Piovani Antonio. Recitò da Pantalone in varie compagnie di giro colla moglie Margherita, Prima donna di qualche merito. Abbandonata l’arte, aprirono a Ferrara bottega di caffè all’insegna di Caffè di Pantalone.

{p. 299}Pisenti Antonio, soprannominato Margoncino (?), figlio di Giovanni, artista drammatico, fu così grande promessa artistica nella sua infanzia, che lo stesso De Marini si vuole ne avesse invidia. Ahimè ! Il pochissimo sviluppo della persona e della voce, non solo non gli concesse di toccar la mèta sognata, ma lo condannò alle parti di servo. Tuttavia, alla deficienza fisica sopperì largamente con la intelligenza, mercè la quale, toltosi dal recitare, diventò uno de' più abili capocomici e direttori. Formò una società con l’artista Solmi, che durò con raro accordo ventidue anni, e in cui acquistaron fama Luigi Gattinelli, Amalia Pieri, Albina Pasqualini, Vincenzo Gandolfi e Cesare Dondini.

Era il 1828 al Giglio di Lucca, col padre primo amoroso, e il '35 a Milanco col padre, passato al ruolo di secondo caratterista sotto il Gandolfi. Antonio Pisenti morì nel 1840.

Piva Antonio Maria, padovano. Dopo di aver recitato cogli Accademici Uniti della città, si diede all’arte, sostenendovi il ruolo d’Innamorato, e mettendo poi la maschera di Pantalone, nella quale riuscì artista egregio. Fu lungo tempo al servizio dell’Elettor di Sassonia, e, tornato in Lombardia, entrò al San Luca di Venezia. Passò poi con Onofrio Paganini, e recitava il 1748 al Teatro degli Obizzi in Padova, ove s’acquistò molta lode, specialmente per una sua commedia intitolata Il Par onzino, in cui produsse una difesa dell’arte comica dettatagli dal Paganini, che terminava col seguente

SONETTO

Aver in finto oprar pompe d’onore,
mostrar ne' scherzi sollevati ingegni,
mover tutti gli affetti in un sol core,
passar dal genio a provocar gli sdegni :
Eccitar in un punto odio ed amore,
di politica idea mostrar gl’impegni,
esser scuola di speme, e di timore,
aprir ad ogni mente alti disegni :
{p. 300}Sollevar con virtù gli spirti oppressi,
rinovar con piacer le altrui memorie,
i fasti rammentar de' Numi istessi :
I giorni degli Eroi colle vittorie
in un fascio di scene avere annessi
della comica azion tutte son glorie.

Da quella di Francesco Berti, passò, dopo la morte di lui nella Compagnia del cognato Pietro Rossi. Morì a Padova la quaresima del 1764, dopo di avervi recitato l’antecedente carnevale. Fu – dice il Bartoli – attore nella sua maschera molto esperto ; e accenna a un amore per una donna di elevata condizione che gli fe'dar di volta al cervello, non tanto però da vietargli di fare al cospetto del pubblico il più scrupoloso dei doveri.

Pizzamiglio Costanzo, cremonese. Entrò nella Compagnia di Domenico Bassi più come cantante, che come comico ; e vi piacque moltissimo per la bella voce di baritono che possedeva, specialmente poi nel personaggio di Simon che sostenne con gran plauso al San Cassiano di Venezia. Passò il 1770 con la moglie e il suocero Gritti nella Compagnia di Pietro Rossi, in cui cominciò a recitar parti in commedia e in tragedia. Lasciato il Rossi, fu scritturato pel 1775 con la famiglia a Barcellona, d’onde tornò in Italia dopo un anno, prendendo egli le redini della Compagnia, per la morte del suocero avvenuta in Nizza di Provenza, la primavera del '71. Si diede a sostener la maschera del Brighella, e dice il Bartoli (1781), che egli era comico sufficiente, e musico di molta abilità, e che, data la sua ancor fresca virilità, poteva sperare de' migliori progressi alla sua mediocre fortuna.

Pizzamiglio Giulia. Moglie del precedente e figlia di Luigi Gritti, fu istruita da una zia paterna nell’arte del canto, in cui riuscì tanto da poter prender parte con successo negl’Intermezzi lirici, che soleansi fare nella Compagnia di suo padre che {p. 301}ella non abbandonò mai. Recitò alcun tempo da amorosa, applauditissima, specie nelle parti d’affetto, poi fu assunta al grado di prima donna assoluta. Riferisco da Fr. Bartoli il seguente :

Applauso meritato dalla signora Giulia Gritti-Pizzamiglio, e dal signor Costanzo Pizzamiglio nella Comica Rappresentazione, intitolata : La villeggiatura di Mestre, nel Teatro di San Cassiano il carnovale dell’anno 1770.

SONETTO IN LINGUA VENEZIANA

Zitto, no fè rumor, stè ben attenti,
Mentre canta Costanzo, e Giulia Gritti ;
Oh che trilli ! oh che osette ! oh che portenti !
Per carità godeveli e stè zitti.
Se xe belli, e gustosi i sentimenti
che xè sul libro, e in egual note scritti,
per tali i comparisce a chi è presenti
dalla grazia e dal brio de chi i vien ditti.
Gode tutti in sentirli, e sulle sponde
dell’adriatico Mar zira la fama
che gnente tien segreto, e gnente sconde.
E come ha sempre de lodar gran brama,
sentila pur che con parole tonde
Bravi Costanzo e Giulia ancuo la chiama.
Se la mia Musa grama
dopo fenì i bagordi in sta Città
seguitar li podesse in dove i va,
Gran versi in quantità
farghe vorave a questi do soggetti
o canzon, o capitoli, o sonetti.
Ma spero che più eletti
e chiari inchiostri de ste zogie scriva
dell’Eridano fiume in su la riva.2

{p. 302}Figlia esemplare, fu anche la Pizzamiglio il modello delle spose ; e forse la riserbatezza e onestà de'costumi le acquistò la taccia di Pinzocchera.

Plazzani Nicola, romano. È l’attore che partì da Roma per Venezia il 1738 con Girolamo Medebach, e recitò per alcun tempo applauditissimo nella maschera di Pulcinella.

Poli Giuseppe, nato il 1836 a Firenze, entrò il '58, dopo varie prove coi filodrammatici, nella Compagnia Mazzoli Milani come secondo brillante e amoroso. Fu poi primo attor giovine e brillante con Muzzi, poi con Vitaliani e Aliprandi primo brillante assoluto, nel qual ruolo si mantenne lungamente, passando in vario tempo nelle Compagnie di Coltellini e Vernier, di Sterni, Diligenti, Pietriboni. Tornato in quella Diligenti, di cui era parte Tommaso Salvini, vi assunse il ruolo di caratterista, nel quale fu con Serafini e Buzzi, con Angeloni e con Tina di Lorenzo e Paladini. La quaresima del 1892, fu nominato Direttore scenotecnico dell’Accademia filodrommatica italiana al Teatro Nazionale di Genova, in cui trovasi tuttavia.

Il Poli, brillante, ebbe tutte le risorse del buono spirito fiorentino. Attore, forse di non grandi finezze, ebbe tal vena di spontaneità e di comicità da tener degnamente il suo posto, acclamatissimo, davanti ai pubblici più rigorosi, compreso quello del Manzoni di Milano.

Polvaro Carlotta. Nacque a Gorizia da genitori non comici, nel 1801. Occorrendo a una Compagnia di comici di passaggio a Gorizia una ragazzina per non so più qual parte, e fattasi già {p. 303}notare la piccola Polvaro per la grande svegliatezza della mente e la scioltezza nel recitare, fu in essa accolta, e in breve tempo tanto progredì, che a dodici anni vi sostenne parti di prima attrice. Entrò il 1816 qual prima amorosa nella Compagnia del rinomato Pellegrino Blanes, e il '17 in quella di Domenico Righetti, in cui sposò il primo amoroso Alessandro Angiolini (V.), dal quale era già separata per incompatibilità di caratteri il '22, quand’ella era prima attrice della Compagnia Rafstopulo. Fece il carnevale '22-'23 al Goldoni di Firenze, e il Colomberti, descrivendo la Polvaro nella Giovanna d’Arco, uno dei tanti spettacoli della Compagnia, dice : « nel vederla vestita in armatura, quale ci vien rappresentata quella martire nelle sue statue, con i suoi lunghi e bellissimi capelli biondi sparsi sulle spalle ; con il più vezzoso volto che immaginar si possa, con quegli occhi grandi e cerulei, io rimasi sorpreso. La voce pubblica l’acclamava la più bella attrice della sua epoca, e per certo non s’ingannava. » Il 1826 recitò a Padova la Francesca da Rimini. Passò il '28 in società con Giacomo e Gustavo Modena fino al '31, poi col solo Giacomo, quando Gustavo partì da Bologna coi volontari per Rimini, fino a tutto il '32. Fu poi, alcun tempo, capocomica in Sicilia. Il '42 passò col ruolo di Madre tragica nella Compagnia di Luigi Domeniconi, e morì a Brescia il 1851 d’apoplessia fra le braccia del secondo marito, Luigi Pezzana, compianta da tutti i fratelli d’arte. Di lei scrisse Paolo Pola nella Galleria de' più rinomati attori italiani (Venezia, Picotti, 1825) :

{p. 304}Le belle sue forme assistite dalle grazie le più seducenti cara la rendono agli occhi del pubblico al primo suo apparir sulla scena. Molte potranno correre a gara con lei nella difficile palestra dell’arte, niuna potrà però superarla nel prezioso dono della retentiva. Grande nella tragedia, più grande si mostra nella variabilità della famigliare Commedia. Applaudita con poesie, con articoli di gazzetta e per la Mirra d’Alfieri, e per la Saffo di Beltrame, fu laudata moltissimo in varie culte città d’Italia per la parte di Chiara di Rosemberg, per quella di Herfort nell’Atrabiliare di Nota, e negl’Innamorati di Goldoni.

A proposito della Saffo, le fu indirizzato il seguente sonetto di anonimo, inserito nella citata Galleria :

Tragico, puro spirto in te sfavilla,
qualora sciogli il ben vibrato accento :
Tien, chi t’ascolta, immota la pupilla,
teco divide l’aspro tuo tormento.
Di pianto scorre la perenne stilla,
se mai ti cruccia il sen crudo lamento
l’alma d’ognun ilarizzata brilla,
quando prova il tuo cor gioja e contento.
La Cantrice di Grecia ora ti vedo
pinger con retta veritade tanto,
che d’essere in Leucadia ormai mi credo ;
e libero disciolgo mia favella,
gridando, fra il terror, la gioja, il pianto :
Non la Polvaro, ma la Saffo è quella.

Ponti Diana, « Comica desiosa – dice il Quadrio – detta in commedia Lavinia, fiorì con Agata Calderoni, della quale fu molto amica. Fu donna assai valorosa, ed ha rime avanti il Postumio, commedia di I. S. » Ma che c’entra la Ponti con la Calderoni ? La Lavinia della Calderoni non era l’Antonia Isola (V.) ? E il Sand riferisce dal Quadrio, e continua l’errore, afforzandolo. I Desiosi (V. Fargnoccola) erano il 1581 a Pisa, l’ '88 a Roma ove fu lor concesso di far comedie di giorno, però senza donne ; e il D'Ancona giustamente si domanda se quel senza donne voglia dire senza che le attrici recitassero, o senza presenza di donne ; e con ragioni che mi pajon irrefragabili trova più accettabile la prima spiegazione. Erano il novembre del '93 a Mantova, e il carnevale molto probabilmente a Ferrara, {p. 305}insieme a'Gelosi, come si ha da una lettera di Alessandro Botto al segretario ducale Laderchi, pubblicata dal Solerti (op. cit.). L'aprile del '95 domandaron di recitare a Milano (V. Pagani T. di Mil.) con modestia et honestà et con esempj boni : ed erano il dicembre dello stesso anno a Cremona, come si rileva da una lettera dell’arlecchino Tristano Martinelli a un famigliare del Duca (D'Ancona, op. cit.). Li vediamo il '96 a Mantova e a Bologna, secondo una lettera del Duca alla Duchessa di Ferrara, e una degli stessi Desiosi a Ottavio Cavriani tesoriere del Duca, pubblicate pur dal D'Ancona. Ma talvolta nei documenti che ci dànno indicazioni dell’itinerario, abbiam soltanto I Desiosi, tal’altra soltanto la Diana. Nel primo caso, fu sempre con essi la Diana ? Nel secondo caso furon sempre con essa i Desiosi ? L' '82 noi troviamo che i Confidenti, a Bologna, non aspettavan che la Diana e Gratiano per recarsi a recitare a Mantova per le nozze della figliuola di Guglielmo, Anna Caterina, con Ferdinando d’Austria. E come mai si trovava la Ponti a Firenze ? Forse essa aveva abbandonato un anno i Desiosi ed era entrata coi Confidenti, e si trovava a Firenze in riposo ? O forse Desiosi e Confidenti avean comuni gl’interessi, e la Stella passava da una compagnia all’altra ? O forse, e questo è il più probabile, ella, sciolta da ogni vincolo, si andava scritturando a brevi scadenze or con questo or con quello ? Secondo un documento del Belgrano, ad esempio (Caffaro, 29 dicembre 1882), noi la vediamo a Genova nell’estate dell’ 86 con Cesare de' Nobili, fiorentino e altri comici : e probabilmente (V. Baschet, op. cit.) ell’era il 1601 a Parigi con Martinelli, Cecchini e Flaminio Scala.

Quando nascesse e quando morisse la Ponti non mi fu dato rintracciare. Forse continuò a recitare in età avanzata, e forse in compagnie non più di gran fama. Se dell’ '82 ell’era già la celebre Diana, del 1605, epoca in cui la troviamo al servizio del Principe della Mirandola, come dalle seguenti lettere, ella doveva correr verso la cinquantina : e assai probabilmente, avendo perduto il fascino della giovinezza, e il vigore dell’artista, non trovò più chi la volesse nel ruolo assoluto di prima {p. 306}donna, e fu costretta a farsi ella stessa conduttrice di compagnie. Ma ecco le due lettere :

Seren.mo S.r mio et padrone oss.mo

Hauendo la Diana Comica unita in Ferrara ad’istanza mia una buona, et numerosa compagnia, con obligo di uenir à seruirmi ad’ogni mia richiesta, desiderarei, che potesse per qualche tempo trattenersi in Modena ad’essercitar l’arte sua, assicurandomi, che sia per dar molto gusto, et ricorro alla benignità dell’Altezza Serenissima supplicandola à degnarsi di concedergliele in gratia mia, ch'io le ne restarò singolarissimamente obligato, et facendole humilissima riuerenza, le auguro da Dio ogni felicità. Della Mirandola adi 26 di marzo 1605.

Di V. A. Ser.ma
Genero, et Deu.mo et oblig.mo ser.re
Il Principe della Mirandola.

(al duca di Modena).

Seren.mo Signor mio et padrone oss.mo

Partendo di qui la compagnia di Diana di cui hò scritto ultimamente à Vostra Altezza Ser.ma, per andar aspettando in diuersi luoghi il tempo del Carneuale, al quale dourà tornar poi alla Mirandola, et hauendo risoluto di passar principalmente per Modena, per ueder se fia di gusto à Vostra Altezza, che per tre o quattro giorni ui si trattenga recitando, hò uoluto accompagnarla di questa mia, per assicurar l’Altezza Vostra Ser.ma che d’ogni fauore, ch'in gratia mia ella degnarà di far à detta Compagnia, io restarò lei singolarissimamente obligato ; Et ricordandole la continnuata mia deuotione uerso di lei, et il desiderio in ch'io uiuo tuttauia d’hauer in che mostrarlene segni co 'l seruirla, le faccio riuerenza homilissima. Della Mirandola a di viij di Maggio 1605.

Di V. A. Ser.ma
Genero, et Deu.mo et oblig.mo ser.º
Il P. della Mirandola.

(al Duca di Modena).

La Ponti fu anche scrittrice di versi, e si ha di lei un sonetto che precede il Postumio, Comedia del Signor I. S., posta in luce da Flaminio Scala, Comico acceso (Lione, Giacomo Roussin, MDCI), che non mi fu dato ancor di trovare.

Pontremoli. La servetta della Compagnia Imer al San Samuele. Il Goldoni la dice brava, eccellente comica, e molto si duole, quando nel 1735 abbandona la compagnia per recarsi a Dresda alla Corte Sassone-Polacca. Peccato che il citato studio del Barone Ö. Byrn cominci dall’arrivo a Dresda di Giovanna Casanova, avvenuto due anni più tardi.

{p. 307}Porta Anselmo, mantovano. Già coi dilettanti della città potè mostrare le sue chiare attitudini alla scena, esordendo poi attore stipendiato in Compagnia di Niccola Petrioli, nella quale fu a Genova il 1758. Ebbe allora un’avventura di amore con una gran dama, che colmavalo di favori e doni. Lasciata Genova per condursi a Pisa, ella, vinta dalla passione, volle accompagnarlo : ma, creduta fuggiasca, fu inseguita dai parenti, e, raggiunta a Sarzana, ricondotta a Genova, mentr'egli fu messo in carcere. Essendo lontano il marito, a lei poco costò la liberazione dell’amante, che finì l’anno in compagnia Petrioli, scritturandosi il seguente in quella di Antonio Sacco. In essa, una sera, uscendo di teatro a Milano, gli fu, per ordin certo del tradito, ch'era tornato in Italia, tirato un colpo di pistola che lo ferì in un fianco. Recuperata la salute, mercè i soccorsi de'medici e della Marchesa Litta, risolse di farsi frate ; ma l’austerità di quella vita lo fe'abbandonare il convento per recarsi a Vienna, ove colle raccomandazioni della medesima Litta ottenne un posto nell’Ambasciata d’Italia. Salì poi, coll’aiuto del suo ingegno, ad alte cariche, e fu più volte in Italia a sbrigar pubblici negozj. Ma non perfettamente guarito della ferita, che gli facea risentire di quando in quando dolori spasmodici, ne morì ancor giovane l’anno 1779. Si ha di lui un Scipione in Africa, tragedia stampata, e due commedie manoscritte : Le metamorfosi d’amore e La Regina Ester, scritta – dice il Bartoli – a requisizione d’una ricca famiglia ebrea mantovana. Dettò egli la parte studiata nel Convitato di Pietra per la Pescatrice, recitata dalla figliuola del suo capocomico, Angiola Sacco Vitalba, che dallo stesso Bartoli riferisco in parte, come saggio :

SORTITA

Libertà, libertà, ricco tesoro,
dolce quiete del cor, gridano a gara
tra fronda e fronda gli augelletti, e tutte
fan eco al canto lor l’aure soavi.
Libertà, libertà ; di questa in fine
voce soave ognor rimbomba, e suona
{p. 308}la bassa valle, il folto bosco, il cupo
remoto sen d’ogn’antro opaco, ed io
dalla stessa rapita amica voce
pieno di pace il cor, l’amena spiaggia
torno a veder su'mattutini albori,
e grido libertà. La fragil canna
colla maestra man stringo, e vi adatto
amo ed esca in un punto, e poi su queste
che spuntano dal suolo erbe novelle,
Lieta m’affido, e ricca preda io faccio,
pria che il raggio del Sol l’onda riscaldi,
de' muti pesci al nostro cibo eletti.
Ognun qui vive a suo talento, ognuno
arbitro di sè stesso, e di sè pago
trae con semplice vita ore gioconde.
Libertà, libertà, ricco tesoro,
dolce quiete del cor, lo grido io pure,
nè giammai tacerò finchè avrò vita,
……………

DISPERAZIONE

Ohimè ! parte l’infido, e me qui lascia
tradita, e sola al mio dolore in preda.
Perfido ! Arresta i passi, e riedi a questa
che al tuo desire, al tuo costume abbietto
ardisti d’immolar semplice Donna.
Torna, torna crudel…. Ma ohimè ! qual dardo
che dall’arco sortì, corre, e s’invola,
e porta omai senza sentirne orrore
tutta con sè di questo cor la pace.
Oh pace, oh core, oh libertà perduta !
Ma invan mi lagno, e di mie voci al suono
sordo è il mar, sordo è il ciel. Io son tradita,
son disperata, e il mio dolor soltanto
che mi lacera il cor, può con un colpo
la morte annichilar. Dov'è una fiera
che mi disbrani ?… Ah, ch'io la cerco invano.
{p. 309}E morir vuo'. Dunque si mora, e sia
la morte a cui m’affretto orrida a segno,
che riparo non v'abbia onde salvarmi.
……………

Pozzi Girolamo, bolognese, recitava egregiamente sotto la maschera del Dottore, e fu lungo tempo scritturato ne'teatri di Venezia. Fu anche nelle compagnie di Pietro Rossi e di Onofrio Paganini ; poi, protetto da un veneto gentiluomo, visse alquanto con lui, lontano dall’arte. Ma desideroso della patria, si restituì alla sua Bologna, dove, fatto vecchio, morì verso il 1780.

Pozzi Francesco, milanese, più noto col diminutivo di Pozzetto, fu comico egregio per le parti d’innamorato. Entrò giovanissimo nella Compagnia di Antonio Sacco e creò la parte di Farruscad nella Donna serpente di Carlo Gozzi. Passò poi in altre compagnie di giro, e finalmente in quella di Onofrio Paganini, nella quale, a Vicenza, fu colto da siffatta emorragia di sangue, che, non potutasi arrestare, lo condusse al sepolcro il 3 giugno del 1764, all’età di venticinque anni.

Preda Luigi. L'ultimo dei Meneghini, nato a Milano il 1811, fu prima compositore nella tipografia teatrale Brambilla ; poi, accarezzato il sogno di eccellere in arte come attore tragico, si scritturò, dopo alcune prove con dilettanti, al Teatro Lentasio, come generico nella Compagnia di Antonio Giardini, della quale sposò la prima attrice giovine Amalia Pasquali. Formò il 1847 con suo cognato Valentino Bassi una società, in cui la moglie fu assunta al grado di prima donna assoluta, ed egli, infelicemente, a quello di generico primario. La rivoluzione delle Cinque Giornate dissestò la compagnia, che, scacciati gli austriaci, in un repertorio improvvisato di attualità trovò inattese risorse al Teatro della Stadera. In esso il Preda rappresentò la sua parte in dialetto, al fine di riuscir più efficace e acquistar popolarità ; e tale n’ebbe successo, che, abbandonate le fisime del coturno, si diede alla maschera del Meneghino, ammodernizzandone {p. 310}costume e repertorio, e diventando in breve non indegno successore del celebre Moncalvo. Fu undici anni socio del Bassi, poi, altri undici di Alessandro Monti. Morì a Milano il 9 aprile dell’ '84.

Prepiani Giovan Battista, veneziano, attore tragico di sommo valore. Assunse nel 1838 la direzione dell’Impresa dei Fiorentini, lasciata dal Fabbrichesi, quando la R. Sopraintendenza de teatri ridusse di metà la dote di ottomila ducati annui. E l’Impresa (Prepiani, Tessari e Visetti) andò con prospere sorti fino alla quaresima del '51, nel qual anno il Prepiani morì per infiammazione viscerale. Molto istruito, di nobile portamento, d’intelligenza acuta, rappresentava La clemenza di Tito, il Padre in Giulietta e Romeo, il Generale nei Due Sergenti e l’Aristodemo con dignità singolarissima. Recitava di rado ; ma nelle sere in cui recitava, era un avvenimento artistico. Ebbe moglie e un figliuolo ; ma la moglie lo abbandonò, prima ch'ei si recasse a Napoli col Fabbrichesi, fuggendo con un inglese dovizioso. Pare non fosse attrice : egli certo non ne parlò mai.

L'attore Francesco Righetti nel citato Teatro Italiano, tesse di lui, tragico, l’elogio seguente :

Oh ! Come trovai sublime Prepiani nel Catone di Metastasio in cui sosteneva la parte del protagonista. Come scomparirono a'miei occhi que'difetti di pronunzia che qualche volta mi ferivano l’orecchio nella Commedia ! Come era egli nobile, e maestoso ! Tutta la dignità del Senato latino sedeva sulla sua fronte, e come ne'suoi atteggiamenti, e particolarmente nella morte, tutta la forza, e la fermezza d’un cittadino romano. Ma dove ancor più fui colpito dall’espressione, dal calore, dalla mimica di questo attore, si fu nella parte di Giuda nel Giuseppe riconosciuto, mediocrissimo dramma tradotto dal francese. Il nostro Prepiani, buon attore nella tragedia, non è degli ultimi nella commedia, avvegnachè in questa renda più sensibili que'difetti d’articolazione che quasi sempre sa nascondere con arte nella tragedia.

Previtali Antonio. Artista e capocomico de'più pregiati al principio del secolo decimonono. Dotato di bella persona, di voce soavissima, di maniere nobili, s’acquistò gran fama colla parte del Bugiardo, anche perchè, fuor della scena, l’indole sua rispondeva a meraviglia a quella del suo personaggio. Ai primi tempi della sua vita artistica, egli recitò nelle commedie {p. 311}all’improvviso con le maschere, riuscendo attore di gran pregio : e ciò gli fu di gran soccorso più tardi nella recitazione del Bugiardo, il quale rappresentava in modo vario, ogni sera, sì da esser reputato in quella parte superiore al gran De Marini.

Le sue irrequietezze, le bugie che, per una consuetudine de'suoi primi anni, andava dicendo a ogni aperta di bocca, gli scemarono il credito, sì che si ridusse in Sicilia conduttore di compagnie di poco conto. L'ultima notizia sua si ha in una lettera del 16 gennaio 1832, ch'egli scrive da Messina all’attore Stefano Riolo, incaricandolo di formargli una compagnia per l’Arena ch'egli ebbe il superiore permesso d’innalzare in quella città, alla Marina.

Privato Guglielmo. Figlio di Luigi, impiegato postale, nacque a Venezia il 27 settembre del 1826 : e nel’48 fu soldato sotto il Governo provvisorio, assieme a Paulo Fambri, e al figlio di Daniele Manin. Recitò la prima volta a Chioggia, nel '49, in una brevissima parte, a beneficio di una compagnia d’infimo grado, ed esordì, comico, lo stesso anno a Mestre nella Compagnia di Giovanni Battista Zoppetti, in cui stette due mesi per passare in quella di certo Bosello. Fu il’50 con Luigi Duse ; e il '51 fu accolto nella grande arte, nella Compagnia lombarda, condotta da Alamanno Morelli, dalla quale, dopo un triennio, passò primo attor giovine in quella di Cesare Dondini, a fianco della Cazzola, e di Romagnoli, poi di Tommaso Salvini. Dopo ancora un triennio, il '57-'58, fu con Gaspare Pieri, qual generico d’importanza, e il '59, brillante assoluto con Peracchi {p. 312}prima, poi con Bellotti-Bon. Nel medesimo ruolo, applaudito e stimato come un de'più egregi artisti del suo tempo, si scritturò il '60 con la Società Stacchini, Civili e Woller, il '61-'62 con Tommaso Salvini, il '63 con Domeniconi, il '64-'65-'66 con Morelli, il '67 con Alessandro Salvini, il '68-'69 al Fondo di Napoli con Fanny Sadowsky, il '70-'71-'72 con Giacinta Pezzana in società, dal '73 all’ '81 ancora con Morelli, prima a fianco di Virginia Marini, poi di Adelaide Tessero, e fu con esso due volte nell’America del Sud. Divenne socio l’ '82 di Giovanni Aliprandi, e il triennio '83-'84-'85, si scritturò per l’ultima volta come brillante nella Compagnia di Giuseppe Pietriboni. Morto il Vestri in Compagnia Nazionale, e uscitone il Novelli, furon sostituiti dal Privato, che vi restò sino all’anno '88, in cui si unì con Emilio Zago, il celebre comico veneziano, col quale trovasi tuttavia assieme alla sua seconda moglie Elettra Brunini. Aveva sposato nel '61 la diciottenne Emilia Cavallini, padovana, attrice egregia per le parti di seconda donna, e adornata di bellezza singolare, che gli morì nel settembre del '78 a Catanzaro. Ella non era figlia di comici, ma ebbe un fratello, Antonio, secondo brillante mediocre, morto a Pisa di etisia.

Prudenza, veronese. Era la seconda donna dei Comici Gelosi, citata da Francesco Andreini nelle sue Bravure del Capitano Spavento. Il Cinelli racconta « che una volta (Curzio Marignolli, poeta, nato a Firenze il 1563 e morto a Parigi il 1606) sgridato dal padre, perchè i suoi averi licenziosamente spendesse, arditamente rispose : Anzi, tutto il mio spendo con prudenza, intendendo dire con una donna sua amica che Prudenza chiamavasi. » E l’Arlia che varie rime di Curzio raccolse e pubblicò nelle Curiosità letterarie del Romagnoli (Bologna, 1885) aggiunge : era costei una comica, alla quale poi impazzata, o davvero, o per meglio accalappiare i merlotti, quell’altro capo ameno di Francesco Rovai scrisse il seguente sonetto, che pizzica di secentismo un buon poco :

{p. 313}Folle è Prudenza : oh che follie soavi
folli fan per dolcezza i saggi amanti !
oh, che grazie amorose e vaneggianti
stillan da'labbri suoi dell’Ibla i favi !
Sparge ella i sali or lascivetti e gravi ;
a tempo i risi alterna, e tempra i pianti,
e d’illustre Pazziaportando i vanti,
tien del senno d’ogn’altra in man le chiavi.
Da famoso delirio un pregio eterno
traggon le scene, e in si mirabil mole
coronato di lode or va lo Scherno.
Or chi tenersi e vaneggiar non vuole,
se nel Leon di Flora in mezzo al verno
della Prudenza è forsennato il Sole ?

Ma parmi un errore l’attribuir la dedica del sonetto a questa Prudenza, seconda donna dei Gelosi, piuttostochè alla seguente, prima donna degli Affezionati, che nel 1634 recitò appunto una Pazzia. Il Rovai (V. Quadrio) morì nel 1646 in età di quarantadue anni ; aveva dunque due anni alla morte del Marignolli.

Prudenza. Prima attrice della Compagnia dei Comici Affezionati. Sono le sue lodi, come quelle de'suoi compagni, nell’introvato libretto della Scena illustrata, che ho trascritto al nome dei singoli artisti da Fr. Bartoli. La vediamo molto applaudita a Bologna nel 1634, specialmente in una sua fatica, La Pazzia, forse la stessa d’Isabella, rimaneggiata e ammodernata. All’arte del recitare accoppiò ancora quella del canto, nella quale fu encomiatissima. Natole a quel tempo un bambino, Cristofano Razzani dettò il seguente

MADRIGALE

Pargoletto bambino, i tuoi vagiti
sono canti graditi,
quasi armonia di Cigni e di Sirene :
or che sarà poi, quando
{p. 314}per l’Italiche scene
andrai d’intorno errando
fiume che ha d’or l’arene
fiume d’alta eloquenza ?
Basta dir che tu se'figlio a Prudenza.

Partendo la seguente quaresima per Venezia, un Marco Florio l’accompagnò col seguente

SONETTO

Or che volgi, o Prudenza, il piè vagante
a bear co' tuoi detti un ciel straniero,
tu m’insegni cosi, che in un pensiero
non è sempre Prudenza esser costante.
Imprudenza è però del mar sonante
fidar un sì bel volto al dubio impero :
forse non temi il mar benchè sia fiero,
perchè stelle propizie hai nel sembiante ?
Deh ferma quelle stelle un sol momento,
chè se son belle, erranti, ancor non meno
belle tu le vedrai nel firmamento.
Ma son Soli e non Stelle, e mai non suole
il Sol fermarsi, e sempre al Mare in seno,
va mentre parte a riposarsi il Sole.

Il Richiedei ne'suoi Fiati d’Euterpe (Venezia, Sarzina, 1635) ha in lode di lei, rappresentante Arlanda condotta in trionfo da Papiro, questo

SONETTO

Spiega sul gran Teatro i suoi martiri
questa del mio martir ministra atroce,
nè spira accento pur, nè forma voce
che amor non formi, e crudeltà non spiri.
Desta con un sospir mille sospiri,
e con mentito ardore infiamma e coce.
Corre legata a'danni altrui veloce,
e dà co'suoi legami ali ai desiri.
{p. 315}E tra finte catene e crude voglie,
mentre schiava si mostra, e cerca amore,
amor mi nega, e libertà mi toglie.
E con nuovo amoroso alto stupore
e lega l’alme, e le sue note scioglie,
slega la voce, e fa prigione il core.

Puppo (Del) Fracanzani Orsola. (V. Fracanzani).

[n.p.]
[n.p.]

I comici italiani §

Quaglia Corinna. Nata a Chieti il 28 dicembre dell’anno 1874, entrò quattordicenne alla Scuola Maria Lætitia di Torino, diretta da Domenico Bassi, e vi stette un anno e mezzo, scritturandosi poi prima attrice giovine, dal '91 a tutto il '92, con Giovanni Emanuel. Riposò il '93 per desiderio del suo futuro capocomico Cesare Rossi, che l’ aveva scritturata qual prima attrice assoluta per l’anno comico '94, dopo il quale ella diventò, il 10 ottobre del '95, la signora Zoppis.

{p. 320}Esuberante di vita, ricca d’ intelligenza, benevolmente accolta dai pubblici come una gentile promessa, ella avrebbe potuto con perseveranza di studi, toccar la meta desiderata, ma alla vita turbinosa della scena preferì la serenità degli affetti domestici.

Rafstopulo Antonio. Nato a Zante, fu uno de' più rinomati capocomici nel primo trentennio del secolo xix. Nessuno del suo tempo, nè di poi, curò come lui per lo sfarzo e la fedeltà storica l’allestimento della scena. Si vuole che per alcune rappresentazioni della sua Compagnia paresse di assistere a un gran ballo di Viganò. Nella Giovanna d’Arco, nel Ratto delle Sabine, nella Vita di Carlo XII in dieci sere, o in altro di simil genere si vedevano (allora i Governi concedevano i soldati per le comparse) centinaja di soldati a piedi, trenta a cavallo, combattimenti ad arma bianca o a fuoco vivo, cannoni di legno cerchiati in ferro, armature vere, bandiere, musiche militari, ecc. Nè è da credere che a questi soli spettacoli egli fosse dedito : {p. 321}nel suo repertorio avean posto d’ onore Goldoni, Alfieri, Nota, Pindemonte, Giraud, e la sua Compagnia era composta dei migliori elementi. Eccone l’elenco pel carnovale del 1820 al Teatro Apollo di Roma :

UOMINI


Nicola Vedova, padre e tiranno

Francesco Pieri, caratterista nobile

Pietro Pezzi, generico dignitoso

Carlo Camisani, secondo amoroso

Domenico Liparini

Giuseppe Zanno ni

Carlo Coltellini

amorosi primi

Giuseppe Mazzotti

Lorenzo Pellegrini

generici

Agapito Angiolini, 2° caratterista

Filippo Fontana, generico dignitoso

Ant. Rafstopulo, parti d’aspetto

DONNE


Amalia Pieri

Luisa Bologna

parti ingenue

Margherita Mazzotti, caratteristica

Teresa Dal Pino, servetta

Anna Pieri, prima attrice Annunziata Fontana

Teresa Angiolini, madre nobile

Adelaide Angiolini, prima amorosa

Marietta Rizzato

Adelaide Mazzocchi

generiche

Nel 1825 (Archivio di Stato di Firenze) Rafstopulo domandò per la sua Compagnia, e per cinque anni, il titolo di Reale Toscana, col sussidio di Duemila Zecchini. L' istanza fu respinta con data del 25 marzo, stesso anno, dietro informazioni del Presidente del Buon Governo, il quale oltre ad aver trovato che i comici del Rafstopulo erano scarsi di merito, mostrava come, aderendo a tal domanda, si sarebbe danneggiato un disegno emesso da tre o quattro anni di una vera e propria Compagnia Toscana, autorizzata e sovvenzionata dallo Stato, quantunque tal disegno avesse poca probabilità di essere nonchè approvato, solamente discusso.

Innamoratosi, dopo un continuo alternarsi di guadagni e di perdite, della figlia del custode al fanale di Livorno, si tolse dal teatro per condurla in moglie, e pochi anni dopo morì, compiuto appena il suo cinquantesimo anno.

Nell’elenco della Compagnia pel 1843 di Francesco Paladini erano Leonardo, Caterina e Amalia Rafstopulo, generici, non so in che grado di parentela legati ad Antonio.

{p. 322}Raggi Giovanni, fu – dice il Bartoli – figliuolo del trovarobe della Compagnia Medebach. Addestratosi da fanciullo nell’ arte, riuscì egregio Innamorato per le commedie scritte e all’improvviso. Fu anche inventore di fuochi artificiali, che fece più volte per uso della Compagnia. Di salute assai cagionevole, fu costretto, a venticinque anni, abbandonar le scene e recarsi in cura a Padova ; ma poco tempo dopo, la primavera del 1769, vi morì.

Raguzzino o Rauzzini Giacomo. Attore napoletano che recitò in patria le parti di Coviello. Fr. Bartoli lo dice un eccellente comico, e aggiunge ch' egli aveva una presenza veramente marziale, e che i suoi discorsi erano tutti sostenuti da frasi alte ed ampollose, dimostranti un coraggio d’invincibile guerriero.

Ma non eccellente apparve sulle scene della Comedia italiana a Parigi, quando vi si recò il 1716 nella Compagnia del Reggente. Tutti gli scrittori contemporanei (V. D'Origny, De Boulmiers, etc.), concordano in questo : ch' egli corruppe con cento pistole l’ incaricato di Luigi Riccoboni di trovare a Napoli un buono Scaramuccia ; ch'egli era usciere del Vicariato di Napoli, e che, recatosi a Parigi, nè piacque, nè dispiacque. Amante delle grandezze e dedito alle dissipazioni, egli mise carrozza, ed ebbe ognor tavola imbandita. Ma venne il momento, in cui si trovò assediato da creditori di ogni specie. Allora Francesco Riccoboni riuscì a ottener dalla Corte un ordine, mercè il quale fu trattenuto pei creditori un terzo della sua paga sino al dì della sua morte, che fu per apoplessia il 24 ottobre del 1731.

Raimondi Giuseppe. Nacque a Mantova il 1811 da Teodoro e da Maria Cappello. Tiranno il 1843 nella Compagnia di Alberto Tessari, colla moglie Angiola seconda donna e il figlio Teodoro generico, era con la famiglia e negli stessi ruoli il '51 con Giuseppe Astolfi. Il '53 fu riconfermato dall’Astolfi per la {p. 323}nuova Compagnia in società colla Sadowski. Amministratore, il '55, della Compagnia di Ernesto Rossi, col figlio primo attor giovine. Morì a Genova il 1° luglio del 1879.

Raimondi Teodoro. Figlio del precedente, egli fu, come abbiam visto, sempre al fianco di suo padre, crescendo a poco a poco di valore e di ruolo. Era il '53 primo amoroso della Compagnia Sadowski-Astolfi, e primo attor giovine, il '55, di quella di Ernesto Rossi, il quale di lui lasciò scritto nel primo volume delle sue memorie :

Il vero sesso forte si componeva di un certo Raimondi, il quale disimpegnava le parti di primo attore giovine e primo amoroso : e ti posso assicurare che era un bravo giovinotto, pieno di zelo, ricco di talento, abbondante di sentimento. Fu presto tolto all’ arte ed alle speranze ed agli affetti della sua famiglia e di tutti coloro che lo conobbero, quando per mezzo delle mie assidue cure e della sua buona volontà ne aveva fatto un eccellente amoroso, tale, che invano si cerca e si trova l’ uguale ( ?).

Entrato in Compagnia di quel bravo attore Gaspare Pieri, dopo poco tempo morì, vittima forse della sua troppo sensibile anima, che non seppe mai rinvigorire o temperare coll’arte.

Sappiamo infatti da una lettera di Gaspare Pieri a Francesco Bigliotti, che Raimondi, toccatogli il '56 alcun tempo di servizio militare, dovette abbandonar la Compagnia. Tornatovi, in permesso, cominciarono in lui i segni della tisi, alla quale dovette poco dopo soccombere.

Fra le parti ch' egli sosteneva egregiamente v'era, a detta del Pieri, quella comica di Suggeritore nel Goldoni e le sue Sedici Commedie Nuove di Paolo Ferrari.

Ranieri Bartolomeo. Piemontese, del Moncenisio, nato il 1640 circa, fu comico al servizio di Ferdinando Carlo per diciassette anni, e richiesto il 1685 dalla Maestà Cristianissima di Francia, Le fu concesso con lettera dello stesso Principe datata di Mantova il 14 marzo, nella quale era il più ampio ben servito che dir si potesse. Forse nei diciassette anni ch'egli fu al servizio di Ferdinando, si trovò a essere ceduto, come spesso accadeva, a qualche altro principe : e mi pare si debba identificare pel Ranieri questo Aurelio che dal Duca di Mantova è {p. 324}dato al Duca di Modena, in cambio del Parrino (V.), che Questi cedeva a Quello.

Ser.mo Sig.r mio Oss.mo

Spedisco Aurelio, perchè serua a Vostra Altezza con ogni puntualità maggiore nella Compagnia dei Suoi Comici, e già che uengo auuisato, ch' ella mi habbia fauorito della persona di Florindo, io non lascio di ringratiarnela di cuore, assicurando l’Altezza Vostra, che perfettionato il futuro Carneuale resterà à di lei dispositione lo stesso Florindo, confidando, che il simile seguirà d’Aurelio. Si compiaccia Vostra Altezza di frequentarmi le occasioni di poter servirla, come desidero, e le bacio affettuosamente le mani.

Di Vostra Altezza
S.r Duca di Modona. Il Duca Di Mantoua.

Recatosi l’ 85 a Parigi, Bartolomeo Ranieri vi esordì nell’aprile, assieme al Pulcinella Fracanzano, quale secondo Innamorato, al posto dell’ Ottavio Zanotti. Il successo se non strepitoso fu buono, ed egli avrebbe potuto rimanere in Francia amato e stimato, se non avesse, con assai poca prudenza, avventurate opinioni sulle vicende del tempo. Il che saputosi alla Corte, egli ebbe tosto decreto di espulsione.

Restituitosi in Piemonte, si diede a continuar gli studi, lasciati a mezzo per imprender la via dell’ arte ; e compiuto il corso di teologia, prese gli ordini sacri. Dicono i fratelli Parfaict che il Padre di Riccoboni lo conobbe, e più volte sentì la sua messa.

Ranuzzi Francesco. Recitava, applaudito, sotto la maschera di Brighella. Il maggio del 1777 era a Modena, con la Compagnia di Francesco Panazzi, insieme ai Falchi, agli Andolfati, ecc.

Raparelli Giovanni, di Viterbo, fu cancellier criminale per molti anni in Perugia sotto il Governo di Monsignor Galli, in Ferrara dei Cardinali Cibo e Spada, in Imola degli Eminentissimi Acquania e Borromeo, e altrove. Ma, avviluppato dalle lusinghe di Angiola comica, per opera specialmente di sua {p. 325}madre, Isabella, la sposò, ed entrò con esse nella Compagnia del Serenissimo di Modena, recitandovi gl’Innamorati sotto il nomedi Orazio. Ma in Carpi, e precisamente l’aprile del 1658, quattro soli mesi dopo il matrimonio, il Raparelli potè constatar la mancata fede della moglie, e la complicità della suocera. Ribellatosi fieramente, e minacciatele entrambe, esse deliberaron di sbarazzarsene, e ricorsero allo strattagemma di proporre la rappresentazione degli « infelici amori della Regina d’ Inghilterra », pei quali occorreva l’uso d’armi da fuoco : e far sì che il Raparelli portasse dette armi, e, avvisatone poi il Bargello, fosse da esso e dagli sbirri sorpreso e carcerato. Ascoltate il Duca di Modena le dichiarazioni di lui, parve piegare all’ indulgenza, e risolversi forse per la liberazione ; ma le due donne gli inviarono una supplica, in cui raccomandavan fosse fatta giustizia, poichè il Raparelli aveva in dosso le pistole al solo intento di ucciderle, il che a ogni modo avrebbe fatto, secondo le sue dichiarazioni, non appena uscito di prigione. A questo punto ci lasciano i documenti, e niun’altra notizia mi fu dato rintracciarne.

Rasi Giulio, Gaspare (il secondo nome assunto all’ entrar nell’arte per ammirazione grande verso l’attore Lavaggi), figlio di Antonio e di Maria Berghinzoni, nacque a Ravenna il 29 ottobre 1845. Fatti gli studi liceali in patria, fu prima soldato nelle truppe regolari, poi garibaldino, e prese parte alla campagna del '66. Instituitasi nella sua Ravenna una Società filodrammatica, egli vi mostrò subito attitudini chiare alla scena : e trasferitosi il '67 con la famiglia, a Firenze, dopo la morte {p. 326}del padre, entrò nell’ Accademia de'Fidenti, di dove uscì dopo breve tempo (1871), per entrar quale amoroso nella Compagnia della Sadowski, diretta da Cesare Rossi. Abbandonata il primo attor giovine D' Ippolito la Compagnia, nel carnovale dello stesso anno, il Rasi ne prese il posto, che tenne fino a tutto l’anno veniente, dopo il quale passò primo attor giovine sotto Francesco Ciotti, al fianco di Virginia Marini, in Compagnia di Alamanno Morelli facendosi notare dai compagni e dal pubblico per la elettezza dei modi, e la correttezza della dizione. Còlto da febbre tifoidea in Ferrara, vi morì, pianto da tutta l’arte, il 13 giugno 1878. Su di lui, come attore e come uomo, mi piace riferir le parole di Virginia Marini che gli fu compagna delle più care :

Suo fratello, col quale ebbi il piacere di stare qualche anno, era un gentiluomo perfetto, un bravissimo artista ed un compagno buono ed amoroso. Egli interpretava con abilità ed intelligenza tanto il Goldoni, come Dumas, Ferrari, Giacosa. Ha diviso con me gli applausi del pubblico nella Signora dalle Camelie, nella Serva amorosa, nella Partita a scacchi…… Aveva un avvenire splendido : la morte l’ha rubato giovanissimo all’arte ed alla gloria !! Povero Giulio ! Lo rammento sempre con affetto di sorella e con ammirazione di compagna.

Ebbe, giovinetto, molta facilità nello scrivere, e serbo di lui manoscritto un buon volgarizzamento della Lelia di Giorgio Sand.

Rasi Luigi. Fratello del precedente.

Singolare figura d’artista quella di Luigi Rasi poeta, scrittore, attore e professore di recitazione, che ci ricorda, per certi rispetti, il Cinquecento, quando i comici italiani contendevano la palma agli scrittori di maggior fama e, più che interpreti, erano, sulle scene, inventori.

{p. 327}Il Rasi, nato a Ravenna il 20 giugno 1852, si recò il '67 a Firenze, ove fece la quinta ginnasiale al Liceo Dante, e gli studi liceali agli Scolopj.

Entrò ventenne appena come secondo amoroso e secondo brillante nella Compagnia Sadowski diretta da Cesare Rossi. Di li, un anno appresso, nel 1873, passò in quella di Luigi Monti, che dovè lasciare poco dopo per soddisfare ai suoi obblighi di leva. E tre anni stette confinato a Lecce a fare il caporal foriere e il caporal maggiore di maggiorità, riconfortandosi negli studi e nel suo Catullo !

Licenziato di sotto le armi, nel settembre del 1877, eccotelo primo attor giovine nella Compagnia Pietriboni, dove rimase fino all’ anno scorso (1882), quando fu nominato direttore della R. Scuola di Recitazione in Firenze.

Attore studioso, elegante, accuratissimo, si cattivò di colpo le simpatie del pubblico per le sue intelligenti interpretazioni, per una rara naturalezza e limpidità di dizione, per il suo amore alla verità. Non gridava, diceva : otteneva mirabili effetti senza i soliti mezzucci : cercava che il pensiero dell’autore, non la voce dell’artista, facesse immediata impressione sull’animo del pubblico. Metteva grande studio nel penetrare il carattere, la psicologia del suo personaggio : gli guardava dentro e poi cercava d’entrar quasi ne' suoi panni. Non era la solita sovrapposizione dell’artista sul personaggio ; era un vero e proprio lavoro di transustanziazione, da cui l’attore usciva trasformato. Nel Violinajo di Cremona, nei Fourchambaùlt, nel Cantico dei Cantici, nella Libertas di Costetti e in tante altre parti, dimostrò col fatto la bontà del suo metodo : del quale vedemmo, di recente, gli ottimi risultati in una prova di studio degli alunni nella R. Scuola di recitazione da lui diretta.

Perchè il Rasi è ormai un transfuga della scena. Rinunziò un bel giorno agli applausi sonori, alle commozioni, ai trionfi della vita d’artista, contento di poter darsi agli studi, di poter avere un po' di quiete per stillarsi il cervello traducendo Catullo e lottando a corpo a corpo con le difficoltà dell’ originale e dei metri, con la rigidità della nostra terribilissima lingua.

Una delle sue passioni è il latino che conosce assai bene : un’altra è l’arte della lettura, ïntorno alla quale fa quotidianamente studi ed esperienze nella sua scuola.

Fra noi su questo argomento, non s’ è fatto il bel nulla. E al Rasi tocca il merito d’avere compresa e misurata tutta l’importanza e d’avere accennato al da farsi. Una sua conferenza tenuta al nostro Circolo filologico e ripetuta costi a Roma, fece rumore : un suo trattatello sull’arte del leggere, meritò gli elogi credibili del Carducci. All’ esperimento {p. 328}che dette il mese scorso nella sua scuola, un alunno alto tre o quattro palmi lesse un discorso – per esercizio – con una disinvoltura, con un garbo da sbalordire. So di un medico nominato a un tratto professore d’università, che tremava all’idea di leggere la prolusione. Andò dal Rasi che gliela fece studiare, e lessi poi nei giornali che a Parma avevano ammirato nel giovane professore il facile eloquio, l’ornata parola.

Un’altra passione del Rasi è l’erudizione. Quasi quasi vorrebbe pigliarne un tal bagno freddo da spegnerci i suoi ardori d’artista. Ma poi quell’altra parte di lui, quella sensitiva, si ridesta, e il fuoco sacro lo riaccende di nuovo.

E forse allora sogna i trionfi della scena, una filarata di teste che pendono commosse dalle sue labbra, un’eletta d’ anime gentili che la parola alata dell’artista e del poeta agitano soavemente, e il plauso che giunge caro, aspettato, desiderato, e l’effetto studiato e conseguito in quel dato momento, in quel punto preciso in cui si voleva e si attendeva, e il mormorio approvatore, e quella calda e vivace corrente di simpatia che lega il pubblico agli interpreti sapienti….

Adimaro.

P. S. — Rileggo quanto ebbi a scrivere diciannove anni fa nel Capitan Fracassa, in occasione d’ una memorabile recita al Quirinale, dove in conspetto dei Sovrani, della Principessa Isabella e del Duca di Genova allora sposi, Cesare Rossi, Eleonora Duse e Luigi Rasi, aggiunsero nova grazia e vivezza al proverbio di Francesco De Renzis Un bacio dato non è mai perduto. Allora la Duse cominciava ad esser nota e pregiata come prima attrice ; Cesare Rossi aveva già asceso il culmine del capocomicato ed aspirava, con tutta la forza della sua tromba nasale, a quella commenda che è il sogno d’oro d’ogni artista provetto ; e Luigi Rasi si era nobilmente affermato come scrittore, come dicitore squisito, come maestro a cui son noti e familiari tutti i segreti dell’arte scenica. — A distanza di diciannove anni, mi è grato oggi ristampare ciò che scrivevo, e aggiungere che le promesse di quei giorni non furon fallaci. Luigi Rasi le ha mantenute, dirò anzi che le ha sorpassate. Di lui allora si conosceva il poeta traduttor di Catullo, l’attore, l’artista colto e coscienzioso ; ma non ancora egli si era rivelato autore di quei monologhi che trovarono sulle scene maggiori e su quelle dei filodrammatici tanta e così invidiata fortuna ; non ancora gli si {p. 329}era sviluppato così nocchiuto il bernoccolo dell’ erudito e del feroce raccoglitore di qualunque cosa avesse attinenza con la storia del nostro Teatro. Questo Dizionario dei Comici italiani, concepito con tanta genialità e condotto innanzi con tanta dottrina e così ordinata serietà d’indagini e d’intendimenti, ch'egli volle dedicato a Teresa Sormanni, la fedele compagna della sua vita, la collaboratrice intelligente e amorosa de' suoi studi, tolta in moglie il 15 luglio 1881, è un bel titolo e degno alla riconoscenza di quanti pregiano le nostre glorie teatrali, è sopra tutto un’ opera utile e buona che colma una vergognosa e dolorosa lacuna della nostra storia dell’ arte, fin qui così trascurata. Per compierla occorreva un erudito che fosse al tempo stesso un artista e un attore, e che le notizie, pazientemente raccolte con zelo e industria di bibliofilo, sapesse poi ordinare e comporre, dando al lavoro l’ attraenza che han queste pagine. Paragonate, di grazia, il Dizionario del Regli con questo, e vedrete quanto ci corra, e come manchi per gli artisti lirici, il geniale compilatore che hanno trovato nella loro stessa schiera gli artisti drammatici. Ma quest’opera, così bene e solidamente piantata, richiedeva a fondamento una raccolta teatrale, quale il Rasi ha saputo raccogliere per formare un vero museo del Teatro Italiano, che dovrebbe diventar cosa pubblica, a documento delle nostre glorie passate, se si trovasse chi fosse disposto a compensare delle sue spese e delle sue fatiche il provvido collettore.

Il Rasi è sempre Direttore della nostra R. Scuola di Recitazione, la quale vanta ormai molti alunni che son divenuti artisti acclamati. Ma le cure della Scuola, cui egli si è consacrato con grande abnegazione, non lo hanno nè fisicamente nè moralmente abbattuto. Gigi Rasi è ancora il biondo Rasetto di venti anni fa e par quasi che il tempo non l’ abbia toccato con la sua cipria fatale. – La voce di lui ha acquistato in potenza e in vigorìa ; la dizione in perspicuità e sicurezza. Dicitore preciso e vibrato, il Rasi ha tentato per primo un arduo esperimento, quello di accompagnare col commento della calda e passionata {p. 330}parola le melodie della musica, anche quelle sonore d’ una orchestra intera. Le sue recitazioni del Manfredo di Byron, illustrato con grande orchestra da Schumann ; di monologhi suoi e ballate di Bürger, di Schiller, di Marradi con musica per pianoforte di Bellìo, di Liszt e di Ricci ; dell’ Egmont di Goethe, testè compendiato in bei versi italiani a commentare le armonie di Beethoven, hanno fatto comprendere come l’arte della parola possa utilmente e piacevolmente sposarsi al canto indefinito della musica strumentale. Nè basta : il Rasi ha voluto e saputo altresì dimostrare come una sapiente recitazione possa da sola servir di commento alla poesia, mettendone in rilievo le più riposte bellezze. La lettura ad alta voce, di cui egli è un apostolo convinto, diventa così un mezzo d’istruzione e di educazione, facile e aperto a tutti : esso dovrebbe sostituirsi anche nelle scuole a quel tedioso e forzato esercizio della memoria, che avvezza i ragazzi a non capire quello che recitano, e che riesce, certamente, a renderlo a tutti noioso, anche a chi è costretto ad ascoltarli.

Ma il poscritto è ormai più lungo dell’ articolo. Colpa del Rasi, che in questi diciannove anni ha voluto dar da fare al suo biografo e che gli darà dell’ altro filo da torcere ad una nuova edizione di questo genialissimo libro.

ELENCO DELLE OPERE A STAMPA

Clodia.Memorie di C. V. Catullo. (Lecce, 1876). Comprende la versione del poema Le Nosse di Peleo e Teti, e di altro. – Se ne fecero altre due edizioni a Milano nel 1878 e 1879.

Torva Prœlia. Versi originali e volgarizzamenti catulliani. (Napoli, De Angelis, 1879).

Eraclio Florenzano Galatonese.Monografia. (Ravenna, David, 1879).

Jacchus. Canto antico. (Bologna, Zanichelli, 1880).

La Verità Nell’ Arte Rappresentativa. Discorso inaugurale alla Cattedra fiorentina di recitazione. (Firenze, Galletti, 1882).

La Lettura Ad Alta Voce. (Firenze, Paravia, 1883).

Il Libro dei Monologhi. (Milano, Hoepli, 1888). – Se ne fecero tre edizioni.

{p. 331}Saggio di una traduzione integra del libro di Catullo. (Londra, Hall, 1889).

Armanda ritorna. Commedia in un atto. (Milano, Barbini, 1889).

L'Arte del Comico. (Milano, Paganini, 1890).

Il Libro degli Aneddoti. (Modena, Sarasino, 1891). – Ne ha fatto l’ editore Bemporad di Firenze una seconda edizione, nuovamente illustr., nel 1898.

Pluto. Commedia di Aristofane, volgarizzata in prosa, con prologo in versi e lettera di A. Franchetti. (Modena, Sarasino, 1891).

Il Secondo Libro dei Monologhi. (Milano, Hoepli, 1893).

La Recitazione nelle Scuole e nelle Famiglie. Antologia poetica. (Firenze, Civelli, 1895).

La Duse. (Firenze, Bemporad, 1901).

I Comici Italiani. Biografia, bibliografia, iconografia. (Firenze, Bocca-Lumachi, 1897-190….).

TESTIMONI

Caro Rasi, Firenze, 22 giugno '76.

Ebbi il tuo libro poche ore avanti ch' io partissi da Catania : lo portai con me e mi fece buona compagnia lungo il viaggio. Le memorie si leggono d’ un fiato e l’ elemento fantastico è così bene intrecciato allo storico, che pur essendo esso un romanzetto, lasciano poco o nulla a desiderare dal lato dell’ esattezza. Se fosse a questi pregi accoppiato un maggior colorito locale, il tuo lavoro sarebbe commendevole da tutti i lati….

Prendi intanto una cordiale stretta di mano

Dal tuo
Rapisardi.
{p. 332}Caro Rasi, Catania, 16 marzo '79.

L'Ati è un giojello ; l’ epistola ad Ortalo e la Chioma di Berenice più spigliata, non più bella di quella di Foscolo ; il carme a sè stesso così così : il mio è forse migliore.

Perdona alla scorbellata franchezza di chi ti vuol bene davvero.

Del tuo
Rapisardi.
Egregio Rasi, Firenze, 31 luglio 1880.

Ella conosce profondamente Catullo, e ciò ch' è più mirabile sa riprodurlo nell’arte. La traduzione che ci ha data dell’Epitalamio per le Nozze di Peleo e Teti, mi sembra veramente degna di Catullo, e, s’ io non erro, la migliore di quante ne abbiamo avute. C' è un sentimento fino di poeta congiunto ad una intelligenza non comune del latino da farmi sperare ch' Ella, se si mettesse all’ opera, tradurrebbe Catullo meglio degli altri.

Io consento nella sua spiegazione di quell’ extenuata gerens veteris vestigia pænæ : e se non fosse il gerens che mi mette ancora un po' di dubbio, oserei chiamarla certa.

Quello stupendo mollescunt colla non è da Lei reso pienamente. Il poeta, com’ Ella ben sa, v' intende l’ammollirsi del collo riposato. Perchè non si potrebbe adoperare anche in italiano la stessa parola ?

Mi perdoni questo mio giudizio schietto e senza ipocrisie. Ella comprenderà quanto io La stimi dal modo stesso col quale io La giudico.

Mi creda con verace stima

Suo dev.
G. Trezza.
Caro Rasi, Torino, 20 febbraio '80.

Sono veramente ammirato della splendida forma del tuo Bacco, e specialmente della poesia per la grotta di Pozzuoli, piena di sentimento e di grazia. Un omino che fa dei versi come questi

e prego e prego e prego, e nella torbida mente
geme il desìo delle dolcezze antiche

è un omino col pepe e col sale. Non posso levarmi dalla testa quel secondo verso che mi pare la più bella delle moltissime perle del tuo volumetto.…

I miei saluti alla Signora e al Signor Pietriboni e al Bassi. A te un abbraccio e un bacio in cui

geme il desìo delle dolcezze antiche

della meridiana. Addio, addio.

Tuo
Edmondo (De Amicis).
Caro Sig. Rasi, Bologna, 3 marzo 1883.

La ringrazio del suo libro, che mi pare utilissimo, e dal quale mi pare che imparerò anch' io a leggere meno male i versi. Nella Esposizione che Ella ha fatto della mia Mors io piaccio a me stesso e meco stesso m’ esalto di esser così bello. Ma poi ripenso {p. 333}che tutte coteste mie nuove bellezze sono trovate d’ un poeta di fantasia, di sentimento e di molta coltura, che dell’ arte del declamare fa un’estetica pensata e imaginosa.

Alla Sua Signora tanti rispetti e ricordi da parte mia e delle mie donne. A Lei un saluto affettuoso, non senza il desiderio di rivedere di quando in quando di quei versi antichi che Ella sa fare così bene.

Suo
Giosuè Carducci.
Astichello, presso Vicenza, 30 ottobre 1887.
Ottimo professore e carissimo amico,

Non tardo un minuto a ringraziarla del volume « I Monologhi » che, domani comincierò a leggere, e della notizia che mi dà del superbo lavoro, a cui ha già posto mano. Le giuro, che que' versi miei sulla Madonna mi parvero altra cosa, cioè meno infelice, quando procurai di recitarli secondo le sue norme. O carissimo Rasi ! Non ci voleva che un pari suo, egregio tanto nel comporre, che nel recitare, il quale potesse donare all’ Italia un libro tanto utile e dirò, necessario….

Mi voglia sempre bene : mi ricordi alla sua egregia Signora : perdoni alla fretta, e mi tenga

Suo aff.mo
Giacomo Zanella.

Re (Di) Pietro. Fa cenno di lui il Padre Gio. Domenico Ottonelli nella sua Cristiana moderazione del Teatro.

Pietro Di Re, detto tra' comici Mescolino fu molto stimato, era modestissimo ; ma di lui si divulgò questa taccia, che era troppo freddo, perchè mai diceva oscenità. Io rispondo che l’ esser troppo freddo non è errore contro la cristiana moralità ; ove difetto si è troppo grave l’ essere troppo licenzioso di lingua. E se Mescolino era tacciato di freddezza perchè si asteneva dalle sboccataggini, quella taccia era ingiusta, e doveva essergli data da persone poco amiche all’onestà ; ove all’incontro era degno di lode, perchè nel moderno Teatro serbava le regole della convenevole moderazione ; e sapeva recitare, e dilettare senza offesa dell’ arte, e senza oltraggio della virtù.

Fr. Bartoli aggiunge che « fioriva questo comico onesto e rinomato intorno all’anno 1625. »

Il Callot ci ha dato una scenetta nei Balli di Sfessania tra Guazzetto e Mestolino (V. Bocchini).

Rebecchi Margherita. « Comica assai giovane, che fiorisce in questi giorni (1782), e che può occupare un degno posto in mezzo alle buone attrici. Ha recitato in Verona coll’accademica Compagnia di Marco Fiorio il carnovale del 1780. È stata l’anno appresso con la truppa d’Antonio Camerani ; ed oggi {p. 334}trovasi con una vagante compagnia, esercitandosi con impegno, e procurando d’acquistarsi qualche concetto nella sua Professione. » Così Fr. Bartoli.

Rechiari Luca. Attore e capocomico, fiorito nella seconda metà del secolo xvii, recitava le parti d’Innamorato sotto il nome di Mario, al servizio, dall’ '86 al '93, del Serenissimo Francesco di Modena, a vicenda con Gaetano Caccia (V. Suppl.). L'autunno dell’ '86 era a Torino, raccomandato da Sua Altezza al signor Marchese di Dronero ; e 1' '88 a Milano, ove gli furon pagate lire 740 dal tesoriere Zerbini (V. l’elenco di quest’anno al nome di Torri Antonia). Il 25 febbrajo '90, trovandosi a Roma, e avuta notizia che il Duca privava la Compagnia del Dottore e del secondo Zanni, si volge con lettera a un segretario del Duca, per ottenere o lo scioglimento da ogni obbligo di servizio, o la sostituzione dei due personaggi. Il Fontanelli poi con lettera del 20 luglio 1691, impetrando soccorsi dal Duca pel pantalone Girolamo Gabrielli e la prima donna Antonia Torri, dice di questa : « La Lavinia anch'essa sta attendendo dalla solita benignità di V. A. qualche soccorso, tanto più il Rechiari non l’ha voluta in Compagnia, non sa come sostentarsi. » Il 5 dicembre del’91 scrive da Arezzo di Toscana a un segretario del Duca, perchè gli ottenga raccomandazioni per Roma, ove i comici di Silvio, con lor mene, gli farebber guerra. Il dì seguente rinnova la supplica al Duca in persona, nella quale si firma non più Luca Rechiari detto Mario, ma Luca Rechiari detto Leandro. Forse dalla Compagnia era uscito il Caccia, primo nell’ elenco, ed egli ne aveva assunto il nome e l’importanza. A Roma poi andò ; e il 2 aprile del '92 l’abate Ercole Panziroli scriveva in suo nome al Marchese Pio di Savoja, perchè gli ottenesse dal Duca raccomandazioni per Napoli. Il giugno del '93 lo vediamo a Perugia, al termine di un corso di recite, poi per un mese, a Gubbio, di dove il Rechiari scrive direttamente al Marchese Pio, perchè gli ottenga dal Duca una commendatizia pel Cardinal Rubini, Legato di {p. 335}Urbino e Pesaro, acciò si possa recar in quelle due piazze a guadagnarsi il vivere. L'ottobre del '93 era a Fermo, il dicembre a Chieti, il carnovale a Roma.

Egli aveva in compagnia la moglie, che recitava le prime donne a vicenda con la Torri, prima nell’elenco (e forse per ciò il Rechiari o spontaneamente o stimolato dalla moglie pensò bene di liberarsi di questa), e un figliuolo, Giorgio, che recitava i terzi amorosi, sotto nome di Ottavio.

Reinach Enrico. Nato il 3 agosto 1851 a Torino, mostrò sin da ragazzo un amor singolare al teatro ; ma il padre lo mandò, per distornelo, presso alcuni parenti a Vienna, ove stette tre anni. Morto il padre, si restituì in Italia, e frequentò a Milano la Scuola dei filodrammatici, sotto gl’insegnamenti di Amilcare Bellotti, detto Bellottino (V.). Esordì, generico giovine, al fianco di Ermete Novelli, a Udine in Compagnia Diligenti e Calloud. Fu l’anno dopo secondo amoroso con Virginia Marini, che lasciò dopo la metà del secondo anno, perchè chiamato sotto le armi. Finito il servizio militare, era di seconda categoria, passò primo attore giovine in Compagnia di Luigi Pezzana con Ceresa primo attore, Adele Marchi prima attrice, e la Duse prima attrice giovine ; poi, nello stesso ruolo, in quelle di Bellotti-Bon, di Pasta, Nazionale, della Marini, di Marchetti e la Giagnoni, passando finalmente primo attore e capocomico in società, prima con Pasta e Garzes, poi con Talli.

Fu scritturato dalla Duse per la sola parte di Armando nella Signora dalle Camelie nel suo giro di Germania e Russia ; quindi, per un triennio, da Irma Gramatica e Raspantini. Oggi è tornato capocomico in società con Pieri, slanciando qual prima attrice sua moglie Edwige.

{p. 336}Enrico Reinach si acquistò in arte, e a buon diritto, il titolo di eterno primo attor giovine, chè l’avanzar degli anni non gli tolse mai un’aura singolare di giovinezza, quasi direi di infantilità. Veramente la nuova divisione de'ruoli e delle parti ha fatto di lui un primo attore, ma, secondo le considerazioni antiche, oggi egli è sempre primo attor giovine ; come, secondo le moderne, si dee dire che primo attore egli è da un pezzo, almeno da quando, ammalatosi il Salvadori, egli lo sostituì nell’Armando con la Marini. Il Reinach, di elegantissimo vestire e di modi squisiti, fu lungo tempo l’ammirazione, direi quasi, lo spasimo delle signore. Se nella sua recitazione si potè notare talvolta una cotal mancanza di sincerità, essa fu compensata a esuberanza da scatti di passione, calda, violenta, ch'ei serba tuttavia, nei quali è il segreto di tutta la sua forza.

Reinach-Guglielmetti Edwige. Moglie del precedente, cominciò a recitar quindicenne, seconda amorosa, con Virginia Marini, con la quale stette un triennio. Fu poi scritturata prima attrice giovine da Andrea Maggi ; ma il Reinach ne sciolse il contratto per farla sua sposa. Adorna di fisico elegante, di fisionomia aperta, di voce armoniosa, di sufficiente sentire, e di una grande passione per l’arte, è passata al ruolo di prima attrice assoluta, nel quale va oggi affrontando, con onore, i pubblici più severi, e le parti più scabrose.

Reiter Virginia. Modenese, figlia di Carlo Reiterer e di Teresa Deodati nata Formiggini. Forse per brevità questi aveva mutato in quel di Reiter il nome di Reiterer, lasciatogli dal padre, tedesco, uno de' più fidati del Duca di Modena, dal quale anche fu mandato a Vienna con missioni segrete, e {p. 337}si dice vi accompagnasse il Conte Tarrabini, Ministro delle Finanze Estensi, in qualità d’interprete : nel 1859, fedele al Padrone nella prospera e nell’ avversa fortuna, seguì a Vienna il Duca, ed ivi morì nel 1880, d’anni 78, lasciando tra altri il figliuolo Carlo, padre della piccola Virginia, che educò alla Scuola di Carità dalle monache figlie di Gesù. La prima apparita sulla scena ella fece in convento. Entrata nella Società Cuore ed Arte, al momento della sua formazione, vi emerse in poco tempo, mostrando assai chiare attitudini alla scena : e fu gran ventura pei parenti ai quali non volgevan troppo al bene le cose, che Virginia potesse abbracciar l’arte drammatica : ciò fu il maggio dell’ '82 con Giovanni Emanuel, che le fu poi maestro, compagno, amico fino all’anno 1894. La Reiter, naturalmente, fu scritturata per parti di non grande importanza, ma con la speranza che potesse taluna volta ripiegar la prima attrice giovine Bianca Ferrari, ammalata. E alcuna volta, infatti, la sostituì, e, lei morta il marzo dell’ '83, ne prese il posto. Ebbe a prime {p. 338}attrici Adelina Marchi, la Papà, la Ruta, la Glech, la Marini : con questa trovò subito modo di uscire dallo stato di lieta promessa ; chè la rappresentazione di La figlia di Jefte di Cavallotti al Filodrammatico di Milano (7 aprile '86) consacrò l’artista valorosa, che, l’anno dopo, uscitane la Marini, diventò la prima attrice assoluta della Compagnia, alternando, e sempre con buon successo, Santarellina, Il Matrimonio di Figaro, La figlia di Jefte, con Frou-Frou, Demi-monde, Fedora, Signora dalle Camelie, Fernanda.

Staccatasi finalmente dall’Emanuel, diventò pel '94 la prima attrice assoluta della Compagnia Talli e Reinach, pel '95-96 di quella Andò e Leigheb ; poi formò Società con Pasta, per passar da ultimo capocomica assoluta : questa la cronaca artistica di Virginia Reiter. L'angusto spazio e l’indole di quest’opera non consentono che un breve e rapido giudizio dell’artista. Ma basti affermare ch'Ella per sue doti fisiche e intellettuali è noverata oggi fra le rare attrici di pregio intrinseco della nostra scena di prosa ; e di esse prima senza dubbio per la spontaneità doviziosa, direi quasi per la improvvisazione, specie negli scatti della passione caldissima, in cui forse la moltitudine non avverte alcune scorrettezze di forma lamentate dall’acume della critica. La sua voce metallica, estesa, capace delle melodie più soavi e più aspre e forti, afferra l’anima di chi ascolta. Nel suo riso squillante è una giocondità viva e sincera, nel suo pianto sono solchi profondi di dolore, strazi di anime, a cui si avvince la folla dominata. In quella bellissima faccia ebraica (sua madre era figlia del custode della Sinagoga di Modena, fatta cristiana quando si sposò) sfolgoran due occhi a mandorla, ricchi di fascino ineffabile ; tra le labbra tumide e procaci affaccian due file di perle grandi ed uguali che attraggono : se la parte inferiore della sua persona rispondesse armonicamente a quella di sopra, Ella sarebbe in ogni rispetto magnifica. Ho detto più sopra scorrettezze di forma. Avrei dovuto aggiungere : inevitabili in chi si abbandona con tutte le esuberanti doti dell’anima sua d’artista, senza lasciar tempo {p. 339}nè modo alla mente d’infrenarla e guidarla con lo studio paziente, profondo dell’analisi psicologica in ogni minima parte : a quell’abbandono di anima si accoppia naturalmente, nell’improvvisazione, quell’abbandono di persona che non può tenere l’artista inconsapevole dal mostrare alcuna volta quelle siffatte scorrettezze. Ma in ogni modo : com’ Ella riempie la scena ! {p. 340}Che anima ! Che vita ! Il pubblico, il quale, più del godimento intellettuale, si appaga di un godimento immediato che lo scuota là per là, è assai più soddisfatto davanti a codesta attrice, che ad altre, forse intellettualmente o artisticamente più…. come dire ?… elaborate. Oggi abbiamo il “emperamento artistico” : con queste due parole si scusan molte stramberie sulla scena. Se v'è temperamento artistico, non si può aver sempre lo spirito rispondente a ogni chiamata. Così : la tale attrice, che è un gran temperamento artistico, 'sta sera è stata fredda, perchè non ne aveva voglia ; ier sera fu arruffata, perchè era nervosa, e via di questo passo ; e beati coloro cui tocca ventura di assistere a una di quelle rappresentazioni, il cui temperamento artistico si esplichi in tutta la sua pienezza. In Virginia Reiter forse il temperamento artistico, propriamente detto, non c’ è : le analisi nevrotiche non son forse quel che più le si attaglia…. Se non avessi paura di essere frainteso, direi che Virginia Reiter non ha voluto abbandonar compiutamente la scuola di taluna che la precedette, nè accettar a occhi chiusi tutti i canoni, tal volta a base di oppio, dell’arte moderna…. Insomma : nella sua modernità c’è sempre della Virginia Marini. Ma la Reiter è la Reiter…. ; e, grazie a Dio (anche in ciò somiglia alla sua egregia antenata), non bisogna al povero pubblico di andarle a chiedere, prima di comperare il biglietto : « Scusi : 'sta sera, ne ha voglia ?… » Tra le produzioni nuove, o rinnovate, la cara artista ha dato l’anima a due : a Madame Sans-Gêne di Vittoriano Sardou, e a Messalina di Pietro Cossa.

Così, e assai bene, il mio Ugo De Amicis comincia uno studio sull’ arte della Reiter nell’interpretazione della prima :

Credo che se Sardou fosse un autore italiano il pubblico direbbe ch'egli ha scritto la Madame Sans-Gêne per la signora Reiter, ch'egli ha svolto così largamente il carattere di Caterina perchè l’illustre attrice, presentandosi nei diversi aspetti di questo personaggio storico, potesse in una sola parte spiegare tutte le sue doti ; e credo che chiunque avesse letta la commedia prima di vederla rappresentata e avesse voluto distribuire idealmente i ruoli, avrebbe scritto a fianco del nome della protagonista : Virginia Reiter. La parte è varia, complessa, multicolore come l’arte di chi la interpreta ; la parte non limita il vigore artistico dell’attrice, lascia che questa domini con tutta la sua originalità, con tutta la sua valentia.

{p. 341}Quanto alla seconda, a una mia dimanda Ella rispondeva :

Come studio ? A lungo e non poco…. qualunque sia il resultato dei miei studi. La Messalina ?… Dopo letto il lavoro ho voluto studiare il personaggio. L'ho ricercato nel testi classici e nei semi-storici o romanzeschi ; e così, a poco a poco, prima delle parole della parte, ho imparato a memoria, dirò così, una figura che mi pareva assomigliare alla Imperatrice romana.

Con questo corredo di preparazione ho ripreso, per poco, lo studio dei versi e poi le prove lentamente, tentando di dar vita a quella figura che sapevo e che…. il pubblico solo ora può dire in quanta parte di vero abbia reso.

Veramente, oggi che l’arte drammatica mostra di tendere alla radicale rinnovazione del dramma storico, mirando in ispecial modo alla ricostruzione fedele dell’ambiente, la Messalina di Pietro Cossa, che pur segnò al suo apparire un sì gran passo nel progresso della scena, non mi pareva tale da invogliare un’artista a infonderle nova vita. Nè tale mi pareva, anche, perchè trattavasi di dramma storico, del quale abbiamo ancor nella mente e nel cuore il ricordo della interpretazione magnifica che ne diede la geniale trinità Marini-Tessero-Pezzana. Comunque sia, pare che la interprete moderna sia uscita degnamente dalla nuova battaglia.

Ricci Federigo. Recitava le parti di Pantalone e lo vediamo in Francia il 1613 e 1620, con la Compagnia di Tristano Martinelli (V.).

Ricci Benedetto, nipote del precedente, nato il 9 maggio del 1592, recitava gl’Innamorati sotto il nome di Leandro. Pare fosse il 1618 a Napoli, d’onde fu richiamato dall’Antonazzoni (V.), per essere aggregato alla Compagnia dei Confidenti. Partì il '20 {p. 342}per Parigi con lo zio ; ma, arrivati a Chambéry, sorpreso da malore, vi dovette soccombere. La fede del guardiano di Chambéry della morte di Leandro fu spedita a Venezia, senza dubbio sua patria.

Secondo l’indecifrabile oroscopo che tolgo, come gli altri, dalla Biblioteca Nazionale di Firenze, gli avrebbe preso moglie il 1614 e commesso un omicidio il '16.

Ricci-Teodora (V. Bartoli-Ricci).

Ricci Anna, bolognese « figliuola — dice il Bartoli, di Paolo Ricci, accademico recitante, — che ne' privati teatri di Bologna fece per alcuni anni un’ottima comparsa. » Entrò con lui in arte, sostenendovi le parti d’ingenua ; e di lei dice ancora il Bartoli che « nelle cose dove la tenerezza affettuosamente compeggi, a meraviglia riuscì. » Si recò dopo di aver vagato in compagnie di giro, in Napoli, ov'era nel 1782 ; passò poi al ruolo di Donna seria, ammiratissima.

Ricci Orsola, sorella della precedente, entrò in arte e seguì sempre il padre e la sorella, recitando da Serva. Di questa dice il Bartoli : « il gentil personale adattato al carattere che sostiene, una prontezza vivace, ed i modi suoi graziosissimi fanno distinguerla per un’ attrice pregevole, e degna di quelle lodi, che liberalmente le vengono dagli spettatori concesse. »

{p. 343}Ricci Emilia, pisana, nata dalla civile famiglia Gambacciani, venuta a povertà, ancor fanciulla, dopo la morte del padre, sposò Antonio Ricci, padovano, ballerino da corda, assai maggiore di lei. Andò con la madre Clarice e col marito a Venezia, ove recitò nella Compagnia di Antonio Sacco al Teatro Grimani a S. Gio. Grisostomo. Le grazie del volto, la pronunzia dolcissima, lo spirito non comune fecer di lei un’artista di pregio ; sì che, passata con Girolamo Medebach, il Chiari ebbe a scriver per lei alcune parti, quali la Melania nella Pastorella fedele, Ipparchia nel Diogene, e altre. Restò sul teatro fino all’anno 1767, dopo il quale, prostrata dalle fatiche che le avevan date l’allevamento e l’educazione di cinque figliuole, si ridusse a Venezia, ov' era ancora l’ 82, « ben conservata — dice il Bartoli — e in buona salute, presso una doviziosa e onorata famiglia. » Suo marito, per non esser d’aggravio alla famiglia si recò maestro di ballo nel Collegio di Senigallia, e quivi morì il 1780. L'anno dopo le morì la madre. Delle cinque figliuole, Angiola recitò da bimba alcuni prologhi del Chiari, poi divenne ballerina egregia e sposò Gaetano Cesari, rinomatissimo grottesco : la seconda, Marianna, fu attrice e ballerina anch'essa col Medebach e sposò nel '79 Giovanbattista Rotti, Pantalone (V.) ; la terza, Teodora, fu moglie di Francesco Bartolì, e notissima attrice (V. Bartoli-Ricci) ; la quarta, graziosa ballerina, morì nel '73, appena ventenne ; e la quinta, Maddalena, fu egregia cantante, sposa al bolognese Vincenzo Conti, scenografo di grido.

Ricci Amato, fiorentino, fu il più forte seguace di Luigi Del Buono, sotto la maschera di Stenterello. Figlio di Giovan Batista, pettinajo, la cui bottega esiste tuttora in Via de'Servi, presso la Chiesa di S. Michelino, si mostrò, da giovinetto, di spirito più che bizzarro, e fu eccitato a recitare da un Antonio Palagi, ciabattino, popolarissimo per singolarità di arguzia. La voce armoniosa, la correttezza della dizione, la spontaneità de'sali, lo fecer subito amato e ammirato dal pubblico della {p. 344}Piazza Vecchia, Teatro degli Arrischiati, sì che vi fu perfino chi lo paragonò a Vestri nella facoltà di trascinare il pubblico al pianto ed al riso. Da alcuni manifesti di sua serata, rilevo che Stenterello non era la sola maschera che figurasse nella Compagnia.

La beneficiata del Ricci del 31 gennaio 1837 si aprì con Il Matrimonio con la benda agli occhi con Pulcinella ciabattino, segretario ignorante e servitore in casa della miseria ; e quella del 17 febbraio del 1840, si chiuse con una pantomima, adorna di voli e trasformazioni, intitolata : Arlecchino bombardato ossia Il Gigante Para-Faragaramus.

Forse invece di una vera e propria compagnia del Ricci, si trattava di compagnie scritturate, nelle quali poi egli aveva libertà di azione ? Infatti, al proposito della pantomima, era detto : « verrà questa rappresentata da varj componenti la Comica Compagnia, che graziosamente si prestano. » I manifesti di beneficiata avevan, come per tutti gli Stenterelli, il solito invito al pubblico, ordinariamente in brutti versi {p. 345}martelliani. In quello del '37, invece, figuravano due sonetti, de'più spontanei e garbati. Il Ricci, poi agente teatrale, entrò in una certa agiatezza, sì che potè comprarsi al Ponte alla Badia una villa, detta delle Pagliole, ove morì di cholera, dicono per paura.

Il numero dell’Arte di Mercoldì 9 agosto 1855 recava in terza pagina queste poche parole listate a nero e sormontate da una croce :

L'artista comico per eccellenza, il conscienzioso ed esperto agente teatrale, attaccato jeri dal cholera, spirava questa mattina a ore 4 antimeridiane, fra il pianto dei suoi più cari e il lamento di tutti quelli che apprezzavano il di lui talento e le sue rare virtù.

Ricciolina o Rizzolina. Dal libretto della Scena Illustrata Francesco Bartoli riferisce : « Comica che recitava la parte della serva in età avanzata in un carattere grave e prudente, all’ opposto di Fiammetta sua compagna, nella unione de' Comici affezionati. Viveva ancora l’anno 1634. » Ma nè di questa, nè di altri personaggi degli Affezionati ci fu possibile dar notizie. Il D'Ancona (II, 534) riferisce alcune parole di Federico Zuccaro nel suo Passaggio per Italia con la dimora in Parma, pag. 28, riguardanti il 1605, nelle quali è detta la Compagnia di Frittellino, « la migliore forse che sia oggidì, guidata dal Capitano Rinoceronte e Frittellino, con le lor donne meravigliose, la Flavia, la Flaminia e la Rizzolina, con Arlichino e altri due, etc. etc. » Questa Rizzolina potrebbe anch'essere la Marina Antonazzoni, la quale, secondo l’articolo del Neri, avrebbe recitato ne' Gelosi le parti di serva sotto nome di Ricciolina, prima di salire al grado di prima donna sotto quello di Lavinia, a vicenda con la Roncagli. Ma mi tengono anche in dubbio le date lasciateci dall’oroscopo, secondo le quali ella avrebbe avuto il 1605 dodici anni (V. Antonazzoni, al cui nome è anche l’illustrazione di G. Callot).

Riccioni Barbara. È citata dal Bertolotti, per l’anno 1693 a Mantova, come cortonese, comica al servizio di S. A. insieme a un Domenico Cecchi, pur di Cortona. Ma era cantatrice, ed ebbe parte principale il 1694 al Teatro Malvezzi di Bologna nella Forza della Virtù, assieme alla celebre Mignatta, Maria {p. 346}Maddalena Musi (V.) citata erroneamente fra le attrici del teatro di prosa.

Riccoboni Antonio, veneziano, comico egregio per le parti di Pantalone nella Compagnia al Servizio del Duca di Modena. Luigi XIV richiese al Duca di Modena il Riccoboni, il quale, colpito dalle parole cortesi di rammarico che il Duca gli volse nel licenziarlo per la Francia, rifiutò di recarvisi, qualunque fossero i patti offertigli. Secondo i Fratelli Parfait, seguiti poi dagli altri, la richiesta del Re fu causata forse dal fatto che poco piacque a Parigi il Pantalone (di cui s’ignora il nome), il quale andò a sostituir Turi, egregio artista (V.), morto il 1670…. Ma questa non è che un’ipotesi ; e anzi, il Robinet, citando il nuovo Pantalone, nella sua lettera in versi dell’8 marzo 1670, dice :

tous les acteurs de cette troupe,
qui maintenant ont vent en poupe,
compris leur nouveau Pantalon,
rouge, ma foi, jusqu’au talon,
y font a l’envi des merveilles.

Questo Pantalone ignorato essendo stato l’ultimo Pantalone andato a Parigi, e non trovandosi poi citato più da alcuno, è probabile che la richiesta del Re di Francia avvenisse poco dopo il '70.

Avanti di esser Comico al Servizio del Duca di Modena (ma non sappiam quando), Riccoboni era a Napoli ; e ciò sappiam da una supplica del '74 al Duca, in cui egli espone : che certo Bartolomeo Pavia modenese, suo servo, partitosi con lui da Napoli, per recarsi a Modena al servizio di quell’Altezza Serenissima, a Gaeta se ne fuggì con danaro parte prestatogli, e parte affidatogli. E trovandosi ora detto servo a Modena, in casa del conte Sertorio, e potendolo pagare, Riccoboni supplica il Duca perchè vi si adoperi….

Il Riccoboni doventò il conduttore della Compagnia ducale, invece di Costantini, e il luglio del '77 Alfonso d’Este ne sollecitava il passaporto per tale ufficio.

{p. 347}Lo vediamo il '79, Pantalone a Londra, non sappiam se solo o con la Compagnia, ma certo al servizio sempre di Don Alfonso,… come ci fa sapere la moglie Anastasia (probabilmente non comica), la quale, lontana dal marito, senza mezzi di sussistenza, e più con cinque creature da allevare, si raccomanda alla solita pietà e munificenza del Duca…. Delle cinque creature non abbiam notizia che di due : Luigi, Lelio, del quale s’ avrà da discorrer lungamente, e Bartolomeo, soldato di fortezza di Modena, che il giugno dell’ '83, provocato da altro soldato di fortezza, figlio di Carlo Curti della guardia del Duca, e seco lui costretto a battersi con la spada, lo distese morto, passandogli il fianco.

Fra i documenti che concernon la Compagnia del Duca, ov'era Pantalone, ve n’ha uno del 1681, che comprende la nota della paga per ognun de'comici in sessanta ducatoni d’argento, e queste parole aggiunte : l’anno 1682 gli donò Sua Altezza vinti doble per ciascheduno Comico, et erano in dodici sì che l’ordine fu di doble 240 in tutto, e poi l’ Altezza Sua si disfece della Compagnia. E ancora più sotto : in quest’anno a dì 20 gennaio si attaccò di notte il fuoco al Teatro Valentino ; e in poche ore restò affatto incenerito. Si proseguirono però le Comedie nella Sala detta della Biada, ove d’ordine di Sua Altezza si fecero la scena, e qualche palchi per modo di provisione.

Fra le carte di Don Alfonso furon rinvenute parecchie cambiali di comici fra cui di Riccoboni, in data del 28 aprile 1677, che riferisco testualmente :

Ricevo Io Antonio Rico Bon per puro imprestido dal E.sa Sig.r don Alfonzo deste dopie di italia dieci per restutirle a piacimento di Sua Sele.za a chi comandera e presentera la presente riceuta.

Io Antonio Rico Bon mi confermo uero e legitimo
Debitore et obliga ogni mio Avere.

Altro documento ci fa sapere che S. A. diede la sussistenza in ragione di due doppie al mese per ciascheduno dei comici dal 1° maggio 1686. L'agosto del 1687 Riccoboni lasciava ricevuta al tesoriere Zerbini del prestito di dieci doppie, ossia lire 330, obbligandosi di rilasciarle a due al mese.

{p. 348}Al nome di Torri Antonia, è l’elenco della Compagnia pel 1688. Pel carnovale di quell’anno furon distribuite con ordine del 7 marzo '89 doble centocinquanta d’Italia, ai dodici comici, fra'quali il Riccoboni, ritenendo doble venticinque prestate il maggio.

Il 9 d’agosto dell’ '89 gli furon rimborsate lire 83, spese nel trasporto della condotta per barca dal Finale a Modena.

Il '95 egli si rivolge al Marchese Pio perchè voglia confermargli e continuargli « la gloria già goduta da lui con tanta venerazione, ordinando che gli sia rinnovato il Passaporto, e repplicata la segnalata dichiarazione d’attuale servitore etc. » Con altra supplica dello stesso anno implora un sussidio, che gli è accordato.

A questo punto cessano le notizie di Antonio Riccoboni.

Riccoboni Luigi. Figlio del precedente, nato a Modena verso il 1675, esordì quale Innamorato nella Compagnia della Diana, moglie di Giovanni Battista Costantini, al servizio di quel Duca, diretta sotto il nome di Federico, che mutò poi in quello di Lelio, sembrato alla direttrice più teatrale ; e diede subito prova di gran valore. Traggo dall’Archivio di Modena la lettera seguente ricca d’interesse per gli scrupoli religiosi da cui fu preso, poco più che ventenne :

Ser.ma Altezza,

Luigi Riccoboni seruo, e sudito hum.mo del A. V. humilmente li narra, come ha esercitato l’arte comica per il spatio d’anni quatro, e ciò ha fatto per esser figlio d’Antonio che ha seruito tant’anni la Ser.ma Casa per Pantalone nel qual tempo ha conosciuto apertamente, et indubitatamente esser impossibile, esercitandola, il poter saluar l’anima sua, e sù questa certezza l’anno scorso haueua determinato di lasciar tal arte, e ritirarsi in un Monastero, e che sij il uero col Padre Guardiano de Zocolanti di Cento trattaua tal interesse ; ma perchè quelli che esercitano tal arte sono senz'anima, e pieni d’iniquità fecero che fu chiamato a recitare dal Ser.mo di Mantova, dal quale non si pote diffendere con tutto li rapresentasse l’impegno che haueua con tal Padre, le lettere che fra essi correuano, e l’ inclinatione e genio che haueua di farsi Religioso ; si conuenne adunque continuare il recitare con mille inquietezze d’animo, pretendendo li Compagni farli sposare l’Argentina Comica, del che se ne diffese. Finito l’anno prima che fosse impiegato notifico al Sig.re Co. Cesare Rangoni protettore de Comici del A. V. S. che non l’impiegasse, che non uoleua più far tal arte, ma guadagnarsi il pane in gratia di Dio, e più {p. 349}honoratemente, e perchè hora li peruiene al orechio che Leandro primo Moroso l’habbi destinato per suo secondo, e che ui sij l’assenso del sud.º Sig.re Conte, contro sua uolonta, ricorre al Innata bontà del A. V. S. a gratiarlo che non sij sforzato a far arte di tanto suo pregiuditio, e non dubita d’ ottener ciò, sapendo quanto l’A. Sua sia Christiana, che non permetterà che offenda dio esercitandola, e non scorra pericolo di sposare la gia nominata Argentina che pure è in detta Compagnia, certo alhora di non lasciar mai più tal mestiere, e piombare al Inferno. Che della gratia, etc.

Di fuori : A S. A. Ser.ma — Per Luigi Riccoboni (1696).

Ma la difesa pare non fosse che del momento, però ch'egli sposò difatti l’Argentina, Gabriella Gardelini (V.), sorellastra di Francesco Materazzi, il dottore della Compagnia (V.), che gli morì giovanissima, e da cui non ebbe figliuoli.

Rimasto vedovo, passò a seconde nozze con Elena Virginia Balletti (V.), famosissima attrice, e più nota col nome di Flaminia ; e li vediamo con la lor Compagnia al Vecchio Teatro Comunale di Modena in Via Emilia il dicembre del 1709, il carnovale del 1710, l’aprile del 1712. Alessandro Gandini (op. cit.) riferisce il seguente racconto tratto dalle memorie manoscritte del Ronchi :

Si dice che il Riccoboni, sulle scene il Lelio, fu fatto arrestare per istanza a S. A. S. di alcuni Cavalieri, i quali nella sera delli 11 gennajo del 1710 avendo recitato, e sperando di avere la Corte, questa invece andò al Teatro ove recitava il Lelio. Questi si permise alla fine della sua produzione di ringraziare i Serenissimi dicendo che le grazie delle LL. Altezze erano stimatissime, e massime più quando erano conferite con preferenza, alludendo alla venuta delle Serenissime piuttosto da lui che dai Cavalieri, i quali adontati, ottennero che il Marchese Lodovico Rangoni lo consigliasse a costituirsi in prigione, al che aderendo il Lelio, venne nella sera stessa per mezzo delle Serenissime fatto porre in libertà all’ora della recita.

E questo mi par provi in quale stima fosse tenuto da S. A. il Riccoboni, che aveva già cominciato a far tanto parlar di sè pe' suoi tentativi di Riforma del Teatro Italiano, sostituendo alla Comedia dell’ arte, buone opere scritte, tolte dall’ antico repertorio, quali Sofonisba del Trissino, Semiramide di Muzio {p. 350}Manfredi, Edipo di Sofocle, Torrismondo del Tasso, e altre, e altre, che troppo sarebbe voler qui enumerare, le quali allestì al pubblico con molto decoro, e recitò con molto valore. — A proposito della recitazione tragica, è opportuno riferire quel che dice Pier Jacopo Martello nel volume I delle sue opere (Bologna, Lelio dalla Volpe, MDCCXXXV) :

..… ti vo'dar gusto con sentenziare, che l’ Italiano va a piacere con più ragione degli altri, se più commozione dagli Franzesi, e più gravità dagli Spagnuoli prenderà in prestito nelle Scene. Di questo mescolamento mi dà grande speranza Luigi Riccobuoni detto Lelio Comico, che con la sua brava Flaminia si è dato non solo ad ingentilire il costume pur troppo villano de' vostri Istrioni, col rendere l’ antico decoro alla comica professione, ma recitando insieme co'suoi compagni regolate e sode tragedie, le rappresenta con vivacità, e con fermezza conveniente ai soggetti, che tratta, dimodochè potete voi dargli il giusto titolo di vero Riformatore de' recitamenti Italiani.

Ma la vittoria del Riccoboni non poteva dirsi compiuta, ove fosse mancato il successo a Venezia, la Capitale d’ Italia pel teatro di prosa. E pur troppo vi mancò : la commedia improvvisa coi suoi arlecchini, co' suoi brighella, co'suoi pantaloni, imperava sovrana, e Riccoboni, che {p. 351}non aveva avuto dalla natura il genio di opporre a quella una produzione nuova, destinata a migliorare gradatamente il corrotto gusto del pubblico, dovette soccombere. Scoraggiato, avvilito, deliberò di accettar l’invito che gli venne di Francia di formare una Compagnia italiana per Parigi, al servizio del Duca d’Orléans, il Reggente, sperando di realizzare colà il sogno che aveva tentato invano di realizzare in patria. Ma, ahimè ! Avevano i letterati un bel chiamarlo riformatore ! Neanche Parigi volle sapere delle commedie di buon gusto ; e prima ancora di aprire il teatro, egli dovette obbedire, e cedere alle voglie del pubblico, che non si aspettava dagl’ italiani se non uno sregolato riso.

Essendo l’Hôtel de Bourgogne in riparazione, la compagnia recitò al Palais Royal, alternativamente con l’opera, cominciando la sera del 18 maggio, nel nome di Dio, della Vergine Maria, di San Francesco di Paola e delle Anime del Purgatorio, con La Felice Sorpresa, che ebbe un grande successo davanti a un pubblico affollatissimo : l’introito, e i posti costavano un terzo meno che un secolo più tardi, fu di lire 4068.

Il 20, fu pubblicato un ordine del Re, col quale la Compagnia Italiana era ufficialmente stabilita ; e lo stesso giorno si recitò la commedia a soggetto Arlecchino buffone di Corte, che destò vero fanatismo, a segno che le Dame si credettero in dovere di studiar l’italiano ; coloro che l’insegnavano, diventaron di moda, ed era di somma eleganza averne la sera uno in palco, il quale spiegasse il lavoro.

Or ecco l’elenco della Compagnia :

UOMINI

Pietro Alborghetti di Venezia     Pantalone

Francesco Materassi di Milano     Dottore

Luigi Riccoboni detto Lelio di Modena    Amoroso

Giuseppe Baletti detto Mario di Monaco    Amoroso

Jacomo Rauzini di Napoli     Scaramuccia

Giovanni Bissoni di Bologna     Scapino (1° Zanni)

Tomaso Antonio Visentini di Venezia     Arlecchino (2° Zanni)

Fabio Sticotti     Cantante e Generico

{p. 352}DONNE

Elena Baletti detta Flaminia di Ferrara    Amorosa

Zanetta Rosa Benozzi detta Silvia di Tolosa     Amorosa

Margherita Rusca detta Violetta di Venezia     Servetta

Orsola Astori di Venezia     Cantatrice o Chanteuse

Fu lor concesso il titolo di Comici di S. A. R. il Signor Duca d’Orléans, Reggente ; e sappiamo che Riccoboni, prima di partir dall’Italia e di stringere il patto, aveva indirizzato al Duca di Parma il seguente memoriale :

1° La Compagnia tutta supplica umilmente Vostra Altezza Serenissima di farle accordar la grazia di cui godettero i suoi predecessori, che niuna Compagnia italiana sia ricevuta a Parigi sotto alcun pretesto, quand’ anche tutti i Comici parlassero francese ; e sia generalmente vietato a qualsiasi altro di servirsi de' costumi delle Maschere del Teatro Italiano, quali dell’Arlecchino, dello Scaramuccia, del Pantalone, del Dottore e dello Scapino ; et anche del Pierrot, che, se ben francese, è nato dal teatro italiano.

2° I Comici, augurandosi di servir Sua Maestà in pace e con buona fama, dimandano che in nessun tempo sien ricevuti nella Compagnia della famiglia dei Costantini, per la quale, tutti sanno che i Comici italiani lor predecessori, vennero in disgrazia della Corte.

3° Essi domandano umilmente sien lor concesse le danze e la musica negl’intermezzi, come furon concesse a' predecessori.

4° Se alcuno de'Comici avesse la sciagura di non incontrare il favor della Corte e della Città, sia data alla Compagnia facoltà di rimandarlo con un regalo, e di farne venire altro al suo posto.

5° I Comici supplicano Sua Altezza Serenissima di far vive istanze alla Corte, perchè sia loro concesso, come in Italia, il libero uso dei Santi Sacramenti ; molto più che essi non reciteranno mai nulla di scandaloso, e Riccoboni s’ impegna sottopor gli scenarj delle comedie all’ esame del Ministero, e anche di un Ecclesiastico, per la loro approvazione.

Il Principe Antonio di Parma inviò al Duca Reggente il Regolamento della Compagnia già approvato, senza che nè in esso, nè in quello del Duca d’Orléans fosse più fatta menzione della Compagnia Costantini, alla quale il Riccoboni, essendo la sua scrittura una semplice aggiunta a quella della moglie, aveva accennato : e forse la ragione di quell’accenno, sta in ciò, che trovandosi il Costantini a Parigi, ove s’era fatto impresario nel 1712 di spettacoli alle fiere di San Germano e di San Lorenzo, il Riccoboni ne temeva l’ingerenza nella nuova compagnia. Ingerenza, che con sollecitazioni e raccomandazioni non mancò, poichè gli fu affidato un ufficio {p. 353}amministrativo ; ma, fortunatamente egli lo disimpegnò sì male, che poco tempo dopo fu congedato.

I Comici tutti, senza distinzione, compreso Riccoboni, ebber nell’azienda parti uguali. La cassa fu tenuta dal Bissoni (V.) ; e preposti alle spese furono Alborghetti (V.), e Materazzi. Ognuno doveva pensare al proprio vestiario, eccettuato Fabio Sticotti, marito di Orsola Astori, la cantatrice, al quale eran forniti gli abiti dalla Compagnia, e da essa poi conservati insieme agli altri che le appartenevano, come di comparse, ecc.

Luigi Riccoboni fu naturalizzato francese con lettera del giugno 1723, insieme alla moglie, e al figliuolo Antonio Francesco Valentino ; il 5 aprile '27 ottenne il permesso per due mesi di recarsi a recitare in Inghilterra, e il 25 aprile '29 l’autorizzazione di ritirarsi dalle scene insieme alla moglie e al figlio con l’annua pensione di lire 1000 per sè e per la moglie. Tal fatto fu annunziato nel Mercurio di Francia del maggio seguente, con molte parole di lode.

Stette il Riccoboni con la famiglia due anni a Parma ; poscia, il novembre del '31, fe'ritorno a Parigi, dove, fuor della scena, morì a settantotto anni il 6 dicembre del '53, e fu sepolto l’indomani al San Salvatore. L' atto di morte lo dice Antico Ufficiale del Re.

Pare che a Modena si fosse sparsa, molti anni prima, la notizia della sua morte, poichè abbiamo un brano di lettera del 1° gennaio 1735 in quell’Archivio di Stato, così concepito : « Il povero Riccoboni, che avevamo mandato all’altro mondo, vive sempre, e sempre bravo modenese. »

Molte sono le opere di teatro ch'egli scrisse, ma tutte ohimè giacenti nell’ oblìo. Vivono invece quelle sul teatro, consultate da chiunque si dia a tal genere di studj, e specialmente La storia del Teatro italiano, opera più che altro di polemica, per quella benedetta quistione della derivazione della commedia dell’arte dall’antica Atellana, e dello Zanni arlecchino dall’antico Sannio, che aveva sotto certo rispetto le stesse {p. 354}caratteristiche del costume : quistione non ben risolta tuttavia. Tale opera comprende anche un catalogo di tragedie e commedie pubblicate per le stampe dal 1500 al 1600 ; e per comporla egli dovè far capo sempre al famoso raccoglitore e amico dei comici Gueullette, come si rileva dalle sue lettere, nelle quali ora domanda, per dar l’ultima mano al suo lavoro, Le livre sans nom, ora l’Arliquiniana, ora la Bibliothèque des théatres. Uomo di gran cuore, benchè d’umore atrabiliare, si raccomandava a Gueullette in una lettera del settembre 1739 (lunedì), perchè andasse con lui ad assistere il povero Thomassin, Visentini, morente ; e soprattutto per indurlo, prima della morte, a pensare alla sua famiglia. Ma ecco, senz'altro, l’ elenco de'suoi scritti per ordine cronologico di pubblicazione :

Dell’Arte Rappresentativa. Cap.li sei (3ª rima). Londra, M DCCXXVIII. Histoire du Théatre Italien, etc. etc. A Paris, Chez André Cailleau,…

M DCCXXXI. Due grossi volumi in-8°, adorni di 18 illustrazioni in rame di maschere incise da Joulain.

Nuovo Teatro Italiano, che contiene le commedie stampate e recitate dal signorLuigi Riccoboni detto Lelio. In Parigi, appresso Briasson, M DCCXXXIII. Tre volumi in-12°, con testo francese a fronte.

Observations sur la comédie, et sur le génie de Molière. Paris, Pissot, M DCCXXXVI. Un volume in-12°.

Réflexions historiques et critiques sur les différents Théatres de l’Europe, avec les pensées sur la Déclamation. A Paris, Jacques Guerin, M DCC XXXVIII. Un grosso volume in-8°.

De la Réformation du Théatre. Paris, Debure Pere, M DCC LXVII. Un volume in-12°.

Una curiosa lettera a Pier Iacopo Martello, da Verona 6 settembre 1714 (Lettere inedite d’illustri italiani. Milano, Classici, M DCCCXXX), in cui dà ragguaglio della Fulvia, pastorale dell’abate Giovanni Bravi, della quale tutti i letterati dicevan mirabilia, giudicandola superiore all’Aminta nello stile, al Pastor Fido nello spirito, e impeditane la stampa dai Revisori « per certi baci ed amplessi forse un po' troppo teneri. »

Fra le tante curiosità bibliografiche del teatro italiano, è da notare un rarissimo libretto di M. Musard (Parigi, 1810), in cui sono aggiunti alle Parades des Boulevarts, alcuni Lazzis {p. 355}d’Arlequin, contés jadis À Lélio par le célèbre Carlin sur le théatre de la Comédie italienne (Coll. Rasi).

Riccoboni Francesco. Figlio del precedente, nacque a Mantova il 1707 e andò coi parenti a Parigi il 1716. Esordì alla Comedia italiana il 10 gennajo '26 con la parte di amoroso in La Surprise de l’Amour, commedia di Marivaux, presentato al pubblico dal padre Lelio con un fervorino, che ispirò a un anonimo i seguenti versi :

Pour ton fils, Lelio, ne sois pas alarmé,
Il n’a pas besoin d’indulgence ;
D'un heureux coup d’essai le parterre charmé
N'a pu lui refuser toute sa bienveillance.
Pour ses succès futurs cesse donc de trembler,
Que nulle crainte ne t’agite,
Si ce n’est d’avoir dans la suite
Un généreux rival qui pourra t’égaler.

Uscì Francesco dalla Comedia italiana il 25 aprile '29 coi genitori, per rientrarvi nel '31 con tre quarti di parte ; e si presentò sotto le spoglie di Valerio negli Amants réunis, commedia di tre atti in prosa di Beauchamps. Ne uscì di nuovo il '36, e recitò un anno in provincia, dopo il quale riapparve alla Comedia italiana il 21 marzo '37 in una parodia di Alzira, intitolata Les Sauvages, di Giovan Antonio Romagnesi.

Il 14 dicembre del '49 domandò e ottenne il riposo ; ma eccolo di nuovo alla Comedia italiana il 21 aprile '59 con 500 lire mensili di stipendio. Aveva sposato il 7 luglio 1734 Marie Jeanne de Heurles de Laborras de Mèzières, nata a Parigi il 1713, entrata alla Comedia italiana il 23 agosto '34 col ruolo di amorosa, che mutò per insufficienza con quello di madre, e assai nota per una quantità di romanzi, che furono in voga al suo tempo. Lasciò il teatro nel '60, e morì a Parigi il 7 dicembre '92.

Francesco Riccoboni, che il Grimm assicura essere stato attore freddo e pretenzioso, compose un trattato : L'Art du théatre (Paris, MDCCL), pubblicato poi in italiano a Venezia {p. 356}da Bartolommeo Occhi nel MDCCLXII, e molte commedie sia da solo, sia in collaborazione con Dominique e Romagnesi. Fra le prime il Des Boulmiers cita Les Caquets ; ma si sa dallo stesso autore che i primi due atti sono opera di sua moglie. Ciò suggerì a Geoffroy (Appendice del 12 vendemmiale anno 11) queste parole :

L'auteur, en mari galant, mit sur le comte de sa femme les deux premiers actes des Caquets, lorsqu’il les fit imprimer ; ce n’était pas un médiocre cadeau, qu’il lui faisait, car le premier acte est le meilleur. Il est possible qu’il y ait plus de justice que de galanterie dans le procédé du mari, car Madame Riccoboni a fait des romans qui valent mieux que la comédie des Caquets.

Una delle opere da citarsi del Riccoboni è la parodia della Semiramide di Voltaire, della quale Crebillon diede un giudizio assai favorevole, sebbene il Collé, accanito contro gli italiani, lo ritenesse sospetto di parzialità.

A proposito della loro recitazione nel maggio 1765, lo stesso Collé (Journal historique), dice :

Gl’ introiti degl’ italiani diminuiscono a vista d’occhio. Io desidero cordialmente che questo teatro di cattivo gusto, e che non serve se non a corrompere il buono ed il vero, finisca una buona volta, e sien rinviati tutti codesti istrioni in Italia. Il teatro francese ci guadagnerebbe qualche lavoro di Marivaux, ben recitato dai nostri artisti, e massacrato oggi da codesti buffoni d’ italiani.

La freddezza del nostro artista accennata dal Grimm, pare non fosse che su la scena ; poichè il Campardon riferisce una querela di Giacomo Lavaux, macchinista della Comedia italiana, per esser stato insultato e aver ricevuto da lui un calcio nel ventre e uno schiaffo.

Francesco Antonio Valentino Riccoboni, noto in teatro col nome di Lelio figlio, morì a Parigi il 14 maggio 1772, e fu sepolto due giorni dopo nella chiesa di San Lorenzo.

Rigetto Gian Paolo. Nel movimento della popolazione mantovana per gli anni 1590-1591, riferito dal Bertolotti (op. cit.), trovo : al 10 dicembre '90 Gio. Paullo Rigetti, bolognese, che abitò con la Camia, la de Massi, l’Anelli da Domenico Torni ; {p. 357}e al 5 maggio '91 Gio. Paolo de Rigetti, del Friuli, con un ragazzo, che si fermò due giorni soltanto, e alloggiò all’Albergo della Fortuna.

Righetti Francesco. (Detto, in arte, Righettone, per la forte e alta persona, e per distinguerlo da Domenico), nacque il 1770 a Milano, di civile famiglia, e fu sotto il Governo napoleonico Sotto-Prefetto. Perduto l’impiego, tornò all’amor della scena, in cui aveva fatto da giovine buone prove coi filodrammatici, e si scritturò con Rossi, colla Goldoni, colla quale lo vediamo il 14 giugno 1815 rappresentar la parte di Sole nella Caduta di Fetonte dell’Avelloni, poi con Dorati, prima padre nobile, poi caratterista, nel qual ruolo entrò il '22 nella Compagnia Reale Sarda, e vi fu acclamatissimo, fino al '28, anno della sua morte. Recitò per l’ultima volta nell’Odio ereditario del Cosenza, e lasciò nella Compagnia un grande vuoto che non potè essere {p. 358}colmato se non l’anno dopo da Luigi Vestri, il quale, vedi bizzarria del caso, recitò per l’ultima volta in quel medesimo dramma tredici anni più tardi.

Fu autore di un Teatro italiano, edito a Torino da Alliana e Paravia, in tre volumi, il primo dei quali comprende la Storia del Teatro italiano di Luigi Riccoboni, tradotta e ridotta, preceduta da alcuni cenni biografici di lui, il secondo lo Stato attuale del Teatro italiano, in cui sono notizie preziosissime di attori e attrici del suo tempo, e il terzo uno Studio sull’ arte della Declamazione teatrale.

Nella Compagnia Reale Sarda, almeno per l’anno 1825-26, aveva lo stipendio annuo di lire 6000 con tre serate a mezzo, secondo l’uso comico. Di lui la Gazzetta di Genova del 18 settembre 1822, dell’anno, cioè, in cui egli entrò a far parte della Compagnia, scriveva : « Il signor Righetti, nemico dei lazzi volgari, conosce la difficile arte di saper cogliere dagli spettatori sensati il desiderato sorriso di compiacenza. »

Righetti Domenico. Nato di famiglia patrizia in Verona il 1786, fu educato a Venezia nel Collegio dei Nobili. Appassionatissimo pel teatro, entrò nella Compagnia Fabbrichesi, passando poi in quella di Paolo Blanes e dei Fiorentini di Napoli, ove condusse in moglie Vincenza Pinotti, figliuola di Francesco, vezzosissima giovinetta, ed artista valente, che sostenne con molto plauso le parti di prima attrice giovine e prima attrice, in Compagnia Reale Sarda sotto la Bazzi. Il Righetti, entrato il 1821 con la moglie in detta Compagnia, al momento della sua formazione, vi sostenne ammiratissimo le parti di primo attore, a vicenda con Luigi Romagnoli.

Passò poi a quelle di padre nobile, a vicenda col Boccomini, per diventare dal '43 al '49, anno della sua morte, amministratore e direttore della Compagnia, nel qual ufficio fu poi sostituito dal figlio avvocato Francesco.

Aveva con la moglie Vincenza, il '25-' 26, lire annue 7500, e una serata a mezzo.

{p. 359}Fu traduttore e riduttore di molte commedie, e autore di un Carlo Goldoni a Parigi e di un Matrimonio di Goldoni, che ebber liete accoglienze.

A lui dedicò il Bazzi i suoi Primi rudimenti dell’arte drammatica.

Rinaldi Pietro. Di nobile famiglia veronese, dovette per dissesti finanziari darsi all’arte comica, esordendo nella Compagnia della Battaglia, e passando poi in quelle di Giuseppe Lapy, e di Luigi Perelli, nella quale ultima era al tempo di Fr. Bartoli (1782), Innamorato ammiratissimo. Fu anche scrittore di versi, e lo stesso Bartoli riferisce un prologo, nè dei migliori, nè dei peggiori, ch'egli dettò per Luigia Lapy, quando assunse in Cremona il ruolo di prima donna, e ch'ella recitò, applauditissima, spettatrice Maddalena Battaglia, alla quale eran rivolte assai parole di lode, e la quale terminava allora di recitare su le medesime scene.

Ringhieri Francesco. Ottimo artista, per le parti di tiranno in tragedia, nato verso il 1790 a Verona, figurò negli elenchi delle migliori compagnie sino al 1840.

Riolo Stefano, palermitano, figlio di Vincenzo, pittore di bella fama, nacque il 4 ottobre del 1811. Trascinato all’arte da una forza invincibile, fu affidato agl’insegnamenti di Angelo Canova, artista di alta riputazione, e con lui stette parecchi anni. Passò poi nella Compagnia Tessari ai Fiorentini di Napoli qual primo amoroso, e vi esordì applauditissimo la quaresima del 1836 col Polinice nell’Eteocle e Polinice di Alfieri. Fu il '38 nella Compagnia Goldoni diretta da F. A. Bon, poi primo amoroso e primo attore tragico nella nuova Compagnia Alfieri, a fianco di Maddalena Pelzet. Lo vediamo il '43 con Carolina Internari, e dopo con Luigi Taddei, per darsi finalmente al capocomicato con la moglie Adelaide, figlia dell’attore e scrittore Luigi Forti, che aveva già levato bel grido di sè come prima donna. Ma toltosi {p. 360}dalle principali compagnie, la sua rinomanza si arrestò come d’un tratto, ed egli dovette contentarsi di percorrere con compagnie modeste, per quanto decorose, i teatri di minor conto. Lo vediamo il settembre del '46, momenti di fanatismo pel nuovo Pontefice Pio IX, a Tolentino ; e il cronista ci dice che ogni sera si facevan dimostrazioni di giubilo, si sventolavano dai palchi banderuole, s’intrecciavano pezzuole bianche-gialle tra palco e palco, intanto che uno scelto coro di cantori venuto per le musiche sacre intuonava l’inno a Pio IX di Rossini. Stefano Riolo morì il 13 ottobre dell’87. Ebbe una figliuola, Teresina, da lui iniziata all’arte, che fu al suo fianco applaudita prima attrice, e si va oggi esercitando, direttrice di filodrammatici a Milano.

Ristori Tommaso. Attore pregiato nelle parti di Coviello, e più pregiato Impresario del Principe elettorale di Sassonia Giovanni Giorgio III, ch'egli aveva accompagnato nel suo viaggio in Olanda, nacque il 1600. Federigo Augusto, l’amante {p. 361}dell’arte, che dopo la riconquista della Polonia aveva condotto a fine il disegno di una Corte splendida a Varsavia con opera e commedia italiana, volle anche a Dresda procurare un tal godimento ; e il 2 settembre del 1714 furono anticipati 4000 fiorini imperiali al Ristori, comico di S. M. il Re di Polonia, allora a Venezia, pel viaggio in Sassonia passando per Vienna e Praga, della Compagnia di cui faceva parte sua moglie Caterina, di cinquantotto anni, sua figlia Maria di diciotto, e suo figlio Giovanni che tanta importanza s’acquistò più tardi all’Opera di Dresda, ove morì del 1753, di ventidue.

Tommaso Ristori aveva — dice il suo passaporto d’allora, tuttavia esistente — i capelli castano-chiari, e vestiva un abito conveniente rosso, orlato d’oro. Tornò il '17 in Italia per iscritturar nuovi attori da sostituire agl’insufficienti, e sotto la direzione del figlio Giovanni furon rappresentati Intermezzi e Pastorali : e sebbene il Re Augusto prediligesse la Compagnia francese, ch'egli manteneva alla Corte insieme alla italiana, questa non ebbe mai a patirne ; e Tommaso Ristori, specialmente, s’ebbe per grazia del Re con decreto del 20 marzo 1717, un regalo di 269 scudi, come « chef de la Troupe italienne, tant pour faux frais dans son voyage, que pour autres pertes et dépenses extraordinaires. » Licenziata la compagnia del 1732, anche il vecchio Ristori con la moglie se ne tornò in Italia, ove morì poco tempo dopo.

Ristori Giacomo. « Napolitano Capo Comico rinomatissimo, che condusse per molto tempo una Truppa di esperti Commedianti, recitando egli medesimo da Primo Innamorato. Fu uomo di somma riputazione in riguardo a'meriti suoi teatrali, per essere stato un modello del Comico eccellente. Si fece gran concetto nella Città di Napoli, e per il Regno. Lasciò di vivere intorno al 1730. » Così Fr. Bartoli.

Forse il precedente, di cui Bartoli ci diede il nome errato ? Dopo la prima gioventù potrebbe avere abbandonato le parti {p. 362}amorose per quelle di Capitan Coviello, che è appunto maschera napoletana.

Ristori-Canossa Teresa. Nata il 1777, e sposa a un Ristori comico, legato forse in parentela col precedente, fu artista drammatica di grande valore per le parti di prima donna così nella tragedia, come nel dramma e nella commedia, e il piccolo Giornale de' teatri (Venezia, 1820) ha per lei parole di moltissima lode.

Pare non fosse di riserbatezze spartane, chè il primogenito Antonio si volle figlio di un Console spagnuolo, e Luigia, moglie di Bellotti prima (V.), poi di F. A. Bon, di un banchiere per nome Sacerdote : un epigramma del tempo e di un compagno d’arte (Miscellanea poetica di Luigi Forti, artista drammatico [Manoscritto della Raccolta Rasi]) accenna con poco rispetto alla prodigalità di lei. Sposò in seconde nozze certo Bonagamba, e abbandonate le scene si ritirò a Venezia in casa della vedova Tommasini, sorella del genero Bon, abitante in S. Bortolamio, e quivi morì quasi improvvisamente per bronco-emorragia nel 1842.

Ebbe una terza figliuola, Amalia, maritata all’artista Zerri (V.).

Ristori Antonio. Figlio della precedente, nacque a Capo d’Istria il 1796, e crebbe con un suo padrino a Fiume, ove stette alcun tempo, impiegato nella di lui casa commerciale. Si diede poi all’arte del comico in cui riuscì mediocremente ; sposò Maddalena, figlia di Ricci-Pomatelli, capitano sotto Napoleone I, nata a Ferrara del 1795, e morta del 1874 a Firenze ; e fu con lei in molte compagnie di secondo e di terz'ordine. Salita in rinomanza la figlia Adelaide, la seguirono nella Compagnia Reale Sarda, e in altre di poi.

Morto il Ristori a Firenze il 3 settembre 1861, fu tumulato nel Cimitero del Monte alle Croci, ove la figliuola desolata fe' erigere, alla morte della madre, una cappella, co' {p. 363}medaglioni degli estinti, opera dello scultore Cambi, e con le seguenti epigrafi :


AD ANTONIO RISTORI nato il 5 marzo del 1796 | mancato ai vivi il 3 settembre del 1861 || o mio dilettissimo padre | a te che mi fosti esempio | delle più belle virtù | che per generosità di cuore | e spirito di santa carità verso i miseri | fosti sempre benedetto dalla sventura | che fra gli stenti al lavoro | consacrasti tutta la tua vita | la tua figlia adelaide | che amavi tanto e che sì presto ti ha perduto | questo monumento | debole segno d’incancellabile affetto | tuttora in pianto poneva. A MADDALENA RISTORI | modello delle madri | nata il 20 ottobre del 1795, mancata ai vivi il 26 maggio 1874 | i suoi desolatissimi figli | inalzavano questo monumento | tributo di lagrime e di dolore.

La sua primogenita Adelaide Ristori Del Grillo con disperato accento esclama :

Oh Madre mia tu sai

quanto in terra t’amai ;

Dal luogo ove tu sei

or tu vedi il mio duol, gli affanni miei ;

benedici i miei figli, il mio consorte

nel cammin della vita ed anche in morte ;

io con lagrime e fior vuo' darti addio

fino a quel di che ti rivegga in Dio.

Ristori Adelaide. Nata dai precedenti a Cividale del Friuli il 29 gennajo del 1822 quand’erano in Compagnia Cavicchi, fu per universale consentimento la più grande artista del suo tempo. Ancor bambina s’era già fatta un nome, recitando, {p. 364}protagonista, in farse o in commediole, e riuscendo di non poco utile al capocomico.

Ora ecco l’elenco della Compagnia di Luigi Rosa e Pasquale Tranquilli, che agiva assieme a un corpo di ballo, per la stagione di carnovale dell’anno 1832 al R. Teatro Pantera di Lucca :

DONNE


Fabbretti Carolina (V.), prima attrice

Gullotti Gaetana, madre e caratteristica

Beseghi Antonia (V.), servetta

Ristori Maddalena, altra madre e seconda donna

Rosa Rachele

Pellegrini Assunta

Paladini Giuditta

RISTORI ADELAIDE

generiche

Rosa Virginia

Ristori Carolina

parti ingenue

UOMINI


Tranquilli Pasquale, primo attore

Rosa Luigi, padre e tiranno

Massini Antonio, caratterista

Bosello Giovanni, primo amoroso

Bertucci Vincenzo, secondo amoroso

Fabbretti Fortunato, secondo caratterista

Ristori Antonio

Guarni Giovanni

Mariotti Giuseppe

Pescatori Nicola

MENEGHINO

ARLECCHINO

Bosello Giacomo, pittore

Mechetti Domenico, macchinista

generici

La prima rappresentazione, da darsi il lunedì 26 dicembre 1831, fu annunziata così :

Non v'ha dubbio che il Drammatico trattenimento sia divenuto ai nostri giorni la scuola del costume, e lo specchio delle umane passioni.

Tale verità fu conosciuta, ed apprezzata mai sempre dai popoli più illuminati. Questa saggia e colta popolazione lucchese tanto conoscitrice dei vantaggi che dalle sceniche Produzioni ne derivano, quanto magnanima per incoraggiare nei loro tentativi gli attori che si accingono ad eseguirle, anima l’umile Compagnia, condotta e diretta da Luigi Rosa e Pasquale Tranquilli, ad intraprendere un corso ben regolato di Recite nel corrente Carnevale. I più scelti autori, la novità, il genere, la debita decenza, l’analogia delle decorazioni agli spettacoli daranno prova del rispetto che tutta la Compagnia nutre e professa a questo colto Pubblico, e si lusinga che gli intelligenti e benigni amatori della drammatica, una non dubbia prova accordare vorranno di loro bontà con dare contrassegni di aggradimento alle fatiche degli umili attori, non ad altro tutti aspirando che ad essere coperti col prezioso manto di un si valevole patrocinio.

{p. 365}Onde rendere vieppiù completo e dilettevole il serale trattenimento verranno esposti tre Balli : uno di mezzo Carattere, e due Buffi diretti, o composti dal signor Domenico Turchi ; il primo di questi è intitolato : Il Proscritto Scozzese, il secondo Il Feudatario ossia le reclute, l’altro da destinarsi.

Il repertorio, come tutti quelli a un dipresso delle altre compagnie, si componeva in gran parte di drammi lagrimosi, alternati con qualche tragedia di Alfieri e qualche commedia di Goldoni.

Allora alla piccola Ristori si affidavan più specialmente parti insignificanti di piccoli servi.

{p. 366}Il '34 fu scritturata con la famiglia dal Meneghino Moncalvo, il quale, dopo di averla per due anni esercitata in parti di bambina, credette, mercè la figura di lei slanciata, di affidarle quella di Francesca da Rimini, ch'ella recitò per la prima volta a Novara nel '36, con tale successo, che le furon poco dopo offerte scritture di prima donna assoluta. Ma per fortuna il padre, uomo di buon senso, la scritturò invece (1837-38) nella Real Compagnia Sarda, come amorosa ingenua, poi prima attrice giovine sotto Carlotta Marchionni, che le fu amica, madre, maestra amorosissima ; ai sacri precetti della quale, affermava ne'suoi ricordi con raro, e direi quasi unico esempio di gratitudine nell’arte nostra, di non essere mai, giovine e adulta, venuta meno.

Lasciate la Marchionni le scene nel 1840, la Ristori ne prese il posto, accanto ad Amalia Bettini, passando l’anno dopo con Romualdo Mascherpa, con cui stette fino al '45.

Frattanto il Righetti, direttore della Real Compagnia, facevale vive istanze perchè vi tornasse ; ma, prima per le condizioni da lei fatte della scrittura, poi per la speranza del suo matrimonio, non approdarono a buon fine. Ella fu dal '46 al '50 con Domeniconi e Coltellini, e dal '51 alla quaresima del '52, divenuta da un anno e dopo una serie di {p. 368}romantiche vicende la marchesa Capranica Del Grillo, fuor della scena.

In quel tempo l’attore e capocomico Pisenti fu messo in prigione per debiti ; e la Ristori, che fu sempre delle miserie de'compagni soccorritrice pietosa, architettò tre rappresentazioni straordinarie, che furono avvenimento di vera gloria, e la salvazione del povero carcerato. Allora il Righetti, che in lei sola omai vedeva l’àncora di salvezza della naufragante Compagnia Reale, tornò all’assalto ; ma ella da Castel Gandolfo rispondeva il 12 settembre del '47 :

La ringrazio delle di Lei esibizioni ; ma avendo preso marito da qualche tempo, ed essendo ciò a cognizione di tutti, doveva bene immaginarsi che se rimanevo ancora sulle scene, lo facevo in riguardo di non rovinare i miei Capo-Comici con un repentino allontanamento dal Teatro. Col termine del carnovale 50 in 51 termino il mio contratto e la carriera drammatica per cambiare di condizione. Eccole parlato francamente.

Non si perdette d’animo l’egregio direttore, e si alleò a riuscir nell’impresa Pasquale Tessero, cognato di lei. E veramente quella scena che aveva date tante e così grandi gioje all’artista, non poteva esser guardata da lungi senza rimpianto. La larghezza delle offerte aveva solleticato non poco l’amor proprio della Ristori, nella quale si risvegliò d’un tratto potentissimo l’antico amore dell’arte, che quello di sposa e di madre aveva per alcun po'assopito. Ma ad attuare il nuovo disegno s’interponeva un ostacolo non facilmente sormontabile : suo marito, da cui non si sarebbe mai separata, era sul punto di ottenere un appalto governativo, in società con amici, che gli assicurava un ottimo resultato : forse, dopo un triennio, l’utile di dieci mila scudi.

Ancora : le condizioni dell’arte in Italia non eran tali da remunerar la prima attrice di una compagnia sì lautamente, da colmar, sia pure in parte, il vuoto lasciato da quell’affare inconcluso. E d’altronde : la Ristori si era disfatta, coll’allontanarsi dal teatro, di ogni suo corredo…. Bisognava ricominciare, e su larghissima scala, rimanendo la Compagnia ferma a Torino per due stagioni almeno. Come fare ? Ci volevan per lo meno 30,000 {p. 369}franchi all’anno. E poi : Righetti dovrebbe obbligarsi a firmare un contratto annuo per una stagione a Roma, e per l’autunno nel primo anno '53. Di più : in caso di pericolo di vita di un dei suoceri, ella dovrebbe aver subito venti giorni di permesso, rimettendo, nell’anno, le recite ch'ella non avrebbe potuto fare. La morte del suo Giuliano dovrebbe riguardarsi come morte sua, e però il contratto sarebbe da quel punto sciolto. Il pagamento dell’onorario dovrebbe farsi in tanti napoleoni d’oro, valutati 20 franchi cadauno, ovunque, esclusa qualunque {p. 370}moneta o carta. E finalmente : Ella reciterebbe solo cinque volte alla settimana, in una sola produzione per sera in principio della serata con diritto di rifiutare quelle parti immorali sulle quali molte revisioni passano sopra, come Il Fallo, Dopo sedici anni, Dieci anni di vita di una donna, Stifelius, Clarissa Harlowe, ecc. : quelle parti insomma con le quali, per quanto sieno eseguite con dignità, è d’uopo sostenere una posizione imbarazzante verso il pubblico, e le quali il signor Righetti potrebbe far eseguire da chi meglio credesse. Rimarrebber pure escluse {p. 372}tutte quelle parti nelle quali fosse obbligata a vestirsi da uomo ; le beneficiate farebbe a sua scelta in principio, o fine delle Piazze, come credesse meglio pel suo interesse : dovrebbe conoscer l’elenco degli attori che componessero la Compagnia, prima di sottoscrivere il contratto ; e prima della riconferma, non dovrebber in esso farsi innovazioni, a sua insaputa. Il Direttore, qualunque fosse, non dovrebbe aver diritto d’imporle l’esecuzione della sua parte ; volendo ella eseguirla secondo gliela dettasse il suo modo di sentire. Ora : le pretese eran senza dubbio fortissime, specie a quel tempo ; ma la Ristori era la Ristori ; e Righetti, uomo equo e intelligente, lo capiva, e voleva conciliar quelle col bilancio non pingue della Compagnia. E cercandole con lusinghevoli parole la via del cuore, tentò diminuir di metà lo stipendio, e accordarle in quella vece un terzo degli utili. E la via del cuore la trovò infatti : chè il 28 del '52 la Ristori gli scriveva da Roma : « Nei nostri cuori fece gran senso la Sua lettera, ed in modo speciale nel mio, chè cresciuta, allevata, ed iniziata nell’arte da cotesta Regia Compagnia, me la figuravo un’istituzione imperibile, ed andrei superba di contribuire all’esistenza di questa, come una figlia riconoscente a quella della propria madre. » Ma l’onorario annuo portò, ultima concessione, a 20,000 franchi, che le furon dal Righetti accordati assieme a quanto d’altro chiedeva, in alcun punto solamente e lievemente modificato.

Ella aveva attinto da noi il culmine sommo della rinomanza. Gl’inni della stampa, e gli entusiasmi del pubblico non ebber {p. 373}confini. Fu allora che « come un baleno — è lei che lo dice — da un cantuccio della sua mente scaturì l’ardito progetto di andare in Francia. » Ma il Righetti, nella gran prudenza poco intraprendente, si oppose al proposito nuovo : troppi i rischi, possibile l’insuccesso artistico, possibilissimo il finanziario. Il ricordo della Compagnia che v'era andata il '30 con la Internari e il Taddei, non era tale da invogliare a ritentar la prova. Ma la Ristori tenne fronte gagliardamente, e vinse, {p. 374}con nuovi e più forti argomenti, primo dei quali la divisione con lui, nel caso di perdita, della sua parte di utili toccata in Italia.

E la risoluzione, infatti, fu presa irrevocabilmente, e la Ristori si diede attorno con tutti i mezzi che le offrivan la sua grandezza artistica e il suo nuovo stato per « rivendicare all’estero — com’ella dice — il nostro valore artistico, mostrando che anche in ciò la nostra non era terra dei morti. » {p. 375}L'11 gennajo '55 scriveva da Torino alla Principessa Hercolani a Bologna :

….. le ingenti spese, e le molte esigenze del popolo francese, rendono molto pericoloso quell’esperimento, sia dal lato interesse, che da quello di un favorevole successo.

A render tutto ciò meno difficile, mio marito pensa partire per Parigi il 20 0 25 corrente, e, corredato di lettere commendatizie, interessare l’alta società a frequentare le rappresentazioni italiane, e proteggere questo esperimento. Ella più che ogni altro può in ciò giovarci, e mandarci qualche lettera che presenti mio marito, per ora, e quindi ma alle distinte e ragguardevoli famiglie sue conoscenti, raccomandando onorare di loro appoggio quest’esperimento drammatico italiano, pel quale colà si porta mio marito (Giuliano dei Marchesi Capranica, Marchese Del Grillo)….

{p. 376}E il Marchese Giuliano, di fatti, si recò a Parigi prima della Compagnia ; e di là mandò al Righetti una nota dei personaggi, che avrebber preso il palco, primi dei quali l’Imperatore e l’Imperatrice, S. A. Girolamo, S. A. la Principessa Matilde, S. A. Murat, S. A. il Principe Carlo Bonaparte, S. A. il Duca di Brunswick, S. E. il Marchese di Villa Marina, S. E. Fould, Ministro di Stato, S. E. il Barone Hübner, Ambasciatore d’Austria, S. E. il Duca di Galliera, ecc., accompagnata da queste parole :

….. La stampa ha già cominciato a lavorare, e la cosa è sparsa per tutta Parigi. Per i 14,000 franchi contateci, come sono sicuro che l’esito sia di tutta soddisfazione per voi, per me e per gli artisti. Di questo sono moralmente convinto. Sui prezzi dei palchi si regolano quelli degli altri biglietti. Presto ci rivedremo. Abbiate fiducia in me : ricordatevi che, oltre al dividere con voi interessi e rischi, ho a cuore, più di qualunque altro, la riuscita buona della cosa per la mia Adelaide….

E la sera della prima rappresentazione, il 22 di maggio, venne, e il successo della Ristori fu ottimo, se non stupefacente. La stessa tragedia — Francesca da Rimini del Pellico — non offriva, tranne che nella scena del quarto atto, grandi risorse, e taluni tra i devoti della Rachel, negaron tra l’altro all’artista nostra « la forza, il vigore necessario a bene interpretare le passioni violenti più proprie del poema tragico. » Forza e vigore che anco i più restii trovaron a esuberanza in lei dopo la rappresentazione di Mirra di Vittorio Alfieri, che fu tutta un trionfo de'più solenni.

Ma la Ristori non era il solo ornamento della Compagnia. Altri artisti di valore, come Ernesto Rossi, Luigi Bellotti-Bon e Gaetano Gattinelli, avevan diritti da far valere. Si dovette recitare Il Burbero benefico di Carlo Goldoni, Niente di male di Augusto Bon, La Suonatrice d’ Arpa di David Chiossone. E le lodi non mancarono, non mancarono gli applausi ;… ma chi mancava era il pubblico. Come porre riparo alla disfatta ? Il 5 di giugno si replicò la Mirra ; e il pubblico, attratto dall’entusiasmo della stampa, vi accorse in gran folla, e il successo fu clamoroso. La tragedia si replicò fino all’andata in iscena {p. 377}di Maria Stuarda, e la buona riuscita dell’impresa fu artisticamente e finanziariamente assicurata : omai la Rachel fu soggiogata dalla grande arte della Ristori, fatta tutta di spontataneità, e quel battesimo della sua fama le aprì le vie di tutto il mondo.

{p. 378}Ecco, a titolo di curiosità, il borderò di una di quelle recite (13 agosto 1855) :

Recette brutte     8,339.50

Loyer et frais de soirée     800.00

Droits des hospices Sur la recette     560.05

Concession     46.55

Sapeurs     13.35

Supplément Passé minuit Gardes     19.50

Police     9.00

Affiches, et buletins extraordinaires     327.25

Droits d’auteurs     60.00

Ensemble à déduire     1,835.70

Reste net     6,503.80

À déduire, pour la Direction     3,251.90

Reste net, pour M.me Ristori     3,251.90

Visto e riconosciuto, etc. etc. Firmato, con data di Parigi 21 agosto 1855, Giuliano del Grillo.

Reynaud, il Colline della Bohème, scrive della Ristori nella nuova serie de'suoi Portraits contemporains (Paris, Amyot, 1864) :

Col successo di Parigi, ell’è giunta omai in prima linea, ha conquistato un posto, che non le sarà più tolto, e che niuna adesso può disputarle. Prima fra le regine, ha ricevuto dalla natura tutti i doni necessarj all’arte sua. Grande, nobile, di bellezza commovente e appassionata, con due occhi che parlano, un sorriso di perle, un gesto d’imperatrice, incede come potrebber Pallade o Giunone, e la sua voce è una musica piena di soavità, o di forza, secondo il sentimento che la domina. Mai attrice tragica fu più maravigliosamente dotata. Ella possiede tutte le corde, il furore, la rabbia, l’amore, l’ironia, la tristezza, la tenerezza, la grazia. Ella muove al pianto, anche quando non la si comprende, con l’espressione della sua faccia, e la melodia del suo organo di fisarmonica….

Questo per le doti fisiche. E per le intellettuali :

Le sue ispirazioni sono sublimi, ella trova nelle sue parti ciò che l’autore stesso non aveva indovinato, e le sviscera in ogni più tenue gradazione di tinte : con un sol gesto, con una occhiata ella dice assai più di un’altra con cento parole. Chi non ricorda il modo con cui s’avvolgeva nel suo manto alla fine del secondo atto di Mirra ? Chi non senti bagnarsi gli occhi di lacrime vedendola inginocchiarsi davanti al Crocifisso in Maria Stuarda ?… Ella si volge direttamente al cuore e vi penetra nel profondo ; ha tali accenti che straziano e trascinano….

E per la donna :

Non è difficile indovinare che la Ristori ha molto cuore : è il distintivo del suo talento. Ella non vive come una commediante, ma come la più onorata madre di famiglia, compiendo ogni suo dovere, che è per lei la felicità. Nelle parti odiose si trovan per lei {p. 380}delle scuse, e pare che il suo personaggio non possa agire altramente sia che la fatalità lo spinga, o la passione lo trascini, o le circostanze lo dominino. Vi han delle parti che non accetta, perchè le ripugnano ; ed ella vuol sempre identificarsi con le sue eroine….

Il d’Heylli nel suo Journal intime de la Comédie Française (Paris, Dentu, 1873), dice di lei :

L'ornamento principale della Compagnia, Adelaide Ristori, si ebbe nella interpretazione di tragedie di Alfieri e di Schiller, un successo colossale, che aveva davvero del fanatismo e del delirio, e che fu, si potè dirlo con ragione, il trionfo più grande e incontestato dell’Esposizione. Bisogna leggere i giornali dell’epoca, per rendersi ben conto di codesto delirio, e di cotesto fanatismo. Lamartine stesso usci dal silenzio poetico, in cui sembrò essersi condannato, dettò per lei un’ ode, che la folla acclamò per due sere, riempiendo al colmo la sala Ventadour, Dumas padre, proprietario allora del giornale Il Moschettiere, prese le parti dell’attrice italiana, facendo uno strano parallelo tra lei e la Rachel, nel quale si sforzava di mostrare quanto più grande fosse la tragica straniera della tragica francese…. E tutti i giornali comparavan ne' loro articoli i talenti delle due artiste, in verità si diversi, e le lor conclusioni non apparivan sempre favorevoli alla Rachel….

E finalmente Vittoriano Sardou, venti anni dopo, ricordando l’antico entusiasmo, scriveva a un amico :

Sono stato un de' più grandi ammiratori della Ristori. L'ho veduta in tutte le sue parti, e non ho lasciato alcuna delle sue rappresentazioni. Posso dire di doverle molto, poichè, soccorso dal ricordo di quanto le vidi fare, mi son servito bene spesso de' suoi giuochi di scena e di fisionomia. Assai sovente ho modellato attrici su questa ammirabile artista, e tra l’altre la Fargueil, che è tutta piena di imitazioni ristoriane, e che le deve, senza saperlo, gran parte del suo presente successo all’Ambigu nella Rosa Michel del Blum. Tutta la scena della denunzia in Patria era del Ristorismo più puro. Per conto mio non ho mai veduto niente di più bello al teatro, che l’azione di questa maravigliosa donna ; e le serate di Pia, di Medea, di Giuditta, di Maria Stuarda, son rimaste le più belle di tutta la mia vita di teatro.

Naturalmente i grandi entusiasmi ebbero anche il loro rovescio, e Lemercier De Neuville nelle sue Figures du temps (Paris, Bourdilliat, 1861), non ebbe, specie per la recitazione in francese della Beatrice di Legouvé, parole di soverchia tenerezza per la nostra eroina : ma l’entusiasmo si mantenne alto, nonostante i tentativi di reazione dell’anno dopo, e quel primo battesimo di Parigi fu anche, s’è già detto, il primo passo del lungo e glorioso cammino della Ristori, chè di là il suo nome echeggiò in ogni parte più riposta del mondo. Percorse l’America del Nord nel '66, e vi tornò l’anno di poi, il '75 e l’ '84. {p. 381}Fu il '68 nel Messico ; il '69 in tutta l’America del Sud, ove tornò del '74. Recitò la commedia e la farsa, il dramma e la tragedia in italiano, in francese e in inglese con attori italiani, francesi, inglesi e tedeschi ; e dovunque ammirata, festeggiata, acclamata dal pubblico, dalla stampa, dai poeti. Ebbe amicizie di Sovrani ; ridonò alla società e alla patria un povero soldato condannato a morte ; visse, nei momenti più burrascosi della patria nostra, gagliardamente italiana. Fu sposa e madre adorata ; e, lasciate le scene, diventò dama d’onore della Regina d’Italia. Al suo ottantesimo anno, tutto il mondo si preparò a festeggiarla, richiamandole alla memoria, nella solennità dell’omaggio, gli entusiasmi che ella seppe destare per oltre sessant’anni.

Il nostro giovine Re Vittorio Emanuele III andò in persona a ossequiarla, recandole un dono e gli auguri della Regina : il Ministro dell’Istruzione le coniò una medaglia d’oro ; {p. 382}e un’altra, d’oro gliene coniò la R. Scuola di Recitazione di Firenze che ho l’onore di dirigere ; e sono orgoglioso di poter qui legare in qualche modo il mio piccolo nome a quello di lei grandissimo e venerato.

Ebbe tre fratelli che seguiron l’arte sua : Carolina, moglie di Pasquale Tessero (V.), nata il 4 novembre 1823 a Brescia e morta a Genova il 1890 ; Enrico, artista egregio alcun tempo per le parti amorose al fianco di sua sorella, poi impiegato ferroviario, nato a Voltri nel 1826, e morto capo-stazione a Foggia nel 1894 ; e Cesare ora al fianco della sorella per le parti di carattere, ora cantante buffo, nato a Soresina il 21 di marzo 1835, e morto a Torino, maestro di recitazione, il 26 febbrajo 1891.

Riva Carlo. Nella cronistoria de'teatri di Modena, di A. Gandini (I, 94-95) è citato questo Riva detto Nalini, conduttore di una compagnia che recitò a quel vecchio teatro comunale i carnevali del 1717 e 1718. Pel 16 marzo è fatto cenno dell’intervento al teatro del Principe di Charlerois.

Riva Alessandro, cognato della celebre Gaetana Goldoni (ne aveva sposato la sorella Anna Andolfati), fu un egregio padre nobile e tiranno, fiorito nell’ultimo ventennio del secolo xviii. Fu con la Coleoni, la Battaglia, Zuccato, e il cognato Goldoni. {p. 383}Sappiamo che il 1821 viveva a Padova fuor dell’arte, in cui aveva lasciato di sè fama di un de' più integerrimi uomini e valenti artisti.

Riva Luigi, figlio del precedente, nato a Verona il 1790, si esercitò giovinetto nell’arte comica ; e lo vediamo il 1815 primo amoroso al fianco della zia Gaetana. Morto Antonio Goldoni, il 1817, egli lo sostituì nella direzione dell’azienda, riducendo al nulla in soli cinque anni di sregolatezze ogni avere della povera vedova. Consunto dai vizj, morì improvvisamente a Trieste la primavera del '23.

Rivani Giovanni. Faceva parte della Compagnia Martinelli (V.), che andò a Parigi il 1621.

Rizzotto Giuseppe. Nacque a Palermo l’ottobre del 1828, e fu da suo padre, impiegato governativo, avviato all’avvocatura ; ma, appassionato filodrammatico, preferì la scena alla legge, e dopo di aver preso parte ai moti della Sicilia del '48, si scritturò a ventidue anni in una compagnia d’infimo ordine, poi in quella di Robotti, poi fu in America colla Pezzana, e mercè un suo lavoro dialettale, in cui dipinse al vivo la mafia di Palermo, quest’uomo singolarissimo, celebre in Sicilia, conosciuto a Napoli, sconosciuto a noi, potè girar trionfalmente i più riposti angoli d’Italia, ammirato e stimato come attore, come autore, e come uomo. Morì a Trapani il 4 luglio del 1895. Ebbe varii figliuoli dalle tre mogli, migliori de'quali i due della terza Salvatore e Giulia : quello primo attor {p. 384}giovane e primo attore di assai buone qualità con Italia Vitaliani ; questa egregia seconda donna con la Società Gramatica-Talli-Calabresi.

Robotti Antonietta, nata a Como il 1817 dai conjugi Rocchi, fu raccolta, educata e amata qual figlia dalla famiglia comica Torandelli, che l’ebbe sostegno prodigioso delle sue travagliate peregrinazioni, in cui si mescolava la recitazione alle farse in musica e ai balletti giocosi. Si narra che la giovane Torandelli, così la chiamavano, fosse un vero miracolo di arte sana in mezzo a un guittume della peggiore specie. Volle ventura che l’attore Luigi Robotti, uditala appena, la togliesse dall’ambiente pernicioso per farla sua moglie, e condurla per vie migliori. La vediam difatti il '36 prima attrice giovine sotto la {p. 385}Marchionni nella Compagnia Reale di Torino col marito amoroso, fino al’39, sostituita da Adelaide Ristori. Passò per un triennio nella Compagnia Mascherpa al servizio dell’Arciduchessa Maria Luigia, per rientrar nella Reale di Torino, prima attrice assoluta, al fianco sempre del marito, amoroso, a vicenda con Carlo Romagnoli, fino a tutto l’anno '52, dopo il quale fe'compagnia col maggior figlio di Luigi Vestri, Gaetano, lanciando prima attrice giovine la figlia Luigia, che del Vestri doventò poscia la moglie. Staccatisi questi dopo alcuni anni, scritturati da Bellotti-Bon, i coniugi Robotti formaron nuova compagnia ('59), che intitolaron Nazionale subalpina, e di cui eran parte la magnifica Ferroni, Enrico Capelli e Salvator Rosa. Ma gli affari non volgevano a bene, specie per una fiera malattia di artrite dell’Antonietta, che la tormentò lungo tempo. L'aprile del '62 il marito Luigi scriveva da Ferrara all’amico Francesco Righetti : « Antonietta è sempre stata in condizione da non poterle parlare d’affari ; oggi che grazie a Dio, dopo 107 giorni d’infermità va meglio,… » e nel '64, ella moriva in Bologna. Quivi, alla Certosa, in memoria di lei, si legge :

ANTONIETTA ROCCHI, moglie a L. ROBOTTI

salutata nell’arte di roscio maestra

non superba

nei trionfi, nelle dovizie, nei plausi

non pavida

in casi avversi e malattie dolorose

pronta

a soccorrere i miseri, a giovare i congiunti

in dio fidata

lo invocando spirò

l a sola amicizia fedele

in vita ed in morte

murò il sepolcro a custodire le ceneri

di

ANTONIETTA

ed al suo nome il marmo incideva

N. in Como a. mdcccxvii. M. in Bologna a. mdccc lxiv

Robotti-Vestri Luigia (V. Vestri).

{p. 386}Rocca-Nobili Camilla.Prima attrice dei Confidenti, fu una delle più forti artiste del suo tempo, lodata in vita e pianta dopo morta da'più eletti ingegni. Il Belgrano propenderebbe a credere ch'ella, figlia o altrimenti parente di Cesare Nobili, esordisse col padre nella Compagnia dei Desiosi.

Il Quadrio si confonde tra la Delia e la Celia, la Malloni, attribuendo a quella le lodi di questa, e citando persino come errore di stampa il nome di Delia nel libretto di poesie in lode di lei che andremo scorrendo, e che ha per titolo :

LE FUNEBRI | RIME, | di diversi eccell. | autori, in morte della signora | CAMILLA ROCHA NOBILI | comica confidente detta | DELIA. | raccolte da francesco antonaz | zoni, comico confidente detto | ortensio. | dedicate all’illustriss. & | eccellentiss. sig. il sig. | ANNIBALE TORCHI | marchese d’ariano. In Venetia | appresso ambrogio dei | M.D.C.XIII.

Il libretto, rarissimo, consta di 143 pagine in-12°, e ha un grazioso fregio in rame che incornicia il titolo. Precede una lettera dedicatoria dell’Antonazzoni, e un indice degli autori, tra' quali si notano il famoso Cintio Fidenzi, Comico Acceso, e il non men famoso Capitano Spaventa Francesco Andreini, dei Gelosi.

Non sappiamo di qual terra fosse nativa la Rocca, e questi versi del Fidenzi (pag. 36)

Delia qui giace, il cui almo sembiante

ornò le Tosche Scene,…..

ci dicon troppo poco ; ma certo morì quasi improvvisamente e fu sepolta a Padova (V. il sonetto di Matteo Bembo, pag. 44, e quello di Verdizzotti, pag. 16) dopo una ricaduta fatale della malattia, quando tutti eran certi omai della guarigione. Per la convalescenza di lei dettò Fidenzi il sonetto seguente :

Post’avea già sul formidabil arco
l’invida morte il suo funereo strale,
e volea aprir de la prigion mortale
de la famosa Delia a l’alma il varco.
{p. 387}Ma'l Dio d’amore a l’uopo suo non parco
di favor, disse a lei rivolto ; or quale
sconsigliato furor, morte, t’assale
di fare al regno mio si grave incarco ?
Ella ben mille a me alme rubelle
mi darà col suo dir, allor che ornato
sarà il teatro di sue fiamme belle.
Morte ritenne allora il colpo irato.
Così rara virtù sforza le stelle,
e può sol quella superar il fato.

E un madrigale sul medesimo soggetto dettò Giovanni Lazzaroni.

Da un sonetto di Girolamo Priuli (pag. 49) sappiamo com’ Ella fosse bionda :

Di questa così saggia in biondo pelo,
di questa, che di rai la chioma cinta
fu Delia in terra, ed ora è Sole in cielo.

Giovanni Zignoli (pag. 67) ci parla della sua bellezza e dell’età sua giovanile :

Discolorato hai morte il più bel volto
nell’età sua più bella e più fiorita….

e ce ne parla Niccolò Boldri in un sonetto (pag. 124) al raccoglitore Antonazzoni :

….. « Amico, i' godo il cielo,
non dir ch' in verde età sia al mio fin giunta,
chè grave è sempre all’alma il mortal velo. »

Al quale rispondeva Antonazzoni (pag. seg.) :

Maggior beltà di Delia, io non scorgea,
nè di lei rimirai cosa più eletta,
m’era dolce il penar, cara e diletta
l’amorosa prigion la pania avea.
{p. 388}L'ammirai come Nume, e come Dea
mi fu strale d’amor, face e saetta,
mèta de' miei pensier giusta e perfetta
Lei, non febo, per me luce spargea.
Ond’or che vive in ciel da me disgiunta
provo il gel nell’ardor, l’ardor nel gelo ;
e mia vita direi fosse al fin giunta.
Se non avessi a voi con puro zelo
l’alma, Signor, donata, che congiunta
gode felice in Voi, come in suo cielo.

Dal qual sonetto si potrebbe anche inferire ch'ella fosse qualcosa più che amica del compagno d’arte. Ma come ciò concorderebbe col bel candore decantato da Francesco Andreini in questo suo sonetto :

Or che Delia è sparita, e 'l suo splendore
inargenta altre selve ed altri colli,
che fia di noi ? Rugiadosi e molli
gli occhi trarremo in sempiterno orrore.
Delia talor, mentre che nasce e more
l’argento tuo, fin là dove t’estolli,
le caduche speranze, e i pensier folli
nostri rimira col tuo bel candore.
Così vedrai, che quanto in terra giace,
è fumo ed ombra : e scorgerai che 'l mondo
d’insidie è pieno, e lusinghier fallace.
Specchiati in Ciel nel sommo ben verace,
poi ch'hai vinto Satan Angelo immondo,
e con li giusti godi eterna pace.

E sopratutto come concorderebbe con questa terzina del Fidenzi (pag. 36) ?

Fu Delia de le donne onore e lume,
gloria del sposo suo, pompa del mondo,
e dei teatri luminosa Aurora.

{p. 389}Quanto a' suoi pregi artistici, par ch' Ella ne avesse parecchi, e in ogni sorta di composizione, come accenna il Boldri in una sua canzone a pag. 80 :

………
Ancor le menti a volo
trarrai nell’altro polo,
e formando la voce
or benigna, or feroce
e mutando te stessa in Cavaliero,
in amante, in guerriero,
in Pastorella, in Dama,
in Serva, ed in Regina,
farai degli altrui cor dolce rapina.
………

Ch' Ella fosse congiunta a Cesare Nobili, come inclinerebbe a credere il Belgrano, non si può dire : tuttavia non è assai fuor del probabile, potendosi forse ritenere ch' ella fosse davvero Nobili di nascita da un sonetto di Enriço Sottovello (pag. 68), là dove dice :

mentre Camilla Rocca, onor, contento
del secol nostro…..

Ma nè anche questa è prova sicura del suo cognome di sposa, serbando le attrici in arte il nome con cui salirono in rinomanza.

Rodolfi Giuseppe. Nato a Bologna il 1827 da Gioachino e da Colomba Brighenti, fu artista brillante rinomato per la comicità spontanea e originale. Esordì nella Compagnia Bottazzi e Berlaffa del 1845 ; e fu per alcuni mesi del '48 in quella di Micheloni e Dondini, scioltasi a mezz'anno a cagion della guerra. Entrò il '50 in quella di Edoardo Majeroni diretta da Gaetana Rosa. Sposò in quell’anno Amalia Vannucci bolognese e attrice, che gli morì a Padova di colèra il '55, e dalla quale ebbe un figliuolo, Rodolfo. Fu il triennio '56-'57-'58 con Robotti e {p. 390}Vestri. Lo vediam poi con Giuseppe Peracchi, col quale stette lungo tempo, poi, del '73, con la compagnia n. 2 di F. Sadowski, diretta da Luigi Monti. Passò del '74 in seconde nozze con Sofia Cerretelli, dalla quale ebbe due anni dopo il figliuolo Eleuterio. Entrò il '78 nella Compagnia Iucchi, diretta da Giovanni Emanuel, e il '79, dato un addio alle scene, si ritirò nella sua Bologna, dove morì il 19 febbrajo dell’ '85.

Che cosa fosse Giuseppe Rodolfi come artista, niuno ha mai saputo dire. Forse volgare, forse superficiale, forse buffone, forse grottesco…. Ma s’andava a teatro e si rideva a crepapelle del riso il più sano e il più schietto. La sua stessa figura era di una comicità irresistibile. Il busto bene formato e sviluppato era sorretto da un pajo di gambette ad arco, che si movevan a salti, a guizzi su la scena nel più buffo modo del mondo. Aveva una dizione vera, corretta, spontanea, e una pronunzia del più aperto bolognese : il che accresceva comicità all’esser suo. Chi nol ricorda nel Pugno incognito e nella Bolla di Sapone di Vittorio Bersezio ? Nei Naufraghi del mar Pacifico, nel Casto Giuseppe e la moglie di Putifarre ? In Mamma Agata bolognese ? Nelle Nozze del signor Camillo ? Chi può ripensar quei famosi or ora glie lo dico, senza riderne ? E quella famosa dichiarazione d’amore ch'egli, non eccezionalmente, ma ormai per consuetudine doveva ripeter lì per lì, in mezzo alle più matte risate di un pubblico stipato ? Se a Giuseppe Rodolfi mancaron, come s’ è dianzi accennato, talune qualità d’arte, egli fu per certi rispetti attore brillante veramente unico.

Il figliuolo Eleuterio esordì generico giovine nella Compagnia di F. Garzes, morto il quale, entrò subito secondo brillante con Pieri e Ferrati. Fu il '95 con Talli-Sichel-Tovagliari, il '96 {p. 391}con la Vitaliani, il '97 con la Della Guardia, il’98-'99 con Novelli, il '900 con Talli-Gramatica-Calabresi, il’901-'902 con Leigheb ; e finalmente il '903, per un triennio, con la Della Guardia, primo brillante assoluto, assieme a sua moglie, Adele Mosso, attrice egregia per le parti di seconda donna.

L'esempio dei maestri, sotto i quali militò, e sui quali si modellò, la sua attitudine e il suo buon volere fanno sperare assai bene del suo artistico avvenire.

Roffi Giovanni, toscano. Valoroso attore per le parti di Arlecchino, e non men valoroso capocomico, fu nella Compagnia di Francesco Berti, di cui sposò la cognata. Stabilitosi a Firenze, vi aprì una bottega di varie merci — come dice Fr. Bartoli — e prese in affitto il Teatro del Cocomero, ove mantenne alternativamente compagnia di prosa e di musica.

Nel 1780 cominciò a uscir di Firenze, sotto la protezione di Pietro Leopoldo, con privilegio di occupar egli solo con la sua comica compagnia i teatri varj della Toscana ; e lo vediamo l’autunno di quell’anno a Livorno, ove per l’apertura del Teatro di San Sebastiano fu composto un prologo (Livorno, Falorni), che finisce con queste parole di Minerva volta alla Compagnia schierata in sulla scena :

….. scendete
O miei figli scendete ; eccovi aperto
Vasto campo al valor ; dell’arti mie
Fate qui prova ; Io non vi guido al varco
D' incognita region ; del patrio Mare
Rivedete le sponde ; in ogni volto
Distinguete la gioia ; in voi si scorga
Un’umiltà non vile ; assai decente
Abbia lo scherzo il suo confin ; il gesto
Non si avanzi di troppo, il fasto improprio
Nel vestir non deformi
Il carattere altrui ; fate che sia
Esatta ognor l’esecuzion, ma prima,
Lungi dall’adularvi
{p. 392}Fate che ognor risulti
Ad eterna memoria,
Dall’altrui perdonar la vostra Gloria ;
Solo pregio del terreno
Non è il darne il frutto, o il fiore
Pregio è pure del calore
Dell’umore
È pur mercè.
Deh sperar ci fate almeno
Chiaro il Sol, copiosa l’onda,
Che allor sì la pianta abonda
Più feconda
Che non è.

Facevan parte della compagnia quasi tutti attori fiorentini, tranne Pietro Andolfati, primo attore (V.) e Giuseppa Fineschi prima donna (V.), artisti di molto pregio. Aggiunge il Bartoli che non contento di rimaner ristretto nei confini della Toscana, il Roffi percorse con grande fortuna la Lombardia, il Piemonte e il Genovesato.

Forse, quando abbandonò la Compagnia Berti per recarsi a Firenze, abbandonò anche le scene per diventare esclusivamente impresario. Infatti un elenco della sua compagnia, senza data, ma certo prima assai dell’ '80, ci dà i seguenti attori :

SIGNORE

Anna Roffi

Maria Zocchi

Anna Cesari

Amalia Gattolini-Brunacci, serva

SIGNORI

Gaetano Brunacci

Giuseppe Mancini

Angiolo Marchioni

Luigi Lensi

MASCHERE

Gaetano Cipriani, Pantalone

Baldassarre Bosi, Trastullo

Nicola Bertoni, Arlecchino e subalterni.

Roffi Anna. Moglie del precedente, e sorella di Caterina Berti (V.), fu attrice egregia per le parti di serva, e talvolta {p. 393}anche per quelle di donna seria. Recitò sempre nella compagnia del marito, ma, a Firenze, nell’autunno del 1771, rappresentando La Vedova Scaltra del Goldoni, nell’atto di porsi il zendado alla veneziana, fu colpita d’apoplessia, che la condusse a morte in capo a poche ore, compianta da tutti e pei suoi pregi e per la sua sciagura.

Rolenzino. È citato dal Marchese Decio Fontanelli in una sua lettera del 14 agosto 1691 al Duca di Modena. La Compagnia del Duca aveva domandato di poter recitare a Verona, ove andò poi quella del Duca di Mantova, rifiutata a Milano. La Compagnia di Modena allora, profittando del teatro libero, si recò a Milano, e vi fece grande incontro. In quello stesso anno l’Elettore di Baviera aveva licenziato la Compagnia italiana, e il Fontanelli esorta in questa lettera il Duca a servirsi di alcuno di quei soggetti per migliorar la sua compagnia ; e aggiunge : « giunto hieri sera da Sassuolo in Modona vi trovai Rolenzino famoso primo Zane, hò stimato perciò bene di fermarlo à dispositione di V. A. Ser.ma…. » È la prima volta che ci occorre questo nome in tanti documenti veduti. Forse era nome di maschera ? Forse metatesi di Lorenzino ?

Romagnesi Marc’Antonio, ferrarese, era salito in gran fama qual Pantalone e capocomico. Pier Maria Cecchini aveva proposto con lettera del 1612 da Venezia al Duca di Mantova di mandarlo a Parigi, ove poi non andò, pei raggiri di Tristano Martinelli che vi andò in sua vece il 1613. Vediam più tardi il Romagnesi, il 1616, nella Compagnia de' Confidenti, diretta dallo Scala e protetta da Giovanni De Medici, nella quale ebbe a Genova un alterco con Battista Austoni, l’amministratore della Compagnia. (V. Neri, Gazzetta letteraria, 18 maggio '89).

E sua senza dubbio la traduzione dell’opuscoletto, intitolato : Dichiaratione | del Re Christianissimo | pubblicata nel Parlamento | nel qual S. M. si ritrovò il giorno | 18 di gennajo 1634 | {p. 394}richiamando il Duca d’ Orléans | Suo fratello | tradotta dal francese | da Marcantonio Romagnesi. — Venetia, 1634.

Romagnesi…. ? Recitava le parti d’ Innamorato sotto il nome di Orazio ; e fu probabilmente figliuolo del precedente. Il Moland, non sappiamo con qual fondamento, gli dà il nome di Marco. Egli, marito dell’ Aurelia, Brigida Bianchi, si era recato con la Compagnia Locatelli a Parigi, ove morì il 1660. Di lui fa menzione il Loret nella Muse historique del 31 marzo 1659 col distico seguente :

Horace, en beau discours fréquent,
faisoit l’amoureux éloquent.

Romagnesi Marc’ Antonio. Figlio del precedente e di Brigida Bianchi, nacque a Roma (o a Venezia : non è ben accertato) intorno all’anno 1633. Fu educato nel Collegio Clementino di Roma, indi, come sovente s’è visto, trascinato alla scena dall’esempio dei parenti, salì subito in alto grido per le parti d’ Innamorato, sotto nome di Cintio. Non si recò a Parigi che del 1660. Aveva sposato a Bologna il 31 marzo 1653 Elisabetta Giulia Della Chiesa, non comica (in francese si firmava De l’ Eglise e in italiano La Gieza), che gli morì a Londra il 1675 in uno dei due viaggi che la Compagnia fece in Inghilterra col permesso della Corte di Francia. Il Neri propenderebbe a crederla figliuola del celebre Dottor Violone, Girolamo Chiesa, ma non saprei perchè, non essendosi mai trovato il suo nome preceduto da quel Della, che fa, pare a me, un diverso casato.

Troviamo il Romagnesi a Mantova l’aprile del '55, come da una sua lettera al Duca di Modena del 5, con la quale lo ringrazia dell’invito di recarsi colà a recitare : poi nulla sappiamo più fino all’anno 1667, in cui egli apparve sulle scene del Teatro italiano, sostituendovi il secondo amoroso Valerio Bendinelli ; indi, abbandonato il primo amoroso Ottavio Costantini il teatro nel 1688, e partito per l’ Italia, predendone egli il {p. 395}posto. Verso l’ '89 fu incaricato da Colbert di recarsi in Italia a scritturarvi nuovi attori per colmare i vuoti lasciati nella Compagnia. A tal proposito scrisse una lettera a Carlo Pevrault, controllore della Casa Colbert, chiedendo un passaporto per Roma, Venezia, Genova, Ferrara, Bologna, Padova, e una sovvenzione in danaro, per far fronte alle spese, facendo osservare che pel viaggio in due sole città, Bologna e Venezia, Ottavio avea sempre avuto 200 scudi.

Invecchiato il Lolli, Romagnesi, che non era più giovine, e a cui non più si addicevan le parti d’ Innamorato (1694), lo sostituì nella maschera del Dottor Baloardo, nella quale ci fu tramandato in effigie dal bulino del Mariette, un de' più benemeriti della storia iconografica del nostro teatro.

Soppresso il Teatro italiano nel 1697, Romagnesi naturalizzato francese dal 1685, ufficiale del Re, e amministratore della Compagnia italiana insieme ad Angelo Lolli, abbandonò le scene, e morì a Parigi in via S. Dionigi il 29 ottobre 1706. Fu sepolto nella chiesa di S. Lorenzo alla presenza dei figli Carlo e Augusto Alessandro.

Marc’Antonio Romagnesi fu poeta e non de'peggiori, e pubblicò pei torchi di Langlois a Parigi il 1673 le sue rime, ch' ei volle consecrate all’immortal nome di Luigi XIV Re di {p. 396}Francia e di Navarra. Esse si dividono in Eroiche, Amorose, Morali e Varie. Il Bartoli riferisce l’ode indirizzata a sua madre, e la risposta di questa. Ma come saggio del suo stile ve n’ ha ben altre che mi pajon di gran lunga migliori.

Oltre a queste una ne pubblicò il Cotolendi nel suo Livre sans nom (Paris, Brunet, M. DC. XCV), Al proprio Genio, premettendole alcune parole d’iperbolica lode per tutta l’opera poetica di Cintio.

L'ode comincia :

Fiamma de l’intelletto,
mobil del mio voler, moto dell’alma,
colmo d’estro, e dispetto,
a te perturbator della mia calma,
parlo, o mio Genio insano : a te che sei,
forsennata cagion de'torti miei.

La notizia, citata dal Bartoli, che il Romagnesi, andato a Mantova, trovasse una sua casa sequestrata, e supplicasse il Duca della liberazione, che poi ottenne, troviamo nel seguente sonetto che non mi par de' peggiori :

Signor, giacchè più tetto non m’avanza,
e più casa non ho su'l mantovano,
non vi sdegnate che col scettro in mano,
mentre casa non ho, faccia una stanza.
Molte n’ho fatte, è vero, in varia istanza
a Vostra Altezza, mio Padron sovrano ;
e pur con tante stanze essendo al piano,
di star allo scoperto ho per usanza.
La Camera ducal se l’ha investita ;
e pur ell’è come campagna rasa,
o nuda più che cella d’eremita.
Ma s’a la vostra Camera è rimasa,
date ordine mi sia restituita ;
chè non può entrare in Camera una casa.

Degne di certo interesse a chi fosse dotato di molta pazienza, sono alcune poesie nelle quali egli dà la spiegazione {p. 397}dell’oroscopo. Analizzando e raffrontando, si potrebbe forse venire alla soluzione di altri, sparsi in quest’opera. Limitiamoci {p. 398}a dar qui, come saggio, la interpretazione di quello concernente il natale di Angelo Lolli :

A te Febo dà vita : e mortal fine
nell’undecimo lustro indi t’offende ;
e di Mercurio in dignità t’intende
de la Terra a tracciar vario confine.
Giove in Terza l’amor par che t’incline
De i Sacri ; e col Sestile a Cintia apprende
favor donnesco : e Citerea difende
di morte ria da subite ruine.
Empi Amici additar Marte qui vuole,
Sterilità Saturno, e prigionia,
Benchè Delia feminea unica prole.
Gli Angoli Orizzontali han Stella ria,
turban la prima età, poi Giove suole
cadente tranquillar l’aura natìa.

E il sonetto mi pare ancor più sibillino dell’oroscopo, il quale, nondimeno, ci dice, e qui non corron dubbi, la data della nascita di A. Lolli, che è il 28 agosto del 1630 (non 1622, come s’è ritenuto fin qui erroneamente), a ore 18 e 24 minuti.

Il Romagnesi fu veramente lodato da chiari ingegni del suo tempo, e ha versi diretti all’Abati e a Salvator Rosa. Ai nomi di Costantini Giovan Battista e Gherardi Evaristo sono accennate alcune querele e dispute ch'egli ebbe, per le quali si ricorse perfino alle vie di fatto con la spada alla mano.

Dei cinque figliuoli, Agostino Alessandro, Ippolito, Gaetano, Girolamo Alessandro, Carlo Virgilio, due soli si fecero comici : Gaetano e Carlo Virgilio.

Agostino fu educato alle armi, e sappiamo da un sonetto del padre ch'egli militò ancor giovine contro i turchi in Polonia. Era cavaliere dello speron d’oro, e fu nominato dal Duca di Mantova conte Boba.

Ippolito studiò pittura sotto la scuola del famosissimo Domenico Maria Canuti, e finì Provinciale dei domenicani a Roma.

Girolamo, interdetto per demenza, morì a Charenton.

{p. 399}Romagnesi Gaetano. Figlio del precedente. Di lui sappiamo soltanto che fu comico, e che uscito di Francia nel 1697, al tempo della soppressione della Comedia italiana, dopo di aver recitato in Fiandra e nei Paesi Bassi, morì a Bruxelles il 26 ottobre del 1700. Aveva sposato, morta sua madre, Maria Anna Richard (da cui ebbe un unico figlio, Giovan Antonio) la quale, rimasta vedova, passò a seconde nozze col signor Duret tireur d’or di Lione, che poi si fece comico. Nella divisione dei beni di Marc’Antonio Romagnesi, il Duret prende la qualità di avvocato in Parlamento.

Romagnesi di Belmont Carlo Virgilio, fratello del precedente, Ufficiale del Re, nato a Parigi il 7 maggio del 1670, fu inviato in educazione a Roma, d’onde si restituì in patria dopo tre anni di dissipazioni, col fermo proposito di calcar le scene. Esordì all’antico teatro italiano sotto il nome di Leandro, il 24 agosto 1694, nella Comedia Le depart des Comediens, e fu applauditissimo. « Aveva – dicono i fratelli Parfait – una bellissima figura, e delle attitudini singolarissime per la scena. » Dopo un anno fu ricevuto a parte intiera, insieme al fratello Gaetano. Chiusa la Comedia italiana nel '97, Leandro si scritturò col Pascariello Tortoriti, e scorse parte della Francia, recandosi poi in Lorena. Tornò a Parigi al finire del 1707, e vi sposò il 6 gennajo 1708 Elisabetta Costantini figlia di Giovan Battista, Ottavio. Tornò a recitare in Provincia ; e finalmente, accasciato dai malanni, fe'l’ultimo ritorno a Parigi verso il 1725, trascinandovi una vita di languore e di stento, fino al 9 marzo 1731, giorno della sua morte. Nominò {p. 400}con testamento del precedente 24 febbrajo legatario universale il nipote Giovanni Antonio, ed esecutrice testamentaria la moglie Elisabetta. Ebbe due figliuoli gemelli, morti lo stesso giorno della nascita, e sepolti insieme il 13 luglio del 1708.

Romagnesi Giovanni Antonio. Figlio di Gaetano e di Anna Richard, nacque a Namur il 1690. Mortogli il padre nel’700, e rimaritatasi la madre coll’avvocato Duret, egli ebbe da entrambi tali maltrattamenti, che, sebbene avesse già esordito a quindici anni con buon successo nella compagnia materna, si trovò costretto a prendere il servizio militare, arruolandosi con un tal Capitano, dal quale non ebbe trattamento migliore, nonostante il dono che gli fece d’un piccolo orologio, che era tutto quanto ei possedeva. Venuto alla disperazione, risolse di disertare ; ed essendo il suo reggimento non lungi dalla Savoja, si rifugiò sulle terre del Re di Sardegna. Ma non andò molto ch'egli ebbe a pentirsi di tal passo ; e avvicinatosi alla Francia per le montagne della Svizzera, scrisse al celebre attore Quinault, che allora recitava a Strasburgo, esponendogli il suo triste stato, e chiedendogli soccorso. Quinault rispose, dandogli convegno a Basilea, dove sarebbe andato fra giorni. Alle porte della città, il povero ramingo dovette fermarsi, chè non era permesso l’entrata a chi veniva dalla Savoja, senza un chiaro esame sul suo nome, sul suo stato, sui suoi disegni. Come fare ? Visto un ragazzetto che guardava un branco di porci, mediante qualche po' di danaro e qualche parola minacciosa, ottenne di sostituirlo : e trovandosi assai male in arnese, gli fu agevole ingannare le guardie, ed entrare in città, dove avrebbe trovato il suo liberatore. Ma il corriere di Strasburgo non sarebbe giunto che il dì dopo. Come fare ? Lo sciagurato giovane si rivolse a un piccolo albergo presso la Posta, e domandò da mangiare e da dormire : ma la pallidezza del volto e la povertà del vestire fecer pretendere alla padrona il pagamento anticipato. Fortunatamente un fornajo presente alla scena si fece mallevadore, e Romagnesi potè riaversi del {p. 401}lungo cammino, e dei disagi patiti. Il domani una lettera di Quinault gli annunziò il suo arrivo, e infatti alle quattro del giorno stesso egli fu in Basilea, e rivolse le sue prime cure all’abbigliamento del suo nuovo compagno d’arte, che, condotto subito a Strasburgo, vi esordì in capo a qualche giorno con molto successo.

Pubblicata l’amnistia, e cessata ogni inquietudine per la diserzione, il Romagnesi restò due anni con Quinault, poi si scritturò con Giovan Battista Costantini, Ottavio, che aveva compagnia a Parigi nelle fiere di San Germano e di San Lorenzo, col titolo di Opera Comica, ed esordì a quel tempo come autore con la Comedia in prosa e musica in tre atti : Arlequin au Sabat, rappresentata alla fiera di San Lorenzo del 1716 con grandissimo successo. Alla fine dello stesso anno, Costantini abbandonò la impresa, e Romagnesi passò in una Compagnia di Marsiglia fino al 1718, anno in cui fu di ritorno a Parigi, esordendo il 4 di luglio al Teatro francese con la parte di Radamisto nel Radamisto e Zenobia. Ma il successo non essendo stato qual era da sperare, dopo non molte recite, egli fu ancora in Provincia, a Bordeaux, a Bruxelles, a Cambrai, donde restituitosi a Parigi, fu accolto nella Compagnia dei Nuovi Comici italiani. Il Mercurio di Francia così annunziava il suo esordire :

Il (venerdì) 13 aprile (1725) il signor Romagnesi, nuovo attore e nipote di Cintio, comico famoso dell’antica Compagnia italiana, si presentò per la prima volta nella Comedia La Surprise de l’Amour (di Marivaux), e vi recitò la parte di Lelio con molta intelligenza. Fu ancor più ammirato nelle altre parti che recitò di poi.

Poco tempo dopo, fu ricevuto in compagnia con tre quarti di parte.

Il maggio del 1742, si recò a recitare a Fontainebleau davanti alla Corte, nonostante alcuna indisposizione, ch'egli aveva avuta, e ritenuta passeggiera, sul finire dell’aprile ; ma l’11 di maggio, côlto da male improvviso, mentre passeggiava nelle foreste, potè appena metter piede in casa, ove, caduto a terra privo di sensi, morì in poche ore tra le braccia della zia Belmont.

{p. 402}Negatagli il Curato di Fontainebleau la sepoltura, si deliberò d’inviare il suo corpo, chiuso in un cassone, a Parigi, ove fu sepolto nella chiesa del Salvatore il 13 maggio.

« Alto e ben fatto, – dice il Dizionario dei teatri, – egli aveva la voce un po' sorda, e sembrava patir gran pena, allorchè aveva da dire un brano un po' lungo. Fuori di ciò egli era attore egregio in ogni genere di parti, eccellente in quelle di ubbriaco e di svizzero. »

Molte sono le opere ch'egli diede al teatro, vuoi solo vuoi in società con Davesnes, Niveau, Laffichard, Dominique, Riccoboni figlio, ecc. ; ma quella che par gli dèsse maggior grido fu una traduzione, o meglio, una trascrizione in versi francesi del Sansone, tragedia italiana in prosa di Luigi Riccoboni, che l’aveva recitata con grande successo la prima volta il 28 febbrajo 1717, sostenendovi la parte principale.

La prima rappresentazione del Sansone francese ebbe luogo il 18 febbrajo 1730, e Romagnesi vi ottenne un successo enorme, secondo che attesta Matteo Marais nel suo diario, alla data del 5 marzo 1730, che dice :

« Agl’italiani hanno un lavoro che fa gran chiasso. È una traduzione fatta da Romagnesi in versi francesi del Sansone italiano. Egli lo declama meravigliosamente, ma gli altri fan pena. »

Molte delle sue opere si trovano sparse nelle varie raccolte del Théâtre italien e delle Parodies du Théâtre italien. Ma di quelle ch' ebber maggiore successo fu fatta dalla Vedova Duchesne (M.DCC.LXXII) una bellissima edizione in due volumi in-8°, che comprende Sanson, Le petit Maistre amoureux, Le Frère ingrat, La Feinte inutile, Les Gaulois, La Fille arbitre, L'Amant Prothée, Le Superstitieux, Pigmalion.

I molti pregi di alcune sue parodie dettarono i seguenti versi :

Comédien sensé, parodiste plaisant,
en traits fins et légers Romagnesi fertile
couvrit les plats auteurs d’un ridicule utile ;
qu’on doit le regretter dans le siècle présent.

{p. 403}Romagnoli Gaetano. Buon Arlecchino e capocomico mediocre, fu molti anni colla moglie e il cognato Filippo Nicolini nella Compagnia di Nicola Petrioli, fuggito il quale egli ne prese le redini per alcun tempo. Ma pare che questa nel 1776 si sciogliesse avanti la fine dell’anno, ed egli si scritturasse assieme alla famiglia con Alessandro Gnochis pel carnovale di quell’anno a Genova, dove morì ai primi di gennajo. Di lui dice Fr. Bartoli che « piacque la sua maniera di recitare lepida ed arguta, e per sapere a tempo cogliere l’occasione di motteggiare co' frizzi spiritosi e faceti. »

Romagnoli Barbara. Moglie del precedente, e sorella di Filippo Nicolini, fu da prima nella Compagnia del rinomato Carlo Veronesi, sotto gl’insegnamenti del quale potè divenir comica egregia. Sposatasi al Romagnoli diventò la prima donna della sua compagnia ; e rimasta vedova in quella di A. Gnochis, si scritturò con altra, e morì nell’estate del '76 nella Valtellina a circa cinquant’anni.

Romagnoli Antonio. Figlio dei precedenti, nato il 1750, fu ottimo artista sotto la maschera di Brighella. Trovavasi nel '76 in Compagnia Veronesi, quando gli morirono i genitori. Sposò l’ '80 una figlia di artieri di Lodi, per nome Anna, la quale cominciò a recitar da serva (e tale la vediamo il 1781, col marito Brighella nella Compagnia di un Carlo Rebecchi, forse fratello di Margherita (V.)), e in soli due anni diventò un’egregia prima donna giovine. Scritturati entrambi in compagnia Battaglia, vi ebbero, specialmente a Venezia, le più festose accoglienze. Furon poi con Petronio Zanerini, alla cui scuola ella salì al grado di prima donna assoluta, e finalmente formaron essi compagnia, che durò fino al 1802, anno della morte della moglie. Continuò egli a recitare scritturato in compagnie di ordine vario, finchè, divenuto il figlio Luigi primo amoroso della Compagnia Perotti, carico d’anni, si ritirò dalla scena.

{p. 404}Romagnoli Luigi. Figlio del precedente, cominciò a recitar gli amorosi nella compagnia di suo padre, passando poscia in quella di Francesco Perotti, nella quale salì, dopo un anno, al grado di primo amoroso assoluto, dopo la scelta di Armando Subbotici. Innamoratosi della seconda amorosa della Compagnia, Rosa Pasini, la tolse in moglie, e con essa vi restò alcuni anni, per passar poi il 1821 in quella Reale Sarda, al momento della sua formazione, primo attore a vicenda con Domenico Righetti. Ne uscì il 23 per andar con Goldoni e Riva, e formar poscia una società con Augusto Bon e Francesco Berlaffa, sovvenuta per due stagioni dal Duca di Modena, che durò fino al '32. Passò poi primo attore e padre con Romualdo Mascherpa, e ridiventò in vario tempo e con varia fortuna capocomico, ora solo, ora in società. Morì a Milano il 23 dicembre del’55 nell’età di sessantasei anni. Molte furon le lodi a lui tributate come uomo e come artista, e Augusto Bon l’ebbe in tal considerazione che scrisse per lui Il Sospettoso, il Conte nel Niente di male, l’Importuno nell’Importuno e il distratto. Recitò assai bene il repertorio goldoniano sì in dialetto, sì in italiano ; e specialmente L'uomo di mondo.

Romagnoli Rosa, nata Pasini, è stata una delle più celebri servette del nostro teatro di prosa. Nata il 1800, esordì giovinetta in Compagnia Perotti, ove sposò il Romagnoli. In essa, staccatasi dal marito, tornò il '30 ; e vi restò, attrice incomparabile, fino al '53, anno in cui ella abbandonò il teatro.

Nella interpretazione del repertorio goldoniano non ebbe rivali, e ogni più piccola parte acquistava con lei grande importanza.

Bella di volto e di persona, dalla voce metallica, dagli occhi espressivi, attraeva a sè ogni specie di spettatori al suo primo apparir su la scena.

Degl’inni di lode alzati alla diletta artista scelgo le parole di Francesco Righetti, attore egregio, critico acuto, e già compagno d’arte della Romagnoli (Teatro ital., II, 153) :

{p. 405}Il personaggio di servetta era semispento nelle Compagnie comiche, e colla morte della celebre Maddalena Gallina, che mirabilmente lo rappresentava, e per il nuovo genere introdottosi in Italia di commedie, in cui il ridicolo entra appena di furto, e per l’abbandono della Commedia goldoniana.

Riaperte le porte della scena al nostro Goldoni anche alcuni moderni scrittori presero ad imitarlo, ed il personaggio della servetta tornò ad essere importante, e necessario ; ma non si trovava più chi sapesse con disinvoltura, con brio, con grazia, e colla necessaria finezza rappresentarlo. Finalmente la signora Rosina Romagnoli, già in questo carattere iniziata nella Compagnia Perotti, spiegò tutto il suo valore nella Compagnia drammatica di SS. R. M. Sarda, ed invero fu non lieve perdita per la suddetta Compagnia l’allontanamento di si graziosa attrice, che ben a ragione è cotanto acclamata, ed amata dal pubblico. Snella della persona, non grande, non piccola, occhio vivo e maliziosetto, volto pieno d’anima, voce sonora, un abbandono spontaneo di espressione, e di movimento, formavano in lei un insieme, che non poteva a meno di allettare gli spettatori.

E più oltre :

Il primo merito d’una servetta è aver brio, vivacità, e soprattutto buona grazia. La grazia sta nel contegno, negli atteggiamenti, nella naturalezza, nella disinvoltura, nella semplicità, nella perfetta armonia, e {p. 406}nell’intero sgombramento di tutto ciò che è superfluo, od incomodo : il linguaggio della servetta deve essere franco, e talvolta ardito ; ma in generale il modo di dire delle nostre servette è tutto pieno di tanti fiori già appassiti nel loro nascere, come quelli che hanno sulla loro gonnella.

Tutte le suaccennate qualità le scorgiamo noi nelle nostre servette ? Ove si eccettui la commendata signora Rosina Romagnoli, che se non di tutte, almeno di una buona porzione n’ ha fatto tesoro, dubito che altre si possano ritrovare.

Recitò la prima in Italia Le prime armi di Richelieu, ed Il Birichino di Parigi. Morì a Torino il 14 novembre 1886, lasciando una figlia, Enrichetta, sposa a Eugenio Casilini.

Romagnoli Carlo. Figlio dei precedenti, esordì secondo amoroso nella Compagnia Mascherpa, passando poi primo attor giovine in quella De-Rossi, col qual ruolo formò prima società con Achille Dondini, poi fu scritturato dal fratello di lui Cesare, da Adamo Alberti pei Fiorentini di Napoli (1858-59-60), da Luigi Domeniconi pel seguente triennio ; ma, sciolta il Domeniconi la Compagnia nell’ agosto dell’ ultim’anno a Viterbo, egli formò società per condurla al termine dell’anno comico ; continuandola poi col Colomberti fino a tutto il carnovale '65. Fu di nuovo a Napoli con l’Alberti, e di nuovo capocomico in società con la Pezzana e Privato pel triennio '68-'69-'70. Passato al ruolo di generico primario, fu prima in società con altri per varii anni, poi, scritturato da Tommaso Salvini, andò in Inghilterra con la figlia Amelia prima attrice giovine.

Morì dell’82 a Torino in una casa di salute.

Così scrisse di lui il Tirascene (G. Costetti) nel Bersagliere di Roma :

{p. 407}Carlo Romagnoli tenne meritamente uno dei primi posti fra i nostri attori. Aveva bella voce, prestante la persona ; mani e piedi aristocraticamente piccini, del che si teneva moltissimo. Recitò vero, e sdegnò l’applauso del volgo, se bene sapesse tutte le malizie e avesse tutti i mezzi per procacciarselo a suo talento.

Roncagli Silvia, bergamasca, recitava nella famosa Compagnia dei Gelosi, magnificata da Francesco Andreini (V.) nel Rag. XIV delle Bravure, le parti di serva col nome di Francischina, e quelle – aggiunge il Sand (op. cit.) – di travestimento col nome di Lesbino. Nel Finto Negromante dello Scala (V. op. cit.) ella si traveste da Mercurio ; nel Ritratto fra i personaggi è Lesbino paggio, poi Silvia milanese ; nel resto ella è quasi sempre serva, talvolta ostessa, o moglie di burattino. Fr. Bartoli, non so la fonte di tal notizia, dice che del 1580 la Roncagli era nel fiore della sua giovinezza.

Roncoroni Luigi, nato il 1856 a Milano, fu avviato dal padre alla carriera militare. Fuggito a diciott’anni dall’Accademia di San Luca, entrò in una Compagnia d’infimo ordine, qual suggeritore, cominciando a recitare in quella italiana, formata dal celebre attor dialettale Toselli (V.). Scritturato da Bellotti-Bon (V.), quando questi si suicidò, formò compagnia con alcuni superstiti della catastrofe. Si recò all’Argentina con Emanuel (V.), e di qui cominciò la sua fortuna ; chè, avuto un grande e schietto successo, trovò modo di formar da solo una compagnia che condusse poi in ogni parte dell’America del Sud con ottima riuscita artistica e finanziaria. Un disastro bancario gli tolse tutto, ed egli dovette ricorrere a ogni mezzo per campar la vita, passando dal maestro di scuola al pittore, dall’impiegato al cantante di operette. Impadronitosi della lingua, si scritturò primo attore in una Compagnia spagnuola, e n’ebbe onori e denaro. Oggi percorre, capocomico festeggiatissimo, l’Avana e il Messico ove rimarrà fino al gennaio 1903 ; per tornarsene dipoi in Italia, col proposito di riprender nella lingua patria l’antico ruolo di brillante.

{p. 408}Ronzoni Antonia. Figlia di Luigi, detto il Gobbo, rammentatore, fu prima attrice di buon nome, poi capocomica sul finire del secolo xviii e nel primo ventennio del secolo xix. La vediamo l’autunno del 1795 al San Cassiano di Venezia, impresaria Marta Coleoni, e il 1813 nella Compagnia di Luigi Parrini, nella quale, il 1° maggio, invitò con versi sdruccioli il pubblico lucchese alla rappresentazione di suo beneficio, che fu Ferdinando II Granduca di Toscana alla Villeggiatura di Pratolino con Francesco Fagiuoli buffone di Corte. Coll’avanzar degli anni si diede al ruolo di madre.

Rosa Rinaldo. Sosteneva le parti di Pantalone nella Compagnia del Duca di Modena. Al governatore Claudio Ricci fu dato l’aprile del 1697 l’ordine ducale di arrestarlo, non è detto per qual motivo, in un con Giuseppe Sontra, Flaminio, quando fossero passati pel Po, diretti da Ferrara a Cremona ; ordine che il Ricci annunzia da Brescello in data del 21, di avere passato al Capitano del Brigantino.

Rosa Pietro. Veneziano, fu prima fattore di nobile famiglia di Venezia, poi mostrate chiare attitudini a sostener la Maschera del Pantalone, si scritturò a quel Teatro di San Luca, per sostituirvi il Rubini (V.). Fu artista di molto pregio, e Goldoni scrisse per lui il Tomio nel Torquato Tasso. Mise in iscena il 1765 una sua commedia, parte scritta, parte a soggetto, intitolata : Chi la fa l’aspetta, ossia I due fratelli veneziani perseguitati dalla calunnia e resi felici dalla magia, che « travagliata – dice Fr. Bartoli – con molto spirito, apportò del profitto alla comica Compagnia. » Uscito dal San Luca, si fece capocomico e passò in Terra ferma con Giustina Cavalieri e Vincenzo Bugani, percorrendo poi, quand’essi tornarono a Venezia con la Battaglia, il Tirolo e la Dalmazia. Diventò poi conduttore d’opere in musica, ma con poca fortuna ; chè il '79, s’incendiò il Teatro di Gorizia, del quale egli aveva l’impresa. Passò quindi nella Compagnia Pizzamiglio, recitandovi di nuovo sotto la maschera del Pantalone coll’antico successo.

{p. 409}Rosa Caterina. Figlia del precedente e moglie di Carlo Serramondi, Innamorato di buon nome, che dopo due mesi di vedovanza passò a seconde nozze con una figlia di Marco Fiorio veronese, fu educata dal padre nell’arte scenica, in cui divenne pregiata artista per le parti di serva. Dopo di aver recitato la primavera del 1779 in Genova, recavasi col marito a Verona, scritturati da Maddalena Battaglia, quando, presso Voghera, datisi i cavalli del legno alla fuga, ella vinta dalla paura, balzò a terra, fratturandosi una gamba, e lasciando quivi dopo alcuni giorni la vita. Il pietoso accidente ispirò a Fr. Bartoli, allora a Verona, un sonetto, andato perduto, e altro, abbastanza insulso, a certo Carlo Fidanza romano, rammentatore della Compagnia Battaglia, che il Bartoli riferisce.

In una lettera del 1764 da Parigi a Stefano Sciugliaga, il Goldoni, alludendo alla distribuzione delle tre Zelinde, e precisamente a Tognina, la cameriera di Barbara, dice che se la Catrolli non volesse fare la seconda serva che è nella seconda e nella terza commedia, « si potrebbe far supplire ad una ballerina, o alla figlia della signora Rosa. »

Rosa Angelo, veneziano, fu un egregio artista per le parti di primo amoroso, e un egregio capocomico, ora solo, ora in società. Lo vediamo il 1820 con Daniele Alberti, e il '21 con Belloni, prima attrice la moglie Gaetana. Di lui, allora, in entrambe le compagnie le Varietà teatrali inserirono poche parole di lode, dicendo « ch'ebbe il vantaggio di crearsi un metodo di recitare suo proprio, che piace e lo rende ben accetto presso il pubblico. »

Fu con la famiglia nella Compagnia Reale Sarda, dal '24 a tutto il '31.

Rosa Gaetana. Moglie del precedente, figlia di Innocente e Giovanna De Cesari, comici, e nipote della celebre Bazzi, fu egregia prima attrice, poi madre e caratteristica. Di lei, quand’era in Compagnia Belloni, le Varietà teatrali disser parole di {p. 410}lode. Fu anche traduttrice delle migliori produzioni francesi del suo tempo, e di esse si valse pel suo repertorio la Compagnia Reale Sarda. Del '46 la vediamo madre e direttrice della Compagnia di Balduini, suo nipote, assieme ai figli Giovannina e Salvatore ; del '47 madre della Compagnia dalmata, diretta da Luigi Capodaglio, con la figlia ed il genero ; e del '57, vecchia, a Ivrea con la Santoni. Del '59 ella scriveva da Ancona a Righetti a Torino, di aver trovato un onorato asilo in Ascoli, direttrice d’una Società filodrammatica, ma che sarebbe stata troppa fortuna per lei : e infatti la Società si sciolse….

Rosa Giovannina. Figlia dei precedenti, fu una ottima prima attrice per le commedie goldoniane e le sentimentali del teatro francese, che al suo tempo inondavan le scene, tradotte dalla madre Gaetana. Anche sostenne con molto plauso la tragedia e l’alto dramma ; e una bella litografia in foglio del Doyen di Torino (1840) la raffigura in costume di Pia ; ma per la piccolezza della statura, a lei certe parti eroiche non si convenivano. L'anno comico '57-'58 fu scritturata col marito Federico Bianchi, caratterista e promiscuo, nella Compagnia torinese, appendice della Reale Sarda, sotto la direzione di Gustavo Modena, per parti di seconda donna, madri serie e comiche, ed altre di generica primaria, con l’annuo stipendio (in coppia) di lire 5400, più due mezze serate. Datasi {p. 411}giovinetta alle fatiche di un ruolo primario, morì nel '58 a Torino, logorata dalla tisi, non ancor cinquantenne.

Rosa Salvatore. Fratello della precedente, fu brillante egregio ed egregio caratterista. Cominciò a recitar bambino colla famiglia, e giovinetto sosteneva già parti d’importanza, promettendo assai bene del suo avvenire artistico. Col soccorso degli elenchi, ho potuto ricostruire almeno in parte il suo stato di servizio. Brillante e capocomico il 1845-46 in Società con Balduini ; id. il '48 con Lipparini ; brillante il '53 con la Sadowski e Astolfi ; id. il '56 con Zamarini e soci ; id. il '58 con Robotti ; id. il '69 con Ernesto Rossi ; caratterista il '71 con Peracchi ; id. e copocomico il '72 in Società con Casilini e Biagi ; caratterista il '76-'77-'78 con Aliprandi ; id. l’ '83 con Cremonesi, quand’egli recitava al Cocomero di Firenze.

Del '46, Enrico Montazio, non sospetto certo di tenerezza verso i comici, così scrisse di lui nella Rivista :

Salvator Rosa ha sopra il Vergnano (recitava questi al Nuovo in Compagnia Pezzana) il vantaggio della voce, della persona, della età ; ambedue amano l’arte non da istrioni, ma da artisti ; ambedue pongono pari amore alle piccole parti, che a quella principale e di protagonista : e da ciò, a parer mio, si distingue sopratutto l’artista ragionevole e tenero, più che d’un trionfo a carico de'suoi compagni, della totale riuscita di un’azione drammatica. Sennonchè il Rosa gettasi pel campo dell’arte con tutto l’impeto giovanile, e talvolta per troppo amore di fare, strafà ; mentre Vergnano….. (V.).

L'incalzar degli anni accennava pur troppo a privarlo della vista, sì che dovette abbandonar l’arte, povero : e anche {p. 412}oggi vive, cieco e vecchio, a Forlì, soccorso di quando in quando dai pietosi compagni d’arte.

Rosaspina Carlo. Figlio di Cesare, che fu buon patriotto, mediocre attore e nipote del celebre incisore omonimo, nacque a Vercelli il 1854.

Recitava col padre nella Compagnia del Meneghino De Velo, a Pisa, quando, sentito dall’artista Gaspare Lavaggi, fu da lui scritturato primo attor giovine. Dopo un triennio passò nella Compagnia di Adelaide Tessero, in cui stette cinque anni, poi in quelle di Anna Pedretti e di Alamanno Morelli. Salì al grado di primo attore assoluto in Compagnia Favi, intitolata al nome di Bellotti-Bon, e tale si mantenne fino a oggi or con Cesare Rossi, or con la Duse, or con Luigi Rasi. Fu anche, un anno, capocomico, ma con poca fortuna. Carlo Rosaspina è artista di singolare intuizione ; e, quando voglia, sa dar vita a caratteri vari con giustezza di colorito, e con misura. Fu lungo tempo, ed è tuttavia, buon compagno di Eleonora Duse, a fianco della quale si fa specialmente apprezzare dai {p. 413}vari pubblici nostri e forastieri, sì nell’Armando della Signora dalle Camelie, sì nel Claudio della Moglie di Claudio, e nell’Obrey della Seconda Signora Tanqueray, e in altro. Nel '99, in Compagnia Rasi, creò fra tante al Filodrammatico di Milano, la parte di Henschel nel Vetturale Henschel di Gherardo Hauptmann, ottenendovi uno schietto e clamoroso trionfo per la grande vigoria, non discompagnata dalla più grande semplicità.

Al punto in cui scrivo, egli è additato come uno de' più forti sostenitori, se non il più forte dopo la Duse, della nuova tragedia d’annunziana Francesca da Rimini, nella quale incarna con molta efficacia e molta sobrietà il carattere di Gianciotto.

Rossi Bartolomeo. Comico veronese del secolo xvi, recitava gl’Innamorati sotto nome di Orazio, e trovavasi a Parigi il 1584, nel quale anno pubblicò pei tipi di Abell’Angelliero, una pastorale, Fiammella, che dedicò all’illustrissimo et eccellentissimo Principe, il signor Duca di Giojosa. Dall’avvertimento ai lettori si sa che, stampati i primi due o tre fogli, l’autore cadde gravemente infermo, e non potè curar l’edizione, riuscita da molte parti lacerata da grandissimi errori, che l’autore indica nell’ultima pagina. S'apre l’operetta con un sonetto francese di François de Beroalde au Seigneur Bartelemi Rossi Veronois sur sa Pastorale, e si chiude coi due seguenti d’incerto autore :

AL SIGNOR BARTOLOMEO ROSSI

comico dignissimo

Rosso, vero Theatro e Tempio e Choro,
doue canta, risplende, et doue siede
quella virtù, quel valor, quella fede,
con che andate facendo il secol d’oro.
Humili inchinan voi tutti coloro,
nei quali spirto di ragion si vede ;
et chi più v'alza al Ciel, chi più vi cede,
più di ciò che far dee serua il decoro.
{p. 414}Perchè non sol di Tullio organo sete,
d’Homero cetra, et di Parnaso ingegno,
fiato alla Fama, e ricordanza a Lethe ;
ma d’hoggi il dì non tien più egregio ingegno
di voi ; che al Ciel e agl’huomini vivete
non men d’honor, che di salute degno.

AL MEDESMO

Oratio, grazia di quel certo ingegno
che torre il Cielo a sè medesmo sole,
per darlo in sorte a chi più pote, e vole
dei miracoli suoi mostrar gran segno.
Fra i primi del poetico disegno
sapete accomodar le linee sole,
et col venusto stil de le parole,
colorir vivo ogni concetto degno.
La Maestà del compor vostro altero,
lodando il mondo, in suon chiaro, et profondo,
acquista fede al mio giuditio intero.
Primo a sè stesso, a null’altro secondo,
fia 'l vostro spirto, et ciò tener per vero,
è uffitio et degl’huomini, et del mondo.

Da questi quattro personaggi, così descritti :

Fiammella, ninfa, innamorata di Montano,

Ardelia, ninfa, compagna di Fiammella, innamorata di Titiro,

Titiro, pastore, innamorato di Fiammella,

Montano, pastore, compagno di Titiro, innamorato d’Ardelia,

si capisce subito l’intreccio della favola. A queste persone principali s’aggiungono un Famelico parasito e un Salvatico, e le maschere Bergamino, Pantalone, Graziano, che fan le maggiori buffonate del mondo ; poi figure allegoriche e soprannaturali : Eco, Tempo, Pazienza, Speranza, Aletto, Tisifone, Megera, Mercurio, Proteo, Giove, Plutone, {p. 415}Nettuno, che servono a empir di fantastico il quadro. Gran parte vi ha l’Eco, il quale comincia a farsi sentire in un lungo monologo di Pantalone al primo atto, tutto a bisticci :

La sorte s’urta, e fa che morte m’urta
se vago vuogo, e se sto fermo formo
affanni, e fanno che me liga e laga
la fina funa, che me strinze e stronza
e moro, e miro se con passi posso
far scherno e scorno, a chi mi tira in tara
le parche porche se le fila il filo
della mia vita, vota d’ogni degni
contenti………

e via di seguito per trentacinque versi, dopo i quali comincia una comica lotta di parole con l’Eco, che torna poi in scena, per dir così, con Titiro al secondo atto, e con Montano, poi con Graziano e Bergamino, e con Fiammella e Ardelia, al quarto.

Non ispregevole pastorale, non certo delle peggiori, è codesta Fiammella, in cui, oltre alla felicità dell’orditura, alla maestria della condotta, al fantastico di certe scene, sono versi abbastanza garbati come i seguenti che tolgo dalla scena undecima dell’atto quarto.

Dopo che Fiammella ha promesso a Titïro, se cessi dalla sua crudeltà, un vaso per attinger acqua, fatto

d’un teschio d’un uccello,
ch'in aria si nutrisce di rapina,
…………
e n’è intagliato con sottil lavoro
tutt’all’intorno d’ogni sorte uccelli,
…………

Ardelia dice :

E tu, Titiro mio, se mi compiaci,
ti vo' donar una bella ghirlanda
da verginelle mani ben contesta
di Rose, di Ligustri, e d’Amaranti,
con molte foglie d’Ellera e d’alloro,
{p. 416}nelle quali son scritte le mie pene,
e come fui per te d’amor trafitta,
con fregi che circondano le foglie
ch'in esse si comprendono il trionfo
del faretrato Dio, e di sua madre.
Quivi s’un carro, che di mille fiamme
è cinto, giace il perfido fanciullo
tirato da destrier candidi e forti,
e Citerea lo segue, ed è condotta
da l’amorose e lascive colombe,
co i pargoletti e le Grazie che vanno
scherzandoli d’intorno, dolcemente ;
e son cosi lascivamente fatti
ch'avrian forza spezzare ogni aspro core.
Accetta un dono tale e queste membra.

Titiro e Montano cedon finalmente a' preghi delle ninfe, e quello diviene sposo di Ardelia e questo di Fiammella, e le due coppie abbracciate si riducono alle lor capanne.

La licenza agli uditori, detta da Mercurio, è un’ esaltazione di Parigi,

dove soggiorna santa Religione,
candida Astrea, intatta e bianca fede,
d’un governo divin, d’un Rege santo,
circondato da Principi famosi,
che, per servizio fargli, al quinto Cielo.
andriano per levar il ferro a Marte,
pur che ciò fusse grato al suo Signore.
…………..

Interessante è il prologo della Pastorale, in cui favellano Prologo, Comedia, Virtù, Onore, Ignoranza. La Comedia non osa più mostrarsi in scena, perchè aborrita da gente neghittosa a cagion d’ignoranze, e chiamata dai più dotti infame. Ma la Virtù con una buona difesa de' comici, scaccia l’Ignoranza ; e la Comedia promettendo di rimanere alla Virtù e all’ Onore divotissima serva, si mostra sotto il nuovo Poema pastorale.

{p. 417}Ma d’assai più interessante per noi è il racconto che fa Bergamino di aver veduto una frotta di commedianti, di cui non tutti pur troppo fu sin qui possibile identificare (V. Armani, Zuccati, Lidia).

Rossi Pietro, veneziano, nato il 1719, cominciò a poco men che trent’anni a farsi conoscere nelle parti d’Innamorato in Compagnia di Francesco Berti, con cui stette alcun tempo, e di cui tolse in moglie la cognata Maddalena. Morto il Berti, egli lo sostituì nell’azienda della Compagnia, e s’acquistò in breve rinomanza di capocomico egregio. Fu il carnovale, per molti anni e fino al 1768, nel Teatro Obizzi di Padova.

Ebbe tre figliuoli addestrati alla scena, ma che gli moriron giovanissimi : una figlia, Anna, maritò a Luigi Perelli (V.). Il Rossi – a detta di Fr. Bartoli che appartenne alla sua Compagnia – era buon direttore, e buon attore ; e recitava assai bene le parti serio-facete, specie quella di negoziante Friport nella Scozzese di Goldoni. Egli ebbe certo in esso Bartoli un valido difensore dalle accuse del Piazza, che nel romanzo Il Teatro aveva dato di lui il seguente ritratto :

Era questi (il Capo) un veneziano grasso e bassotto, rosso di faccia, ma goffo e pesante, e d’un’ aria da spazzacammino piucchè da comico. Vantavasi di ben pronunziare il toscano, e convertiva la C in S, e diceva giogia per gioja, senz' accorgersi di fallare, cossa per cosa, Regasse per ragazze. Triviale quanto un facchino, aveva un’ ambizione invincibile per far da Eroe, e recitare nelle tragedie. Si metteva sull’elmo certe piume lunghe un braccio, tutte ritte e ammucchiate l’una sull’altra, che conoscer facevano la goffaggine del suo gusto. Carico di brillanti da Murano, una bottega parea da vetrajo, e dal mezzo in giù la figura faceva d’una piramide per i lunghi e mal posti fianchetti, che lo ristringevano in alto e dilatavansi in linea obliqua quasi sino alle calcagna. Quel guattero vestito alla eroica, recitava male com’era vestito. Non sapeva camminare, nè dove tener le mani, nè fare un gesto a dovere. Urlava quand’ era minaccioso, e parlava sberleffando con una voce crepata, quando pretendeva d’intenerire. Ostinato come un mulo nell’errore de' comici vecchi, voleva ancora fare le parti da giovine, e riputavasi il più necessario di quella Truppa, quando bastava che lo vedesse in iscena la Udienza, per replicare un oh ! derisorio, che persuaderlo dovea a non recitare mai più. Faceva il Sansone, e ultimamente nella Rossana so che fe' il Bajazet. Da una testa di questo calibro si può immaginare com’erano regolati bene gli affari….

Dopo il carnovale del '78, fatto prima al Comunale di Bologna, poi a Firenze, egli cedè la compagnia a suo genero (ne {p. 418}era prima donna Anna Lampredi (V.), e andò a ritirarsi con la moglie e due figlie a Cento, ove aprì una bottega di commestibili ed altro. Fr. Bartoli, che aveva la fregola del sonetto, ne dedicò uno anche a lui, quando si ritirò dalle scene.

Eccolo :

Rossi, sei lustri di Talia seguace
al teatro vivesti, e Duce esperto
di comici faceti, e d’alto merto
le vie d’Italia trascorresti audace !
Sorte t’arrise ; ed oggi brami in pace
finir tuoi dì sotto Destin più certo,
lasciando un’arte, il di cui frutto incerto
potrìa fortuna a te render fugace.
Saggio Consiglio. Alle tue mire ardenti
sacro nume immortale appresti aita
e i tuoi desiri alfin fausto contenti.
Nell’imminente tua fatal partita
pianga la figlia, il genero sgomenti,
non dei restar, s’altrove il Ciel t’invita.

Rossi Maddalena. Moglie del precedente, e sorella maggiore di Anna Roffi e Caterina Berti, nacque a Vicenza il 1727. Fu sempre, moglie esemplare, nella Compagnia del marito, col quale si allontanò dall’arte. Stabilitasi a Cento, vi fu, dopo un anno, colpita d’apoplessia, e morì a'primi di giugno del’79. Ebbe figliuoli che « allevò – dice il Bartoli – con amore, ed ai quali diede un’ onesta educazione, essendo ella molto religiosa e buonissima cristiana. » Fu, come artista, egregia nel ruolo della serva, e specialmente nelle comedie all’improvviso, in cui recitava con molto spirito e molta prontezza.

Nè essa fu risparmiata dalla freccia velenosa del Piazza che la chiamò vecchia sdentata, che fischiava in luogo di parlare, buona forse trent anni prima, ma che allora, non si poteva soffrire.

Rossi Felicita, livornese. « Fu impiegata nel carattere della serva per molti anni nel Teatro a San Luca. Travagliò {p. 419}con dello spirito, della grazia, e fu nelle cose dell’arte molto bene instrutta. Fece degli avanzi col guadagno della pro[ILLISIBLE]sione. Alienossi poi dall’arte, e visse comodamente in Venezia senza più recitare ; ed in età avanzata morì in quella Dominante l’anno 1755, lasciando a'suoi parenti qualche considerabile facoltà. » Così Fr. Bartoli.

Rossi Andrea. Uno dei tanti Arlecchini del secolo xviii. Fu nelle Compagnie minori di Maria Grandi, di Vincenzo Bazzigotti, di Costanzo Pizzamiglio, ecc., e viveva ancora del 1782. Scrisse anche in versi martelliani, e pubblicò a Reggio…. una rappresentazione intitolata La Giuditta, che dedicò alle Dame e ai Cavalieri di quella città ; e una commedia in prosa di due atti, a Gorizia il 1780, intitolata La Costanza in Cimento, che dedicò con lettera in versi sciolti alla Contessa Teresa Della Pace. Dice il Bartoli ch' egli aveva perduto la vista ; ma che poi, ricuperatala completamente, riapparve sulla scena, ove si ebbe il maggior favore del pubblico, sebbene di avanzata età.

Rossi Mario Eugenio. Nato il 22 maggio 1826 a Vercelli da Bernardo Rossi, ex-tenente d’artiglieria e da Teresa Monticelli, fu, morto il padre nel '34, condotto a Torino, dove conobbe il Gottardi, primo attore della R. Compagnia Sarda, stretto parente di sua madre. Conosciuti col suo mezzo la Robotti, Tessero, Bucciotti, doventò in poco tempo creatura del palcoscenico ; e tanto lo prese amor dell’arte, che una bella notte, di nascosto della madre e del fratello maggiore, fuggì di casa per andare ad aggregarsi a una compagnia, che recitava a {p. 420}Dronero in una sala dell’ospedale ; e colla quale frequentò per oltre un anno teatri talvolta di quello assai peggiori. Voltasi la madre alla polizia, egli dovette un po' colle buone, un po' colle minaccie, tornarsene a Torino, ove, stretta amicizia dopo molto tempo con Giacomo Brizzi, tornò più acceso di prima agli antichi amori ; e nel '52 fu iscritto fra i giovani volenterosi che Gustavo Modena riunì a Savigliano per un giro artistico nel Piemonte. Passò da Savigliano a Nizza, poi ad Alba, poi, per mancanza di pubblico, la Compagnia si sciolse. Formò allora Società con Toselli per assai breve tempo ; indi si scritturò con Lorenzo Marazzi, di cui sposò la figlia. Fu socio, in vario tempo, di Pascali, Cardarelli, Bovi, Papadopoli, Piccinini, Ferrante, Andreani : poi pensò di fare da sè ; e scioltasi la Compagnia Monti e Preda, egli subentrò al Santa Radegonda con un contratto che durò otto anni, e fu la sua risorsa. Mise, primo, in iscena i Vaudevilles col soccorso del maestro Casiraghi, si unì allo Scalvini per la Rivista Se sa minga, e spese diciotto mila lire per l’allestimento scenico a Milano della Creazione d’Eva di Castelvecchio, la quale cadde per non rialzarsi mai più. S'unì allora a Pratesi e formò compagnia di Prosa e Ballo per un quadriennio. L'operosità, oserei dir mostruosa, di Rossi Mario arrivò a questo : egli ebbe in un’epoca a Genova quattro teatri : Le Peschiere, il Politeama, l’Apollo, e il Teatro di Sestri Ponente. Bene : con lo stesso personale, senza segretarj, nè amministratori, faceva quattro recite al giorno. S'unì poi a una Eccentricità Fenomenale per desiderio di veder l’Europa ; e fu in Francia, nel Belgio, in Olanda, in Austria, in Germania, in Inghilterra, in Russia. Ritiratosi finalmente a Genova, per godervi in pace il frutto de' suoi guadagni, fu vittima della sua buona fede, e dovette recarsi in Grecia, dov'egli aveva una figlia maritata, e dove sperò inutilmente scovare colui che l’aveva rovinato. Da dodici anni egli vive a Zante, mantenuto da'suoi figli, alimentato dalla speranza di venire a morir nella terra, che lo vide nascere.

{p. 421}Rossi Ernesto. Non so se a me, che non ebbi la sorte di sentirlo nella sua grande opera d’interpretazione e di riproduzione al culmine della gloria, sarà dato tracciar la figura grande, geniale, e nella genialità disordinata, dell’artista, che nell’ultimo cinquantennio, con Adelaide Ristori e Tommaso {p. 422}Salvini, tenne lo scettro dell’arte in Italia e a traverso il mondo intero. E per noi, e per gli ascoltatori di tutto il mondo, fu gran ventura ch'egli tanto si staccasse nel sistema e nell’indole dal suo gloriosissimo collega, da formare un tutto a sè. Non molto puro di linee, fu molto vario e spontaneo ; ma nella spontaneità talvolta esuberante con islanci geniali e inattesi, che, presi fuor di misura, oltrepassavano il confine. Se mi fosse lecita una comparazione, direi che Ernesto Rossi, romantico per eccellenza, fu nell’arte dell’attore quel che fu Vittore Hugo nell’arte dello scrittore : ebbe forza e bellezza grandissime, ma, più volte, di seicento.

Anima ribelle se ce ne fu mai, aveva la ribellione acquistata in una sicurezza piena e recisa di sè. Amava svisceratamente l’arte e sè stesso…. E non sappiamo quale dei due più : forse sè stesso ! Certo egli credette che l’arte dovesse molto a lui, non ch'egli dovesse molto all’arte…. Di tal guisa egli si mostrò nella vita un po' sempre personaggio di commedia, e nelle sue grandi interpretazioni un po'sempre Ernesto Rossi. Qualunque opera da lui architettata doveva essere legge per tutti. Da niuno avversata era forse lasciata a mezzo ; ma se taluno avesse osato esser pietra d’inciampo al suo cammino, egli, solennemente e paternamente mite coi devoti, sarebbe stato per quello capace di odio vatiniano.

Nè cotal senso di sovranità baldanzosa era difficile perdonargli, siccome quello derivato in lui dal piedistallo di gloria, in cui lo avevan posto per trenta e più anni monarchi e principi e uomini prestantissimi nelle arti, nelle scienze, nelle lettere, di ogni paese. E ne parlava sovente : troppo forse ; ma ne'suoi racconti di confidenze sovrane, di accoglienze incredibili, che gli piaceva tenere con tuono magniloquente, era la vera verità…. E i piccoli che mal patiscono l’altrui grandezza, se ne vendicavan chiamandola millanteria. Talvolta il fumo dell’incenso l’acciecò, e allora egli pensò di essere un po'di tutto : maestro di musica, scrittore drammatico, letterato, scienziato, riformatore di scuole, politico sopr' a tutto : sedere in Parlamento fu un {p. 423}de'sogni più grandi che non potè tradurre in fatto. Serbò fin all’ultimo forza ferrea di volontà e fibra giovanissima. Vagheggiò la morte su la scena fra lo splendore dei lumi, il fragor degli applausi, come quella d’un generale sul campo di battaglia : il fato che gli fu prodigo di tante dolcezze, gli serbò la più amara delle delusioni : su la grande arte sua, in mezzo agli urli della folla esaltata, al teatro di Odessa, calò il sipario per sempre ; e abbandonato, forse già dimenticato, il grand’uomo nella piccola Pescara esalò l’ultimo respiro alle 11,45 del 4 giugno 1896.

Era nato a Livorno il 27 marzo del 1827 da Giuseppe Rossi, già ufficiale di Napoleone, poi negoziante in legname, e da Teresa Tellini.

Il padre voleva farne un avvocato, ma egli, che già da bimbo aveva mostrato un amor grande al teatro, a una recita dell’Oreste di V. Alfieri data da G. Modena tanto s’infiammò, che risolse di abbracciar l’arte del comico. In una assenza del padre da Livorno, potè sostituir senza infamia nel Ventaglio di Goldoni (Barone) e nella Francesca da Rimini di Silvio Pellico (Paolo) un attore della Compagnia Calloud…. Ma il padre, saputa la cosa, per poco non maledì il figliuolo, che vinto dall’autorità paterna, piegò il capo, con promessa di riprender gli studj. Ohimè ! L'amor della scena fu più forte di ogni contrario proponimento ; e un bel giorno, poco avanti il carnovale del 1846, di nascosto del babbo, ma col tacito consenso del nonno e della mamma, partì da Livorno per andare a raggiungere a Foiano una compagnietta delle infime, alle cui recite si soleva dare come biglietto d’ingresso frutta, salsiccie, e vino ; e in cui la paga degli attori variava dalle due alle quattro crazie al giorno. Per fortuna la quaresima veniente, egli entrò in {p. 424}Compagnia Calloud, Fusarini e Marchi ed esordì al Pantera di Lucca con la Fedeltà alla prova, facendosi notare subito per la dizione garbata e spontanea, non che per una papera colossale. Il settembre di quell’anno s’unì alla Compagnia nel Teatro Sant’Agostino di Genova G. Modena, che fu pel Rossi una grande rivelazione d’arte. Passò a mezzo il '48 col Meneghino Moncalvo, e il '49 formò Compagnia con Giovanni Leigheb. Il '52 sposò la signorina Pellegrini di Mantova, ed entrò nella Compagnia Reale Sarda.

Qui bisogna io mi fermi alquanto per l’importanza della scrittura e degli avvenimenti.

Egli fu scritturato per un anno, primo attore a vicenda con Giuseppe Peracchi (V.), con l’annua paga di lire 5500, più tre mezze serate. A evitare conflitti o semplici malumori fra' due artisti, fu convenuta la seguente divisione di repertorio, da loro e dal direttore Domenico Righetti accettata e sottoscritta :


Parti di spettanza del signor Rossi Parti di spettanza del signor Peracchi
Caterina Howard Avviso alle mogli
Cittadino di Gand Arturo
Cola di Rienzo Bruno filatore
Calunnia Bastardo di Carlo V
Conte Hermann Battaglia di donne
Clotilde di Valery Don Cesare di Bazan
Duello al tempo di Richelieu Duchessa e Paggio
È pazza Dramma in famiglia
Francesca da Rimini (Lanciotto) Elemosina d’un napoleon d’oro
Fornaretto Guanto e Ventaglio
Foscari Innamorati
Luisa Strozzi Mac Allan
Maria Stuarda Maria Giovanna
Marchese Ciabattino Presto o tardi
Proscritto Ricco e povero
Riccardo D'Harlington Ruy Blas
Segreto Fortuna in prigione
Signora di S.t Tropez Tutrice
Stifelius
Sorella del Cieco
Tre passioni

{p. 425}Mentre il Peracchi, come s’è visto al suo nome, scongiurava il Righetti perchè lo sciogliesse dal contratto, per non trovarsi con Ernesto Rossi che gli aveva mancato di fede, il Rossi in data 17 settembre 1851, scongiurava il Righetti allo stesso intento :

….. io ora vengo quasi ginocchioni a pregarti, a supplicarti per quanto hai di più sacro e caro su questa Terra, tanto pel mio interesse e per la mia quiete, quanto pel tuo riposo, a volere presentare questa lettera alla nobile Direzione, fare conoscere l’immensi danni che potrebbero avvenire tenendo due primi attori, non più amici fra loro, ma bensì accaniti nemici, il poco studio delle parti, le continue dispute, l’odio implacabile nel piacere più l’uno che l’altro, e forse, forse tante e tante altre dimostrazioni, che arrecherebbero anche l’intiero disgusto del Pubblico….

Dopo le quali ragioni, egli si crede in diritto o meglio in dovere, di passare alle minaccie, in caso di risposta negativa :

….. Se poi tu mi avessi a rispondere un No, assicurati che ne sarei così colpito ed irritato, che adesso non so spiegarti a che potrei giungere per non venire ad adempiere il mio contratto ; e ne avverrebbe allora, che tu maggiormente irritato mi obbligheresti con forza armata a venire a Torino, e là incominciare una guerra, una guerra implacabile !…

Ma pare che il Righetti gli scrivesse al proposito di tali minaccie una lettera di buon inchiostro, perchè Rossi, il 12 ottobre '51, da Mantova, venuto a più miti consigli, gli dichiara che la loro amicizia non deve venir meno per sì piccola bazzecola, e, naturalmente, non si parla mai più di scioglimento. Ma il Righetti non se ne contenta troppo, e torna all’assalto con una fiera lettera, che suggerisce al Rossi uno squarcio da personaggio di dramma lagrimoso :

….. Io sarò intrepido, sarò forte contro all’invidia e alla tua inimicizia, e mi lagnerò sol quando mi farai vedere che questa sia cessata ; sono avvezzo a vedermi trattar male, e sconoscere gli affetti del mio cuore, ma ho tanta superbia, tanto orgoglio, e forza per calpestare la serpe che mi morde.

{p. 426}E più giù :

Sarò docile, mansueto, e piuttosto che venir teco un’ altra volta in parole mi assoggetterò anche quando tu il credessi a fare il Trovarobe ; non posso più continuare, sono talmente arrabbiato, che mi trema la mano, la bile si converte in pianto, in pianto perchè non posso ora sfogarmi quanto desidera lo sdegno. Addio, che il Cielo non ti dia mai una giornata simile a questa che mi fai passare. Ancora una cosa io voleva dirti : Se credi che la mia abilità non sia tale da meritarmi la paga che tu mi hai accordata, fai pure quelle restrizioni che vuoi : riducila a quella del tuo Macchinista : mi sarà più di contento che il sentirmela a rimproverare….

E il Rossi andò in compagnia, e mali umori certo ce ne furono, e invidie, e armeggii nascosti, come si può vedere da questo bigliettino anonimo del 5 maggio 1852 :

Egregio Signore,

Si esorta il signor Direttore della Real Compagnia a non voler più oltre defraudar le parti dovute all’ Esimio attore Giuseppe Peracchi col sostituirle all’attore Ernesto Rossi ; onde evitare qualsiasi disordine che in Teatro ne potrebbe nascere.

Parecchi abbonati.

Da qual parte fosse maggior lealtà di combattimento non saprei dire ; forse uguale in entrambi ; ma il Peracchi uscì di compagnia l’anno veniente, e il Rossi vi fu riconfermato per {p. 427}un triennio, assoluto e solo, con cento lire di aumento pel primo anno, e 1400 e una mezza serata per ciascheduno degli altri due, più un regalo di lire mille per una sol volta.

Ammalatosi il Pieri nel '53, egli dovette sostituirlo per tre mesi, recitando tragedie, drammi, commedie, e farse al fianco della Cutini, acquistando nella gran varietà de' personaggi, quella elasticità di dizione e d’interpretazione che doveva condurlo a gran passi alla celebrità. Fu a Parigi a fianco della Ristori e di Bellotti-Bon, e il '55 vi ebbe ottimo successo. Tornata la Compagnia in Italia, non ostante gli entusiasmi sollevati, non riuscì a revocar l’abolizione del regalo governativo di 25000 lire, e si sciolse ; e Rossi, dopo di aver fatto parte con alcune recite straordinarie della Compagnia Asti, pensò bene di tornare al Capocomicato, e scritturò Laura Bon, Celestina De-Martini, le Ferroni, madre e figlia, la Job, la figlia di Gaetano Gattinelli ; poi Raimondi, Benedetti, De-Martini, Cesare Rossi ; e la Compagnia, tranne pochi mutamenti d’anno in anno, andò avanti per quattro anni, recitando anche a Vienna, ove Rossi ebbe il più grande de' successi.

{p. 428}Tornò in Italia, festeggiatissimo ; riposò un anno, poi si scritturò attore-direttore per un biennio con Cesare Dondini ('62-'63), al fianco, prima di Anna Pedretti, poi ('63-'64) di Giacinta Pezzana ; poi formò società con Giuseppe Trivelli, nella quale percepiva una paga annua fissa, e la metà degli utili.

Le donne eran rappresentate dalle signore Matilde Pompili-Trivelli, Elvira Pasquali, Augusta Giansana, Angela Botteghini, Luigia Vestri, ecc., ecc., e gli uomini dai signori Leopoldo Orlandini, Luciano Cuniberti, Giacomo Brizzi, Giuseppe Trivelli, Leopoldo Vestri, Filippo Parducci, Carlo Perrucchetti, ecc., ecc. Morto il Trivelli, Rossi lo sostituì con Salvator Rosa ; se ne accollò i debiti, continuò l’azienda, assoluto e solo padrone.

Segretario della Compagnia fu il Brizzi che restò con Ernesto Rossi ventitrè anni, cassiere il Perrucchetti, che restò venti.

Fu il '66 in Francia e in Ispagna ; si stabilì il '67 a Napoli, ove gli affari andarono alla peggio ; e avrebbe certo dato fondo a ogni avere messo assieme con tanti sudori, se il buon genio della cassetta non gli avesse suggerito di comporre una specie di satira in tre atti con musica — Colpe e Speranze — che andò in iscena il 25 dicembre, e piacque a segno da non lasciare un sol giorno il cartellone per tutto quel carnovale. Tornò il '68 in Francia e in Ispagna, e toccò il Portogallo. Fu il '71 e '72 nell’America del Sud, il '73 e '74 in Austria, Ungheria e Germania, il '75 di bel nuovo a Parigi, poi nel Belgio e nell’Olanda, il '78-'79-'81 in Russia, in Romania, in Austria e in Egitto, quindi ancora nell’America del Sud, dove ottenne un clamoroso successo col Nerone di Pietro Cossa ; l’ '83 nell’America del Nord sino a San Francisco di California, e poi qui, e poi là, un po'dappertutto all’estero e in patria, ove dava di quando in quando recite straordinarie. Ma se il sopravvenir degli anni gli andava scemando, naturalmente, il vigore fisico (un’ affezione cardiaca lo tormentava da tempo), gli accresceva {p. 429}direi quasi quello morale…. sicchè a quasi settant’anni, capocomico e direttore, si mise in viaggio per la Russia, ove trovò le stesse accoglienze del tempo addietro ; e donde, nel ritorno, a Pescara, lasciò miseramente la vita, quasi d’improvviso. Trasportata la salma a Firenze, ebbe quivi funerali sovrani, e si fecer ne'principali teatri d’Italia solenni commemorazioni. A Roma, al Costanzi, a iniziativa e profitto della Società di Previdenza degli artisti drammatici, fu data una grande rappresentazione, in cui preser parte la Ristori, Salvini, la Marini, la Marchi : Enrico Panzacchi vi tenne la conferenza commemorativa.

Dire degli onori toccati a Ernesto Rossi nel corso della sua vita artistica non è possibile : basti, ad averne una pallida idea, guardare al museo magnifico dei regali, venutigli da sovrani, da artisti, da poeti.

I più grandi pittori e scultori francesi di oggidì hanno schizzi e firme e indirizzi in un album donatogli quand’eran scolari dell’Accademia di Belle Arti…. Dettaron biografie fra gli altri Enrico Brizio e Pier Ambrogio Curti…. Edmondo De Amicis gli dedicò un magnifico studio per la recitazione del Canto de' Serpenti di Dante, e Sully Prudhomme gli dedicò il seguente sonetto :

A ERNESTO ROSSI

Quand le monde réel m’est un trop lourd fardeau,
Je voudrais bien m’en faire un autre à mon usage ;
Et, comme toi, muant mon âme et mon visage,
Devenir un autre homme au lever du rideau ;
Agiter, tout un soir, plus fort, plus grand, plus beau,
Le fantôme évoqué d’un héros et d’un âge,
Dussé-je, aveuglement fidèle au personnage,
Le rideau descendu, le suivre en son tombeau.
Je ne le puis. Jamais le rôle que je rêve,
Dans l’espace où l’on marche et parle, ne s’achève,
Et l’espace où l’on rêve est si près du néant !
{p. 430}Par tes créations, tu vis plus d’une vie,
Mais moi je n’en ai qu’une et l’epuise en créant.
C'est pourquoi le poète, en t’admirant, t’envie.
Sully Prudhomme.

Non ho, come ho detto da principio, avuto la sorte di sentire Ernesto Rossi al culmine della sua gloria : l’ho sentito quando io era troppo giovine per poter giudicare dell’ opera sua, e quando egli era troppo vecchio, perchè potessi farmi un’idea chiara della grandezza passata : certo l’una volta e l’altra ebbi nell’animo impressione profonda. Allora, al Comunale di Ravenna (primavera del '64), recitava Le gelosie di Lindoro ; e mi par di vederlo ancora lasciarsi mettere un gran mantellone dalla moglie, prima di partire, e minacciarla dietro le spalle col pugno serrato, mentre in faccia si sforzava di sorriderle. Che vena di comicità !…

L'udii vecchio, a Firenze, nell’Amleto : un colosso ! Shakspeare mi apparve in tutta la sua grandezza : Amleto con Ernesto Rossi era un poema vasto, smisurato, quale non aveva mai visto, nè vidi poi.

L'analisi ch'egli fa in un suo studio della tragedia shakspeariana, è minuta e acuta, e dà prove non dubbie dell’amore e della tenacia con cui s’era venuto facendo il suo personaggio, carne della sua carne, anima dell’anima sua. Ma non poteva tale studio bastare a far di lui un grande e celebrato artista. Il buon predicatore, com’ è avvenuto in ogni epoca d’arte, avrebbe potuto razzolar male. Invece egli la profondità dell’analisi a tavolino, teorica, sposò con una siffatta grandezza pratica di commediante, da riuscire artista gigantesco nel vero senso della parola.

Una delle scene che più mi ferì fu quella del teatro, quando il Re, veduto versar nell’orecchio del Re del dramma il veleno, alle parole di Amleto : Lo avvelena per carpirgli lo Stato. Vedremo come l’assassino si cattiva l’amore della moglie dell’ ucciso, si alza turbatissimo e si avvia frettoloso alla porta {p. 431}d’uscita. Mi par di vederlo, Ernesto Rossi, come inchiodato davanti al Re, indietreggiare, man mano ch'egli avanza, fissandolo negli occhi, scrutando quel suo turbamento…. Grande, colossale, geniale trovata, resa dall’artista in maniera ineffabile !…

Anche ebbi campo di ammirare profondamente la grandezza di Rossi come direttore sia nel Giulio Cesare, pur di Shakspeare, da lui novamente tradotto, in cui una sera fu Antonio, un’altra Bruto, sia nella Mandragola del Machiavelli, nella quale trovò effetti inattesi, meravigliosi, presentando in modo più che degno, attori men che mediocri.

Ernesto Rossi, come altri grandi artisti, fu solleticato dalla vanità di scrittore, e oltre alla traduzione del Giulio Cesare e agli studi shakspeariani (Firenze, Le Monnier, 1885), e a varie commedie, tra cui, non delle peggio, Adele, pubblicò un’operone di ricordi in tre volumi : Quarant’anni di Vita Artistica (Firenze, Niccolai, 1887), che la critica in genere condannò, e il pubblico dimenticò per le troppe inutili cose discorse concernenti più l’autore che l’arte. Io, schiettamente, passato sopra alla sciattezza della lingua e dello stile, e alla piccola vanagloria che emergon da tutta l’opera, ho trovato e trovo codeste pagine (del primo volume specialmente) un preziosissimo contributo alla storia del nostro teatro del secolo xix, specie per la dovizia degli aneddoti di ogni genere e pei giudizi chiari e precisi di tutti gli artisti, e non furon pochi, i quali militaron con lui.

{p. 432}

Rossi Cesare. Da una memoria, scritta a posta per me, del figliuolo avvocato Alessandro, riferisco le notizie dei primi anni di sua vita :

Il povero papà è nato a Fano alli 19 novembre 1829 da Nicola Rossi e Caterina Lombardi, loro decimo figlio. Fece gli studi elementari e di rettorica nel Collegio dei Gesuiti, che allora tenevano il monopolio della istruzione pubblica e privata in queste nostre provincie, e fino da fanciullo, così raccontano i fratelli, diede prova di ingegno pronto ed aperto.

Nelle ore libere dalla scuola, poichè il padre Nicola era un appassionato filodrammatico, e in casa vi era un teatrino per i divertimenti di carnevale, Cesare coi fratelli e le sorelle, tutti filodrammatici impenitenti, metteva in iscena le commediole onorate dall’admittitur della Curia, e nella stagione migliore con i fratelli Vincenzo e Giovanni teneva le sfide al pallone col soprannome di : I fratelli Orasi. Ma benchè uomo Nicola non ci credesse, i tempi cominciavano a mutarsi, e gli Orazi un bel giorno capirono che vi era di meglio a fare che storpiare Cicerone e giuocare alla palla.

Giunsero a Fano le prime voci dei moti di Lombardia e del Veneto, si formò segretamente una compagnia di volontari organizzata dal conte Annibale di Montevecchio, figlio di quel Giulio che fu amico del Foscolo, e i fratelli Rossi, fra i quali era mio padre, scapparono da Fano per recarsi a Vicenza.

Mio padre prese parte alla difesa di Vicenza ; e dopo l’eroico e sventurato assedio, fatta l’onorevole capitolazione, ritornò coi suoi compagni in patria. Qui questi giovani non soffrirono di stare colle mani in mano mentre altrove si levavano ancora le armi ; un gruppo si recò in Ancona a pettinare gli Austriaci, ed un altro andò a Roma ove Garibaldi e Rosselli suonavano a martello. Mio padre fu incorporato nella legione Masi e prese parte alla pugna del Casino dei Quattro Venti ed a quella di Porta San Pancrazio. Al Casino dei Quattro Venti gli cadde a lato il fratello Giovanni colpito da una palla che gli trapassò la gola.

Caduta nel sangue la Repubblica Romana, mio padre ritornò a casa, ma ormai non era più tempo di riprendere in mano il De Amicitia, e la vita a Fano era diventata per lui impossibile, essendo spiato notte e giorno dai Barbacani e Caccialepre, chiuso l’adito ad ogni impiego, sospettato di eresia e scomunicato.

Che fare ?

Era di passaggio una Compagnia di comici, la Compagnia comico-mimo-acrobatica del Paladini, padre dell’attuale Celeste Paladini-Andò.

Mio padre aveva fatto conoscenza con quei comici, palesò i propri guai al capocomico. Breve : con un vecchio soprabito color Nanchino regalatogli dal fratello Sergio, una giacca marrone del babbo, e qualche fazzoletto della mamma, uno di questi fazzoletti fu sempre portato nell’ ultimo atto della Gerla di papà Martin, mio padre scappò ancora di casa e cominciò la sua peregrinazione artistica per l’Italia.

La Compagnia era divisa in due parti : una di mimi-acrobatici, l’altra di comici. Questi rappresentavano le commediole prima e dopo la pantomina. Il Paladini era un agile Arlecchino, e la Celestina, me lo ricordò sovente il povero papà, essendo allora una bambinella molto carina, faceva l’Angiolo liberatore. Papà si rammentava dello spavento avuto una sera quando si ruppe il congegno, e l’Angiolo restò a mezz'aria. Così accadde anche {p. 433}a me, molti anni dopo, quando facevo il bambino nella Preghiera dei naufraghi, e mi pare di vedere ancora il povero Bellotti, che doveva essere affogato sotto una tela in tempesta, scappar fuori e gridarmi a braccia aperte : Sandrino buttati giù ! mentre mio padre figurandosi che io corressi un gran pericolo si struggeva. Ciò mi ricorda un altro aneddoto mio. Tu sai che il povero papà piangeva davvero sulla scena, e faceva dei goccioloni strazianti. Una sera negli Spazzacamini della Valle d’Aosta del Sabatini, al Gerbino di Torino, io ero Gino e papà il nonno. Nella famosa scena del ritrovamento, mio padre mi prese in braccio con tale commozione, che io vedendo mio padre piangere tanto furiosamente mi misi a urlare e a piangere anch'io in modo così inconsolabile, che per farmi capire la ragione, non valse che mio padre si ricomponesse, si mettesse a ridere, fra le risate del colto e dell’inclita, ma si dovette calare la tela, e non pensarci più.

Nell’anno 1853 mio padre, dopo essere stato con le Compagnie Calamai e con quella del Tassoni si trovava in Corsica in Compagnia Coltellini (la De Medici prima attrice, Pescatori, suo marito, primo attore). In quell’anno si uni in matrimonio con Carolina De Medici nipote della Pescatori attrice della Compagnia, la quale poverina morì dando alla luce mio fratello.

{p. 434}Ma quegli anni erano stati troppo tristi e dolorosi per il giovane comico. Egli sosteneva il ruolo di amoroso, che con quella voce e con quel naso, non era proprio fatto per conciliargli la benevolenza del pubblico. I fischi erano stati più assai degli applausi, e questi per quanto scarsi erano stati più assai dei guadagni.

Alla fine di quell’anno, stanco, sfiduciato, povero, ammalato, desolato per la morte della moglie, mio padre decise di dare un addio alle scene, e col figliuolo in braccio, ritornò a Fano, ove la madre Caterina aveva già ottenuto il perdono del marito per quel figlio che ritornava da lontano, avendo fatto il viaggio più a piedi che in diligenza, e portando tutto il suo bagaglio, dentro una calsetta.

A Fano lo colse una febbre violenta, causata dai disagi patiti, e la convalescenza fu lunga. Guarito, pareva che egli avesse perduto la gioventù ed il buon umore. I tempi erano tristi. A motivo dei figliuoli liberali, il padre Nicola era stato allontanato dall’impiego, gli amici erano stati parte esiliati, parte arruolati in Piemonte, qualcuno anche nelle carceri di Sua Santità, come il cugino Getulio Lombardi, che scontava nell’ergastolo, e ci stette dieci anni, una ribellione contro una pattuglia di papalini. La malinconia prese il mio povero papà, ed il dottor Claudio Tommasoni, quello stesso che tenne a battesimo Claudio Leigheb, lo consigliò di ritornare al teatro, se non voleva languire di nostalgia.

Nell’inverno di quell’anno 1855 mio padre lasciò per la terza volta la propria casa, e fu scritturato in Compagnia del Calamai ; però siccome i precedenti insuccessi lo avevano persuaso, così lasciò le parti di amoroso e prese il ruolo di brillante.

Anche quell’anno 1855 non fu lieto. Lo stipendio era meschino e l’impegno di vestiario assai costoso. A Firenze mio padre, me lo ricordano spesso, dovette fare un debito di 300 svanziche con un sarto, e per pagare quel debito, avendo avuto dal fratello Sergio un sussidio di sessanta papetti, dovette vivere un mese mangiando pane e mele sotto la loggia degli Uffizi, e bevendo il vino del Biancone in piazza della Signoria.

Non è a dire però che la volontà di studiare, di fare, di togliersi col proprio ingegno da quelle angustie venisse meno in lui. Dotato di una fibra d’acciaio, sempre di buon umore, gioviale, ardito, coraggioso, sentiva in sè l’avvenire, vedeva la mèta e lottava per raggiungerla.

Già cominciava il suo nome ad essere conosciuto nella cerchia limitata dei comici, già qualche successo aveva sorriso. In una farsa : Le disgrasie di un bel giovane, egli era applauditissimo.

Nell’anno successivo il 1856, mio padre passò, sempre come brillante in Compagnia Asti, prima attrice Alfonsina Aliprandi, primo attore Giovanni Aliprandi, generico primario Salvatore Benedetti, la Vergani madre nobile, Vergani mezzo carattere, Bordiga amoroso. In quell’anno sposò mia madre Giuseppina Rocchi, nipote di quella Antonietta Rocchi, milanese, che era stata guidata sulle scene dalla Tarandelli antica prima attrice, e fu moglie del Robotti ; ed era allora prima attrice della Compagnia Reale-Sarda, attrice di merito non comune.

A Torino la Compagnia Asti si aggregò Ernesto Rossi, che poi la segui a Vercelli e, il carnevale, a Milano al Teatro Re.

Per mio padre quella stagione del Teatro Re era la prova del fuoco, e puoi immaginare con quanto zelo egli si mettesse all’opera. Ma pur troppo anche allora i suoi sforzi non furono fortunati, ed il pubblico rimaneva indifferente ai suoi lazzi ed alla sua parlantina. Il Coltellini per incoraggiarlo dopo poche recite mise sul cartellone : Le disgrasie di un bel giovane, e mio padre si tenne sicuro di scuotere finalmente l’indifferenza del pubblico. Quale delusione !

Nella scena culminante, quella dell’andata via colla giacchetta rovesciata, la platea scoppiò in una fischiata così unanime e clamorosa da farla credere tramutata in un cantiere di locomotive.

{p. 435}Papà se ne ammalò e per più giorni non escì di casa, egli credeva di essere rovinato, aveva perduto ogni fiducia in sè stesso e già pensava ad un secondo addio, quando una mattina Ernesto Rossi andò a trovarlo a casa, lo incoraggiò, lo rianimò e lo persuase di ritornare al Teatro. Ritornare al Teatro Re ?

Ripresentarsi innanzi a quel pubblico feroce ? Era presto detto, ma come averne il tupè dopo quel ciclone, e specialmente dopo avere esaurito tutti i propri cavalli di battaglia ?

L'eloquenza di Ernesto Rossi e la sua autorità furono fortunatamente più forti delle paure del giovane deluso, e fu deciso che la sera dopo egli sarebbe ripresentato nella farsa : A tamburo battente. Una farsa che mio padre non aveva studiato, che non aveva visto fare da nessuno, nella quale non aveva sgambetto, nessun lazzo, nessun trucco. Mio padre andò in teatro sicuro di non uscire vivo dalle mani del pubblico. Mutamento a vista ! Sia che il pubblico fosse pentito della propria ferocia, sia che sapesse l’affare della malattia, sia che mio padre non sapendo quella sera le norme altrui recitasse a modo suo {p. 436}e apparisse un attore diverso, fatto è che dopo la prima scena cominciarono gli applausi, gli applausi continuarono, e calata la tela mio padre si trovò fra le braccia di Ernesto, che era felice quanto lui, perchè Ernesto Rossi era buono.

Per la primavera di quell’anno 1857 Ernesto Rossi doveva formare una Compagnia drammatica di primo ordine per incarico di alcuni capitalisti triestini. Mio padre fu scritturato da lui, ma per di lui consiglio abbandonò il ruolo di brillante per prendere quello di promiscuo, ed accettò il posto di secondo promiscuo, dopo la scelta di Gattinelli.

Da questo punto comincia la fortuna di Cesare Rossi, e la sua vita artistica gloriosa.

La Compagnia di Ernesto era formata pel triennio 1857-1860.

Come ti ho detto mio padre aveva un ruolo secondario, inferiore, cioè quello del Gattinelli, come era inevitabile, cominciarono presto le emulazioni fra il giovane attore e l’artista, che godeva già meritamente molta fama.

In questa rivalità certo mio padre in quel tempo avrebbe trovato molti ostacoli se tra Ernesto Rossi e Gattinelli non si fosse manifestata una incompatibilità di carattere molto favorevole per il giovane attore. A lui giovò molto anche l’amicizia fraterna di quel gran galantuomo e buon attore, faceva il generico primario, che fu Salvatore Benedetti, il quale caso raro, era lietissimo di cedere all’amico Cesare le sue parti e di vederlo a lui preferito.

Un giorno a Trieste nel carnevale del 1858 scoppiò aperto il dissidio fra mio padre e Gattinelli, a proposito di una parte. Erano alle prove, e poichè pareva che Ernesto Rossi desse ragione quella volta al Gattinelli, mio padre se la prese anche con lui, fece baruffa, protestò il contratto, e andò a casa infuriato dicendo a mia madre, servetta nella Compagnia, che facesse su la poca roba, perchè voleva andar via.

Puoi immaginare lo scompiglio, tutta la casa per aria, agitazione, trambusto, ma…. c’era Benedetti. Egli nel frattempo aveva calmato gli animi, aveva parlato con Ernesto e con lui andò a casa del papà per dirgli di non fare sciocchezze, che nel nuovo triennio egli sarebbe succeduto in omne et qualibet parte al Gattinelli, e tanto fu fatto che la tiara di Achimelek rientrò nei cassoni, insieme alla cotta di Lanciotto.

Nel 1859, allo scoppiare della guerra, la Compagnia di Ernesto Rossi si trovava in Austria, e si sciolse. Ernesto, con la famiglia Job e mio padre noleggiarono a Trieste un barigozzo e sciolsero le vele per Fano. Ohimè ! la bonaccia tenne la barca circa un mese sul piano dell’Adriatico, e quando i naviganti giunsero a Fano, la guerra volgeva già al suo termine. Nel settembre di quell’anno liberate le Marche, Ernesto Rossi raccolse la propria Compagnia per riprendere i propri viaggi, e senza maggiori avvenimenti le cose procedettero così sino al 1860, quando essendosi ammalato improvvisamente Gaetano Vestri, che sosteneva il ruolo di promiscuo nella Compagnia di Bellotti-Bon, a mezzo anno il Bellotti si rivolse ad Ernesto Rossi pregandolo di cedergli l’attore Cesare Rossi.

Anche in quella occasione Ernesto Rossi si mostrò buon amico di mio padre, e senza farsi troppo pregare accettò di sciogliere il contratto con lui e di permettergli di entrare nella Compagnia Bellotti nel ruolo importante lasciato dal Vestri.

Anche quello fu un gran passo pel mio povero papà, che non solo andava ad affrontare un ruolo di grande responsabilità, ma raccogliere l’eredità pericolosa e quindi il confronto di un grande artista.

L'andata in scena nel nuovo ruolo e nella nuova Compagnia doveva aver luogo a Milano al Teatro Re. Dopo lunga discussione, alla quale presero parte il Bellotti ed il compianto Tebaldo Ciconi, fu scelta per prima recita : Il papà Goriot di Balzac.

Anche questa scelta era ardita perchè Papà Goriot aveva ormai una tradizione sulla scena, una tradizione formata da Gattinelli, Vestri, Taddei, ma il confronto non fu dannoso.

{p. 437}Ernesto Rossi nel primo volume de' suoi Quarant’anni di Vita Artistica, dopo di avere parlato degli attori che componevan la sua nuova Compagnia, così ci descrive il passaggio di Cesare Rossi dal ruolo di brillante a quello di caratterista e promiscuo, che doveva farlo salire in breve a tanta altezza :

….. Si poteva azzardare di recitare la commedia, il dramma, e la tragedia ! e che tragedia ! quella di Shakespeare, che in quei tempi era come un tema di algebra dato per esame dal ministro Bonghi : e credo che anche in oggi vi sieno molti scolari, che torcono il muso a certi temi del signor Shakespeare. Cosa originale ! erano appunto quei temi là, che i miei attori risolvevano meglio : Cesare Rossi specialmente : di modo che, un giorno lo chiamai a casa mia e gli dissi : – Scusi, ma lei crede proprio di avere la vocazione {p. 438}per fare il brillante ? — Sicuro ! – mi rispose di botto, senza lasciar tempo a riflettere sulla mia domanda. — Mi permette, che le parli chiaro e tondo ? come la penso ? — Faccia pure ! – mi rispose con un accento fra il toscano ed il marchigiano. — Ella – ripresi io – può essere chiamato a fare di tutto, fuori che il brillante : ella non ha nè la figura, nè l’eleganza adatta per disimpegnare quella parte : guardi là ! c’è uno specchio : si guardi ! Quella testa avrebbe bisogno di essere posta sopra un altro paio di spalle ; e allora lei sarebbe un gigante proporzionato : vede ? come le sue spalle sono strette ? e le sue braccia lunghe ? eppoi osservi bene una cosa che è rispettabilissima, e che caratterizza tutti gli uomini che sanno il conto loro : guardi il suo naso : le pare un naso ragionevole ? ammissibile per un giovinotto, che vuole interessare la sua bella ? Venga qua : si lasci fare : le metto questa parrucca grigia : poi questo giubbone ; poi prenda : metta questo cravattone : prenda questa canna nella destra : questo cappellone nella sinistra : si guardi di nuovo allo specchio : e veda che bel caratterista promiscuo che è lei ! eh ? che gliene pare ? e poi, vuole e pretende recitare le parti serie e tragiche ? a lei ! studi Lanciotto nella Francesca ; le proveremo insieme, e vedrà che lei sarà quel tipo per cui Francesca può scusarsi colpevole. — Io avevo toccato proprio nel suo debole : le parti tragiche. — Io tragico ? – disse a sè stesso – convengo di tutto, signor Rossi, lascerò le parti brillanti, farò il generico, il caratterista, il promiscuo e il tragico, ma non mi dica che io sono sproporzionato. Farò tutto quello che vuole, purchè mi faccia recitare. — Non dubiti, non avrà mai un riposo. — E così fu. Cesare Rossi, disimpegnò benissimo le parti tutte, che io lo preferii sempre più nel serio che nel ridicolo : perchè nel comico ebbe la disgrazia di imitare Gattinelli : e le copie sono sempre peggiori degli originali : nel serio…. lo guidai io, e non volli che mi imitasse, ma che mi studiasse…..

Cesare Rossi perchè era studioso, zelante e infaticabile, si è formata una posizione che non a tutti nell’arte è dato conseguire.

Se col suo glorioso omonimo, Cesare Rossi vide chiara a sè davanti una mèta da toccare, immediatamente dopo con Bellotti-Bon la toccò, e altissima, in quella indimenticabile compagnia, della quale eran prime parti il Bellotti stesso, Ciotti, Lavaggi, la Pezzana, la Campi, la Fumagalli…. Il primo ricordo ch'io serbo intatto del glorioso artista, è della primavera del '65 al Teatro Comunale di Ravenna, nel Vero Blasone di Gherardi Del Testa, e nel Figlio di Giboyer di E. Augier. Oh ! quel Marechal ! Quel monologo in cui egli si esercita alla improvvisazione e recitazione del discorso…. Il fumo…. Il fumo !!… Il secondo è del '68 al Niccolini di Firenze, in quel carnevale magnifico, in cui si rappresentaron diciotto volte I Mariti di Torelli. Quel Duca D'Herrera, che noi giovani di Liceo, ricordo come fosse ora, somigliavamo nella truccatura del Rossi al Duca di Sermoneta ! Che nobiltà, che grandezza, nelle scene aspre col figliuolo ! Che arte somma in quella finale col servo, poi colla Duchessa !…

{p. 439}Quattro anni dopo Cesare Rossi era il Direttore, Primo attore da parrucca, Caratterista, Promiscuo, della Compagnia di Fanny Sadowski, nella quale anch'io stetti un anno, lieto oggi di poter discorrere di tutte le grandi qualità del mio primo maestro.

Si è detto che Cesare Rossi era attore di maniera, attore barocco. È vero. Ma quando ? Quando al suo metodo di recitazione la giovane critica ebbe da contrapporre giovani forze, il cui metodo, fatto tutto di verità, era dal suo tanto discosto. Verità ! Verità ! Verità assoluta o verità relativa ? Assoluta no, {p. 440}perchè la verità senza il soccorso dell’arte si muta in isciatteria, in volgarità e peggio. Dunque relativa : ma allora tanto è verità quella d’oggi, quanto fu quella d’jeri e dell’altr'jeri, e magari di tre secoli fa a' bei tempi degl’incomparabili Gelosi, i quali apparivan veri allora oltre il confine, e a' quali, probabilmente, i giovani tirerebber oggi con poca riverenza le panche. Barocco ! Sicuro : Cesare Rossi fu barocco ! Un barocco, che produsse figure non mai superate, nè uguagliate, di cui la parte superficiale, esteriore, mutabile, era già, nel languor dell’età e mutar de'tempi, tramontata, ma di cui l’arte animatrice permane nella nostra memoria immortale.

Giudicar Cesare Rossi nel periodo estremo dell’arte sua, quando le poche figure che ancor presentava, tra le tante che lo poser sì alto, eran già sbiadite, alternate con le figure nuove, a mostrar le quali il vecchio metodo e il vecchio spirito non eran capaci, è, per lo meno, ingiusto. Io vorrei che i giovani potessero, per forza di miracolo, tornare a dietro di quarant’anni, e seguir sera per sera, anno per anno, l’opera varia, forte, grandiosa di Cesare Rossi ! Maestro Andrea del Ghiacciajo del Monte Bianco, Don Ambrogio della Celeste, Conte Sirchi del Duello, Marechal del Figlio di Giboyer, Papà Martin della Gerla di Papà Martin, Filiberto del Curioso Accidente, Geronte del Burbero benefico, Risoor di Patria, Palchetti della Vita Nuova, Gaspero di Moglie e buoi de' Paesi tuoi, Papà Remigio di Claudia, Bernardino di Oro e Orpello, Croci del Gerente responsabile, Lamberto della Famiglia, Pietro Branca di Spiritismo, Don Marzio della Bottega del Caffè, Simonaza di Convincere, Commuovere, Persuadere, L'Abate Costantino e Rabagas…. Oh ! Quel Rabagas al Fondo di Napoli con Cesare Rossi a soli quarantatrè anni ! Quale maniera ! E quale barocco ! Bernini puro sangue !!!… Gran peccato davvero che codesti astri di prima grandezza non abbian la forza di togliersi dalla loro sfera, non appena veggano attenuarsi la vivezza della lor luce ! Dopo quello della Sadowski, egli ebbe ancora un grande periodo : del Teatro Carignano, della Duse con Andò. Se la {p. 441}Duse, con la sua recitazione singolare arrecò più tosto danno all’attore, grandi vantaggi arrecò al capocomico, che finì poi col diventar socio della nuova stella. Dalla quale staccatosi, riformò compagnia con la Mariani prima attrice, ch'egli rivelò e sviluppò. Ebbe di poi la Glech, la Quaglia, la Riccardini, l’Udina, la Violante….

E volgeva lento, lento alla sua fine.

Lunedì 1° novembre 1898, egli doveva recitare a Bari Il Curioso Accidente del suo Goldoni, e alle 2,45 di quel giorno si spense quasi d’improvviso per congestione. I funerali furono {p. 442}una imponente testimonianza di affetto e di ammirazione sì a Bari, come a Fano, dove fu traslata la salma. « Non dimenticare che amò i giovani attori e li protesse, che fu buono, onesto e glorioso, e che a punto per la sua rettitudine preferì sempre l’arte sana, le persone buone, pochi ma sinceri amici. » Con queste parole il figliuolo chiude la sua memoria, ed io le metto qui come chiusa dell’articolo, chè non saprei trovarne di migliori.

Rotari Virginia (V. Andreini Lidia.)

Roti Giovanni Battista. Nato di famiglia civile a Venezia il 1734, si diede, morti i genitori, all’arte comica, in cui riuscì egregio Pantalone. Fu a Vienna, e vi recitò in tedesco, specialmente le commedie tradotte di Goldoni. Fu copista dell’abate Metastasio, e anche direttore artistico di alcuni suoi melodrammi. Entrò del’69 nella Compagnia di Antonio Sacco, a Venezia, sostituendovi il D'Arbes, scritturato dal Lapy, ed ebbe, al San Luca, le migliori accoglienze. Tradusse per il primo I due amici del Beaumarchais, e li rappresentò l’estate del’71 al Filarmonico di Verona, recitandovi la parte di Aurelio in veneziano. Scrisse anche una commedia in versi sciolti di argomento spagnuolo per commissione del Sacco, ma {p. 443}con poca fortuna. Il carnovale del’79 sposò Marianna Ricci, sorella di Teodora Bartoli ; ma, cagionevole di salute, potè a stento ricondursi da Verona a Venezia, ove assistito dalla consorte, moglie saggia e amorosa, morì il 26 settembre del 1780.

Il Roti – dice F. Bartoli – era un uomo d’ingegno, pratico della lingua latina, della francese e della tedesca ; e molto adoprò la penna in servizio del mentovato Sacco.

Rotti Carlo, veneto, entrò nell’arte poco avanti il 1800, e recitò alcun tempo le parti d’amoroso. A trent’anni ebbe un vivo alterco a Trieste con un tale che lo percosse pubblicamente. Il Rotti pensò di vendicar vilmente l’offesa ; e appostatosi di notte sotto un ponte della città, sulla strada che conduceva all’anfiteatro Mauroner, al momento in cui l’offensore passava, gli scaricò in pieno petto un’archibugiata, che lo ferì ma non uccise : e fu gran ventura per l’assassino, che fu condannato a soli sei anni di lavori forzati. Scontata la pena, rientrò nell’arte ; ma non vi fece più che le ultime parti, anche perchè obbligato dalla lunga consuetudine della catena a trascinarsi dietro la gamba sinistra. Nel 1820, eccolo palesarsi autore drammatico col noto lavoro Bianca e Fernando, ch'ebbe successo clamoroso, e al quale tenner dietro I due sergenti, tuttora vivi nel repertorio popolare, Il carcere d’Ildegonda, Boemondo d’Altemburgo, e altri. Ma non mostrando egli nella vita alcuna traccia d’ingegno, e non essendo al Domeniconi riuscito di fargli cambiare un finale d’atto, molti ne inferirono che non foss’egli autore di que' drammi, ma sì un suo defunto compagno di catena. Il Rotti morì a Venezia del 1840.

Rubini Ferdinando, di Roma, attore mediocre per le parti d’Innamorato, soprannominato Rubinazzo, fu chiamato da Giuseppe Imer al Teatro San Samuele di Venezia, per sostituirvi Antonio Argante, allora defunto. Fu anche al San Luca, e cantò con successo in alcuni Intermezzi musicali. Era a Palermo con {p. 444}la Passalacqua (V. Afflisio (D') Moreri Elisabetta), quand’ella cadde dall’alto nel far il volo. Tornò con essa in Lombardia, poi restituitosi a Roma, vi morì nel 1773.

Rubini Federico. Non mi è riuscito di veder traccia di questo Rubini in Italia. Sappiamo che esordì alla Comedia italiana di Parigi il 9 dicembre 1760 colla parte del Dottore in una commedia intitolata Il Pedante : e lo troviamo fra gli attori dell’Amore paterno, secondo il documento parigino : « Extrait de l’Amour paternel, commedia in tre atti di Goldoni, data a Parigi nel 1763, 4 febbrajo (Paris, Duchesne, 1762). »

Agivano :

Collalto da Pantalone

Mad. Savi da Clarice

M.lle Piccinelli da Angelica

Zannuzzi da Lelio

Balletti da Silvio

Rubini da Florindo

Savi da Petronio

M.lle Veronese da Camilla

Chiavarelli da Scapino

Carlin Bertinazzi da Arlecchino

Ma pare ch'egli vi facesse un fiasco solenne, dacchè a Corte si venne lo stesso anno nel proposito di licenziarlo. I compagni si volsero allora al Duca di Duras, primo gentiluomo di camera, con questa supplica : « Les comédiens italiens demandent qu’il vous plaise de leur conserver encore le sieur Rubiny dont ils disent avoir besoin pour lui donner le temps de trouver à se placer en Italie. »

Alla quale il Duca rispose : « Les comédiens italiens auraient du remercier le sieur Rubini dès l’année passée ; vous avez eu grand tort de souffrir qu’il continuât à jouer cette année. Je vous prie de ne m’en plus parler. »

Ma il Rubini restò ancora il’64 a Parigi.

In due lettere del Goldoni all’Albergati del gennajo '63 e del febbrajo '64 da Parigi, si accenna alla moglie di questo Federico, Anna, rimasta a Bologna, poverissima, e pregante l’Albergati col mezzo del Goldoni di farle avere una limosina.

{p. 445}Ma come mai cotesto Rubini, che esercitava l’impiego di Dottore, sostenne poi la parte di Florindo nell’Amore paterno ? Forse nei Dottori non piacque, e tentò gl’Innamorati ? Forse, dopo lo smacco di Parigi, se ne tornò in Italia, e, concordando le date, è lo stesso che il precedente, di cui fu citato erroneamente il nome da Francesco Bartoli ?

Rubini Francesco, mantovano. Recitava con gran merito sotto la maschera di Pantalone. Fu il 1733 a Milano nella Compagnia del ciarlatano Bonafede Vitali (V.), detto l’anonimo ; e al Teatro di San Luca a Venezia il’35 a sostituirvi il Garelli (V.), che gli pose in volto di sua mano la maschera, presentandolo al pubblico. Fr. Bartoli ci narra che la somiglianza de' due artisti era tale, specialmente nella voce, che molti credettero, e ne fecero scommessa, non esser altro il Rubini che lo stesso Garelli. In La Clemenza nella Vendetta egli sostenne, il '36, con grandissimo onore la parte di Pantalone Re dei Cuchi, cantandovi ariette musicali, ed eseguendovi diversi combattimenti. Quando Goldoni cominciò a scrivere pel San Luca, scrisse per lui varie parti in dialetto, fra le quali il signor Alberto nell’Amante di sè stesso, ch'egli rappresentò egregiamente. Nella introduzione al Geloso avaro (Nuovo Teatro Comico, T. I, Venezia, Pitteri, m. dcc. lvii), Goldoni dice :

Non ebbe, per dir il vero, molto felice incontro, e il personaggio, che rappresentava il geloso avaro, quantunque abilissimo in altre parti giocose, in questa non riusci bene. Ciò mi fece risolvere appoggiar tal carattere al Pantalone, ch'era in allora il graziosissimo Francesco Rubini, e non m’ingannai, poichè alle di lui mani comparve mirabilmente, e la commedia fece in Genova un buon effetto. Morì poco dopo il valoroso Rubini, e la mancanza dell’incomparabile attore fe'si, che di tal commedia non si è parlato più oltre.

E nella Introduzione per la prima recita dell’autunno dell’anno 1754 (T. III, ivi) :

Clarice. Non vuol vedere la nostra prima commedia ?
Sior Zamaria. Mi no ; co me recordo quel povero Pantalone, me vien da pianzer.
Florindo. Caro signore, poteva ella far a meno di venirci a rattristare. Abbiamo bastantemente compianto la perdita di un nostro amoroso compagno pieno di merito, di grazia, di brio, e di ottimi illibati costumi….

{p. 446}E Goldoni mette in nota :

Elogio ben dovuto alla memoria di Francesco Rubini, il quale quantunque di nascita mantovano, e non del tutto in possesso della lingua veneziana, ha saputo tanto piacere in virtù del suo talento, e della sua buona grazia.

Francesco Rubini morì a Genova nel 1754.

Rubini Antonio. Figlio del precedente, fu un egregio Arlecchino, e recitò in diverse compagnie. Uscito Francesco Cattoli (V.) da quella del San Luca (carnovale del 1763), andò il Rubini a sostituirlo. Ma recatasi la Compagnia a Vicenza in primavera, egli ammalò dopo alcune recite, e in capo a pochi giorni morì. Fr. Bartoli lo dice « grazioso nella Pantomima, arguto nelle risposte, spiritoso, e faceto. »

Ruffino Antonio, romano, nato il 1780 circa, fece gli studi universitari ; e, mortogli il padre, Giudice della Sacra Ruota, si diede all’arte drammatica, facendosi di punto in bianco conduttore di una compagnia d’infimo ordine. Comincian notizie precise di lui dal 1817, in cui lo vediamo secondo caratterista applaudito della Compagnia Rafstopulo, nella quale egli stette quattr'anni, e della quale era primo Francesco Pieri, ch'egli imitava nel gesto e nella voce. Passò il’21-'22, primo assoluto, in quella di Tommaso Zocchi a Firenze, e vi piacque moltissimo, specialmente in Contraddizione e puntiglio, Il Barbiere di Gheldria, Don Marzio, Il Burbero benefico, Rosella, ecc. Morì verso il 1840.

Ruggeri Ruggero. Nacque a Fano il 14 novembre 1871 dall’avv. prof. Augusto Ruggeri, insegnante letteratura italiana nei Licei e nelle Scuole Normali del Regno, e da Corinna Casazza. L' '86 gli morì il padre, ed egli, interrotti dell’ '88 gli studi liceali dopo il secondo corso, entrò in arte come primo attore giovine della Compagnia Benincasa, poi, nello stesso anno, di quella delle sorelle Marchetti. Fu amoroso l’ '89 con Fantechi, poi di nuovo primo attor giovine il '90 con Tessero-Giozza, {p. 447}al fianco di Luigi Monti ed Enrico Belli-Blanes. Entrò il '91 collo stesso ruolo in Compagnia Novelli-Leigheb, poi Novelli solo, con cui stette sino a tutto il '97, sostituendo nell’ultimo triennio il Colonnello per le parti di primo attore. Fu il '98 primo attore con Brignone-Montrezza, e il '99 con la Iggius. Il '900, finalmente, prese posto qual primo attore assoluto in Compagnia Talli-Gramatica-Calabresi, nella quale è tuttavia (1903), riconfermatovi pel venturo triennio.

Fino al momento dell’ultima scrittura, non aveva mostrato a qual grado sarebbe salito. Oggi egli è uno de' più forti artisti giovani, mercè una grande volontà e una grande perseveranza negli studi, accoppiate all’intelligenza svegliata. Di {p. 448}questa e di quelli egli va dando non dubbie prove, specie con la interpretazione del Parini e la recitazione della Canzone di Garibaldi e dell’ Ode a Verdi di Gabriele D'Annunzio. Aitante della persona, piacente del volto, elettissimo de' modi, egli potrà salir ancora molto alto, quando abbia saputo misurar più la dizione, talvolta confusa, e meglio usar della voce talvolta velata.

Al pari del suo collega Ciro Galvani, benchè in altro modo, egli unisce a questa del comico l’arte del disegnatore. Il genere suo preferito è la caricatura, e in moltissime, specialmente del Novelli, egli ha mostrato tutta la pieghevolezza del suo ingegno.

Ruino Francesco. Ercole di Ferrara, rispondendo con lettera del 5 febbrajo 1496 al Marchese di Mantova Francesco Gonzaga, che gli aveva domandato le commedie volgari già rappresentate a quella Corte, dice che non può favorirlo, per essersi fatte soltanto le parti de'singoli attori, le quali, recitate le commedie, non furono serbate nè messe insieme, e per essere alcuni degli attori in Francia, a Napoli, a Modena, a Reggio. E dove dice (nella lettera autografa, che è nel ducale Archivio di Modena) in Francia, a Napoli, è scritto in margine : Francesco Ruino, Pignatta.

In Francia dunque era allora, molto probabilmente, il Ruino (V. Gir. Tiraboschi, Storia della lett. ital., Roma, 1784, T. VI, P. II, 215, N.).

Rusca Margherita (V. Visentini…..).

Ruta Cesarina. Nacque a Milano il 26 settembre del 1854 da Filippo Scalzi, impiegato di Prefettura, e Luisa Watter. Traslocato il padre a Genova, ella entrò nella Filodrammatica del Falcone, e a soli quindici anni si scritturò con una piccola compagnia, diventando in breve un’amorosa egregia. Sposò il '79 Pasquale Ruta, attore brillante, e fu con lui in {p. 449}Compagnia di Ernesto Rossi, prima attrice giovine, peregrinando per le varie città d’Europa, ammiratissima. Salì nell’ '82 al grado di prima attrice assoluta in Compagnia Morelli, in cui la rappresentazione di Maria di Magdala di Pietro Calvi fu il suo maggior trionfo, dovuto all’arte sua e alla sua bellezza, ch'era meravigliosa. Andò l’ '83 con Emanuel, poi formò Compagnia con Ettore Mazzanti per un solo anno, dopo il quale si scritturò con Carlo Lollio, poi con Amato Lazzeri. Fu l’ '89 al Teatro Rossini di Napoli, poi, ammalatasi la Duse, fu la prima donna de' suoi comici, coi quali fece il giro della Sicilia. Passò quindi, sotto la direzione del Morelli, in Compagnia Marazzi-Diligenti e in quella di Lorenzo Calamai, finchè, ammalatasi d’influenza, che si mutò in polmonite, si spense in Asti il 15 gennajo del '92, lasciando il povero marito e due figliuolini nella desolazione. {p. 450}Cesarina Ruta fu, com’ho detto, di bellezza maravigliosa, che accrebbe in lei i pregi artistici. Rappresentò la prima al Valle di Roma e al Manzoni di Milano la Fedora, e n’ebbe assai lodi dai critici maggiori quali D'Arcais e Ferrigni (Yorick).

Rutti Cecilia (V. Diana).

Ruzante (V. Beolco Angelo nell’Opera, e nel Supplemento).

[n.p.]
[n.p.]

I comici italiani §

Sacchi Felice. Lo chiamarono comunemente Felicino Sacchetto per distinguerlo da Antonio Sacchi, il celebre Truffaldino, da cui derivò atteggiamenti e arguzie e prontezza nella maschera dell’arlecchino, che sostenne con buon successo e per molti anni in Compagnia Medebach a fianco del brighella Giuseppe Marliani (V.), che gli fu largo di utili ammaestramenti. Si recò del 1717 a Parigi a sostituir di quando in quando nella Commedia italiana il vecchio Bertinazzi, ed esordì col Camerani l’8 di maggio nel Maître supposé, nuova comedia italiana, che non piacque. Sacchetti, così è citato nel D'Origny, non parlò francese, con assai poco diletto degli spettatori ; ma egli volle, fermamente volle, dopo soli quattro giorni, uniformarsi al gusto del Paese, e vi riuscì. E a chi gli domandava, meravigliato, quanto gli fosser costati progressi così rapidi, – ho molto pianto, – rispondeva con una soavità commovente e una modestia degna d’incoraggiamento.

{p. 454}Ritornò la quaresima in Italia, e fu per un anno in Compagnia Rossi, passando poi nella sua prima del Medebach. Ma, cagionevole di salute, morì la primavera del 1771 a Milano, a soli trentasei anni, lasciando all’arte alcuni scenarj, tra'quali Fr. Bartoli cita Il Mago dalla barba verde ed Il turbante di Asmodeo.

Sacchi Brigida, moglie del precedente, e figlia di Antonio e Lucrezia Marchesini, fu buona innamorata nella Compagnia Medebach al fianco di suo marito. Recatosi questi a Parigi del 1767, ella si fermò per alcun tempo a Bologna col proposito di andarlo presto a raggiungere. Ma stabilito il di lui ritorno, e passata di Bologna la Compagnia di Pietro Rossi, ella vi si scritturò per l’autunno e carnovale, recandosi a recitare a Livorno.

Tornato il marito, e scritturatosi anch'egli col Rossi, ella ebbe occasione di assumere il grado di prima donna, che sostenne con molto buon successo, meritandosi la primavera a Piacenza il seguente sonetto che il padre Francesco Ringhieri pubblicò nella seconda edizione della sua tragedia Ortoguna, di cui la Sacchi fu prima e fortunata interprete.

Rappresentando il personaggio di Ortoguna la prima volta in Piacenza con applauso universale e singolar maestria la signora Brigida Sacchi.

Mano all’opra, o pittor. Quest’è Ortoguna,
che Arabia ornò, ch'orna l’Ausonie Arene ;
pingi virtù, pingi arte, e quanto aduna
Melpomene di grande in auree Scene.
Spiri odio, e amor, ma senza macchia alcuna,
senza alcun neo mostri furori e pene ;
e quando è vinta dalla rea fortuna,
vinca il maschio valor d’Argo, e d’Atene.
Con ciglia immote il Grande e il Vil l’ammiri,
e rapito dall’arte pellegrina,
frema a' suoi sdegni, e a' suoi sospir sospiri.
{p. 455}Giaccia invidia sul suol ; l’alta Eroina
fama preceda, e scritto al piè si miri :
degli Eroi coturnati io son regina.

Entrò di nuovo il '69 col marito nella Compagnia Medebach, e vi stette sino alla morte di lui. Vedova con due figli, passò a seconde nozze fuor del teatro, ma non potè godersi a lungo la quiete del suo nuovo stato, chè, obbligata non poco tempo al letto da una cronica malattia d’utero, lasciò la vita il 1775 col compianto de'buoni, e fu sepolta nella chiesa di San Gio. Grisostomo a Venezia.

Sacchi Giovanni. Figlio dei precedenti, fu come il padre un egregio arlecchino, e come lui conosciuto col nome di Sacchetto. Ma venuti in decadenza l’uso delle maschere e la commedia all’ improvviso, si diede a recitar le cose scritte, riuscendo attore stimato. Condusse alcuni anni ai primi del XIX secolo una Compagnia secondaria, della quale egli era applaudito caratterista, e con la quale s’ebbe la più varia fortuna. Morì a soli quarantasette anni in Casal Maggiore verso il 1812.

Sacco Gennaro e Maddalena. Gennaro Sacco, napoletano, fu attore reputatissimo nel personaggio ridicolo di Coviello, ch'ei sosteneva nel dialetto del suo paese. Passato in vario periodo di tempo in Lombardia, nel Veneto, a Genova, vi ebbe onori grandissimi, e fu al servizio del Principe Alessandro Farnese di Parma, del Duca di Modena e del Duca di Brunswick a Varsavia. L'Archivio di Stato di Modena conserva alcune lettere di Coviello, il quale, per non essere da meno dei suoi compagni, batte cassa con supplicazioni di ogni specie ; ora (Brescia, 4 agosto 1690) allegando in ragione che il suo esercito è in rovina per non aver potuto fare in diciassette giorni che sei comedie, che fruttarono di parte lire dieci e soldi otto ; ora (Reggio, 20 novembre 1690) che li Massari del ghetto vogliono semignare l’elettione, per la carica dei letti nel Castello, e sospira una gratia che può liberarlo dalle mani del Ebraismo.

{p. 456}Dell’ '89 si recò dal Finale a Sassuolo a recitarvi durante la permanenza del Duca, e avea seco la moglie Maddalena, che sosteneva le parti di serva col nome di Armellina. E da allora pare ch'egli entrasse in compagnia e nelle grazie del Duca, poichè in un documento sincrono dell’Archivio di Stato di Modena abbiamo l’elenco della Compagnia, in cui non figurano i nomi dei coniugi Sacco, bensì quelli di Gaetano Caccia, Leandro (V. Suppl.) e Galeazzo Savorini, Dottore (V.), con questa annotazione in calce :

S. A. S. ha ordinato che invece di Gaetano Caccia cioè Leandro, e di Galeazzo Savorini Dottore si paghino le lire 45 il mese a Gennaro Sacco detto Coviello, et alla Maddalena Sacco detta Armellina.

Per l’elenco della Compagnia V. Torri Antonia.

Richiesto dal Ser.mo di Cell, pare, secondo lettera da Hannover del 5 gennajo 1693, che il Sacco si togliesse dal servizio del Duca di Modena senza dargliene alcun avviso ; per la qual cosa e' s’ebbe dal Marchese Decio Fontanelli sequestrate tutte le robbe. Ma egli si giustificò, dicendo a Cell e scrivendo al signor Franchi segretario di Cell :

….. D'haverne più volte parlato al sig. Co. Decio Fontanella, al quale l’haveva rimesso il Comando del Ser.mo facendoli dire che non teneva servitori per forza, e che s’intendesse col S.r Marchese sodetto : non havendone speditione, di nuovo ricorse al Ser.mo e da nuovo il Ser.mo lo rimise al S.r M.se Decio, il quale lungamente lo fece languire, e li disse più volte che non sapea cosa dirli, alfine che li darebbe una lettera per Bologna, e che gli augurava buon viaggio, che non si potè mai haver la lettera, e che parti doppo aver di ciò parlato in Modena, e sino à Cavalieri, c’erano nell’anticamera di S. A. Ser.ma dolendosi della poca fortuna c’ haveva havuta col detto S.r Marchese.

E pare che il Marchese Decio fosse lo spauracchio de'Comici, se dobbiam credere a una nuova raccomandazione in nome del serenissimo senza nome del raccomandato nè dello scrivente, ma che concerne certo la faccenda Sacco, al Conte Francesco Dragoni Governator di Bersello à Modena, intestata A Lei Sola, e che comincia : Ella havrà riguardo a non lasciar cader il negotio, nè la confidenza sul Sig.r Co. Fontanella sospetto per esser l’arbitro del Theatro, e poco favorevole al Comico.

{p. 457}Al qual Dragoni, anche quindici giorni dopo, il Mauro, pur da Hannover, scrive in nome del Ser.mo di Cell per ottenere dal Ser.mo di Modena il rilascio delle robbe sequestrate al Coviello, e conoscere le sue intentioni, poichè se occorressero al Ser.mo non solo Coviello, ma altri de' suoi Comici ancora, ne sarebbe il Ser.mo di Modena padrone.

Altra viva raccomandazione vi è del 5 marzo 1691 al signor Quaranta Caprara, perchè fosse di ajuto al Sacco nella riscossione di certo suo credito.

« Finì di vivere – secondo Fr. Bartoli – intorno al 1715, lasciando di sè pei meriti suoi, una rinomanza la più ricordevole ed onorata. » I quali meriti suoi non si limitarono a quei dell’attore, ma altresì dello scrittore, chè molte opere in verso e in prosa egli pubblicò non senza alcun pregio scenico e letterario di cui ecco l’elenco :

Il Trionfo del merito. Poema. Venezia, 1686.

Sempre vince la Ragione. Opera eroitragisatiricomica. Genova, per Antonio Casamara, 1686, in-12°.

La luna ecclissata dalla fede trionfante di Duba, regina dell’Ungheria. Opera anagrammaticomica. Verona, per Domenico Rossi, 1687, in-12°.

La Commedia smascherata, ovvero I Comici esaminati. Comedia dedicata alla Maestà di Augusto secondo. In Varsavia, alla Stampa del Collegio delle Scuole Pie, 1699, in-4°.

Questa commedia, ch'egli pubblicò mentre era da nove anni comico del Ser.mo di Cell, « ch'è un Principe così grande – dice il Sacco nella prefazione – così giusto, e così pio, e ci grazia non solo dell’alta sua protettione, ma ci comparte una mercede così copiosa, che può far la fortuna, anche a chi pretende distintione assai superiore a quella di Comico », è forse la più importante opera del Sacco, sì per la varietà imaginosa delle scene, sì per la comicità ond’è piena, e anche per lo stile men reboante del solito. Il soggetto è la solita difesa delle {p. 458}Comedie e dei Comici contro le accuse di immoralità, di disonestà, di perdizione : una specie di Supplica del Beltrame in azione. Il Sacco, ossia Gennaro, detto il Capitan Coviello, vi era terzo innamorato. Recitava come sempre nel dialetto napoletano, e alla scena XVI del primo atto, in cui tutti i Comici fanno « un paragone della Comedia ad altra cosa » egli, dopo il discorso del primo innamorato Ottavio, e del Pantalone Girolamo, dice :

Platone nel settimo della sua Repubblica, obliga i Capitani d’eserciti ad essere buoni aritmetici, però io che rappresento la parte del Capitano, sosterrò che la Comedia costa di questa scienza matematica, e che sia il uero : l’aritmetica si diuide in prattica, e speculatiua ; la Comedia e composta di numero semplice non douendo uscire da i termini assegnati da Aristotile, di ventiquattr' hore ; e di numero diuerso, partito in tre parti che sono gl’Atti, ne quali si racchiude. Nella Comedia è necessaria la proportione del luogo, e la proportionalità del Caso ; la egualità delle persone, maggiore, o minore ; e l’inegualità delle cose ; ella è formata di regole, di quella del trè nel Comico che deue hauere, bella presenza, voce soaue, e buona memoria. Di quella del Cinque nel prologo, nell’episodio, nel esito, nel Corico, e nel Como ; di quella del sette nelle sue varie specie, espresse dal Donato, cioè : Palliata, Togata, Atellana, Tabernatia, Mimo, Rhintonica, e Planipedia. Hà la positione semplice, ne i personaggi sciocchi ; la positione doppia ne i serui astuti ; con la prattica d’algebra, e di almucabalà, si espongono i moltinomij de soggetti ; Con l’aritmetica attiua poi numera il tempo, somma gl’accidenti, sottrae l’improprio, e moltiplica gl’abbellimenti ; vsa le proue per riuscire, tiene libro semplice per le rappresentationi, e doppio per il guadagno ; in fine se Pittagora sostiene che la natura de numeri, trascorre per tutte le cose, anche la Comedia di tutte le cose è specchio ; però moltiplicando il suo merito per ogni regola, trouo che innumerabili, come innumerabili sono le diuisioni aritmetiche, sono ancora le sue glorie.

Coviello appartiene alla categoria dei capitani. Seguendo il Callot, Maurizio Sand ci ha rappresentato il tipo in atteggiamento di danzatore e suonatore di mandolino ; ma a me pare non si debba con troppa sicurezza attenersi pel costume a coteste incomparabili figurine, nelle quali, a osservar bene, dominan solamente due tipi : del Capitano e dello Zanni ; e talvolta l’uno invade il campo dell’altro, come, a esempio, il Fracassa che ha l’abito zannesco di Pulcinella, o di Scapino, o di Frittellino (V. Andreini Francesco, pag. 75). Il Coviello, tranne alcuna eccezione, è uno stupido che fa il bravaccio, come il Capitano ; e di Capitano ha il costume con grandi piume al cappello, grandi stivali, e grande spada. Il Valentini ce lo dà in abito spagnuolo, e tale a un dipresso lo vediamo in una delle {p. 459}sue apparizioni nella illustrazione della Cameriera brillante di Goldoni (Ediz. Zatta), in cui Traccagnino vien travestito nella scena V dell’atto III da Capitan Coviello, e parla napolitano.

Sacco Gaetano. Fratello del precedente. Secondo che scrive il Piazza nel Teatro, egli era ancora quarant’anni dopo la sua morte nella memoria de'comici, come valentissimo arlecchino, sotto il nome di Truffaldino, e autore di scenarj, pei quali esso Piazza lo qualifica autore di commediacce. Nella fede di nascita del figliuolo non abbiamo le notizie personali del padre, e però non sappiamo nè dove, nè quando sia nato : sappiam soltanto ch'egli era a Vienna comico al servizio di quella Corte, quando nacque il celebre figlio Antonio (1708), e che « fu — dice Fr. Bartoli — in Moscovia al servizio della gran Zara, ove pose fine a'suoi giorni nel 1735. »

Sacco Adriana. Figlia del precedente e di Libera Sacco, fu sempre nella compagnia del padre. Recitò da giovine le parti di donna seria sotto il nome di Beatrice. Fr. Bartoli accenna a un errore in cui ella incorse, ritenendo opera di Girolamo Baruffaldi la tragedia Diosebe, ch'ella recitò ancor nubile in Pavia il 1727, e dedicò alle dame di quella città. Passò da quello di donna seria al carattere della serva sotto il nome di Smeraldina, nel quale successe alla Passalacqua, e riuscì attrice pregiatissima per l’acutezza dello spirito, la grazia del gesto e la vivezza dei lazzi.

Il Goldoni, a proposito dell’arte sua, dice che eccettuata qualche caricatura sosteneva benissimo l’impiego di Cameriera ; ma, avverte saviamente il Löhner, egli la « giudica un po'severamente, forse perchè era cresciuta nelle tradizioni un poco sgangherate delle farse “à Canevas” d’allora. »

Sposò il 9 gennajo 1739 in prime nozze il bravo dottore Rodrigo Lombardi (V.), dal quale s’ebbe più figli, tra cui Benedetto e Rosa, di cui è parola al nome di Lombardi ; e dieci anni dopo Atanasio Zanoni, celebratissimo brighella, da cui si {p. 460}ebbe due figli, Teresa e Idelfonso (V.). Recitò ancor vecchia, e mirabilmente ; finchè, afflitta da malattia cronica, obbligata non poco tempo al letto, cessò di vivere a Venezia il 1° febbrajo del 1776 a oltre settant’anni.

Sacco Giovanni Antonio. Altro figlio del precedente, nacque a Vienna il 3 di luglio del 1708. Testimoniaron l’atto di nascita Giovanni e Margherita Bononcini (V.), Barbara Zanardi (V.), ed Eva Maria Solbachin, levatrice. Cominciò coll’essere ballerino esperto, e Fr. Bartoli ci dà così le prime notizie artistiche di lui :

Danzando in Firenze sotto la maschera di secondo Zanni nel Teatro della Pergola, fu veduto dal Gran Duca Gio. Gastone, che chiamandolo alla sua presenza, e ravvisatolo di pronto spirito, volle obbligarlo a recitare la sera appresso in quel ridicolo Personaggio nell’altro Teatro del Cocomero, in cui vi travagliava Gaetano suo padre. Esegui il comando di quel Sovrano, mostrossi dispostissimo a tale esercizio, e veramente trasportato poi dal genio alla Comica professione, pose la maschera del Truffaldino con sicurezza, e di grado in grado collo studio s’andò perfezionando, divenendo finalmente un inimitabile, e famoso Comediante. Insieme con Gaetano Casali servi il Teatro S. Samuele de'nobili Patrizj Grimani ; e poi passò nell’altro degli stessi Padroni detto di S. Gio. Grisostomo, e ne tolse la direzione egli solo. In tutti due questi Teatri fece valere Antonio Sacco la di lui abilità, mostrandosi un comico fondatissimo nelle cose dell’arte, e comparendo grazioso, arguto, e nelle facezie e nei sali spiritoso e bizzarro.

Il Sacco si recò a Venezia con tutta la famiglia l’autunno del 1738, un anno dopo la morte dell’ultimo Medici ; e, salito poi in gran rinomanza, partì per la Russia l’estate del 1742, nonostante i suoi impegni con S. E. Grimani, imperante da un anno Elisabetta Petrovna, figlia di Pietro il grande ; seguìto da metà della Compagnia di S. Samuele, ossia da tutta la famiglia, composta di moglie, suocera, sorelle, cognati. Rimpatriò il 1745, e, perdonato dal Grimani, riapparve al S. Samuele a Venezia, d’onde inviò al Goldoni la commissione del Servitore di due padroni. Fu molti anni a Venezia e in Italia, finchè, chiamato alla Corte di Portogallo, non curandosi nè men questa volta del contratto ch'egli aveva con S. E. Grimani, piantò improvvisamente il S. Samuele, e recatosi a Milano la primavera del 1753, poi a Genova per alcune recite in attesa dell’imbarco, {p. 461}fe'vela con la miglior parte della Compagnia per Lisbona, ove giunse al cadere di quell’anno, e ove s’ebbe la più festosa delle accoglienze. Sappiamo da Fr. Bartoli che

non contento il Sacco di produrre il suo proprio divertimento, altro cerconne per maggiormente rendere gradita la di lui servitù. E ciò esegui col fare apprendere a'piccoli fanciulli figliuoli de'Comici suoi alcune Commedie del Goldoni, le quali erano da essi, benchè di tenera età, meravigliosamente eseguite. L'attenzione del Sacco fu in buon grado accolta, e generosamente premiata da Sua Maestà. Passavano intanto i Comici tranquillamente i suoi giorni in Lisbona, accumulando ricchezze, e facendo una vita comoda e doviziosa.

Ma, ahimè, il fatalissimo terremoto del 1755 obbligò il Sacco a tornarsene in Italia, a Venezia, ove riprese il S. Samuele, e continuò per alcuni anni a condur la Compagnia con buona fortuna, recandosi in vario tempo a Milano, Torino, Genova, Bologna.

Quivi fu l’estate del '59, e fece una delle solite recite, perchè fosse continuata la grande opera del Portico di S. Luca. A lui è dovuta la costruzione dell’arco 627, sotto il quale è scritto :

Antonio sacco | e compagni comici | con la recita fatta | nel teatro formaliari | li x luglio mdcclix.

Tornato a Venezia, e sentito come a divertimento del nuovo piccolo Sovrano Ferdinando IV si dovesse scegliere una Compagnia comica Lombarda, si affrettò ad offrire con una supplica del 20 ottobre (V. Croce I. T. di N., 490-91) la sua comica Compagnia « in quel grado medesimo che ella ebbe l’onore di servire per più di due anni la Maestà Fedelis.ª del Re di Portogallo e sua Reale Famiglia », assicurando « ch'essa compagnia era molto migliorata, e che i soggetti comici ridicoli che la componevano, capaci eran di divertire qualunque Principe Cattolico, anche severamente educato. »

Ma la voce della Compagnia Lombarda a Napoli era infondata, e Sacco rimase a Venezia.

Intanto le opere del Goldoni e del Chiari andavan acquistando sempre maggior grido, e il pubblico s’era diviso in due {p. 462}parti, disertando il teatro del povero Sacco. Fu allora che il Conte Carlo Gozzi, già forte estimatore dell’ingegno di lui, pensò di venirgli in ajuto, esordendo come autore la sera del 25 gennajo 1761 con la fiaba L'amore delle tre Melarance, « caricata parodia buffonesca sull’opere dei signori Chiari e Goldoni, che correvano in quel tempo ch'ella comparve. » Fu preceduta da un prologo in versi « Satiretta contro a' Poeti, che opprimevano la Truppa Comica all’improvviso del Sacco », e « nella bassezza de'dialoghi e della condotta e de'caratteri, palesemente con artifizio avviliti, l’autore pretese porre scherzevolmente in ridicolo Il Campiello, Le massere, Le baruffe Chiozzotte, e molte plebee e trivialissime opere del signor Goldoni. » Che Dio l’abbia in gloria !… Il successo della novità fu enorme, e n’ebbe il Sacco gran vantaggio con danno degli altri teatri, sì che il Gozzi continuò nell’impresa felicemente.

Affaticato il Sacco dal continuo recitare, e annojato di sentirsi criticare la compagnia per le parti serie, pregò l’autor protettore di scrivergli alcun lavoro senza maschere : per tal guisa egli avrebbe riposato, e i detrattori si sarebber ricreduti. Gozzi scrisse infatti le due tragicocommedie : Il Cavaliere amico e Doride, recitate la prima volta, quella a Mantova il 28 aprile del 1762, questa, pure a Mantova, il 21 di giugno dello stesso anno ; ma non v'eran cagioni di rivolta, non vi recitava il Sacco, e la compagnia era…. quello che era : il successo ne fu meschino. L'autore si limitò solo a dire : « Un poeta, che voglia ajutare una Truppa Comica sola, la quale sia in credito per un genere, e in discredito per un altro nell’universale, non farà certamente grand’onore a sè stesso, nè darà grand’utile alla Truppa soccorsa, se la vorrà occupata in quel genere, di cui non è creduta dall’universale capace. »

E dietro lo smacco dell’insuccesso, il Sacco pensò di andar migliorando la Compagnia, facendo scrivere allo stesso Gozzi nel 1772 (prefazione alla traduzione del Fajel di D'Arnaud [Venezia, Colombani]) :

[n.p.]

{p. 464}Egli tiene la Compagnia esercitata nella Commedia improvvisa, e ben provveduta de'più atti personaggi a una tale rappresentazione ; ma ben fornita la tiene ancora di abilissimi personaggi a recitare qualunque buona Tragedia, Tragicommedia, o Commedia, composta o tradotta che gli venisse da qualche leggiadro spirito recata.

Infatti ecco l’elenco della Compagnia per l’anno 1775 lasciatoci dal Lessing nel suo Tagebuch der italienischen Reise, che è nel XVI volume dei Sämtliche Schriften herausgegeben von Karl Lachmann (Leipzig, Göschen, 1902) :

DONNE

Teodora Ricci

Chiara Simonetti

Angiola Sacchi

Maddalena Ricci

Teresa Zanoni

MOROSI

Petronio Cenerino (Zanerini)

Luigi Benedetti

Domenico Menghini

Giovanni Vitalba

Francesco Bartoli

MASCHERE

Antonio Sacchi, Arlecchino

Atanasio Zanoni, Brighella

Gio. Battista Rotti, Pantalone

Agostino Fiorilli, Tartaglia.

Compagnia ritenuta la migliore, e colla Ricci, collo Zanerini, col Vitalba, colla Sacco, colla Simonetti, col Bartoli, atta davvero a poter rappresentare qualunque opera seria.

Il 1762 il Sacco passò al Sant’Angelo, e un anno dopo fu trattato dal Duca di Duras per la Comedia italiana di Parigi ; ma non vi si recò altrimenti, forse, a parer del Goldoni, per ragione d’interesse, volendo egli essere di punto in bianco ricevuto a parte (V. lettera di Goldoni al Marchese Albergati in fogli sparsi raccolti dallo Spinelli, pag. 119). Era a Milano il il carnovale 1762-63 e l’aprile 1764. Il maggio del '65 fu nuovamente ventilato il disegno di farlo andare a Parigi col mezzo del Goldoni, per incarico dell’intendente primario degli spettacoli M. de la Ferté (V. lettera s. c.), ma egli nè anche 'sta volta vi andò. Andò invece a Innsbruck, chiamatovi dalla Corte Imperiale, dove, uscendo dall’avere assistito alla sua {p. 465}rappresentazione del 18 agosto, morì istantaneamente l’Imperatore Francesco I. Lo vediamo la primavera del’69 nel Nuovo Teatro di Corte di Modena (V. Spinelli — Una recita di A. Sacco a Modena in La Provincia di Modena del 31 ottobre e 1° novembre 1901), ove apparve la sera del 30 maggio l’Imperatore Giuseppe II proveniente da Firenze. La sera dopo egli era al teatro in Mantova ; e lo Spinelli riferisce questo brano di lettera di Luigi Galafassi a suo padre Consigliere ducale :

L'Imperatore disse che a Modena la Commedia era ottima, e quell’arlecchino molto vivace e bravo, e che una sua facezia gli sarebbe sempre stata impressa, ma che non voleua dirla. Il vecchio marchese Zanetti disse che la Compagnia Sacco era veramente buona, che si era sentita in Mantova, e che quell’arlecchino era stato applaudito. S. M. ripigliò : « Intendo, vorrebbe sapere che cosa ha detto, ma…. oh ! via, diciamolo. Si trattava di un ammalato, a cui il medico aveva ordinato che si cibasse di cibi leggieri. Tutti proponevano chi una cosa chi l’altra. Arlecchino disapprovava tutto : se volete cibar bene il vostro ammalato dategli quattro cervelline di donna, che non vi è cosa più leggiera al mondo. La cosa mi arrivò così improvvisa e frizzante, che non so risovvenirmene senza ridere. »

E trovata la commedia di Mantova poco buona, S. M. disse : « A Modena la commedia mi ha assai divertito, e vi è un Tartaglia (A. Fiorilli, V.), che è il miglior comico che io mi abbia mai sentito. »

E così, di trionfo in trionfo andò innanzi il fortunato capocomico artista, ultimo grande avanzo della commedia improvvisa, fino all’anno 1782, in cui la Compagnia, descritta dal Gozzi al principio de'suoi servizi, come quella che « aveva un credito universale, quanto a'costumi famigliari, differentissimo da quello che in generale hanno quasi tutte le nostre Comiche Compagnie », e di cui (Mem., T. II, 17)

la unione, la buona armonia, le occupazioni domestiche, lo studio, la subordinazione, il vigore, la proibizione alle femmine di ricever visite, l’abborrimento che queste dimostravano di accettar doni da'seduttori, l’ore regolarmente divise ne'lavori casalinghi, nelle preci, e l’opere di pietà co'miserabili ch' ei vide nel suo drappelletto, gli piacquero,

dopo venticinque anni di eroicomica assistenza dovè sciogliersi per la vecchiaja e il rimbecillimento del Sacco ; e più ancora pe'suoi ridicoli amori a oltre óttant’anni, pei quali, vedendo compromessa l’eredità, la figlia comica si ribellava {p. 466}audacemente. Alla sua s’unì poi la ribellione di tutta la Compagnia ; e a questa le invettive del Sacco, doventato un demonio, che eran morsi canini. Si corse persino alle spade e ai coltelli. Petronio Zanerini, Domenico Barsanti, Luigi Benedetti, Agostino Fiorilli si levaron di compagnia nauseati ; anche Atanasio Zanoni risolse di abbandonare il cognato ; ma con la intromissione del Gozzi, rimase…. ancor per due anni, in mezzo alle grida, ai lamenti, alle ingiurie, alle minaccie. Si passò dal S. Salvatore al Sant’Angelo invano. Mancavano i mezzi per allestir degnamente nuovi lavori ; mancavano i mezzi per pagare i comici ; si andò pe'tribunali, si ricorse a'sequestri ; e finalmente la Compagnia, « che per lungo corso di anni era stata il terrore di tutte le altre Comiche Truppe, e la delizia de'teatri, si sciolse miseramente », e il vecchio Truffaldino, avanti di partire per Genova, andò a salutare il Conte Gozzi, e a chiedergli con un bacio perdono e compassione.

Sul cadere dell’ 88 egli morì sopra una nave nel tragitto da Genova a Marsiglia ; ed ecco come la Gazzetta Urbana Veneta del 19 novembre 1788, n. 93 dà l’annunzio del triste caso :

Quest’uomo famoso che ammirare si fece sino a'confini d’Europa : che fu chiamato fuori d’Italia, dove non intendesi la nostra lingua : che volar fece il suo nome appresso tutte le nazioni dove conoscesi e pregiasi la comic’ arte : che nelle nostre parti rese col suo valore angusti al concorso i maggiori teatri, è morto indigente nel suo tragitto da Genova a Marsiglia e il suo cadavere soggiacque al comune destino de'passeggieri marittimi, d’essere gettato in mare. Sarà vero che molto in sua vita egli abbia guadagnato e molto speso : ma è vero non meno che l’arte comica in Italia non arricchisce nemmeno chi l’esercita colla più grande fortuna.

Non mi par qui il caso di dover rilevare la stupida osservazione del giornalista, come se l’arte comica in Italia fosse responsabile dello sperpero dei danari, degli ori, degli argenti, e delle gemme, che un attore, favorito dalla sorte fino agli ottant’anni, fa in amori senili degni di ogni dileggio….

Tocchiamo più tosto dell’arte sua come attore e capocomico.

Nella Tartana degl’ influssi e nelle varie Composizioni facete satiriche del Conte Gozzi (Opere, Firenze-Venezia, 1774, {p. 467}Colombani, T. VIII), molto si discorre contro il Goldoni e il Chiari in favore di Antonio Sacco.

Il Burchiello, profetando il ritorno di esso da Lisbona per il mese di dicembre (carnovale 1755-56), cantava :

Anderan le formiche a processione,
perocchè carnovale era sbandito ;
e' dice ancora, tutte le persone
andranno al Sacco, come ad un convito ;
e rideranno, e dirangli : Ghiottone ;
perchè sì t’eri, traditor, fuggito ?
Questi dottor ci opprimeano i cardiaci ;
eravam fatti tutti ipocondriaci.

Chi poi voglia avere un’ idea de' pregi del Sacco e della sua Compagnia, secondo il giudizio di esso Gozzi, non ha che a leggere il secondo volume delle Memorie inutili, e tutto il Canto ditirambico de' partigiani del Sacchi Truffaldino (opere c. s.), in cui fra l’altro è detto :

Sacchi innocente,
di nostra mente
consolazione,
tato e mignone,
tu con le pure
caricature,
e con gl’imbrogli,
quando tu il vuogli,
e con gli amori,
e co' furori,
le gelosie,
le braverie,
senza osceni allettamenti,
imposture, adulazioni,
vinci tutte le invenzioni
de' Poeti prepotenti ;
e ci sollucheri,
e i cori inzuccheri ;
a' tuoi detti giriam gli occhi,
tanto il mel par che trabocchi,
{p. 468}e ci urtiamo e pizzichiamo,
ci abbracciam, ridiam, gridiamo :
O poeti da cucina,
Viva il Sacchi, e Smeraldina.

Ma se tutto s’avesse a riferire di quanto fu pubblicato in favore del Sacco, occorrerebbe un grosso volume. Nè dal tempo delle fiabe scritte, dopo tornato egli da Lisbona, datan le offese e difese dei due campi.

V'ha un manoscritto nella Biblioteca Estense di Modena, comunicatomi dalla cortesia dell’amico G. A. Spinelli, intitolato : La | Chiareide | Poema | criticosatiricogiocoso | raccolto | da | Episarco Laprisio | Pastor Lapponio, il quale contiene oltre a sonetti dell’ab. Pietro Chiari contro i Conti Gozzi e l’Accademia de' Granelleschi, tre sonetti dello stesso Chiari per la partenza della Compagnia Sacco, i quali dieder motivo alla Raccolta, con le risposte a ognuno, e de' quali ecco il primo, come saggio :

In occasione | Della partenza da Venezia per Lisbona | della Compagnia Comica di | Antonio Sacco :

Anime ree più nere de l’inchiostro,
Amiche a l’Alcoran, più che al Vangelo ;
Obbrobrio, e disonor del secol nostro,
Pesti de la Natura, odio del Cielo ;
Respiri Italia in voi perdendo un Mostro,
C'ha il fiel negli occhi, e fin sul core il pelo :
Andate pur, seguite il destin vostro,
Più a voi contrario, che le fiamme al gelo.
Le sirti Gaditane e le procelle,
D'avervi ad ingojar speran fra poco,
Alme bestemmiatrici, a Dio rubelle.
Spera chi tien fra Lusitani il loco,
Per vendicar le bestemmiate stelle,
Se sfuggirete il mar, di darvi al fuoco.

Che il Sacco fosse attore di grandissimo grido sì per le argute improvvisazioni, sì per la eleganza e rapidità dell’azione, {p. 469}è fuor di dubbio, chè troppi sono i testimonj e non sospetti come il Goldoni, che al Capitolo IV, T. III, delle Memorie sentenzia : « Il nostro secolo ha prodotto tre gran comici quasi nel tempo istesso. Garrik in Inghilterra, Preville in Francia, e Sacchi in Italia : e nella Prefazione al Servitore di due padroni, Scenario, ossia Commedia a Soggetto, composta il 1745, mentre era a Pisa fra le cure Legali, dice di lui :

I sali del Truffaldino, le facezie, le vivezze sono cose che riescono più saporite, quando prodotte sono sul fatto dalla prontezza di spirito, dell’occasione, del brio. Quel celebre eccellente comico, noto all’ Italia tutta pel nome appunto di Truffaldino, ha una prontezza tale di spirito, una tale abbondanza di sali e naturalezza di termini, che sorprende : e volendo io provvedermi per le parti buffe de le mie Commedie, non saprei meglio farlo, che studiando sopra di lui. Questa Commedia l’ho disegnata espressamente per lui, anzi mi ha egli medesimo l’argomento proposto, argomento un po' difficile in vero, che ha posto in cimento tutto il genio mio per la Comica artificiosa, e tutto il talento suo per l’esecuzione (V. anche nelle Memorie il Cap. XLIX del Tom. I).

Visto poi che recitata da altri la Commedia non sortiva il medesimo successo, s’indusse a scriverla tutta, « non già, — aggiunge con gentile riserbo, — per obbligar quelli che sosterranno il carattere di Truffaldino a dir per l’appunto le parole sue quando di meglio ne sappian dire, ma per dichiarare la sua intenzione, e per una strada assai dritta condurli al fine. » E conchiude pregando chi reciterà quella parte, di volere in caso di aggiunte astenersi « dalle parole sconcie, da'lazzi sporchi…. » E qui forse intende di muover velatamente rimprovero al Sacco stesso, che in materia di sconcezze su la scena pare non avesse troppi scrupoli.

Ne fa fede Pietro Antonio Gratarol al Capo XII della sua Narrazione apologetica, quando dice :

Non altronde che a Venezia ti verrebbe fatto, manigoldo, di ottenere da ogni genere di persone quanto ivi ottieni. Li commedianti d’altra nazione sanno anzi rigentilire la comica professione con modi li più costumati e sulle scene e nelle case ; ma tu, più ch'ogni altro, ben sai renderla infame con un’intollerabile licenza di continui atteggi e sali, o repugnanti alla decenza, o temerari nella censura. Infatti questo idolatrato eroe, non so se per superbia di vedersi arricchito, ovvero per timor di spacciare le sue buffonerie senza il costumato prezzo delli dieci quattrini, fa moltissimo il prezioso nella società, e ne riesce alquanto sciapito.

{p. 470}E al Capo XVIII, parlando della censura per la bestemmia :

Perchè non si rivedono e non si licenziano anche tante scandalose ribalderie, che impunemente escono tutto giorno dal Truffaldino e da altri ?

Ma più ancor ne fa fede Giuseppe Baretti, non veramente sospetto di poca sincerità come potrebbe essere creduto il Gratarol per le sue relazioni con la Compagnia Sacco e il Conte Gozzi, in una sua lettera da Venezia del 14 aprile 1764 a Don Francesco Carcano, al quale raccomanda vivamente il Sacco che doveva recarsi giusto allora a Milano. Egli scrive :

Benchè in teatro, per compiacere il grosso dell’udienza, egli si lasci scappare qualche cosetta un po'grassetta, pure nel suo conversare familiare egli è tale che le vostre intemerate Marianne e Carlotte non hanno che temere….

Fr. Bartoli che fu nella sua Compagnia sei anni, senza buona fortuna, tesse di lui le più ampie lodi ; lo dice istruito, specialmente intorno alla Storia Universale, direttore egregio per le opere serie come le comiche, gran comico, ritrovatore di molte scene, di cui lardellava i vecchi soggetti dell’arte, che ne venivan così risanguati, autore di scenarj, fra cui del fortunatissimo Truffaldino molinaro innocente.

Truffaldino non è che uno dei tanti nomi di Arlecchino, senza mutamento nè di abiti, nè di essenza. Il Rapparini a pag. 184 del suo Arlichino (Heidelberga, Müller, 1718) ce ne dà una lista, più lunga a dir vero del bisogno ; chè alcuni ebber vario il costume, e varia l’essenza :

Arlichino, Trufaldino,

Sia Pasquino, Tabarrino,

Tortellino, Naccherino,

Gradellino, Mezzettino,

Polpettino, Nespolino,

Bertolino, Fagiuolino,

Trappolino, Zaccagnino,

Trivellino, Tracagnino,

Passerino, Bagatino,

Bagolino, Temellino,

Fagottino, Pedrolino,

Fritellino, Tabacchino.

{p. 471}È autentico il ritratto che qui riproduco ? Chi sa ! Appartiene alla splendida raccolta di Hugo Thimig, l’eccellente comico, direttore del Teatro Imperiale di Vienna, che volle gentilmente concederne la riproduzione per l’opera mia. Al Thimig fu dato da un erudito di Dresda, che ci scrisse sotto : Arlequin bei den Sächsischen Kömedianten im Jahr 1723, e disse a voce a esso Thimig trattarsi assai probabilmente del famoso Sacchi. 1723 ? Dunque del Sacchi a quindici anni ? Non mi pare possibile. L'arlecchino di Dresda del 1723 non era Natalino Bellotti (V.), uno dei Beniamini della Corte ? Potrebbe adunque esser questo il ritratto suo, giacchè quel che parmi certo si è non trattarsi qui di una semplice imagine della maschera di arlecchino, ma di un vero e proprio ritratto.

Quanto al cognome del nostro artista non saprei che decisione prendere. Sacco egli è detto nell’Arco del Portico di S. Luca ; e Fr. Bartoli che pur fu sei anni con lui lo chiama Sacco ; Goldoni Sacco e Sacchi, Gratarol Sacchi, Sacchi il Gozzi che fu con lui venticinque anni, Sacchi il Baretti, Shagy il Registro parrocchiale di Santo Stefano di Vienna, e finalmente Sacchi si firma in tutte le sue lettere lo zio Gennaro, Capitan Coviello. Io l’ho chiamato Sacco, attenendomi alla lettera che il Croce riferisce, sottoscritta Antonio Sacco capo comico.

Sacco Antonia, moglie del precedente, e figlia di Elisabetta Franchi, fu assai pregiata artista per le parti di donna seria col nome di Beatrice, sì nelle commedie a soggetto, sì nelle scritte. Fu sempre nella Compagnia del marito, e viveva ancora il 1782 fuor della scena per la soverchia età. Anche di lei Carlo Gozzi fa menzione nel citato canto ditirambico :

Sieda ancor la Beatrice,
che de' Sacchi accresce il novero,
perchè il mondo mai sia povero,
frutta di cotal radice.

{p. 472}Sacco Vitalba Angela. Figlia dei precedenti e moglie di Giovanni Vitalba, fu egregia nelle parti di prima donna, che sostenne sempre nella Compagnia di suo padre che le fu ottimo maestro. Molte delle parti nelle Fiabe del Gozzi e nelle sue Commedie tratte dallo spagnuolo furono scritte per lei. F. Bartoli ci fa sapere come « al suo valore non corrispondesse ancora il di lei personale, che per essere basso, e pingue di soverchio le fu di molto discapito nell’arte sua. » Di ciò fa cenno anche il Gozzi nel canto ditirambico :

L'Angelina il monte assaglia,
ma s’ingrassi un po' più adagio.

La primavera del 1766 si trovava a Bologna, e le fu diretto da Ignazio Casanova il seguente sonetto, comunicatomi gentilmente da G. A. Spinelli, stampato poi nel giugno a Modena in foglio volante dagli eredi B. Soliani.

Al merito della valorosa signora | Angiola Sacco | Vitalba | prima donna della Compagnia de' Comici | al Teatro Formagliari | la primavera dell’anno 1766.

Alludesi alla bellissima Commedia

“Che anche una Donna sa custodir un segreto”

Pensieri ingiusti nella mente accoglie
Contro il Sesso gentil il Volgo insano ;
Lo crede infido a custodir l’Arcano,
Che facile riceve, e presto scioglie.
Lo dice avvezzo a tramutar le voglie,
Capace di tradir al par di Gano,
Chi in lui s’affida il seme butta invano ;
E sol miete per fin affanni e doglie.
Qui venga il folle, e nel sentir la forte
Faconda Donna sostener l’impresa
Con cor virile, e con maniere accorte :
Vedrà la Donna della Fè custode,
Costante all’uopo, e di valore accesa,
Che il bel Sesso gentil merita lode.

{p. 473}Il 1782 era ancora col padre al triste momento in cui la Compagnia stava per isfasciarsi. Le scene violente ch'ella ebbe di continuo con lui per vedere la eredità paterna insidiata da ridicoli amori, resero incompatibile la sua dimora in Compagnia, sicchè, avanzando negli anni, determinò di togliersi col marito dalla professione.

Sacco Giovanna. Sorella minore della precedente, recitò sempre nella Compagnia del padre, ammiratissima nelle parti di amorosa ingenua, e in quella specialmente di Barberina nell’Augellin Belverde del Conte Gozzi. Sposatasi al fabbricator di navi, Paris, che al tempo delle Notizie di Fr. Bartoli (1782) era primo Ammiraglio dell’arsenale, si ritirò dall’arte, in cui prometteva di riuscir valentissima.

Sadowsky Fanny. Nata a Mantova il 1827 da un Capitano polacco al servizio dell’Austria, fu una delle maggiori attrici italiane, fiorita dal’ 45 al '65, entrata in arte in quella famosa Compagnia di Gustavo Modena, fatta di elementi giovani, non viziati da eroi o eroine della scena. Giuseppe Costetti ne traccia il seguente ritratto :

Sedicenne appena, Fanny Sadowski avea alta e flessuosa la persona, dolcissima eppure assai squillante la voce. Un po'magrolina, coi capegli fini e naturalmente ricciuti, nerissimi al pari degli occhi, e con quella pelle bianca che è particolare alle bionde, accoglieva in sè i tipi della bellezza nordica e della meridionale. La bocca piccina e le labbra di quel cinabro che non si comprerà mai neppure a Parigi, carnose e mollemente curve, s’aprivano appena anche nell’impeto dell’esclamazione, quasi gelose custodi dello smalto, meravigliosamente bianco, della dentatura.

Non ho, naturalmente, conosciuta giovane la Sadowsky ; ma l’ho avuta capocomica del '72 e del '73 ; e, sebben trascurata negli abbigliamenti e curva della persona, serbava ancor quasi intatte alcune delle doti sopra descritte.

Esordì a Milano con la parte di Micol nel Saul di Alfieri : Saul era Modena, David Salvini.

Ceduta la Compagnia Modena al Battaglia, ella vi passò prima attrice, sotto la direzione di Francesco Augusto Bon, con {p. 474}Alamanno Morelli primo attore, e Luigi Bellotti-Bon brillante. Dopo un triennio, formò Compagnia col caratterista Astolfi, della quale eran primo attore Giuseppe Peracchi, e brillante Salvator Rosa. Passò del '51 nella Reale di Napoli ai Fiorentini, direttore Adamo Alberti, attori principali Achille Majeroni, Michele Bozzo, Luigi Taddei, Angelo Vestri, Luigi Monti, Antonio Zerri. Col Majeroni e il Taddei formò poscia una Compagnia, colla quale girò l’Italia, acclamatissima sempre. Leone Fortis scrisse per lei Cuore ed Arte, e io stesso l’ho sentita nell’ultimo tempo della sua vita artistica, recitare {p. 475}con passione fervida la figura alta e poetica della Gabbriella di Teschen.

A proposito del suo dare intera l’anima viva ed accesa in ogni parte di passione, il Costetti racconta che avendo ella baciato veramente Paolo nella famosa scena d’amore della Francesca di Pellico a' Fiorentini di Napoli, intervenne il fisco, il quale inflisse all’artista scandalosa la multa di dodici ducati. Ora accadde che, dati da lei allo stesso punto due baci la sera di poi, un bell’umore dalla platea si diede a sclamare : « Donna Fanny, so' ventiquattro ducati », con che successo di risa e di {p. 476}applausi ognuno può immaginare. Quando nella Signora dalle Camelie il numero de' baci non potè più contarsi, si tentò di proibirli con la minaccia di proibir la recitazione del dramma ; ma fu invano : la Sadowsky continuò a baciare, e il pubblico ad applaudire.

Fermatasi a Napoli, ove ancor vive (1903), e divenuta sposa del Cav. Santorelli, formò due Compagnie, in una delle quali, diretta da Cesare Rossi, figuravan Ceresa, Leigheb, Giulio Rasi, la Campi, la Zerri, la Fumagalli ; nell’altra, diretta da Luigi Monti, Lollio, Bertini, Rodolfi, Adelina Marchi, la Boetti.

Salimbeni Girolamo, di Firenze. Rinomatissimo per le parti di vecchio fiorentino sotto il nome di Zanobio e di Piombino, appartenne alla famosa Compagnia de' Comici Gelosi citata dall’Andreini (Rag. XIV), e lo vediamo il 1593 a Genova. (V. Balestri), e il 1594 a Firenze, come da una sua lettera in data dell’ 8 dicembre al cav. Biagio Pignatta, pubblicata dal Neri nel F. d. D. del 4 aprile 1886, nella quale discorre di certa porta del teatro che dava sulla strada, e che non ostante la promessa di esso Pignatta di farla murare per evitar danni alla Compagnia, gli fu ordinato dal signor Alessandro Barberino di tenerla aperta. Sì dalla istanza del 1593, scritta di pugno del Fabbri (V.), ma oltre che dagli altri sottoscritta dal Salimbeni per sè e per gli assenti, sì dal tenore di questa lettera dettata a nome della Compagnia, il Neri ne lo ritiene (e io con lui) in conto di Capo.

Nella supplica del 1593 al Senato di Genova egli si firma Salimbeni detto piombino : qui, Salimbeni detto piombo.

Andreini dice di lui nel citato Ragionamento : « Girolamo Salimbeni da Fiorenza, che faceva da vecchio fiorentino detto Zanobio, e da Piombino. » Fr. Bartoli, che aveva letto male, commentò : « Zanobio nativo di Piombino luogo della Toscana. » E molti lo seguirono ; ma io credo sia evidente trattarsi dell’appellativo di un tipo speciale di vecchio servo, derivato forse dal modo pesante di muoversi e discorrere, come il {p. 477}Succianespole negl’ Innamorati di Goldoni, il Pizzuga nella Villana di Lamporecchio di Del Buono, e altri moltissimi di simil genere. Il Salimbeni dovè certo acquistarsi buona rinomanza in questa parte : e vediam del 1608 a Fontainebleau il Delfino dar per parola d’ordine agli esenti dalla guardia il nome de'migliori personaggi della Compagnia italiana ; oggi Frittellino, domani Pantalone, posdomani Cola, e tre giorni dopo Piombino, e dopo ancora Stefanello (V. Baschet, op. cit.).

Salsilli-Morelli Adelaide (V. Morelli Antonio e Majeroni Achille). Dal suo secondo matrimonio con Edoardo Majeroni ebbe un figlio, chiamato anch' esso Edoardo, che fu marito di Giulia Tessero, la sorella di Adelaide, morto in Australia il 1891.

Salsilli Luigi. Fratello minore della precedente, nacque il 1788, e rimasto orfano si arruolò giovinetto, in qualità di tamburino, nell’esercito napoleonico. Terminata la ferma fu scritturato dal Capocomico Goldoni, amico di suo padre. Condusse anche piccole compagnie, e morì nel 1814. Oltre all’Adelaide ebbe tre fratelli, Francesco, Pietro e Carlo, tutti comici. Sposatosi a Cherubina Coppetti senese, divenuta comica anch'essa, n’ebbe quattro figliuoli :

Elena fu moglie dell’attore, pure di Siena, Silvio Mozzidolfi, e madre dell’attore Napoleone tuttora vivente a Brescia, e di Teresa, prima moglie di Paolo Giacometti.

Adelaide, attrice promettentissima, morta a soli ventisei anni, fu la prima moglie dell’attore Francesco Sterni.

Alessandro, buon generico per molti anni in ottime compagnie, sposò Aurora Bettinelli di Asola, e quivi ritiratosi in vecchiaja morì.

Salsilli Napoleone. Figlio del precedente, nato il 1808, fu attore efficace e intelligente per le parti di caratterista e promiscuo. Recitò ammirato, in gioventù, nella Compagnia delle {p. 478}tre famiglie riunite Morelli-Mozzidolfi-Salsilli, e fu sempre assai stimato dal celebre cugino Alamanno. Nel '31, a soli ventisei anni, fu tra'partigiani del Menotti, e a Correggio fu minacciato di morte dai contadini reazionarj, dopo che Francesco IV d’Este ebbe consegnato all’Austria il povero Ciro ; ma salvato dagli amici, egli potè darsi alla fuga. Fu poi per le condizioni della famiglia sua, della quale era unico sostegno, in compagnie modeste, e morì del’ 74.

Salsilli Antonio. Figlio del precedente e di Marianna Gordini di Bazzano, non mai comica, nacque l’ 8 di ottobre 1840 a Belgiojoso, presso Pavia. Cominciò a recitar giovinetto, e talvolta anche in parti di brillante, ma veramente egli salì in rinomanza come suggeritore, che doventò casualmente a soli dieci anni, quando, una sera venuto a mancare il suggeritore della Compagnia, dovette sostituirlo lì per lì nella farsa La Muta per necessità.

Fu, dal '63 a oggi, nelle migliori compagnie, quali : Pieri Peracchi e A. Salvini, A. Monti e Marini, Majeroni e Sadowsky, Morelli, Morelli Marini e Ciotti, Morelli e Tessero, Pietriboni, Bellatti e Marini, Marini solo, La Nazionale, Vitaliani, Novelli. Fu anche capocomico, e condusse e diresse la Società ('92-'93) con Italia Vitaliani. Amministrò la Società Ferrati-Riccardini, e quella Biagi-Iggius. Quando era con Morelli (del '70) sposò Enrichetta Pirocca di Este, maestra del Collegio ov'era stata educata, e appassionata filodrammatica, che fu poi buona generica e seconda madre. Fra i tanti miracoli compiuti dal Salsilli nell’arte sua, va segnalato questo : di aver suggerito dell’ '84 in Compagnia Nazionale, un po' a memoria e un po' improvvisando, con poche parti principali in mano, il Cuore ed Arte di Leone Fortis, al Teatro Gerbino di Torino, essendo stato involato il manoscritto, nuova riduzione dell’autore, sul punto di alzarsi il sipario ; e Paolo Ferrari, direttore della Compagnia, ignaro della cosa, si meravigliò, venuto più tardi in teatro, della esattezza e rapidità di esecuzione.

{p. 479}Non dee far maraviglia che in queste pagine figuri un semplice suggeritore. Ma io non saprei immaginare un’opera che discorra di comici italiani, discompagnata dal nome di Antonio Salsilli, che fu sempre e tuttavia si serba di essi amico fortissimo e strenuo difensore ; che vagheggiò per essi radicali riforme atte a levarne alto lo spirito, a rialzarne il senso morale, a farne comprendere coi sacri doveri i non men sacri diritti. Ed egli cominciò col pagare di tasca, poichè al suo nuovo modo di amministrare e condurre una Compagnia sua, modo, che, se da'più fu giudicato una fisima, gli acquistò e afforzò l’amore delle imprese e degli scritturati, dovette forse in gran parte la sua rovina come capocomico. Nè questa dell’artista umanitario fu sua sola dote. Antonio Salsilli fu anche scrittore egregio di articoli e bozzetti di teatro, spesso col pseudonimo di Paron Toni, nella Gazzetta di Napoli, nella Rivista Subalpina, nel Corriere di Roma, nel Carro di Tespi ; autore di commedie, tra cui accolta con molto favore quella in un atto Cicero pro domo sua, e di monologhi, tra cui Il punto interrogativo, fatto celebre dall’arte meravigliosa di Claudio Leigheb, e divenuto poi la delizia di tutti i dilettanti maggiori e minori. Tradusse, ridusse, ammodernò una infinità di commedie dal francese, dall’inglese, dallo spagnolo, dal tedesco, fra cui Rabagas, Bebè, Le sorprese del divorzio, Fu Toupinel, L'ostacolo, Il docente a prova, ecc. Ora egli sta preparando la Storia del teatro contemporaneo, di cui è già a stampa la prefazione, e un Libro di memorie ; e io e quanti aman l’arte con me auguriamo all’egregio uomo di condurre a fine le due opere che saran certo dei più preziosi contributi alla storia della nostra scena di prosa.

Salvadori Enrico, nato a Pisa il 16 luglio 1848 da Francesco e da Enrichetta Donati, fu uno dei più forti primi attori giovani del nostro tempo. Messo a sette anni nell’Istituto privato del sacerdote prof. Bettini, v'insegnò, a soli diciassette anni, italiano e francese. Fece parte con onore della nuova {p. 480}Filodrammatica pisana, indi sì aggregò nella Compagnia Capodaglio, per un breve corso di recite a Massa-Carrara. Andò poi a sostituir l’amoroso Tollo in Compagnia Peracchi, esordendo colla parte di Maurizio nell’Adriana Lecouvreur, e di qui ebbe principio la sua vita di artista, nella quale s’ebbe comuni gli onori, e ahimè comune la sorte ultima con Giovanni Ceresa. Il 2 gennajo del '79 si manifestarono i primi sintomi del male, poco avvertiti, che doveva poi condurlo al sepolcro. S'era al Manzoni di Milano. Il Reinach lo sostituì nel Fabrizio de'Borghesi di Pontarcy. Il 25 la malattia si mostrò apertamente, e il 7 febbrajo era già ritirato dalle scene per paralisi progressiva, della quale morì il 4 febbrajo 1886 nel manicomio di Fregionara, e fu sepolto il 6 nel cimitero di Lucca.

{p. 481}Enrico Salvadori fu amoroso nel vero senso della parola. Il periodo migliore della sua vita artistica è quello, in cui egli si trovò sotto l’occhio e la mente di Bellotti-Bon a fianco di Adelaide Tessero. Egli era veramente il primo attore della Compagnia, ma primo attore che recitava il Fernando della Partita a Scacchi. Di aspetto piacevolissimo, di persona elegantissimo, di voce carezzevole, ricco d’intelligenza, studioso, era il diletto di ogni pubblico. Forse i disordini, forse le fatiche dovevano spegnere lentamente, lentamente quell’anima piena d’ardore e di passione, distruggere quel cervello sì forte a briciolo a briciolo ! Salvadori e Ceresa. Due giovani forze possenti, le più possenti forse del lor tempo, grandi nell’interpretazione di medesimi tipi, come, a esempio, del Raffaello di Marenco, del Signor Alfonso di Dumas, e prostrate a un tratto nel più terribile modo, con la ironia della serbata vita bestiale, col dono maledetto di un’agonia crescente di anni e anni !!!!…

Salvestri Giovanni, livornese, figlio di un rinomato notajo, nacque il 1847 ; e, non ancor compiuti gli studj, si recò ad Alessandria d’Egitto, impiegato in una buona Casa di commercio. Fu il '66 con Garibaldi, poi attore di qualche pregio fino al '73, nel quale anno si stabilì a Milano, dedicandosi allo scrivere pel teatro. Molti lavori d’indole varia ottennero il favore del pubblico ; ma, nato il Salvestri in Toscana, e ammiratore profondo di Gherardi del Testa, dovè trionfare sopr'a tutto nella commedia brillante. Fatemi la corte, commedia in tre atti, è quella forse che gli die' maggior nome, rimasta viva tuttavia nel repertorio di qualche Compagnia. Restituitosi a Livorno il luglio del 1890 per l’aggravarsi della sua malattia di cuore, vi morì l’ 11 di ottobre, compianto da tutta l’arte.

Salvini Giuseppe, nato da onesti parenti a Livorno sul cadere del secolo decimottavo, fu maestro di calligrafia egregio. {p. 482}Dotato di prestante figura, di bella voce, e di molta attitudine all’arte ch'egli spiegò tra' Filodrammatici, diventò presto comico, e presto s’acquistò buon nome in ogni genere di recitazione, ma più specialmente nella rappresentazione di alcune parti di tragedia quali Filippo, i Creonti, Virginio, gli Egisti di Alfieri. Non potè far parte delle primarie Compagnie che al suo tempo correvano l’Italia, perchè, innamoratosi della giovinetta Guglielma, figlia del capocomico Tommaso Zocchi (V.), fu trattenuto ad arte nella Compagnia del futuro suoceto, della quale il Salvini era un de' primi sostegni nel ruolo di padre nobile. Sposatosi finalmente, fece parte della Società Internari-Paladini, e si recò del '30 a Parigi, lasciando la moglie malata in Italia presso la sua famiglia, sostituita per favore nel suo carattere di serva dalla moglie del caratterista Taddei. Dopo due mesi e mezzo di soggiorno a Parigi, ricevette notizie dal suocero del rapido aggravarsi della malattia di lei, e dovè, scioltosi amichevolmente dai compagni, tornare in patria. Mortagli poco dopo la moglie (1831), passò a seconde nozze con Fanny Donatelli, divenuta poi buona artista di canto, dalla quale in breve fu per infedeltà separato. Lasciato il maggior figlio Alessandro a studiar belle arti all’Accademia di Firenze, si scritturò nella Compagnia di Bon e Berlaffa, conducendo seco il figlio minore Tommaso ; poi, sempre con lui, in quella di Gustavo Modena ('43-'44), a fianco del quale egli sosteneva Achimelech nel Saul, Lusignano nella Zaira, Andrea nella Pamela nubile, ecc., oltre a tutte le parti di primo attore assoluto in quelle opere di varia indole, in cui Modena non avesse parte.

Il figlio non aveva alcun ruolo speciale, e lo stipendio annuo era di lire austriache 3000, coi viaggi pagati a entrambi, e 400 lire in più all’arrivo sulla piazza. Il quale onorario, considerati i tempi, fa fede, mi pare, del gran conto in che Giuseppe Salvini era tenuto dal sommo artista. Pur troppo, recitando la compagnia a Palmanova, fu còlto da malattia mortale ; e quivi morì nel 1844.

{p. 483}Avanti di entrare in Compagnia Modena, trovavasi a Forlì, ove per la sua beneficiata si pubblicò, in foglio volante, la seguente epigrafe :

A GIVSEPPE SALVINI

livornese

per felice natura potente ingegno accurata industria
fatto esempio singolare
del decoro della proprietà della grazia
onde la drammatica recitazione
dilettando
governa le menti e i' cuori
a figurare gli umani affetti
una cosa col vero
fra l’unanime applauso dei forlivesi
che nel teatro del comune
il carnovale del m dccc xliii
ammiravano tanta eccellenza

i soci delle barcacce

ghinassi versari e minardi

vollero rendere onore con questa memoria
ed augurare
all’arte lodatissima perfetta
giusta mercede
e che italia
schiva una volta di usanze forestiere
le liberalità rimuneratrici della danza e del canto
serbi a più utili studj
e non torni in bas tarda

Salvini Alessandro. Figlio del precedente, nato a Padova il luglio del 1827, fu iniziato allo studio del disegno, diventando in breve una lieta promessa nell’arte del pennello, nella quale si addestrò presso l’Accademia di Firenze. Ma morto il padre, il desiderio di calcar le scene lo vinse, e a sedici anni fece le sue prime prove col celebre Taddei, scritturandosi poi col Pellizza, secondo amoroso, poi, nello stesso ruolo col Domeniconi, sotto il fratello Tommaso primo attor giovine. Diventò in breve artista fortissimo per le parti promiscue, quali Papà Martin, Amico Francesco, Laroque, Giosuè il Guardacoste, Luigi XI, e {p. 484}lo abbiam più volte ammirato Jago perfetto in compagnia del fratello Tommaso. Di faccia espressiva, di voce bellissima, fu anche attore egregio nelle parti di tragedia, sebbene pel fisico alcun po'deficiente, era piccolo di statura, non gli si attagliassero troppo. Divenuto in vario tempo capocomico, n’ebbe varia fortuna ; ma più spesso non buona per cattiva amministrazione. Scrisse molte opere teatrali, in cui la sciattezza della forma era compensata da una cotal vivacità di dialogo e fecondità d’intreccio. Non poche sortirono buon successo, come La Spia, L'unico figlio, Le ragazze scherzano, ecc.

Aveva sposato Margherita Villa di Milano, non comica, e morì a Firenze il 2 febbrajo 1886 per aneurisma, e fu sepolto al Monte alle Croci.

{p. 485}Icilio Polese nell’Arte drammatica del 18 gennajo '73 narrava di lui il seguente aneddoto :

« Sandro rappresentava non so dove, nè quando, nè con chi Filippo di Alfieri. Faceva Carlo. A un tratto gli si piegano le gambe, e cade privo di sentimento. “Un medico, un medico,” — gridan tutti. — Accorre un medico qualunque, il quale tasta il polso all’ Infante, e constata che con un brodo ristretto e una bistecca tutto può passare. Povero Infante ! Non aveva da giorni avuto lo spesato dal suo capocomico. »

Salvini Tommaso. Fratello del precedente, nacque a Milano il 1° gennaio del 1829. Se io mi facessi a scrivere la storia teatrale dell’ultimo cinquantennio, dovrei cominciare da Tommaso Salvini, artista possente, formidabile, colossale, classico nel significato puro della parola.

Ab Iove principium !

Come seguir codesto genio nella metamorfosi rapida dell’arte, senza provare un senso di stupefazione, direi quasi, d’incredulità ? Nel '43 in Compagnia Bon e Berlaffa appare su la scena con la veste e il dialetto di Pasquino nelle Donne curiose di Goldoni ; dopo pochi mesi vince la prova con Gustavo Modena, recitando il racconto di Egisto nella Merope di Alfieri ; e gli sono affidate tutte le parti di primo attore giovine. Il '45 è, in quel ruolo, ai Fiorentini di Napoli, e il '46 con Domeniconi e Coltellini. Il '47 è collo stesso Domeniconi, al fianco della Ristori, già forte promessa nel Paolo della Francesca da Rimini, nel Romeo di Giulietta e Romeo, nel Carlo del Filippo, nell’Egisto della Merope ; il '48 a Roma è consacrato attore tragico, suscitando nel pubblico l’entusiasmo coll’Oreste di Alfieri. A diciannove anni ! Prende parte il '49 strenuamente all’assedio di Roma, ed è carcerato prima a Genova col Saffi, poi a Firenze, alle Murate…. col Guerrazzi. Uscito la quaresima del '53 dalla Compagnia Domeniconi, si riposa a Firenze, ove si dà allo studio di nuove {p. 486}parti ; e il '54 entra in quella di Astolfi con la Santoni e il Pieri. Ma eccolo dal '56 al '60, i quattro anni che accrebbero e cementarono la sua riputazione di artista, con Cesare Dondini, di cui diventa socio più tardi, a fianco di Clementina Cazzola, che doveva poi essere la donna del suo cuore e la madre dei suoi figli. Il '57 va a Parigi e vi ottiene, specie con l’Otello, {p. 487}un clamoroso successo. Il '60 è scritturato primo attore e direttore della Compagnia Reale de'Fiorentini in Napoli ; il '61 è capo di una Compagnia elettissima, di cui son parti principali la Cazzola e la Piamonti, Alessandro Salvini suo fratello, Privato, Woller, Coltellini, Biagi ; si unisce il '62 ad Antonio Stacchini, e il '65 ritorna ai Fiorentini di Napoli, e questa volta insieme alla Cazzola ; e prende parte a Firenze alle feste dantesche, recitando al Pagliano alcuni canti del poema divino, al Niccolini per la prima volta la parte di Lanciotto nella Francesca di Pellico. Torna capocomico il '67, e scrittura il '68 {p. 488}Virginia Marini (ammalatasi la Cazzola, morì consunta dalla tisi il luglio di quell’ anno, e Salvini sposò pochi anni appresso una giovanetta inglese, mortagli a ventiquattr'anni il dicembre del '78). Va il '69 in Ispagna e in Portogallo, il '71 nell’America del Sud, il '73 nell’America del Nord, e il '74, di nuovo…. in quella del Sud ; il '75 a Londra, al Drury-Lane ; il '76 di nuovo a Londra ; il '77 in Austria e Germania, poi a Parigi ; il '79 in Italia, e nuovamente a Vienna ; l’80 in Ungheria, in Russia, in Rumenia ; e, il novembre, nell’America del Nord per recitar prima, il 29, a Filadelfia, poi a New-York, egli solo, in italiano, con una compagnia di attori americani. Il {p. 489}dicembre '81 e gennajo '82 in Egitto, il marzo e l’aprile in Russia, l’ottobre nell’America del Nord ; poi in Italia, a Roma, Firenze e Trieste. Alla fine del febbrajo '83 in Inghilterra e in Iscozia ; l’inverno in Sicilia. La primavera dell’ '85 in Ukrania ; alla fine dell’anno, per la quarta volta, nell’America del Nord con una compagnia inglese, prima a New-York, poi a San Francisco di California, poi di nuovo a New-York, Filadelfia, Boston, recitandovi l’Otello con l’illustre Edwin Booth, Jago. Tutto l’87 riposo ; l’ 88 recita in Italia e torna l’ 89 nell’America del Nord. Nel carnovale '90-'91 interpreta per la prima volta la parte di Jago al Niccolini di Firenze con Andrea Maggi, Otello : poi torna in Russia, acclamatissimo come a' primi tempi, poi si aggrega a questa o a quella Compagnia per dar di quando in quando alcuna rappresentazione in pro della Cassa di previdenza per gli {p. 490}artisti drammatici, di cui egli è Presidente ; poi, finalmente, nell’anno di grazia in cui scrivo (1903), egli crede di dare un addio alle scene a fianco di suo figlio Gustavo, recitando l’Otello, la Morte Civile, e l’Oreste (Pilade), e mostrando ancora, (tranne forse ne'rari momenti, in cui ricordavano i suoi ammiratori di altri tempi il cannoneggiar d’una frase), tutta la freschezza e la musicalità della recitazione, tutto l’impeto della passione, tutta la profondità dell’interpretazione. E ho detto crede di dare, poichè oggi, a quattro mesi di distanza da quelle recite di addio, egli sta trattando per recarsi l’aprile e il maggio del 1904 nell’America del Nord. A settantacinque anni !

Di tra i giudizi dati all’illustre Uomo, scelgo il seguente di Ernesto Rossi :

Vidi Tommaso Salvini rappresentare la parte di Egisto nella tragedia classica, Merope di Maffei : e come lo vidi allora, lo tengo sempre scolpito in mente. Le creazioni indovinate lasciano lunga ed incancellabile memoria. A facilitare l’interpretazione di quel carattere concorrevano ad esuberanza le sue facoltà fisiche : imperocchè, giovane, bello del volto e della persona, con una voce fresca, limpida, armoniosa, tonante, pareva fatto e tagliato a posta per allettare e sedurre la sensuale madre di Oreste. A me parve che in quella parte egli raggiungesse la perfezione. Una sfumatura di meno sarebbe stata freddezza, una di più esagerazione. Giudicai Tommaso allora classico per eccellenza. Dubitando di poterlo seguire in quella eccellenza classica, anche richiesto non volli mai rappresentare quella parte, nè quella tragedia.

E di tra le tante testimonianze di ammirazione e di gratitudine ch'egli ebbe da tutti i pubblici nostri e di fuori, scelgo il bel sonetto di Paolo Costa che la Direzione degli Spettacoli di Faenza gli offriva il 20 luglio 1861 :

a TOMMASO SALVINI insigne attore italiano nel duplice aringo di melpomene e di talia a niuno secondo la direzione degli spettacoli in segno di altissima ammirazione

Se avvien che l’uom per questa selva oscura
de la vita mortale il guardo giri,
e vegga con che legge iniqua e dura
amore i servi suoi freda e martiri ;
{p. 491}e quale avara ambizïosa cura
faccia grame le genti, e i Re deliri,
esser non può, se umana abbia natura,
che al destin non si dolga e non s’adiri.
Ma se poi l’arte orrendi casi e fieri
dinanzi alla pietà di gentil core
rechi, e gl’inciti sì, che pajan veri :
a gli occhi manda l’anima dolente
lagrime dolci nel suo dolce errore,
e chi t’ode e ti mira, o Prode, il sente.

Chi mi suggerisce ora le parole e le imagini per dare non già un ritratto al vero, ma una pallidissima idea di questa gigantesca figura di Giove tonante ? Vi hanno frasi di tragedie e di drammi passate nella illustrazione sua in proverbio.

Questa per esempio di Giosuè il Guardacoste :

Ma che Ammiraglio ! Non c’ è Ammiraglio che tenga ! Fatemi arrestare, bastonare, voi ne avete il diritto ! Ma colui che verrà a dirmi : « Ohe, Van Broust, — cosa c’ è ! ? — Eh, nientemeno…. tuo figlio ha rubato…. » Sia Ammiraglio, sia Principe, sia Re, sia Dio…. in terra, io gli dirò : non è vero !!!!!

Dall’Ammiraglio a Dio era una parabola ascendente, maravigliosa : ah ! quel Dio ! che volata ! che cannonata ! Non si sarebbe potuto comparare che ai famosi do di petto de'più gagliardi tenori, e ancor con discapito di questi.

E l’altra frase di Otello :

Or non ha dunque
più foco il ciel…. la folgore a che giova ?…

Con una intonazione altissima, disperata, proferiva sul fondo della scena la prima parte della frase, e correva poi con magnifica armonia di movimenti alla ribalta, proferendo l’ultima parte con una voce di basso, rauca, sorda, terribile, che metteva un fremito nella folla.

E quest’altra di Arduino d’Ivrea :

Ei venga, e in vetta troverà dell’Alpi
d’Italia il serto d’Arduin sull’elmo,
ma nol vedrà, chè di mia spada il lampo
vince il riflesso della mia corona.

{p. 492}Che quantità e varietà di note in questi quattro versi ! Strana, e pur tanto efficace ! quell’alzata rapida, acuta di voce all’ultimo mia, con rapido abbassarsi a corona.

E la chiusa della scena con Arnolfo, pur d’Arduino :

Ard. Prete !
Il prestigio volgar che vi circonda,
me non accieca…. e in mio poter tu sei !
Guardati !
Arn. Insano, ch'osi tu ?
Ard. Prostrarti
del tuo Signore al piè.
Arn. Me ? Tu vaneggi !
La sacrilega man ritraggi, o Iddio….
Ard. È Dio dei forti e sta con me, ti prostra.
Arn. Sacrilegio ! Empietà !
Ard. Gracchia, ma piega,
giù nella polve !
Arn. Empio mi lascia !… Aita !…
……………
Ard. Indietro !
Nella polve lasciatelo : dinnanzi
ad Arduino Re, quello è il suo trono.

E il famoso :

Spavento
m’è la tromba di guerra ; alto spavento
è la tromba a Saùl

e il non men famoso :

Ma è poco a mia vendetta ei solo.
Manda in Nob l’ira mia, che armenti e servi
madri, case, fanciulli uccida, incenda,
distrugga, e tutta l’empia stirpe al vento
disperda

di Saul ?

E la descrizione della lotta col leone in Sansone ? E Il figlio delle selve ? E Il gladiatore ? E Spartaco ? Vi furon opere, scritte a posta per lui, che niun altro per la mancanza di quei mezzi fisici onde natura gli fu prodiga, avrebbe potuto rappresentare. Nè si creda ch'egli sia stato artista colossale soltanto per quelle parti in cui specialmente occorrevano la colossale persona e la voce poderosa ; chè accanto alle frasi in cui si richiedevan quella {p. 493}persona e quella voce, altre ve ne avean di sommesse consacrate dal pubblico e dalla critica. Salvini ha potuto della sua voce far tutto ciò che ha voluto. Dal ruggito della tigre passava con incredibile facilità al belato dell’agnello. Niun meglio di lui seppe sospirar la parte di Bonfil ; niuno, meglio di lui, i versi di Orosmane…. : il racconto dell’evasione nella Morte Civile era tutto un poema di sordine. Nessuno della presente generazione può farsi un’idea del come egli sapesse trar partito da una parola, da un monosillabo, da una esclamazione, da un sospiro per suscitar l’entusiasmo della moltitudine. Chi ricorda il non è vero di Giosuè il Guardacoste ? E il prete di Arduino d’Ivrea ? E il Non intesi di Pilade ? e l’Ah fratello di Lanciotto ? E il Chi mi trattien di Orosmane ? E il Dannata la cortigiana vil di Otello ? E i sospiri del Figlio delle Selve alla rivelazione dell’amore ? {p. 494}Egli aveva la consapevolezza piena della sua forza, si piaceva giocar con le difficoltà dell’arte. Quando gli accadde di dover recitare con Ernesto Rossi, altro colosso di ben altra specie, che il pubblico riguardava assai più come suo antagonista, che come suo emulo, lasciava a lui con generosa sommessione la scelta della parte. In Francesca da Rimini l’insuperato Paolo restò Paolo, Salvini si mutò rassegnatamente in Lanciotto : in Oreste l’insuperato Oreste restò protagonista, Salvini si mutò in Pilade. Ma nella gran metamorfosi artistica, Paolo ed Oreste ebber, si può dire, la peggio : Lanciotto, entrato fin allora nel criterio del pubblico con veste di odioso tiranno, fu, da allora, il più amabile e commiserabile de'personaggi della Francesca ; e {p. 495}il piccolo Pilade doventò un colosso di parte. Ho detto più su che Tommaso Salvini fu classico nel significato puro della parola, chè non mai s’ebbe da notare nella sua esposizione la esuberanza spontanea, e pur tal volta nella spontaneità grottesca de'romantici : ne'suoi scatti di passione, ne'suoi scoppi di furore era sempre la misura contegnosa, direi quasi plastica della forma : plasticità che non tradiva mai la fatica dello studio, ma usciva elegantissima e varia sempre e rapida in una spontaneità apparente. Se mi fosse lecito un paragone, direi che l’anima del sommo artista era un superbo corridore, passante di vittoria in vittoria, sorretto dalla man forte di un savio condottiero : la mente.

Con la imponenza de'mezzi fisici, la commedia del salotto oggi gli si attaglierebbe meno che la vasta opera tragica : oggi, mentre non si comprenderebbe un Saul o un Sansone diverso da lui, mal si comprenderebbe nella gigantesca persona figurato il tipo, a esempio, di Armando. Ma quando Salvini era Salvini, sia che, Sansone, si pigliasse di un tratto su le spalle il padre, e con quel fardello non lieve (il padre era Giustino Pesaro) salisse a corsa l’erta non facile, sia che, Armando, gemesse infantilmente a'piedi di Margherita, il pubblico era afferrato, soggiogato : io lo ricordo in una intera stagione (agosto 1868 al Politeama fiorentino) ; e ricordo la sua grandezza inalterata nel Sansone, nella Suonatrice d’arpa, nella Francesca da Rimini, nel Torquato Tasso, nel Giosuè il Guardacoste, nella Zaira, nell’ Amleto, nel {p. 496}Sofocle, nella Pamela nubile, nel Gladiatore, nell’Oreste, nella Missione di donna, nella Virginia, nella Vita color di rosa, nella Morte Civile, nel Sullivan, nell’ Otello, nello Scacco matto, nel Re Lear, in Giulietta e Romeo (del Ventignano), nel Milton, nella Colpa vendica la colpa !

Quanto all’indole dell’uomo, si direbbe ch'egli volle cader di proposito nell’opposta esagerazione del suo grande Compagno d’arte. Come sul suo petto non brillò quasi mai una delle tante decorazioni, pur da lui possedute, che coprivano nelle officialità il petto dell’altro, così, all’opposto dell’altro, egli fu in ogni tempo e in ogni dove sprezzatore del più piccol mezzo che procacciandogli successo, gliel venisse intimamente attenuando. Ei si guadagnava il terreno a palmo a palmo, senza strombazzature, quasi direi senza preavvisi. Salvini ? Chi è Salvini ? Si domandaron la prima volta a Parigi ; e andaron la prima sera a teatro in pochi : vi andarono più la seconda, e si rimandò la gente alla terza. Sempre così egli vinse : con la sola potenza dell’arte.

In riviste inglesi e italiane pubblicò alcuni studj delle sue interpretazioni, e in un volume del Dumolard (Milano, 1895) i suoi Ricordi : iniziò a Or San Michele di Firenze le letture dantesche, e a Palazzo Riccardi, pur di Firenze, lesse intorno al teatro del '500. L'ultimo e nuovo suo trionfo può dirsi oggi la lettura della miglior parte di una tragedia inedita di Cimino, Abelardo ed Eloisa, nella quale egli sa risvegliare tutta l’antica forza. Oggi il Ministro della Pubblica Istruzione gli ha fatto coniare una medaglia d’oro per solennizzare il suo sessantesimo anno di vita artistica. Quando un artista a quasi sessant’anni affronta per la prima volta il personaggio di Coriolano, e a oltre sessanta quello di Jago, e a settanta infonde lo spirito a nuovi personaggi con la sua bocca forte, e a {p. 498}settantacinque pensa attraversar l’oceano per sostener le fatiche dell’artista in ben trenta rappresentazioni e nelle più importanti opere del suo repertorio, noi siamo certi di poter chiedere alla sua fibra titanica una nuova e gagliarda manifestazione del genio nel giorno primo di gennajo del 1909 : solennissimo giorno, nel quale il vecchio e il nuovo mondo si uniranno in un amplesso fraterno di arte a dargli gloria.

Salvini Gustavo. Figlio del precedente e di Clementina Cazzola, nacque il 1859 a Civitavecchia, donde, poche ore dopo, fu condotto per mare a Livorno, acciocchè non fosse suddito del Papa. Studiò fino a sedici anni, poi, per la salute cagionevole, lasciò le scuole e andò col babbo a Londra, ove sostituì nell’Amleto l’attore che sosteneva la parte di Rosencrantz. L'arte drammatica lo adescava fatalmente. Io lo ricordo giovinetto a Torino, quando a notte alta per le vie ci ripeteva i brani più salienti delle interpretazioni paterne : nelle modulazioni musicali della voce la imitazione era tal volta perfetta. Un po'appunto per questo, e molto per la fibra che appariva più tosto debole a sostener le lotte e le fatiche della scena, il padre gli fu sempre avverso a che si facesse comico ; ma egli, malgrado tutto, complice lo zio Alessandro, entrò il '78 nella Compagnia di Achille Dondini come generico, e il '79 in quella di Marazzi-Diligenti come generico primario. Fu l’81 con Ferrante, poi, per un triennio e per sua fortuna, con Vittorio Pieri, direttore Alamanno Morelli. Formò società fino all’ '88 con Raspantini, facendosi poi da solo capocomico con avversa fortuna ; tanto che il padre dovè corrergli in ajuto ; ma col patto ch'egli avrebbe lasciato l’arte per sempre. E il patto fu mantenuto…. per cinque anni ; dopo i quali (1894) risolse di bel nuovo di cedere all’invito della grande sirena, e lasciati moglie e figliuoli in Italia, si recò nell’America del Sud, ove, prima a Buenos-Ayres, poi a Rosario di Santa Fè e a Montevideo, s’ebbe il più vivo dei successi. Tornato in patria si unì ad Angelo Saltarelli (già conduttore per quattordici anni della Compagnia di Ernesto Rossi), uomo {p. 499}di molta esperienza e di molta onestà, che gli fu sin ad oggi, e gli sarà lungo tempo ancora, amico, fratello, padre ; e con esso vide la Russia, l’Austria, la Serbia, la Croazia acclamatissimo, a fianco d’Ida Bertini, una filodrammatica pisana, che, divenuta sua moglie, sostenne prima i ruoli di amorosa, poi di prima donna assoluta. Ma ormai egli aveva una spina nel cuore, che gli dava spasimo forte e continuo : all’applauso del pubblico mancava quello di suo padre, il quale risentitolo a Roma e a Firenze (non ne aveva più l’idea dall’'89 a Ferrara), non solamente gli die' col bacio del perdono il suo assenso a continuare, ma si mostrò con lui nel Saul e nell’Otello, lasciandogli in quello la parte del Protagonista, e in questo la parte di Jago. Incitato a nuovi e severi studj s’ebbe ognor nuovi trionfi. Tra le maggiori e migliori sue interpretazioni van notate in campo sì disparato quella di Petruzzo nella Bisbetica domata di Shakspeare, di Edipo Re di Sofocle, e di Jago in Otello di Shakspeare : quest’ultimo recitato maestrevolmente a fianco del padre nel suo giro di addio.

Anche lo volle Eleonora Duse compagno nella Francesca da Rimini di G. D'Annunzio. Ma alla forma antica e pura dell’opera, e alla recitazione musicalmente languida di Eleonora Duse, il modo esuberante di Gustavo Salvini venutogli col repertorio forte, mal si attagliò taluna volta e formò dissonanza. {p. 500}Egli è ricco di attitudini chiare e rare, congiunte a una più rara volontà. Gli ostacoli non lo impacciano, lo studio non lo prostra, purchè quelli affronti, si dia a questo per l’arte sua, nella quale, e ciò forse gli nocque veramente a conseguir la purezza classica delle linee, si gittò a capo fitto, troppo presto liberato dalla man forte del guidatore. Egli stesso con amorevole modestia scriveva, a' primi del '900, di sè : « …. lo studio mi aveva reso più forte nelle interpretazioni, ma io adesso posso confessare candidamente che come ho recitato gli ultimi anni in Compagnia Morelli-Pieri non reciterò mai più. Sarò e potrò diventare ancora più profondo nelle concezioni, ma recitare più vero, più spigliato, più spontaneo di quell’epoca, No. » Proprio così : la verità, la spigliatezza, la spontaneità gli mancano tal volta ; e come gli sarebbe agevole riacquistarle potè far fede la parte di Jago, recitata sotto la guida del padre con tal chiarezza e vivacità e sobrietà insieme, che la magnifica figura shakspeariana, troppo sovente fatta consistere in un artifizioso, leccato strisciar delle parole a viemmeglio insinuar la gelosia per vendicarsi o dell’ oltraggio maritale di Otello, o della superiorità di Michel Cassio, balza viva e saltante, quale essa è veramente : figura di cinico, egoista, maligno, calcolatore, sottile, feroce, che va diritto al suo scopo, serbando in quella sua servilità tutta la libertà del pensiero e dell’azione ; e, come al bel tempo, in cui la prima volta la incarnò il padre al Niccolini, è rivissuto nell’arte del forte scolaro tutto il genio selvaggio di Shakspeare.

Salvini Alessandro. Fratello del precedente, nacque a Firenze il 21 dicembre del 1861. Fu educato in un Istituto della Svizzera tedesca, ed ebbe famigliare su l’altre la lingua inglese. Si recò in America dell’ '82 con Ernesto Rossi, interprete fra lui e gli artisti inglesi. Quando il Rossi tornò, egli restò colà, dove, perfezionatosi nella lingua, si fe' sentire, invitato dal signor Palmer, già impresario di suo padre, nel monologo di Amleto. Il fiore della giovinezza, la freschezza {p. 501}della azione, la svegliatezza della mente, la bellezza del volto e della persona, il nome glorioso di Salvini invogliaron l’esperto impresario a fornirgli modo di doventare attore. Si presentò in una parte di amoroso a fianco della celebre attrice Clara Mowis, e vinse la prova. Scritturato da principio, si fece poi capocomico, interpretando acclamatissimo, in vario tempo, Don Cesare di Bazan, I Moschettieri, Cavalleria rusticana, Amleto, Romeo e Giulietta, Stormbeaten, La Causa celebre, Fromont e Risler, ecc. ecc.

Di lui scrive suo padre :

I caratteri che, a mio credere, più gli si addicono sono i virili, gli energici : ai languidi, amorosi, sentimentali non sembrami inclinato. La sua figura atletica non si accorda con le espressioni tenere e melliflue, che disdicono anche alla sua voce robusta, altisonante ; come pure i suoi gesti imperiosi e decisivi si mostrano soggiogati da una volontà che si ribella all’istinto…. Ho ferma fiducia che fra poco rivaleggerà con i migliori campioni della lizza artistica, e sarà tutto merito suo.

Ammalatosi di tifo in California, e non curato a dovere, strascicò una esistenza penosa tra i fastidj del capocomicato e del male latente. Lasciata l’America per tornarsene in Italia, dovè fermarsi in Inghilterra còlto da febbri intermittenti. Rimpatriò finalmente ; ma, distrutto da tisi intestinale, cessò di vivere a Firenze il 15 dicembre del 1896. Avea sposato in America Maud-Wilson, divenuta poi artista con lui. Molto saviamente di lui scrisse Piccini (Jarro) nella prima serie dell’opera Sul palcoscenico e in platea :

Andare in un paese forestiero : andare in città come Nuova York, Boston, Washington, Filadelfia, Nuova Orlèans : riuscir a parlar in una lingua straniera, e non pur a parlare, ma a recitare in essa : farsi ascoltare, non da migliaja, ma da milioni di uomini : riuscire ad essere celebrato fra tutti gli attori paesani, essere ascoltato con affetto e con deferenza da alcuni fra essi, può davvero sembrar un prodigio, che sapeva effettuare un giovane italiano, innanzi di toccar i trent’anni.

{p. 502}Sangiorgi Carlo. Fiorito nella seconda metà del secolo xvii, recitò le parti di secondo Zanni col nome di Trivellino. Lo troviamo il 1681 a Venezia, donde a un segretario del Duca, che voleva la Compagnia a Ferrara, manda la lettera seguente, che traggo inedita dalla mia raccolta :

Ill.mo et Ecc.mo Sig. Sig. e Pr.on col.mo

Giunto in Venetia non mancai di unirmi alli miei compagni con il conferire la gent.ma di V.ª Ecc.ª e gli ho trovati circa la loro volontà dispostissimi d’incontrare li suoi commandi ; ma ritrovo delle difficoltà grandi sul Padrone del teatro, che pretende di trattenere la Compagnia per suo servigio, e si adopra quanto puole per via di Gentilhuomini ; ma spero p. quanto sarà possibile di condurre la Compagnia à Ferrara ; metto però in consideratione a V. Ecc.ª il gran dispendio della Compagnia, oltre la difficoltà del Donativo scarso et il crescimento di un’altra parte, hauendo già due serue la Compagnia. Però se V. Ecc.ª non si vede per tutto lunedì, haurà mie lettere di quello la Compagnia risolverà : e mi dedico

di V. Ecc.ª
Hum.mo e deuot.mo ser.re
Carlo Sangiorgi
detto Trivellino.

Dal che apparirebbe avere il Sangiorgi voce in capitolo in compagnia presso S. A.

L''86 il Duca ordinava in data 28 giugno al tesoriere Zerbini di pagare a' seguenti comici due doppie il mese, principiando dal primo di maggio scorso :

Martia Fiala, detta Flamminia.

Giuseppe Fiala, detto il Capit.no Spagnuolo.

Gaetano Caccia, detto Leandro (V. Suppl.).

Bernardo Narici, detto Orasio.

Antonio Riccobuoni, detto Pantalone.

Carlo Sangiorgi, detto Trivellino.

Domenico Bononcini, detto Campana.

Gio. Antonio Lolli, detto il Dottor Brentino.

Anna Marcucci, detta Angiola.

Sansò Giuseppe. « Napolitano. Recitò da innamorato spiritosamente ne'Teatri della sua Patria, e riuscì un ottimo Commediante. Fu nella Compagnia diretta da Antonio Fiorilli, in cui ebbe campo di far spiccare la sua abilità, specialmente nelle Commedie all’improvviso. Una sera dopo d’aver recitato, perdè {p. 503}con sua gran meraviglia la vista, senza avervi avuto alcun preventivo malore. Appassionato ed afflito per tale disgrazia, ammalossi, e si ridusse a morire in un ospitale correndo l’anno del 1750. » Così Fr. Bartoli.

Santi Virginia. Nacque il 1836 a Senigallia dai coniugi Sassoli, poverissimi. Carlo e Margherita Santi, comici, che la vider bambina, sì n’ ebber pietà che ottennero da' parenti di poterla adottare qual figlia. Venuta grandicella fu condotta seralmente in teatro, e cominciò subito a sostener mirabilmente le parti di bimba. A quindici anni era una egregia prima attrice giovine, e a venti prima attrice assoluta di molti pregi nella Compagnia di Luigi Pezzana e Cesare Marchi. Ma dopo un triennio abbandonò le scene per isposare un ricco signore di Bologna, e morì dell’ 80.

Santoni Carolina. Attrice tragica di assai buon nome, nacque il 1808 in Livorno da agiata famiglia, e precisamente in quel quartiere detto Crimea, oggi Via. S. Carlo – presso la Piazza Mazzini – già Piazza di Morte. Vuolsi ch'ella avesse una voce magnifica di soprano, e che una sera di agosto del 1825, mentre ella cantava un notturno, accompagnata al piano dal maestro Vignozzi, passando di là il Guerrazzi e il Bini, il primo, colpito da tanto accento drammatico, sclamasse : « Per Iddio, quella ragazza dovrebbe far l’ attrice. » Fu profeta, perchè pochi anni dopo, Carolina Santoni fu una illustrazione dell’arte drammatica. Recatasi giovinetta alla Scuola fiorentina di declamazione diretta dal Morrocchesi, spiegò subito le più chiare attitudini alla scena, sì che a vent’anni fu scritturata prima attrice assoluta da Tommaso Zocchi, esordendo felicemente a Firenze. Dopo tre anni passò nella Compagnia Lipparini, poi, il '43, in quella primaria di Luigi Domeniconi. Ammogliatasi al marchese Zambeccari di Bologna, si ritirò dal teatro ; ma mortogli improvvisamente il marito ab intestato, ella dovè subito ritornarvi. Fu il '50 con Coltellini, e la vediamo al Teatro {p. 504}Re di Milano, festeggiatissima ; il '51 passò con Domeniconi a fianco di Tommaso Salvini, di Gaetano Vestri, di Amilcare Belotti ; e il '57, per un triennio, con la Compagnia Righetti, appendice alla Compagnia Reale Sarda, sotto la direzione di Gustavo Modena, « in qualità di prima attrice per quel genere di parti, che i francesi chiamano fort premier rôle, e per quella di madre tragica, con l’annuo stipendio di lire nuove di Piemonte 6300, e tre mezze serate a suo benefizio, di cui una, la quaresima, a Torino. » Il triennio '61-'63 fu nella Compagnia di Filippo Prosperi, e andò l’ultimo anno in Ispagna, ove s’ ebbe i maggiori onori. Tornata in Italia, fu a più riprese con Ernesto {p. 505}Rossi, poi direttrice della Filodrammatica di Terni, poi a Roma, prima attrice al Teatro Capranica, ov' ebbe a rialzar le sorti della povera Compagnia che non faceva le spese dell’illuminazione.

Tornò in Ispagna, chiamatavi dalla nipote Carolina Civili, e quivi morì, presso Madrid, il febbrajo del 1878.

Carolina Santoni ebbe figura meravigliosa. I suoi capelli corvini adornavano un’ alta fronte illuminata da due occhi nerissimi, esprimenti tutti i moti del cuore umano. Non bella veramente, esercitava sugli spettatori colla espressione della faccia un fascino irresistibile.

Il collo, le spalle, le braccia di marmo parean modellati da Fidia.

Nata per la tragedia e l’alto dramma, fu eccelsa nella Medea, nella Pia, nella Stuarda, in tutta la vasta opera alfieriana, nella Suonatrice d’arpa, nella Maria Giovanna, nella Diana di Chivry. Nè la coltura, e si potrebbe dir la grammatica, era il suo forte, come può vedersi da questo bigliettino ch'ella mandava il '37 al sig. Ferdinando Pelzette S. R. M. a Firenze :

Sti ;mo Signior Ferdinando
Eccomi di nuovo

ad’ incomodarlo con la presente, per pregarlo di mandarmi tre monete dovendo comperare della roba, che mi sarà necessarissima. Lo prego di scusare l’incomodo ; Mille è mille saluti alla gengissima Sig.ra Madalena e resto, piena di stima,

Carolina Santoni.
P. S.
La presente li servirà di ricevuta.

Gio. Batta Niccolini ha parole atroci per lei in una lettera a Maddalena Pelzet, forse più da considerarsi come sfoghi di autore contro la Compagnia Domeniconi che gli preferiva il Giacometti, e sfoghi d’autore che voleva ingrazionirsi ognor più l’interpetre e l’amica.

Di mezzo alle poesie dettate per Carolina Santoni scelgo il seguente sonetto di T. Z. S. dispensato in foglio volante {p. 506}al Cocomero di Firenze la sera del suo benefizio 20 febbrajo 1851 :

De' tuoi grand’ occhi nell’ alta pupilla,
rapito al Cielo e di sè stesso altero,
è un lume dentro cui puro sfavilla
il redento da te Genio del vero :
quindi affetti non ha, non ha parola
questo misero sogno della vita,
che non prenda alla tua perfetta scuola
bellezza insuperabile, infinita.
E quando più nel suo fulgor divina
l’arte trasfonde l’ immortal suo spiro
al guardo e all’atto che ti fan regina ;
negli arcani del tuo vivo sospiro
ogni cor sente la superna idea
che in un volger di ciglio anima e crea.

Sarti Girolamo. Veneziano, nipote del suo omonimo, detto Stringhetto (V. Bartoli Francesco) recitò con molto plauso le parti di Tartaglia. Lo vediamo il 1782 nella Compagnia di Giovanni Roffi.

Savi Bartolommeo di Bergamo. Istruito da Lorenzo Bellotto, detto Tiziano, doventò buon Arlecchino, e fu a Venezia applaudito in Compagnia di Girolamo Medebach. Si recò poi a Parigi al Teatro italiano e vi esordì il 15 ottobre del 1760 nella Dame invisible, senza alcun successo : ma vi piacque il dì dopo in Arlequin Sénateur Romain. Tuttavia abbandonò il ruolo di Arlecchino, e prese quello di Dottore e di parti staccate, che sostenne fino alla chiusura del teatro nel 1767, dal quale si ritirò, essendogli morta l’aprile dell’anno prima in ancor giovine età la moglie Elena Savi, che aveva esordito come amorosa il 28 maggio 1760 con molta intelligenza e con molto brio nell’Homme à bonne fortune, ed era stata accolta poco tempo dopo a mezza parte.

{p. 507}Sappiamo dal Goldoni (Mem., T. III) che la signora Savi era la prima attrice della Commedia italiana, e abitava con Zanuzzi al sobborgo di S. Dionigi, come pure (ivi, 19) che non aveva disposizioni felici per la commedia, ma che era giovane e di assai buona volontà.

Uscito dal teatro, Bartolommeo Savi si diede prima a fabbricare fuochi d’artificio, coi quali si recò in parecchie città della Francia. Lo vediamo in tale ufficio a Modena il 1758, dove immaginò

I fuochi teatrali, cioè : Due fontane versanti nella platea le composizioni presenti allusive alle suddette fonti, e ai componimenti suddetti, che pure alludono alle Medesime, siccome all’arme de la serenissima Casa d’Este alle stelle che la circondano, all’ecclissi del sole, ed ai segni del zodiaco, rappresentati dai fuochi sopraddetti, spieganti in generale le glorie della suddetta serenissima casa, alla quale umilmente li dona, dedica e consacra l’ossequiosissimo servidore.

Bartolo Savi d.° Truffaldino.

Detti fuochi teatrali furono illustrati con un carme apologetico dell’abate Gio. Battista Vicini, poeta primario di S. A. Serenissima (Mod., Eredi di Bart. Soliani), che comincia :

Abbia Marte i suoi fuochi, e da tonanti
guerrieri bronzi, e da le ferree canne
vomiti incendi strepitoso, e morti
sotto del Cielo Artoo col Prusso in lega
pur anco resistente e col feroce
non cedente German col Gallo invitto
col numeroso Mosco e il prode Sveco
abbia i suoi fuochi anco Talìa :

Si costruì poi il Savi un teatrino di marionette, con cui tornato in Italia e stabilitosi a Torino, ov'era ancora il 1781, aggiunse nuove fortune alle già acquistate. Passò a seconde, poi, nuovamente vedovo, a terze nozze.

Savorini Galeazzo, di Bologna. Comico rinomatissimo per le parti di Dottore, fiorito sul finire del secolo xvii, fu al servizio del Duca di Modena con Anna Arcagnati sua moglie, detta in commedia Rosaura. Abbiamo di lui un passaporto dei {p. 508}più ampii, rilasciato il 15 febbrajo 1689, quando i Savorini dovevano recarsi da Bologna in varie città d’Italia, e firmato Francesco-Carlo Pio di Savoja. Nell’elenco però della Compagnia (V. Torri) non figura che il marito, al quale sono assegnate di paga venti doble al mese. Una lettera del 18 febbrajo 1690 al Duca, firmata dal Savorini e da Marco Antonio Zanetti detto Truffaldino (V.), ci apprende come la Compagnia fosse stata costretta a scorrere la primavera in Pescia e Camajore, l’ estate in Lucca e Livorno, e l’ autunno in Firenze senza recite con avversa fortuna, e con tante traversie, malattie, e dispendî, che oltre ai gravi incomodi e patimenti, era rimasta impegnata con un debito di 150 doppie, oltre li debiti particolari di ciascuno, ai quali Dio sa quando si sarebbe potuto provvedere.

Il Duca di Modena aveva loro ordinato di andare per proprio conto a Modena, e di là a Genova, dopo il carnovale di Roma. Ma gli scriventi, dopo di avere annunziato essere in trattative con certo Don Ferdinando Baldese per la stagione di Pasqua a Napoli, ove sarebbero andati a tutte sue spese con teatro e abitazione per la Compagnia, pagati, e con altre condizioni molto vantaggiose, si dichiarano pronti a eseguire gli ordini di Sua Altezza, raccomandandosi in ogni modo, acciocchè voglia somministrar loro il bisognevole per fare un viaggio tanto dispendioso. Il Duca Francesco ordinò al Tesoriere Zerbini di pagare in Roma a vista all’ abate Ercole Panziroli doppie dieci d’Italia, da darsi al Truffaldino e al Dottore per valersene nel viaggio da Roma a Modena a conto delle loro provvisioni : una miseria codesta, se vogliam credere che il bisogno fosse reale. Infatti i comici tornarono all’ assalto l’11 marzo, e questa volta ricevettero dalla Munificenza di Sua Altezza per mezzo del medesimo abate quarantacinque scudi d’argento con l’ordine reciso di partir subito da Roma.

Rosaura, la moglie di Savorini, non era con lui a Roma, e abbiamo un nuovo ordine del Duca allo stesso tesoriere, di pagare degli effetti di cassa segreta al Marchese Decio Fontanelli lire 360, per darle alla Rosaura in conto di sue {p. 509}provvisioni, che dovevan principiare a decorrere dal giorno di arrivo a Modena, per unirsi al resto della Compagnia.

Altra supplica dei Savorini abbiamo al nuovo Duca, morto Francesco, con la quale espongono la loro critica posizione e domandano un ajuto. La istanza fu passata pei provvedimenti al Conte Cesare Rangoni (1695).

E altra finalmente da Bologna in data 1° ottobre 1699, in cui si discorre delle solite miserie, e s’implorano i soliti soccorsì, fatti a ciò arditi gli umilissimi serventi dalla Munificenza di tutti gli eroi della Serenissima Casa Estense, Epilogata nella persona di Sua Altezza Serenissima.

Alla coltura del Savorini accenna Luigi Riccoboni nel capitolo settimo della Storia del Teatro Italiano, là dove dice : « Nell’anno 1690, all’età di tredici anni, io cominciava a frequentare il teatro : tutti i comici di quel tempo erano ignoranti. Tranne Giovanni Battista Paghetti, che rappresentava la parte di Dottore, e Galeazzo Savorini, che dopo lui sosteneva le medesime parti, non potrei nominare uno, ch'avesse fatto i suoi studi. »

In data dell’'88 abbiamo una lettera al Duca di Modena, in cui si lamenta di non aver ricevuto la sua parte del donativo passato ai comici, e dice di aver lavorato per nulla, carico di famiglia. Domanda soccorso. Dice che quando il Duca fu ammalato corse per tutti i monasteri di Bologna a far pregare, e massime in quello di Santa Caterina. Altrettanto fece a Corte Maggiore per altra malattia.

Giuro avanti Dio che se V. A. mi dà una carità convenevole, volere andare a trovare la sacra M. della Regina sua sorella, e portarli un santo Ritratto qual dovevo portare alla felice memoria dell’ Imper. Leonora, come da una sua lettera che tengo può vedere, e l’ assicuro che gli sarà di gran sollievo nelli presenti bisogni, contento all’anima, se si degnerà lasciarmi comparire davanti la di lei serenissima persona sentirà l’ historia, dirò solo che sono stato dall’'83 sino all’'88 in Livorno nascosto.

Ma è questa lettera sibillina veramente del Savorini, o forse del Muzio, dottore anch'esso il 1688 al servizio del Duca ?

{p. 510}Sbodio Gaetano. Nato a Milano il 10 novembre 1844, è stato uno de' più forti sostegni, dopo Ferravilla, della Compagnia dialettale creata da Cletto Arrighi. A quindici anni, abitava allora a Roma con la famiglia e faceva il mestiere dell’orefice, si arruolò volontario nella legione Cacciatori del Tevere.

Emigrato a Torino, pensò poi di andarsene a Milano, desideroso com’era di rivedere la cara patria. Quivi tornò a far l’orefice per campar la vita, esercitandosi la sera in una società di dilettanti a recitar le parti di amoroso in italiano. Col Meneghino Caironi sostenne una sera del carnovale '64 o '65, la parte di Fornaretto con grande successo, e da allora deliberò di farsi attore. Entrato in Compagnia Codognola, esordì {p. 511}al Teatro Chiabrera di Savona con tale successo di fischi e di risa, che dovette cambiar aria, e andò ad aggregarsi a una Compagnia miserissima, che recitava in un granajo di Finalmarina. I fischi non ci furon più, ma non ci furon più nè anche i mezzi per isfamarsi. Deciso di tornarsene a Milano, si recò a piedi sino a Finalborgo, dove potè ricavare il bisognevole per giungere a Milano, recitando poesie giocose e cantando canzonette nel caffè. Il '69 finalmente fu scritturato, dopo altri due anni di pene, da Cletto Arrighi, facendosi ammirar subito nelle scene dialettali, e in ispecie nel famoso Barchett de Buffalora, per una grande intelligenza nel concepire i caratteri, e una grande spontaneità e verità nel rappresentarli : ammirazione che si mutò nel più schietto entusiasmo alla recita del Sabet gras e del Milanes in mar, e alle canzonette popolari.

Da quel momento Gaetano Sbodio, « ambrosiano del vecchio stampo, dal cuor largo, dal buon senso caratteristico, dall’amore tradizionale per la rettitudine e per la giustizia, condita con quel pizzico di umorismo onestamente mordace, che rende i Lombardi formidabili negli incruenti duelli della parola e nell’ espressione dei loro giudizj (Ferravilla e Compagni, Milano, Aliprandi, 1890) », potè anche dirsi il più popolare degli artisti milanesi.

Toltosi dal Ferravilla, pensò di mettere su una Compagnia milanese in società con Davide Carnaghi, la quale avrebbe dovuto camminar su le orme della famosa del Toselli e di quella veneziana del Benini : una Compagnia insomma, che ai Massinelli, Panera, Incioda contrapponesse la vera e sana commedia, originale o tradotta, con dialetto e ambiente milanesi. Il successo artistico fu assai buono, ma quello finanziario mediocre. {p. 512}Oggi Gaetano Sbodio recita ancora, ma collo scemargli della vista gli è venuto scemando l’antico vigore. Fu anche autore di più opere or con buona or con cattiva fortuna, tra cui migliore di tutte La mamma di gatt.

Scala Flaminio. Nato di nobili parenti, non si sa dove, nè quando, ma fiorito tra la seconda metà del secolo xvi e la prima del xvii, fu artista sommo per le parti di Innamorato.

Francesco Bartoli, seguìto poi dal Sand e dagli altri, dice che lo Scala si pose alla testa de' Comici Gelosi che andarono a Parigi per privilegio ottenuto da Arrigo III nel 1577 ; ma il Baschet si domanda (op. cit.) se davvero figurasse in quella Compagnia più tosto questo che quel comico, e se davvero ne fosse capo lo Scala, non essendovi di ciò prove di sorta. È vero. Nè solamente pel '77 non abbiam prove della sua presenza nella Compagnia de' Gelosi ; ma nè anche per gli anni successivi. Per questi anzi se n’ avrebbe tale da escluderlo assolutamente dai Gelosi. Come mai l’Andreini che nelle Bravure del Capitano Spavento enumera tutti i componenti quella gran Compagnia, non fa cenno di lui ? Di lui, ch'egli ebbe in tal considerazione da dettare egli stesso la prefazione alle favole rappresentative, facendo dell’artista il più largo elogio ? E infatti : che ci sarebbe stato a fare quell’Innamorato accanto a due sì grandi nello stesso ruolo : Orazio Padovano e Adriano Valerini ? Ma d’altronde : come dubitare ch'ei fosse coi Gelosi al fianco d’Isabella Andreini, per la quale avea composto gli Scenarj che la misero più in voga, come La fortunata Isabella, La gelosa Isabella, La pazzia di Isabella, di cui era una parte principale egli medesimo ?

Comunque sia, se le lacune nello stato di servizio artistico dello Scala sono troppe, è certo ch'egli così in Italia come fuori fu artista reputatissimo per lungo volgere d’anni, e gentiluomo de'più diletti a principi e a letterati.

Le prove certe di lui cominciano dall’estate del 1600, in cui lo vediamo col Frittellino Cecchini a Lione, dove si {p. 513}publica, a sua istanza, Il Postumio, comedia del signor I. S. (Roussin, 1601). L'inverno del 1601 va a Parigi, poi forse, richiestane la Compagnia (degli Accesi) al Duca di Mantova da Maria di Boussu, dama della Corte di Bruxelles, nelle Fiandre e in Brabante.

« Fra i comici, che divertivano la Corte di Mantova nel gennajo 1606 – avverte il Bertolotti – è nominato Flavio Scala, il quale era ricercato da G. B. Spinola. »

Del 1610 abbiamo una lettera da Ravenna in data 24 marzo, che il Cardinale Caetani scrive al Duca di Modena, pregandolo di dar ordine che capitando Flaminio Scala nel suo Stato con Compagnia di comici li sia prohibito per questo anno il recitar comedie, e ciò perchè gli era stato dato da lui il maggior disgusto che potesse dargli huomo della sua conditione. E nel Rescritto della Cancelleria è detto : Scrivere a Reggio e a Carpi.

Il 1611, anno della pubblicazione della sua grande opera degli Scenarj, passò da quello del Duca di Mantova al servizio di Don Giovanni de' Medici nella Compagnia de' Confidenti, di cui fu attor principale e direttore. Le notizie certe di lui terminano col marzo del 1620. Egli assunse in teatro il nome di Flavio (lasciatoci dal Ruzzante), specchio degli Innamorati, che, bello, galante, poeta, musicista, gentile come un cortigiano, attillato come uno spagnuolo, la vince nel cuore di Fiorinetta su tutti gli altri, per quanto sfoggio essi facciano delle loro ricchezze ; e tra' suoi Scenarj cinque ve n’ha intitolati dal suo nome di teatro, e in cui egli è protagonista : La fortuna di Flavio, Flavio tradito, Flavio finto negoziante, Le disgrazie di Flavio.

Curiosa e interessante opera cotesta degli Scenarj (Venezia, Pulciani, 1611), ch'egli chiamò Il Teatro delle Favole rappresentative, ovvero La Ricreazione comica, boschereccia, e tragica, divisa in cinquanta giornate, e volle dedicata al Conte Ferdinando Riario.

A essa, come ho già detto, preluse con parole di molta lode Francesco Andreini, tra cui queste :

{p. 514}Che il signor Flaminio Scala detto Flavio in Comedia, per non far torto all’ordine suddetto, e tanto da buoni filosofi lodato, nella sua gioventù si diede all’ esercizio nobile della commedia (non punto oscurando il suo nobile nascimento) e in quello fece tanto e tale profitto ch' egli meritò d’esser posto nel numero de' buoni comici, e fra i migliori della comica professione.

Luigi Riccoboni nel capitolo quinto della sua Istoria del Teatro italiano, parla a lungo di queste favole dello Scala.

Egli dice :

Il suo teatro non è scritto in dialogo, ma solamente esposto in semplici scenarj, che non sono così concisi come quelli di cui facciamo noi uso, e che esponiamo attaccati ai muri del teatro dietro le quinte, ma che pure non sono tanto prolissi da poterne trarre la minima idea del dialogo : essi spiegano soltanto ciò che l’attore deve fare in scena, e l’azione di che si tratta, e nulla più.

E li dice cattivi e scandalosissimi, e lodati da tanti illustri uomini non già pel merito loro, ma per la loro invenzione. Andreini poi spiega il perchè della pubblicazion delle Favole in Scenarj piuttostochè in disteso, nella prefazione di esse :

Avrebbe potuto il detto signor Flavio (perchè a ciò fare era idoneo) distender le opere sue, e scriverle da verbo a verbo come s’usa di fare ; ma perchè oggidì non si vede altro che comedie stampate con modi diversi di dire, e molto strepitosi nelle buone regole, ha voluto con questa sua nuova invenzione metter fuora le sue comedie solamente con lo Scenario, lasciando ai bellissimi ingegni (nati solo all’ eccellenza del dire) il farvi sopra le parole, quando però non sdegnino d’onorar le sue fatiche da lui composte non ad altro fine che per dilettare solamente, lasciando il dilettare e il giovare insieme, come ricerca la poesia, a spiriti rari e pellegrini.

Vedasi ciò che dice Evaristo Gherardi, ottant’anni più tardi, di coloro che recitan le commedie a soggetto. Andrea Perucci più volte ricordato dà in modo particolareggiato tutte le regole del recitare all’improvviso, molte delle quali sparse in quest’ opera a' nomi de' più famosi recitanti.

Nella XIVª, quella cioè del modo di concertare il soggetto, ufficio esclusivo del Direttore di Compagnia, egli dice :

Il Corago, Guida-Maestro, o più pratico della conversazione deve concertare il soggetto prima di farsi, acciocchè si sappia il contenuto della comedia, s’intenda dove hanno da terminare i discorsi e si possa indagare concertando qualche arguzia, o lazzo nuovo. L'ufficio dunque di chi concerta non è di leggere il soggetto solo ; ma di esplicare i personaggi coi nomi e qualità loro, l’argomento della favola, il luogo ove si recita, le case, decifrare i lazzi e tutte le minuzie necessarie, con aver cura delle cose che fanno di bisogno per la comedia.

{p. 515}Il Perucci prende per esempio La Trapolaria, Scenario di G. B. Porta, e su di esso distende minutamente le sue regole, enumerandone prima i personaggi, assegnando a ciascuno di essi le case, prima o seconda, di destra o sinistra, dicendo l’argomento, spiegando i lazzi e assegnandoli a'varj punti della Commedia. Certo, com’ egli avverte nel Proemio al rappresentare all’ improvviso,

bellissima quanto difficile e pericolosa è l’ impresa, nè vi si devono porre se non persone idonee ed intendenti, e che sappiano che vuol dire regola di lingua, figure Rettoriche, tropi, e tutta l’ arte rettorica, avendo da fare all’ improvviso ciò che premeditato fa il poeta….

ma quando esse abbiano le qualità volute, e specialmente una pratica singolarissima del teatro, certi inconvenienti lamentabili nella recitazione premeditata, sarebber più facilmente eliminati in quella improvvisa. Per esempio : recitando all’ improvviso è più facile impedire che il personaggio che entra in iscena s’ incontri con quello che esce,

perchè parlando, ed aggiungendo parole sopra la materia, si può vedere quale scena sia occupata dal Personaggio, che sarà per uscire, e non entrare per quella ; ma per dove sarà vota. Benchè l’uscire per le scene di sopra, ed entrare per quelle di sotto è una Regola infallibile, quando la necessità altro non ricercasse.

Rimediare alle scene vuote e mute si può altresì più all’improvviso, che al premeditato, potendo ciascuno uscire sopra il tenore della scena antecedente, e parlare fin a tanto che venga a chi toccherà d’uscire.

Noi, grazie a Dio, non ci troviamo più a tanta libertà ; ma artisti capaci di rimediare alle così dette scene vuote, e di tenere a bada il pubblico o con un monologo o con una scena, finchè non entri il personaggio che deve entrare, ne abbiamo ancora.

Della eccellenza di Flaminio Scala nel recitare e nel dirigere abbiam testimonianza amplissima in alcune lettere dell’Archivio di Mantova, ch'ebbi per gentile comunicazione di Stef. Davari, nelle quali Don Giovanni De' Medici si oppone strenuamente a che alcuni de'suoi comici Confidenti (Mezzettino Onorati e Scapino Gabbrielli, e primo lo Scala), passino a richiesta di Lelio e di Florinda, a far parte della Compagnia {p. 516}che il Duca di Mantova vorrebbe inviare in Francia. La Compagnia intera è pronto a inviarla quando piaccia a S. A., dopo gl’ impegni assunti col Gran Duca, ma comici isolati no ; chè sarebbe un distruggere la Compagnia ch' egli con tanta pazienza e con tanto amore tiene insieme da circa sei anni (le lettere han la data del '18). Infatti, richiesta la Compagnia dal Duca, Don Giovanni scrive alla Duchessa (Venezia, 2 aprile 1618) che pensando potesse essere la venuta della sua Compagnia anche di suo gusto, le ha spedito ordine di voltar subito strada (era diretta a Genova), e recarsi a Mantova.

E il successo, confermato dal Duca stesso e dal Segretario Marliani, ne fu de' migliori ; e i comici tutti, lo Scala specialmente, s’ebber donativi e onori.

A nuove e più vive richieste del Duca, Don Giovanni rispose schermendosi ancora, finchè, insistendo quello, dovè (6 aprile 1619) mettersi devotamente a' suoi ordini e promettergli Scapino e Mezzettino (V. Gabbrielli Francesco e Onorati Ottavio) non che lo Scala, rassegnandosi a vedere lo sfascio della Compagnia ; chè senza tali personaggi essa sarebbe stata priva dell’ anima e dello spirito.

E dice inoltre :

Non negherò ancora Ser.mo Sig.re che amando io Flaminio Scala et desiderandogli ogni bene, nè potendo io come povero Cav.re farli di quei benefizij che i Principi grandi sanno et possono fare a loro cari servi.ri, ho cercato col tener questa compagnia insieme che egli possa sostentarsi cavandone utile che veramente mi rincresce che resti tolto a questo povero galanthuomo che sempre è vissuto in maniera da capir per tutto. Tuttavia può tanto in me il desiderio di servire et gustare V. A. che senza far reflessione sopra cosa alcuna accomoderò il mio desiderio al suo gusto, nè penserò più a' commedianti, et lo Scala è tanto galanthuomo che egli medesimo instantemente mi ha pregato ch' io operi in questo affare in guisa che V. A. resti servita di conoscere ch' egli serve volontieris.° a gran Principi suoi pari senz' altro interesse che di buon ser.re, che è debito suo, rimettendo ogni altra cosa nell’arbitrio et volontà de'suoi Padroni.

Ma ahimè ! quel povero Don Giovanni non seppe più da che canto rifarsi per avere un po' di pace. I comici si raccomandavano e piagnucolavano per non essere divisi, il Duca insisteva per avere quei tre. Nell’animo del Capocomico di buon cuore prevalse la ragione de' comici, tanto più che i personaggi {p. 517}richiesti dal Duca non lo eran per suo particolare servizio, ma per essere inviati in Francia assieme a Lelio e Florinda.

Vale la pena ch' io dia qui intera la lettera che Don Giovanni scrisse da Venezia il 21 marzo 1620 a Ercole Marliani, nella quale son notizie di grande interesse intorno alla Compagnia de' Confidenti :

Ill.re Sig.re,

È venuto da me per licenziarsi per costà il nostro Sig.r Flaminio Scala, et io quasi quasi gli avevo consigniato non so che ostriche per Mad.ª Ser.ma, ma domandandogli poi, che buon vento lo spingeva in costà, mentre si assettavano i bariletti, mi mostrò una lettera di V. S. degli 11 marzo scritta su le 6 hore, la quale letta da me mi indusse subito a dirgli che non occorreva ne per acqua ne per terra che egli venissi in costà, se non haveva altro negozio in che servire S. A. che di far la compagnia per mandare in Francia, poichè il concerto fatto con esso, io sapevo che non poteva in modo alcuno havere effetto. In quanto però appartiene alla compagnia de Confidenti, che sta ancora sotto la mia protezione, essendosi mitissimamente ristabilita, nella quale ancor' egli si ritrova et che quanto a altri comici che S. A. fa trattenere costì, soggiunsegli che non vedevo quello che egli vi havesse che fare, et dissigli di più, che mi maravigliavo che essendo egli informatissimo della rissolutissima volontà et stabilimento de compagni, pensasse a venir costà con le mani piene di vento, et soggiungendomi egli che si moveva per ubbidire, io gli supplicai, che già che egli sapeva non poter servire a cosa alcuna nel concertato suo con S. A. che mi pareva prima di dovere io scrivere a V. S. quanto passava acciò egli non facesse un viaggio a sproposito ; et così lo fermai di testa. Dico adunque a V. S. che al ritorno di Monferrato del detto Scala, con la lettera di S. A. io risposi all’A. S. come ella può sapere, che all’ hora haverebbe la compagnia satisfatto all’ obbligo che haveva qui in Venezia, e poi a quaresima harei procurato per quanto potevo di servire all’A. S., et in vero credetti poterlo fare, perchè vedevo quasi tutti alborottati et con molte difficultà nel mantenersi uniti, come è solito de Comedianti. Et io gli lasciavo (come si dice) cuocere nel loro grasso, ma venuta la quaresima, che le minestre son più magre, quando l’uno e quando l’altro cominciorno a venirmi a rompere gli orecchi, ma tutti a una non domandavano se non, unione, unione. Et poi tutti insieme, non una volta, ma ben quattro, mi son venuti a dire et protestare che assolutissima.te non si volevan disunire di sieme, et havendogli io più volte detto et ridetto che non mi volevo impacciare di questo affare ma che gli farei sapere quanto mi pareva bene per utile loro et il mio desiderio, mi tornorno tutti a dire, con humiliss.e preghiere di non gli abbandonare, che erono rissolutiss.i di non si voler disunire, ne separare in modo alcuno, et che però in tal modo io gli comandasse che erano prontiss.mi ad ubbidire, ma altrimenti più tosto harebbono eletto di andare dispersi, perchè vedevono la loro manifesta rovina, mentre si disunissero et dovendo rovinare col dividersi, più tosto harebbono eletto di fare ogni vil mestiero che più recitare, e tutto hanno fondato, secondo me, sul vedere il buon guadagno che hanno fatto quest’ anno. Io Sig.r Hercole mio per parlar con V. S. alla libera vedendo in quel che consiste e da quel che depende la loro risoluzione, non ho saputo, ne anche voluto (per dire il vero) fargli forza, perchè come povero Cav.re di spada et cappa non ho il modo a dare a ciascun di loro 500 scudi per ciascuno, il vitto e'l vestire per loro e per le loro famiglie per tutto l’anno, come ogni uno di loro quest’ anno s’è guadagnato, che prima che {p. 518}scriverlo, creda pur V. S. che l’ ho voluto molto ben vedere e toccar con mano. Et per vita sua la prego a dirmi, come potevo io dire, tu hai da andare, tu hai da restare, tu che sei primo diventar secondo, et fra huomini dove è libertà et compagnia persuadere per accettabile la superiorità et la suggezzione ? Che carità christiana harei havuta verso questi poveri huomini et loro famiglie ? Che atto di cortesia o di gratitudine harei io dimostrato a costoro che per 7 anni continui mi hanno obbedito al cenno, se io gli havessi rovinati et sprofondati, come loro tengono d’ essere quando saranno disuniti ? Sig.r mio, son povero sì, ma son generoso, et confesso il vero, son persona dolce, ne so far male a chi mi riverisce. V. S. sà che 'l mondo si governa con l’opinione ; questi poveri huomini pensano col disunirsi di rovinarsi, ond’ io per le ragioni dette, non ho saputo trovar parole da principiare non che da persuaderglielo. Però gli ho risposto che faccin bene che io gli aiuterò sempre, e così li ho licenziati. Mi sono ben fatto promettere da ciascuno in particolare, che sempre, che per qual si voglia accidente si disunischino, ogni uno di loro farà quel ch' io vorrò. V. S. vede ch' io non ho lasciato di fare quel che potevo ma visto che non bastava per complice a quel che harebbe voluto S. A. ho fatto alla cortigiana ; et più tosto volevo tacermi che scriver cosa di poco gusto, nondimeno perchè la lettera di V. S. presupponeva le cose in altro stato, ho giudicato bene dargliene parte acciò S. A. ne resti informata, confidando che la distrezza di V. S. gliene porgerà in quella maniera che è proporzionata al sommo desiderio che ho sempre di servire a S. A. in ogni cosa. Io che conosco i nobiliss.i concetti dell’A. S. et la sua molta prudenza, non ho creduto veramente ch' egli habbia a voler premere tanto in questo negozio, ch' egli habbia a voler mandare spersi questi poveri huomini senza suo servizio particolare, perchè credami V. S., che questi separati, non darebbono ne in ciel ne in terra, anzi che S. A. manderebbe in Francia la torre di Babel e non una compagnia de comici, se disunendo questi gli mescolassi con altri. Troppo dolce suona negli orecchi il nome della libertà, et etiam gli animali vivuti qualche poco in sieme non si fanno dividere quando si viene all’atto et al fatto. Sono Sig.r mio notissimi et conosciuti i Lelij, le Florinde, le Flamminie, i Frittelini et gli Arlichini tutti huomini desiderosiss.i et ambiziosi di dominio et d’impero, talchè questi poveri huomini usi a una fratellanza fra di loro, mai si ridurrebbon con essi in una servitù pacifica et quieta, et questi altri mai si divezzerebono dal voler dominare et comandare, perchè si san troppo usi, et hanno rotte troppe scarpe in quel mestiero, et io gli ho per scusati, perché ancor' io più volentieri ho comandato che ubbedito, et questo è desiderio innato in ciascun’ huomo, et però ardisco di dire immutabile, anzi che cresce cogli anni. Però creda V. S. ch' io stimo che sia servitio di S. A. che di questo negozio non se ne tratti, perchè non è proporzionato alla sua Grandezza, che quattro commedianti si allontanino dal suo gusto, et che lasciando in parte il dovuto rispetto non stiano mai d’accordo in sieme, come al certo non starebbon questi, et tanto meno in Francia nel Teatro di sì gran Corte ; e V. S. tenga per certo ch' io non mi inganno, perchè mi ricordo degli esempj de casi seguiti al tempo della fel. mem. dell’A.za del S.r Duca Vincenzo, padre dell’A. S.

In somma Sig.r Marliani il dominio delle volontà non è cosa terrena, ne da lontano si posson rimediare gli inconvenienti. Non voglio anche tacere a V. S. un mio pensiero che io tengo per sicuriss.° che la prudenza di S. A. conosca tutte queste cose molto meglio di me, ma che l’ importunità di tutti cotesti comici di cotesta compag.ia trattenuti costì gli faccia per strano dare orecchie, et dare qualche ordine in queste materie, nel qual caso poi, per dirgliela confidentemente, io non mi curo punto di rompere una Compag.ia che dipende da me per dar gusto a commedianti che per invidia hanno concertato et vorrebbono urtarla, cozzarla et disfarla. La Compagnia de Confidenti invero (se ben cotesti et altri la disprezzano) ha gran fama, et per tutto hoggi è stimata più d’ogni altra, onde il {p. 519}romperla sarebbe proprio (come si suol dire) quasi peccato, e tanto più senza cavarne il profitto che forse si spera. Sono stato lungo, ma era necessario parlar chiaro et senza maschera, se ben si tratti de commedianti, perchè non siamo in commedia, et io dico da buon senno. Se adunque lo Scala non viene, V. S. scusi me, et non lui, perchè egli, come buona persona, veniva a toccare una nasata, et io che hoggi mai ho la barba più bianca che nera, ho stimato sia meglio così et rimettere il tutto nella prudenza di V. S. che saprà con la conveniente circuspezione et riverenza ritenere alquanto con dolcezza, certi impeti vivaci, soliti a regnare nelle menti de gran Principi, che dai buoni ser.ri devon’ essere desiderati quieti et conforme all’honesto.

Don Gio. Medici.

A questo punto cessano le notizie della vita artistica di Flaminio Scala, di colui che, se non migliorò la commedia dell’arte, la sviluppò certo, dandole nuovi e più varj atteggiamenti.

Da questa lettera di ringraziamento, che esso Scala inviò al Duca non appena giunto a Venezia, vien fuori un nuovo personaggio, la Livia, che parrebbe, all’ascendente che esercita su lui, una moglie in calzoni.

Ser.mo Sig.re

Subito giunto a Venetia andai in Villa a dare le lett.e di V. A. all’Ecc.mo S.r D.n Giovanni mio Sig.re, al quale feci relatione del regalo fatto a ciascuno della sua compagnia, ma in particolare poi dell’honore fattomi da V. A. La Sig.ra Livia curiosa di veder l’habito negro a pena mi diede tempo di mandarlo a pigliare et perchè à giudicato che non sia per me pover huomo, me ne ha dette tante che m’ha havuto a far perdere la patienza, ond’in vece di far una grossa spesa per acconciarlo a mio dosso, mi converrà tenerlo per reliquia cara del mio Ser.mo Sig.re. Starò attendendo i comandamenti de V. A. et sia certa che la servirò conforme la mia obligatione et in quanto potrò.

Dev.mo et oblig.mo ser.re
Flaminio Scala d.° Flavio.

Parmi ozioso il fermarsi sul granchio preso dal Quadrio, che fa moglie dello Scala Orsola, detta in commedia Flaminia, ch'era la moglie del Frittellino Cecchini. Il Valeri (Un Palcoscenico del seicento, Roma, 1893) dall’errore del Quadrio e dall’essere stato il Cecchini valentissimo allievo dello Scala, trae la probabile ipotesi che la Cecchini fosse una figlia del maestro maritata allo scolare.

Delle tante poesie dettate in onor dello Scala dall’Achillini, dal Campeggi, dall’Orsino, dal Lazzari, dal Petracci, dal {p. 520}Marliani, dall’Andreini, pubblicate in fronte all’opera delle Favole, metterò qui un madrigale del Petracci, e il sonetto dell’Andreini, che dicon chiaro le lodi dell’autore e dell’opera :

Detta Flaminio, e poi
ciò si ben rappresenta
Flavio gentile a noi,
ch'ogni alma trasse ad ascoltarlo intenta.
O d’arte e di Natura eccelso dono !
Questi e Quegli uno sono ;
ma qual s’avanzi stai dubbioso intanto,
di Flavio il pregio, o di Flaminio il vanto.
Giacean sepolte in un profondo oblìo
le Muse, quando tu Flavio gentile
le richiamasti, e con leggiadro stile
principio desti al nobil tuo desìo :
per te godon le scene il lor natìo
honor ; e già se 'n vola a Battro a Thile
glorioso il tuo nome, e l’empia e vile
invidia paga il doloroso fio :
Godi dunque felice un tanto honore,
che 'l mondo in premio delle tue fatiche
lieto ti porge, e ne ringrazia il Cielo :
Quindi avverrà ch'ogni or le Muse amiche
avrai, e colmo d’amoroso zelo
a le scene darai gloria e splendore.

Scalabrini-Medebach Rosa. Figlia di un egregio legale bolognese, e seconda moglie di Girolamo Medebach (V.), che sposò il 1766, fu prima un’ottima dilettante, applauditissima specialmente qual prima attrice della tragedia Giovanni di Giscala, poi, maestro Ignazio Casanova, un’eletta artista per ogni genere di parti, grandi o piccole, ch'ella sosteneva volenterosa pel buon andamento della Compagnia del marito. Lui morto, la vediamo continuar l’arte assieme al figliastro Giovan {p. 521}Battista (V.), col quale fu, dopo il 1790, in Compagnia di Pietro Rosa. Fr. Bartoli la disse madre di più figliuoli, moglie amorosa e prudente.

A testimoniar dell’ arte sua metto qui il seguente sonetto, stampato in foglio volante a Modena dagli eredi di B. Soliani.

Al merito singolare | della Signora Rosa Scalabrini | Medebach | che recita con universale applauso | in Bologna | l’estate MDCCLXXX.

Certo quell’occhio che sfavilla in viso
A te compose di sua mano Amore ;
Onde a chi 'l mira dolcemente al core
Un dardo giunge da cui vien conquiso.
Ma e che poscia qualor intento e fiso
Ascolta il Reno i tuoi sensi d’onore ?
Qual non ammira in Te senno e valore
A l’ire, a i preghi, a gli atti, al pianto, al riso ?
So ben che a i rari portentosi accenti
Tiensi la Notte assai più bella, e parmi
Che stian su l’ale taciturni i Venti ;
E so che Febo a l’immortal tua laude
Vili tenendo al paragon suoi carmi
Lascia la Cetra, e col tacer l’applaude.

Scarlatino Zoan Maria. È citato assieme a uno Zaccagnino, a Francesco Ruino e a Pignatta (V. Ruino), nella lettera di Ercole Ferrara al Marchese di Mantova Francesco Gonzaga (5 febbrajo 1496).

Scarnecchia. È accennato dal Gandini (Cronist. dei T. di Modena, P. I) insieme a Fidelin Romano, fra gli attori che recitarono il 1673 a Modena, nel Teatro Comunale Vecchio di Via Emilia.

Scarpetta Giuseppe. Di lui Corrado Ricci (Teatri di Bologna) riferisce una lettera del 1613, con la quale domanda {p. 522}privilegio particolare che nissun possa dispensare un secreto di un olio da lui chiamato il suo Balsamo.

Tal segreto egli ha avuto da un dotto a Parigi, mentre forse vi esercitava l’arte comica. La lettera comincia :

Havendo il divot.mo ser.re delle Sig.rie loro Iosepho Scarpeta già comico, il quale fu inventore di dare la elemosina a' lochi pii delli denari della Comedia soto il Governo della felice memoria dell’Ill.mo et R.mo Sig. Cardinal Cesis ; et S.r Cardinal Paleoto Arcivescovo al’hora di questa Inclita Città, habitante da trentaquatro anni in qua in essa….

Scarpetta Edoardo. Nato a Napoli in Via Santa Brigida il 13 marzo 1854 da Domenico Scarpetta, ufficiale di prima classe agli affari ecclesiastici al ministero, e da Giulia Rendina, è il principe degli attori napoletani viventi, sotto il nome di Don Felice Sciosciamocca di cui ha creato il tipo, erede dell’alta fama di Antonio Petito, a niuno secondo degli artisti sì dialettali, sì italiani per la fecondità dell’ingegno, per l’abbondanza e spontaneità della vis comica. Fanciullo, non ebbe alcun amore agli studj, ma n’ebbe uno grandissimo al teatro, ch'egli si fabbricava da sè, e in cui faceva agire i pupi con commedie da lui stesso improvvisate. Destinato dai parenti alla musica, un bel giorno gettò in un fosso i documenti coi quali avrebbe dovuto presentarsi al Conservatorio di San Pietro a Majella, e confessò a' parenti il suo singolare trasporto per l’arte drammatica. Entrò il 1869 al Teatro di San Carlino, impresario il Mormone, {p. 524}con diciassette lire al mese di paga ; passò dal San Carlino alla Partenope, e quindi in Compagnia di Michele Bozzo, allora in giro per la Calabria, ultimo generico, disprezzato, vilipeso, deriso. Ma rieccolo a Napoli alla Partenope, ove recitò una sera, davanti all’impresario Luzi e all’attore Di Napoli del San Carlino, la vecchia farsa napoletana Feliciello Sciosciamocca, mariuolo de na pizza, ed eccolo il dì dopo scritturato al teatro famoso, in cui mostra subito le sue doti chiarissime a fianco di celebri artisti quali Petito e De Angelis.

Morto il Petito nel '76, e l’impresario Luzi nel '77, Edoardo Scarpetta, dopo alcun tempo trascorso al Teatrino delle Varietà pur di Napoli, e al Metastasio e Quirino di Roma con Raffaele Vitale, riuscì finalmente a prendere in affitto il Teatro San Carlino, ripulendolo, ammodernandolo, rinnovandolo così materialmente come intellettualmente : alle bizzarrie a trasformazioni, ai lazzi improvvisi, alle maschere, alle vecchie e grottesche tradizioni del celebre teatro napoletano, fe' seguire la commedia scritta, moderna, elegante, brillantissima, vera. Aveva già scritto a diciott’anni quattro commedie : altre ne scrisse di poi, e moltissime ne derivò e tradusse e ridusse dal moderno teatro nostro e forestiero. Non v'era novità comica di importanza che non facesse dopo brevissimo tempo la sua apparizione, foggiata alla napoletana, nel leggendario teatrino, in cui, di conseguenza, alle sghignazzate della popolaglia era subito succeduta la risata schietta e misurata del fiore dell’aristocrazia. Sciosciamocca (letteralmente : soffia in bocca) è non solamente un tipo e un carattere, non altro, nel suo complesso, che il mammo di un secolo fa : il Filippetto del Goldoni, il Marchese Pipetto del Giraud, rinsanguati, ravvivati dalla recitazione scintillante di Edoardo Scarpetta ; ma anche, un insieme di tipi variatissimi, aggirantisi attorno al tipo fondamentale. Il tipo di Miseria e Nobiltà non è certo il medesimo di Tetillo ; quello di mettiteve a fa l’ammore co me è ben diverso dall’altro di Duje marite imbrugliune, e così di seguito. A questa continuata modificazione del principal tipo, Sciosciamocca deve forse {p. 525}la continuata ammirazione del pubblico, che sin dalla prima apparita al San Carlino rinnovato, lo compensò di tante miserie, di tante lagrime versate, sì da fargli scrivere nelle sue nuove Memorie (Napoli, 1899) : « Dopo tutto, l’essere riuscito a far tanto ridere…. gli altri, dava anche a me il diritto di ridere un poco. »

E di qual riso ! Il povero Edoà…, entrato nel campo dell’arte per un usciolino sgangherato, con un vestito che gli cascava di dosso a brindelli, colla faccia macilenta per fame ; che ad ogni passo verso l’agiatezza e la gloria, uno vedea farne contro di lui dalla maldicenza e dall’invidia, trionfando finalmente di tutto e di tutti, autore ammirato, attore idolatrato, il triste suono del piccone distruttore del San Carlino coprì con quello del martello costruttore di un vasto palazzo al rione Amedeo : al battesimo di gloria del San Carlino è succeduta la conferma non mai alterata sin qui de' Fiorentini di Napoli e del Valle di Roma, ove si reca ogni anno a deliziare della sua inesauribile giocondità il gran pubblico della capitale.

Scattolone. Sotto questo nome sosteneva le parti di Graziano un M. Francesco…, fiorito nella prima metà del sec. xvii.

Il 15 novembre 1622 furon pagati a M. Sante Morandi venti scudi per andarlo a prendere a Padova, e condurlo a Mantova ove l’attendeva la Compagnia del Duca.

Scevola. Comico senese, il cui nome si trova citato in un processo romano del 1565 (V. Ademollo, T. di Roma, pag. 35).

Scherli Leopoldo Maria. Nacque a Verona verso il 1720 ; e compiuto un corso regolare di studi, si diede a recitare tra i filodrammatici della città, riuscendo artista ammiratissimo, secondo afferma Gianvito Manfredi nel suo Attore in scena ; tanto che una sera dovette ripeter lì per lì nell’Orlando furioso la scena della pazzia tra gli applausi entusiastici della folla. Si fece poi comico di professione, e fu alcuni anni a Venezia {p. 526}(San Gio. Grisostomo), dove s’aquistò come attore e come scrittore la stima di tutti e l’amicizia di Gaspare Gozzi.

Lo vediamo il '55 alla Comedia italiana di Parigi, nella quale esordisce il 1° di gennajo, come amoroso, insieme alla moglie amorosa, nel Double mariage d’Arlequin ; ma recitaron così freddamente, che dovetter tornarsene in Italia. A tal proposito il D'Origny dice :

A l’égard de ceux-ci, quand on se rappelle que des personnages de ce genre ne sont jamais si bien remplis que par des Acteurs qui ont de l’inclination l’un pour l’autre, on est tenté d’attribuer leur malheureux succès, moins à leur inaptitude, qu’à une situation qui ne permet guère que le cœur ressente les feux de l’amour.

Il signor D'Origny (non voglio discuter qui l’errore dell’affermazione sua sulla maggiore o minor riuscita di una scena d’amore recitata da due amanti), ha voluto alludere alla special condizione degli Scherli, i quali, non sappiam bene per colpa di chi, ma forse di entrambi, essendo l’uno tutto dedito agli studi e taciturno, e l’altra incline alle esaltazioni…. e ad altro, visser quasi sempre separati. Tornato di Francia, Leopoldo, che aveva mostrato in varie circostanze un cotal ingegno poetico, si diè ad allestire un volume delle sue rime, che pubblicò in-12° a Lucca il 1760 per Filippo Maria Benedini. Lo vediamo il '66 in Compagnia di Pietro Rossi ; poi, allontanatosi per alcun tempo dal teatro, bibliotecario del Senatore Davia a Bologna, poi di nuovo attore, recitando in varie compagnie, ma con poca fortuna, a cagione della sua austerità e taciturnità, a proposito della quale il Bartoli racconta che « andando un giorno a desinare con Andrea Patriarchi, non fu mai sentito pronunziare una parola durante tutto il tempo della tavola, e col solo saluto da quella casa partì. » Fu anche a Palermo, e quivi stette alcun tempo col Nobile Spaccaforni, qual segretario. Toltosi da quell’Ufficio, fu da altri incaricato di formar una compagnia per quella città ; e recatosi a Venezia, la formò difatti, e la condusse a Palermo ; ma essa era di sì mediocri elementi, che subito cadde, procurando allo Scherli rimproveri senza fine, e così fatti da essere forse principal causa della sua {p. 527}morte. Il Bartoli ne fissò la data nell’autunno del 1776 : ma è certo erronea, dacchè lo Scherli pubblicò la sua scelta di rime nel '77 a Palermo. Fu egli senza dubbio uomo di pregi singolari, e come tale considerato dai più. Le rime edite a Lucca furon precedute dalla pubblicazione di :

Osservazioni sopra le stanze del signor Giulio Cesare Beccelli, nelle quali sostiene, che la Poesia possa più della Pittura. Pubblicate a Verona nella Stamperia del Seminario, [senz'anno], in-8°.

Traduzione in versi sciolti di alcuni esametri latini di Marco Antonio Rosa Morando a Vincenzo Barziza. Pubblicata a Verona il 1745, in-8°.

Alcune poesie in lode del Barziza, inserite in una raccolta di componimenti in lode dello stesso Barziza. Verona, c. s.,

e ad esse tenner dietro in vario tempo un brindisi in versi martelliani nel Convitato di Pietra, pubblicato in foglio volante a Livorno l’autunno del 1766 ; un piccolo libretto in-8° contenente alcune considerazioni sopra un parere del dottor Carlo Goldoni, pubblicato il 1767 non so dove, ma forse a Bologna, mentre lo Scherli era col Davia ; Sette Notti di Edoardo Young tradotte in versi, pubblicate in-4° a Palermo il 1774 nella Stamperia de' Santi Apostoli ; e una scelta delle Rime con aggiunta di poesie siciliane e di lettere varie, edita in Palermo il 1777 in-12°. Fu lo Scherli, dopo la pubblicazione delle rime nell’anno 1760, acclamato pastore arcade di Roma col nome di Anassandeide Caristio, e dopo quella delle Notti, Pastore Ereino di Palermo col nome di Dendrio Ipsisto.

Riferisco dal Bartoli la seguente

Licenza recitata dalla prima Donna della Compagnia de' Comici nel Teatro S. Gio. Grisostomo di Venezia l’ultima sera del Carnevale MDCCLIX

Della guerriera tromba ascolta il fuoco appena,
E va il Guerriero in Campo dove la gloria il mena :
Spirano appena i Zefiri, ed ecco in un momento
Salpa il nocchiero, e scioglie tutte le vele al vento ;
Ma se volando al Campo, se abbandonando il Lido,
La Sposa, o il Genitore lascia nel patrio nido,
{p. 528}Lascia su quelle sponde parte di sè il nocchiero,
Parte di sè pur lascia nella Città il guerriero ;
E nel partir da loro sente staccarsi il core,
Sente passarsi l’anima dal più crudel dolore.
Inclite genti Adriache, splendor d’Italia, e lume,
Condonate all’affetto, se troppo ora presume.
Noi siam quel navigante, e quel guerrier siam noi ;
Questa è la Patria, e il Lido, Padri ci foste voi.
Voi ci reggeste ognora ; voi placidi, e clementi
Tolleraste i diffetti ad ascoltarci intenti.
E come il Sol benefico oscura nube indora
Si, che del non suo lume splende nel Ciel tal ora ;
Se di valore in noi spuntò qualche scintilla,
Fu da quel lume accesa, che intorno a voi sfavilla.
E noi dobbiam lasciarvi ? E per fatal destino,
Siamo costretti a scegliere così lungo cammino ?
Ah di sì ria partenza quanto il dolor sia atroce
Dicalo il nostro pianto, che nol sa dir la voce.
Dentro il mio core intanto sento pugnar insieme
A gara col dolore anco il timor, la speme.
Penso che il nostro ingegno che coltivaste tutti,
Quasi terreno ingrato scarsi produsse i frutti.
Ma fra i timori suoi par che mi dica il core :
Non si stancò per questo il provvido cultore.
Anzi veder attende alla stagion novella
Nel suo terren la messe più verdeggiante, e bella.
Compagni miei, coraggio. Mentre sarem lontani,
Non sieno i sudor nostri infruttuosi, e vani,
E ritornar ci veggano questi bei lidi amati
A ricalcar le Scene di novi fregi ornati.
Sì, che il faremo. Intanto, come sicuro segno
Delle nostre promesse, vi resti il core in pegno.
Alme eccelse, graditelo, che vostri servi siamo,
E con tal nome in fronte, di noi superbi andiamo :
Che se sarem sicuri del perdon vostro almeno,
Nelle fatiche istesse lieti saremo appieno.
Come di sudor molle quel povero bifolco
Sparge cantando i semi, segna cantando il solco ;
Come quel gondoliero suda col remo in mano,
E và cantando l’Armi pietose e il Capitano,
{p. 529}Così del favor vostro spirando aure feconde,
Lieti ritorneremo d’Adria a baciar le sponde ;
Così l’anima nostra nel gran piacer giuliva
Ripeterà costante : Viva Vinegia, e viva.

A questa faccio seguire il sonetto in morte di un suo figlio, il quale ci dà ancor più chiara l’idea delle sue qualità poetiche, e del suo amore a' classici :

Come candido fior, che nato appena,
del vomere al passar cade reciso,
Carlo, moristi, onde perpetua vena
di pianto a me bagna le gote e il viso :
C'ho sempre avante i tuoi dolci atti, e il riso,
e i cari vezzi ; e per maggior mia pena,
la Suora tua, ch'or vedi in Paradiso,
la tua partita a ricordar mi mena.
Figlio, io già non t’invidio i gaudi immensi,
che in Ciel tu godi, ora che sei sì presso
al Sol, che alluma il benedetto chiostro ;
ma quando avvien che a le tue grazie io pensi,
piango me, di te privo, e il mortal nostro
vorrei già chiuso in un sepolcro istesso.

Scherli Carolina. Moglie del precedente. Fu, ci dice il Bartoli, bellissima, egregia attrice per le parti di donna seria, e…. oggetto di piacere negli anni suoi giovanili. Ebbe una figlia ballerina, e andò con lei a Palermo, dove le fu rapita da un Personaggio di qualità. Tornatasene sola, fu così turbata dall’accaduto, che die'segni non dubbi di pazzìa, e fu vista a Bologna passeggiar per le vie coronata d’alloro, o recarsi a San Michele, declamando poesie sconclusionate. – Fortunatamente non restò lungo tempo in quello stato di alterazione, e viveva ancora tranquillamente in Bologna nell’anno 1782 al tempo del Bartoli, il quale, alludendo alla sua separazione dal marito, di cui ella apprese con {p. 530}dolore la morte, le dedicò colla solita vena dozzinale il seguente epitaffio :

Moglie fui per virtù di quel gran sì,
che detto retroceder non si può.
Mio marito da me poco gustò,
ch'io sola vissi, ed ei lontan morì.

Schiavi Carlo detto Cintio. Comico di buon nome per le parti d’Innamorato, fiorito nella seconda metà del secolo xvii. A richiesta del Duca di Modena, rispose accettando di far parte della di lui Compagnia, di cui eran principale ornamento i Calderoni Silvio e Flaminia, con lettera da Roma del 19 aprile 1679, nella quale si lagna acerbamente del malo trattamento de' capocomici verso di lui, che non sa nè dove spedire la condotta, nè chi la riceverà, nè in che piazze andrà, nè come sia composta la Compagnia, e che soprattutto s’è visto, con suo danno e rossore, metter fuori una seconda donna già scritturata d’accordo con lui, certa Angiola Paffi : « danno, hauendo seco un antico, e non poco concerto (cosa mendicata, e ricercata da ogni Moroso), e rossore per esser tenuto un parabolano, et un falso ; e dopo essermi consumato in Venetia ad aspettare la certezza et unione di questa donna, si ritratta al presente ciò che si deve per debito, essendo stata accettata e corrisposta da tutti. » E si raccomanda al Duca di ordinare che i comici gli scrivano, perchè egli possa con loro più apertamente discorrere. « Alla Paffi – conclude – in cuscienza et appresso Dio et al mondo non si deve mancare. »

Schiavoni Antonio, nato a Roma il 1846 e suicidatosi a Rosario di Santa Fè il novembre del 1889, fu attore di grande impulso, se non di grande finezza, illustratore non ispregevole delle opere più conosciute di Shakspeare ne' teatri di secondo ordine. Patriotto caldissimo, fece le campagne del '59, del '60 e del '66, e s’ebbe la medaglia al valor militare. Un amore fatalissimo lo condusse al sepolcro.

{p. 531}

Una lettera dell’attore Beltramo a Icilio Polese così descrive la morte eroica del povero amico, noto in tutta l’arte per la soavità dell’indole :

Il mattino che precedette la sua morte si ritirò in casa, accomodò la sua cameretta cambiando posizione al letto ed al comodino, si vesti da garibaldino, mise le sue decorazioni sul guanciale accanto al revolver, sfoderò la spada e la mise in croce col fodero ai piedi del letto, si coricò, e si sparò un colpo al cuore con una rivoltella a due colpi con tanta sicurezza e precisione che restò fulminato.

Scotivelli Marcantonio. Apparteneva il 1578 alla Compagnia del Re di Napoli, condotta da un Massimiano Milanino. Forse, congettura il Baschet, si trattava di una piccola compagnia secondaria, adattata al piccolo Stato, che aveva traversato i monti in cerca di fortuna, o forse anche, concordando le date, alcun componente la Compagnia de' Gelosi si era sciolto da {p. 532}essa per rispondere a un invito del Bearnese. Comunque fosse, nè di questi, nè di Paolo di Padova (V.) capo di altra compagnia del Piccolo Principe nel 1579, si è trovata più traccia.

Seraffini Giovanni. Noto attore per le parti di brillante, figlio di Pietro, comico, e di Rosa Francesconi, nacque a Milano il 1840. Lo vediam coi parenti il 1846 in Compagnia Balduini e Rosa, e il 1847 in quella Capodaglio, nei cui elenchi figura come parte ingenua : il '61 col padre generico era brillante della Compagnia Bonazzi. Fu lungo tempo brillante, e beniamino de'Fiorentini di Napoli, capocomico Adamo Alberti, e tolse in moglie in quel torno l’attrice Pia Fabbri figlia dell’attore, poi professor di recitazione, Paolo ; morta la quale, passò a seconde nozze con Vittorina Checchi. Lo vediamo il '76 e '77, brillante della Compagnia Zerri-Lavaggi, e il '79 e '80 in Compagnia di Alamanno Morelli sotto Guglielmo Privato. Fu poi colla moglie in altre compagnie, e finalmente in quella di Romolo Lotti, colla quale si recò in America ove perdè la moglie, e d’onde non rimpatriò più. – Una sua sorella, Giulia, moglie di Leopoldo Orlandini, prima, poi di Giacomo Brizzi, ebbe dal suo primo marito i figliuoli Leo e Giulio, e fu con Ernesto Rossi dal 1863 al 1884 in qualità di seconda donna pregiata.

Serramondi Carlo. (V. Rosa Caterina).

Servilli Isabella. Comica del Duca di Mantova detta sulle scene, Eularia ; fiorì nella seconda metà del secolo xvii e nella {p. 533}prima del xviii. Attrice, cantante, danzatrice, schermitrice esimia, e conoscitrice perfetta di più lingue, ispirò non poche poesie, che metto qui testimoni del valor suo e della sua virtù, e che mi furon gentilmente comunicate dal chiaro amico A. G. Spinelli della Biblioteca Estense di Modena.

Alla Signora Isabella Servili | Comica virtuosissima del Ser.mo di Mantova | in rappresentare in Bologna le Metamorfosi d’Eularia | finta Lachè Francese, Dama Spagnuola, Soldato Tedesco, | e Cingara Egittiaca, con giochi di Spadone, Alabardino, | due Spade, scherma nell’Academia degli esercitij militari, e con quattro suoi Balletti diversi.

Questa è la saggia Eularia, e questa è quella
Che gli affetti del Ren, faconda impera,
Che gli Oracoli espon, qualhor favella,
Franca, Egittia, Germana, Itala, Ibera.
Se tratta Armi e Bandiere, agile e snella,
Con gratia ardita, e leggiadria guerriera,
Scerner non sai se sia Folgore o Stella,
E non sai se più alletti, o se più fera.
Ma a la sua lingua, a la sua Man non cede,
Nodi intrecciando e Laberinti e Ruote,
Precorridor de le Pupille, il Piede.
Chi a tant’Armi, a tant’Arti oppor si pote ?
Rendonsi l’alme a Lei spontanee prede,
E al bel Giogo Servil s’offrono immote. n. n. n.

Al merito e virtù grande | della Sig.ra Isabella Servilli detta Eularia Comica | Eruditissima del Ser.mo di Mantova | mentre recita in Venezia l’anno 1697.

L'essersi veduta in Bologna la suddetta Virtuosa in hab ito di spirito famigliare giocar d’armi, danzare e sonare perfettamente dà motivo al presente sonetto :

Qualor spirto ti fingi in vari manti
Mostri in più forme Eularia il tuo valore
Poichè Proteo gentil con tuo' sembianti
De'Teatri ti fai gloria maggiore.
{p. 534}Prode fra l’armi allor ogn’un incanti
Nè movi piè che non inceppi in core ;
Voce non dai che non risvegli amanti
Suono non fai che non ne danzi amore.
Tai prodigi sul Ren mirò felice
Delfina de la scienza alta Eroina
Onde vie più a lei bramar non lice.
A te dell’Adria sol nobil reina
M'avanza l’amirar da tal Fenice
L'arte con la virtù sorger….
Per contrasegno di stima particolare A. M. G.
bolognese devotamente dedica.

La stessa Signora s’introduce a maneggiare legiadramente la spada :

Eularia di beltà e valor munita
Cangia la notte in dì lucente e chiaro
Allor che al Campo di forbito acciaro
Splende invitta la sua virtù….
Che bel veder le delicate dita,
Quando per fulminar pronte l’armaro !
Ah che a quel fulminar sì dolce e caro
Soffrirebbe ogni core ogni ferita.
Così con vaghe sue sembianze e sole
Mentre si aggira il ferro in varie rote
Di Marte e Citerea rassembra prole ;
Poichè tiene ne gli occhi, e su le gote
Con le rose dell’alba i rai del sole,
Ond’è che intorno Amor l’ale vi scote. [Dello stesso].

Alla sempre ammirabile virtù della Sig. ª Isabella Servili detta Eularia Comica modestissima mentre recita in Bologna il Carnevale dell’ anno 1700.

Riflessioni ad alcune delle molte prerogative

che rendono grata a tutti la medesima Virtuosa

Alla modestia unir spirto e bellezza,
Formar più vezzi, e non macchiar il core ;
Con laude oprar, e disprezzar l’honore ;
Di più lingue3 erudite haver vaghezza.
{p. 535}Chiuder nel molle sen viril fortezza,
A Maestà4 accoppiar tenero Amore.
Usar in lui pietà, in lei rigore
Affetto simulando, e in un grandezza.
Impugnar Brandi5, maneggiar Bandiere
Qual’altra nuova Amazone gentile,
Sono d’Eularia sol care maniere.
Quindi è che 'l saggio, prode, grande, e vile
Ne piega per tant’Arti e finte e vere,
A sì bella virtù l’alma servile.
Leonardo Sebastiani d. d. d.

Alla Virtù sempre più ammirabile | della Signora Isabella Servili detta Eularia | Comica Eruditissima del Ser.mo di Mantoa | Mentre in Bologna nell’Opera famosa del “Gran Cide delle Spagne” | comparisce nobilmente vestita a duolo.

Qual portento vegg'io ? L'ombra e il splendore
Son pur nemici ancor sin da le fasce ?
L'una succede in terra al dì che muore,
Precorre l’altra in Ciel l’alba che nasce.
Pur sì gli accoppia in sen d’Eularia Amore
Che in faccia de l’un l’altra rinasce,
Se sotto amanto di lugubre orrore
De begli Occhi il splendor vie più si pasce.
Or s’adunque un Contrario a l’altra è accolto
In Lei con stupor d’Arte di Natura
Nel Nero Manto e nel Splendor del Volto,
Ben dir si può d’Amor alta fattura,
Se nel ben di Costei in bruno accolto
Sembra più Creator che Creatura.

Mosso dalla sola virtù della medesima

il gentile Ergasto ne dedica e dona

il presente alla stessa.

{p. 536}Servillo Francesco, detto Odoardo. In una lettera a un Segretario, non so bene di qual Duca, se di Mantova o di Modena, inviata di suo pugno da Livorno il 26 giugno 1660, e sottoscritta anche dal Pantalone Giovanni Gaggi (V. Supplemento), dice che a Pistoja, la Piazza precedente, non divisero un soldo e rimisero del loro, e a Livorno son con due paoli al giorno, e con la prospettiva di una nuova rimessa, nonostante la gran quantità de' forastieri e il buon successo della Compagnia ; e domanda per lui ed esso Gaggi dieci doppie pel sostentamento, che avrebber rilasciate dal donativo di carnovale.

Severi Elisa, di Ravenna, fu trasportata dalla famiglia a Roma, ancor bambina, e là cresciuta ed educata. La magnifica persona e il volto pieno di attrattive la fecero accogliere il 1894 nella Compagnia Paladini-Talli, senza bisogno del lasciapassare di una scuola o di una filodrammatica. Recitò poi a sbalzi, con {p. 537}intervalli più o meno lunghi, per malattia o per altro, nelle Compagnie Reinach-Talli, Gramatica-Raspantini, Pia Marchi-Maggi, Severi-Garzes-Raspantini, e finalmente Pieri-Severi, in cui si trova anche oggi (1904), per andar poi nel futuro triennio con Oreste Calabresi. Finchè la Severi fu seconda donna, il pubblico e la stampa si occuparon solamente dello splendore fisico : ma dacchè, assunto il ruolo di prima donna assoluta, si è slanciata nel gran repertorio, allo splendore fisico pubblico e stampa trovaron di potere aggiungere una grande promessa artistica. Naturalmente i pregi della donna soverchiano ancora quelli dell’artista ; ma la promessa c’è davvero, e chiara ; e perseverando nello studio, nella tenacità di propositi, nell’amore all’arte, poichè ella è una delle più innamorate dell’arte sua, la signorina Severi arriverà certo ad attenuare una cotale ineguaglianza di recitazione, prodotta forse da mancanza assoluta di guida artistica.

Sgarri Francesco. Figlio di Brigida Sgarri, recitò la parte di Arlecchino nella Compagnia del patrigno Antonio Marchesini (V.), col quale era l’estate del 1738 a Milano, (riconfermatovi per la seguente del '39), e in altre. Cangiata la maschera di Arlecchino in quella di Brighella, ottenne applausi quanti volle. Fu con Onofrio Paganini e con Pietro Rossi, dal quale si allontanò il 1770 per entrar con il genero Messieri e la figlia in compagnie di minor conto. S'ammalò in Morbegno di Valtellina, e quivi morì il 1776. Più che attore lo Sgarri potè dirsi un mimo, un acrobata, un buffone. Facea mirabilmente le forze, suonava la tromba e altri strumenti, e cantava graziose e facili canzonette. La natura non lo dotò di sciolta loquela, e il Bartoli ci racconta :

Egli aveva un’arte di fare frettolosamente un ragionamento (non inteso nè da lui, nè dall’uditorio) promettendo assistenza al Padrone o ad altri ; e questo con parole spessissime, e vibrate con forza fra le labbra in sì fatto modo, che il popolo movevasi a fargli un grande applauso, battendo palma a palma, ond’ egli restava soddisfatto, e l’udienza godendo moveva a più potere le risa, benchè nulla avesse capito da tal discorso, che lo Sgarri chiamava battuta, forse per la battuta di mani, ch'egli ne riscuoteva.

{p. 538}Oggi, per battuta, in arte, s’intende ogni entrata di attore nel dialogo. Così la battuta può constar di più pagine, o anche di un sol monosillabo.

Sichel Giuseppe. Attore brillante di pregio per una sua singolar vena di comicità, nacque a Casaltone di Sorbolo, provincia di Parma il 4 ottobre del 1849 da Gaetano, e Maria Grimaldi, non comici, ed ebbe domicilio a Guastalla. Recatosi a Genova, appartenne alla Filodrammatica del Falcone, e del '76 esordì, brillante, con Carlo Lollio. Fu il '77 con Michele Ferrante, il '78 con Galletti-Dondini, l’ '80 ancora con Lollio ; l’ '81, in società, con Fagiuoli, Udina, Tellini e Aliprandi Giovannina, ecc. ecc., l’ '82 con Drago. Fu l’ '83 con Zoppetti, secondo brillante e primo dopo la scelta di lui, l’ '84 con Emanuel, l’ 85 con Novelli, dall’ '86 al '90 con Maggi, dal '91 al '93 con Marini, e il '94 con Emanuel. Dal '95 cominciò le sue fortunate società, con Compagnie essenzialmente comiche, e con artisti egregi nel genere, quali : Talli, Tovagliari, Zoppetti, Guasti, Falconi, Ciarli.

La recitazione del Sichel a sbalzi, a strappi, con intonazioni aspre, rotte da una infinità di interiezioni, di eh interrogativi di distrazione, è inqualificabile e inimitabile : non certo, come si può credere, impeccabile, ma di irresistibile comicità.

{p. 539}Sichel-Saporetti Emilia. Moglie del precedente, nacque a Ravenna nel 1865. Fu buona prima attrice giovane al fianco di suo marito, poi, con lui capocomico, buona prima attrice, specie nelle più strampalate pochades, che sono il fondamento del suo repertorio. Colpita da grave anemia, dovè per alcun tempo allontanarsi dalle scene, alle quali è tornata l’autunno del '903.

Silani Caterina, attrice di molto pregio per le commedie all’improvviso, fu col marito, mediocre arlecchino, in Compagnia di Niccola Petrioli, poi in quella di Domenico Bassi, poi, coll’avanzar degli anni, in altre di minor grido. Si fe'molto notare in una vecchia commedia, L'Oggetto odiato, pei personaggi ch'ella rappresentava d’ambo i sessi e di più nazioni, parlando nelle lingue diverse. Viveva ancora al tempo di Francesco Bartoli (1781), e sebbene in tarda età recitava in una vagante Compagnia « procacciandosi – egli scrive – ad onta degli anni la pubblica approvazione, e qualche applauso sincero. »

Simone da Bologna. Il famoso Zanne de' Comici Gelosi (V. Pasquati). Di lui dice il Porcacchi (Le attioni d’Arrigo III Re di Francia e di Polonia, ecc.), che era « rarissimo in rappresentare la persona di un facchino bergamasco, ma più raro nelle argutie e nelle inventioni spiritose : » il Rossi, nella {p. 540}Fiammella, lo loda insieme a Battista da Rimino, perchè « osservano il vero dicoro de la Bergamasca lingua ; » e Francesco Andreini (Bravure, XIV) lo cita insieme a' comici di quella famosa Compagnia, « che pose termine alla dramatica arte, oltre del quale non può varcare niuna moderna Compagnia di Comici. »

Simonetti Giuseppe. Nato a Lucca del 1703, fu buon comico all’ improvviso per le parti d’ Innamorato che sostenne in Compagnia di Antonio Sacco, del quale sposò la sorella Anna, e col quale fu in Portogallo, non solo recitando, ma facendo anche fuochi artificiali. Aveva sostituito nel 1736 l’amoroso Vitalba nei Comici di Carlo Goldoni, il quale dice di lui che se fu meno brillante del suo predecessore, ne fu più decente, più colto, più docile. Forse lo stesso, capocomico nel teatro ducale di Milano il 1743, e che Paglicci-Brozzi chiama Giovanni ?

Giuseppe Simonetti si fece notare nella rappresentazione del carattere buffo di Don Gelsomino nella commedia Il Re dormendo ( ?), e morì a Venezia il 27 aprile dell’anno 1773.

Simoni Barbara. « Brava attrice, che recitò con gran franchezza nel carattere della serva, e che fu nelle Compagnie di Venezia molto applaudita. Il di lei spirito fu veramente inimitabile, e prevalse a qualunque altra che recitasse nel suo carattere a' tempi suoi. Fioriva questa comica intorno alla metà del secolo presente. » Così Fr. Bartoli.

Simoni Giovanni. Fu detto Goldoncino per essere stato alcun tempo copista di Carlo Goldoni il quale con lettera del 17 marzo 1759 da Roma (V. Carteggio) lo raccomandava vivamente a S. E. Vendramin, per le parti di terzo amoroso. Di lui non fu detto troppo bene allo stesso Vendramin, che alle preghiere del Goldoni faceva orecchi da mercante. « Questo giovane – insisteva Goldoni – non è mio parente, ma ho preso impegno di assicurarlo, e deggio farlo. » E più innanzi : « Per cattivo ch'ei fosse, avrebbe mai rovinata la compagnia in un {p. 541}posto di terzo amoroso ? Io sono di lui contento, Roma lo ha stimato e lodato…. » Non sappiamo s’ei fosse accolto nella Compagnia di Venezia, ma sappiamo che, datosi poi all’arte comica, riuscì attore. egregio per le parti buffe. Fu molti anni capocomico, con Angiola Dotti, e recossi con lei a Vienna. Si trovava il 1781 sempre con la Dotti a Ragusa, dove – dice il Bartoli – facea valere il suo spirito procacciandosi degli applausi, e facendo qualche mediocre fortuna.

Soardi Carlotta. Nata a Bassano del 1782, fu una egregia comica per le parti di serva, che cominciò a sostenere all’improvviso, sì in dialetto che in italiano, con tal grazia ed eloquenza, che i più provetti dell’ arte si dice non potessero starle a fronte. Uscita la celebre Gallina dalla Compagnia Reale, andò a sostituirla, e n’ebbe moltissimi onori. Venuta in vecchiezza, passò al ruolo di caratteristica in compagnie secondarie, finchè, ritiratasi coi pochi avanzi in un piccolo villaggio del Veneto presso Badia, vi morì quasi ottuagenaria. Le Varietà teatrali di Venezia del 1821 dicon di lei, quand’ era al San Luca in Compagnia Toffoloni :

Nel personaggio di servetta è spoglia di ogni affettazione, vivace, intelligente, graziosa. Se per avventura trovasi costretta alcuna volta a coprire qualche parte di altro genere, abbiamo la compiacenza di assicurare che viene da essa sostenuta con maestria comica e senza mai scordarsi il nuovo carattere ch'ella assume e ricadere nel consueto.

Soldino, comico fiorentino del secolo xvi. È citato insieme a Scevola, senese, a Tarasso, vicentino, e a Pantalone (Pasquati) in un processo romano del 1565 (V. Ademollo, T. di R., 35). E Trautmann lo cita nel suo prezioso studio de' comici italiani alla Corte bavarese, fra gli attori che recitarono a Monaco il 1570, al quale furon pagati 40 fiorini. Il 1572 era capo di una Compagnia italiana in Francia, e Carlo IX, messosi a un regime per venti giorni, ordinò a' comici italiani di recarsi da Parigi a Blois ov'era la Corte, per divertire Sua Maestà durante il suo periodo di dieta ; e per rimborso di spese di viaggio e per onorario delle rappresentazioni (Comédies et plaisants jeux) ordinò {p. 542}in data 2 marzo 1572 a Claudio Marcello, proposto de' mercanti della città di Parigi, di pagare a esso Soldino e agli altri comici italiani lire tornesi 135, da dividersi tra loro in parti eguali, e di cui non doveva esser fatto cenno ne' registri delle spese (V. Baschet, Les Comédiens italiens,etc.).

Solmi Pietro. Mediocre artista per le parti di primo attore, e capocomico egregio in società con Antonio Pisenti detto il Margoncino : società che durò ben ventidue anni. Egli si riserbava alcune parti soltanto, e nell’elenco, di solito, figurava come altro primario attore. Non sappiam l’epoca nè della nascita, nè della morte ; ma sappiam dagli elenchi, che la società col Pisenti durò dal '26 al '46 circa. Il raccoglitore di Lucca lo dice in una nota ms. attore passabile ; e ci dà il repertorio della Compagnia, il quale era a fortissime tinte, e del quale facean più spesso le spese La figlia carceriera del padre, Il processo Fualdes, Bianca e Fernando, Le avventure di Mastrilli, ecc.

Somigli Domenico, detto Beco Sudicio. Nacque a Firenze l’agosto del 1756, e fu barbiere, comico, e poeta. Nella prefazione alle sue Rime, scritta da Arpalo Argivo (Firenze, Pietro Allegrini alla Croce Rossa, 1782, in-8°, vol. II), da cui tolgo il presente ritratto, è detto che « anche il palcoscenico servì al medesimo (Somigli) per isviluppare e render palesi i suoi naturali talenti. Egli incominciò a esercitar l’arte comica sotto il nostro celebre Pertici, e sostenne sempre con qualche decoro quei caratteri, che gli venivano destinati dal sopraffino discernimentò del suo direttore. » A ventidue anni perdè improvvisamente la vista, e si diè allora a scrivere poesie, specialmente bernesche, in cui riuscì egregio. Fu pastore arcade sotto il nome di Lisindo Tiresiano : appartenne anche agli Aborigeni della Colonia Amiatense, agli Incamminati di Modigliana, e agli Apatisti di Firenze. Dettò versi in morte di Teresa Calamai, la famosa innamorata del Gamerra, il quale nella Corneide ha un cenno di lode sul Somigli.

{p. 543}L'opera sua poetica è composta di sonetti, egloghe e cantate, fra cui una, La fuga in Egitto, curiosa, che ha per interlocutori Maria Vergine e San Guiseppe. Chi voglia avere notizie particolareggiate e dell’indole sua e del suo poetare, specialmente improvviso, veda il forbitissimo articolo di Cece nel Piovano Arlotto del febbrajo 1859, pag. 97.

Intanto, a dare un saggio delle sue rime, ecco i due sonetti che trattan della sua nascita e della sua vita, foggiati alla maniera bernesca, nella quale egli rifulse meglio assai che nella eroica e sacra :

Nella stagion che il Sol sta tra le branche
del fier Leone, e si avvicina al Cane,
e che le brine colle mosche bianche
dal nostro clima son molto lontane….
Allorchè le cicale non son stanche
di sciattare i bimmolli in fogge strane,
quando del Diacciatina sulle panche
si ganzan di sorbetti le sottane ;
il giorno, in cui tra loro uniti stanno
di Cecco e Beco i venerandi figli,
cosa, che segue un par di volte l’anno :
nel secol d’ora, in la Città de'Gigli,
gli anni, che con più sei cinquanta fanno,
nacque al mondo Domenico Somigli.
{p. 544}Nacqui, e poscia alle Scuole fui mandato
in quell’età che facile si piega,
ed il Pedante a cui fui consegnato
m’insegnò compitar l’alfa e l’ omega.
Quì, credendo aver'io molto imparato,
il genitore posemi a bottega,
feci il barbier, fui comico, e svegliato
l’estro sentii, che Apollo or non mi nega.
Perdei la luce al fin di Carnevale,
e volendo alla meglio avanti gire,
l’arte mi posi a far delle cicale.
Canto, e compongo ancor per poche lire,
e le cose fin quì non vanno male ;
poi si vedrà come l’andrà a finire.

Sondra Giuseppe (o Sontra ?). Comico del Duca di Modena, noto col nome di Flaminio, fiorì nella seconda metà del secolo xvii. Fu arrestato insieme al Pantalone Rinaldo Rosa (V.), d’ordine del Duca stesso, nel suo passaggio pel Po da Ferrara a Cremona ; e non ne è detto il motivo ; ma probabilmente per le solite defezioni di compagnia, o semplici disobbedienze agli ordini del Duca capocomico.

Il Principe di Toscana con lettera 19 agosto 1698 da Pratolino, prega il Duca di Modena di rilasciarli il commediante Sondra ; il che starebbe ad attestare del valore artistico di lui. Il 5 maggio del’99 il Principe cugino annunzia al Duca da Firenze l’arrivo di Flaminio, e lo ringrazia di una lettera piena di cortesie ch'ei gli mandò per suo mezzo.

Ademollo (T. di R.,143) riferisce i particolari della uccisione del famoso musico Siface, dallo Zibaldone di Anton Francesco Marini, il quale alla data 10 luglio 1704, dice : « Discorrendosi questo dì 21 luglio 1704 di Siface musico celebre ; mi disse Giuseppe Sondra detto Flaminio, comico del Principe di Toscana, che il Quaranta Marsilio lo facesse egli ammazzare tra il Ferrarese e il Bolognese, ecc. »

{p. 545}Sperandio Bartolommeo, mantovano, sostenne con molto successo, e in varie compagnie di giro, la maschera di Arlecchino, nella seconda metà del secolo xviii. Fu lungo tempo coi comici Lombardi, sciolti i quali, passò in Compagnia di Giuseppe Lapy, di dove uscì per diventar conduttore di una piccola compagnia. Morì di apoplessia a Venezia la quaresima del 1778.

Sperindi, di Venezia. Era in Baviera con un Alessandro di Polonia il 1567, e il 10 agosto fecero assieme istanza al Consiglio di potere per quattro giorni mostrar dovunque le loro doti artistiche con salti e commedie, e prendere in compenso del danaro, poichè mancando il nutrimento, troppo con tali fatiche ne veniva l’indebolimento del corpo. Noi sappiam già che i comici d’allora, abbracciando le varie arti, eran detti or suonatori, or commedianti ; e scorrendo il bello studio del Trautmann, troviamo in un libro di spese (1549) del Contabile di Nœrdlingen, antica città libera, che a cinque commedianti veneziani, i quali si fecer rappresentare a S. M. Imperiale da Antonio di Bolzano, loro interprete, fu pagato un fiorino perchè potessero partire. Da Nœrdlingen passarono a Norimberga, e dal Protocollo del Comune si apprende com’essi dimandassero di poter dare una rappresentazione di una vecchia storia di Ercole, e di essere confortati di buone parole (forse un attestato ?) e favoriti di quattro fiorini per continuare il loro viaggio.

Con data del 10 gennajo del 1551 si permise ai commedianti italiani di dare il domani la loro rappresentazione coi ragazzi saltatori e con altri giuochi. Nel 1559 Bartolommeo di Venezia si trovava con cinque suoi compagni in Nœrdlingen, e fu pagato a ciascuno un fiorino di onorario. E altri commedianti italiani apparvero a intervalli dal 1556 al 1586 in Strassburg ; ma pur troppo, afferma il Trautmann, in questa nota dello Sperindi è la prima volta che si rileva chiaramente non essersi trattato solo di salti, ma anche di commedie.

{p. 546}Spolverini Pietro. « Eccellente comico nella maschera da Pantalone, il quale fu impiegato per molti anni ne' Teatri di Napoli. Tornò in Lombardia da dove era partito, e ivi fece con molta lode nuovamente conoscere i suoi talenti. Passò a recitare in Sicilia, dove fu ben accolto, e dopo d’avere colà incontrata una sorte propizia, a morir venne circa il 1733. » Così Fr. Bartoli.

Spolverini Anna. « Moglie del precedente, detta la Cardellina. Brava comica napolitana, che recitò nel carattere di prima donna con assiduo impegno, divenendo un oggetto di piacere sui teatri del Regno e d’altre Provincie. Dopo d’esser divenuta moglie di Pietro Spolverini, diede le più chiare prove della sua somma abilità, e passò agli eterni riposi intorno all’anno 1735 nella città di Napoli. » Così Fr. Bartoli.

Stacchini Antonio, livornese, nacque il 1824 da Giuseppe, avvocato, e da Maria Costanza De-Ricci. Fece i primi studj a Livorno, poi, quindicenne, fu ammesso per eccezione all’Università di Pisa. Si laureò in farmacia, e continuò gli studj per uscirne dottore, quando nel '42 (egli aveva già mostrato chiare attitudini alla scena, recitando coi filodrammatici nel dramma e nella tragedia), invitato da un tal Pietrucci (forse il caratterista Petrucci (V.) ?) attore della Compagnia Della Seta che faceva magrissimi affari agli Avvalorati di Livorno, accettò di sostener la parte principale nei Due Sergenti. E l’audacia del giovine ebbe tal riuscita, ch' egli risolse di abbandonar la medicina per darsi intero all’arte ; ma parenti ed amici lo distolsero dal proposito, e lo costrinsero ad accettare invece un posto di farmacista nell’ospedal militare di Alessandria d’Egitto. Appena mortogli il padre, tornò in patria, e, dopo aver fatto il carnovale del ' 43 a Carrara con una miserrima compagnia, si scritturò pel ' 44 a Firenze in Compagnia Viti e Baroncini. Il ' 46 si scritturò con l’Impresa Jacovacci pel teatro Argentina di Roma, e il ' 48 con Gandolfi e Landozzi in qualità di primo attor {p. 547}giovine. Fu dal ' 48 al ' 54 con Domeniconi, generico per parti di prima importanza, e direttore il ' 55 di una delle compagnie di lui, della quale era prima attrice Laura Bon. Il ' 56 diventò capocomico egli stesso, e continuò a esserlo fino alla fine della sua vita artistica che si chiuse il '69 ; anno in cui si recò definitivamente a Firenze (vi si era già recato nel '64 col fermo proposito di lasciar l’ arte, alla quale tornò poco di poi, sollecitato da Riccardo Castelvecchio ad assumere la direzione della sua Compagnia Dante Alighieri), affine – dice un suo biografo, Cesare Calvi – « di proseguire alcuni studj sull’arte e sul teatro che durante il suo artistico peregrinaggio non poteva condurre a fine, » ma in realtà – dice un annotatore – per darsi a non so che lucroso commercio.

Antonio Stacchini non ebbe, in arte, fama di buon direttore ; piuttosto di buon artista per le grandi parti di primo attore padre, e tiranno, fra le quali primeggiava sempre quella di Aristodemo di V. Monti, che io stesso gli sentii fare, quand’egli era fuor dell’ arte a Firenze, di cui serbo ancora il ricordo di un insieme ampolloso di esposizione. – Vittorio Cavalieri (Trieste, 1864) e Cesare Calvi (Firenze, 1872) dettarono di lui alcuni cenni biografici ; ma a quelli del Calvi non troppo, secondo il solito annotatore (Brunone Lanata) sarebbe da prestar fede, essendo essi una iperbolica apologia dell’artista e dell’uomo.

Antonio Stacchini ebbe, fra altri, un figlio, Paolo, stato artista alcun tempo ; e morì a Firenze il 19 marzo 1893.

{p. 548}Sterni Francesco. Attore generico di molto pregio, fattosi celebre con la parte di Rodin, in cui per la interpretazione e la truccatura meravigliosa non ebbe rivali, nacque a Cassola di Bassano il 22 maggio del 1822. Fu accolto nelle migliori Compagnie, e moltissimi elogi gli tributarono il pubblico e la stampa per le lodevoli interpretazioni di opere di vario genere quali Kean, Conte Hermann, Edipo Re, Avvocato Veneziano, Tasso, ecc. ecc. Il ' 59 si fece conduttore di una Compagnia che intitolò Alessandro Manzoni, composta di una buona accolta di artisti, fra cui la Raspini, la Chiari, la Bianchi, la Miani, Venturoli, Giardini, Sobrio, Mazzocca. Fu anche lo Sterni patriotto caldissimo. Il 23 marzo del 1848 un avviso di Alessandria, col quale invitava il pubblico a una accademia di declamazione e di canto a beneficio dell’attore Francesco Sterni, cominciava così :

La sera di giovedi 23 marzo è sera per noi di beneficenza cittadina, e questo, piuttosto che un ricordo teatrale, è un ricordo comune della tacita e reciproca promessa che ci siam fatta di ritrovarsi tutti come ad un convegno desiderato.

L'attore Francesco Sterni è rimasto in questa quaresima senza compagnia. E perchè ? Gli vietavano i confini del Regno Lombardo-Veneto il coraggio civile e la bella fiamma d’affetto ed intelligenza con cui egli alzava la sua voce a far più bello il grido della libertà e della indipendenza nazionali che usciva dai nostri Poeti, e che il di 8 dello scorso febbrajo metteva all’ ordine del giorno.

{p. 549}In quella sera egli declamò I due sogni di Matilde del Berchet e del Damasio, La battaglia di Legnano e La pace di Costanza di Berchet ; L'ultimo cantico lirico di Gabriele Rossetti.

Nel '59, anno primo del suo capocomicato, fu a un punto di essere fucilato con tutti i suoi per ordine di Urban, governatore di Verona.

Gli appunti sconnessi, telegrafici dettati a me dallo Sterni, son confermati e bene esposti da Giuseppe Mazzocca (V. Suppl.), amoroso della Compagnia, nelle sue appetitose « Memorie di un attore » (Milano, 1904).

Francesco Sterni condusse onoratamente Compagnia per molti anni, finchè, stanco della vita nomade, sebben sempre vigoroso, si stabilì in Bologna, ove fu chiamato insegnante recitazione nel Collegio di San Luigi.

Sticotti Fabio, attore della Compagnia del Reggente, condotta in Francia il 1716 da Luigi Riccoboni, nacque il 1676 nel Friuli, dicono, e dalla Sticotti, cantarina di una compagnia. Fu, come sua moglie Orsola Astori (V.), scritturato per cantar negl’intermezzi, ma poi cominciò col sostenere in commedia parti di poca importanza. Succedendo a Giuseppe Giaratoni il 1729, fu egregio sotto la maschera di Pierrot, se s’ha a credere alla seguente quartina :

Cher Sticotti, je crois sans peine
quand je te vois jouer Pierrot,
que si tu fais si bien le sot,
tu ne le fais que sur la scène.

Infatti un contemporaneo, il Gueullette, dice che Sticotti era un grand’uomo assai ben fatto, di viso tondo e piatto, e di {p. 550}fisonomia piacevole ; di umore gajo al sommo, e amabilissimo in società. E aggiunge : « egli era di buona famiglia veneziana ; s’innamorò della figlia d’un orologiajo, e la sposò. Venne con lei in Francia, e non aveva mai recitato. Morto Alborghetti, lo sostituì con assai onore il 1733 nella maschera del Pantalone, e fu ricevuto in compagnia con decreto dell’ 11 febbrajo a un quarto di parte, e con-decreto del 4 maggio, a metà. Morì il 5 dicembre 1741, e fu sepolto sotto la Cappella della Madonna di S. Salvatore. »

Il Campardon riferisce una citazione di lui contro S.t Marc, il quale non voleva rendergli un pappagallo, scappatogli di gabbia, che aveva comprato dall’Alborghetti.

Sticotti Anton Giovanni, detto Kolli, secondo figlio del precedente, col nome di Fabio, fu buon Innamorato, e, dopo la morte del padre, buon Pierrot col nome di Toni e buon Pantalone. Esordì nella Surprise de l’amour di Marivaux il 15 giugno 1739, si sposò al S. Salvatore il 13 agosto 1739 con Maria Claudia Duflos, dalla quale ebbe più figli, e dal 1754 in poi recitò anche i servi e i contadini. Scrisse alcune commedie con buon successo ora solo, ora in società con Panard. Ebbe al Teatro italiano mezza parte e si ritirò il 1759 per passare poi in Prussia, alla Corte di Federico II, ove morì nel 1772.

Di lui si pubblicarono anonime alcune parodie di Atys, Roland, Mérope, Amadis ; le commedie Les Ennuis de Thalie, Les noms changés, Les Faux devins ; e la tragedia Alzaïde ; poi : L'Art du théâtre (Berlino, 1760, in-8°), Œuvres d’un paresseux bel esprit (Berlino, 1760, in-8°), il Dictionnaire des passions, des vertus et des vices (Paris, 1769), la traduzione dall’inglese di Garrich ou les acteurs anglois (Paris, 1769) e il Dictionnaire des gens du monde (Paris, 1770, 5 vol., in-8°).

Strini Giuseppe. Nato a Napoli il 21 dicembre 1846 da famiglia di commercianti, entrò nel '64, come allievo nella {p. 551}Compagnia stabile di Achille Majeroni al Teatro del Fondo. Passò il '67 secondo amoroso con Fanny Sadowski, e il '70, fuor di Napoli, primo attore giovine con Giacinta Pezzana, sotto Luigi Monti, per tornar poi, sempre sotto Monti, con la Sadowsky il '73. Sposò il '77 la figlia di Carlo Lollio (V.), ed entrò, con lei seconda donna, nelle Compagnie di Luigi Pezzana, di Alessandro Salvini ; poi (lontano dalla moglie, rimasta in Italia), di Adelaide Ristori per un giro all’estero. Fu in seguito con Bellotti, poi formò società, e nell’ '84-'85 assunse il posto di primo attore, che lasciò l’ '86 per quello di generico primario, sostenuto sempre con assai decoro in varie compagnie delle più accreditate.

Sono lieto di mettere qui il nome di Giuseppe Strini, mio caro compagno del tempo della Sadowsky (1873), il quale ebbe a sostenere dure lotte in arte, per la figura e soprattutto per il volto, poco in armonia col suo ruolo di amoroso ; dalle quali uscì vittorioso con la rara correttezza della sua dizione.

Ebbe una sorella, Eleonora, nata a Napoli il 1842, che esordì al Teatrino La Fenice come prima attrice giovine. Passata amorosa ai Fiorentini con Adamo Alberti, vi recitò sei anni come prima attrice giovine e seconda donna, applauditissima a fianco della Sadowsky, della Cazzola, di Salvini, di Majeroni, di Bozzo. Morì di malattia di petto a soli ventiquattr'anni.

Subbotici Armando. Nacque a Spalato in Dalmazia il 1778 (il suo nome vero fu Subbotic). D'intelligenza svegliatissimo, e dotato dalla natura di un fisico meraviglioso, non disgiunto da una voce magnifica, che esercitava un fascino irresistibile sugli spettatori, ebbe per un ventennio rinomanza di artista egregio ; e il Colomberti lo chiama l’ideale dei primi amorosi e dei primi attori. Ricorreva spesso nelle uscite di scena a improvvisazioni convenzionali, che gli fruttavan dai pubblici poco educati al bello frenetici applausi. Ma i non educati al bello {p. 552}pare fossero molti ; poichè, in forza appunto di quegli applausi, egli trovò posto nelle più reputate compagnie del suo tempo. Col volger degli anni, fievolita la voce, impinguato il ventre, raggrinzita la faccia, egli non trovò più posto che in compagnie di secondo, e giù giù di infimo ordine, terminando a Venezia miseramente la vita verso il 1830.

[n.p.]
[n.p.]

I comici italiani §

Tabarin Giovanni, veneziano. Dai documenti appare il primo conduttore di Compagnie italiane all’ estero. Egli recitò a Linz il 1568 e '69, e a Vienna il '70, '71, '74 ; ed ebbe titolo di Attore di Sua Romana Imperial Maestà (V. K. Trautmann, I Comici it. in Baviera, e Albert Cohn, Shakespeare in Germania) : e nel Registro di spese del Cardinal Luigi D'Este, si trova una partita per donativo di sei ducati pistolesi a Tabarin comediante italian, che secondo il D'Ancona apparterrebbe al febbrajo del '71. Secondo poi il Sand, Tabarino sarebbe stato lo Zanni della Compagnia che si recò in Francia il '70, condotta {p. 556}da Alberto Ganassa ; ma non ci dice, al solito, a qual fonte abbia attinta la notizia. Si sa ancora di lui ch' ebbe un figliuolo dalla Polonia di Vicenza, sua moglie (e moglie poi di Valerio Zuccato ? O Zuccato fu il primo marito ? O divisa dal marito si unì a Tabarin, e si fece passare all’estero per sua moglie ?), il giovedì 25 settembre 1572, a cui fu posto il nome di Massimiliano. Riferisco dallo Jal testualmente l’atto di battesimo :

Le jeudy xxve septembre 1572, fut baptisé Maximilien fils de Jehan Thabarin, jtalien de Venise, et de dam.lle Polonya de Vincence (sic), sa femme ; le parrin (sic) homme Iehan de Beome, pour le Roy, les marrines nobles damoiselles Iehaune de Marinoisin tenant pour Mad. de Guise, et damoiselle Françoise Clere tenant pour Madame de Nevers. « En marge est écrit. » M.r Crus a receu unz escu.

Ora : Fu attore Massimiliano ? Ed ebbe un figlio che recitasse : quello che vediamo il 1659 con una compagnia a Vienna, in cui era il famoso Dominique ? E apparteneva a questa famiglia, o era lo stesso del '59, quel Tamborino o Tabarrino ciarlatano savojardo nel giornale manoscritto del Fuidoro, riferito da Croce, che il dicembre del '69 pubblicamente nel largo {p. 557}della Piazza di Castello a Napoli, fatta nel suo banco una scena, vi faceva recitar da dieci persone e a tutte sue spese comedie ; e pel concorso grande che vi era senza pagare, vendeva una conserva di ginepro, che era contravveleno ? E Giovanni Tabarini di Venezia diede col suo casato il nome alla famosa maschera del Ponte Nuovo di Parigi, figurante un quarant’anni più tardi, come servo del Ciarlatano Mondor, sotto la quale si celava Giovanni Salomon suo socio ? O essa, ignara pur anco dell’esistenza dell’attor Tabarini, fu la caricatura di Francesco Tabarin, contemporaneo di Salomon, parigino, e marito di una Francesca Coulignard (per l’appunto anche la moglie di Tabarino, maschera, si chiamava Franceschina) ? Tutte domande a cui non si potrebbe, credo, con sicurezza rispondere. Su che si basano le notizie romanzesche del Marmontel su la nascita e la morte del Tabarino del Ponte Nuovo ? Secondo lui, riferito dal Petrai nel suo Spirito delle maschere, egli

era il bastardo di un cardinale romano ; cosa che sua madre riuscì a tenergli nascosta sino a ch' ei non ebbe vent’ anni. Ma un giorno il ragazzo venne, non so per quale circostanza, a conoscere la verità, e seppe come sua madre vivesse esclusivamente di una pensione che il prelato le faceva corrispondere dal Vescovado di Milano. Andò al Vescovado, allora, chiese il registro su cui era iscritta la partita e ne stracciò la pagina. Sua madre non lo rivide più. Da Milano andò a Venezia, da Venezia a Napoli, da Napoli a Roma, a Firenze, a Torino, campando la vita col fare il comico e il saltimbanco. Nel 1618, alla fine, capitò a Parigi. Quello era il centro dove andavano a cascar tutti. Associatosi con l’empirico italiano Mondor, misero su, ad imitazione di tutti gli empirici del secolo decimosettimo, un palco sulla piazza del Delfino….

Tabarrino finì in modo tragico. Il suo palcoscenico l’aveva arricchito ; i lazzi che per dieci anni egli aveva gettati alle folla, gli erano rimbalzati nella scarsella in forma di doppie. L'orgoglio lo tentò ; comperò una terra feudale, vi prese possesso e la fece da signore. I gentiluomini dei dintorni s’irritarono per quella vicinanza, ed un giorno, in una caccia uccisero il buffone, come una lepre, in un angolo del bosco.

Ma chi voglia più e meglio addentrarsi in questo laberinto di notizie e di genealogie io rimando allo Jal, che al nome di {p. 558}Tabarin, mette il resultato delle sue lunghe ricerche, colle quali, per lo meno, ha potuto accertare chiamarsi il Tabarin di Parigi Giovanni Salomon, e non aver niun vincolo di parentela con quello di Venezia. Quanto al costume ho riprodotto la maschera del Sand, che non è che una variante dei tanti Zanni di Callot, e non ha che vedere nè con quella della stampa attribuita ad Abraham Bosse, contemporaneo di Mondor, fatta nella prima giovinezza, poco dopo la sua andata da Tours a Parigi, nè con quella della stampa che sta in fronte all’ Inventaire universel des œuvres de Tabarin (Parigi, 1623), molto somigliante del resto, se ben più piccola, all’altra : se non che Tabarino là è senza barba e coll’ enorme tesa del cappello, base del costume tabarinesco, calata sull’occhio manco (pagina 556), mentre qui ha la lunga barba a punta e la tesa rilevata ai due lati, come in questa riproduzione ammodernata che precede le opere tabarinesche nell’edizione del 1858.

Il Salomon soleva intrammezzare con chiacchierate ricche di spirito e di…. salacità la vendita degli specifici di Mondor, talvolta in dialogo, sia col padrone, sia colla moglie {p. 559}Francischina, e talvolta solo ; facendo sopr'a tutto sbellicar dalle risa colle trasformazioni del suo cappello di feltro bigio a punta, al quale, nelle opere son dedicati due discorsi : De l’antiquité du chappeau de Tabarin, des tenans, aboutissans et despendances, e Les fantaisies plaisantes et facetieuses du chappeau à Tabarin.

Il colore di tutto il vestito era bianco, di tela greggia ; come si rileva da una delle tante fantasie tabarinesche, in cui gli si rimprovera di aver voluto rubare la tela per vestirsi all’ala di un mulino a vento del sobborgo di Sant’Antonio.

Qual personaggio rappresentava il primo Tabarini ? E, fosse pur di Zanni, com’è a supporre, lo rappresentava col suo nome di casa o con un nome di teatro ? Nè anche a ciò si potrebbe rispondere. Più volte abbiam visto attori e attrici salire in rinomanza col lor nome di battesimo o di famiglia, e più altre sol con quello di teatro : e forse il celebre Tabarini si nascondeva sulla scena sotto uno dei tanti nomi di Zanni o di altro tipo, non potuti sin qui identificare.

Il Sand discorre di un tipo, esistito a Bologna fin oltre il 1850 e passato poi nel dominio delle marionette, che rappresentava un vecchio mercante di circa sessant’ anni, ignorante e orso, col nome di Tabarino, il quale soleva cominciar le frasi in italiano e finirle in dialetto bolognese. « Padre quasi sempre di Colombina e alleato del Dottore, egli era – dice – il Cassandro o il Pantalone bolognese. Aveva la parrucca goldoniana incipriata, veste, panciotto e calzoni corti color marrone, calze rosse al di sopra de' calzoni, scarpe con fibbia e cappello rotondo. »

Un opuscoletto edito dal Cairo a Codogno (s.a.) sulle cinquanta maschere italiane, poco attendibile per quanto riguarda la esattezza de' costumi, benchè graziosamente disegnati, e dei caratteri, non saprei dire su che basati, benchè descritti in versi abbastanza garbati, ci mostra Tabarrino in perfetto costume {p. 560}di gentiluomo spagnuolo del secolo xvii con sotto questa sestina :

Tabarrino dal palco satireggia
contro i nobili finti e cortigiani.
È l’idolo di tutti i popolani.
Ma la Satira giunge nella Reggia,
e se il comico va fuor di misura,
su la schiena gli fanno la fattura.

Tabò Francesca. Comica fiorita nella seconda metà del secolo xvi. La vediamo coi Comici Costanti tra gli attori che firmaron la lettera da Ferrara al Duca di Modena per reclamo contro il Pantalone Scarpetta (V. e Degli Amorevoli Vittoria).

Taddei Francesco. Nato a Napoli il 1770, più noto col diminutivo di Ciccio, fu uno de' più chiari del suo tempo nelle parti di caratterista e promiscuo. Aveva esordito come amoroso, riuscendo egregio nelle scene all’improvviso. Di volto piacente, di fisonomia mobilissima, sapeva in modo mirabile dare al suo personaggio l’espressione voluta, senza il soccorso della truccatura, fosse esso l’ Avaro o il Burbero benefico, o il Maldicente, o altro. Condusse compagnia per trent’anni, e ne fu la colonna a fianco della moglie Marianna, che da lui educata all’arte riuscì a farsi molto apprezzare dai vari pubblici sì nelle commedie e nei drammi, sì nelle tragedie. Morirono entrambi a Roma, egli nel 1830, ed ella nel 1842.

Taddei Luigi. Figlio del precedente, nato a Forlì il 1802, esordì a quindici anni come brillante, riuscendo dopo un sol lustro d’arte a replicar festeggiatissimo al Teatro Nuovo di Firenze il Bugiardo di Goldoni, e il Poeta Stracciapane, una stupida farsa ch'ei recitò in mezzo all’entusiasmo per ventidue sere. Tentò la tragedia, alla quale sentivasi irresistibilmente trascinato ; e recitò l’ Aristodemo del Monti, o meglio, secondo il giudizio del padre, ne fece la parodia. Tornò subito a'ruoli {p. 561}comici, passando, ancor giovine, dal brillante al caratterista, nel quale, coll’esempio del padre, riuscì eccellente.

Il Maldicente, Il Burbero benefico, Il Sindaco babbeo, Il Barbiere di Gheldria, L' Ajo nell’imbarazzo, Don Desiderio, il Marchese della Locandiera, il Conte del Ventaglio, il Fabrizio degli Innamorati, e altri, e altri moltissimi, ebbero da lui una interpretazione magnifica. Nè men sommo fu nelle parti promiscue come nel Benefattore e l’Orfana, nel Chirurgo e il Vicerè, nel Filippo, nella Malvina, nella Leggitrice, e soprattutto nel Papà Goriot, lottando col difetto della voce aspra e chioccia, e vincendo gloriosamente, sì da farsi dire l’emulo e il successore {p. 562}degno del grande Vestri. A' primi del’ 30 fu con la Internari a Parigi, e vi suscitò entusiasmo, recitando dopo la Rosmunda, Euticchio della Castagna. Rimase con la Internari due anni ancora, poi passò il '33-'34 nella società Domeniconi e Pelzet, pella quale fu pubblicato a Pistoja un opuscolo di versi, tra cui scelgo il seguente

SONETTO

al merito singolare del caratterista

Signor LUIGI TADDEI

Or che nube di duol par che si stenda
di giovinezza sul celeste fiore,
nè più il sorriso d’innocente amore
nè più lieta l’avvivi altra vicenda ;
bello di gloria e amor dritto è che splenda
il raro ingegno che fa scorrer l’ore
inavvedute e care anche al dolore
con semplice e gentile arte stupenda.
Ei sempre nuovo si trasforma e piace,
sia vecchio amante, ossia marito austero,
o sindaco imbecille, od uom loquace.
Segui, segui animoso il bel sentiero,
già porgi ai sommi emulatore, e in breve
primo di tutti salutarti spero.

Fu il '35-'36-'37 con Gattinelli e Costantini, il '38-' 39-' 40 con Francesco Coltellini, e il '41 a Torino nella Compagnia Reale Sarda a sostituirvi il Vestri per un triennio. Cancellare l’impressione dell’incomparabile artista, non era facil cosa ; e il Taddei su le prime andò poco a verso a' Torinesi, tanto che il Vestri, senza il rapido avanzar del male, avrebbe ripreso il suo posto. Ma la diffidenza e indifferenza del pubblico non tardaron molto a dissiparsi, chè nell’ Euticchio della Castagna prima, poi negli Osti o non Osti, il Taddei ebbe tale successo da lasciarsi a dietro il gran predecessore. Uscito dalla Reale, tornò a vagar di compagnia in compagnia, passando poi nel '52 a' Fiorentini {p. 563}di Napoli, ove stette dodici anni, divenuto omai creatura del suo pubblico. L'ultima sua scrittura fu pel triennio '65-' 66-' 67 con Achille. Majeroni al Fondo pur di Napoli ; ma non potè compierla ; chè colpito d’apoplessia, dopo diciotto mesi di infermità patita con cristiana rassegnazione, passò a miglior vita il 29 agosto del 1866.

Fu il Taddei, come il padre, di volto piacente, di occhio sfavillante, di persona ben proporzionata. Bilioso e sanguigno ; era a volte allegrissimo, a volte insopportabile. Allorquando appariva in teatro col cappello calato sugli occhi, nè pur gl’intimi ardivano accostarglisi. Alla mancanza degli studj supplì con la prontezza singolare dell’ingegno. In un mio manoscritto di notiziole, raccolte dalla bocca de' vecchi artisti, trovo questa curiosa, e interessante : « Luigi Taddei buttava al pubblico ogni fine di frase, e camminava come un ballerino. »

Dettò poesie, non prive di spontaneità e di acume, tra cui una satirica intitolata Artisti e giornalisti, che ha, tra l’altre, strofe come queste :

È un foglio inutile,
ma molta gente
va a sottoscriversi
immantinente :
gli artisti corrono
per la paura
come le pecore
alla pastura.
Molti son miseri
vivono a stento,
ma tutti pagano
l’abbonamento ;
e raziocinano
che l’associato
non potrà essere
mai maltrattato.
Se sai conoscere
il bel momento
di saper porgere
un complimento6…,
impareggiabile !!
non hai peccato !!
In fra i primissimi
merti il primato :
e tu medesimo
a tuo piacere
di te puoi scrivere
pagine intere.

{p. 564}Anche si dilettò di pittura ; e io posseggo un album di figurini acquarellati, che Luigi Marchionni cominciò, e Luigi Taddei completò.

Oltre al sonetto dell’ opuscolo (pagina 562) e al brano della poesia che la sorella dettò per la malattia di lui, metto qui una odicina del Guadagnoli dettata (1832) pel medesimo soggetto.

Gigi mio, Gigi mio,
se sapessi tu quant’io
ho penato, tribolato,
nel sentir ch'eri malato !
Ma or succede al dispiacere
il conforto di vedere
che il fucile della secca
questa volta ha fatto cecca.
Già Livorno si fa lieto
perchè a lei rivolgi il piè,
ed il povero poeta
che non può venir con te,
t’offre i parti della mente,
onde l’abbi ognor presente.
Su correte, o versi miei,
dall’amabile Taddei
a tenergli compagnia
in mia vece, or che va via.
Se con lui sempre starete
nuovi scherzi apprenderete,
nuove grazie, nuovi sali,
e facezie naturali,
ch'ei succhiato ha dalla balia
per conforto dell’ Italia,
chè se l’ode su la scena
la dolente si serena,
e dimentica gli affanni
ch'ella soffre da tanti anni !

Taddei Rosa. Sorella del precedente, nata a Trento il 30 agosto 1799, si diede come lui all’arte dei parenti, giovanissima, e riuscì a soli diciassette anni egregia nelle parti amorose di prima donna, mutandosi poi in egregia prima donna tragica. Mostrò da bambina un particolare amore agli studj, che potè coltivare al fianco dello zio Emanuele Taddei, uomo per dottrina chiarissimo ; e, dotata di una memoria prodigiosa e di una mente eletta, si trovò, ancor giovine, ricca di una vastissima coltura storica e letteraria. Non mai lasciò i classici greci e latini, nè lasciò mai di esercitarsi in dettar poesie di ogni genere e di ogni metro. Recatosi il poeta improvvisatore Pistrucci a Viterbo, a darvi accademie alternate con le rappresentazioni della Compagnia Taddei, invitò una sera la Rosa a svolger con lui di su la scena l’ultimo tema datogli. Parve a' più una celia ; ma la giovane artista, che assisteva da un palco di proscenio, si levò {p. 565}incontanente ; e recatasi alla ribalta, improvvisò una sestina-fervorino, che le acquistò subito la benevolenza del pubblico, andatasi poi grado a grado mutando in entusiasmo, onde, a tenzone finita, ella fu accompagnata a casa con torce, in mezzo alle più pazze acclamazioni.

Da quella sera fu improvvisatrice famosa, e giunta a Roma, accolta e festeggiata da Iacopo Ferretti, tal fanatismo vi suscitò con le frequenti accademie, che fu ascritta col nome di Licori Partenopea tra gli Arcadi di Roma.

Raccomandandola il Perticari al Conte Gabrielli di Fano, scriveva : « Fa ragione che le nove muse vengano di persona a salutarti, perchè elle ti mandano la Rosina Taddei loro amica e compagna. Non vado più in parole, perchè so a che anima {p. 566}cortese io scriva, e perchè una bella giovanetta, che canta versi soavissimi, non ha bisogno di commendazione. » Francesco Re di Napoli la pensionò. Dopo dodici anni di casto amore, s’unì in matrimonio col comico Mozzidolfi, colto e integerrimo uomo, e morì in Roma il 3 marzo del 1869.

A dare un saggio dell’arte sua poetica, metto qui il principio e la fine dell’ode ch'ella dettò nel '64 per la malattia del fratello Luigi :

Sorgi, suonò di Naim in su le porte
l’Eterna voce onde l’inferno è vinto ;
e tosto dal feral sonno di morte
surse l’estinto.
Ed or la stessa sua voce sovrana,
all’ orecchio de' fisici eccellenti,
Destatelo, suonò con legge arcana
d’alti portenti :
e ispirati di Cristo alla parola,
sommessi a Lui che l’ Universo ha in pugno,
obbedian gli educati all’alta scuola
del gran Cotugno.
E sorgi, al fratel mio dicean concordi ;
Dio nella nostra la sua man ti porge ;
e i sensi, che all’udir pareano sordi,
scuote, e risorge.
…………..
Fratel, che tante lagrime mi costi,
solo un conforto hai tu nel tuo malore ;
che almen felice nel dolor tu fosti
fra tanto amore.
Deh ! Non sparger d’oblio sì dolce idea,
fin che ti basti la novella vita :
Dal giusto Dio che suscita e ricrea,
venne l’aita.
Ei fe' di tutti sperimento : e tutti
trovi degni di premio all’oprar loro ;
e lor darà centuplicati i frutti
dall’arche d’oro.
{p. 567}E poichè immenso don di sua pietade
ti pose il fido Beniamin d’appresso,
che, conforto a' tuoi mali, or la metade
è di te stesso ;
appena il potrai tu, fa ch'ei ti guidi
al tempio di Maria, madre di Cristo,
se delle offese membra ti confidi
riaver l’acquisto ;
e udrem, nuovo miracolo di Cielo,
la stessa di Gesù voce divina,
ripeterti col suon dell’ Evangelo :
Sorgi e Cammina.

Talli Virgilio. Nato a Firenze il 1° agosto del 1857, ed educato al Collegio Cicognini di Prato, cominciò a recitar tra i dilettanti nell’ Accademia Filodrammatica Fiorentina che aveva sede al Palazzo Rinuccini e contava recitanti egregi, tra cui primo per verità e spontaneità e finezza il porta-lettere Fantoni. Dall’Accademia Fiorentina passò a quella de' Fidenti, dalla quale uscì l’ '81 per andare scritturato con Adeleide Tessero, che lo alzò subito al ruolo assoluto di brillante. Restò con lei fino all’ '85, e fu i primi due anni e mezzo nell’ America del Sud e nella Centrale, ove si formò il repertorio, e ove mostrò subito una singolare signorilità di recitazione e di modi, da ogni pubblico ammirato e festeggiato. Fu l’ '86 con Novelli, e l’ '87-'89 con Pietriboni, per diventar poi capocomico assieme a Paladini, colla moglie Ida Carloni (V.) prima attrice ; nel qual tempo fe'conoscere agl’ italiani i lavori del Becque, di cui primo La Parigina. Dopo la società con Paladini, ne formò una con Reinach, della quale era prima attrice Virginia Reiter, creando poi la famosa Compagnia comica Talli-Sichel-Tovagliari, una delle più fortunate del nostro tempo, sì per la novità e originalità del repertorio, sì per la spigliatezza e l’affiatamento.

Stette poscia con Teresa Mariani un anno, e un triennio con Di Lorenzo-Andò ; dopo il quale formò società con Irma Gramatica e Oreste Calabresi ; società che dura da quattro {p. 568}anni, e in cui s’andò egli acquistando la fama di direttore forte e intelligente : accresciuta oggi (1904) coll’allestimento della tragedia La figlia di Jorio di Gabriele D'Annunzio, che va scorrendo trionfalmente i teatri d’Italia. Ancora due anni, e questa Compagnia che s’è conquistato il posto primo tra le prime, non solo per le parti che la compongono, ma anche, e più, per la bella armonia dell’ assieme, si sfascierà tutta per dare nuove missioni da compiere, nuovi ideali da tradurre in fatto, o nuove speranze di lucro. Oreste Calabresi diverrà capocomico solo, e avventurerà al gran pubblico una giovine promessa : Elisa Severi ; la Gramatica diverrà capocomica sola, e scritturerà primo attore e direttore Flavio Andò ; Virgilio Talli farà una compagnia col proposito fermo di toglier di mezzo tutte quelle piccole convenzioni di palcoscenico, che tendono {p. 569}ad infrenare il libero corso dell’arte, e principale quella dei ruoli.

Il male ormai è radicato da secoli, ed estirparlo non è impresa agevole ; ma se uno v'ha che possa riuscirvi, egli è certo Virgilio Talli, che per la fierezza dell’indole e la pervicacia nella lotta non ha chi gli stia a paro.

Tarasso (V. Soldino).

Tassani Lorenzo. Attore caratterista e promiscuo, e capocomico, ch'ebbe scritturata nel 1826 tutta la famiglia Dondini. Recitava anche sotto la maschera d’Arlecchino, festeggiatissimo. Era forse figlio di un Giuseppe Tassani, che trovo Brighella, sul finire del secolo xviii in Compagnia di Giovanni Fabbri.

Passò poi da capocomico ad attore generico e direttore delle rappresentazioni nella compagnia di suo figlio, e morì a Taranto a 82 anni il 16 marzo del '72. Fu prima attrice assoluta della sua compagnia la moglie Giuditta.

Tassani Napoleone ed Elena. Figlio il primo del precedente, fu attore e capocomico, e abbiamo l’elenco della sua compagnia pel 1857 : anzi due elenchi, uno dello Scaramuccia (n.° 40), l’altro di G. Cosentino (L'Arena del Sole). In quello figuran come prima attrice e primo attore i coniugi Elena Petrucci-Germoglia e Giuseppe Germoglia ; in questo, Elena Germoglia-Tassani, e Vincenzo Andreani. Forse lo Scaramuccia ebbe l’elenco in quaresima e nol pubblicò che in agosto, quando la Germoglia, morto il marito, passò a seconde nozze col Tassani ? Dopo sei mesi di vedovanza ? O lo Scaramuccia ripubblicò un elenco degli anni scorsi ? Non pare possibile. Certo l’elenco del Cosentino è stato pubblicato colla scorta del documento che ci dà il Tassani marito di Elena Germoglia, figliuola del caratterista Giuseppe Petrucci (V.), « giovane e bellissima attrice – scrive Cosentino – che lo ajutava a portare il fardello {p. 570}del capocomicato irto di difficoltà pecuniarie, » e che si meritò dal pubblico veronese l’onore della presente effigie nel IV atto di Medea.

Napoleone Tassani rappresentava di preferenza i drammoni da popolino, ai quali faceva seguire la declamazione dei libretti di opera Trovatore, Norma, Ernani, ecc., con cori e {p. 571}orchestra. Dio sa quali ! In quell’estate dell’anno '57 a Bologna, la Compagnia, essendo inoltrata la stagione, passò dall’Arena al Teatro del Corso.

Figurava nella stessa Compagnia una Maria Tassani, e il Tardini (Teatri di Modena) annovera una Amalia Tassani-Majeroni, amorosa il '57 con Luigi Aliprandi, il '58 con Luigi Robotti, e il '62 con Francesco Sterni ; poi prima attrice assoluta il '68 con Gaetano Benini, moglie di Emilio Tassani, e madre di Enrichetta, generici.

Tassi Lodovico. Modenese. Fu attore di pregio per le parti di Dottore, e recitò alcun tempo in Compagnia Medebach. Passò poi in compagnie vaganti, sempre ammirato, e finì, a motivo della sua condotta disordinata, in piccole accolte di Comici Castelleggianti, cessando di vivere miseramente in Vigevano l’anno 1769.

Tatarone, ossia, vecchio che vuol fare il tata, il mimmo, parlando con favella mozza, infantile ; fu soprannome d’un comico bolognese, che recitò nelle migliori Compagnie con la maschera del Dottore,« e si mostrò – dice Francesco Bartoli – grazioso insieme ed erudito nel sostenere il carattere del suo secondo vecchio, parlando con assiomi latini, e facendosi distinguere per ottimo commediante. Morì nel 1750 circa. »

Teldi Tilde. Nome di teatro di Matilde Tescher, figlia della nota artista lirica tedesca. Nacque a Milano il 14 aprile del 1878, ed entrò giovinetta nell’Accademia de' Filodrammatici diretta da Luigi Monti, dalla quale passò scritturata il 1895 prima attrice giovine e amorosa nella nuova Compagnia Garrin di Cocconato, di poca fortuna. Toltasi alcun tempo dall’arte per malattia, vi tornò l’autunno del '96, scritturata collo stesso ruolo da Eleonora Duse ; e fu con lei in Russia, in Germania, in Francia. Il '98 fu chiamata a far parte della nuova {p. 572}Compagnia del Teatro d’Arte di Torino, al fianco di Giacinta Pezzana, e il '99 di quella da me formata, nella quale ebbi campo di studiare e ammirare il temperamento artistico della giovine attrice. Tilde Teldi è stata, direi, l’ideale della prima attrice giovine del suo tempo. Mentre tutte le sue colleghe di ruolo si tuffavano a capo fitto come prime donne assolute nel gran repertorio, ella, per una cotal deficienza di mezzi vocali, rimaneva nella sua modesta cerchia amorosa, facendosi ovunque notare per le grazie del volto, la forza del sentimento e la soavità del dire. Oggi, andata a marito, vive a Torino fuor dalle scene.

{p. 573}Tellini Achille, livornese, è stato un egregio primo attor giovine, scritturato da buone Compagnie, quali di Achille Dondini (1873), di Luigi Monti ('78), di Vincenzo Udina ('81), ecc. Nè sol delle doti di attore egli andava ornato, ma anche di disegnatore, chè egli precedette i comici Galvani, Ruggeri e Farulli nel riprodurre i maggiori colleghi – la Duse, Cesare Rossi, Andò, Zacconi, ecc., – in geniali caricature ; dove, se difetta la correttezza del disegno, è pur sempre un sentimento e uno spirito de' più vivi, non raggiunti fin qui. È passato il Tellini dagli amorosi ai primi attori e da questi a parti di minore importanza ; e anc’oggi, di compagnia in compagnia mediocre, va esercitando l’arte comica con varia fortuna.

Tesi Faustina, di Crema, moglie di Domenico Tesi comico bresciano, « il quale – dice Fr. Bartoli – sarebbe stato un abile commediante se non avesse trascurato il mestiere a segno di ridursi a recitare tra' Comici Castelleggianti, e a suggerire tra vaganti compagnie, » fu attrice valorosa specie nelle parti tragiche. Recitò nella prima giovinezza le parti di serva, e vi fu ammiratissima ; in una particolarmente, nella quale eseguiva un volo pericoloso : tal che una sera al S. Samuele di Venezia cadde a terra dall’alto, levandosela con pochissimo danno. Cominciò a recitar da prima donna il 1756 nel Teatro della Sala di Bologna, e vi piacque assai sì nelle commedie improvvise, come nelle scritte.

Separatasi dal marito, si diede allo studio della musica, e calcò alcun tempo le scene liriche, tornando poi, pel mediocre successo, alle drammatiche, scritturata il 1770 al S. Gio. {p. 574}Grisostomo di Venezia con Girolamo Medebach. Si tolse da esso l’anno dopo, fuor di tempo, « e dall’amicizia – dice Bartoli – di nobile cavaliere letterato ricavar seppe a vantaggio suo delle favorevoli disposizioni » ( ?).

Passò poi con Onofrio Paganini, tornato allora di Spagna, ma gelosa degli applausi della nuora, se ne staccò subito, e andò con Pietro Rossi, col quale stette un anno. Unitasi a Cristoforo Merli, primo innamorato (V.), formò il 1776 una Compagnia di buoni artisti, colla quale percorse decorosamente le migliori piazze, quali Bologna, Parma, Trieste, Milano, Brescia, Mantova, ecc., e della quale un foglio volante di Sassuolo ci dà l’elenco : Faustina Tesi, Cristoforo Merli, Giovanni Valentini, Vittorio Mattagliani, Antonio Fiorilli, Gio. Batta Gozzi, Ferdinando Colombo, Francesco Panazzi, Domenico Conti, Luigi Delicati, Maria Nasi.

Andò il 1777 con esso Merli e con Giovanni Valentini a Napoli, d’onde rimpatriò dopo un solo anno, continuando a condur Compagnia con favorevole successo ad onta dell’età non più giovine e di alcuni incomodi ; ma sopr'a tutto della sua indole collerica e sdegnosa, che la faceva intrattabile. E questo prova, mi pare, quanti e quanto grandi fossero i pregi suoi di artista. Magnifica di figura e di voce, ricca d’intelligenza, parlatrice elegante, piena di cuore verso i suoi compagni, era una specie di Ristori d’allora. Ma la pienezza di sè attenuava di molto e talvolta distruggeva agli occhi di chi l’accostava i pregi suddetti.

A mezzo anno pianta Medebach, poi Paganini, poi si separa dal marito, poi sbraita contro le sconvenienze del pubblico, poi si ribella ai compagni, poi…. diventa odiosa a tutti. Il Bartoli si prova, naturalmente, di dare un colpo al cerchio e uno alla botte, dedicandole un de'soliti sonetti, e condanando il Piazza di aver avuto per lei « parole puntate che dalla penna di pulito scrittore non devono uscire giammai ; » ma per la Tesi, almeno, non osa, come per altre, accusarlo di calunniatore.

{p. 575}Vale la pena che io le metta qui per intero (Il Teatro, tomo I, art. VI-VII).

…….passai alla camera della prima donna, ch'era poco lontana. Trovai una persona di vantaggiosa statura, ma un po' avanzata negli anni. Me le presentai con un’aria di sommissione, che gonfiò la sua vanità. Fui accolta a braccia aperte da lei, che nelle parole e negli atti, non poteva essere più cortese e obbligante. Mi regalò un bacio che mi sconvolse lo stomaco per il fetor del suo fiato. Glielo restituii su una guancia, con tutti i riguardi di sanità. Palesandole il bisogno ch'io aveva della sua protezione, la trovai si disposta a farmi del bene, che rimasi stupita. Cominciò a parlarmi de'suoi compagni e loro fece una raccomandazione, che non mancava di alcun requisito.

Seppi la storia della prima donna, che da quì inuanzi io chiamerò col nome di Megera. Trasecolai nell’ udirla, e qui non la inserisco, perchè scrivo la mia, non quella delle altre ; ma dirò alcuni tratti particolari, che divertir potranno chi legge.

In un mese di tempo aveva ella cangiate ventisei serve. Ognuna, che se le presentava, le accomodava, pareva fatta per lei, e non passava un giorno che la buona diventava cattiva, ed era licenziata, o andava a sua posta. Per mangiare s’era servita a tutte le osterie di Milano, e per necessità facevasi cuocere in casa ; perocchè nessuno voleva più aver a fare con lei. Acconciavasi da sè non trovando un parrucchiere tanto paziente che potesse reggere alle sue stravaganze. Brava per bestemmiare, non la cedeva a un vetturino napoletano ; ardita nelle risse, pareva un granatiere infuriato che minacciasse rovine e morte, ma se trovava una faccia dura, che agli urli suoi non si sgomentasse, quella Tigre diveniva una pecora che si cacciava tra le gambe la coda, e cedeva vergognosamente il campo della battaglia. Un giorno, dopo aver strapazzato ingiustamente il garzone d’un caffettiere, che la serviva ed era uno svizzero, gli diede uno schiaffo. Il ragazzo soffri le parole, ma non i fatti, e le scagliò in faccia tutta la roba di bottega che seco aveva, segnandola in fronte, e scottandola col caffè. In luogo di continuare la zuffa, misesi a gridar : ajuto, misericordia, son morta. Pianse, urlò, mise la contrada sossopra, e fece entrare una sentinella nel casino, come se trattato si fosse d’un omicidio. Una lavandaja, accusata da lei d’averle rubata una camicia, e certe altre pezze, e venendo chiamata una ladra, una brutta B…. le diede due guanciate pesanti, al cui suono echeggiò la camera. Ella se le prese, pianse, e si fece venire le convulsioni. Che più ? Lo stesso suo amante, il nido della tolleranza umana, la bontà personificata, un uomo di miele, fu costretto più volte a batterla come un tappeto, ed erano poche sere che prendendo seco il fresco di notte vicino alla Porta orientale, le aveva scossa la polvere dell’ andrienne co' colpi della sua canna. Questo poco serva a far meglio conoscere quella donna ; il molto che io taccio, empir potrebbe un volume.

Accasciata dal male, stette alcun tempo lontana dal teatro ; e morì in Brescia il 14 novembre del 1781.

Tessari Alberto, Pietro, Marc’Antonio. Nato a Verona il 21 giugno del 1780 da Epifanio del fu Marco Tessari e da Rosa Turella, si diede, appena compiuto un regolare corso di studj, a recitare nella Filodrammatica della città, scritturandosi poco di poi col Paganini, dal quale passò in processo di tempo {p. 576}col Bianchi, con la Consoli e Zuccato, e finalmente col Fabbrichesi, Direttore della Real Compagnia Italiana. Quando questi condusse nel 1824 la Compagnia nell’Italia Centrale, il Tessari ne uscì, per rientrarvi poi l’anno dopo, diventandone a' Fiorentini, il proprietario fino all’anno 1839, in società con Prepiani e Visetti (V)., stipendiato dalla Corte. Passò poi, colla moglie, la celebre Cavalletti (V.), in Compagnia di Corrado Verniano (o forse più esattamente Vergnano) per un triennio, per doventar di nuovo capocomico di una compagnia di giro, che lasciò dopo alcuni anni, ritirandosi dalle scene per la morte di un unico fratello che lo lasciò tutore de' figli e amministratore del loro ricco patrimonio.

Abbiamo molte testimonianze della sua arte e della sua bontà. Colomberti, contemporaneo, lo chiama un « ottimo Padre Nobile, riuscito ugualmente bravo nei tre generi di recitazione, » e Luigi Aliprandi, contemporaneo e scritturato, dice di lui largamente ch'ebbe figura possente, ma voce alquanto aspra, e modi risoluti e austeri, da farlo credere di una severità grandissima ; mentre, in realtà, era l’uomo più mite e indulgente del mondo. E narra l’aneddoto che scontrato per via da un meschino attor di provincia, che gli si raccomandò per un abito vecchio, squadratolo da capo a piedi con atto di stupore, « ma come ! – gli disse ; – per ridurre un abito mio al vostro dosso, ci avreste da dare al sarto una somma…. Mi pare {p. 577}sarebbe molto meglio ve ne faceste uno nuovo…. » L'attore lo guardò umilmente, e balbettò : « Si fa presto a dirlo…. ma…. » E Tessari di rimando : « Ho capito. » E senza perdere un istante lo condusse da un mercante di panni. Staccò quel tanto che occorreva per un vestito, e pagato il prezzo, senza che l’altro avesse il tempo di dirgli un « grazie » uscì precipitoso di negozio. E Aliprandi aggiuge che ben considerata l’indole di lui, non si penerà a credere com’ egli recitasse a meraviglia Il Burbero benefico, L'Abate de L'Épée, I due fratelli alla prova, La restituzione del portafogli, e altro di simil genere. Il Regli, a proposito della recitazione tragica del Tessari, dice che « si parlava ancora (1860) del modo stupendo con che rappresentava il Filippo d’Alfieri, Creonte, ecc. ; » e F. Righetti, nel volume secondo del suo Teatro Italiano, « Ho riconosciuto – scrive – pochi attori, che più del signor Tessari studiassero di penetrare nel carattere del personaggio che dovevano rappresentare. Uomo colto come egli è, sapeva benissimo che un attore assennato non deve nella pittura d’un personaggio, principalmente storico, abbandonarsi al caso…. Io amo più un attore che abbia sbagliato il carattere d’un personaggio per averlo mal interpretato, che quegli che l’abbia indovinato per caso, e senza riflessione…. Il nostro Tessari convinto di questa verità, rifletteva, e sentiva ; e colse il premio del suo studio nell’estimazione dei saggi. »

Da un volume ms., intitolato Coscrizione prima – Registro de' Volontari, si ricava che Alberto Tessari era alto 5 piedi, 4 pollici e 5 linee, ed aveva i seguenti connotati : « capelli castagna, fronte spaziosa, ciglia castagna, occhi cerulei, naso lungo, bocca regolare, mento rotondo, viso largo. »

Tessari Carolina (V. Cavalletti-Tessari).

Tessero Giovanni. Primo attore assoluto il 1826 nella Compagnia di Tommaso Zocchi, poi nella stessa il '38, a vicenda con Giovanni Trenti, che il raccoglitore lucchese chiama mediocre, poi, sempre nella stessa e di nuovo assoluto il '43.

{p. 578}Tessero Pasquale. Fratello del precedente, nacque in Aquila da Antonio Tessero il 1797. In un articolo del Fanfulla della Domenica del 1° gennajo 1888, Giuseppe Costetti lo dice non figlio d’arte, mentre il Colomberti lo fa nascer da genitori oriundi napoletani che esercitavan l’arte drammatica. Cominciò a recitar giovinetto, e abbandonata la famiglia, percorse l’Italia in compagnie secondarie ora scritturato, ora socio, cominciando la sua vita artistica propriamente detta, nella Reale Compagnia Sarda, in cui apparve il 1836 in qualità di tiranno tragico e famigliare, e in cui restò fino al disciogliersi di essa. Lo vediamo poi il '60 e il '62 in tournée con la grande cognata Adelaide Ristori. Pasquale Tessero, di corporatura tarchiata, di folta capigliatura, di voce imponente, fu un tiranno modello, e s’ebbe da'suoi compagni d’arte il nomignolo di magna putèi (mangia fanciulli).

Tuttavia ne' primi tempi il tiranno non fu considerato, come più tardi, un ruolo a tinte fosche obbligate : poteva essere primo attore, e anche amoroso : tant’ è vero che la parte di Ugo, oggi primo attor giovine, nella Pia de' Tolomei del Marenco, fu affidata al tiranno (Costetti, C. R. S.).

Il Tessero morì a Bologna il 24 dicembre 1887, assistito amorosamente dalla moglie Carolina, che fu sorella minore di {p. 579}Adelaide Ristori, e artista non ispregievole, nata a Brescia il 4 novembre 1823, e morta a Genova il 1890.

Tessero Adelaide. Figlia del precedente, nata a Firenze l’8 dicembre 1842, nel popolo di S. Simone, fu per comune consentimento la maggiore della gran triade che regnò sulle nostre scene dal '60 all’ '80 incirca, per la spontaneità e il sentimento prodigiosi. Nata da artisti di pregio, cresciuta sulle tavole del palcoscenico, all’ombra, direm quasi, della grande zia, non è a stupire ch'ella divenisse grande a sua volta, dando i primi segni di una eccezionale intuizione a soli nove anni, quando al Teatro Re di Milano si presentò a recitare nella Giovannina dei bei cavalli. A tredici anni appena era già l’amorosa della Compagnia italiana di Giovanni Toselli, che andava maturando il disegno di una Compagnia piemontese. A quindici si unisce alla zia e percorre con lei le grandi capitali di Europa, e dopo un anno eccola in Italia ed eccola di nuovo con Toselli per alcune rappresentazioni, prima donna ; e questa volta, della Compagnia dialettale da lui formata, recitando la Francesca da Rimini del Pellico, parodiata dal Toselli stesso, col titolo : Cichina d’ Moncalé (1859). Riparte con la zia, e dà segni non dubbi di futura grandezza…. Ma non monta in superbia per ciò : tornata in Italia, memore di quel che fu il maestro per lei, si unisce ancora a Toselli, interpretando' sta volta i capolavori del Teatro piemontese, quali Sablin a bala, Gigin a bala nen, Margritin dle violette, e suscitando nel pubblico accalcato nel piccolo teatro Rossini il più schietto e più vivo degli entusiasmi. A questo punto lascio la parola a Luigi Pietracqua, che da proto della Gazzetta del Popolo, passò ad essere il più forte autore del Teatro piemontese, per {p. 580}sentimento di modernità, accoppiato alla più ardente passione (traduco dalla gazzetta dialettale 'l birichin del 5 settembre 1896) :

Una figurina slanciata, sottile e dritta, e così naturalmente elegante, che si sarebbe detta modellata da Fidia o da Prassitele. Avea lo sguardo profondo, espressivo, sereno e soave a un tempo, intelligentissimo ; un complesso di fisionomia che avea qualcosa delle Madonne del Murillo e del Dolce, che facea ricordare le più belle incarnazioni dell’arte bizantina, e che, tutto ben considerato, somigliava un’educanda uscita fresca fresca dai nostri Collegi-Convitti delle monache. Io ebbi la fortuna di conoscerla quando non aveva che quindici anni.

…………….

Da la Guera o pas di Garelli, è passata sempre trionfalmente a Gigin a bala nen, a Giors’l Sansuari, a Le sponde del Po. Debbo dirlo a onor del vero : quest’ultimo lavoro, nella sua semplicità originale e poetica, fu una vera rivelazione artistica per la nostra Adelaide…. Tutti dicevano non più trattarsi di una bimba qualunque, ma di una vera artista fatta e provetta. E infatti, era tanta e così evidente la precocità artistica in quell’ adorabile fanciulla, che io stesso udii ripeter le mille volte in platea : « Ecco una vera prima donna ideale. » A quello delle Sponde del Po, seguì il successo di Sablin a bala ; ma dove la splendida farfalla si levò sulle ali poderose, dove la Tessero diè prova di tutti i suoi mezzi artistici, si fu in Margritin dle violette, una felice riproduzione, o riduzione, del dramma tipico di Dumas.

Dal Teatro piemontese passò poco di poi al Teatro italiano, primeggiando nella Compagnia Bonazzi a fianco di Virginia Santi e di Enrico Cappelli, prima ; indi in quella di Alamanno Morelli, con cui stette acclamatissima un triennio. Unitasi in matrimonio con Giovanni Guidone, si allontanò per due anni dalle scene, alle quali tornò più entusiasta che mai, scritturata da Bellotti-Bon (Compagnia n.° 1, 1873), dopo il clamoroso successo avuto nella Marcellina di Marenco al D'Angennes di Torino, in unione a Giacinta Pezzana, quella che raccolse degnamente la sua eredità artistica in Compagnia Toselli.

Fu poi gran tempo con Alamanno Morelli, del quale diventò socia, poi si diede al capocomicato con varia fortuna, percorrendo le grandi città di Europa e di America ; poi…. per {p. 582}una malattia cancerosa al petto, che la rose lentamente, dovette, in mezzo agli spasimi, soccombere a Torino il 24 gennajo del 1892.

Adelaide Tessero !… Chi volesse chiamarla con nome antonomastico, dovrebbe dire : La grande lottatrice ! Mai artista di teatro si è sentita così gagliarda e possente in faccia alle bufere della platea…. Pareva ch'ella godesse di trovarsi alle prese col mostro dalle cento teste, e assaporasse nel conflitto l’ebbrezza della vittoria…. Che lanci di leonessa ! che ruggiti di tigre ! che gridi di angoscia, di terrore ! chi ricorda, chi ricorda i tre gridi famosi del Suicidio di Paolo Ferrari, e il famoso Vedova di Donna o Angelo di Teresa Sormanni, senza fremere ! che vita vissuta fu quella di Adelaide Tessero sulla scena ! Con quale spontaneità si movevan que' personaggi ! Che lagrime sgorgavano da quegli occhi infiammati ! Come ci si sentiva commossi davanti a quelle possenti creazioni, ch'erano : Patria, L'Odio, Fernanda di Sardou, Messalina, Cleopatra di Cossa, Le famiglie illegali di Pailleron, Il Ridicolo di Ferrari, e più tardi Odètte di Sardou, Maria Antonietta ed Elisabetta Regina d’Inghilterra di Giacometti, Maria Stuarda di Schiller, e tutto infine il repertorio della gloriosa zia Adelaide Ristori !!

Ermete Novelli, uno dei pochi, il solo forse, veramente capace d’intendere quella recitazione tutta impulsi, senza un fil di meccanica, dettò nel Fanfulla domenicale del 31 gennaio '92, poco dopo la morte di lei, un articolo ricco di commovente entusiasmo, da cui mi piace, per chiuder degnamente questo mio, stralciare un brano, che si riferisce a una recita di Fernanda al Margherita di Genova per la famiglia di Carlo D'Antoni.

Tutto, come dissi, andò…. come doveva, splendidamente ; ma dove l’entusiasmo del pubblico non ebbe più limiti, senza contare la commozione dei fratelli d’arte, fu al terzo atto, alla famosa scena fra Clotilde e Pomerol ! Non fu più la rappresentazione, no : fu tutto un dramma rubato alla vita ! Lei più nulla aveva di donna ; era diventata una belva : il suo viso, così dolce di solito, non era riconoscibile…. Pallida come un cadavere…. le labbra più pallide ancora, contratte, umide di bava…. Ne fui talmente spaventato per quelli che diceva di odiare, e ai quali voleva fare tanto male, che non compresi null’altro, se non il dovere di difendere da quella jena quei disgraziati ! Me le avventai addosso furibondo, la presi alla vita, strappandole con le unghie la stoffa del {p. 583}corsage, tentando trascinarla verso la quinta, senza riuscirvi, tanta era la forza, l’agilità con cui mi sfuggiva di mano…. urlando, sibilando ! Finalmente, mi riuscì di moltiplicare le forze : la sollevai. Il teatro sembrava deserto, tanto era profondo, spaventoso il silenzio che vi regnava. Si sarebbe detto che quei mille spettatori fossero compresi dalla verità di quel dramma : non si sentivano che i miei rantoli rabbiosi e le grida soffocate della povera Adelaide. Come siamo entrati dentro le quinte, come non siamo caduti, non saprei dire : so solamente che il pubblico la chiamò alla ribalta per ben undici volte, dico undici, sventolando i fazzoletti, in piedi…. e che, alla fine, ci trovammo abbracciati e piangenti, baciandoci come due innamorati ! Lei gridava : « Ecco, ecco la mia arte…. ritorno giovine !… » E io non sapevo che ripeterle : « come sei grande, come sei grande ! »

E dopo quella memorabile recita, ella tornò a Sampierdarena, ove faceva il carnevale con una compagnia…. non sua. Adelaide Tessero !!!

Tessero Laura. Sorella minore della precedente, fu prima attrice giovine di qualche pregio, e la vediam la prima volta insieme all’Adelaide del 1861 in Compagnia Morelli, dove la troviamo ancora il '79, e l’80 quando ne fu socia la sorella, con cui trascorse gran parte della sua vita artistica. Fu moglie di Olinto Mariotti (V.), morto il quale passò a seconde nozze con Antonio Bozzo (V.), vedovo di Amalia Checchi. Oggi Laura Tessero, passata ai ruoli di madre, vive la vita di compagnia in compagnia di secondo ordine, con una figlia, avviata anch'essa all’arte de' parenti.

Testa….. Detto in Comedia Aurelio, fu comico insigne a Napoli (V. Bucca, e note del Fuidoro sub ottobre 1630 cit. B. Croce, Teatri di Napoli, 781) fatto uccidere da Vincenzo Capece, un de' primi proprietarj insieme a Ottavio Sgambato del Teatro de' Fiorentini. Aurelio !… Comico insigne !… 1630 !… {p. 584}Che finalmente si possa identificare in questo Testa l’Aurelio conosciuto fin qui col solo nome di teatro, che il Bartoli dice fiorito verso il 1630, che il Belgrano trova il 1610 a Genova direttore di una accolta di nobili dilettanti, che il Martinelli cita in una sua lettera da Milano del 1620, e di cui il Bertolotti riferisce una lettera del 7 luglio 1621 da Napoli al Duca di Mantova, firmata « Aurelio fedele comico » (V. D'Ancona, op. cit.) ? A ogni modo però non potrebbe essere questo lo stesso che il Padre Ottonelli asserisce di aver veduto a Firenze il 1640, e chiama ripetutamente « Capocomico degli Uniti. »

Tizone. È ricordato da Molmenti (Venezia nella vita privata) insieme a Giampaolo, Trapolino, e Cimador fra' Comici che fiorirono a Venezia ai primi del secolo xvi : Cimador (V.) e Tizone sono menzionati dal Sanuto.

Todeschini Battista. Nato a Genova il 1771 fu pittore egregio paesaggista, e artista comico non ispregievole per le parti di caratterista. Ma il teatro non fu che un mezzo per vendere i suoi quadri che andava dipingendo dal vero in ogni piazza. Abbandonate poi le scene, si restituì in patria, ove morì nel 1831.

Tofano Nicola. Nato ad Airola (Regno di Napoli) il giugno del 1806 da parenti facoltosi, fu messo, giovinetto, nel celebre Istituto Truglio, dal quale dovette uscire anzi tempo per rovesci di fortuna. Si scritturò il '23, e per un quinquennio, con Salvatore Fabbrichesi ; e con l’esempio del gran Demarini doventò in breve attore de' più egregi sì pel dramma come per la tragedia. Dopo alcuni mesi di alienazione mentale, un suo fratello lo consigliò, a meglio distrarsi, di darsi alla pittura per la quale aveva mostrato da giovine chiara inclinazione ; ma l’amore per l’arte drammatica prevalse in lui, sì che, tornato alle scene, s’ebbe le più entusiastiche accoglienze, specie a Palermo ove mancava da venti anni. Morì il 27 dicembre del 1855.

{p. 585}Toffoloni Francesco. Figlio di parenti facoltosi, che vedevano in lui un futuro letterato, dovè interrompere gli studj, giunto a filosofia, còlto da una passione, per la quale fu costretto a fuggire, lasciando la sua in lite con la famiglia della…. fanciulla : lite che cessò coll’isborso da parte di quella, di alcun migliajo di scudi. Per siffatto motivo, fu costretto il Toffoloni a darsi all’arte comica, nella quale riuscì mediocremente. Sposò la cognata di Fabbrichesi, Gaetana Pontevichi, vedova Cavalletti, e madre della celebre Cavalletti-Tessari (V.) ; morta la quale, passò a seconde nozze con Giovanna Stefani, che diventò il fortunato sostegno della Compagnia del marito, omai capocomico di grido ora solo, ora in società con Caterina Venier e con altri.

Toffoloni Giovanna. Moglie del precedente, e figlia di comici, fu un’egregia prima attrice giovine, poi, divenuta sposa a Francesco, passò alle parti di prima donna assoluta, che sostenne con molto successo, più specialmente nelle commedie goldoniane, e in dialetto. Accoppiò alla vivacità e all’ingegno naturali una bellezza non comune. Lasciato col sopravvenir degli anni il ruolo di prima donna, passò con egual merito a quello di madre nobile. La vediamo il carnovale del 1820 al S. Salvatore di Venezia, rappresentare col Gallina, Gatteschi, Toto e Menichelli il repertorio di Francesco Avelloni intermezzato di drammi spettacolosi, quale l’Innegunda di Scandinavia, o Il gran combattimento all’ultimo sangue per generosità di cuore, di M. Zegler, ridotto da Filippo Casari, che s’ebbe l’onore di sei repliche non interrotte. La Toffoloni si trovava l’aprile del '23 al Giglio di Lucca, in società colla Venier, a fianco del primo attore Giacomo Bon Martini, acclamatissima. Fra le lodi prodigate al valor suo, ve n’ha una anche all’artista lirica, la quale si mostrava, accompagnata da piena orchestra, specialmente nella farsa La Commediante, in cui sosteneva sette diversi personaggi, e cantava sette pezzi scelti tra i più riputati maestri.

{p. 586}Tomasi Bartolommeo. Di civil famiglia, ferrarese. Addestratosi co' Filodrammatici della sua città natale nelle parti di Pantalone, riuscì comico egregio, e fu più anni sotto quella maschera, con Antonio Sacco, col quale anche si recò in Portogallo. Restituitosi in patria, risolse di abbandonare la scena, stabilendosi nella sua Ferrara, ove ottenne, dice Fr. Bartoli, « impieghi onorati, ne' quali anch'oggi – (1781) – vi esercita di continuo il suo talento e la sua penna. »

Tomasoli Antonio. Bolognese, artista egregio per le parti di Dottore che sostenne prima in Compagnia di Girolamo Medebach, poi a Napoli per alcuni anni, dopo di avere sposato la vedova di certo comico detto Bacciccia, che si chiamava Livia ; morta la quale, passò poi a seconde nozze con una giovane bolognese, non comica. Rubatogli di notte quanto s’era venuto accumulando co' suoi risparmi, risolse di tornarsene in Lombardia ; e si unì alla Compagnia di Nicola Menichelli, col quale si recò a Vienna. Tornato in Italia si scritturò con Pietro Rossi, poi con Antonio Sacco, con Pietro Rosa, con Maddalena Battaglia, a Venezia, con Luigi Perelli, e con Antonio Camerani, col quale era ancora il 1781. Recitava il Tomasoli anche senza la maschera parti di vario carattere, e fu, dice Fr. Bartoli, inventore di un ridicolo personaggio di nome Lattanzio Mescolotti, nel quale riuscì graziosamente.

Tommasino (V. Visentini Tommaso Antonio).

Tonti Antonio. Comico eccellente per le parti di Pulcinella, fiorito nella seconda metà del secolo xvii. Morì alla fine di giugno del 1694 a Roma. (Da un Diario inedito, menzionato da A. Ademollo, T. di R.).

Torchi Giovanni. Comico egregio per le parti di brillante, fece sulle scene una fuggevole apparizione. Nato a Bologna da civili parenti, compiè il corso degli studj e si laureò in legge : {p. 587}ma vinto dall’ amor pel teatro, nel quale aveva già fatto egregie prove co' filodrammatici, si scritturò il 1829 con la Società Vedova-Colomberti, riuscendo in breve sì per la svegliatezza di mente, sì per la correttezza dei modi e la spontaneità, un de' migliori attori comici del suo tempo. Ma dopo soli quattro o cinque anni, dovè per necessità di famiglia, abbandonare l’arte, e restituirsi a Bologna.

Torri Giulio Cesare. Attore per le parti di Zanni col nome di Zaccagnino, al servizio del Duca di Modena, a cui scrive la curiosa lettera seguente per ottenere la grazia di poter mutare il portinajo del teatro.

Serenissimo Principe,

Io ho inteso i comandi di Vostra Altezza Ser.ma circa della Compagnia la qualle deba star in cori io son a ubidire li suoi comandi si come ò fatto per lo pasato ma suplico ben Sua Altezza Ser.ma a darme licenza che piccone non stia alla porta poi che questo carneuaile ma sasinato e se bufetto non parla e flaminio perche afato camerata con loro, ma questo non lo dico per la camerata, ma perche son stato a robato et de laltri compagni sono del mio umore pero scrino la mia uolunta el dotore non parla perche a meso el pitore in compagnia bufeto non parla per la camerata e perche uole il bologna suo compare il Cap.° non dice niente per amor di Girolomo suo seruo non ce altro che me otanio et pantalone che se lamentano poi che non siamo ariuati mai alla prima sera et tante e tante sere ni è stato magior popolo et paga alterata Consideri Vostra Altezza el tutto oltre che so da bona mano che e un ladro et molti compagni dicono che Vostra Altezza Ser.ma gli meso della qual cosa non e uero poi che Vostra Altezza Ser.ma a sempe detto che del portinaro non uolete fastidio che seriamo rubati sara nostro dano adunque suplico di uiuo core Vostra Altezza Ser.ma a darne tal licenza poi che non lo fo per meterli un altro portinaro ma solo quello che la Compagnia comanda poi che uengo per seruire e non per comandare la suplico di subita risposta e con tal fine li bacio vmilmente la sacra Veste di roma el dì 16 genaro 1647.

Seruitor di core di Vostra Altezza Ser.ma
(Al Duca di Modena).
Giulio Cesare Tori
detto Zacagnino Comico

Era a Napoli il 1662 (V. Fuidoro, riferito dal Croce, op. cit., 784), con

Lavinia, similmente comediante, e si stimava che fusse e che non fusse sua moglie, et haveva acquistato con la scena e con gli amanti qualche commodità di considerazione ; questa, com’è solito dell’oziosa nobiltà napoletana, che oggi si è avanzata assai nel bordello, lussi, ignoranza e povertà, fu posta in conditione dalli donativi del Principe d’Avellino, dal Principe di Belmonte, ed altri nobili et ignobili, che con pochissima moneta la {p. 588}goderono. Venuto frescamente Don Vincenzo Spinelli, Principe di Tarsia a Napoli dal suo Stato, cominciò ancor lui a vagheggiar la Lavinia, che volle mascherarsi da Zaccagnino, non bastandolo quello che aveva speso in Calabria a buffoni, comedie, cacciatori, conviti, musica continua, cavalcatori, maestri di scrima, ecc.

A lui certo allude Luigi Riccoboni (op. cit., cap. VII), quando dice che Zaccagnino e Truffaldino chiusero la porta in Italia ai buoni Arlecchini.

Torri Antonia, amante o moglie del precedente (V. Isola Antonia e Angiola), fiorita nella seconda metà del secolo xvii, fu attrice pregiatissima per le parti di prima donna assoluta, che sostenne col nome di Lavinia nella Compagnia del Duca di Modena, di cui ecco l’elenco per l’anno 1688 :

DONNE


Antonia Torri detta Lavinia
Vittoria Rechiari prime donne a vicenda

Lucinda Nadasti, seconda donna

Gabriella Gardellini, Argentina, serva.

MOROSI


Gaetano Caccia, Leandro
Luca Rechiari primi morosi a vicenda

Antonio Torri, Lelio, secondo moroso

Giorgio Rechiari, terzo moroso.

MASCARE


Antonio Riccoboni detto Pantalone

Angelo Antonio Muzio, Dottore

? Guazzetto, primo Zanni
Marco Antonio Zanetti, Truffaldino, secondo Zanni.

Pel 1689 ci furon le seguenti variazioni :

Invece della Rechiari, Angiola Isola detta Leonora
Invece della Nadasti, Colomba Coppa detta Aurelia

MOROSI

Invece del Rechiari, Giuseppe Coppa detto Virginio
Giorgio Rechiari non è sostituito.

{p. 589}MASCHERE

Invece del Muzio, Francesco Materazzi detto Dottore
Invece di Guazzetto, Carlo Zagnoli detto Finocchio
Invece di Zanetti, Giovan Battista Trezzi detto Pasquino
Altro Dottore, Galeazzo Savorini.

Ma non possiam dire a quante altre variazioni potesse andar soggetta la Compagnia nel corso dello stesso anno. In questo elenco dell’ '89 non figura più lo Zanetti (V.), mentre sappiam dalla lettera scritta da lui insieme al dottore Savorini essere stato nella Compagnia almeno dalla primavera.

Torri Anna Maria. Forse figlia dei precedenti e sorella di Antonio Torri detto Lelio, fu attrice al servizio del Duca di Modena per la parte musicale, come si rileva da una sua curiosissima lettera al Duca stesso da Bologna, in data 2 giugno 1683 in cui si lagnava che certo signor Francesco Desiderij suo famigliare facesse da padrone assoluto con lei e la madre (il padre era già morto) senza aver riguardo alcuno alla lor povertà, vantandone autorità da Sua Altezza. Senza un permesso di lui, che talvolta si faceva molto aspettare, talvolta non veniva affatto, la Torri nè poteva ricever in casa Cavalieri o altre persone da cui farsi sentir cantare, nè recarsi ad accademie, o altre funzioni musicali, proprie, e solite di sua professione, alle quali era invitata dalle Dame protettrici, nè accettare scritture, come accadde per la recita di Reggio, della quale era restata priva.

La protezione del fratello del Marchese Palmieri, che più d’ogni altro cavaliere frequentava la sua casa, ajutando lei e la madre senza interesse alcuno, nelle necessità in cui le trovò involte, per la mancanza delli alimenti, inasprì a segno il Desiderij, da farlo sparlar della Torri con moltissimo danno alla sua riputazione. E per tutto ciò ella si raccomandava al Duca, acciocchè volesse degnarsi moderare a questo Signor Desiderij, quando pure già le fosse stata concessa, quell’ autorità così grande che pretendeva hauere sopra di lei….

{p. 590}Il settembre dello stesso anno, entrata in trattative di scrittura, chiede da Roma a Sua Altezza la licenza di accettare il contratto per il prossimo carnevale al S. Angelo di Venezia ; e il settembre dell’ '87 le è ordinato di andar a recitare a Crema in occasione della fiera.

Torri Giacomo, di Milano. Benchè non possedesse il dialetto bolognese recitò sufficientemente sotto la maschera di Dottore. Stette più anni nella Compagnia di Girolamo Medebach assieme alla moglie ; e, quando questa abbandonò le scene, passò in quella di Pietro Rossi, per poi tornare il 1770 col Medebach dopo soli sei mesi, alla morte del dottore della Compagnia, Sante Vitali. Fu poscia in varie compagnie vaganti di second’ordine e morì a Bergamo la primavera del 1778.

Torri Francesca. Moglie del precedente, nata Sora, fu attrice di gran merito sì nelle commedie improvvise, sì nelle scritte, sotto il nome di Clarice. Fu prima donna lodatissima al S. Gio. Grisostomo di Venezia con Onofrio Paganini il 1753, l’anno in cui Antonio Sacco abbandonò la Compagnia per recarsi in Portogallo. L'ultima sera del carnovale 1754, la Torri recitò un addio, di cui ecco alcune strofe allusive all’abbandono del Sacco e al suo mancato impegno :

Chi di sorte il cieco dono
amò più del suo decoro
loro infuse l’abbandono
per saziar sua fame d’oro,
e noi pochi, e senza lena,
travagliammo con gran pena.
Senza forze e senza attori,
o almen pochi ed ignoranti,
privi affatto degli autori
che i lor parti dieno e tanti,
come mai darvi piacere
nel difficile mestiere ?
{p. 591}Come mai…. Ma verrà un giorno
ch'io tornando a queste scene
avrò nuove genti intorno
di bel spirito ripiene,
che le cose altrui ben chiare
sapran meglio recitare….

Passò da quella del Paganini nella Compagnia di Girolamo Medebach, in cui stette più anni, facendo mostra del suo gran valore artistico nelle commedie dell’abate Chiari, e specialmente in quella intitolata La Madre tradita. Il 1770 abbandonò l’arte per seguire a Vienna una figlia, ballerina egregia, di nome Antonia (forse il nome della bisavola, o semplicemente il nome della celebrità ?) colla quale tornò poi in Italia, ov'era ancora del 1781. Il 1778 le morì il marito ; e dice Fr. Bartoli, che quando al valor suo avesse unito un personale più vantaggioso, poteva ancora proseguire alcuni anni nella comica carriera.

Tortoriti Giuseppe. Attore de' più pregiati alla Comedia italiana di Parigi, nella quale apparve la prima volta il marzo del 1685 col ruolo di Capitano ch'ei recitava in italiano e in francese, nacque a Messina e fu noto prima col nome di Pascariello, poi con quello di Scaramuccia, che aveva già prima di recarsi in Francia, quand’era al servizio del Duca di Modena (1680-82).

Dalle memorie di Dangeau sappiamo ch' egli fu ammiratissimo anche al Teatro di Corte di Versailles ove recitò il 15 e il 21 marzo 1685 con la maschera di Pascariello Tuono.

Il Mercurio di Francia dice ch'egli era di una sorprendente agilità, e secondava a meraviglia l’incomparabile Arlecchino Biancolelli (Dominique). Il maggio del 1694 abbandonò il ruolo di Capitano per quello di Scaramuccia, e il 1697, dopo la soppressione della Comedia italiana, formò una Compagnia colla quale fu autorizzato a recitare in Francia purchè a trenta leghe dalla Capitale. Vuolsi che il tentativo fallisse, e il povero Tortoriti morisse povero qualche anno dopo.

{p. 592}Di quando fu comico al servizio del Duca di Modena abbiamo un larghissimo passaporto in data 3 novembre 1681 ; e il Campardon riferisce una querela di lui del 7 dicembre 1691, contro certa Maria Lemaine che aveva tentato involargli i pegni di un credito per la perdita di un pajo di maniche di merletto. In detta querela il Tortoriti ha il titolo di Ufficiale del Re.

Anche Cola, Cassandro Aretusi, che non son maschere propriamente dette ma solo tipi, Pasquariello e Coviello mette il Perrucci tra' vecchi. Ma Pasquariello (non so bene da chi inventato ; probabilmente da Salvator Rosa, e incarnato poi da Giuseppe Tortoriti) non è nè padre, nè vecchio, nè parte nobile di alcuna specie ; ma sempre servo : e caratteristica sua è più che la parola la mimica, apparendo prima ballerino da corda, come lo ritrasse il Callot insieme a Meo Squacquera, poi un de' più agili saltatori della Compagnia italiana di Parigi nella seconda metà del secolo xvii.

Nel teatro del Gherardi si delinea chiarissimo il tipo, che può dirsi fratello minore di Scaramuccia : e immagino a quali acrobatiche buffonate si dovea lasciar andare il Tortoriti, se il Mercurio Galante del marzo 1685 gli dedicò parole di tanta lode ; e più ancora, se ci facciamo a considerar lo scenario della Precauzione inutile, in cui avuto l’ordine, egli e Pierrot, di non far entrar messaggi d’amore, e vista una farfalla svolazzar davanti all’uscio dell’appartamento d’Isabella, immaginando che essa potesse essere una messaggera d’amore, le davan la caccia, abbandonandosi a ogni specie di salti e capriole pazze, or cadendo lunghi distesi a terra, or montandosi l’un l’altro sulle spalle.

Assomiglia allo Scaramuccia anche un po'il costume datoci dal Sand, di cui giacca e calzoni corti son neri, senza guarnizione di sorta ; la baverina è di tela bianca pieghettata, e il viso infarinato : ha calze rosse e piccola berretta tonda e nera sul capo raso. Ma è da credersi che gran parte de'costumi del Sand, e {p. 593}specialmente de'colori di essi, sieno immaginari, non essendo determinati da alcun documento. Il Pasquariello del Bertelli (1594) avrebbe un semplice abito di Zanni con maschera dal naso grande e aguzzo, simile a quella di Pulcinella ; e un altro ne abbiamo nella riproduzione di antica incisione in legno (pag. 592), che adorna il frontespizio di una delle solite canzonette di Zanni.

{p. 594}De' moderni scrittori Michele Carrè fece rappresentare nel 1847 al Teatro Francese una commedia in un atto in versi, intitolata : Scaramouche et Pascariel, che ebbe ottimo successo. La parte di Pascariel, protagonista, fu sostenuta dal celebre Samson.

Tortoriti-Toscano Angelica. Moglie del precedente, e discendente forse dal capocomico Toscano (V.), esordì alla Commedia Italiana di Parigi, poco tempo appresso l’esordir {p. 595}di suo marito, in qualità di seconda serva col nome di Marinetta. Ella era alta, magra, bellissima ; e attrice mediocre. Ebbe dal suo matrimonio due maschi e due femmine, le quali si sposaron, la prima, per nome Angelica Caterina, nata a Parigi il 26 giugno 1692, a Pietro Paghetti, Dottore (V.), e la seconda per nome Maria Angelica, nata a Parigi il 18 agosto 1696, a Pier Francesco Biancolelli (V.), figlio del celebre Dominique, di cui serbava il nome.

Toscani Giovan Battista. Apparteneva alla Compagnia dell’Elettore di Sassonia che cambiò continuamente dimora fino alla sua durata tra Dresda e Varsavia. Lo vediamo recitare il 1752 la doppia parte di Abenide, giovine selvaggio indiano, e di Un silfo nel Zoroastro di Rameau, tradotto da Giacomo Casanova, e messo in scena da Pietro Algeri (V. Arbes (D') Cesare).

Nel mutamento frequente di comici, egli restò sempre con sua moglie Isabella, come base della Compagnia italiana assieme alla coppia Vulcani, a Foscari, alla Casanova e a Moretti, a cui si aggiunse per parti giovanili, Luisa Toscani, figliuola forse di Gio. Battista e Isabella.

Il Barone Ö Byrn nel suo pregevole studio più volte citato, riferisce la cronaca del tempo, che dice del Toscani : « È giovine di bella figura, di carnagione scura e d’occhi e capelli neri. Parla e si muove nobilmente ; e recita le parti di amoroso con molta naturalezza e molta correttezza. »

Toscani Isabella. Moglie del precedente, recitò nella Compagnia di Dresda a fianco del marito, e sostenne nel Zoroastro di Rameau la parte di Cenide, giovine selvaggia indiana ; ma il suo ruolo ordinario era quello di Colombina, pel quale non parve secondo il cronista del tempo, molto tagliata.

« La Toscani – egli dice – sa chiacchierare ; ma ciò non basta : bisogna nascere Colombina. È alta e forte, e però non così flessibile e agile, come il tipo richiederebbe. È giovine ed {p. 596}ha volto piacevole sopr'a tutto sul teatro. Forse ella piacerebbe assai più come amorosa. Colombina non è per lei ; starebbe meglio, io penso, alla Vulcani (V.). La vecchia Colombina nata, è morta (probabilmente allude a Rosa Grassi (V.)) ; e cagione della sua morte fu appunto il saper sempre entrare profondamente in ogni parte ella rappresentasse. La Toscani non è Colombina. »

Toscano….. È così menzionato sulla fede di Gio. Marciano da Giambatista Castiglione al carnovale del 1579 (Sentimenti di S. Carlo Borromeo intorno agli spettacoli. Bergamo, Lancellotti, m. dcc lix) :

Dimorava in quel tempo in Fossano una Compagnia di Comici assai faceti, capo de'quali era uno chiamato Toscano, che si tirava dietro un gran numero di sfaccendati, pure sonando un giorno, giusta l’ordine di Giovenale (Santo Prelato Giovenale Areina), la campanella, che dava il segno, che si principiavano gli esercizi dell’oratorio, restò solo co' suoi compagni abbandonandolo tutta l’udienza, con sua gran confusione e scorno, per andare ad udir Giovenale, che ragionava ; ciò che essendogli poi più d’una fiata succeduto, stimò meglio il ciarlone di mutar paese, e nel partirsi ebbe a dire : « In Fossano non vi è guadagno per esservi un altro Saltinpergamo. »

Toschi Francesco. L'Archivio di Stato di Modena ha di lui questa lettera senza data, ma della seconda metà del secolo xvii, che riferisco intera, e dalla quale mi sembra egli apparisca assai più impresario che attore.

Se le Signorie loro Ill.me uolessero acquistar nella forma qui sotto, per non pigliarsi tanto fastidio, farò nuoua Compagnia, e farò in questo modo :

Prima entrarò à nuova Compagnia, e fatti li Conti del mio debito sodisfarò con quella porccione, che mi tocarà de Guadagni, e li anni che non si faranno Comedie li pagarò il cinque per cento :

Che le spese si farrano nel teatro per benificio de Comici siano comune come anche del Teatro :

E perche li ho dato ogn’anno cento scudi di fitto del Teatro, m’obbligo in questo caso, di far quello comandarano le Signorie loro Ill.me auertendo m’intendo di non darli cosa alcuna, se non quando si farrano Comedie e che per sua sicureza della sodisfaccione, tutto il danaro, che si esigierà uada nelle sue mani :

La Compagnia, che faremo sij durante la mia uita, o uinti anni che in questo mi rimetto nella benignita delle Signorie loro Ill.me facendo tutto questo per conseruar l’amicicia, e che le cose del Teatro Pasino melio del Pasato.

Io Francesco Toschj prometto.

{p. 597}Una lettera all’Andreini pur dell’Archivio di Modena del 2 giugno 1670, comincia così :

Non ho risposto prima a V. S. perch'era necessario, ch'io parlassi prima al signor Toschi. Egli mi ha detto di havere scritto a lei ciò che le occorre, ed ella potrà intendersene seco, perch'esso è quel che ha in mano tutto questo negotio.

Anche di un Torquato Toschi l’Archivio di Stato conserva una lettera, nella quale egli appare direttor di attori accademici, e chiede la protezione di qualche Principe, « acciò possano questi giovini operare con maggior vigore, et esimersi da ciò che potesse di sinistro apportarle qualche emolo invidioso come altre volte ben notto è all’altezza Vostra Ser.ma essere auvenuto. » E si firma « Torquato Toschi et i Giovini dell’Accademia. »

Toselli Giovanni. Nato a Cuneo il 6 gennajo del 1819 da Giacomo e da Anna Clara Pignetta, fu avviato dal padre agli studi forensi, ed esercitò giovanissimo la professione di sostituto procuratore ; ma, artista per manìa, come scrive Milone, si recò a Milano sperando di trovar colà una scrittura di tenore, che non ebbe mai. Non volendo tornare in patria si aggregò a una compagnia di niun conto, e da questa passò in altre della stessa specie, recitando ogni parte dall’amoroso al brillante, e terminando poi con quelle di generico. Scritturato da Napoleone Colombino prima (1854) al Teatro Cittadella, e da Napoleone {p. 598}Tassoni poi, capocomico di buon nome al Circo Sales, potè realizzare un vecchio sogno di recitare in dialetto piemontese, e si diede a mostrarsi sotto le spoglie del Gianduja, specialmente negl’inviti ch'egli faceva ogni sera in fin di spettacolo alla rappresentazione dell’indomani. Conosciuto dal Modena, e divenuto suo segretario, accettò il suo consiglio di continuar nell’impresa del recitare in dialetto ; e tanto allora ebbe a palesarsi attore sincero, che il Modena stesso ne stupì. Io credo che niuno abbia capito e rivelato ai posteri l’arte somma di Giovanni Toselli, meglio di quanto facesse il compianto Luigi Pietracqua, del quale mi piace riferir qui tradotte le belle parole :

I posteri riconoscenti, artisti e ammiratori, gli dedicaron monumenti marmorei così a Cuneo sua terra natale, come al Teatro Rossini di Torino, dove si ammira un suo busto assai rassomigliante ; ma il più bel monumento se lo eresse da sè, creando un teatro popolare, che prima non esisteva ; inventando, per dir così, un nuovo genere d’arte così viva e possente, che per bestemmiar che facciano certi ipercritici della moderna tubercolosi artistica (leggi : teorica nova) non morrà più mai nè nella memoria nè nel cuore del nostro popolo che pensa colla sua testa e giudica col suo buon senso, infinitamente superiore a tutte le fisime più o meno isteriche di certi scrittorelli, più o men camuffati da Aristarchi Scannabue.

Giovanni Toselli, colla sua invenzion fortunata della commedia in dialetto giandujesco, può dirsi abbia rinnovata per noi la classica tradizione greca dell’antichissimo Carro di Tespi ; perchè, quando cominciò a far le sue prime prove, la modestissima compagnia, di cui s’era messo in testa, compagnia composta di elementi affatto primitivi, formava nella sua piccola compagine un quadretto così caratteristico e pittoresco da far proprio ricordare il genial Carro di Tespi, che sentimmo descriver nelle scuole, e che Teofilo Gauthier ha così ben modernamente illustrato nel suo immortale Capitan Fracassa.

………………………..

L'artista per me è stato a un tempo rivelazione e ispirazione : egli è stato causa di studi profondissimi sul teatro vecchio e moderno, e nobilissimo incitamento a coltivar quell’arte, che mi diè tanti piaceri e trionfi, e pur tanti dolori nella mia povera vita artistica e avventurosa.

Ma non di me io voglio parlare – per carità ! Giovanni Toselli aveva un ideale,… e questo ideale aveva un nome semplice, ma profondamente significativo ; si chiamava : naturalezza ! che vengon mai a dirmi i veristi moderni ? Chi ha mai saputa concepire, chi l’ha mai neanche sognata, l’aurea, serena, magistrale naturalezza del nostro povero Toselli ? Chi può ricordar senza rimpianto le sue incomparabili creazioni del Pover paroco, del Tonio in Gigin a bala nen, del Medeo in Sablin a bala, del Travet, del Ciochè del vilage, del Papà grand, e di tante altre sue glorie imperiture ? Nemico di ogni convenzionalismo anche sul palcoscenico, egli ha saputo trasformare il trovarobe, i macchinisti, gli scenografi, portandoli tutti al suo grande concetto costitutivo della grande arte : verità, sempre verità in tutto e per tutto. Quindi giustizia vuole che Toselli sia considerato nel {p. 599}campo dell’arte nostra come un vero innovatore e rigeneratore del Teatro moderno. Ed è per questo che il suo nome glorioso non sarà più obliato dai veri cultori dell’arte drammatica.

A lui dovetter la lor gloria artistica Bersezio, Pietracqua, Garelli : da lui furon guidati i primi passi di due artiste possenti : la Tessero e la Pezzana.

Nel 1864 egli fece erigere in Cuneo un teatro a proprie spese, e i trionfi durarono splendidi sino al '69. Poi per un cumulo di circostanze disgraziate, la speculazione volse a male tanto che il Toselli dovè perder la proprietà del teatro ; e privo di mezzi, cessar di recitare in dialetto, diventando il direttore della Compagnia italiana Zampolla. Formò poscia a Torino il Teatro di famiglia con animo di rappresentar le vecchie commedie morali del Teatro dialettale ai Teatri d’Angennes e Scribe ; ma l’ '80 ritornò nella Compagnia piemontese diretta da' suoi due allievi Gemelli e Milone, e dopo il carnovale dell’ '82 abbandonò il teatro seguendo le sue figliuole Clara e Carlotta, attrici della Compagnia Pedretti (aveva preso in moglie da giovine una Anna Dogliotti), e vivendo di una piccola pensione che gli accordava il Consiglio dell’ordine dei Cavalieri dei SS. Maurizio e Lazzaro, di cui egli, primo tra gli artisti comici d’Italia, era insignito.

Morì a Genova il 12 di gennajo del 1886, e il 9 di aprile dello stesso anno, la sua salma, reclamata dall’autorità municipale di Cuneo, fu trasportata con gran pompa in quel cimitero, dove si ammira il busto che abbiamo detto, opera dello scultore Alessandro Cafetti, sulla cui base è la seguente epigrafe dettata da Desiderato Chiaves :

a | GIOVANNI TOSELLI | che su queste scene | il teatro piemontese | instaurò | perchè ricreando educasse | testimonianza | di memore affetto | i torinesi posero | il xii cennaço m dccc lxxxvii.

Tovagliari Pier Camillo. Nato a Parma il 14 gennajo del 1847 da Luigi Tovagliari e Carolina Panighi, se ne {p. 600}allontanò, dopo la morte del padre, in cerca di fortuna. Capitato a Livorno nel 1872, si presentò al capocomico Papadopoli per essere scritturato, senza saper che si fosse arte drammatica. Fatta discreta prova, entrò in Compagnia con quattro lire al giorno, e vi stette, generico, due anni, un de' quali passò al Quirino di Roma, recitando, cantando, ballando. Passò poi (il '76) con Ciotti, poi di nuovo (il '78) con Romagnoli. Cominciò l’ '80 con Drago a recitare il Caratterista, e in quel ruolo assoluto, fu l’ '84 con Calamai, l’ '85 con Vitaliani, l’ '86 con la Pezzana, poi tre anni con Novelli, e due con Brunorini. Nel '94 entrò a far parte della Compagnia comica Talli-Sichel-Tovagliari, che durò due anni, poi passò colla Mariani, con Paladini, con Talli, colla Marchi, e finalmente socio con Claudio Leigheb. È questo, senza dubbio, il più gran momento della sua vita artistica : momento fuggevole, pur troppo, chè, ammalatosi il Leigheb, la Compagnia si sciolse, e Tovagliari formò società con Enrico Reinach e con poca fortuna.

Pier Camillo Tovagliari non era privo di egregie doti artistiche ; prime e non comuni quelle della spontaneità e della verità ; ma coll’andar del tempo un cotal trasandamento lo fece attore scolorito e monotono.

Trappolino. Fra' comici più antichi veneziani il Molmenti (Venezia nella vita privata) ricorda ancora un Giampaolo (Zan Polo) un Trapolino, ecc. ; ma secondo il Quadrio sarebber essi una stessa persona. Egli dice :

Giovan Paolo Trapolino fu le delizie de' suoi giorni in teatro, e fu anche poeta. Ma poi lasciata la comica arte, e distribuito a' poveri tutto il suo avere, ritirossi a {p. 601}Mestre, luogo da Venezia non più distante, che sette miglia : dove in un romitaggio, macerandosi continuamente con asprissime penitenze, passò molti anni ; finchè divotissimo e vecchissimo chiuse con morte felice i suoi giorni circa il 1630.

Egli era – scrive Barbieri nella Supplica – a Palermo, trent’anni dopo il decreto di S. Carlo che determinava la revisione degli scenarj ; ossia nel 1613, e morì pochi mesi avanti la pubblicazione dell’opera di esso Barbieri, ossia nel 1634. Un secondo Trapolino assai noto ebbe il Teatro italiano in Giovan Battista Fiorillo (V.).

Tremori Paolo.Pantalone di buon nome, nato in Udine di famiglia veneziana, fu prima nella Compagnia de' Lombardi, poi (1776) in quella di Pietro Rossi, assieme a Vincenza sua moglie. Passò poi con Antonio Camerani, poi con Luigi Perelli, ove trovavasi ancora il 1781, scritturato per l’ '82 con Francesco Paganini. Recitava anche bene parti senza la maschera, e avrebbe meritata – disse Fr. Bartoli – migliore fortuna di quella ch'egli ebbe.

Tremori Vincenza. Moglie del precedente, figlia di Gabriello ed Angela Costantini, fu prima attrice di qualche pregio ; ma per la figura piuttosto piccola, benchè gentile, la persuasero a passare al ruolo di serva, nel quale riuscì egregia per lo spirito e la spontaneità. Fra le tante poesie che le furon dedicate, il Bartoli trasceglie il seguente sonetto, parto felice (dice lui) d’un dottissimo Cavaliere Urbinate :

Recitando con applauso universale nel Teatro de' Nobili Sig. Pascolini d’Urbino il Carnevale dell’anno 1778, la virtuosa Donna Signora Vincenza Tremori ; si offre all’impareggiabil merito della medesima il presente Sonetto, allusivo alla descrizione del nodo Gordiano vivamente da lei espressa per due volte nella rappresentazione del Diogene, sostenendovi la parte della Poetessa Corina.

Al Balenar vid’io di ferro audace
Retto dal braccio d’Alessandro istesso
L'aggruppato Gordian nodo tenace
Due volte sull’altar sciolto, e dimesso.
{p. 602}Il moto, il gesto, e l’espression vivace
Fer sì di Donna (cui dal Ciel concesso
Fu gli estinti avvivar qual più le piace)
Ch'io mirassi Alessandro in essa espresso.
Quindi l’udj gridar, chi sei, che intorno
Si ben ravvivi, e mia virtù propaghi,
Attrice esperta, e la rimetti al giorno ?
E l’ombra intanto io vidi i stigj laghi
Varcar più lieta, e girne al bel soggiorno
Quasi sull’opre sue tutta s’appaghi.

Tremori Eustachio. Figlio forse dei precedenti, insuperabile nella parte dello Sguizzero mbriaco dint’ a lo vascio de la siè stella, fu generico primario e caratterista valorosissimo. Il suo nome è tra quelli più ricordati de' comici del San Carlino, i quali ancora vivono (V. Di Giacomo, op. cit.). Vi apparve il 1816 e vel troviamo ancora all’ultima rappresentazione della Compagnia nazionale l’ 8 aprile 1849, assieme alla moglie, o figliuola, Vincenza, attrice egregia che vediamo ancora nella Compagnia di Giuseppe Maria Luzi succeduto al padre Silvio Maria, che era morto intorno al '60.

Trenta Lucilla. Attrice magnifica di bellezza, fiorì la prima metà del secolo xvii col nome di Rosalba, e abbiamo su di lei il seguente aneddoto, che riferisco intero dal Paglicci (Il Teatro a Milano nel secolo xvii) :

Nella primavera del 1636, un certo Niccolò Ala, sergente maggiore della milizia di Cremona, e che era perciò incaricato di custodire l’ordine morale e difendere la città da ogni inconveniente, fu preso in siffatto modo dall’ amore di lei, che in un eccesso di gelosia le sparò contro una terzetta da ruota.

Era Lucilla, conosciuta anche sotto il nome di Rosalba, restata lungi dal marito, che seguiva la sua compagnia ; e sotto pretesto di penitenza erasi ritirata in una casa presso le Maddalene, ove però di nascosto riceveva visite, doni e cibi dal bel sergente, che la stimolava a lasciar per lui il buon comico marito. Appena infatti fu questi lungi dalla città, Lucilla, partitasi dalle Maddalene, si uni a far vita comune col Niccolò, ma non mantenendosi del tutto fedele neppure a costui, provocò la scena di gelosia della quale abbiam fatto parola, e che fini con un colpo d’arme da fuoco, senza però grave suo danno.

E qui incomincia lo strano, anzi il vero caratteristico segno del tempo.

Il Podestà di Cremona, fattone regolare processo, lo condannò, ma quando volle applicare la pena dovuta, la scena si cangiò ad un tratto.

{p. 603}Il sergente in forza della propria patente militare e perchè così richiedeva il benefisio e il servisio di Sua Maestà, si credette autorizzato a portar le terzette e richiese in grazia al Governatore che il Podestà di Cremona desistesse durando il servizio di dare alcuna molestia al supplicante il quale con ogni accurata diligenza invigila alla cura e difesa della città. Che razza di vigilanza e di cura avesse delle cittadine questo strano funzionario, lo abbiamo visto ; ma quello che ci ha fatto vera sorpresa, si è che il Governatore gli dette ragione, e ne scrisse al Podestà in questi termini :

« Stando l’occupazione personale del supplicante, il Podestà di Cremona li proceda nella causa fra tre mesi.

« Platonus. »

Nè essendo bastata questa dilazione a Niccolò Ala, il termine ne fu ancora prorogato per altri due mesi. Se qui finissero le proroghe non saprei, so però che dell’affare non si parlò più ; e forse tutto finì colla vittoria finale del bravo sergente, difensore della città di Cremona.

Il Paglicci propenderebbe a credere che la Lucilla costante di Silvio Fiorillo, rappresentata a Milano il 1632 dai Comici Accesi, fosse scritta per la Trenta, e da lei rappresentata.

Trenti Marietta. Prima attrice tragica. Non ho trovate notizie di lei, tranne in questo ritratto, che ce la presenta in Giulietta e Romeo, tragedia di Della Valle. Sotto ad esso è {p. 604}inciso : « Al merito della valorosa attrice Marietta Trenti – R. C. offeriva » e subito dopo un verso e mezzo :

Deh tolga il Ciel, che questa rosa insieme
Pur l’Imeneo finisca….
(Atto 1° – Scena 1°).

Poi, a sinistra : litografia Rosi 1836…. Dove ? Ella era moglie, probabilmente, di quel Giovanni Trenti, che abbiamo visto primo attore il '38 in Compagnia Zocchi a vicenda con Giovanni Tessero (V.).

Trezzi Giovan Battista. Recitava le parti di secondo Zanni, sotto il nome di Pasquino, e apparteneva il 1689 alla Compagnia del Duca di Modena, della quale vedi l’elenco al nome di Torri Antonia.

Trivelli Giuseppe. Torinese, nato di agiata famiglia, fu talmente acceso del teatro, che ad esso diè tutta la sua vita, recitando prima, poi diventando subito un capocomico de' più pregiati. Morì in un ospedale di alienati a Torino il 1865. Ernesto Rossi che lo ebbe socio il 1863, l’anno in cui si cominciò a manifestare l’indebolimento cerebrale, lasciò scritto di lui : « Il Trivelli nacque da una agiata famiglia torinese : era uomo abbastanza istruito : rappresentò le parti di brillante, e se non lo si potè dire un bell’originale di artista, fu una buona copia di Bellotti-Bon. Sacrificò quasi tutto il suo patrimonio in speculazioni drammatiche, facendo sempre il capocomico. La sua fine giustificò la causa del cattivo esito delle sue speculazioni. Aveva sposato la signora Pompili – che restò poi quattr' anni con Ernesto Rossi prima attrice di qualche pregio – figlia del secondo marito della signora Botteghini sunnominata. Fu marito esemplare, amoroso in famiglia, onesto con tutti : – Sentii vivo dolore per il suo abbandono e più tardi per la sua morte. »

Trojano Massimo (V. Giovan Maria).

{p. 605}Turri Giovan Battista. Di lui dicono i fratelli Parfait : « Turi di Modena, eccellente attore per le parti di Pantalone, recitò sotto le spoglie di tal personaggio sino alla sua morte, avvenuta il 1670, come s’ha ragion di credere dall’annunzio che Robinet fa dell’arrivo di un nuovo Pantalone, il marzo dello stesso anno. » Andò a Parigi colla nuova Compagnia che vi esordì il 10 agosto del 1653 ; ma erronea è la data della sua morte.

L'annunzio di Robinet si riferisce certo al ritorno del Turri in Italia, come si ha dalla seguente lettera di Venezia, che toglie ogni dubbio in proposito :

Ill.mo mio S.re et Pad.ne Col.me,

Gia venti giorni in circa scrissi una lettera a V. S. Ill.ma nel proposito di un accademico desideroso di uscir fuori in alcuna compagnia da secondo Zane, et io l’esortai di mettersi sotto la protetione di S. A. S.ma, come così si obliga servire, mentre però quest’anno habbi compagnia, e perchè da questo vengo stimolato ogni giorno di risposta, per ciò mi conviene essere importuno a V. S. Ill.ma, pregandola significarmi la sua volontà, acciò possi risolverlo, dicendomi questo haver altre occasioni. Non manco ancora di pregar V. S. Ill.ma di benigna protetione per mio figliolo Virginio, che desidera abbandonare il posto di terzo moroso, et esercitare quello del secondo, e tanto più quanto che dovendovi essere (come si dice un capitano spagnolo) non sa come possino accordarsi le cose. Ha anche significato questo nostro sentimento al S.r Valerio (Francesco Allori (V.)), quale ha mostrato non curarsi di questa giusta dimanda, per causa della quale non vorrei che al tempo di partire ci fossero contrasti, come ne furono a Padova l’anno scorso, che non voleva la compagnia darli tre quarti e doverà l’anno a venire guadagnare la parte che la merita quanto ogni principiante della sua conditione, supp.co la sua gentilezza di risposta mentre mi sottoscrivo

Di V. S. Ill. Hum.mo e devot.mo ser.re
Gio. Batt.ª Turri, comico
detto Pantalone.

In un brano di notiziario del 1652, ove son le nuove di Castelnovo (Garfagnana) è così menzionato un don Domenico Turi, parente forse di Gio. Battista, ma certo recitante accademico :

« Sono andati poi il Sig.r Cap.° Ranpalla, il Sig.r Dotor Sigismondo, il Barozzi et il Sig.r Giuseppe Cantelli e don Domenico Turi à Mod.ª chiamati da S. A. per recitare comedie…. »

{p. 606}Turri Virginio. Figlio del precedente. Era anch'egli a Parigi nella Compagnia del 1653, in qualità di secondo amoroso, sotto il nome di Virginio ; e, morto il padre, tornò a Modena, ove si fece Carmelitano scalzo. Ma poco avanti la consacrazione dell’abito, a soli quarant’anni, fu spento da fiero male, e sepolto in quel Convento vestito da frate.

[n.p.]
[n.p.]

I comici italiani §

Udina Vincenzo. Nato a Roma il 1° aprile del 1851 da Tommaso Udina di Cilly nella Stiria e da Marianna Lucidi, si diede, rimasto orfano del padre, all’arte drammatica, entrando nella Compagnia romana di Amilcare Bellotti a fianco della Pedretti, di Calloud, Diligenti, Piccinini ; e il suo esordire fu coronato da tal successo, che al terzo anno, ammalatosi il primo attore a Milano, egli lo sostituì, interpetrando degnamente Goldoni, Parini e altre parti di non minore importanza. Sposò il '69 Ada Lucidi, figlia di un suo zio materno, e il '71 andò in America scritturato da Tommaso Salvini. Passò poi nelle Compagnie Dondini, Romagnoli, Sorelle Vestri, Cuniberti, Coltellini, fino all’anno '78, in cui diventò il primo attore assoluto di Adelaide Ristori, colla quale fu in Ispagna e in Portogallo. Passò il '79 a' Fiorentini di Napoli con la Pezzana, la {p. 610}Duse, Emanuel, per tornar poi l’ '80 con Adelaide Ristori, che si recava in Danimarca, nella Svezia e Norvegia. Sostituì l’ '81 Gaspare Lavaggi, ammalato, e ne condusse l’anno dopo la Compagnia in suo nome. Fu di nuovo e per un triennio con Salvini, poi di nuovo capocomico con varia fortuna ; poi, venuta in nome di attrice assai promettente sua figlia Giannina, si adattò a' ruoli secondari pur di non separarsi da lei ; e dopo alcune buone scritture, tornò a condur Compagnia, lei prima attrice assoluta, ora solo, ed ora in società. Ma, sposatasi la figlia, tornò a scritturarsi, ed oggi (1904) si trova con Mauri nella Compagnia permanente del Manzoni di Roma.

Udina Giannina. Figlia del precedente, nata a Bassano veneto il 1875, fu prima educata nel Collegio di Oneglia, poi, giovinetta ancora, ne uscì per seguire il padre nelle sue peregrinazioni artistiche. Mostrate subito chiare attitudini alla {p. 611}scena colle parti di adolescente nel Povero Piero e nella Morte Civile, potè a quindici anni affrontare il gran pubblico quale amorosa della Compagnia di Teresa Mariani. Fu il '93 prima attrice giovine con Andrea Maggi, poi con Leigheb-Andò ; passò quindi, prima attrice, con Ermete Zacconi, e con Cesare Rossi, dal quale ultimo si allontanò per diventar la prima attrice assoluta della Compagnia formata da suo padre in società prima con Achille Vitti (1899), poscia con altri sotto la direzione del Garavaglia (1901).

A mezz'anno ella si ritirò dall’arte, per andare sposa al marchese Giulio Ricci-Riccardi, morto or son tre mesi (1904) a soli venticinque anni ; e v' è da credere, che spirato il termine del lutto, ella si riaccinga a calcar le seduttrici tavole del palcoscenico.

La sua figurina slanciata, il volto piacevole, la giovinezza fiorente, la disinvoltura acquistata col lungo esercizio, la fecero guardar benevolmente dal pubblico, il quale nella gentile prima attrice giovine vide, o gli parve, una futura pregevole prima donna.

Ughi Elisabetta, veneziana. Cominciò a recitare nella Compagnia di Pietro Ferrari, e tanto vi progredì che poco tempo dopo fu una egregia prima donna. Il Bartoli, al cui tempo (1781) ella fioriva, dice che « un nobile aspetto, un volto ornato di grazie, ed una rara biondissima chioma erano i pregevoli naturali suoi doni. Uno spirito lodevole, un’espressiva aggiustata, ed una sufficientissima intelligenza formavano i suoi meriti nell’arte del recitare. »

{p. 612}Applaudita dovunque, fu più volte lodata con poesie, tra cui il Bartoli riferisce il seguente sonetto :

Al merito impareggiabile della signora Elisabetta Ughi, prima donna, che nel Teatro delle Vigne si distingue nelle commedie e tragedie mirabilmente il carnovale 1781.

Vaga donna io vedea stretta in catene
i bei lumi girar pietosi e lenti,
e di tragico pianto e di lamenti
udìa d’intorno risonar le scene.
Poi sue luci tornar chiare e serene,
ed al comico riso e ai dolci accenti
tutte starsi vedea le accolte genti
di maraviglia e di piacer ripiene.
Con la Madre d’Amor dal Ciel discese
applaudendo le grazie in lieto tuono,
stavano l’aure ad ascoltarle intese.
Davale Apollo il sacro lauro in dono,
e le nostr'alme…. ah ! le nostr'alme accese
seguìano a vol de'nostri plausi il suono.

Ugolini Alberto. Dopo di aver recitato tra' filodrammatici di Bologna, sua patria, si scritturò con Gabriele Costantini ; poi con Girolamo Medebach a Venezia per le parti di Dottore. Ma la sua inclinazione e le sue attitudini erano più per quelle dell’Innamorato, in cui riuscì per ogni rispetto egregio. Fu con Pietro Rossi, con Onofrio Paganini, con Vincenzo Bazzigotti ; tornò a Venezia il 1775 con Giuseppe Lapy, e molto vi piacque, specie rappresentando la parte di Tenero nella tragedia di Voltaire : Le leggi di Minosse. Tornò il '76 col Rossi, e restò il '77 col di lui genero Perelli ; passò il '79 con Francesco Paganini, e fu di nuovo l’ '81 con Girolamo Medebach, per le parti di padre. A questo punto cessano le notizie del Bartoli, il quale aggiunge che Alberto Ugolini « ne' suoi primi anni di comico esercizio fu un brillante Innamorato, e si distinse sostenendo tutte le parti {p. 613}principali nelle migliori commedie del Dottor Goldoni, recitando con grido Il Medico olandese, Il Filosofo inglese, Il Cavaliere di spirito, Torquato Tasso, ed altre rappresentazioni. Avanzandosi in età, e lasciando addietro la più fresca gioventù, si mostrò nelle parti sostenute delle tragedie un attore applauditissimo ; e Verona, Bologna, Parma ed altre città furono del di lui merito bramose spettatrici. »

Vacantiello Francesco. È citato da Trajano Boccalini nei suoi Ragguagli di Parnaso, là dove dice (I, 242) : « ed in particolare tanta dilettatione ha dato a Sua Maestà il signor Cola Francesco Vacantiello, personaggio napolitano, che ha detto che anche nell’ introdurre il napolitano nelle comedie per rappresentar la fina vacanteria, havevano gl’Italiani mostrato il loro altissimo ingegno…. »

Concordando le date, io credo potersi identificare in questo il Cola che fu mandato dal Duca di Mantova a Parigi il 1608 in sostituzione dell’arlecchino Martinelli, omai troppo vecchio. Cola (Nicola) sarebbe stato dunque anche allora nome di persona e maschera ? Vacantiello, diminutivo di vacante, vuoto, era forse il precursore del nostro mamo, sciocco ?

Valenti Gaspare, fiorentino. Cominciò a recitare il caratterista, in cui riuscì egregiamente, cogli accademici della città, poi collo stesso ruolo in Compagnia di Nicodemo Manni, festeggiatissimo da ogni pubblico d’Italia. Passò da quella del Manni in altre compagnie vaganti, colle quali ebbe campo di farsi ammirare anche a Napoli, sapendo unire a sufficienza l’arte del canto a quella della commedia. Trovavasi il 1781 nella Compagnia di Antonio Camerani.

{p. 614}Valenti Francesco. Nato a Roma il 4 febbraio 1859 da parenti non comici, e datosi, giovanetto, al recitare in società filodrammatiche, si scritturò l’ '83 con Bellotti-Bon, per la cui morte non ebbe luogo il contratto, esordendo invece quello stesso anno come generico con Alessandro Salvini ed Ettore Paladini, e passando subito l’ '84 al ruolo di secondo e primo caratterista sotto il Salvini : ruolo che non abbandonò mai più, e che sostenne lodevolmente in compagnie egregie, quali dell’Emanuel, del Morelli, Maggi, Rossi, De Sanctis, Teatro d’Arte, Rasi, Della Guardia, Pieri-Severi, nella quale ultima si trova oggi (1904).

Francesco Valenti, semplice di modi e di costumi, può dirsi un vero solitario. Il teatro e la casa sono le sue sole occupazioni ; e nella casa l’artista spesso e volentieri diventa lo scienziato : fotografo, proiezionista, meccanico, elettricista, e anche inventore. Sicuro : Francesco Valenti è inventore di una macchina ottica per proiezioni, brevettata, che si chiama Fotoautomotografo Valenti. Nè gli studi scientifici gl’impedirono mai, nonostante la sua piccola statura poco teatrale, di farsi applaudire come caratterista e promiscuo, sia per la diligenza scrupolosa nello studio de' caratteri, sia per l’ingegno pronto nella loro interpretazione, sia per una certa vivacità, soverchia forse tal volta, di recitazione. Fu anche il Valenti direttore artistico della Compagnia di Giovanni Emanuel e Gio. Batta Marini, e in tale ufficio diè prova di avvedutezza e di molto occhio pratico.

Valentini Giovanni, bolognese. Comico universale, come lo chiama Fr. Bartoli, per una particolare sua versatilità che gli permetteva di rappresentar degnamente caratteri disparatissimi. Fu in più compagnie, quali di Antonio Sacco, Nicola {p. 615}Petrioli, Pietro Rossi, Onofrio e Francesco Paganini e Faustina Tesi, in cui trovavasi il 1781. Mise da giovine la maschera del Pantalone, poi quella del Dottore ; e, dice il Bartoli, che sosteneva or l’una or l’altra con egual maestria. Recitò ne'suoi primi anni d’arte una commedia, nella quale, sotto nome di Zanetto, rappresentava ammiratissimo diversi personaggi. Si diè poi a sostenere le parti caratteristiche, scritte dal Goldoni per Antonio Martelli, come il Todaro brontolon, il Policarpio della Sposa sagace, il Fabrizio degli Innamorati, e vi riuscì ottimo. Il Bartoli lo disse egregio anche nelle parti di tragedia, e mediocremente addestrato nell’arte del canto.

Valentini Rosa, detta la Diana, fu moglie del precedente, e nacque – dice il Bartoli – in Polonia, « mentre la madre sua trattenevasi al servizio di quel monarca, da lui cotanto favorita, che donolle il suo proprio ritratto tempestato di gemme d’inestimabil valore. »

Cresciuta in bellezza (vuolsi che dalla maestà di tutta la persona, e dalla ricchezza dei biondi capegli trasparisse la nobiltà del seme di cui dicevasi frutto), e divenuta artista preclara, si sposò a Giovanni Valentini, percorrendo con lui l’Italia, ammiratissima e per le doti fisiche, e per le artistiche. Morì a Bologna il 1760 circa, a soli trentasei anni. (V. Diana (della) Silvio).

Valentini Margherita. Lodigiana, seconda moglie del precedente, fu da lui educata all’arte del canto, in cui riuscì egregia, cantando con molta grazia in vari intermezzi. Recitò anche le parti di serva ed altre, ma assai più valse, e fu generalmente assai più apprezzata, nella musica.

Valeriani Serafino, bolognese. Fu prima Innamorato negli accademici della città, poi Dottore in arte, cominciando con compagnie secondarie, e passando poi con quelle di Pietro Ferrari e del Menichelli. Fr. Bartoli lo dice « comico abile ancora {p. 616}(1781) per recitare qualche parte seria, e può essere fatto degno di qualche applauso. » Ma lo rivediam Dottore con la Coleoni l’autunno del 1795 al S. Cassiano di Venezia.

Valerini Adriano. Gentiluomo e dottore veronese. Comico, istoriografo e poeta egregio, del quale si discorre distesamente al nome di Vincenza Armani, fiorì nella seconda metà del secolo xvi, recitando le parti di Innamorato sotto il nome di Aurelio. Domenico Bruni dice di lui, che fu peritissimo nelle lettere greche e latine ; e con tuttociò in iscena non avendo quella grazia che si aspettava, benchè di bellissima presenza fosse, non ispaventava Orazio Nobili (V.), l’altro innamorato della Compagnia de' Gelosi. Dell’arte sua e del suo valor letterario testimoniaron l’Andreini, Francesco Bartoli, il Quadrio, e più tardi Adolfo Bartoli che lo chiama uomo colto e di gusto non inferiore a molti scrittori del tempo suo. Fu amante appassionato di Lidia da Bagnacavallo, poi dell’Armani, morta avvelenata in Cremona. Dopo di essere stato co' Gelosi (V. Andreini Francesco) lo troviamo conduttore di una Compagnia a Milano il 1583, della quale eran parte il pantalone Braga e lo Zanni Pedrolino (Pelesini). Di quella stagione il Beltrame Barbieri nel Capitolo XXXVI della sua Supplica ci dà la seguente notizia :

Si trovava in Verona la Compagnia del Signor Adriano Vallerini Comico gentilhuomo di quella Città, Dottore et assai buon Poeta Latino, e volgare : e l’Eccellentissimo Signor Gouernatore di Milano inuitò quella Compagnia à dar trattenimento à quella Città ; i Comici accettarono l’inuito, et arriuati che furono, e fatto la prima Comedia, fu loro leuata la licenza dall’istesso Sig. Gouernatore, e mandato danari perchè tornassero à Verona ; i Comici per ciò attoniti ricorsero dal Sig. Gouernatore chiedendoli la cagione, non sapendo in che haueuano errato d’haver vn tal affronto : rispose quello, che certi gli haueuano detto esser la Comedia azzione di peccato mortale, e che gli aueuano mostrato quello, che ne scriueua il loro Arciuescouo : i Comici cominciarono à dire le loro ragioni, ma il Sig. Gouernatore disse, andate dal Sig. Cardinale, et aggiustateui seco, che per me hauerò gusto d’ vdir qualche volta questa Compagnia, che mi piace ; ma non voglio commetter peccato mortale ; e così i Comici ricorsero dal buon Pastore, e furono subito introdotti, atteso che quelli istessi, che haueuano parlato, erano in quell’hora all’udienza dando parte al Superiore di quanto haueuano fatto col Sig. Gouernatore. Il buon Prelato ascoltò le ragioni de'Comici : non mancauano li dua di portar Testi contro le Comedie, e non voleuano, che i Comici altercassero ragioni ; quasi volendo che l’autorità dell’habito potesse far autentica legge alle loro opinioni : ma l’amoreuole Superiore diceua, lasciateli {p. 617}dire, il douere è, ch'ogn’ vno dica la sua ragione ; ma perchè la cosa andaua in lungo, si trasportò il ragionarne all’altro giorno ; e così il giorno seguente all’hora deputata comparuero i Comici con l’autorità segnata ne' libri, e così fecero gl’altri che si trouarono inuitati, chi da vna parte, e chi dall’altra, oue che si contrastò vn pezzo, in vltimo il benedetto Cardinale decretò, che si potesse recitar Comedie nella sua diocesi, osseruando però il modo che scriue San Tomaso d’Aquino ; et impose à Comici che mostrassero i Scenarij delle loro comedie giorno per giorno al suo foro, e così ne furono dal detto Santo, e dal suo Reuerendissimo Signor Vicario molti sottoscritti, ma in breue i molti affari di quell’ Vffizio, fece tralasciar l’ordine, giurando i Comici, che non sarebbero stati gli altri suggetti meno honesti dei riueduti : il Braga (così chiamano il Pantalone di quella Compagnia) et il Pedrolino haueuano ancora (e non è molto) di quei suggetti, ò siano Scenarij di Comedie sottoscritti, e quelli segnati da San Carlo, si tengono custoditi, e nella Compagnia, oue hora sono vi è chi ne ha due, e li tiene à casa per non li smarrire. Il Decreto è nell’Arciuescouato di Milano, chi hauesse curiosità di vederlo, fu fatto tre anni in circa auanti la morte del Glorioso Santo, e presto si potrà trouare.

{p. 618}Secondo Adolfo Bartoli sarebbe stata quella la Compagnia degli Uniti, che si erano formati, – egli dice – sotto la direzione di Adriano Valerini nel 1580 circa. Può essere. È certo però che il Valerini non ne faceva più parte nell’aprile dell’ '84, secondo l’elenco che abbiam dato al nome di Pelesini.

Il Valerini pubblicò :

Afrodite. Nova tragedia, dedicata all’Illustrissimo Signore il Conte Paolo Canossa. Verona, Sebastiano e Giovanni dalle Donne fratelli, 1578, da cui è tolto il presente ritratto.

Cento Madrigali, dedicati al M. Illustre Sig. il Sig. Conte Marco Verità, con alcune annotazioni del signor Fulvio Vicomani da Camerino in alquanti dei Madrigali. Verona, M.D.XCII. Nella Stamperia di Girolamo discepolo.

Orationein morte della Divina Signora Vincenza Armani (V.), Comica eccellentissima. Verona, per Bastian dalle Donne, et Giovanni fratelli, 1570 ?

Le bellezze di Verona. Ivi 1586, dov'egli – dice Adolfo Bartoli – cita scrittori greci e latini e dove dà prova di una erudizione storica non comune.

Della sua prosa s’è dato largo esempio al nome dell’Armani, ove il lettore troverà gran parte dell’orazione funebre in morte di lei. Della poesia diam come saggio un sonetto alla stessa, alcuni madrigali amorosi, e il coro dell’Imeneo che chiude il primo atto di Afrodite.

Da quella conca avventurosa e bella
che fuor dell’onde l’alma Dea di Gnido
allor portò, che dal Mar nacque, al Lido,
degna d’esser nel Ciel fatta una stella :
tolse le perle rilucenti, e in quella
bocca le pose di sua man Cupido,
cagion che da me stesso io mi divido,
qualor si dolce ride ovver favella.
Quinci dell’armonia s’ode dal cielo
vera imagine uscir, esempio vero,
ch'unqua all’orecchie dei mortal non venne.
Quindi pon dell’oblìo squarciar il velo
l’alme, e membrando il nido lor primiero
per voi Vincenza al Ciel spiegar le penne.

{p. 619}MADRIGALI

v

Or ch'altro scampo al mio martir non trouo,
Spero che il Tempo mi darà salute,
Voi della giouentute
Priuando e me d’affanni,
E spiegarà l’insegne fra poch'anni
Nel vostro vago volto,
Al qual tosto che tolto
Haurà le rose fresche, e matutine,
Torrà fors’anco a me del cor le spine.

vii

Vanne picciol mio parto
Se ben pochi ornamenti hai dentro, e fuore,
In mano a lei, ch'è de l’Italia honore ;
Così t’auesse, acciò le fossi grato,
Orfeo composto, e Dedalo legato,
O almen fosse a l’Autore
D'esser il libro suo dal Ciel concesso,
Per viuer sempre a sì gran Donna appresso.

Annotazione

Mandò il Valerini a donar alla sua Donna la Galeria di Minerua, libro da lui composto e dedicato al Serenissimo Sig. Duca di Mantoa, et di sua mano scrisse questo Madrigale in fronte dell’opera.

lv

Sono il Tempio di Giano
I bei vostr'occhi, i quali chiusi essendo
M'apportan pace ; ma se questi aprendo
Folgorate gli sguardi in me turbati,
D'ira e di foco armati,
Marte l’empio Furor scatena, e sferra,
E la mia pace si rivolge in guerra.

lxvi

Rubò Prometeo il foco
À le ruote del Sole,
Per farne parte a la mondana prole ;
{p. 620}Rapì Tantalo a Gioue
Il Nettare, e l’Ambrosia ; ma toglieste
Gli alti concenti, e l’armonia celeste
Voi Madonna a le Stelle, et a le noue
Sfere superne ; e'l furto riteneste
Dentro le labra : nè per questo sete
Con fame eterna, e con perpetua sete
Punita ne l’inferno, o nel Caucaso,
Ma fatta habitatrice di Parnaso.

A DONNA MARITATA

xcv

L'altra notte io sognai, quando le stelle
Dan loco al vicin giorno, di tenerti
Stretta ne le mie braccia, e di goderti ;
Fa che non passi il sogno
Per l’Auorio ben mio de i denti tuoi,
Perchè saria fallace ;
Se vuoi ch'ei sia verace,
Soccorri al mio bisogno,
E passi il Sonno per la fronte poi
Del tuo marito adorno,
Ch'iui la porta trouerà di Corno.

Annotazione

Narra Homero nel fine del decimo nono dell’Odissea il sonno hauer due porte, l’vna d’Auorio, l’altra di Corno, per la porta d’Auorio passano i sogni falsi, per quella di Corno i veri.

CORO

Sacrosanto Himeneo,
Che alberghi in Helicona
Con la tua casta madre,
Là doue il Pegaseo
Fonte, le dotte squadre
{p. 621}De i Cigni a bere inuita,
Per c’habbin la corona
Dal figlio di Latona,
Di quella fronde, ch'ha perpetua uita,
E d’essa ornati poi,
Cantin la gloria de gli eccelsi Heroi.
Vago Himeneo gentile
A l’honestade amico,
Che il bel uirgineo nodo
Al sesso feminile
Sciogliendo, in dolce modo
Diverso il leghi, e serbi
Il nome suo pudico,
E col tuo giogo antico
Vinci gli animi indomiti, e superbi,
Che in bella coppia vniti
Quai diuengono mogli, e quai mariti.
Tu di duo cori un core,
E un’Alma fai di due,
Di due voglie vna voglia,
Mentre per far minore
L'aspra eccessiua doglia
De la uita mortale,
Le noie e pene sue
Comparti in amendue,
Ond’è più lieue a sofferirsi il male,
Nè men le gioie, e i risi
Hanno in commun ne i tuoi beati Elisi.
Questa è la Coppia uera,
Che quale Hermafrodito
Non pur duo Corpi insieme
Ma l’Alme vnisce, e intiera
Fa vna sostanza, e un seme.
O dolce, e bel legame,
Che fosti in Cielo ordito
Per man de l’infinito
E sempiterno Amor, di quello stame,
Che il viuer volge ancora,
Tal che a scioglierti un huom, conuien che mora.
{p. 622}Tu Dio lieto, e benigno,
Polinnio, & Afrodite
Talmente insieme annoda,
Che influsso empio e maligno,
O rio voler non goda
Vederli vnqua disciolti,
Nè mai Discordia, o lite,
De le lor dolci vite
Turbi il tranquillo ; o'l bel seren de i volti ;
Ma amor e pace scorte
Sian del vital lor corso in fin a morte.

Valsecchi Angelo, caffettiere veneziano, cominciò col farsi ammirare da' clienti di bottega come imitatore perfetto del celebre Petronio Zanerini, indi si scritturò come Innamorato in Compagnia di Giuseppe Lapy, al posto di Tommaso Grandi, riuscendo attore gradito non solo a' pubblici di terraferma, ma ancora di Venezia, ove fu, al S. Angelo, l’autunno del 1775. Fu poi con la Battaglia, e sostituì egregiamente il D'Arbes nella maschera del Pantalone. Di bella persona e di bella voce, d’ingegno svegliato, e perseverante nello studio, fu attore ammiratissimo nel tragico e nel comico, nelle parti di giovine e in quelle di vecchio, nelle quali – scrive Fr. Bartoli – « mostravasi tanto d’esser investito, che non poteasi desiderare in lui una miglior perfezione. »

Il Bartoli cita anche una sua « Rappresentazione d’argomento spagnolo scritta in versi sciolti, intitolata : L'Usurpator d’Aragona ; che fu recitata replicatamente nel Teatro di San Gio. Grisostomo. »

Vannini Gio. Battista. È questi senza dubbio quel Battista da Rimino (V), Zanne dei Confidenti, citato dal Rossi nel discorso a' lettori che precede la Fiammella. Il dottor Paglicci-Brozzi pubblicò (Scena ill.ª del 15 ottobre 1890) una Supplicatione di lui al marchese d’Ayamonte don Antonio de Guzman governatore per Sua Maestà Cattolica in Italia, in data 25 di {p. 623}giugno 1574, la quale comincia : « Alli giorni passati essendo a Cremona la Compagnia dei Comici Confidenti, et fra loro il fidelissimo servo di V. E. Battista Vanino da Rimino, qual fa la persona del Zanni, qual’è principalissima et necessaria nella comedia…. » Essa ci avverte essere stati i Confidenti (V. Scala), in quell’anno 1574, a Cremona, a Pavia, a Milano ; nella qual magnifica città, supplica il Vannini sia transferito il suo processo ; generato dall’avere egli ajutato un ragazzo di XII anni a discendere da un solajo ov'erasi rifugiato alla vista degli sbirri, andati « al luoco di la comedia, per prendere alchuni sospecti d’esser latri, etc. » La supplica ha in calce : « Il Podestà di Cremona faccia giustizia. » Firmato Neyra.

Varini Emilia, di Pallanza, figlia di Pietro Varini e Leopolda Bemacchi, formatosi un buon corredo di studi ora in collegio, ora colle istitutrici in casa, fu condotta giovinetta a Milano, ove mostrò casualmente molte attitudini alla scena, recitando in privato una commediola in francese. Sentite a Milano la Duse e Sarah Bernardt, ella, che non avea mai pensato al teatro, vi fu ad un tratto sospinta, e si diede a studiar con Giacosa prima, poi con Monti, esordendo dopo un anno di preparazione in Compagnia Zacconi-Pilotto a Verona colla parte di Elena in Resa a discrezione. Passò prima attrice giovine con Maggi, poi con Emanuel, poi con Ferrati, per tornar nel '97 con Ermete Zacconi, con cui stette circa due anni, dopo i quali restò alcun tempo in riposo. Il settembre del '99 andò a supplire Irma Gramatica in Compagnia Raspantini, poi (1900), tentò il capocomicato con poca fortuna. Fu a tutto il '902 con Eleonora Duse, per passar l’anno veniente in Compagnia Berti-Masi, poi di Ettore Berti, nella quale si trova anche oggi (1904), col suo ruolo di prima attrice assoluta. Emilia Varini è donna di fine intelligenza artistica ; alla quale forse non sempre rispondono le qualità esteriori.

Non poche parti, nullameno, le diedero buon nome, cominciando da quelle dei Diritti dell’anima e di Anime solitarie {p. 624}ch'ella interpetrò lodevolmente all’inizio della sua vita artistica, e terminando col Malatestino in Francesca da Rimini di D'Annunzio, che seppe esprimere con colorito vigoroso. Oggi s’è data quasi esclusivamente al repertorio d’annunziano, e si fa molto ammirare così in Francesca (protagonista), come in Gioconda (Silvia Settala).

Una sua sorella minore, Olga, s’è pur data all’arte drammatica, e oggi è gentile ornamento della Compagnia Caimmi-Zoncada.

Vedova Nicola, di Venezia, figlio di Pietro (V. Botteghini), fu prima ufficial di marina al servizio di quella repubblica, {p. 625}caduta la quale si diede all’arte della scena, in cui, mercè di una figura maestosa, di una voce possente, di una memoria di ferro, riuscì in breve il più rinomato de' tiranni da teatro diurno. Attila Flagello di Dio, Ezzelino da Romano, Fazio nel Ratto delle Sabine, Talbot nella Giovanna d’Arco, e moltissime altre parti furon da lui interpetrate alla perfezione, e nessun attore potè vantarsi mai di avere nella sua beneficiata un incasso maggiore di quello che nella sua beneficiata aveva il Vedova ; il quale se sollevava all’entusiasmo il popolino delle recite diurne, era anche molto apprezzato in quelle serali, dal pubblico eletto, come padre nobile, non che come attor di tragedia. Fu con le migliori Compagnie d’Italia scritturato, poi socio del Dorati e del vecchio Pieri, poi di nuovo scritturato con Francesco Taddei, e di nuovo socio (1829) con Gaetano e Antonio Colomberti, artista anche allora di gran pregio, sebben già in età avanzata. Morì a Bologna verso il 1840. Mentr'era col Raftopulo a Venezia il 1821, il Giornale de' teatri scrisse di lui che non avea voce adattata al rango che sosteneva ; che mancava di gesto tragico, e si dimostrava sempre truce ne' suoi atti, quand’anche l’uopo nol richiedesse….

Secondo la leggenda del palcoscenico, il Vedova fu il più ignorante uomo del mondo ; e si vuole che un giorno (già da tempo era impensierito per la scelta della beneficiata) si recasse alla prova con un libro sotto al braccio, sclamando : l’ho trovada, l’ho trovada, un po'lungheta, ma tagiaremo. Piena sicura ! Era la Divina Commedia. E vuolsi anche fosse lui, che solea dire di sè : mi son el primo tirano dopo Cristo.

Ma tali aneddoti e la critica del giornaletto veneziano sono in aperta contraddizione col giudizio che ne dà il Colomberti, attore provetto, e del Vedova conoscitore esperto. Egli non solamente lo ammira come tiranno, padre nobile e attore tragico, ma lo dice rispettoso del pubblico e di sè ; abbigliato sempre irreprensibilmente, e disputato da' più accreditati capocomici.

{p. 626}Vedova-Ristori Giulia, sorella del precedente e moglie di Enrico Ristori, fratello della celebre Adelaide, nacque in Alessandria di Piemonte il 24 giugno 1826, e fu artista di qualità egregie. La vediam prima attrice il 1854-55 della Compagnia di Cesare Asti, e i giornali del tempo hanno molte parole di lode pel suo metodo squisito sì nella commedia, sì nel dramma, per la voce insinuante, per la verità, l’intelligenza, la passione. Il suo accento – dicono – commoveva anche nelle mezze tinte, anche in quelle piccole nuances d’un carattere, sulle quali molte altre sorvolano, e che ella afferrava e coloriva a meraviglia. Morì a Firenze il 31 marzo del 1900.

Velli Luigi, veronese, ebbe da' suoi parenti una educazione compiuta ; e laureatosi in legge, sorpassò per sapere e intelligenza tutti i giovani praticanti nello studio di un celebre avvocato della città. Ma l’amor della poesia in genere e della rappresentativa in ispecie, lo fece abbandonar per questa foro e pandette. « I suoi naturali talenti – si scriveva il 1821 nelle Varietà teatrali di Venezia – la sua coltura, e la prontezza del suo spirito, giunti che sieno a farsi conoscere dal pubblico, mirabilmente coprono lo svantaggio in lui di una voce monotona e non insinuante, e di uno sceneggio sovente, se naturale, troppo confidenziale, se nobile, troppo ricercato. »

Velli Carolina. Moglie del precedente, romana, fu ottima attrice per le parti di madre e caratteristica, che – dicon le Varietà teatrali del 1821 – se nelle parti di madre può dirsi abile, nelle caratteristiche non si esagera nel dirla a niun’altra seconda.

{p. 627}Venier Angiolo, di Verona, fu un ottimo primo attor giovine, e rappresentò pel primo a Venezia al S. Gio. Grisostomo, quand’era in Compagnia Battaglia primo attore a vicenda con Bellini, dodici sere l’Elena e Gerardo, e venti la Ginevra di Scozia di Pindemonti, nella quale ultima sosteneva mirabilmente la parte di Ariodante. Sposò dopo alcuni anni Caterina, e fu assieme a lei prima con Gaetano Asprucci, poi in società con Luigi Vestri per gli anni 1817-18-19-20, ove passò al ruolo di padre. Scritturato il Vestri con Fabbrichesi a Napoli, Angiolo Venier entrò nella Compagnia Blanes, con cui stette fin a tutto il '24 ; poi, solo, in quella di Mario Internari pel '25. Dopo si ritirò colla moglie a Verona presso il figliuolo Pietro, già grande, pittore e scenografo reputato, abbandonando il teatro. Ma, lei morta, egli vi tornò, e lo troviam padre nobile il '33-'34-'35 nella Compagnia Romagnoli-Berlaffa, insieme alla figlia Maria Berlaffa e a un figlio, Eugenio, che era prima al Teatro Nota di Lucca, generico, poi al Teatro del Giglio della stessa città, amoroso.

Venier Caterina, moglie del precedente, figlia di comici, fu dapprima un’ egregia servetta, poi una egregia prima attrice giovine, doventando poi di sbalzo non meno egregia prima attrice, in sostituzione della rinomata Cesari-Asprucci, venuta a morte quand’era col marito nella stessa Compagnia. Fu sempre con lui a tutto il '24, cominciando a recitare le parti di madre in Compagnia Vestri. Il '25, scritturato il Venier coll’Internari, ella si scritturò con Tommaso Zocchi ; poi si riuniron di nuovo, fuor delle scene in Verona, città natale del marito, dov'ella morì verso il 1830.

Venier-Berlaffa Maria, sorella del precedente. Nella prima parte del primo tomo dei Teatri (1827), G. Ferrario ha parole di molto encomio per questa artista, che se fu egregia nelle parti di prima attrice giovine e di seconda donna, che sostenne in Compagnia Goldoni-Riva, poi nella società {p. 628}Bon-Romagnoli-Berlaffa, non la fu meno in quelle di madre, che assunse in età ancor giovanile. Dopo molti anni di professione, si ritirò presso il fratello Pietro a Napoli, dove morì, non si sa quando precisamente.

Venini Fedele. È citato da Fr. Bartoli come capocomico e attore sotto la maschera di Arlecchino, in cui si mostrò valente, e in caratteri caricati nelle studiate rappresentazioni. Condusse molti anni compagnia, e morì del 1781 in Piemonte.

Ventura Battista, detto il Beccaro, recitava le parti di Pantalone sulla metà del secolo xvii ; e un famigliare del Principe di Modena, D. Giovanni Parenti, gli scrive in data 6 marzo del 1655 da Venetia, che ha « trattato col medesimo (Ventura) facendoli conoscere la gratia che vuol farli S. A. col agregarlo nella Compagnia delli di lei Comici, e veramente da questo con ogni prontezza ne ha riportata la parola, et assenso. Reverentemente solo supplica S. A. Ser.ma, di due parole in iscritto, acciò queste gl’habbino à servir per riparo in caso che qualch'uno lo volesse violentare ad altro impegno…. »

Ventura Giovanni, milanese, nato il 6 luglio del 1800, fu tra'più colti e popolari attori drammatici del suo tempo, e forse il più colto e popolare dopo Modena. Dettò versi in dialetto milanese, e in lingua (Milano, Fr. Vallardi, 1859 ; Bologna, Cavazzi. s. d.), che per la molta soavità lo alzarono al grado di degno successore di Tommaso Grossi. Nato di padre orologiajo, non volle continuar l’arte paterna, e si diede al teatro, scritturandosi amoroso nella Compagnia Reale Sarda il 1827, al posto di Vincenzo Monti, nella quale stette fin oltre il '40. Il Costetti ne lo fa uscire il '43, sostituito da Pietro Boccomini, ma è questo errore evidente, giacchè lo vediamo per l’anno '41-'42 primo attore assoluto della Compagnia Giardini, Woller e Belatti, dalla quale passò poi nello stesso ruolo in quelle di Corrado Vergnano, e di Angelo Rosa con cui stette lungo tempo. Dopo il {p. 629}movimento politico del 1848 aveva emigrato a Torino, dove trasse la vita colla più modesta laboriosità, amato e stimato da quanti ebbero la fortuna di conoscerlo personalmente, e dove finalmente, il 1852, dopo di aver anche provato le noje del capocomicato, si ritirò dalle scene. Morto l’attore Canova, gli successe nella cattedra di declamazione alla Filodrammatica di Torino, sciolta la quale, passò maestro di declamazione alla Filarmonica Subalpina della stessa città, {p. 630}dov'ebbe pur parte nella Commissione pei premi agli autori drammatici.

Dopo la liberazione di Milano rimpatriò, e diventò direttore di quella Filodrammatica, degno successore di Pietro Andolfati e di Augusto Bon. Io ho qui sott’occhio la prolusione alle sue lezioni di arte drammatica recitata nella solenne apertura della scuola la sera del 9 novembre 1859 ; e molto mi maraviglio che nulla vi apparisca di quel pedante, che in un maestro di oltre mezzo secolo a dietro parrebbe doversi inevitabilmente trovare.

Giovanni Ventura (il Colomberti lo dice piccolo di statura, ma di volto assai espressivo) morì a Milano il 19 gennajo 1869.

Venturino. (V. Giovan Maria Romano).

Venturoli Costantino, di Pontelagoscuro, nato a'primi del secolo xix, si aggregò giovinetto, per non esser più a carico della famiglia povera, a una piccola compagnia comica, in qualità di porta-ceste, di smoccolatore di lumi a olio, e, al bisogno, anche di attore. Sentito una volta recitare in una stamberga dal celebre Mascherpa, fu subito scritturato pel venturo anno in qualità di amoroso, e le sue prime prove furono disastrose ; ma il Mascherpa, che fu per lui più padre che capocomico, lo incitò a perseverar nello studio, e lo riconfermò per altri due anni, ne' quali vide avverarsi le previsioni che aveva fatte sull’avvenire artistico di lui. Dopo il triennio, passò il Venturoli nella Compagnia Domeniconi ; e anche qui, al Valle di Roma, le prime prove furon di fischi e corbellature ; ma poi, fatto il pubblico l’orecchio a certe sue stridule intonazioni, ne divenne in breve il beniamino, soprattutto per la sua grande versatilità, mostrandosi ugualmente egregio nella prosa e nel verso, nella tragedia e nella farsa. Infatti egli fu de'più valorosi primi attori e de' più valorosi brillanti del suo tempo ; e già le Varietà teatrali di Venezia del 1821, quand’egli era semplice generico in Compagnia Iob, accennano alle sue larghe promesse. Lo {p. 631}vediam primo attore il '47 con Torello Chiari, e caratterista, il '57, con Giovanni Leigheb, e dal '59 al '64 con Francesco Sterni. Morì il '70 a Pisa.

Verato Battista, ferrarese. Di lui dice il Quadrio (vol. V, pag. 237) : « Datosi alla professione comica, riuscì eccellente {p. 632}e famoso per modo, ch'egli fu senza dubbio il primo che al suo tempo praticasse le scene. La naturale facondia, il maestoso e vago sembiante, la chiara e sonora voce e la rara grazia nel porgere, tutto in lui concorreva ; onde, qualunque personaggio ei facesse in scena, o ridicolo o grave, tutto faceva a meraviglia. Scorse tutta l’Italia e gran parte della Francia, e ne'più famosi teatri fece chiarissime prove del suo valore. Ritornato poi a Ferrara venne a morte, e fu sepolto nella chiesa di Santo Spirito, e onorato di un nobile epitaffio fattogli da Torquato Tasso. Scrisse questo comico alcune regole per acconciamente rappresentare in teatro le azioni umane e le persone d’ogni sorta. »

Dei viaggi del Verato in Francia non si hanno, ch'io sappia, non che prove, traccie di sorta. Sappiamo che prese parte alla recitazione dello Sfortunato, pastorale di Agostino Argenti, data il maggio del 1567 a Ferrara ; alle rappresentazioni che si fecero in Ferrara il 1570 per le nozze di Lucrezia d’Este con Francesco Maria della Rovere, Principe d’Urbino, per le quali furon pagate lire marchesane 19.0.10 (V. Solerti, Il Teatro ferrarese) ; e alla recitazione del Sagrificio del Beccari, data in Sassuolo nel 1587 con prologo del Guarini, pel matrimonio di Pio di Savoja, Signor di Sassuolo, Modena, Vicenza, 1871 ; e che, morto il 1589, fu sepolto in Santa Monica di Ferrara.

Ecco l’epitaffio del Tasso, non scritto dopo la morte del Verato (il Tasso avea già lasciato Ferrara dell’ '86), ma mentr'era in vita, e a istanza sua, come si legge nella didascalia di un codice estense : Fatto ad instanza del Verato eccellente istrione :

Giace il Verato qui, che 'n real veste
superbo, od in servil abito accolto,
nel proprio aspetto, o sotto finto volto,
come volle, sembrò Davo o Tieste.
Se pianse, e risonò funebri e meste
voci, lagrimò seco il popol folto :
la dura cena e 'ndietro il sol rivolto
parve, ed in nubi ascoso atre e funeste.
{p. 633}Se rise, riser seco i bei notturni
teatri degli scherzi e delle frodi,
ed insieme ammiraro il mastro e l’arte :
or le scene bramar, bramar le carte
sembran l’alta sua voce e i dolci modi,
e sdegnar altri piè socchi e coturni.

Giovan Battista Guarini intitolò dal nome del Verato le sue difese del Pastor Fido contro Giason de Nores.

Verder Giovanni, veronese. Si esercitò prima co' dilettanti della città, poi passò a fare il comico intorno al 1722. Lo vediamo al S. Luca di Venezia insieme ad Argante e a Pompilio Miti, rappresentare il 1736 la parte di Florindo nell’opera : La Clemenza nella Vendetta. Adattò pel teatro un Orlando Furioso, metà in verso sciolto, metà in istanze, tolte qua e là dal poema ariosteo, che non fu mai stampato ; e ritiratosi dalle scene, visse alcun tempo, col frutto de' suoi risparmj a Venezia, ove morì circa il 1757. Fr. Bartoli dice di lui che « fu comico di molta abilità, e piacque sulle venete scene. »

Una sua figliuola, ballerina, si ritirò dal teatro per vestir l’abito religioso.

Vergnano Corrado, torinese, fu uno de' più egregi artisti brillanti nella prima metà del secolo xix, per la correttezza e la nobiltà de' modi. Il Diplomatico senza saperlo e il Ballandar nella Catena di Scribe, il Bugiardo e altre parti di simil fatta ebbero in lui un interpetre unico. Colto e gentile, s’ebbe la stima di quanti lo accostarono, e la sua morte fu seguita dal generale compianto. Fu quasi sempre capocomico e de' più pregiati, e militaron con lui i migliori attori e le migliori attrici del suo tempo. Tuttavia anche a lui toccò talvolta la sorte più avversa. Gustavo Modena che s’era aggregato alla sua Compagnia, scrive a Calloud da Parma il 20 novembre del '42 : « La Compagnia Vergnano non piacque ; e con essa, te lo dico schietto, i Parmigiani sono ingiusti. Questa {p. 634}Compagnia ha un’ottima qualità complessiva, di tutti, cioè : quella di recitar la commedia naturalmente, parlando, e nessuno glie ne tien conto. » E il Sossaj, nella sua cronaca (Teatro Comunale di Modena, autunno del 1844), della Compagnia Vergnano dice : « Tutto che composta di soggetti di merito discreto, pure fu assai mal corrisposta dal pubblico. I molti impegni lasciati in altre piazze e quelli incontrati in Modena hanno prodotta la conseguenza della totale disunione della Compagnia, per non aver mezzi di intraprendere un viaggio e caricarsi di ulteriori spese. Malgrado l’equipaggio sequestrato, i soggetti sono tutti qui requisiti, meno il capocomico Vergnano, il quale seppe destramente sottrarsi colla fuga, terminata che ebbe la parte che aveva nella comedia. » – Si recitava quella sera il 4° atto di Misantropia e Pentimento, poi il 2° de' Due Sergenti. La Pelzet in una lettera a Niccolini del 27 luglio 1843 da Bologna accenna alla rovina di Verniano (sic), per opera della prosopopea della Iob, la sua prima attrice.

Sua moglie, Francesca, fu una egregia artista per le parti di servetta, e passò, dopo la morte del marito a seconde nozze col primo attore Cesare Fabbri che, per la età, poteva esserle figliuolo.

Veronese Carlo Antonio, nato il 1702 non sappiam precisamente dove (il Campardon dice a Venezia, Fr. Bartoli a Verona, e lo Jal forse a Firenze), cominciò coll’essere nelle Compagnie italiane primo amoroso, e tale lo ritrova Carlo Goldoni a Feltre, attore e direttore della Compagnia, di cui faceva parte Florindo de' Maccheroni. Sappiamo da esso Goldoni che il Veronese aveva un occhio di vetro. Dopo alcuni anni di capocomicato si scritturò nella Compagnia di Antonio Sacco a Venezia, recitando sotto la maschera di Pantalone. G. G. Rousseau racconta, nelle sue Confessioni, come, essendo segretario dell’ambasciatore di Francia, {p. 635}il carnovale 1743-44, con un audace colpo di mano costrinse a recarsi a Parigi per il Teatro Reale il Veronese, il quale non voleva tenere il contratto, e s’era invece impegnato col Teatro Giustinian a S. Moisè di Venezia. Il Loehner per altro non guarentirebbe l’esattezza di tale aneddoto. Comunque sia, il Veronese esordì in prova di fatto alla Comedia italiana come pantalone nel Double mariage d’Arlequin, il 6 maggio 1744 ; vi fu ricevuto stabilmente l’anno dopo, e v'ebbe promessa di parte intiera il 4 novembre 1746. Fu attore mediocre, e si ha sopra di lui la seguente quartina :

Depuis le front jusqu’au talon,
tout s’exprime dans Véronése,
et le spectateur est fort aise
quand il voit venir Pantalon.

{p. 636}Scrisse molte commedie pel teatro italiano, fra cui alcune diventate di moda, come Coraline magicienne in 5 atti, Le Prince de Salerne in 5 atti, Les folies de Coraline in 5 atti, Les Deux sœurs rivales in 5 atti, etc., etc…. Nel Principe di Salerno, commedia tutta a macchinismi, data il 1746, era un volo pericoloso che si fu obbligati a sopprimere a scanso di sciagure : Arlecchino rapiva il Dottore dal teatro, e spariva con lui da un fóro nel soffitto della platea, fatto per dar aria alla sala.

Carlo Veronese, uomo facoltoso – dice Fr. Bartoli – che accrebbe, andando in Francia, le di lui fortune, senza pagare – aggiunge il Loehner – i suoi debiti di Venezia, ebbe dal suo matrimonio con Lucia Pierina Sperotti cinque figliuoli, di cui tre, Pier Antonio, Cammilla e Anna seguiron l’arte del padre ; {p. 637}e morì a Parigi il 26 gennajo 1762 Officier du Roy et bourgeois de Paris, sostituito alla Comedia nel suo ruolo di Pantalone già dal 1760 da Antonio Matteucci detto Collalto (V.).

Oltre al ritrattino a mezzo busto che tolgo da L'Opéra Comique, metto qui la riproduzione di due disegni a matita rossa, segnati nel catalogo Bouchot della Biblioteca Nazionale di Parigi coi numeri 527 e 535, e così descritti : « Scène de la Comédie italienne vers 1730, où l’acteur Alborgheti dit Veronese est représenté jouant du violon devant des enfants. – Portrait en pied d’un acteur de la Comédie italienne, Alborgheti dit Veronese, en costume de soldat. » Alborghetti Veronese ? Errore evidente, poichè Veronese esordì a Parigi quattordici anni dopo la morte dell’eccellente Pantalone. Il Bouchot dice : « vers 1730. » Ma io credo debba assegnarsi una data posteriore ai due disegni, uguali di maniera all’altro messo al nome di Cammilla (V. Veronese Cammilla) e concernenti certo il Veronese.

Veronese Pietro Antonio Francesco. Figlio del precedente, nato a Venezia il 25 marzo del 1732, esordì alla Comedia italiana il 17 luglio 1754 colla maschera di Dottore nel Double mariage d’Arlequin. Sebbene favorevolmente accolto dal pubblico, credette opportuno interromper le sue recite che riprese poi il 30 marzo del 1756. Fu ricevuto allora collo stipendio di cento lire mensili, portate poi il 21 agosto 1759 a duemila annue. Ma l’anno veniente, per una infrazione al regolamento del Teatro, dovette lasciar la Comedia, e scritturarsi in una Compagnia di provincia. Richiamato il 1763, gli furon pagate quattrocento lire per spese di viaggio, e assegnate duemila quattrocento lire annue, con la promessa di mezza parte, per recitare anzi tutto sotto le vesti di Dottore, poi sotto quelle di Scapino. Ottenne il 1767 tre quarti di parte, e fu incaricato assieme a Giambattista Dehesse, della sorveglianza dei macchinismi e degli scenari delle rappresentazioni a spettacolo del genere italiano.

{p. 638}Ebbe in arte i suoi detrattori e i suoi ammiratori ; ma effettivamente, senza levar troppo alto grido di sè, sostenne il ruolo di Dottore con molta coscienza.

Fu due volte ammogliato. Prima con Giovanna Mestre, mortagli il 6 agosto dell’anno 1766, poi con Giovanna Maugras, o Naugras, ch'egli amava, vivente la prima moglie, e che sposò dopo di avere promesso con atto formale di abbandonare per sempre il teatro. Al momento del matrimonio, gli sposi riconobbero un loro figliuolo, per nome Pietro Lorenzo.

Pietro Antonio Veronese morì a Parigi il 6 aprile dell’anno 1776.

Dal suo secondo matrimonio ebbe un figlio, il quale comparve nella Fête du village alla Comedia italiana, ancora bimbo, destando la stupefazione di tutti. Di lui è detto nelle Mémoires secrets : il piccolo Veronese, figlio d’un attore italiano noto col nome di Dottore di cui ha sempre sostenuto il ruolo, ci ha dato uno spettacolo de' più curiosi. Questo ragazzo di sei o sette anni, ha ballato con una forza e una grazia maravigliose per la sua età. La sua sicurezza e il suo garbo hanno incantato tutti gli spettatori.

Veronese Anna, detta Corallina. Sorella del precedente, nacque a Bassano verso il 1730 ed esordì alla Comedia italiana il 6 maggio 1744 insieme a suo padre colla parte di Colombina nel Double mariage d’Arlequin, dopo il quale eseguiva un passo a due assieme ad Anton Stefano Balletti. Sostenne poi la protagonista in Coraline jardinière ovvero La Comtesse par hasard, commedia in tre atti di suo padre, e in Coraline esprit follet, scenario in tre atti rimesso in scena dallo stesso. Dell’arte e del successo di Anna Veronese dicono i fratelli Parfaict : « Una figura graziosa, molta vivacità, molto spirito e molta gaiezza, qualità essenziali nella parte di servetta, le acquistarono gran rinomanza non mai attenuata in tutto il tempo che recitò. » D'Origny dice che « non si sapeva se {p. 639} ammirar più il suo ingegno o la sua bellezza, » e Panard dettò per lei i seguenti versi :

Cet objet enchanteur qu’on doit à l’Italie
de trois divinités réunit les attraits ;
Coraline offre sous ses traits
Hébé, Terpsichore et Thalie.

Fu dal suo esordire ricevuta alla Comedia italiana con stipendio fisso, e nel 1746 vi ottenne un po' di parte. Ammessa più tardi a parte intiera, abbandonò il teatro alla chiusura del 1759 con mille lire di pensione.

Un poeta anonimo ha detto :

Coraline, toujours nouvelle
dans chaque rôle où je la vois,
fait que je suis tout à la fois
amant inconstant et fidèle.

Il suo ingegno e la sua bellezza inspirarono anche una lunga poesia al Marmontel, in cui è la seguente descrizione appetitosa delle sue doti fisiche. Dopo di aver toccato dell’Italia, la terra degli eroi, delle grazie, della poesia, che produsse Cintia, Delia e Corinna, si volge a Lucinda (Personaggio di Voltaire) e dice :

Mais crois moi, ma Lucinde, en ces tems si vantés,
si l’on t’eût vu paraître auprès de ces Beautés,
avec cette fraîcheur, cet éclat, ce sourire,
cette bouche appellant le plaisir qu’elle inspire,
ce corsage arrondi, tel que l’avait Psiché
quand l’amour comme un lierre y semblait attaché,
ce sein ferme et poli qui repoussant la toile,
de son bouton de rose enfle et rougit le voile ;
cette main que l’amour baisait en la formant,
et qui ranimerait la cendre d’un Amant ;
crois-moi, dis-je, Properce, Ovide, ni Tibulle,
n’auraient brûlé jamais que des feux dont je brûle,
et le nom des beautés célèbres dans leurs vers,
n’auraient jamais reçu l’encens de l’Univers.

{p. 640}Ma i versi migliori le vennero da F. Gand…., che le dedicò Les Colifichets (A Amsterdam M DCC XLVI) colla seguente epistola :

Fille de Terpsicore, ornement du Théatre,
Toi que le public idolatre,
et qui dans le cœur des mortels
sçais t’élever de solides Autels :
Aimable esprit follet, charmante Coraline,
dont les rares talens & la beauté divine,
sur tes pas ravissans enchaînant les Plaisirs,
font aussi par essains voltiger les desirs :
Tristes enfans de ma tendresse,
mes malheureux soupirs étouffes dans la presse,
n’ayant jamais pénétré jusqu’à toi :
de ma muse en ce jour j’emprunte le langage,
quel destin enchanteur si son naïf hommage
attiroit tes regards & les fixoit sur moi !
De ma timide verve accepte les prémices,
l’ésprit n’a point de part au don que je t’en fais ;
en te consacrant ces esquisses
mon cœur seul en fait tous les frais :
oui, du tendre Empire
le Trône t’est dû :
qui te voit, t’admire….
qui te voit, soupire…,
Hélas ! Je t’ai vû.

Secondo il Grimm, dispregiatore per sistema delle commedie italiane, il chiasso fattosi attorno a Corallina era una esagerazione, dacchè egli non seppe vedere in lei che de' bellissimi occhi, delle belle carni, e un magnifico petto accoppiati a un talento d’attrice mediocrissimo.

Le grazie di Corallina le acquistarono un numero considerevole di adoratori, tra cui Carlo Bertinazzi il celebre arlecchino, il Principe di Monaco, che le assegnò come semplice donativo, prima 1200 lire, poi altre 3000 all’anno, Létorière e Di Saint-Crix, ufficiali al Reggimento delle Guardie, e il Conte di La Marche, più tardi Principe di Conti.

{p. 641}Questi, che donò all’attrice il marchesato di Silly, di cui dicesi ch'ella portasse talvolta il titolo, s’ebbe da lei un figliuolo diventato cavaliere di Malta, e noto sotto il nome di Vauréal. Corallina, morta nell’aprile del 1782, istituì per testamento suo legatario universale il Principe di Conti, il quale accettò l’eredità, portando da 600 a 1000 lire annue la pensione che Corallina passava dal 1763 a sua madre Lucia Pierina Sperotti.

Veronese Cammilla, Giacomina, Antonietta. Sorella della precedente, nata a Venezia verso il 1735, nota in arte col nome di Camilla, esordì alla Comedia italiana il 16 maggio 1744, assieme a sua sorella in Corallina esprit follet, destando la comune ammirazione come danzatrice perfetta. Acclamatissima fu il 1746 nel nuovo passo a due ch'ella e il piccolo Dubois eseguivano dopo il Principe di Salerno, in costume di vendemmiatori, dei quali esiste una incisione con in calce i seguenti versi :

Ces deux danseurs presque en naissant
par leur danse ingénue embellissent la scène,
et dans l’âge où l’on sent à peine,
ils expriment tout ce qu’on sent.

Il 1° luglio 1747 la giovane ballerina esordì come attrice nella commedia, scritta a posta per lei da suo padre, intitolata Le due sorelle rivali, trascinando poi il 18 settembre il pubblico all’entusiasmo come attrice e come ballerina nella commedia francese in un atto e in versi, Le tableaux, di Panard, il quale dettò allora questo grazioso madrigale :

Objet de nos désirs dans l’âge le plus tendre,
Camille, ne peut-on vous voir ou vous entendre
sans éprouver les maux que l’amour fait souffrir ?
Trop jeune à la fois et trop belle,
en nous charmant sitôt que vous êtes cruelle !
Attendez pour blesser que vous puissiez guérir !

Poco dopo Cammilla fu accettata nella Compagnia con uno stipendio fisso, e con la promessa di mezza parte, pei ruoli di {p. 642}amorosa e ballerina, a cui aggiunse nel 1759, dopo l’allontanamento di Corallina, quello di servetta.

Eseguì l’agosto del 1760 con una verità maravigliosa, la parte della Statua nel Pigmalione di Billioni ; e Favart, giudice competente in materia, così parla di siffatta creazione :

Nulla uguaglia la finezza dell’arte sua pantomimica, specie quando la statua si va gradualmente animando. La sorpresa, la curiosità, l’amor nascente, tutti i moti improvvisi o progressivi dell’anima son dipinti sul suo volto con tale espressione non ancor trovata sin qui. Si può dir ch'ella danzi col pensiero, e credo che l’arte degli antichi greci nella pantomima non potesse andare più oltre.

Allegra e vivace nelle scenette, sapeva rendere con molto sentimento le situazioni patetiche. Nel 1761, creò la parte di madre nel Figlio d’Arlecchino perduto e ritrovato di Goldoni, strappando le lacrime dell’uditorio ; e il Grimm, nonostante i rimproveri che le move d’introdur troppi gallicismi nella lingua italiana, e italianismi nella francese, assicura che il suo volto e il suo gesto eran sovente sublimi d’espressione.

Su di lei si ha la seguente quartina :

Digne élève de Terpsichore,
digne rivale de ta sœur,
Camille, est il un spectateur
qui ne t’admire et ne t’adore ?

Cammilla Veronese morì il 20 luglio 1768 tra le braccia di Cromot, che amava da più anni la cara artista, per la quale ordinò magnifici funerali. Cinquanta carrozze borghesi seguivano il feretro, dietro a cui eran tutti i comici del Re della Compagnia italiana, presieduti dal loro decano Giovan Battista Dehesse ; e nel Necrologio del 1769 si legge :

Si è detto con ragione che l’indole di Camilla era scolpita sulla sua faccia. Una fisionomia nobile, aperta, e una ingenuità viva dicevan chiaro le qualità dell’anima. Superiore a tutte le piccole querele e alle basse gelosie di mestiere, fu ne' suoi successi di una modestia rara che ne la rendea più degna.

Lasciò morendo ogni suo avere alla sua famiglia, il che fece onore alla sua mente e al suo cuore.

{p. 643}

Nonostante le piacevoli commedie di Collalto e il merito vero di Carlino, il teatro italiano, dopo gli ultimi sprazzi di luce gagliarda, avuti dall’arte delle sorelle Veronese, andò di {p. 644}giorno in giorno passando di moda, e dal 1780, la Comedia italiana, pur conservando tal titolo, ingiustificato omai, non rappresentò più che commedie scritte in francese.

Fra le testimonianze del valore artistico di Cammilla mi piace di riferir quello di Carlo Goldoni. Nel Capitolo II del vol. III delle sue Memorie, dice :

Prendemmo una carrozza, ed andammo da Madamigella Camilla Veronese, ove eravamo aspettati a pranzo. Non è possibile di trovar persona più allegra e più amabile di Madamigella Camilla. Questa rappresentava le serve nelle commedie italiane : faceva le delizie di Parigi sopra la scena, e quelle della Società dove avevasi la fortuna d’incontrarla.

E nel Capitolo III :

Madamigella Camilla era un’ eccellente cameriera, ben accompagnata all’arlecchino del quale ho parlato (Bertinazzi), piena di spirito e di sentimento, che sosteneva il comico con una vezzosa vivacità, e che rappresentava le situazioni commoventi con anima e con intelligenza. Ella compariva in pubblico tal quale era in privato, sempre gaja, sempre eguale, sempre interessante, avendo lo spirito ornato, e le qualità del cuore eccellenti.

{p. 645}Si fece di Cammilla Veronese l’anagramma L'Amore se la vince.

Oltre al bel ritratto di De L'Orme, metto la riproduzione di un disegno a matita rossa, segnato nel catalogo Bouchot col numero 530, e così descritto : « Portrait en pied d’une actrice de la Comédie italienne, M.lle Dehesse (rôle de Camille) dansant et jouant du tambour de basque (1730). » M.lle Dehesse, rôle de Camille ? Anche qui è evidente una confusione di nomi. La Dehesse (V. Visentini Caterina Antonietta) non fu mai Cammilla, e Camilla non nacque che verso il '35 : ma la Dehesse fu prima amorosa poi servetta, mentre Cammilla fu più specialmente ballerina. È dunque assai più probabile che la data assegnata dal Bouchot o dal suo predecessore al disegno, sia di alquanto posteriore, e che esso debba ritrarre veramente la Veronese.

Verzura Domenico. Artista rinomatissimo per le parti di padre nobile e caratterista, a cui si dedicò giovanissimo, nacque a Genova l’ultimo ventennio del secolo xviii, e lo vediam già capocomico stimato nel 1800. Dotato di una voce magnifica e di un portamento oltre ogni dir maestoso, nonostante la pronunzia alcun po' dialettale, s’ebbe i maggiori encomi da' più eletti pubblici d’Italia. Fu nelle principali Compagnie di Marta Coleoni, Dorati, Goldoni, Perotti e Fini, e il critico delle Varietà teatrali di Venezia per l’anno 1821, quando il Verzura era in Compagnia Perotti, lasciò scritto ch' egli era eccellente attore, se non maggiore, non certo ad alcun altro secondo.

Morì a Genova del 1851 a oltre settant’ anni.

Vestri Luigi. Nacque a Firenze nel popolo di S. Pier Maggiore la mattina del 23 aprile 1781 da Gaetano di Luigi Maria Vestri, primo cancelliere del tribunale esecutivo, e da Apollonia di Andrea Soldelli ; e fu battezzato il 24 detto coi nomi di Luigi, Andrea, Giorgio, Giuseppe, Maria. Compiuti gli studi agli Scolopi, fu iniziato al Foro, e ammesso poi nel tribunale con rescritto del granduca Ferdinando, come ajuto di suo {p. 646}padre. Ma la Legge non aveva per lui alcuna attrattiva, sicchè un giorno, datole un addio, passò all’ospedale di Santa Maria Nuova per darsi agli studi di anatomia e fisiologia con l’intento di diventar chirurgo. Nè questa ancora, benchè dopo due anni desse di sè le più liete speranze, egli sentiva essere la sua via. Le recite con dilettanti della città, tra' quali ei fu non ultimo mai e tal volta primo, lo esaltarono, specie quella del Filippo, che Alfieri fece in sua casa, rappresentando egli stesso il protagonista, e affidando a lui il Gomez. Ma si venne al 1799, e al Vestri toccò la sorte di tanti giovani, forse, nella fiamma di amor della patria, un po' troppo audaci : di essere cioè insultato e percosso dalla popolaglia, e chiuso nelle carceri del Bargello, dalle quali uscito dopo breve tempo, nauseato di siffatte inique persecuzioni, abbandonò Firenze e la Toscana, senza sapere ove il suo buon genio lo guidasse. E andò a Milano. Quivi l’incalzar della miseria e della fame lo indussero a tentare, indarno, di trarre qualche profitto da' suoi studi di chirurgia ; e, per sollecitudine di un amico fiorentino, tornò in patria, trattato col maggior de' rigori dal padre, che mal pativa l’animo ribelle di lui, e sopr' a tutto le sue inclinazioni all’arte del teatro, la quale soleva essere guardata allora dalla gente austera, come quasi disonorante. Quanto più dunque essa attraeva il giovine, tanto meno egli sperava di potersi dare a lei col consenso paterno. Che fare ? Turbato, contrariato, disperato, senza una guida, senza un piano determinato, senza l’ombra de'mezzi, il 1804 ricorse di nuovo all’espediente della fuga, in cerca di una compagnia che lo accogliesse nel suo seno a qualunque costo ; e la trovò a Perugia. Le cronache non ci dicono quale essa si fosse, ma non è dubbio che la prova riuscisse eccellente, se l’anno dopo lo vediam generico della rinomata Compagnia Consoli e Zuccato, di cui era primo attore Gio. Angiolo Canova, l’artista pregiato, il maestro solertissimo, che lo addestrò nelle parti di tiranno e di padre. Passò il 1806 in Compagnia del caratterista Andrea Bianchi, della quale era primo attore il gran De Marini, che, udito il giovine artista, e {p. 647}capite subito le sue chiare attitudini alla scena, lo consigliò ad assumer le parti del capocomico, il quale annuì di buon grado a esser da lui sostituito, facendolo esordire il carnovale del 1807 al San Benedetto di Venezia, dove il Vestri, nel nuovo ruolo si acquistò la stima e la benevolenza ë l’amore di ogni classe di pubblico. Da quella del Bianchi passò il 1809, socio, nella Compagnia del Dorati, e da questa il 1812, scritturato, in quella del Blanes, per formar poscia il 1816 un’ottima Compagnia assieme ad Angelo Venier, della quale era prima attrice Carolina Internari, fiorente di giovinezza e di gloria, e colla quale andò il '18 al Teatro Valle di Roma, scritturato per un triennio e per tre stagioni (primavera, autunno e carnovale) dal Duca Torlonia con 12,000 scudi romani ogni anno, destandovi il più schietto e vivo entusiasmo, giacchè allora, ad allargar la {p. 648}cerchia del suo repertorio, e ad acquistar nova gloria al suo nome, si diede alla interpetrazione e rappresentazione di quei caratteri così detti promiscui, che lo fecero in breve il signore assoluto della scena. Ma, ahimè, il carnovale del 1822 volle forse abbracciar troppo, abusando della idolatria che i romani avevan per lui ; e, proprietario di due Compagnie nella stessa Roma, impresario del Teatro Apollo per la messa in iscena di due opere e quattro balli, vide in un attimo, gli affari volti al male, perduto ogni suo risparmio, perduta per molti anni, volendo a ogni costo far fronte sino all’ultimo centesimo agli assunti impegni, la maggior parte del suo stipendio, ch'era di 16,000 lire.

La morte del celebre artista Pertica fu la vita nuova del Vestri, il quale, chiamato dal Fabbrichesi a sostituirlo nella Compagnia Reale ai Fiorentini, ov'era ancora il celebre De Marini, benchè sulle prime vi trovasse il pubblico arcigno oltre misura, andò gradualmente trascinandolo al delirio, specie con L'odio ereditario del Cosenza, fino a essere condotto dopo una recita a casa in trionfo, cosà rara se non unica – accenna il biografo Scifoni – per un artista drammatico.

Da quella di Napoli, passò il '29 dopo la morte del Righetti alla Real Compagnia di Torino, nella quale stette fino al '41, per andare come attore e direttore di una nuova Compagnia formata da Carlo Re, proprietario del vecchio Teatro di tal nome in Milano, che esordì la quaresima al Teatro Obizi di Padova, dove si manifestarono i primi sintomi del tumor maligno da cui fu condotto al sepolcro in Bologna la mattina del 19 agosto di quell’anno medesimo, in così misero stato finanziario, da non lasciare il danaro sufficiente alla spesa dei funerali, fatti solennemente mercè pubbliche offerte, e così descritti nel giornale Il Felsineo dall’attore bolognese Augusto Aglebert :

Il giorno 21 agosto la campana della chiesa di S. Benedetto suonava il tocco dei morti, e quivi radunavasi il popolo che vivo l’ammirò, a impetrar requie all’anima di Luigi Vestri. — Pregava con tetra melodia l’ultime voci di pace la musica solenne del valentissimo maestro Marchesi, il quale ne dirigeva la esecuzione, ed egli e tutti i professori filarmonici e cantanti, artisti ed amatori che trovavansi in Bologna, prestavano gratuitamente questo doloroso tributo. Parevano più onnipossenti quelle armonie, più pene

{p. 650}Il Bartolini a Firenze aveva scolpito un busto del celebre artista, ridente da un lato, piangente dall’altro, che offerse a Bologna, e che fu collocato nella Galleria degli Angeli. Sul cippo è la seguente iscrizione di M.r Arcangelo Gamberini :

ALOISIO. VESTRIO

domo. florentia
qui. roscianam. laudem. emulatus
comicorum. sui. temporis. princeps
habitus. est
vixit. a. lx. dec. xiiii. k. sept. m dccc xxxxi
sodal. concordes
in. scena. per. otium. agentes
pec. conl. pos
ob. offerita

La bontà dell’animo suo fu quasi proverbiale. Certo a quella non corrispose l’ordine, l’equilibrio nella condotta ; chè, incurante del danaro e del domani, scialacquava a tal segno da trovarsi il più spesso, al momento di lasciare una piazza, in angustie tormentose : e si vuole che, senza tener conto della sua paga annuale, avesse potuto colle sole beneficiate lasciare ai figliuoli non men di 200,000 lire. Quando una misera compagnia si trovava vicina alla sua, si volgeva a lui per soccorso ; ed egli, se il suo dovere glie lo consentiva, accorreva subito, e con una recita la sollevava lì per lì dalle abituali ristrettezze. Mentre si trovava al San Benedetto di Venezia, con un’accolta de' più egregi artisti, quali la Internari, Lombardi, i Venier, Berlaffa, e vedeva ogni sera il teatro rigurgitare di spettatori, andò al San Gio. Grisostomo la Compagnia Toffoloni composta di mediocri artisti, e vi ebbe, naturalmente, la più meschina fortuna. Ma ricorsa all’allestimento di un nuovo lavoro spettacoloso : Vita, delitti e morte del celebre assassino Giuseppe Mastrilli, vinse la curiosità del pubblico, il quale fu tanto colpito dalla novità dell’opera, e sopr'a tutto dal valore artistico del Gallina, che ne sosteneva il protagonista, che per ben venti sere affollò il teatro, lasciando deserto il San Benedetto. Immagini ognuno la sorpresa e la bile del grande artista ! Come fare ? Egli annunziò subito la goldoniana Bottega del Caffè, {p. 651}commedia di sicura attrattiva, specialmente a Venezia e recitata dal Vestri, sperando di scuoter di nuovo l’apatia del pubblico per la sana commedia e l’arte sana : triste delusione ! Il teatro non contò quella sera oltre cinquanta spettatori. Egli allora si tolse la parrucca, si mise il cappello, si buttò sulle spalle un mantello, e si recò in platea, dove, ordinato all’orchestra di cessare dai suoni, cominciò a dire : « Grazie anzitutto, o Signori, della vostra fedeltà ; ma io desidero che non restiate qui ad annojarvi in questa specie di deserto ; e in cambio della Bottega del Caffè, vi do una sala della Trattoria del Selvatico, dove dividerete con me una modesta cena che ardisco di offerirvi. Naturalmente, io e i miei siam pronti a recitare ; e non avete che a fare un cenno, secondo il vostro diritto, perchè io corra a dare gli ordini. » Prima un silenzio glaciale, poi uno scoppio di risa accolse lo strano invito ; ancora qualche parola del Vestri, ancora qualche titubanza del pubblico ad accettare. Ma, in conclusione, la recita non ebbe luogo, e di lì a due ore, parte degli spettatori si recò davvero al Selvatico, ove trovò imbandita una sontuosa mensa con gran dovizia di cibi e di bevande, rallegrati dai motti di spirito e dall’umor gajo e giocondo dell’anfitrione.

Anche dell’arte sua incomparabile abbiam testimonianze grandissime, di cui metterò qui alcune delle più chiare e men sospette di poca sincerità.

Di Niccolò Tommasèo :

Luigi Vestri rifaceva ripetendo, eseguendo creava. Dolce e chiara favella, viso trasmutabile per ogni guisa d’affetto, l’ingegno non digiuno di lettere, onesto il sentimento. Volgeva le chiavi del riso e del pianto ; della vita sentiva il duplice aspetto, e lo ritraeva con libera agevolezza, per quasi innata facoltà. Erano in quella persona l’arte consumata e la schietta natura in mirabile modo più che unite, miste. All’udirlo, la moltitudine si commoveva di allegria e di pietà, l’artista rimaneva pensoso ammirando. Con un cenno ei rendeva un carattere ; con una modulazione di voce avvivava una scena.

Di Felice Scifoni :

A vederlo, pareva che la natura lo avesse creato non ad altro che al genere comico : era pingue della persona, aveva il ventre sporgente innanzi ; alto però quanto si conveniva, non notavi nelle sue membra alcuna increscevole sproporzione. Piacevole fisonomia ; negli occhi, nelle labbra e nella fronte, potenza di esprimere le più interne {p. 652}commozioni dell’animo, senza stento nella severità o nella tenerezza, senza sconcezze nel ridicolo ; sì che più volte non proferendo parola, non movendo mano, seppe con un solo sguardo scuoter la moltitudine attonita, atterrirla o rallegrarla secondo che dimandassero le trattate passioni. Da quel punto ch'egli entrava sulla scena fino a che non ne fosse uscito, era tutto immedesimato nel personaggio che prendeva a rappresentare : nè v' era imprevista circostanza che mai potesse farlo uscire dalla qualità ch' ei vestiva : non lo vedevi dardeggiare gli sguardi nei palchi o nella platea, mentre l’altro attore ch'era in scena con lui favellava ; non ammiccare al suggeritore ; non mendicar le parole ; non distrarsi insomma in quelle cose, da cui anche gl’ infimi tra' nostri comici sarebbe ormai tempo cessassero, perchè non addimandano sublimità d’ingegno, ma solo diligenza nei proprj doveri, amore dell’ arte che professano, rispetto verso quel tremendissimo giudice innanzi a cui stanno.

La sua voce era chiara, aggradevole, risonante ; se non che nelle più alte commozioni degli affetti forse con troppa forza tuonava ; ma altri che il Vestri avria potuto in quel punto rattenere la foga delle passioni, egli non già, che troppo sentiva altamente. Nel pronunziar delle sue parole udivi tutta la gentilezza del favellare toscano, ma vi trovavi, dallo studio e dal continuo correre per l’Italia, rimosso ogni senso di aspirazione. Ogni personaggio, per quanto fosse di poca importanza nel dramma, diventava nelle sue mani importantissimo, ed ebbe in ciò una rara potenza creatrice, perchè appunto il suo recitare non era di sole parole, ma scrutando con sottilissimo accorgimento e filosofia nel costume che l’autore aveva espresso nel personaggio ch' ei prendeva a rappresentare, ogni volger di occhio, ogni movenza della persona informavasi da quello….

Di Luigi Carrer :

Potrebbe chiamarsi quasi la mostra del gusto predominante in un popolo, secondo ch' egli si studia maggiormente piacere per via della serietà, o dello scherzo, potentissimo com’egli è in doppia prova. Mirabilmente attemprandosi ai diversi caratteri che rappresenta, non mai sveste certa aria sua naturale che può dirsi il tuono fondamentale d’ogni sua musica. A molti parrà questo difetto ; a me sembra l’indizio più sicuro e palese del genio, che modifica una parte di sè, giusta i diversi soggetti che tratta, ma serba intatta una parte per farsi conoscere nella sua essenza, che mai non muta. Però non manca chi il dice monotono in alcuni suoi lazzi e movenze : pur v'è chi risponde esservi in lui la stessa monotonia che nella natura. Se in generale fosse men nobile ne' suoi portamenti, le genti, avvezzate al peggio, mal saprebbero rimproverargli le alcune volte ch' ei rinnega sè stesso per seguire il mal vezzo degli' istrioni dozzinali : e ciò, perchè non si dica soverchiamente sfoggiato il mio panegirico.

Ma il Carrer dettava queste parole, quando il Vestri era ancora a Napoli col Fabbrichesi : e lo Scifoni, accennando al difetto, quando l’artista era in Compagnia Reale Sarda, così conclude :

Notavano in esso gli intelligenti che alcuna volta, troppo compiacente all’ uditorio, nel rappresentare le parti comiche scendeva alquanto dalla sua dignità, abbandonandosi a certe facezie che poco si convenivano. Erano queste a dir vero come lampi che rompono il tranquillo sereno di una notte estiva, ma pure spiacevano in un artista che aveva ingegno e forza da correggere in questa parte il mal gusto popolare. Or dunque il Vestri {p. 653}aveva anche tolto da sè quella menda, facendo come Goldoni, che prima blandì l’universale per farsene signore, e poi, quando lo potè trarre a voglia sua, lo indirissò pel retto cammino.

A cotesto difetto, per altro, dello strafare accenna anche Francesco Righetti (op. cit.), proprio al tempo in cui il Vestri era nella Compagnia Reale Sarda, accusandone piuttosto il pubblico che l’artista ; ma poi, dopo di aver detto che Vestri sa commovere il cuore quando la circostanza d'una scena patetica lo esige, conclude : nessun altro attore in Italia, al pari di lui ha saputo destare tanto diletto nelle parti ridicole, e cattivarsi l’aura popolare.

Nè men larghi di lode al genio dell’artista furono gli stranieri. Il Byron nel suo diario, alla data del 6 gennaio 1821, a Ravenna, scrive :

Parlato col conte Pietro Guiccioli del comico italiano Vestri, che è ora a Roma. L'ho veduto spesso recitare a Venezia. Un assai buon attore : un po' manierato, ma eccellente nell’alta commedia, come nel sentimentale patetico. Egli mi ha fatto spesso ridere e piangere : effetti non facili entrambi da prodursi ora sul mio animo, almeno da un commediante.

Il Platen, alla data del 15 ottobre 1824, a Venezia (Viaggio in Italia), scrive :

In S. Benedetto oggi si è data una commedia di Goldoni : Il Burbero benefico, degna almeno di essere ascoltata. Vestri che faceva il Burbero è un attore che non ha il suo simile. Egli non può mostrarsi senza essere subito applaudito. Oggi egli fu chiamato fuori al secondo atto. Venne, si allontanò di nuovo, ma il pubblico non era ancora contento, ed egli dovette venir fuori un’altra volta.

Al degna almeno di essere ascoltata del Platen, va attribuito un significato in contrapposto alle produzioni straniere e italiane inascoltabili, ond’ eran invasi i nostri teatri. Al principio del diario di Venezia (24 settembre) egli dice infatti :

Abbiamo finalmente da otto giorni qui una Compagnia che recita al teatro S. Benedetto di proprietà della famiglia Gallo. La Compagnia Fabbrichesi è reputata la migliore in Italia, e infatti essa ha un pajo di artisti – De Marini e Vestri – che nel loro genere non lascian nulla a desiderare ; ma delle commedie che furon date finora una fu sempre peggio dell’altra…. Sempre gli stessi intrighi : è in tutte una scena di riconoscimento, un figlio perduto, ecc. Sarebbe una fortuna straordinaria vedere almeno una commedia di Goldoni e ne' costumi del paese ; poichè i lavori dati finora eran tedeschi, olandesi o inglesi.

Nella vastità e varietà del suo repertorio eran da notarsi, come quelle che gli avevan data maggior fama, le opere {p. 654}seguenti : La Restituzione, commedia in 5 atti di ignoto tedesco, tradotta liberamente da Filippo Casari, e rappresentata al Giglio di Lucca il 12 giugno del’ 26 per beneficiata della caratteristica Francesca Fabbrichesi ; Il Berretto nero del barone Gio. Carlo Cosenza ; L'Odio ereditario pur di Cosenza ; Dev'esser uno e sono quattro, traduzione di Filippo Casari ; Gli Eredi della WaisenThurn del Teatro Imperiale di Vienna ; Il Benefattore e l’ Orfana di Nota ; Il Medico e la Morte ; La Bottega del Caffè di Goldoni ; La Serva amorosa di Goldoni ; Filippo di Scribe ; Malvina di Scribe ; La famiglia Riquebourg di Scribe ; La Leggitrice e il Cieco ; Don Desiderio del Giraud ; Il Poeta fanatico di Goldoni.

Fra le tante carte del Vestri che io posseggo è anche l’inventario dei mobili esistenti nell’alloggio ch'egli occupava a Torino, e che vendè a Samuel Levi e C. per 1500 franchi, quando abbandonò la Compagnia Reale Sarda. I mobili dovevano essere consegnati entro i primi di marzo del 1841, e la nota in cima all’inventario porta colla firma di Luigi Vestri, la data de' 10 agosto 1840 : un anno prima della sua morte.

Curiose erano anche le sue più vecchie scritture teatrali. Io ho quella di Luigi Forti colla data del 22 gennajo 1822, tutta riempita di mano del Vestri e da lui firmata. Consta di quattro articoli brevissimi, e comprende una paginetta e mezzo di stampa a grossi caratteri.

Delle sue tante lettere riferisco in fac-simile, ma un po' rimpicciolita, questa, indirizzata all’impresario Pietro Somigli, in cui è accennato al come si trovasse male nella Real Compagnia di Torino : alla quale si riferisce un’altra a Domenico Righetti da Torino, senza data, in cui risponde negativamente alla domanda di lui di voler conoscere il motivo della sua partenza dalla Compagnia, e conclude : « Ciò che ora mi ha determinato si è di tal peso che niuna cosa potrebbe rimuovermi, ed il maggior dispiacere lo forma il non potertene ora manifestare il motivo. »

Recitando egli nel R. Teatro del Giglio in Lucca nella primavera dell’anno 1826, gli ammiratori del suo merito gli {p. 656}offerirono il seguente sonetto, la sera di sua beneficiata, che fu il 10 di giugno :

Grecia favoleggiò che in forme cento
Proteo cangiasse ognor modi e sembiante ;
ma sol oggi Tu avveri un tal portento
vantato a lungo, e non mai visto innante.
Che se destar vuoi'l riso, e s’ hai talento
che in pianto sciolga il popol circostante,
il clamor cessa, ed il represso a stento
singulto a contener non è bastante.
Ebbe i suoi ludi, è ver, Roma ed Atene,
ma di motti scurrili, ed immodesti
lazzi contaminâr le patrie scene.
Non così Tu, che a senno tuo sapesti
ciò che lice imitar, ciò che sconviene
a' detti arguti, ed a' giocosi gesti.

Vestri Gaetano. Figlio del precedente, nacque a Milano il 25 dicembre 1825, nella Locanda della Commenda, la sera in cui la Compagnia Fabbrichesi recitava al Carcano L'Ajo nell’ imbarazzo, di cui era protagonista il padre Luigi. Alzatosi, dopo l’intermezzo del secondo atto il sipario, i comici s’accorsero che mancava l’Ajo. Di qui nacquero mormorii vieppiù crescenti, chè il pubblico non sapeva rendersi conto di quello sconcio di scene vuote, mai accaduto. L'Ajo era fuggito alla Commenda ad abbracciare il primogenito maschio, e quando ricomparve sulla scena, il pubblico, messo a parte omai dell’avvenimento, lo accolse con tale scoppio di applausi che fece piangere di consolazione il fortunato padre. Gaetano fu allevato a Desio vicino a Milano, poi nel Collegio Boselli, il miglior convitto di Lombardia, d’onde a dieci anni uscì, compiuti i suoi primi studi d’italiano e tedesco, per entrare, dopo un anno di preparazione al latino nella Scuola privata Gay, nel Collegio vescovile di Castiglion Fiorentino, all’intento di farvi il corso di filosofia. Il padre lo aveva destinato all’avvocatura, sebbene egli {p. 657}inclinasse più alla medicina : ma ossequente all’autorità paterna, era già per recarsi all’Università di Firenze, quando quegli morì. Abbandonati allora gli studj sì di medicina, sì legali, Gaetano, padrone omai di sè, vinto dal fascino che avevan sempre esercitato su di lui le glorie teatrali del padre, si fece comico, esordendo con Luigi Domeniconi al Teatro Rossini di Livorno, e mostrando subito le più chiare attitudini alla scena, le quali poi sviluppò con gran successo al fianco di Gustavo Modena, che gli fu capocomico e maestro affezionato.

Acquistatosi una bella rinomanza, si unì in società con Luigi e Antonietta Robotti, di cui sposò nel 1851 la figlia Luigia, {p. 658}prima attrice giovine. Ma ragioni d’interesse lo tolsero dopo varj anni dai suoceri per fare una società con Antonio Feoli, che sortì esito disastroso, sì ch'egli ritornò attore scritturato nella nuova Compagnia di Luigi Bellotti-Bon, dove, ahimè ! poco di poi cominciò a dar segni manifesti di alienazione mentale. Bello della persona, di fisonomia espressiva, di conversare piacevolissimo, di coltura non comune, di mente svegliata, egli andò perdendo a gradi ogni conoscenza : e in volger di pochi anni, ridotto dal male al completo ebetismo, cessò di vivere in Torino il 1862. Racconta l’attore Mazzocca nelle sue Memorie (Milano, Pulzato, 1904), che « solo negli ultimi mesi del 1858, agli indubbi segni di dissoluzione che in lui si manifestavano, si prevedeva la sventura. Tetro, taciturno, irrequieto, talvolta irascibile, seduto presso la buca del suggeritore, posto riservato al direttore, non dirigeva più perchè non poteva. Spesso era preso da una cattiva sonnolenza e appariva come ebete. Un giorno egli stesso confessò che si sentiva quasi un vuoto nel cervello e non gli riusciva d’imparare una parte nuova. » La testa di Gaetano Vestri era enorme. Sin dall’infanzia gli amici di Luigi solevano dire che suo figlio sarebbe divenuto o un grande ingegno, o un grande zuccone : frase ch'egli andava poi spesso ripetendo, ma pare che da giovine Gaetano desse molto filo da torcere al povero padre che non sapeva come porre un rimedio alle scelleratezze di lui (vedi al nome di Luigi la lettera autografa), nelle quali forse era il germe dell’esquilibrio mentale. A proposito della testa smisurata di Vestri, lo stesso Mazzocca racconta che egli « si divertiva talvolta a entrare in un negozio di cappelli, e provarne un gran numero, senza mai trovare quello che facesse al caso suo. »

Pochi particolari si hanno del valor suo artistico, ma per comune consentimento egli fu ritenuto come quello de'figli che più si accostasse all’arte prodigiosa e spontanea del padre. Enrico De Amici annovera, fra le opere da lui meglio interpetrate : La Bottega del Caffè e Michele Perrin ; Giuseppe Mazzocca vi aggiunge Filippo Maria Visconti, Carlo Magno nei {p. 659}Poveri di Parigi, Zaccar, Il povero Giacomo, Papà Martin, Sior Todero Brontolon, il Padre nella Prosa, Carnioli nella Dalila.

Vestri Luigia. Moglie del precedente, e figlia di Luigi e Antonietta Robotti, cominciò a recitare nella Compagnia reale sarda coi parenti, poi in quella ch'egli avea formata in società con suo padre. Da questa passò poi, sempre col marito, in Compagnia Feoli e in quella di Bellotti-Bon, nella quale cominciarono i primi sintomi del male che dovean condurlo alla tomba. Morto il Vestri, ella fu qualche mese in Compagnia di Luigi Bonazzi, poi sette anni in quella Trivelli. Fu il '66 a Napoli con la Sadowski e Majeroni, e il '68 con Zoppetti e Vitaliani, dai quali si sciolse per passare a seconde nozze col dottor Icilio Polese-Santarnecchi, direttore del giornale L'Arte Drammatica di Milano.

Il '70, sollecitata dall’ agente Eugenio Lombardi, andò a sostituir la moglie di Alamanno Morelli, e con quell’anno chiuse per sempre la sua carriera artistica.

Vestri-Marsoni Laura. Figlia dei precedenti, cresciuta sulle tavole del palcoscenico, entrò a far parte della prima Compagnia di Novelli dopo uscito dalla Compagnia Nazionale, per parti di giovine : ma da lui consigliata, poco oltre i vent’anni mise la parrucca della madre, per seguire la tradizione di famiglia, in cui nonno e padre s’eran fatti celebri colle parti caratteristiche. Recitò in dialetto veneziano sotto la direzione di Giacinto Gallina ; poscia in milanese ; e oggi (1904) trovasi da cinque anni con la Compagnia Gramatica, Talli e Calabresi. – La Vestri, vera faccia di caratterista, è un attrice modesta, la quale, per la serena semplicità del suo dire, meriterebbe maggior attenzione.

{p. 660}Vestri Pietro. Fratello di Gaetano, nato a Padova il 12 agosto 1827, fu condotto a cinque anni a Torino, ove stette fino al '40. A Parma il padre gli ottenne il posto di allievo nel Collegio militare, che gli fu serbato gratuito dall’Arciduchessa Maria Luigia dopo la morte del padre. Del '45 fu soldato nel secondo Cacciatori, e compiuto il biennio d’obbligo, si unì a sua madre e a sua sorella Anna, venute a Parma a recitare in quel teatro ducale. Entrò poi per intercessione del fratello Gaetano nella Compagnia lombarda di Alamanno Morelli, in cui restò fino al '53. Il 30 settembre '54 sposò a Milano la signorina Luisa Biagini, e passò in Compagnia Robotti, da cui si tolse, quando ne uscì la celebrata Antonietta. A voler mettere qui tutte fino a oggi le compagnia, in cui pellegrinò con varia fortuna e con vario ufficio, troppo ci vorrebbe. Basti ch'egli pervenne, onestamente modesto e rassegnato, ai settantadue anni, dopo i quali, soccorso con amore dalle figliuole Gilda e Anna, andò a stabilirsi a Bologna, ov'è tuttavia (1904).

Vestri Angelo. Fratello del precedente, nacque a Firenze il 30 settembre del 1828. A soli quindici anni si trovò con Gustavo Modena, poi con Augusto Bon in Compagnia Lombarda, poi brillante ai Fiorentini di Napoli al fianco di Alberti, Taddei, Majeroni, Salvini, la Sadowski, la Cazzola, in mezzo ai quali cominciò ad acquistarsi la più bella rinomanza artistica : e si noti che Angelo Vestri, entrato in quella Compagnia il '47, obbligandosi « di agirvi in carattere di generico e in tutte quelle parti di primo e secondo carattere, brillante, amoroso che gli verranno dal direttore della Impresa assegnate, con l’annuo compenso di lire austriache duemilaseicento, pari a ducati del Regno cinquecentoventi, e di una mezza serata in appalto come d’uso in Napoli, » arrivò a pena, dopo quattordici anni, nei quali era {p. 661}diventato il beniamino del pubblico, a ricevere uno stipendio di settanta ducati al mese, che è oggi a un dipresso quello di un generico. Uscito dai Fiorentini il '61, si scritturò con Alamanno Morelli, tornando poi a Napoli il '64 al Teatro del Fondo con Achille Majeroni con cui stette sino al '67. Dal '67 al '70 fu capocomico, e il '71 tornò con l’Alberti ai Fiorentini in qualità, 'sta volta, di caratterista. Passò ancora per alcuni anni di compagnia in compagnia, finchè fu scritturato assieme al Novelli nella Compagnia Nazionale, dove stette un triennio, per passar poscia in quella di Giovanni Battista Marini. La sera del 12 di gennajo 1889 si doveva rappresentare al Manzoni di Milano La Locandiera di Goldoni, in cui egli era sommo sotto le spoglie del Marchese di Forlimpopoli, continuando la tradizione gloriosa de'suoi grandi predecessori. Al momento di alzar la tela, uscì di camerino per entrar sul palcoscenico, quando, tutt’ a un tratto, mandò un grido, e stramazzò a terra, come fulminato.

Trasportato a braccia su di una poltrona a casa sua, non discosta dal teatro, in quell’abito goldoniano, con quel viso truccato, angoscioso contrasto con la inerzia mortale del povero corpo, visse ancora per una settimana una vita di morte, e circondato dall’affettuosa moglie e da tutti i compagni, si spense la domenica sera 20 gennajo alle 11, 25.

I funerali civili ne furono solenni : ogni compagnia mandò fiori e rappresentanti ; e al cimitero Antonio Salsilli diè l’estremo saluto al povero estinto.

Angelo Vestri fu il solo destinato dal padre alla scena. E infatti egli ebbe le più chiare qualità per ben riuscirvi : ingegno pronto, recitazione spontanea, vera, misurata ; fisionomia {p. 662}mobile ed espressiva : amore e propositi seri per l’arte altissima, profonda.

Vestri-Michelli Annetta, moglie del precedente, nata nel villaggio di Ajello presso Palmanova l’8 marzo 1840 da Nicolò Michelli e Anna Lamerz, e cresciuta, si può dire, in un ambiente drammatico (il patrigno nobile Carlo del Torso udinese era presidente del Teatro di Palmanova), ebbe fin da giovinetta il più grande trasporto alla scena, in cui fece non dubbie prove di buona riuscita coi dilettanti del paese. Recatasi col patrigno a Milano, all’insaputa della madre, che pei soliti vecchi pregiudizj era avversa alle inclinazioni della figlia, entrò nell’Accademia de' Filodrammatici, diretta allora dal Morelli, ed esordì il '55-'56 nella Compagnia di Adelaide Ristori, in cui stette oltre due anni, come generica, amorosa, seconda donna, servetta, e talvolta anche, nonostante la tenera età, madre o nutrice. Andò poi il '59 e '60 seconda donna in Compagnia Domeniconi a fianco della Cazzola, sposando al principio del '61 Angelo Vestri e passando ai Fiorentini di Napoli nella Compagnia di A. Alberti. Fu il '62 e '63 prima attrice in quella di Alamanno Morelli con l’Adelaide Tessero prima attrice giovine, il '64-'66 al Fondo di Napoli con Majeroni, il '67-'69 nella Compagnia di suo marito in società con Pezzana, il '70 in altra in società con Majeroni Edoardo {p. 663}e Rescalli, il '71 di nuovo a Napoli, passata al ruolo di prima donna di spalla, seconda donna e madre, il '74 ancora prima attrice con Bozzo, il '76 con Giovagnoli, e il '77 a Parigi con Salvini al posto di Amalia Checchi ivi morta. Passò a far le madri, il '78, con Paladini, Andò e Vestri ; il '79 con Pietriboni, ov' io l’ebbi ottima compagna, l’ '80 in Compagnia sociale di suo marito, e l’ '81 e l’ '82 con Emanuel. Entrato poi il Vestri nella Compagnia Nazionale, dove non era alcun posto per lei, non volendo ella creare ostacoli alla scrittura del marito, si ritirò dalle scene, e, dopo la morte di lui, a Bologna, traendo meschinamente la vita. Ma vinto il concorso alla cattedra di declamazione nel Liceo musicale di Pesaro, quivi ormai si è stabilita, paga della vita di pace che s’è venuta creando col suo ingegno e colla sua bontà.

Vestri Leopoldo. Ultimo dei fratelli Vestri, nacque a Brescia il 1832. Fu col fratello Pietro a Parma nel Collegio di Maria Luigia, d’onde levato ancor giovine, visse alcun tempo colla madre, recitando piccole parti di paggio, di amorino, di ragazzo, con Pisenti e Solmi, la Ristori, ecc. Trovandosi fermo a Firenze con la madre, a spasso, gli venne fatto di conoscere Giovanni Chiarini celebre conduttore di una compagnia di pantomimi, e fu da lui scritturato con due svanziche alla settimana per ogni specie di parti, dopo di avere esordito con ottimo successo in quella di vecchia mugnaia nei Mulinari. In breve doventò uno de' capisaldi della Compagnia, alternando le parti mimiche con le forze alla colonna d’Alcide, i balletti di carattere, le maschere di Pierrot e Arlecchino. Dopo due anni di quella vita travagliosa, il fratello Gaetano lo volle con sè, e gli affidò le parti di {p. 664}amoroso, da cui per decisa inettitudine lo tolse subito per passarlo alle comiche mamo e secondo brillante ; e tanto Leopoldo in quelle si distinse, che dopo sei anni fu elevato al grado di primo brillante assoluto nella Compagnia di Zamarini e Carlo Romagnoli, in cui esordì con molto successo il 1860 al Paganini di Genova. Fu poi con Elena Tiozzo, con Trivelli, con Ernesto Rossi, col quale fu in America, e salì in bella rinomanza, che non si attenuò mai per la sua gran dovizia di comicità schietta e spontanea. Fu primo a rappresentar le parodie musicali di Roberto il diavolo, Ruy-Blas, Aida, Ballo in Maschera, ecc., nelle quali, io ben ricordo, faceva smascellar dalle risa. Troppo sarebbe noverar le compagnie in cui egli militò : basti citar quelle di Andò, delle sorelle Vestri, della Pezzana, di Morelli, di Achille Dondini, di Bonazzi, di Dominici, di Diligenti. Sposò a Piacenza nel 1863 la figlia di un avvocato, Ameli, da cui non ebbe figliuoli, ma, in compenso, grandissimo amore. Oggi egli è passato al ruolo de' caratteristi, senza che, a oltre settant’anni, si senta fievolite le forze fisiche e dell’intelletto.

Con Leopoldo Vestri, attore pregiato quanto modesto, appartenente a quella schiera omai perduta di brillanti, che suscitando le più schiette risate rifaceva il sangue, finisce degnamente la storia dell’antica famiglia.

Vestri Anna. (V. Antinori Amilcare).

Vidari-Griffoni Amalia. Il Pezzoli e il Colomberti la dicono napolitana ; il Regli nata a Vicenza : certo ella nacque figlia dell’arte (forse a Vicenza da parenti napolitani), e dopo di aver recitato in compagnie d’ultimo ordine, fu sposata ancor giovinetta a Giuseppe Vidari, attore della primaria Compagnia. Goldoni, in cui fu accolta generica giovine, e restò dodici anni, assurgendo, mercè gl’insegnamenti di Gaetana Goldoni, al grado di prima donna, dopo la scelta di lei, e di prima attrice giovine assoluta. Passò il 1815 col Granara prima attrice assoluta, poi {p. 665}con Giacomo Modena, poi con Francesco Lombardi, e finalmente si mise col marito alla testa di una buona Compagnia che durò molti anni con gran favore. Ella rivaleggiò con le maggiori artiste del suo tempo : a niuna seconda in nessun genere di parte, le superò tutte nella commedia, in cui, dice il Regli, era una potenza ; e aggiunge che : « Pamela nubile, Zelinda e Lindoro non ebbero più mai un’interpetre così fedele e così perfetta. »

Ritiratasi dall’arte, andò a recitar co' filodrammatici a Vicenza, dove, a soli cinquantun’ anni trovò la più tragica fine. « Afflitta da molte sventure di famiglia, angosciata di cuore e alterata di mente, uscì di casa una mattina senza dire ove {p. 666}andasse, nè mai più fu veduta…. Si suppone ch' ella siasi gettata nelle onde del Bacchiglione, fiume che bagna Vicenza. » (Così il Regli).

Iacopo Crescini le dedicò nella Galleria dé più rinomati attori drammatici italiani questo

SONETTO

Ti udiva, o Donna, e si pendeva attento,
e mi stemprava di dolcezza tanto,
de' tuoi labri amorosi al caro accento
nell’arte di cui tieni il primo vanto,
che ancor rapita in estasi mi sento
l’alma non sazia del gradito incanto,
ancor dagli occhi, se'l tuo duol rammento,
involontario mi discorre il pianto.
Dammi, o Amalia, una lagrima di quelle
che dal ciglio ti piovono qualora
accusi a' mali tuoi sorde le stelle !
Chè per tal dono, onde in pensier mi beo,
i' sarei pago, aver dovessi ancora
la sorte di Comingio e di Romeo.

Il marito della Vidari era un impenitente beone, e Francesco Regli riferisce l’aneddoto che una sera a Milano, scordatosi dopo una buona bevuta di dover recitare, andò a teatro assai tardi ; ed entrato in camerino, cominciò a svestirsi. E quando un compagno gli disse che la recita era sul finire, e ch' egli aveva ripiegata la sua parte, il Vidari trasse di tasca il borsello, vi diè dentro un’occhiata, e tornò pacifico all’osteria.

Vidini Pietro. (V. Marchesini Antonio).

Vidini Maddalena. Moglie, forse, del precedente, fu artista di grandissimo pregio : e la vediamo onorata di applausi a Padova il carnovale 1747 quand’era con Onofrio Paganini, il quale per la bella interpetrazione del personaggio di Armellinda nel Rinaldo di Carlo Goldoni, le dedicò il seguente

{p. 667}SONETTO

Benchè a lui che la Gallia e il mondo onora
svelar non osi il concepito affetto
per il zelo d’onor, che nutre in petto,
tacita amante il gran Rinaldo adora ;
pur nel silenzio istesso è bella ancora,
e dimostra l’ardor nel cor ristretto.
Pietà desta in altrui, gioja e diletto,
e quanto tace più tanto innamora.
Tenti Florante ogni lusinga e frode,
per oscurar della gran Donna il nome,
che ancor cattiva ha la sua gloria a core.
L'Eroe difende, e con vergogna e orrore
de' perfidi German trionfa, e gode
aver lor forze indebolite e dome.

Andò poi a recitar nelle Compagnie di Venezia, acclamatissima, e morì a Genova la primavera del 1761.

Vieri Marcello, senese. Fu prima nella Compagnia di Nicodemo Manni in Lombardia e in altre provincie d’Italia, applauditissimo nel carattere brillante di francese italianato, di cui fu inventore il Canzachi (V.), ma che il Vieri, fiorito assai tempo dopo, rinnovò senza l’esempio di alcuno. Recitò anche applaudito in parti di innamorato, e fu abbastanza noto come ritrattista. Viveva ancora fuor dell’arte nel 1781.

Vigliani Oretta. Benedetto Croce (Teatri di Napoli, pag. 141) riferisce dalle Poesie del signor Bartolo Partivalla (Napoli, per Honofrio Savio MDCLI) il seguente sonetto :

Alla Signora Horetta Vigliani comica famosissima

Mille avvien che in te vegga e ch'in te miri
e prede e furti, ond’ogni cor ti cole,
qualora in me tra lascivette fole,
i lumi soavissimi tu giri.
{p. 668}Non bastavano i lucidi zaffiri,
ch'anco volasti in su l’eterea mole
l’oro d’un crine ad usurpar del sole,
l’arco d’un ciglio ad involar de l’Iri.
Era a te poco impoverir gradita
un vastissimo mar, che il nome ancora
da l’Hore stesse a depredar se' gita.
Felice, o me, se pria che in tutto io mora,
mi sarà dato, anzi il partir di vita,
un momento goder di sì bell’ Hora !

Vilfranchi Barbara. Figlia di Antonio Romagnoli (V.), fu artista di grandissimo pregio, e le Varietà teatrali la citano, quand’era il 1821 madre nobile e caratteristica in Compagnia Job, come la più brava attrice della Compagnia. Forse la moglie di Velfranch Luigi, che il Colomberti cita come buon primo attore e capocomico secondario, fiorito verso il 1800 ?

Villani Felice. « Bolognese. Recita (1781) nella maschera dell’arlecchino con qualche spirito ; travagliando altresì ne'caratteri caricati con buona grazia. Fu in alcune vaganti compagnie, ed oggi ha fermata la sua dimora in quella, che scorre l’Italia sotto la direzione di Pietro Ferrari. » Così Fr. Bartoli. Lo vediamo arlecchino il 1795-96 nella Compagnia sociale di Carlo Battaglia, che recitava l’autunno e il carnovale al S. Giovanni Grisostomo di Venezia.

Vinacesi Elisabetta. Quando il comico Zanuzzi fu mandato dalla Compagnia di Parigi in Italia (1775) a provvedere una prima attrice, egli trovò che la più a proposito era la Elisabetta Vinacesi. Il Gozzi si affaticò a provare allo Zanuzzi che la Vinacesi era poca cosa al confronto della Ricci (V.), che era stata con altre in predicato per andare a Parigi ; ma pare invece ch' ella fosse di gran pregio, chè sappiam troppo bene come il Gozzi profondesse lodi alla Ricci in danno di qualsiasi altra, {p. 669}nella speranza di togliersela di torno. Infatti, assicurato che la Ricci non sarebbe in alcun modo partita, dice aver saputo dopo « che la Vinacesi da lui conosciuta giovine di molta abilità, ma di costume riservato, contenta di ciò che guadagnava in Italia, aveva rifiutato a' tumulti di Parigi, e a quelle fortune irregolari che alcune femmine teatrali si promettono in quella metropoli. » In una mia raccolta di elenchi della fine del secolo xviii un Giovanni Vinacesi figura come Pantalone nella Compagnia di Gregorio Cicucci.

Violone. A compimento dell’ articolo sul Chiesa (V.), metto qui l’aneddoto, che l’Ottonelli riferisce nel libro primo, pagina 101, della sua Cristiana Moderazione del Teatro, inteso da Violone stesso, come testimonio oculare, e già riferito dal Beltrame nella sua supplica. Il caso

occorse a Capo d’Orlando, ove da una fortuna di mare sequestrata una Compagnia, trovò che l’albergo era occupato per rispetto dell’arrivo di Monsig. in visita, col quale erano quattro venerabili Religiosi. Il buon Prelato fece stringere la sua Corte e dar luogo ai Comici ; e con parte de' regali presentati a lui sovvenne alla lor poca provvisione. Il tempo con l’asprezza e il mare con la tempesta tolse la facoltà di viaggiare a tutti. I Comici offerirono un poco di ricreazione al Prelato lor benefattore ; egli si compiacque d’accettarla : il primo giorno si fece la comedia così : « Monsig. sedeva avanti la porta d’una camera : i Religiosi venerandi sedevano dentro con la porta non affatto chiusa ; ma che ? A mezzo dell’azione la camera risonava per l’applauso, e la porta era spalancata. Il giorno seguente quei venerandi sedettero fuori ; e il terzo sollecitarono i comici a dar tosto cominciamento. Non v'aggiungo, scrive Beltrame, e non dico il tutto, per esser creduto ; ma certo che molte furon le lodi, che per l’onesto recitare a' Comici diedero quelle saggie Persone : e benedicevano il mal tempo, che aveva loro dato occasione di goder si virtuoso trattenimento. »

Visentini Tommaso Antonio. Nato a Vicenza il 1682, fu il più grande Arlecchino dell’età sua, più noto col nome di Thomassin, che non sappiamo s’egli avesse già prima di recarsi in Francia. Scelto dal Riccoboni per la Compagnia del Reggente, si recò il 1716 a Parigi, ed esordì alla « nuova Commedia italiana » nel teatro del Palais Royal (le riparazioni dell’ Hôtel de Bourgogne non erano ancora compiute) il 18 maggio nell’ Inganno fortunato (l’heureuse surprise), commedia a {p. 670}soggetto in tre atti, che il pubblico trovò assai buona, e in cui erano intercalate alcune scene tratte da altra commedia spagnuola : Visentini vi fu magnifico in quelle del Pittore.

Il vecchio Gueullette in una nota curiosa allo Scenario di Biancolelli, parlando dell’esordire di Tommasino, racconta come i successori del celebre Dominique, il quale aveva una voce ingolata, e somigliante quella di un pappagallo, avessero dovuto imitarlo, chè i francesi mal si sarebbero piegati a sentirne una diversa. E però, non volendo Visentini uscire dal suo metodo di recitazione naturale, pensò Riccoboni di mettere al principio dell’heureuse surprise una delle tante scene di notte che vi sono, in cui Arlecchino, chiamato da Lelio, si finge talmente preso dal sonno che, senza profferir verbo, or scivola a terra, or gli cade fra le braccia. Tommasino suscitò le più schiette ilarità e i più vivi applausi nell’ uditorio ; il quale, sentitolo poi, non ebbe più il coraggio di burlarlo, e gli permise di continuar nel suo tuono naturale di voce. Ma il successo della Compagnia fu effimero, sia per le commedie tutte in italiano, che i francesi non arrivavano a comprendere, sia per la ripresa di quelle francesi d’una volgarità rivoltante, scavate dal repertorio dell’antica Comedia italiana ; e dopo un solo anno, vedendo i comici deserta ogni sera la sala, incaricaron Visentini di presentarsi al pubblico, e riottenere con un bel discorso l’antica benevolenza.

Il Campardon riferisce le parole di lui, tra le quali furono queste :

Due cose vi dispiacciono : i nostri difetti e quelli delle nostre commedie. Per quanto ci concerne, io vi prego di rammentare che noi siamo degli stranieri, ridotti per piacervi a dimenticar noi medesimi. Nuova lingua, nuovo genere di spettacoli, nuovi costumi ! Le nostre commedie originali piacciono ai conoscitori, ma essi non vengono a sentirle. Le signore, senza le quali tutto langue, contente di piacere nel lor linguaggio naturale, nè parlano il nostro, nè lo intendono : come ci amerebbero esse ? E per difficile che sia il liberarsi dell’abito d’infanzia e dell’educazione, il nostro zelo ci sprona, e per poco voi ci mettiate in istato di perseverare, noi diverremo, lo spero, se non attori eccellenti, men ridicoli certo ai vostri occhi, fors’anco sopportabili. Quanto alle nostre commedie, io non ho troppo da invidiare la felicità de' nostri predecessori, che vi han pure attratto e divertito con le scene stesse, che oggi vi tediano, e di cui non potete nè meno sopportar la lettura. Il gusto del pubblico è mutato e perfezionato : perchè non lo è quel degli autori ? {p. 671}Meglio a compiangere degli autori, noi siamo responsabili e di ciò ch' essi ci fan dire, e del come noi lo diciamo. Siateci indulgenti pei nostri sforzi, e li raddoppieremo di giorno in giorno. Proteggendoci, voi vi venite allevando pei nostri figli de' giovini attori, che, nati tra voi, formati al vostro gusto, avran forse un giorno il contento di meritare il vostro applauso. A ogni modo, essi non avran mai per voi maggior zelo e rispetto de' loro parenti.

{p. 672}Parole che, dette da un attore amato e stimato s’ebbero il loro effetto, poichè a poco a poco il teatro italiano ripigliò l’antico vigore.

La sua vita artistica fu delle più brillanti. Agile, di vena comica inesauribile, di verità sorprendente, originale, passava in un attimo ai sentimenti più disparati. Sotto la maschera dell’ Arlecchino egli sapeva strappare le lagrime, glorioso predecessore in questo del non men glorioso Petito (V.).

I fratelli Parfait nel lor Dizionario de' Teatri gli dedican parole di molta lode, riguardandolo come compatriotta, e dicendo ch'egli ha fatto un uguale onore alla Francia e all’Italia, degno veramente di occupar la scena con Silvia (V. Balletti-Benozzi Rosa Giovanna), la sua celebre compagna d’arte.

Ammalatosi di tisi il martedì grasso del 1739, comparve raramente a teatro nell’ultimo tempo di sua vita, come si ha da questa quartina :

Cher Visentini, le parterre
ne te reproche qu’un défaut.
J'ose le dire tout haut,
c’est que tu ne te montres guère.

Fra le lettere del Riccoboni alla Biblioteca dell’Opera di Parigi, ve n’ha una dell’agosto 1739, colla quale prega il Gueullette di andare con lui ad assistere il povero Thomassin Visentini, morente, e soprattutto per indurlo prima della morte a pensare alla sua famiglia.

Avuti l’ 11 di agosto dello stesso anno i Sacramenti, morì mercoledì 19 in via Nuova San Dionigi, e fu sepolto il domani a San Lorenzo, sua Parrocchia, assistito da trenta preti, e alla presenza di Vincenzo e Gioacchino Visentini suoi figli, di Giuseppe Balletti e di Bonaventura Benozzi. L'atto di morte lo dice Ufficiale del Re.

Lo Jal all’articolo Visentini dice : « il avait été appelé d’Italie pour doubler et remplacer Evaristo Gherardi, successeur du second Dominique Biancolelli, fils du célèbre Arlequin aimé {p. 674}et éstimé de Louis XIV. Tommaso Visentini vint en France avec sa femme, Dominica Rusca, qui ne joua point la comédie à Paris, soit parce qu’elle ne s’était point destinée au théatre, soit parce que dans la troupe toutes les places etaient prises. » Confesso di non aver capito nulla. Pour doubler Gherardi, morto nel '700 ? Ma che c’entra Gherardi colla nuova Compagnia del Reggente ? E perchè Dominica Rusca, e non Margherita ? E perchè quei due soit a proposito della sua non apparita sulla scena italiana di Parigi, mentre si sa ch' ella vi recitò le parti di serva sotto il nome di Violetta ?

Visentini-Rusca Margherita. Figlia di un muratore di Venezia – dice Gueullette. – Nata a Bologna – dice la prefazione del Nuovo Teatro italiano (Parigi, 1753). – Moglie del precedente, recitava le serve sotto il nome di Violetta, e andò col marito, e collo stesso ruolo, alla Comedia italiana di Parigi il 1716. Essa era, quel che si dice, una gran buona donna : non forte attrice, ma non mai spiacente al pubblico. Morì a {p. 675}quarant’anni il 28 febbrajo del 1731, dopo di aver lasciato il teatro ; e fu sepolta l’indomani a San Lorenzo, sua Parrocchia. L'iconografia del teatro italiano non ci ha dato che questa immagine di Violetta, che tolgo dalla mia raccolta. (Suite Herisset).

Visentini Caterina Antonietta. Figlia dei precedenti, nata a Venezia e battezzata il 1° dicembre 1711 nella Chiesa di San Moisè, non lungi dalla Piazza di San Marco, esordì bambina il 1719 come il fratello Francesco nella scena aggiunta dell’ Arlequin Pluton di Gueullette sotto le vesti di piccola Arlecchina. Apparve poi veramente come attrice il '26, in qualità di amorosa a vicenda colla Balletti Silvia, passando poscia al ruolo di servetta nelle commedie francesi. Sposò il 30 luglio '42 l’attore della Comedia italiana, Dehesse (il suo vero nome, dice una nota manoscritta del Gueullette, era Hesse), olandese, figlio di francesi, dopo cinque anni almeno di contrasti penosi, cagionati da certa Maria Maddalena Hamon, la quale, vissuta lungo tempo con lui, e presentata a più persone come sua moglie, pretendendone i diritti legali, si opponeva al matrimonio.

Sul valore artistico di Caterina Dehesse, morta il 5 agosto del 1774, abbiamo la seguente quartina di un anonimo :

Fille et femme de grands acteurs,
Dehesse, qui dès son bas àge
du public obtint le suffrage,
charme toujours les spectateurs.
(V. Veronese Cammilla).

Visentini Francesco. Fratello della precedente, aveva poco più di un anno, quando fu condotto il 1716 a Parigi, e comparve alla Comedia italiana il 19 gennajo 1719 con l’abito di Arlecchino in una scena aggiunta alla commedia di Gueullette, Arlequin Pluton, pubblicata soltanto il 1879 dallo Jouaust a Parigi.

Morì il 19 aprile 1729 (rue du Renard), e fu sepolto l’indomani al San Salvatore.

{p. 676}Visentini Giovan Vincenzo. Fratello del precedente, nato il 1717 a Parigi (Campardon mette erroneamente 1707). Si chiamò in teatro Thomassin come suo padre, ed esordì mercoledì 19 novembre 1732 alla Comedia italiana colla parte principale di Bajocco nella parodia del Joueur, intermezzo italiano. Il 5 dicembre dello stesso anno apparve una seconda volta colla parte di Maître à chanter nella commedia di Boissy, intitolata Je ne sais quoi, e tutt’ e due le sere mostrò una finezza d’interpetrazione superiore alla sua età. Fu ricevuto poco dopo attore effettivo della Compagnia, per la vicenda col padre ; ma non vi son traccie della sua comparsa come Arlecchino ; bensì di quella come Pulcinella, la quale fu delle più fortunate ; e il Mercurio di Francia del dicembre 1732 trova in lui molto talento pel teatro, e, a perfezionarsi, lo consiglia di studiare e imitar suo padre che ha il potere di afferrare il pubblico al suo primo apparir su la scena.

Sposò Maria Agnese Siméon, che esordì alla Comedia italiana il 31 agosto 1752, e si ritirò dal teatro, alla chiusura 3 aprile del '55. Il 4 settembre seguente fu data a suo beneficio una rappresentazione, che ebbe grande successo, con La Servante maîtresse di Baurans, musica di Pergolese, La Fête de l’ amour di M.me Favart, e tre intermedi, l’ultimo dei quali, Les Villageois, era stato composto dal Dehesse.

Gian Vincenzo Visentini non fu, pare, di una condotta specchiata. Un documento del 3 luglio 1749 reca l’accusa della sua domestica Elisabetta Deniset di averla con ogni specie di carezze e promesse e tentazioni violata e incinta, e la domanda di un rifacimento di danni e interessi ; con un altro del 22 giugno 1741, il Duca di Gesvres, Governatore di Francia, gli ordina di costituirsi immediatamente prigioniero a For-l’Evêque per aver liticato colla moglie tra le quinte, cagionando un certo scandalo. Un terzo infine ci apprende come egli usasse alzare il gomito, entrando in tale stato di aberrazione da compiere inconsciente anche un delitto. Infatti il 20 maggio del '52, alle nove di sera, ei si slanciò per di dietro su di un soldato della {p. 677}guardia che andava a braccietto di un amico : lo separò con violenza, lo percosse con pugni nello stomaco, e tratta la spada, glie l’appuntò al petto, provocandolo e sfidandolo. L'amico intanto era corso in cerca della prima squadra della guardia, la quale arrivata, lo trasse in arresto. Altra volta, il 29 giugno 1754, certo Regley ricorse allo strattagemma di farlo bere per ridurlo a perdere ogni conoscenza e fargli firmare carte compromettenti.

Non si sa la data precisa della sua morte, che il Campardon mette verso il 1769.

Visentini Adriano Guglielmo. Figlio del precedente, nato a Parigi il 1744 ; studiò sotto lo zio Dehesse, apparve il 22 febbrajo '49 nel ballo degli Enfants vendangeurs, eseguito dopo Le Retour de la paix di Boissy ; poi negli altri due balli Les Enfants sabotiers e Les Vendanges, suscitandovi entusiasmo.

Non si sa quando egli esordisse veramente a la Comedia italiana, in cui assunse come suo padre e suo nonno il nome di Thomassin. Si sa ch' egli recitò il caratterista a vicenda col Larouette, e talvolta l’arlecchino, specie l’ '84, nei Due gemelli bergamaschi di Florian, in cui apparve l’ultima volta il celebre Carlino (V. Bertinazzi) all’età di settantadue anni. Del successo di Visentini si han pareri disparati : un contemporaneo stampò ch'ei non riuscì indegno del famoso nonno Thomassin : e una nota manoscritta dell’ '87, che rispecchiava l’opinione del Comitato del Teatro italiano dice semplicemente : Thomassin, absolument inutile.

Egli aveva sposato verso il '72 M.lle Giovanna Nicoletta Tisserand, che esordì alla Comedia italiana il 2 ottobre '76 ; fu ricevuto a un quarto di parte il 12 aprile '75 ; si ritirò dal teatro il maggio dell’ '89, e morì nel 1807. Il Campardon reca una citazione di lui contro certo Fontaine che gli aveva rapita la moglie appena diciannovenne (gennajo 1776), mentre egli era a recitare a Versailles.

{p. 678}Visentini Luigia, Elisabetta, Carlotta. Seconda figlia di Thomassin, nota al teatro, ove esordì il luglio del 1733, col nome di Babet.

Morì il 18 febbrajo 1740, dopo di aver già lasciato le scene senza nemmeno dar tempo agli spettatori di accorgersi della sua bellezza.

Visentini Francesca Sidonia. Sorella della precedente, conosciuta in teatro col nome di Sidonia, nata in Francia come Babet, esordì alla Comedia italiana con la parte di protagonista in La Folle raisonnable di Pier Francesco Biancolelli, lunedì 15 ottobre 1736 ; e vi fu ricevuta al posto della sorella defunta poco innanzi, il maggio del 1740. Di fisonomia men regolare forse di quella di sua sorella, ma più viva e animata, fornita delle più chiare attitudini all’arte scenica, fu al suo esordire applauditissima, nè solo come attrice, sì ancora come danzatrice ; chè nel balletto d’uso dopo la commedia, ella eseguì egregiamente un passo a due insieme al signor Dehesse. Ma la maggior fama ella s’acquistò nelle parodie a Vaudeville, ove spiegava con una voce passabile tutte le grazie ond’era piena, specie in quella di Fedra, che fu come suggello alla sua celebrità. Poco sopravvisse a Babet, morendo a Parigi, fuor dalle scene, la domenica 5 settembre del 1745.

Visentini Gioacchino. Fratello della precedente, nacque a Parigi il 2 maggio del 1728, e fu tenuto al fonte battesimale l’ 8 dello stesso mese da Francesco Gioacchino Potier, Duca di Gesvres, Pari di Francia e Primo Gentiluomo di Camera del Re, e da Renata di Romilly, Duchessa di Cheures ; rappresentati l’uno da Michele La Caille de La Tour, suo scudiere, l’altra da una sua damigella Anna Cordier. La notizia è data dallo Jal che ne reca il documento. Di rincontro i fratelli Parfait con la scorta del Mercurio di Francia dicono che Gioacchino Visentini esordì alla Comedia italiana col ruolo di Arlecchino in Timon le Misantrope, il sabato 26 agosto 1741 all’età di soli {p. 679}diciotto anni. La notizia è seguìta poi dal D' Origny e dal Campardon. Certamente erronea è la data dello Jal il quale dà un figlio, Luigi Renato, a Thomassin il 17 dicembre 1727, e un altro, questo Gioacchino, il 2 maggio del 1728 (cioè a dire dopo quattro mesi e mezzo), anzichè del 1723.

Anche sul valore artistico del Visentini ci troviam davanti a contraddizioni. Il Mercurio di Francia dell’agosto 1741, seguìto poi dai fratelli Parfait, dice ch'egli fu molto applaudito nella parte di arlecchino, che recitò con conveniente intelligenza, dando prova di molto talento ; mentre il D' Origny afferma che l’esordire di lui come arlecchino servì a provare che il talento è di rado ereditario. Comunque sia, egli certo non fu ricevuto in Compagnia, e andò a recitar gli arlecchini in provincia.

Visetti Giovan Battista, veronese, nacque il 1780 da civili parenti, e mostrò giovanissimo tra' filodrammatici una grande attitudine alla scena. Di bella persona, di volto piacente, di voce magnifica, d’ingegno non comune, riuscì in breve un egregio primo attor giovine ; e dopo di essere stato alcun tempo nelle Compagnie Dorati e Righetti passò in quella di Fabbrichesi, allo stipendio della Corte di Napoli, diventandone il 1824 primo attore assoluto e capocomico in società con Prepiani e Tessari, fino al 1838, in cui, condotta nella novena di settembre la moglie a Macerata, sua patria, fuor dal clima di Napoli, e da una vita ordinata, fu colpito prima da febbre, poi da paralisi nervosa, che lo impedì nella parola. Ristabilitosi alquanto, ritornò a Napoli, e ricominciò a recitare, ma egli non era più il celebre Visetti : più che l’ammirazione s’ebbe il compianto del pubblico ; e in capo a due anni, tocco da un secondo colpo, rese l’anima a Dio. Vuolsi ch'egli dovesse la sua rovina a una perdita di 4000 ducati, cagionatagli da false speculazioni di suo figlio.

Tutti ebbero del suo valore artistico un grande concetto, e più specialmente il Colomberti e l’ Aliprandi, i quali lasciarono scritto ne' lor ricordi che egli era fortissimo attore in ogni {p. 680}genere di lavori, ma sopr' a tutto in quelli del Metastasio. Di lui dice il Regli :

Fu attore di grande slancio ; la sua voce aveva il suono d’un campanello d’argento. Di figura alquanto tozza, gestiva pochissimo ; pronunziava esattamente ; alle volte pareva un po' freddo, ma nel fuoco delle passioni, nell’ardore degli affetti si riscaldava, giovandogli molto in que' momenti la potenza straordinaria della sua voce. Di nobili pensamenti e coscienziosissimo, sprezzava quegli artisti, che per farsi dei partigiani, recitano la commedia al Caffè, anzichè in Teatro (parole sue).

{p. 681}E Adamo Alberti :

Visetti era un pregiatissimo attore. Possedeva una voce armonica e robusta, per cui nelle parti di forza affascinava il pubblico, e si faceva strepitosamente applaudire, ma egli studiava poco, non sapeva le parti, e però mancava al suo còmpito.

Vitalba Antonio, detto Ottavio, padovano, primo amoroso della Compagnia dell’ Imer, per la quale cominciò a scrivere il Goldoni, fu comico eccellente, e bastano, credo, queste parole dello stesso Goldoni a dare un’ idea chiara dell’ artista e dell’ uomo :

……Antonio Vitalba Padovano, comico il più brillante, il più vivo che siasi veduto sopra le scene. Parlava bene, e con una prontezza ammirabile, e niuno meglio di lui ha saputo, come dicono i commedianti, giocar le Maschere ; cioè sostenere le scene giocose colle quattro Maschere della Commedia italiana, e farle risaltare e brillare. Qualche volta però gli arlecchini si dolevan di lui, perchè scordandosi il carattere dell’amoroso, faceva egli l’arlecchino. Mi sovviene, che rappresentandosi il mio Bellisario (in cui sosteneva egli un tal personaggio), nella scena tenera e dolente, in cui comparisce senz'occhi, con un bastone alla mano, moralizzando sulle vicende umane, diede un colpo di bastone a una guardia per far ridere l’uditorio.

Nelle scene più serie, e più interessanti cercava di cavar la risata ; e non esitava a rovinar la Commedia, quando gli potea riuscir di far ridere. Eppure piaceva al pubblico ; ed era l’idolo di Venezia ; e licenziato qualche anno dopo dalla Compagnia di San Samuele, fu preso con avidità dalla Compagnia di San Luca (Gold. Pasquali, T. XIII).

Vitalba che aveva così ben sostenuta la parte di Belisario, in quella di Gualtiero (della Griselda) si sorpassò (Mem., T. I, XXXVIII). Vitalba era un bell’uomo, un eccellente comico, un gran donnajuolo ed un gran libertino. Era invaghito della Passalacqua…. (Ivi).

Per questo drammetto, o pettegolezzo amoroso in tre, Goldoni, la Passalacqua, Vitalba, nel quale il povero Goldoni non fa la più bella figura al mondo, vedi il mio monologo La Spigliatezza (Mil., 1888).

Del resto, Antonio Vitalba, che uscì vittorioso dall’intrigo, fino a burlarsi di Goldoni, pranzando e cenando colla Passalacqua, proprio dopo ch'ella aveva giurato di averlo lasciato per sempre, era ammogliato ; e il Loehner riferisce dai registri di San Samuele l’atto di morte della moglie Costanza in età di circa 35 anni, avvenuta il 17 ottobre 1736, cioè quasi un anno dopo l’intrigo.

{p. 682}Della sua vita artistica sappiamo che l’estate del 1724 si trovava a Padova, poi a Treviso, d’onde scrive a un medico due lettere : per ottenere alcuna commendatizia, e per dargli avviso di avere sputato un po' di sangue, il che l’aveva messo in grande apprensione. Con altra lettera in risposta alle ordinazioni del medico, avverte non poter prendere il latte sino a Bologna, per dove sarebbe partito pochi giorni dopo ; e domanda se debba prenderlo cotto o naturale, e s’abbia da mescolargli altro, e quanto n’avrà da prendere e per quanti giorni ; e quanto sangue stimerà bene si faccia levare, e cosa debba prendere prima della cavata di sangue.

Tornò a Treviso il settembre dello stesso anno per andar poi a passar tutto l’autunno a Bologna ; e rinnova istanza per avere una lettera di raccomandazione, e neanche a farlo a posta ridà notizia di nuovo sputo di sangue…. Ma si vede bene che Vitalba era pauroso all’estremo. Curioso il metodo di cura seguito scrupolosamente. « Io prendo — scrive — l’acqua col litro la mattina, sugo di portullona e piantagine, e li protesto che la fame la patischo, voglio un poco vedere cosa è per essere. »

Il marzo del '25 era novamente in Bologna, d’onde prega il solito medico di disimpegnargli un abito scarlatto, ricamato d’argento, senza il quale non può cominciar le recite, promettendogli di restituirgli il denaro che dovrà sborsare, non appena sarà a recitare a Ravenna ov'è un regalo di cento Filippi. E prega di spedir l’abito a Francesco Cattoli detto Traccagnino (V.), a Venezia, il quale ha incarico di farglielo avere a Bologna.

Dal '25 si passa a una lettera del '35, in cui dopo di avere accennato a un nuovo sputo di sangue avuto il '29 a Padova, racconta come la passata quaresima (1734) tornando da Roma fosse caduto con tutto il calesse in mezzo a un fiume, e avesse dovuto restar due giorni in una casa di contadini per asciugarsi, dalla quale partì a cavallo, essendo il calesse infranto, con vento e neve così terribili, che credette morirsi per via. Arrivato a Bologna stette bene due mesi, ma poi fu preso da {p. 683}vertigini e febbri acutissime, per le quali fu ordinata nuova emissione di sangue. Da Bologna potè recarsi a Genova, ma non cessandogli la febbre, si volse tosto a un medico che gli ordinò cascia con entro gialapa (sciarappa), quale gli mosse dimolto e operò assai. Gli ordinò anche la china ; ma Vitalba, dubbioso del merito reale del medico, giovanissimo, ricorse a uno rinomato, il quale trovatagli una ostruzione al ventre, gli ordinò sei pillole ogni mattina per dieci giorni. La febbre non gli venne più così gagliarda, ma egli si trovava in tale stato di affiacchimento, da non potersi reggere in piedi, specie la sera, quando doveva recitare : e di ciò si duole col solito medico, al quale chiede ajuto di nuovi consigli.

Il '38 dedicò una traduzione in prosa dell’ Alzira, tragedia di Voltaire, all’ambasciatore di S. M. Cattolica in Venezia Don Luigi Regio Principe di Campo Fiorito, ecc. (Ven. Alvise Valvasense.

Fr. Bartoli dice che Vitalba recitò sempre sotto il nome di Florindo, e fu comico al servizio di S. A. S. il Sig.r Duca di Modena Francesco I ; ma è un errore, chè egli stesso si firma : Antonio Vitalba detto Ottavio Comico. Anche lo fa nascere a Bologna, mentre Goldoni lo dice padovano. Fra le produzioni, in cui più specialmente emerse, lo stesso Bartoli cita Il Vagabondo, L' Amante fra le due obbligazioni e il Don Giovanni Tenorio nel Convitato di Pietra, per le quali ogni spettatore bisognava che confessasse esser egli un comico perfetto, a cui nulla mancava per dirlo un Roscio de' suoi tempi. Entrato nella Compagnia di Antonio Sacco, si recò in Portogallo con lui, e di là tornò a Venezia, applauditissimo sempre. Antonio Vitalba morì a Bologna in età non avanzata, la primavera del 1758.

Vitalba Giovanni. Figlio del precedente, studiò da prima chirurgia in Firenze, poi si diede all’arte comica, nella quale riuscì di qualche pregio per quelle parti d’innamorato, ove non dominasse il sentimento. Fu con la Compagnia di Antonio Sacco (V.), di cui sposò la figliuola (V. Sacco-Vitalba Angela), {p. 684}e recitò ammirato nelle favole di Carlo Gozzi, dalle cui Memorie inutili riferisco il brano che riguarda la parte ch' ebbe Vitalba nello scandalo Gratarol, riproducendolo al vivo in Le Droghe d’amore, dal quale si ha un chiaro cenno delle sue qualità fisiche e morali.

Il Gozzi aveva assegnata la parte di Don Adone cugino del Duca al comico Benedetti, romano : quella di Alessandro Gran Cancelliere del Duca amante di Ardenia Marchesa di Taranto, al comico Vitalba. Invitato dopo tante peripezie alla prova della favola, trovò invertite le due parti. Perchè ? Il Sacchi diede ragioni d’indole artistica ; mentre invece…. Ma lasciam discorrere il Gozzi :

…… Alla sedicesima scena dell’ atto primo, ch' è la penultima di quell’ atto, uscì il Don Adone cugino del Duca.

Al presentarsi di quel personaggio, la parte di cui era stata appoggiata al comico Vitalba col baratto sopraddetto, m’avvidi tosto della serpe che mi s’era tenuta occulta con una malizia impenetrabile, e ch' io non averei mai potuto nè sospettare, nè immaginare.

Ecco il fondamento d’un diabolico manupolio concertato, di cui non posso accusare che la comica abborribile venalità favorita ; manupolio che legato alle anteriori disseminazioni, e con un’illusione anticipatamente fissata da' passi sconsigliati del Gratarol, ha dato corpo solido a ciò che non era nemmeno un’ombra.

Il comico Vitalba, buon uomo, ma cattivo attore, per sua sciagura aveva i capelli tendenti al biondo come quelli del Gratarol, e la sua statura era poco più poco meno, consimile. Da ciò nacque il traditore artifizio del baratto di parte. Ma più. La pettinatura di quell’attore, era affettatamente imitata da quella del detto signore. Il colore dei vestiti, il taglio, i ricami, e l’attillatura erano pure imitati. E peggio. Quel comico, per sè stesso persona dabbene ed onesta, era stato ammestrato non so da chi (forse con di lui cecità), ne'gesti, ne'passi marcati del Gratarol per modo, che quantunque io non abbia giammai avuta la menoma inurbana mira di porre il Gratarol in sulla scena, devo dire con mio dolore : il Gratarol si è posto, e fu posto in iscena nella mia commedia : Le Droghe d’amore.

Presentatosi appena in sul palco quel personaggio, un enorme applauso……..

Immaginare le scene che accaddero di poi ! Il Sacchi visto il risultato delle Droghe d’amore a Venezia, volle al suo andare a Milano in quello stesso anno, ritentarla in quella città. Ahimè ! Il Vitalba, andando o ritornando di notte dal teatro si era incontrato in un sicario, il quale gli aveva scagliato con una forza da atleta un ben grosso bottiglione pieno d’inchiostro per difformargli la faccia.

{p. 685}Fortunatamente il bottiglione, che avrebbe potuto non che difformarlo, accopparlo, lo aveva colpito al collo difeso da un colletto a più doppi, sottraendolo alla morte. La notizia giunse a Venezia, e il carattere pacifico di quel pover uomo, ritirato, economo, che faceva il comico per guadagnarsi il pane, che obbediva ciecamente il capocomico, che non aveva nimici da dover temere d’essere accoppato, o difformato, suscitò in Venezia dé discorsi, e dé sospetti unanimi sopra il Gratarol.

Fr. Bartoli dice che il Vitalba accumulò del danaro col frutto delle sue fatiche. Viveva ancora alla pubblicazione delle sue Notizie istoriche e aveva un solo figlio per nome Costanzo (il nome della madre ?) stabilito in Francia, ove esercitava l’arte del giojelliere.

Il Gozzi nel Canto Ditirambico dé Partigiani del Sacchi Truffaldino, dice a pag. 174 :

L'Angelina il monte assaglia ;
ma s’ingrassi un po'più adagio.
Siedi, e fa per lo contrario,
del Vitalba o Vedovella,
perchè il popolo t’appella
una fune del sipario.

E a questa vedovella è scritto in nota : la Sig.ra Catterina Vitalba. Qual Catterina ? E vedova di chi ? La moglie di Vitalba non era l’Angelina, figlia del Sacchi ? La madre del Vitalba ? Ma quella si chiamava Costanza ed era morta il '36. E nell’elenco del '75 lasciatoci dal Lessing (V. Sacco Antonio) non figuran altri Vitalba che i soliti coniugi Angela e Giovanni.

Vitalbino. (V. Zanuzzi Francesco).

Vitali Buonafede, Bonaventura, Ignazio. Ciarlatano e capocomico, più noto sotto il nome dell’Anonimo, che assunse la prima volta in Genova il 1714, nacque a Busseto nel Ducato {p. 686}di Parma, il 13 luglio 1686 (secondo Tipaldo, il 5 luglio) da Giuseppe, militare, e da Maria Carpi, cittadina di Parma ; e abbiam da Goldoni notizie particolareggiate dell’esser suo. Mentre questi era a Milano, gentiluomo di Camera del Residente veneto (1733), arrivò, nel principio di quaresima, il Vitali. Di buona famiglia, aveva avuto un’ educazione eccellente, ed era stato prima gesuita, poi medico di Reggimento, poi professore di medicina all’ Università di Palermo, poi ciarlatano. Vendeva specifici, rispondeva a ogni quesito scientifico-letterario, e salì in breve in alta rinomanza. La piazza ov'egli agiva era piena sempre di gente a piedi e in carrozza ; ma, naturalmente, difettandovi i dotti, egli, all’intento di allettare la folla ignorante, ebbe l’idea peregrina e geniale delle quattro maschere italiane, che lo ajutavan co' lor lazzi nello smercio de'suoi specifici.

Alle maschere italiane seguì una vera e propria Compagnia di comici, che dopo aver ajutato il loro padrone a ricevere il denaro che veniva loro buttato in fazzoletti annodati, ed a rimandare i fazzoletti medesimi con iscatolette o vasetti, davano poscia la rappresentazione di commedie in tre atti a lume di torcie di cera bianca con una specie di magnificenza. Dopo alcuni anni passò a Venezia, poi a Verona, chiamatovi per una malattia epidemica mortale, ch'egli infallantemente guariva con mele appiole e vin di Cipro, dove morì di peripneumonia nello stesso anno (2 ottobre 1745) col titolo di Primo medico di Verona, compianto da tutti, fuorchè dai medici.

Il Vitali aveva in Compagnia un Casali e un Rubini (V.), che furon poi chiamati a Venezia, l’uno al San Samuele, l’altro al San Luca ; e Goldoni scrisse per lui Il Gondolier veneto, la prima commedia alla sua maniera, comparsa in pubblico (autunno 1833) e stampata poi successivamente (Milano, R. Malatesta, 1733, pag. 14, in-24°[Sch. Silvestri]). Il Goldoni aggiunge che trovasi nel quarto volume delle sue commedie (ediz. veneta del Pasquali) : errore questo, sul quale non ricordo di aver letto correzioni. Io non conosco altra stampa fuor quella dello Zatta (T. I, dei drammi giocosi per musica, XXXV delle opere {p. 687}teatrali), in fronte alla quale è detto con nuovo errore : rappresentato per la prima volta in Milano nell’anno 1732.

Molte opere scrisse il Vitali più o meno scientifiche, tra cui la Lettera scritta ad un Cavaliere suo padrone (forse il Marchese Scipione Maffei ?), dall’ Anonimo in difesa della professione del Saltimbanco coll’ aggiunta in fine d’un Tesoro di segreti utili, e dilettevoli a qualsivoglia stato di persone. (In Verona, fratelli Merli, s. a.), che ricordan molto quelli del Cortellaccio Ippolito Montini (V.). Scrisse altresì La Bella Negromantessa, commedia breve, onesta e piacevole, composta e data in luce dall’ Anonimo per divertimento de' curiosi, dove si mostra il pericoloso stato degli amanti per tollerare la concorrenza in amore. (Bologna, Longhi, 1735) ; e una tragedia Circe, donata alla comica Argentina (forse un’ava della Zanerini ?) rimasta inedita.

Rimando chi volesse maggiori notizie del Vitali alla biografia che ne dà il Tipaldo, e allo studio di A. D'Ancona : Una macchietta goldoniana (Strenna de' rachitici, anno VII), condotto maestrevolmente su quella e sullo schizzo lasciatoci dal Goldoni.

Vitali Sante. « Bolognese. Recitò da innamorato in diverse vaganti Compagnie, e specialmente in quella di Onofrio Paganini. Riuscì grazioso in alcuni caratteri affettati, e cantò di buon gusto ne'musicali intermezzi unitamente ad altri comici. Fu impiegato nella Compagnia d’Antonio Sacco più anni, e nel 1770 passò con quella di Girolamo Medebach per recitarvi nella maschera del Dottore, ma poco ivi potè far valere il suo spirito e la sua lodevole abilità, poichè giunto a Modena, tocco da apoplessia, vi morì in quell’estate in età d’anni 38. » Così Fr. Bartoli. Era dunque nato il 1732.

Vitaliani Agata. Una nota manoscritta del vecchio Gueullette ci apprende com’ella fosse moglie di Francesco Balletti, primo del nome, innamorato ; recitasse in Italia le amorose col nome di Flaminia, e avesse per nonno Marco Napolioni {p. 688}detto Flaminio. Ho perso quasi la testa per trovare il bandolo di questa intricata matassa, e non vi sarei riuscito, a dir vero, che dando due mariti ad Agata Vitaliani. Luigi Riccoboni dice (V. Calderoni Francesco, pag. 543) : « A capi della Compagnia erano Francesco Calderoni detto Silvio e Agata Calderoni detta Flaminia sua moglie, nonna della mia. » E perchè non : Francesco Calderoni e Agata Calderoni sua moglie, nonni della mia ? Dunque Elena era nipote per parte soltanto della donna ; dunque di una Balletti. E concordando il nome di battesimo e quel di teatro della Vitaliani, con quelli della Calderoni, ed esaminate le date da Marco Napolioni alla moglie di Riccoboni, sarei portato a inferire che Agata Vitaliani, figlia di un Vitaliani e di una Napolioni, moglie di Francesco Balletti, e suocera della Fravoletta (V. Balletti…. ?), rimasta vedova, fosse nel 1766 circa passata a seconde nozze con Francesco Calderoni.

Vitaliani-Parpagiola Andrea. Padovano e non figlio d’arte (il nome di Parpagiola gli venne da una prossima parente, Dama di Corte di Maria Luisa di Parma, che gli aveva lasciato parte delle sue fortune) era il 1824 primo amoroso in Compagnia Duse ; e il n.° 4 di quell’anno delle Varietà teatrali di Venezia gli tributa parole di moltissima lode. Con lettera del 12 agosto '37 domandava a Ferdinando Pelzet, scadendogli una cambiale, il prestito di otto scudi. « Gli affari – scriveva – poco favorevoli del mio Capocomico, mi pongono nel caso di non poter soddisfare al contratto impegno. » Ma non ho potuto sapere il nome di quel capocomico.

Era il '48 in Compagnia di Angelo Lipparini colla moglie Marianna e i figli Cesare e Vitaliano. Della sua vita privata un piccol cenno si ha in un epigramma del tempo, che ho in una raccolta manoscritta, diretto alla moglie di lui, chiedendole come mai egli divenisse tanto birba da consumar la sovvenzione teatrale con la Ciabetti, e fare poi scandali con la moglie di parole e percosse.

{p. 689}Vitaliani Cesare. Figlio del precedente, nato il 1824, cominciò a recitar giovinetto, come ogni figlio d’arte, insieme al padre e alla madre, coi quali trovavasi ancora, amoroso il 1848 in Compagnia Lipparini. Fu poi in vario tempo e in varie compagnie, primo attore pregiato e non men pregiato Direttore. Mercè la sua cultura e la sua intelligenzanoncomuni fu chiamato dall’ Italia artistica di Torino, iniziatrice, a dirigere alcune rappresentazioni di commedie classiche italiane, tra cui era La Mandragola di Macchiavelli. All’ arte sua di attore e direttore egli accoppiò quella di scrittore a cui legò favorevolmente e per alcun tempo il suo nome. Fra le molte sue opere vanno annoverate come le migliori, l’Amore, e Lord Byron a Venezia, le quali, ricche di tutto il convenzionalismo teatrale, e di reminiscenze delle più belle opere altrui, brillarono come fuochi d’artificio, di luce effimera e smagliante. Non fu il Vitaliani uomo di specchiata moralità, e un senile pervertimento gli procacciò processi, e pur troppo anche la carcere, dove morì presso Trieste, il 26 luglio 1893.

Vitaliani Clotilde. Moglie del precedente, nata Trabalza a Roma il 1836, apparve sulle pubbliche scene come una meteora, dopo di avere appartenuto, acclamatissima, alle più chiare e signorili filodrammatiche della città, fra cui quella presieduta dal Duca Grazioli, nella quale si meritò l’onore dell’effigie, e {p. 690}busti e poesie. In arte non recitò che un anno, dopo il quale, benchè favorevolmente accolta, si restituì a Roma, abbandonata dal marito, dove continuò a recitare in Società private, alternando le sceniche rappresentazioni con declamazioni dantesche a cui dedicò studi speciali, e dov'è anche oggi, maestra di recitazione. Io l’ebbi compagna tra' filodrammatici il '75, e la ricordo, bellissima, nell’ultimo atto della Pia declamato con molta passione.

Vitaliani Vitaliano. Altro figlio di Andrea, marito di Elisa Duse, artista mediocre, era il 1848 con la famiglia in Compagnia Lipparini, col ruolo di generico. Lo vediamo il '64 in quella di Zocchi, e il '65 nella Dante Alighieri, diretta da Riccardo Castelvecchio, anno in cui si sposò. Il '69 era con la moglie prima donna in Compagnia Carbonin, diretta da Antonio Giardini, e il '76 in quella di Luciano Cuniberti.

Morì nel '95 di affezione cardiaca.

Vitaliani Italia. Figlia del precedente e di Elisa Duse, nacque a Torino (tolgo la seguente cronologia artistica da un album in onore di lei – Roma, Voghera, 1900) il 20 agosto del 1866. Era il '76 col padre in Compagnia di Luciano Cuniberti, ma si può dire che cominciasse a recitare nel '79 — tredicenne appena – con Annetta Pedretti. Passò quindi nella Compagnia Bellotti-Bon e Marini, diretta da suo zio Cesare, in qualità di seconda amorosa ; fu successivamente nella stessa compagnia prima attrice giovine, in sostituzione di Linda Belli-Blanes ammalatasi. Nel 1883 — per un solo anno — fece parte della Compagnia Nazionale sotto Pierina Giagnoni. Nel 1884 passò, con il ruolo assoluto di prima attrice giovine, nella {p. 691}Compagnia di Cesare Rossi, della quale era prima attrice sua cugina Eleonora Duse. In seguito rimase per tre anni con Francesco Pasta, a fianco di Annetta Campi, per ritornare, dopo un triennio, con G. B. Marini, ed essere prima attrice a vicenda con Virginia Marini, e cioè nelle parti che più non si adatta

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{p. 694}ch'egli dice senza lirico abbandono : prodigiosa nella sua semplicità. « Non mi chiedete – ella disse una volta – se io preferisca l’arte antica o l’arte moderna. Per me questa distinzione non sussiste. Amo l’arte ovunque si trovi, e anche se il romantico e il convenzionale sanno persuadermi e far vibrare la mia anima per modo che io possa trasfondere nel pubblico la commozione mia, li accetto. » Di qui la grande varietà del suo repertorio : accanto a Hedda Gabler, Suor Teresa ; a Casa paterna, Zaza ; a Maria Stuarda, La Locandiera ; a Debora, Fedora ; a Tosca, Adriana Lecouvreur ; a Seconda moglie, Frou Frou ; a Casa di bambola. La serva amorosa. E in tutte queste opere, quando il temperamento gliel consenta, sa mostrar l’arte sua poderosa « fatta – scrive Angiolo Mori — di intendimenti di una accuratezza sottile, umanamente intima, di cui è profondo il concetto ; con una recitazione tutta moderna, di una rispondenza assoluta dell’anima con lo stato della coscienza femminile nella triste e tormentosa ora che passa. »

Fin qui della artista. Come donna, Italia Vitaliani è avuta in conto di una solitaria, superba, intollerante, rude : la sua taciturnità le acquistò il nome di Principessa d’Orange. Clarice Tartufari in un opuscoletto del Biondo di Palermo così la difende :

……tale origine rimane cosi avviluppata nel velo dell’esagerazione e così contorta dalle molteplici aggiunte della fantasia, che essa finisce per confondersi con la menzogna. Certo : Italia Vitaliani non è melliflua. Ella, consapevole del suo valore, irrigidita nello sforzo costante di una meta prefissa, e di cui, per molti anni, ha forse creduto di avere smarrito la limpida visione, assorta perennemente nella ricerca di una perfettibilità, che è il tormento e la forza dei grandi artisti, Italia Vitaliani non sa trovare quelle parole ambigue che dicono e non dicono, quelle frasi rivolute entro cui il pensiero guizza e si smarrisce con agilità serpentina : no, quando una persona, sia pure un personaggio, la secca, essa lo dimostra ; quando un lavoro, sottoposto al suo giudizio, {p. 695}le spiace, essa lo dice, senza perifrasi nè pietose tergiversazioni ; quando è di cattivo umore non sa trovare una maschera di giocondità da collocarsi sul viso ; che se poi ella, o per la naturale bontà dell’animo o per altre considerazioni, cerca di nascondere il suo pensiero o velare le sue impressioni, esiste allora una tale antitesi fra il suono della parola forzatamente benigna e l’impaziente lampeggiare degl’ immensi occhi grigi, che si comprende subito come la più lieve finzione le riesca fastidiosa.

E qui la gentile autrice riferisce l’aneddoto di un giovine autore, spigliato nell’andatura, baldanzoso nell’atteggiamento del capo eretto e leggermente gittato all’indietro, il quale, presentatosi alla Vitaliani, e proferito il nome di uno de'più noti e ricchi negozianti di Torino, le porgeva un copione di commedia, ch'ella respinse con lieve moto della mano diafana, dicendo poscia lentamente : « Ah ! Lei è il signor tale ? sta bene : non dimenticherò l’indirizzo della sua ditta, quando avrò bisogno de'suoi prodotti. » E di un altro giovine autore, pallido, mingherlino, dal volto triste e spaurito, seminascosto dietro una quinta, a cui la Vitaliani spontaneamente si volse, incoraggiandolo con dolci parole ; e promettendogli di leggere la commedia, che prese con gentile violenza, pose con grazia squisitamente signorile la sua piccola mano nella mano tremante dell’incognito drammaturgo ; e, accomiatatolo, si volse alla Tartufari dicendo : « Umile con gli umili, superba coi superbi : tale è il mio motto. » E di questa sua bontà anche fa fede sua madre, in una lettera a me diretta del '900, in cui dice : « L'Italia è una buona figlia, amorosa ; essa viene spesso a trovarci, e si trova beata e felice quando rimane qualche giorno fra le braccia di sua madre che adora, e dei suoi fratelli e sorelle. »

E parlando poi la Tartufari della vasta e solida coltura, di cui la egregia attrice non fa alcuna pompa, intesala un mattino {p. 696}discorrere nel Duomo di Siena dei tempi torbidi e poetici dei comuni con parola sobria, ma colorita e precisa, « Dove trova il tempo lei d’imparare tante cose ? » le domandò stupita. « Io studio in ferrovia – le rispose con semplicità la Vitaliani. — Nella mia esistenza affannosa e turbinosa, le ore che io passo in treno sono le mie migliori. Mentre la macchina vola attraverso i campi o in riva al mare, io dimentico il palcoscenico, dimentico le piccole e grandi miserie della notorietà, e vivo di me e per me, o meditando o ritemprandomi lo spirito con sane e forti letture. » Nella sua esistenza affannosa e turbinosa…. pur troppo deve essere così…. Italia Vitaliani non ha avuto prima d’ora la fortuna che meritava. « Se Italia Vitaliani volesse, – scriveva alcun tempo fa Alberto Manzi — vedrebbe i pubblici entusiasti di lei, come sempre, quando ha voluto, li ha veduti : se sinceramente volesse, tornerebbe ad essere, come anni or sono, la Vitalianina adorata…. » E oggi pare abbia voluto e voglia davvero, dacchè i pubblici nostri e quelli di Spagna e d’America s’inchinano ammirati all’astro di prima grandezza.

Vitti Achille. Nato a Zante il 22 novembre 1866 da parenti non comici, fu cresciuto a Milano, dove, fatti gli studi tecnici, ed esercitatosi tra quei filodrammatici, si scritturò con Emanuel ; passando poi, in vario tempo, con Tibaldi (Compagnia Nazionale), la Duse, Cesare Rossi, Pietriboni, Falconi, Bertini, Paladini. Dopo una società con Beltramo e Della Guardia, formò Compagnia da solo, recitandovi le parti di primo attore, e passando a quelle di prima attrice la moglie Gemma Braconey, sposata il 1 marzo 1891, una dilettante essa pure, che aveva esordito in arte con Ermete Novelli.

Achille Vitti era primo attore giovine a ventidue anni e primo attore a ventisei ; e divenuto capocomico si diede a un rinnovamento del nostro repertorio, rappresentando primo in Italia opere del teatro nordico, quali : La Potenza delle tenebre, Gli Spettri, Delitto e Castigo, Il pane altrui, il tedesco {p. 697}Arlecchino Re ; i lavori di Shakspeare : La bisbetica domata e Molto rumore per nulla, ecc., ecc. Il '904 si unì con la Compagnia all’artista lirico Scarneo, che passava di punto in bianco alla scena di prosa ; ma, da esso distaccatosi prima dell’anno e solo, tornò a formare e a condur Compagnia con mediocre fortuna.

Vittoria. (V. Piissimi Vittoria).

Vulcano Bernardo. Appartenne alla Compagnia, che arrivò a Dresda sul principio del 1738, scritturata da Andrea Bertoldi (V. e richiami) per la Corte Sassone. Nello schizzo su gli attori della commedia italiana, apparso a Stuttgart il 1750, è detto di lui :

« Un uomo nella pienezza del vigore ; circa quarant’anni. Ha bell’aspetto, ed è ben in carne. Di mezzana statura, di colorito più tosto bruno, e pieno di fuoco. Pronuncia perfettamente, e recita gli amorosi o i vecchi pacati. Occhi, fisionomia, mani, piedi, tutto parla nella sua persona. »

Pare fosse qualcosa più di un semplice attore, dacchè aveva a Varsavia, per lui la moglie e il ballerino Vulcani, tre camere, fra le quali una grande per le prove. (V. Articchio Nicoletto).

Vulcano Isabella. Moglie del precedente, fu con lui a Dresda il 1738. Recitava le amorose sotto il nome di Eleonora, ma forse le sarebber convenute meglio le parti di tenera madre, e magari quelle di Colombina, che sosteneva malamente la Toscani (V.). Recitava bene veramente, ma non in tutte la parti. Era piccola e magra, e in apparenza non più giovine, ma di volto pur sempre piacente.

{p. 698}

Welenfeldt Bonifazio. Parmigiano. Cominciò a recitar con successo le parti d’Innamorato in Compagnia di Girolamo Brandi e quella di Francese italianato, in cui, dice il Bartoli, imitò assai bene il Vieri (V.). Fu con Pietro Ferrari, con Girolamo Medebach, con Nicola Menichelli, col quale trovavasi il 1781.

Un libretto stampato del Pigmalione di Rousseau, reca il seguente frontispizio che trascrivo co'suoi errori :

PIGMALION | de monsieur | Jean Jaques Rousseau | Scene Lyrique | representé dan set Illustre Théatre | par | Boniface Wellenfeldt | et | Annette Paganini | Comediens Italiens.

L'illustre teatro era certo il San Samuele di Venezia, ove il Pigmalione fu rappresentato il 1773. Ciò si rileva dalla traduzione italiana pubblicata a Venezia in quell’anno col testo a fronte e colla dicitura : « Da rappresentarsi in lingua francese nel Teatro San Samuele ».

Welenfeldt Lodovico. Figlio forse del precedente, fu caratterista di buon nome nella prima metà di questo secolo. Era il '33-'34-'35 nella Compagnia Romagnoli-Berlaffa, il '36 in quella di Gioacchino Andreani.

Woller Gaetano. Nativo di Roma, fu uno de'più egregi artisti italiani pel ruolo di generico primario. Nelle parti dignitose non ebbe rivali, sì per la maestà della persona, sì per l’altisonanza della voce. Fu avuto in gran pregio da pubblico e da colleghi, e militò nelle compagnie di primissimo ordine.

{p. 699}Lo trovo per la prima volta il 1839 in Compagnia di Tommaso Zocchi. Il '41 e '42 ebbe Compagnia in società con Giardini e Belatti, e vi recitò le parti di Tiranno e Padre. Lo verdiam poi generico primario colla Reale Sarda di Torino dal '47 al '55, ultimo anno della Compagnia, in cui senza più appannaggio, ma pur serbando il titolo Al servizio di S. M. il Re di Sardegna, si recò a Parigi. Appare il '62 con Tommaso Salvini, e il '63 con Gaetano Gattinelli.

[n.p.]
[n.p.]

I comici italiani §

Zaccagnino. Chi si nascondesse il 1496 sotto questo nome di maschera non si sa. Egli è citato nella lettera di Ercole di Ferrara del 5 febbrajo a Francesco Gonzaga di Mantova, a proposito di copioni di commedie. Zaccagnino allora trovavasi a Modena (V. Ruino Francesco. E pel secolo xvii V. Torri Giulio Cesare).

Zacconi Giuseppe e Lucia. Figlio il primo di un direttore delle Gabelle di Bologna, la seconda del rinomatissimo buffo Lipparini, s’incontrarono, recitando, nelle filodrammatiche bolognesi, si sposarono ed entrarono in arte. Tempre entrambi di valenti artisti, avrebbero avuto miglior fortuna e maggior rinomanza, se una turba di figliuoli non fosse venuta a porre un ostacolo alla loro carriera. Benchè un tantino enfatici nella tragedia, erano umani e valentissimi nel dramma e nella {p. 704}commedia. Egli, soprattutto, accoppiava a una dizione semplice e naturale una gran forza di espressione e un senso profondo di verità umana : fu direttore eccellente, e s’ebbero da'suoi ammaestramenti artisti di pregio, tra cui Giuseppe Bracci e il rinomato primo attor giovine Gaspare Lavaggi.

Morì a Bologna il 25 agosto 1903.

La moglie era morta ad Ascoli Piceno il 10 maggio 1875.

Nacquero dal loro matrimonio tre maschi e tre femmine tutti comici :

Romeo, Ildobaldo (morto), ed Ermete ; Giulia maritata Bonfigli ex comico, Imelda maritata Bouchard, ed Argia maritata Tovagliari, che ho veduta e ammirata nella Compagnia dialettale siciliana di Giovanni Grasso.

Zacconi Ermete. Figlio dei precedenti, nato a Montecchio di Reggio d’Emilia il 14 settembre dell’anno 1857, è quegli che assieme con Ermete Novelli divide il primato artistico dell’età presente.

Niun attore io credo abbia avuto come lui una vita di palcoscenico piena di movimento, passando dall’amoroso al {p. 705}brillante, dal brillante al primo attore, alternando tal volta l’officio di comico e anche di capocomico, con quello di pittore scenografo, magari di macchinista ; tal volta escogitando con allegri compagni di sventura nuovi mezzi di difesa dalla miseria, come fiere o altro, recandosi da questo a quel posto oggi in barroccino, domani a piedi. Dopo di aver passato gli anni della fanciullezza col padre (il 1865 era con lui, il quale faceva il primo attore a vicenda col Germani, nella Compagnia del Teatro Valletto di Roma, capitanata dal brillante Cristofari), fu con Tommaso Massa, un attore brillante, ricco d’intelligenza, dicitore vero ed efficace, poco fortunato in arte, a cagione specialmente della sua meschina figura, con cui cominciò a recitar particine di generico, secondo brillante e amoroso. Passò poi generico primario, amoroso e brillante, a vicenda con Nicola Della Guardia, nella Compagnia di un certo Calìa napolitano, in cui recitava anche gli amorosi nelle farse col pulcinella (non mai il pulcinella, come altri affermò) ; poi, secondo amoroso, in quella di Lambertini e Majeroni, in cui stette anche l’anno dopo come secondo brillante sotto Leopoldo Vestri. Fu scritturato brillante il '78 in Compagnia Dominici, passando in quaresima al ruolo di primo attor giovine, poi, per l’improvvisa partenza del Dominici, a quello di primo attore, ch'egli sostenne per alcuni anni in piccole compagnie, come ad esempio, del Battistoni. Entrò l’'81 {p. 706}primo attor giovine con Dondini-Dominici, e l’'82, ahimè, tentò il capocomicato (sfogando – come si dice in gergo – tutte le sue passionacce, fra cui quella del Figlio delle Selve di Halm), che lasciò subito l’anno di poi, per andar primo attore in Compagnia Palamidessi che (altro ahimè) si sciolse a metà d’anno. Tornò primo attor giovine con Salvinetto e Pietro Rossi, poi primo attore e direttore d’una Compagnia italiana a Cannes, d’onde scacciato dal colera, si scritturò primo attor giovine il carnovale dello stesso anno con Artale-Pedretti. Fu l '85 primo attore con Verardini, e il carnovale dello stesso anno con Emanuel, con cui stette oltre un biennio, e da cui passò primo attore e direttore con Casilini per un solo anno ; dopo il quale, eccotelo un triennio primo attore con Cesare Rossi, e uno con Virginia Marini, fino al 1894 ; anno in cui si associa con Libero Pilotto, per condur finalmente compagnia da solo dopo la morte di questo ; compagnia che va innanzi trionfalmente da sette anni.

Tutto questo passare per quasi quarant’anni da un ruolo all’altro, da una compagnia all’altra con vertiginosa rapidità, specie ne'primi tempi, dice chiaro quanta fosse la duttilità del suo ingegno, la sua dedizione intera, incondizionata all’arte, pur di fare ; e senza aspirazioni, pur di far bene, a toccar cime elevate, alle quali egli si trovò direi quasi senza saperlo, per una conseguenza logica del suo gran merito.

E la duttilità dell’ingegno egli ha mostrato fino a qui, e mostrerà pur sempre, passando maestrevolmente dalla vasta tragedia shakspeariana alla inguantata commedia di Dumas figlio ; dal fosco dramma nordico dell’Ibsen, dello Strindberg, del Hauptmann alla saltellante comicità del Goldoni ; dall’aurea scoltura della terzina dantesca alle mute contrazioni spasmodiche di Al Telefono ; imperocchè non una parte lo alletti più di un’altra ; e, purchè l’opera sia elevata e umana, egli abbia provato e provi egual godimento intellettuale recitando la tragedia o la commedia : Shakspeare o Beaumarchais. Senza una buona dizione non credo possibile grandezza di attore : e {p. 708}solidissima base della grande arte di Ermete Zacconi è stata dal suo cominciamento la dizione. Egli stesso era inconsapevole del raro tesoro che possedeva : se ne avvide una sera, in cui dovè ripiegar la parte lì per lì, di Cesare Amici nella Legge del Cuore di E. Dominici. A un dato momento egli sentì che il suo dire caldo, sincero, impulsivo aveva determinato tra lui e l’ascoltatore una specie di corrente elettrica, tal che alla fine della gran scena con Leonardo, il pubblico, rimasto fino a quell’ora immobile e muto in una religiosa attenzione, scoppiò in un grande e lungo applauso, a cui si congiunse il bravo alto e vivo dell’artista Papadopoli, il suo egregio compagno di scena. Da quella sera lo Zacconi ebbe coscienza della sua forza, e la visione chiara e precisa di quella specie di fascino che la sincerità e la verità possono operare sul pubblico. In Demi-monde, Amico delle Donne, Resa a discrezione, Tristi amori, sono scene e descrizioni e squarci che, detti da lui possono esser sempre citati come modelli di perfetta recitazione, benchè più volte la dizione si vada offuscando in un ingrassamento di note, che voglion taluni attribuire alla cupezza dei tipi nordici ch'egli da più anni interpreta con tanto fervore, e si potrebbe anche dire con gran preferenza sugli altri tipi. E qui vorrei aprire una parentesi. Che il pensiero di quei taluni sia esatto non oserei affermare, sebbene si possa concedere che l’elemento nordico entri per qualche cosa nella presente modulazion della voce con predominio di note cavernose, e nella presente interpretazione de'vari tipi con predominio di sfiaccolamento fisico. Altre e molte possono essere le cause che concorrono a tale alterazione : forse celate, forse anche opposte in tutto e per tutto a quelle che noi colla nostra gran presunzione di critici indagatori crediamo di conoscere. E prima di tutto : questa gran preferenza sugli altri tipi gli è venuta, come vorrebbero i più, dal dominio esercitato sul suo sistema nervoso dal personaggio di Osvaldo negli Spettri di Ibsen, il primo della specie ? O non piuttosto da una particolare attitudine, sviluppatasi a grado a grado, all’interpretazione del dramma interiore, {p. 709}anzichè del dramma di passione ? E l’alterazione non potrebbe attribuirsi meglio a una semplice cagione fisica, a un eccesso di fatica nell’uso quasi costante per lungo tempo di voci aspre e cupe a ritrar certi tipi di Pane altrui, La Potenza delle tenebre, Don Pietro Caruso, Padre, che agirono e agiscono come una lima sugli organi vocali ? O si dovrebbe attribuir forse al fatto che, quanto maggiormente egli si dà con l’andar degli anni e il crescer della rinomanza alla disanima profonda di un personaggio, tanto meno egli pensa al modo di esprimerla col cesello della parola ? Chiedete un po'a Ermete Zacconi qual metodo segua nello studio di una parte, e vi risponderà a un di presso così : « letto un lavoro che mi piaccia, esso resta nella mia mente, e mi segue costante come la larva del sole nella pupilla ; e, pur continuando l’opera mia consueta, provando altri lavori già vecchi, ragionando di cose estranee, passeggiando, mangiando, l’imagine della nuova commedia letta, e ch'io desidero di rappresentare, non esce mai dalla mia mente, e a poco a poco si disegna più chiara e decisa. Quando credo di averne afferrato l’idea fondamentale, vedo anche disegnarsi nettamente i singoli quadri che la compongono, agitarsi e vivere i personaggi. Quando sento di possedere il quadro e le singole parti, allora comincio le prove ; e man mano che queste si svolgono, mi rendo conto degli errori nei quali posso essere caduto, vedo con maggior precisione in qual giusta luce debba essere posto ciascun personaggio. Quando credo di aver tutto compreso, sospendo le prove e comincio ad imparare la mia parte, mandandola a memoria. Non studio mai ad alta voce. Quello che mi è accaduto prima per l’opera da interpretare, mi accade dopo per la parte che vi debbo sostenere. Una volta imparata, l’abbandono, e non la riprendo più ; ma mentre continuo ad occuparmi di altro, vedo sempre il mio personaggio, ne analizzo l’anima, il carattere, i sentimenti, a traverso le parole che io già so ; e quando credo di possederlo interamente, di sentirlo, di viverlo, riprendo le prove. Allora queste si svolgono rapide, ed i così detti effetti balzano fuori, non cercati e voluti, {p. 710}ma naturali e logici per lungo processo di preparazione. Ed è facile capire come con questo studio del personaggio non soltanto nei fatti che si svolgono, ma ben anco nelle parole con le quali si esprime, il colorito e l’efficacia della dizione sieno una conseguenza legittima dello studio complessivo e non uno studio a parte ». Non studio mai ad alta voce. È dunque possibile che taluna volta a lui accada per la parola quello che accade ad altri in genere per la musica, i quali mentalmente credono di ripetere con esattezza un motivo, e quando si provano di rifarlo colla voce, non azzeccano più le note ? Una piccola concessione oggi ne genera due o tre domani, e via di seguito, senza che l’artista non più se ne avveda. Così non altrimenti io mi spiegherei l’alterarsi della dizione in grandissimi artisti, come a esempio, l’Emanuel, che, coll’andar degli anni andava ognor più accentuando, nell’arte somma di concezione, una dizione affannosa, rantolosa, che i più giudicavano invecchiata, e io semplicemente trascurata. Ma, chiusa finalmente la parentesi, rieccoci al caro artista, che ci torna oggi (1904) dall’America, ove ha recato il prestigio dell’arte italiana.

E quale prestigio ! Di alcuni lavori, o di alcuni momenti de'varii lavori da lui rivelati, gli americani del sud, per quanto avesser letto su pei giornali, non avrebbero mai potuto farsi un’idea. Di quel famoso monologo, per un esempio, di Lorenzaccio, in cui egli medita e determina e assapora con voluttà bestiale l’uccisione di Alessandro ! Una linea ancora, e forse lo Zacconi toccherebbe il grottesco ; ma la linea non c’è, e invece del grottesco abbiamo il sublime e per concepimento artistico e per espressione…. Quelle ondate di respiro mal contenute a mostrare la gioia interiore ; il mal contenuto agitarsi delle braccia e delle gambe con selvaggia infantilità ; le sghignazzate sommesse, arrestate a un tratto da un volgersi guardingo e immediato…. Sublime ! E come avrebber potuto farsi un’idea dell’arte sua tutta suggestiva, o terrifica, o spasmodica, negli Spettri d’Ibsen, nel Pane altrui di Turguenieff, nel Nuovo Idolo {p. 711}di De Curel, nelle Anime solitarie di Hauptmann, nei Disonesti di Rovetta, nel Kean di Dumas, nel Don Pietro Caruso di Bracco, nella Morte civile di Giacometti, nell’Al Telefono di De Lorde ?

Come delle squisitezze di cesellamento nella Resa a discrezione di Giacosa, nell’Amico delle donne, nel Demi-monde e Padre prodigo di Dumas figlio, nel Duello di Ferrari ? Come dell’arte, tutta verità e modernità nell’Amleto e Otello e nella Bisbetica domata di Shakspeare ? Ermete Zacconi è soprattutto vero. Anche quando {p. 712}rappresenta grandi personaggi della Storia, anche quando la forma del lavoro è elevata, egli trova modo di arrotondare colla sua naturalezza, non mai volgare, ogni plastica angolosità, mostrando di seguire in questo metodo di studio per l’interpretazione e l’espressione Giovanni Emanuel, che, primo, recò sulla scena la tragedia shakspeariana, spoglia di tutti gli arredamenti decorativi con cui l’avevano data, con arte pur grandissima del resto, i suoi più celebrati predecessori. E però il pubblico che ben ricorda l’arte magistrale e novatrice dell’Emanuel, chiama questo volentieri maestro dello Zacconi, tanto più che, come accade il più spesso per ogni attor subalterno, egli, vivendo al fianco del grande artista, ne ritrasse, certo inconsapevolmente, alcune maniere e inflessioni. Se per maestro s’intenda solo, come deve intendersi, colui che, colla dedizione incondizionata all’arte, coll’alto rispetto del pubblico e di sè, collo studio profondissimo di sintesi e di analisi, trasfonde nell’animo altrui la fiamma sacra, certo l’Emanuel fu maestro dello Zacconi. Che se poi per maestro si volesse intendere colui dal quale si succhia e il metodo dello studio, e il fondo dell’interpretazione, e le originalità della dizione, allora certo lo Zacconi rigetterebbe il giudizio, come de'più erronei. Egli aveva già 27 anni, quando entrò nella Compagnia dell’Emanuel, e lo intese per la prima volta. La sua tempra d’artista e il modo di comprendere e di estrinsecare l’obbiettivo e l’ideale artistico, erano in lui già così nettamente fissati, che no avrebber potuto mutare a un tratto, e a quella età, sotto l’influenza d’un’altra arte, per grande ch'ella si fosse. Anzi : ammiratore convinto dell’intelligenza grandissima e del genio dell’Emanuel, spesse volte egli avrà dovuto dissentire da lui, metodico per eccellenza, sui diversi modi di estrinsecazione. Che vuol dire mai questo circoscrivere l’arte a un tale o tal altro sacerdote ? Che in arte vi sia chi impotente a far del suo, cammina servilmente sull’orme altrui, è indiscutibile : ma quegli non è più artista ; è semplicemente attore. Come avrebbe potuto diventar lo Zacconi scolaro dell’Emanuel, se uguale ammirazione {p. 713}aveva per la forza comprensiva e l’arte profonda e cosciente di questo, per gli scatti passionali del Majeroni, per la sincerità quasi dialettale di Papadopoli, pel dire intelligente e affascinante del Cappelli, per altro di altri ? Come avrebbe potuto, egli, così ricco d’intuito artistico, riproduttor della vita sulla scena fin da giovinetto, staccarsi per sentimento d’imitazione da quella sua espressione d’arte, che amava profondamente, perchè espressione del suo cuore e del suo pensiero ?

Dunque niente maestri nè teorici nè pratici. I maestri, nel senso di fabbricatori di artisti, non sono mai stati e non saranno mai, perchè l’ingegno e il sentimento non li dà l’uomo. In arte non possono essere che delle guide, le quali con l’esempio e la parola additino all’attore la via diritta dello studio. Sarebbe lo stesso come dire lo Zacconi scolaro di tutti gli ammalati e i moribondi che osservò negli ospedali per raccogliere sinteticamente in una semplice linea tutta l’analisi fatta su quelle contrazioni facciali lente e spasmodiche, che generaron poi una polemica su pei giornali a proposito dello spegnersi di Corrado nella Morte civile di Giacometti : polemica di cui forse una parte del pubblico avrebbe fatto a meno volentieri, tanto più ch'essa era aperta fra il glorioso decano de'nostri artisti, Tommaso Salvini, che fu per quarant’anni il rappresentante del classicismo a teatro, e lui, rappresentante da un decennio del verismo : l’arte vecchia, non mai interamente scomparsa, e che va rifacendo capolino oggi nel rinnovamento del dramma storico, e l’arte nuova, che va già cennando a modificarsi. Niente vi deve essere di più sintetico, di più artisticamente teatrale dello spasimo dell’agonia, e delle malattie in genere, sul teatro. Se lo Zacconi, studioso e scrupoloso all’eccesso (anche per ciò l’Emanuel aveva già dato un esempio colla riproduzione maravigliosa di una morte di delirium tremens nell’Assommoir di Zola), afferma di avere frequentato giovanissimo a scopo di studio manicomi, ospedali, cliniche e reclusori, perchè non dovremmo noi credergli ? E perchè non credergli quand’egli afferma di avere letto Descuret, Charcot, Lombroso, Ferri ed {p. 714}altri ? E perchè non, ancora, quand’egli afferma di sapere le ragioni scientifiche di quanto ha osservato, e, nella riproduzione dell’essere normale e anormale, di non compiere un movimento muscolare e nervoso, senza conoscerne le origini generatrici ?

Se lo Zacconi affermasse che oggi, tempo di troppo sapere, un artista coscienzioso non può permettersi il lusso di morire a soggetto, di spasimare genialmente, avrebbe, nel fondo, tutte le ragioni. D'altra parte, capisco, ecco subito riaffacciarsi quella benedetta faccenda della teatralità, che si vorrebbe, non so con quanto criterio, sbandire dal teatro, fatto tutto di convenzioni : chi dovrebbe giudicare della genialità o realità di quegli spasimi ? Il pubblico, o gli scienziati facenti parte, per un caso, del pubblico ? Io credo il pubblico ; il quale, o genialità o realità, dee volere soprattutto dell’arte pura. Tuttavia (e qui non voglio toccar la quistione della logica nel genere di morte di Corrado), se artista sommo ci è apparso fino a ieri Tommaso Salvini, e artista sommo ci appare oggi il siciliano Giovanni Grasso, il quale sa di ospedali e di morti, quant’io di meccanica, grandissima lode va data allo Zacconi, se all’entusiasmo della moltitudine vuole anche congiunta la sapiente ammirazione dello scienziato.

A voler dare in luce i giudizi dell’Italia e di fuori su Ermete Zacconi ci sarebbe da fare un grosso volume. A lui sono stati decretati a ogni nuova interpretazione gli onori del trionfo ; e il pubblico ricorda ancora, fra tanti, il godimento intellettuale provato, quando egli, al fianco di Eleonora Duse, apparve sotto le spoglie di Lucio Settala nella Gioconda e di Leonardo nella Città morta di Gabriele D'Annunzio. Non vi fu città, si può dire, nostra o forestiera, in cui l’estro poetico, non si risvergliasse a dir le sue lodi : tra i tanti versi (ve n’han già dell’83, quand’egli era al Pantera di Lucca, presagenti la gloria futura) scelgo questi di Achille Testoni, dettati l’ottobre del '95 quando al grande attore drammatico | vanto dell’arte italiana | il pubblico modenese | l’entusiasmo più alto e sincero | addimostrava.

{p. 715}O DIVA ARTE….

Tu, che dell’alma il bujo nembo sperdi,
O bellissima Iddia,
A noi torna benigna e l’arsa via
Al tuo sole rinverdi !
Ecco, tu appari con le scinte chiome
Tra un velo luminoso,
Ed è a te volto l’occhio desïoso,
È sul labbro il tuo nome.
Ecco, a te intorno un dolce alito spira
Che il bel volto accarezza,
E l’alma nostra in fremiti d’ebbrezza
Te, o divina, sospira !
O divina Arte, al vivere fecondo
Noi, sfiduciata gente,
Infiamma. Solo al bacio tuo possente
Si rinnovella il mondo !
Modena, 9 ottobre 1895.

E nullameno, davanti la grandezza dell’arte sua, l’entusiasmo ch'egli suscita nelle platee, le acclamazioni più vive, quasi forsennate che riceve ogni sera, e diciam pur anche davanti i suoi guadagni che gli concedon oggi più che l’agiatezza, egli ha serbato intatta una famigliarità di modi particolare. Nulla mai in lui che riveli l’artista, e soprattutto il grande artista, fuorchè il segno naturale della modestia, dell’affabilità, della bontà.

Quando in estate, nei mesi di riposo, può con una maglietta nera, coi calzoni rimboccati, colle braccia nude e un berrettuccio in testa, infilare il bracciale da pallone, o inforcar la bicicletta, o guidar l’automobile fuor delle mura di Bologna, presso la sua cara villetta, o in riva al gran mare, egli è a nozze ; e un bel sorriso sano gli risiede sulla bocca, spianando tutte le rughe degli Osvaldi, dei Corradi, degli Otelli….

{p. 716}Zagnoli Carlo. Fiorito sul finire del secolo xvii, fu attore al servizio del Duca di Modena per le parti di Primo Zanni, sotto il nome di Finocchio (V. a Torri Antonia l’elenco della Compagnia pel 1689) ; ma non aveva la parte, ossia era attore pagato a un tanto fisso.

Il nome di Finocchio fu tenuto prima dal ferrarese Cimadori (V.), e forse fu maschera (in una lieve variazion di brighella, capostipite della famiglia de'primi Zanni) con atti e parlare leziosi ; ma non saprei dire se il significato di « allettamento, attrattiva prodotta dal sapere usare le piacevolezze, i motti, sali, ecc., » poi di effeminatezza e peggio, derivi dalla maschera, o questa da esso.

Zago Emilio. Il solo scrivere questo nome mi mette il buon umore e mi rifà il sangue. Quel riso della bocca e degli occhi, quella voce squillante, quei ciao e complimenti, e ostregheta tutti suoi, quella pancia, quelle gambette, che ricordano un po'il delizioso buffo barilotto del San Carlino, formano un tale insieme di giocondità, che non è possibile vederlo e udirlo, senza lasciarsi andare alla più matta risata. Perchè…. egli è piccolo, molto piccolo, inverosimilmente piccolo, tanto che la sua statura fu nell’inizio della sua vita artistica un grande ostacolo a farlo entrare in una Compagnia rispettabile come quella di Moro-Lin, che fu la sua prima e grande e ben giustificata aspirazione.

Nacque a Venezia il 19 marzo 1852 da Giuseppe Zago e da Maria Vianello, e mostrò fin da giovanetto inclinazioni e attitudini al teatro. Entrato nella Filodrammatica Gustavo Modena, potè subito, sotto gl’insegnamenti dell’artista Carlo Hurard, farsi notare per una innata, irresistibile comicità ch'ei profondeva ne'limiti di una correttezza artistica, assai rara in un dilettante. Gli applausi della folla, le lodi della critica gli fecero lasciare di punto in bianco l’impiego ch'egli aveva di commesso nella Casa Commerciale del Senatore Reali, e lo fecero partire a insaputa de'suoi per Loreo, dove era ad attenderlo la {p. 718}Compagnia di Francesco Zocchi, che recitava all’aperto, e da cui, dopo alcun tempo, felice di potersi liberare da quell’ambiente di guitti, passò a Voltri in Liguria, in quella Ilardi-Cardin, la quale, purtroppo, era più guitta dell’altra. Finalmente, dopo cinque anni d’incredibili peripezie, in cui la fame aveva pur sempre la più gran parte, a traverso plaghe inospitali, in barroccio, in carretta, a piedi, or cogli Stenterelli Serrandrei e Miniati, or con Benini e Gelich e De Carbonin e altri, recitando da vecchio e da giovine, da promiscuo e da mamo, e fin sotto le spoglie della maschera Faccanapa, contrapposto vivente e poco fortunato del Faccanapa di legno inventato dal Reccardini, che formava le delizie del popolo triestino, mentr' egli, Zago, era con Gelich, Tollo e Papadopoli al Teatro Mauroner, pur di Trieste, eccotelo – dico – finalmente di sbalzo (agosto '76) a Napoli con 5 lire al giorno, generico della Compagnia Veneziana di Angelo Moro-Lin, salutato da un fragoroso, unanime applauso al suo primo apparir sulla scena, dopo appena tre sere dal suo debutto.

Restò con Moro-Lin fino a che (giugno dell’ '83) per la morte della celebrata attrice Marianna Moro-Lin, la Compagnia si sciolse, e ne formò subito una egli stesso in società con Borisi diretta da Giacinto Gallina, e amministrata dal fratello Enrico, della quale eran bell’ornamento, oltre che Zago e Borisi, la Zanon-Paladini, la Fabbri-Gallina, la Foscari ; e la quale esordì con clamoroso successo il 2 settembre a Feltre, e andò trionfalmente fino al febbrajo dell’ '87 ; in cui, nella sera di congedo, dopo gran numero di chiamate alla Compagnia, egli dovette andar solo a ricever le acclamazioni della folla al colmo dell’entusiasmo. Si unì per alcun mese alla Compagnia Benini-Sambo, e formò poi per la quaresima dell’ '88 una nuova società con Guglielmo Privato, che procedè come l’altra di trionfo in trionfo sino allo spegnersi di questo, diventando alla fine capocomico solo, rallegrato seralmente dalla gioja ormai abituale del successo, e dalla speranza nuova e pur grande di vedere i maggiori progressi del figliuolo Giuseppe (uno dei {p. 719}quattro ch'egli ebbe dal suo matrimonio [carnovale 18 {p. 82} con la signorina Cesira Borghini di Ancona, il quale, a fianco del babbo, con tanto esempio e con tali ammaestramenti, comincia a far già buona prova nelle parti comiche [V. la prima fotografia del quadro]), addolorato soltanto, egli, artista nell’ anima, di non aver più potuto, e non potere, non so bene se per ragioni artistiche o finanziarie, congiungersi al suo confratello dialettale Francesco Benini, e rinnovar le vecchie, e interpretare alcune parti nuove del repertorio di Gallina.

« L'avvenire del teatro veneziano – egli disse una sera dell’ottobre '98 al Rossini di Venezia in una intervista con Renato Simoni – sarebbe splendido, ove, tolti di mezzo gli ostacoli, non creati da me, che dividono la nostra Compagnia da quella di Gallina, ci trovassimo uniti tra i migliori : Gallina, Benini, Privato, la Zanon, io, e i più buoni elementi delle due Compagnie. Si entrerebbe in un periodo glorioso, che ricorderebbe i tempi di Marianna Moro-Lin. Non occorrerebbero neppure commedie nuove ; basterebbero le ultime di Gallina, qualche po' di Goldoni, il buono del repertorio veneto, e il pubblico dovrebbe venire per forza a teatro. Purtroppo questa combinazione non è per ora che un sogno. Io aspetto e spero. » E l’aspettazione e la speranza, quasi vane ormai, non gl’impediscono di portar sempre e dovunque il magistero dell’arte sua, con predominio di note schiettamente gaje, sia che il buon gusto del pubblico gli conceda di spiegar le sue doti ne'capolavori goldoniani (oggi [1905] ne ha oltre venti in repertorio), sia che dal palato avvezzo agli eccitanti, o dal bisogno nel pubblico lavoratore di una distrazione spensierata, egli debba mostrarsi nelle innocue e pur vilipese aberrazioni chiassone della pochade. Perchè…. pochi artisti hanno come lui il privilegio di riempiere la scena. Io lo metterei subito, nella scena dialettale, accanto a Ferravilla e alla Zanon : due artisti che per la loro vita vissuta dinanzi alla ribalta, assorbono dal lor primo apparirvi i sensi tutti dello spettatore. Emilio Zago, dicono, alcuna volta va oltre i confini dell’arte. Voglio {p. 720}concederlo. Chi non c’è andato, e chi non ci va, anche de' sommi, specialmente comici ? Il rimprovero dello strafare fu mosso dalla critica inguantata, come s’è visto, anche a Luigi Vestri, il quale, artista eminentissimo, di una verità, e soprattutto di una semplicità sbalorditiva, pare fosse tuttavia conoscitore profondo di tutte le risorse del mestiere, alle quali, per acconciarsi alle esigenze di certi pubblici, ricorreva talora, non saprei dire se volentieri o a malincuore. E poi : in che lavori avrà strafatto il Vestri, in quali strafà lo Zago ? Chi vorrebbe adoperar la brutta parola per I Recini da festa, La Casa nova, Sior Todero brontolon, I Rusteghi, Oci del cor, e quel Fator galantomo, in cui egli, incredibile dictu, muore in iscena, e commuove il pubblico, tanto da sclamar la prima sera a Trieste (gennajo '96) a recita finita : « In malorsega che li go fati pianzer ?… » E di che deve il pubblico dolersi, ove l’artista egregio alle chiassate nell’Amor sui copi, o nel Campagnol ai Bagni al Lido, o nell’Albergo del Libero scambio aggiunga alcuna delle sue strampalerie, qualche suo granellin di pepe ? A lui deve già tanto il pubblico e tanto ancora dovrà ! Emilio Zago, che ha in sè tutta la spigliatezza arguta, tutta la bonarietà del suo popolo veneziano, è forse il più atto a sentire e a riprodurre l’opera di Carlo Goldoni fatta dallo stesso vero ; e al teatro di Goldoni infatti egli volge oggi ogni pensiero, ogni studio, ogni aspirazione. Bisogna conoscerlo personalmente, battere, dirò così, al suo cuore, e farglielo aprire, senza soggezione : su cento parole ottanta sono per Goldoni. Bisogna vederlo fra un atto e l’altro, e magari fra una scena e l’altra, in quel suo camerino, ingombro di giubbe di ogni specie, di spadini lucenti, di parrucche, vicino alla sua tavola di truccatura, sulla quale, accanto ai barattoli del minio, del bianco, della terra d’ombra scintillano anelli antichi enormi, e orologi istoriati e tabacchiere e ciondoli svariati, e al disopra della quale alla parete di fronte, accanto a un grande specchio vigila in bella e nitida incisione il ritratto di Lui, di Goldoni, in compagnia d’incisioni minori di suoi personaggi, di maschere, di mode del suo tempo ; bisogna vederlo, {p. 721}dico, col suo libricciuolo in mano di una commedia del Maestro, non mai tentata a' nostri tempi, per esempio, L'uomo prudente, o L'uomo di mondo, che studia, analizza, notomizza per la riduzione, pei tagli sapienti, per le trasposizioni di scene, di frasi, di parole !…

E così a ogni commedia goldoniana che risorge, è una buffonata nostra o forastiera che tramonta…. E così, mercè sua, Goldoni rivive sulla scena, di vita, se non anche gagliarda, non più tisica certo, come pochi anni a dietro…. Così, mercè sua, il vecchio teatro dell’Armonia di Trieste riceve il 30 novembre 1902 il nuovo battesimo di Teatro Goldoni ;… E così, finalmente, nel costante favore di popolo e di critica, un suo pallido e debole sogno di creare la casa di Goldoni a Venezia con artisti veneziani e repertorio goldoniano, va acquistando nella sua mente e nel suo cuore luce e vita per modo da occuparlo tutto omai come una, più o men lontana, realtà luminosa…. Ed è con l’accenno a sì grande idea, e con due parole di lieto augurio, ch'io metto fine al mio piccolo dire : Dio voglia !…

Zamarini Carlo. Nacque ai primi del secolo xix a Trieste, dove, fatto un corso regolare di studj, si impiegò presso una Casa di Commercio. Ma la passione per l’arte drammatica lo vinse a segno, che, dato un addio ai libri mastri, si scritturò in una Compagnia comica in qualità di amoroso, diventando in breve attore di qualche pregio. Ma forse egli s’avvide più tardi, e i suoi compagni con lui, che per gli studj a'quali s’era dato prima di calcar le scene aveva assai più inclinazione che per l’arte. Sposatosi ad una egregia attrice pur triestina, Giovanna, che fu buona madre e caratteristica, determinò di lasciar l’ufficio di attore per quello di amministratore, nel quale riuscì egregio. Amoroso il '43 con Angelo Lipparini, diventò socio e cassiere il '46 della Compagnia di Ernesto Rossi, poi conduttore e amministratore della famosa Lombarda che fu prima diretta da Alamanno Morelli, e ch'egli tenne più anni or sotto la direzione di Luigi Aliprandi, ora di Carlo Lollio, ed ora di Carlo {p. 722}Romagnoli. Il '64 lo vediam direttore di una Compagnia, di cui faceva parte il Meneghino Luigi Preda, e di cui erano prima attrice sua figlia Antonietta, distinta artista, e primo attore suo genero Achille Cottin : poi, finalmente, amministratore di quella di Luigi Bellotti-Bon, di cui fu più che scritturato, amico, e da cui si tolse sol quando per la vecchiezza e gli acciacchi fu costretto a ritirarsi a Firenze. Ma dopo varj anni, colpito da paralisi, fu per consiglio di medici trasportato a Barbania di Piemonte, in una villa dei Cottin, dove morì l’ 8 novembre 1886.

Zampieri Vittorio. Nato a Verona il 21 aprile del 1862, e destinato dalla madre all’ingegneria, dovè, per rovesci di fortuna, abbandonare con grande rammarico gli studi, dopo il terzo anno d’Istituto (sezione matematiche), e andarsene impiegato nell’Amministrazione ferroviaria a Torino, dove gli si sviluppò la passione dell’arte, e dove stette cinque anni, filodrammatico acclamato. Esordì al Sannazzaro di Napoli in Compagnia Pietriboni, la quaresima dell’ '83 come amoroso, salendo dopo un triennio al grado di primo attor giovine con Lorenzo Calamai, per passar poi con Andò, nella nuova Compagnia di Eleonora Duse, dov'ebbe campo di farsi notare, per la eleganza e la correttezza della dizione, specialmente nella parte di Pinquet in Francillon di Dumas figlio, che creò con molto successo al fianco dell’illustre attrice, colla quale restò cinque anni. Fu poi due anni con Cesare Rossi (prima donna Teresina Mariani, ch'egli sposò, quando entrambi andarono a far parte della Compagnia Garzes), poi si diede al capocomicato in Società con Paladini, Calabresi e Biagi per un anno ; con {p. 723}Paladini per sei anni, e finalmente solo da cinque, amministratore egli stesso e primo attore assoluto. Questo il breve e fortunato stato di servizio di Vittorio Zampieri, il quale, recando sulla scena, oltre allo studio e alle chiare attitudini, tutta la gentilezza, tutta la dolcezza dell’indole sua, sa farsi ammirare e applaudire dai pubblici di ogni specie, al fianco della sua egregia compagna.

Zanardi…. È citato da Fr. Bartoli come valoroso brighella del secolo xviii, noto per una commedia di sua invenzione, intitolata : Arme e bagaglio, « in cui intorno alla sua propria persona aveva tutto il bisogno onde apprestare una mensa lautamente imbandita ». Nell’Arlecchino perseguitato dai quattro elementi Giovanni Roffi rinnovò la comica trovata, seguito ancora dal Rossi suo cognato e da altri.

Zanarini Agostino. « Bolognese. Recitò nel carattere da Innamorato con buonissima disposizione. Fu nella Compagnia d’Antonio Marchesini, e poi passò in Venezia in quella de'nobili Vendramini al Teatro S. Luca. Sufficientemente fece conoscere i suoi talenti per la comica professione, e morì in fresca età lasciando molti figli alla vedova sua moglie. » Così Francesco Bartoli.

Zanarini Giuseppe. Figlio del precedente e marito di Rosa Brunelli (V.), che sposò poi in seconde nozze un Bacelli musicista (V. Bacelli-Zanerini), fu abile attore per le parti d’Innamorato. Passò il 1754 colla moglie al S. Grisostomo di Venezia, sotto la direzione di Onofrio Paganini, col quale restò fino al dì della sua morte, avvenuta intorno al 1760.

Zanarini-Bianchi Antonia. Figlia del precedente, fu dal patrigno Bacelli ammaestrata nella musica, e cantò, fanciulla, l’ultima parte in comici intermezzi a Bologna e altrove. Passata colla madre a Parigi, esordì il 21 luglio 1766 come {p. 724}amorosa alla Comedia Italiana negli Amori d’Arlecchino e di Camilla di Goldoni. Morta la servetta Veronesi (V.), ella ne prese il posto nel 1768, e si fece chiamare in teatro Argentina. Fu ricevuta il '69 per una piccola parte, il 10 aprile '72 a tre quarti, e poco dopo a parte intera. Nel '79, quando alla Comedia Italiana si cominciò a modificare il repertorio, e a rappresentare il più spesso opere francesi, ella diè gran prova di zelo e di intelligenza, recitando egregiamente le parti di servetta nelle commedie di Marivaux. Soppresso poi totalmente l’anno dopo il genere italiano, ella fu congedata con una pensione di mille lire annue e un indennizzo di cinquemila lire da pagarsi in due anni e in due volte, e se ne tornò in Italia con la madre e un bambino, frutto del suo matrimonio con un Bianchi, dal quale viveva separata. « I suoi meriti personali – dice Fr. Bartoli – i suoi modi graziosi e la di lei teatrale abilità forse non del tutto al teatro saranno tolti, essendo sparse alcune voci, che ci fanno sperare di rivederla ben presto sulle scene d’Italia. »

Ma dal 1781 in poi non mi fu dato rivederne il nome in alcun elenco. Quanto ai meriti personali e ai modi graziosi, il Campardon riferisce, colla scorta del Grimm, come l’inglese Tommaso Hales, chiamato comunemente d’Hèle in Francia, ove si fece conoscere come autore drammatico e fece rappresentare alla Comedia Italiana Le jugement de Midas, L'Amant jaloux, e Les événements imprevus, opere tutt’e tre musicate dal Grétry, si fosse pazzamente invaghito della Bianchi, a segno da morirne il 27 dicembre 1780, non avendo potuto indurla a rimanere a Parigi.

D'una magrezza eccessiva, stordita e senza cuore, ispirò il seguente ritratto pubblicato in un libello verso il '79 : « Si può vedere presso la signora Bianchi, detta Argentina, via dell’Amante geloso (titolo d’una delle commedie del d’Hèle), uno scheletro che cammina, mangia, digerisce e dorme come una persona naturale. Non v' ha che la testa e il cuore che non funzionano. Parla italiano, balbetta il francese, mastica l’inglese e non scortica alcuno ».

{p. 725}Zanarini Petronio. Fratello minore di Giuseppe e di Carlo (di cui non ho trovato notizie, ma già comico, e al tempo del’ Bartoli (1781) maestro di ballo in una città della Lombardia), nacque a Bologna ; e dopo di avere fatto qualche studio, si diede all’arte dell’intagliare in legno, nella quale riuscì un fine lavoratore. Appassionato del teatro, recitò commedie tra' dilettanti della città, mostrando subito le più chiare attitudini alla scena, tanto che, occorrendo ad Antonio Sacco un Innamorato, egli ne assunse il ruolo col mezzo del soprintendente i teatri di Bologna, la primavera del 1767. Esordì a Torino e subito fu riconosciuto attore di rari pregi ; talchè, addentratosi ognor più nello studio, riuscì in breve il più valoroso artista del suo tempo a giudizio d’uomini competenti, quali Francesco Gritti, che afferma « nelle parti dignitose e gravi, e ne' caratteri spiranti grandezza e pieni di fuoco, lui rendersi certamente impareggiabile » e Carlo Gozzi che lo chiama « il miglior comico che abbia oggi l’Italia, » e Francesco Bartoli che gli dedica nelle sue Notizie più pagine dell’usata iperbolica magniloquenza. « Una magistrale intelligenza – dice – una bella voce sonora, un personale nobile e grandioso, un’ anima sensibile ed una espressiva naturale ma sostenuta, formano in lui que'tratti armonici e varj, co'quali sa egli così ben piacere e dilettare a segno di strappare dalle mani e dalle labbra degli uditori i più sonori applausi. » Nel Padre di famiglia di Diderot, nel Gustavo Wasa di Piron, nella Principessa filosofa e nel Moro dal corpo bianco di Carlo Gozzi, nel Radamisto di Crebillon, nel Filottete (di De la Harpe ?) e in altre moltissime opere di ogni genere egli spiegava tutta la forza della sua intelligenza sia per altezza d’interpretazione, sia per forbitezza di dizione, e sia anche per esattezza scrupolosa di costumi ; al cui proposito ci avverte il Bartoli ch'egli stesso ne inventava, disegnava e coloriva i modelli, facendo poi ad altri colla sua assistenza ultimarne l’esecuzione. Nè solo del recitare si occupò, che la musica e il ballo conobbe a segno da poter cantare e danzare in commedia con garbo, quando il bisogno lo richiedeva. Amantissimo di scienze {p. 726}naturali, si diede all’esame del microscopio ; fu gran conoscitore di Storia civile, e si dilettò di poesia, nella quale, specie in quella del dialetto bolognese riuscì con lode. Il Bartoli annunzia il suo futuro ufficio di conduttore e direttore di una compagnia, « atta forse ad emulare le andate glorie de' prelodati Gelosi e Confidenti », ed augura possa con lui rifiorire « sulle italiche scene l’antica virtù della famiglia Andreini ».

Fu infatti lo Zanarini capocomico dal 1782, cioè dall’uscita dalla Compagnia Sacco, del cui tempo il Gozzi ci ha lasciato la seguente notizia, nell’Amore assottiglia il cervello, al 1790.

Adunque egli racconta che Amore assottiglia il cervello, commedia in verso sciolto, doveva essere, contro ogni sua volontà, recitata l’estate del 1781 a Verona. Petronio Zanarini, il migliore de'comici serj, s’era scelta la parte del protagonista, che necessariamente doveva pendere alle goffaggini facete. Egli non bilanciò nè la sproporzione dell’età sua con quella del personaggio, il giovane scimunito Don Berto, « nè la immagine, che il pubblico s’era formata del suo carattere, da cui attendeva soltanto un comico serio naturale, o un tragico maestoso declamatore di sentenziosa armonica gravità, nè la dissuasione del Gozzi stesso ». L'autore insistè su l’opinione che la parte del protagonista non conveniva al comico Zanarini, mostrando ogni timore sulla buona riuscita dell’opera, anche per la mancanza d’intreccio, e la lunghezza soverchia ; ma, per questo, i comici a cui premeva di fare un bel teatro, rispondevano col dargli del modesto e dell’umile affettato. La commedia non fu più data a Verona, nè Gozzi potè saper mai con precisione il perchè, sibbene a Venezia al teatro di San Luca la sera dell’11 dicembre 1781, dove, dopo i primi tre atti, fu accolta, secondo le previsioni dell’autore, a rumori di fischi e di urla.

Creò lo Zanarini al Valle di Roma la parte di Aristodemo nella tragedia di tal nome di Vincenzo Monti il 16 gennajo 1787 ; e pochi giorni appresso Volfango Goethe ne' Ricordi dell’ Italia scriveva : « L'attore principale in cui si concentra tutta la {p. 727}tragedia, si rivelò nella parola e nell’azione artista egregio. Parea di veder su la scena uno degli antichi Imperatori romani. Vestiva il costume imponente che ammiriamo nelle antiche scolture, ridotto con arte alle esigenze della scena : insomma si vedeva che aveva studiato gli antichi ». Vincenzo Monti nell’esame critico dell’Aristodemo chiama Zanarini incomparabile comico, che gli stessi francesi paragonano e molti antepongono ai più famosi della loro nazione.

E nove anni più tardi, nel 5° volume del Teatro applaudito, ove sono le Notizie storico-critiche sull’ Aristodemo, si conferma il giudizio con queste parole : « Ivi il valore del celebre Petronio Zanarini si manifestò eminentemente, sostenendo con tragica dignità il carattere di Aristodemo ».

Il carnovale dell’anno dopo allo stesso Valle, andò in iscena colla stessa compagnia la seconda tragedia di Vincenzo Monti Galeotto Manfredi, nella quale col solito grande successo lo Zanarini sostenne la parte di Ubaldo degli Accarisi (Galeotto era Giuseppe Orsetti).

Cessato di essere capocomico, si scritturò con Antonio Goldoni, primo attore con scelta di parti e direttore ; e con lui stette fino al '95, anno in cui passò con Luigi Perelli, col quale lo vediamo quell’ autunno al San Luca di Venezia sostenere per la prima volta le parti di padre. Nel 3° volume del Teatro applaudito sono per quella stagione e su quell’attore le seguenti parole : « Fu sempre eguale a sè stesso, e sempre grande tanto nel tragico, quanto nel comico, specialmente colla parte del Re nell’Adelasia in Italia, con quella di Benetto nello Sposo veneziano rapito, e coll’altra di protagonista nel Ladislao ».

Dopo quell’anno, desideroso di abbandonare le scene, si ritirò nella sua Bologna ov'era ancora la madre più che settantenne, vivente con un figlio, maggiore di Petronio, parroco di un villaggio non molto lungi da Bologna. Il Colomberti (le notizie gli furon date da vecchi attori, alcuni de' quali compagni d’arte dello Zanarini, come Nicola Vedova, Federico Lombardi e Lorenzo Pani) ci fa sapere la tragica fine di Don {p. 728}Pietro, prete intransigente, e della povera madre. Correva il 1797, e l’Armata Repubblicana, impadronitasi delle Legazioni, aveva fatto, pur ne' più piccoli e remoti paeselli, innalzare l’albero della libertà con in cima il simbolico berretto. Anche Don Pietro, avutone ordine, l’innalzò nella piazzetta del villaggio ; ma nel cuor della notte. Levato poi di buon mattino, lo fe' tosto atterrare da contadini al par di lui intolleranti, e lieto dell’opera sua se n’andò nella vicina chiesetta a celebrar la messa. Ahimè ! Compiuto il sacro ufficio, non avea messo ancora il piede nella piazza, che fu arrestato, e lì per lì, alzata accanto all’albero della libertà una forca, impiccato. Poche ore dopo, colpita da sincope, anche la vecchia madre morì ; e Petronio, avutane l’orribile nuova in Bologna, fuggì tosto al colmo della disperazione a Venezia, dov'era la Compagnia Goldoni, che gli fece, ma sempre indarno, le più vive premure perchè trovasse nel ritorno alle scene la distrazione indispensabile al suo dolore. Egli si ricoverò in un’isola della laguna, confortato dalla moglie, dai figli e dagli amici di Venezia ; e dopo un anno, ceduto finalmente alle nuove istanze di Goldoni, si unì con lui pel triennio 1800-01-02, trascorso il quale si ritirò per sempre dalle scene, passati appena i sessantacinque anni di età.

Come saggio dello stile poetico dello Zanarini, metto qui un sonetto riferito dal Bartoli, diretto alla madre di un novello celebrante :

Donna, deh ! perchè piangi ? Il tuo dolore
da qual sorgente mai, dimmi, sen viene ?
Qual è l’affanno che ti stringe il core,
qual sventura a te fia cagion di pene ?
Non è affanno o dolor. È un mar di bene,
è una gioja, un piacere, un dolce ardore,
prodotto non da frali aure terrene,
ma dall’Eterno Iddio, dal mio Signore.
Non vedi tu colui curvato all’Ara,
che col suon de'suoi carmi il ciel disserra ?
Mia prole egli è, prole diletta e cara.
{p. 729}Disse : ed il volto suo tergendo alquanto,
tregua con lei formò la dolce guerra,
mentr'io piansi di gioja al suo bel pianto.

E chiudo con quest’altro, pur riferito dal Bartoli, « parto elegante – egli dice – di dottissima penna genovese, » dedicato

Al merito singolare del signor Petronio Zanarini attore impareggiabile al Teatro di Sant’Agostino, nella Primavera dell’anno 1775 :

Cingati omai de'suoi più verdi allori
Apollo il crin, e con dorate piume
spieghi la fama i tuoi veraci onori,
della comica scena inclito lume.
Col nobil gesto e colla lingua i cuori
di lusingar ognor hai per costume ;
se pianti adombri, ire, sospiri, amori,
il ver nel finto espresso ognun presume.
Pien di leggiadre doti e vivi affetti,
offri, Petronio, col variar l’imago
come Proteo novel, nuovi diletti ;
quindi nell’ammirarti in varj aspetti,
e saggio e amante, ed or faceto e vago,
tu insegni, infiammi e dolcemente alletti.

Zanarini Teresa. Fu prima attrice di assai pregio al principio del secolo xix in Compagnia Consoli-Zuccato e Pellizza.

Zanarini Marianna. La troviamo in Tolentino nel 1819 applauditissima con la Pani e con lo Zuccato.

Zandonati Faustina. Cagliaritana, nata il 1770 da Enrico Malgomieri e Teresa Alfani, moglie, poi vedova di Domenico Zandonati, fu l’amante e la prima attrice dello Stenterello Luigi Del Buono (V.). Dell’arte sua dice la Gazzetta Universale di {p. 730}Firenze (10 gennajo 1800) che ella rappresentò la parte d’Andromaca con quella vivacità e maestria, con la quale s’era fatta sempre distinguere sopra le scene del R. Teatro di Via del Cocomero per il corso di molti anni. Il Morrocchesi nelle sue Memorie inedite la dice invece : instabile e prosuntuosa ; robusta e di gran voce, sì, ma non brava : piuttosto giovine, fresca e fatticcia, ma non bella. Descrizione un po' forse esagerata, se vogliamo pensare che il Morrocchesi ne fu geloso e invidioso. Nell’opera di Jarro : L'origine della maschera di Stenterello (Firenze, Bemporad, 1898), sono riferiti alcuni saporitissimi aneddoti concernenti la Zandonati : e tra gli altri quello di una potente bastonatura, di notte, concertata tra 'l Morrocchesi stesso, il fratello di Del Buono e il servitore. La indemoniata donna morì alle 2 ½ del mattino del 1° maggio 1821, e si ha dai conti del Del Buono, il quale omai viveva con lei nella sua casa di via Borgognissanti, che spese pel mortorio (le fece dire ottanta messe) in tutto lire 328.6.8.

Zanetti Girolamo. Fu tra'compagni del Ruzzante (Vedi Beolco Angelo nell’opera e nel Supplemento), e dice lo Scardeone, che era chiamato Vezzo in commedia ; nome di servo, che vediam comparire tra le opere del Ruzzante una sola volta nella Vaccaria.

Zanetti (o Gianetti ?) Marc’Antonio. Fiorito sul finire del secolo xvii, fu comico al servizio del Duca di Modena per le parti di secondo Zanni sotto il nome di Truffaldino.

Da una supplica al Duca di Modena del 1686 per ottenere che gli fosse mantenuta la parte intera, non volendo i comici dargliene che metà, sappiamo ch'egli aveva moglie e cinque figliuoli.

Il carnovale del 1690 si trovava a Roma, d’onde scrisse una lunga lettera al Duca, perchè richiesto di andare a Bologna con la compagnia, gli fosse mandato il danaro bisognevole pel viaggio dispendioso (V. Savorini Galeazzo).

{p. 731}Il 9 aprile 1691, avendo Leandro (Rechiari) e Coviello (Sacchi) già ricevuto ordine di recarsi dopo Pasqua a recitare a Vicenza, poi a Verona, lo Zanetti, nulla sapendo di sè, da Bologna si raccomandava alla clemenza e generosità di S. A., affinchè non lo abbandonasse, e lasciasse senza occasione di recita, vale a dire senza il mensuale sussidio della Ser.ma Casa d’Este, che era l’unico sostegno della sua povera famiglia.

A un famigliare del Duca, il conte Maresciano, scrisse da Orvieto il 2 ottobre 1694 al fine di ottenere il passaporto per sè e uno per tutta la sua Compagnia : il che fa credere esserne stato lui il conduttore.

Allo Zanetti certo allude Luigi Riccoboni, quando dice (op. cit., cap. VII) : Zaccagnino e Truffaldino chiusero la porta in Italia ai buoni arlecchini.

Zanetti Gio. Battista, di Verona. Era il 1821 in Compagnia Alberti e Rosa, e le Varietà teatrali (n.° 13) di Venezia, dando conto della Compagnia, al Teatro grande di Brescia, dicon di lui : « Merita lode la premura che ha d’imparar bene a memoria tuttociò che deve dire dal proscenio. In pieno il pubblico si mostrò di lui appagato, e donò alla sua buona volontà ed indefessa applicazione quei difetti, in cui cade per colpa in parte di una pronuncia non troppo invidiabile e di un limitato talento ». Il n.° 36 dello stesso giornale per la stagione di primavera al Fu Obizzi di Padova, lo dice applaudito nelle parti da tiranno, e lo esorta « a raddoppiare il suo zelo, onde coprire qualche naturale svantaggio ».

Zannoni Atanasio. Ferrarese, figlio di Zanone Zanoni (nell’ediz. de'Motti brighelleschi, pubblicata a Torino nel 1807 dal figliuolo Alfonso è Zannoni coll’n doppia), dopo di avere con buona riuscita recitato tra' dilettanti della città natale, si diede per le non floride condizioni di famiglia all’arte drammatica, scritturandosi subito con Gerolamo Medebach, e passando poi con Antonio Sacco, del quale sposò nel 1750 la {p. 732}sorella maggiore Adriana, vedova di Rodrigo Lombardi (V.), e col quale andò il '53 in Portogallo. Forse egli, buono, sarebbe rimasto col cognato sino alla morte ; ma l’umor bestiale di lui, fattosi ancor più intrattabile pel ridicolo sopravvenir di una senile passione amorosa, lo spinsero a partirsene per congiungersi coi figli : lo vediam poi più tardi con la Battaglia insieme a Giacomo Modena.

L'arte sua somma nel rappresentare il suo personaggio, la facondia del suo dire, la lepidezza dei sali, congiunte a una probità perfetta e a una perfetta bontà fecero di lui un dei grandi sostegni della Compagnia Sacco pel corso di più che trentadue anni. Carlo Gozzi, sostenitore per cinque lustri di quella Compagnia, parlando dell’imminente suo sfasciarsi, dopo di avere citato i nomi di coloro che se ne allontanarono, dice : « Atanasio Zannoni di lui cognato, valentissimo comico, onest’uomo, e d’indole dolcissima, ferito dalle stravaganze del vecchio inviperito, trattava di sottrarsi dalla Compagnia, ecc. »

Il Gozzi, pregato dal Sacco d’interporsi perchè egli non se n’andasse, lo pregò a sua volta, promettendogli di far firmare al Sacco quella famosa scrittura che lo spogliava di ogni despotismo, e il buon uomo Atanagio…. diè la parola di rimanere, ridendo però sulla scrittura disegnata, perocchè (diss’ egli) lei vedrà che con mio cognato le scritture non vagliono un fil di paglia. Anche nel noto ditirambo de'partigiani di Truffaldino lo Zannoni è favorevolmente ricordato assieme agli altri comici.

E più che ricordato è nella prefazione del Re Cervo, in cui, oltre alla sua parte di credenziere del Re, rappresenta il vecchio Cigolotti del prologo. Il Gozzi dice :

Atanagio Zannoni, che sostiene con rara abilità il personaggio del Brighella tra le maschere nella Truppa Sacchi, rappresentava cotesto vecchio con quella perfetta imitazione nel vestito, nella voce, negl’intercalari, nel gesto, e nella positura, che suol far sempre ne' Teatri un grand’effetto con indicibile applauso.

Ma la notizia chiara del suo valore, e soprattutto di ciò che tal valore formava, noi abbiamo da Fr. Bartoli, là dove dice che

{p. 733}Atanasio Zannoni per rendersi particolare nell’eseguire la parte di questo personaggio, ha voluto allontanarsi dall’adottato suo trivial costume, e l’ha reso un uomo illuminato e spiritoso ; che parla con eleganza, che raziocinia con buon criterio, che ha qualche cognizione delle scienze, e ch' è naturalmente per sè stesso un poco filosofo. Colla lettura di molti libri Francesi e Spagnoli, non che Italiani [bello quel non che], ha saputo egli trovare una fonte di gustosi concetti, di massime dilettevoli ed istruttive, di sentenze dall’universale approvate, e d’apologhi semi-Esopiani argutissimi e faceti. Ne'Contratti rotti, negl’Influssi di Saturno, nella Vedova Indiana, ed in altre commedie dell’arte, dove egli abbia un assoluto maneggio vedesi pure il Zannoni porre in opera tutto il suo ingegno, ed infaticabilmente adoprarsi con lode nell’esecuzione dello studiato suo personaggio…. ecc.

E va avanti di questo stile per una buona pagina ancora, in cui, dopo avere accennato alla sua probità, alla sua amorevolezza, alla sua carità e alla sua religione, parla della sua erudizione nella storia antica e moderna, e delle sue attitudini allo scrivere in verso. Le parole trascritte starebber dunque a provare ch'egli snaturò la maschera del Brighella. Naturalmente i giudizi su di un attore van dati in considerazione dei tempi in cui egli fiorì ; chè se s’avesse a giudicar lo Zannoni col criterio che s’ha oggi dell’arte, tutti quei lardellamenti storico-scientifico-filosofici cel mostrerebbero artista enormemente peso.

E tale pesantezza ci vien fuori più volte scorrendo la raccolta de' Motti brighelleschi, editi più volte, ora in ristretto, ora aumentati dal figliuolo Alfonso. Ne traggo alcuni per dar l’idea di che cosa fosse diventata la maschera di Brighella Cavicchio {p. 734}di Val Brembana, disceso dalla parte alta di Bergamo, furbo, ladro, raggiratore, rivale in amore di Arlecchino, intrigante, mezzano di matrimonj.

Buon augurio.

El ciel ve daga le tre cose, che non gh' avè unite alle cinque, che gh' avè : le cinque son queste : bellezza d’ammirar, grazia da incantar, salude da invidiar, zoventù da diletar, e modestia da insegnar. E le tre che gh' avè ancora : un bel marido per non star sola, boni fioi che ve consola, e bona borsa per star molto a tola.

Dovere del Padre

El Padre, che vive spensieratamente, senza provveder ai so fioi, usurpa indebitamente vivendo el nome de padre, e acquista giustamente morendo quel de tiranno : do cose deve lasciar el padre, podendo, ai proprj fioi, una necessaria ; è l’altra utile ; la necessaria l’è la morigeratezza ; e l’utile l’ è el ben star : la prima pol star senza la seconda, ma la seconda senza la prima l’è un vetro che traluse, ma che ghe manca la fogia per esser specchio ; chi di tutti do le provede, vive contento, e mor felice, contento in vita, perchè l’ha fatto quel che el doveva : felice in morte, perchè el lassa quei, che da lu derivan, nei boni costumi, e nel ben star tutto el pagamento di quei debiti, che l’aveva contratti, quando ghe diede el ciel el rispettabile nome de padre.

E di questa sorta ve n’ha centinaja, mescolati, s’intende, delle solite baggianate ampollose, comuni un po' a tutte le maschere, che pajono, e sono, il sugo spremuto dalle similitudini strampalate di tutto il '600. Per esempio :

Battendo alla porta della donna

Donna dice : Chi batte ? L'è un corrier d’amor a caval dell’ubbidienza, coi speroni del comando, che porta un plico de suppliche alla monarchessa delle bellezze.

Segue per la serva

L'è un gallo spasemado, che vorria far do chichirichi nel pollaro amoroso della vostra grazia.

Circa furberia

La lassa far a mi, che per servirla, metterò in ordine la balestra delle furberie ; tirerò la corda dell’inganno ; piegherò l’arco dell’astuzia ; metterò la balla delle invenzion, la scaricherò colla violenza dei raggiri ; la raccomanderò ai vento dei strattagemmi, per far che la colga nel segno dell’ardente suo desiderio.

E via di questo passo. Nella raccolta di Torino 1807, aumentata dal figlio, figura fin anco il sonetto per la Malloni (V.) di Fra Ciro di Pers

Celia e Maria, voi siete mare e cielo,

{p. 735}un de' più begli esempj di achillinismo, che in bocca di Brighella avrà destato il risolino di compiacenza, Dio sa di quante svenevoli ascoltatrici.

Oltre a codesti Motti brighelleschi, il Diario del Riminaldi (Ms. 556. Classe I della Biblioteca Comunale di Ferrara, Comunicazione del chiarissimo prof. Agnelli) contiene una Lettera di ragguaglio dell’ arrivo in Torino da Madrid di S. A. R. la Sig.ª Duchessa di Savoja Maria Antonia Ferdinanda di Spagna, e delle feste fattesi per tale avvenimento seguito in Torino il 17 giugno 1750.

Nel Codice Faustini N. 362 del Fondo Antonelli, conservato alla stessa Biblioteca, è ricordata dallo Zannoni anche una commedia : La Patria, recitata in Ferrara nel carnovale del 1747 dalla Compagnia Medebach, nella quale l’autore era attore del carattere di Brighella. Dove sia andata a finire la commedia non si sa. Certo, m’avverte il prof. Agnelli, la data di rappresentazione del Codice Faustini ne è erronea ; avendo egli rilevato dal Diario Riminaldi che la Compagnia di San Samuele tenne un corso di quaranta recite tra il 22 e il 6 giugno 1747.

Tra le varie commedie ricordate nel Diario, di codesta Patria non è traccia alcuna.

Quando nacque Atanasio Zannoni ? Nella lettera al conte Giuseppe Alcaini che prelude ai Motti della prima edizione (Venezia, 1787) egli dice : « Nella mia vecchiezza, fatta più grave dalle disgrazie che l’accompagnano, ho il conforto di sentirmi per le vie commiserato, e di udire universalmente esagerato il dispiacere dello scioglimento della nostra Compagnia comica (quella del Sacco) un tempo tanto favorita da quest’ inclita Metropoli di concorso alla nostra Commedia improvvisa dell’Arte ». Dovè nascere dunque verso il '20.

La sua fine fu delle più misere. Pare che la maschera di brighella venisse al mondo sotto brutto auspicio. Il primo brighella apparso a Parigi nel 1671, faceva rabbia, tanto era detestabile ; lui morto, si chiamò a sostituirlo Cimadori Finocchio, il quale, poveretto, sorpreso dal male, morì per via a Lione. {p. 736}Giuseppe Angeleri, il più celebre di tutti, morì sulla scena, appena entrato fra le quinte, d’un colpo a Milano, l’estate del 1754 ; e il nostro Zannoni uscendo da una cena sontuosa a Venezia il 22 febbrajo del 1792, cadde in un canale profondo, e poco tempo dopo morì.

Zannoni Adriana. (V. Sacco Adriana e Lombardi Rodrigo).

Zannoni Teresa. Figlia dei precedenti, si diede principalmente allo studio della danza, e recitò anche parti di fanciulla nelle Fiabe di Carlo Gozzi. Ammalatasi la madre, ella si provò di sostituirla nel carattere della serva, e vi riuscì egregiamente. Il continuo studio, e la lunga pratica la miglioraron poi tanto, che diventò per le commedie all’improvviso una delle migliori serve del suo tempo. Nubile ancora nel 1781 viveva « lietamente – dice il Bartoli – presso il suo genitore, e dirigendo più che con femminile ingegno i domestici affari della propria famiglia ».

La vediamo poi, uscita dalla Compagnia Sacco, serva in quella di Luigi Perelli. L'elenco non ha data ; ma è dell’'85 circa. Un mio fascicoletto manoscritto di epigrammi reca il seguente :

ALL' ANGIOLINI-ZANONI

Imita nel mestier la fu tua madre.
Abborrisci la lingua di tuo padre.

Certo è questa stessa, moglie di Agapito Angiolini (V.).

Zannoni Alfonso o Idelfonso, come lo chiama Fr. Bartoli, fratello della precedente, recitò sotto una maschera che pare da lui inventata, non avendone trovato indizio nè prima, nè dopo lui, chiamata Agonìa, forse dalla magrezza del volto, dalla fatica del parlare, dalla lentezza del muoversi, dall’ansamento del respiro.

{p. 737}Lo vediamo per molti anni con Giuseppe Pellandi, col quale era al Sant’Angelo di Venezia il 1795-96.

Zannoni Giuseppe, bolognese, fu attore di molto pregio per le parti di primo amoroso e di primo attore e promiscuo, fiorito nella prima metà del secolo xix. Cominciò ad acquistarsi nome di artista egregio nella Compagnia di Antonio Rafstopulo, col quale stette più anni. Lo vediamo il triennio 1834-35-36 generico primario con Gaetano Bazzi, poi con Gaetano Nardelli, col quale assunse per la morte di Giovanni Boccomini il ruolo di Padre nobile e promiscuo. Di bellissima figura, di ottima voce, di intelligenza pronta e svegliata, fu egualmente ammirato nella commedia, nel dramma e nella tragedia ; ma principalmente in questa. Passò poi nella Compagnia di Carlo Re, della quale doveva essere primo sostegno Luigi Vestri, che morì nel suo cominciamento, poi in quella Alberti ai Fiorentini di Napoli, per un triennio, spirato il quale, tornò nell’Italia Centrale, formando una Compagnia che condusse per anni con varia fortuna. Da capocomico solo passò a essere conduttore in società, con non so quale attore, ma di Compagnia secondaria : finchè, travagliato dalla sorte contraria e dagli anni, si ridusse a Sassuolo, ove morì verso il 1860. – In Compagnia Rafstopulo egli aveva sposato Adelaide, figlia della celebre Teresa Angelini (V.), che gli sopravvisse. Dagli elenchi della Compagnia si rileva che il 1820 egli era ancor celibe.

Zanon-Paladini Laura. Da Giovanni Zanon, veneziano, e da Giovanna Bava, bresciana e comica, figlia di Paolo, genovese, nacque la nostra Laura…. Ma farei peccato veramente se osassi defraudare i lettori di questo gioiello di lettera ch'ella mi scrisse or son pochi mesi, la quale rispecchia tutta la benignità della sua natura, e con essa tutta la geniale semplicità dell’arte sua :

Nata…. nel '52…. brrrr ! Papà mio, Giovanni Zanon, era di famiglia benestante, e pei moti politici (mi pare del '21) fuggi da Venezia, e si {p. 738}rifugiò in una compagnia drammatica – Refugium peccatorum – (che latesin !). Nell’arte conobbe mia madre, buona creatura, donna dei tempi primitivi ! Quando io fui grande mi sembrava che lei fosse mia figlia, ed è perciò che credo d’averla amata il doppio. Suo padre era avvocato, ma alla discesa in Italia di Napoleone e al saccheggio di Genova, fuggi con la famiglia, e si mise a fare il suggeritore : viaggiava con otto figliuoli. Come farielo adesso ? Povero nono ! Altro che el Conte Ugolino ! ! ! La mamma mia nacque a Brescia : « che Dio la benedissa », avè scritto ? Oh, sì, ch'El la benedissa dassèno, come che lo fasso mi dal profondo del cuor, povera vecchietta santa !… Quel poco di buono che ho moralmente e artisticamente lo devo a lei !…

Qui io apro una parentesi : tra gli otto figli di Paolo Bava, trovo, oltre a Giovanna, una Teresa, di cui non ho notizie, e una Giuseppina, andata sposa a Giuseppe Ruggeri, veronese (V. nel Suppl.), primi amorosi entrambi il’ 21 della Compagnia Modena-Bellotti.

….. Da questo matrimonio nacquero due maschi, Vincenzo e Leopoldo, e una femmina, Teresa, che stette sempre a Venezia. « Sembrava – dise nell’Avocato Venezian – che i gavese serà bottega…. » co' rispetto parlando : Signor no ! Dopo dodici anni nacque questo po' po' di personaggio (La storia non dice se vi fu luminaria !). Dunque, quando venni al mondo, mio padre s’era già ritirato dall’arte, e impiegato nell’Amministrazione dell’Ospedale Civile di Venezia. Notate questa originalità : era veneziano puro sangue, fanatico della sua città, e non era buono di dire una parola in veneziano : a Venezia i vicini lo chiamavano El Foresto. Mancò ch'io era giovinetta, e venni affidata a mio fratello maggiore che era in arte (fu per molt’anni brillante, discreto, con Zoppetti, poi caratterista con Ernesto Rossi e con la Ristori). Quando andai con lui era maritato, e aveva una figlia ; per dire la verità, le prime particine andarono bene, ma mio fratello scrisse a mia madre di non calcolare su di me, perchè in arte non potevo far nulla, priva affatto di avvenenza, e troppo piccina…. (però ero simpatica, e questo ve lo dico io !). Che dolore per la povera vecchia ! Era su me sola che lei poteva fare assegnamento : si trovava presso una sua sorella, aspettando che mio fratello avesse trovato per me una scrittura. Un bel giorno, eravamo a Sanpierdarena, ella venne e dichiarò che mi voleva seco, non potendo più vivere senza di me. Mio fratello, indignato, ci pagò un mese d'affitto, e noi…. rimanemmo a spasso (prima d’incominciar la carriera !), fidando di trovar del lavoro…. aspettando gli eventi ! Venne la compagnia dello stenterello {p. 739}Miniati, il quale capitò proprio nella nostra casa. Aveva una figlia di otto o nove anni, e occorrendogli un’ amorosetta, la bimba, che m’aveva preso in gran simpatia, tanto pianse e si disperò, che il Miniati, benchè in trattative con altra famiglia, scritturò me con la paga di tre franchi al giorno e viaggi pagati. Quanti digiuni !… Tre anni senza bere vino !…

Dovevo farmi il vestiario ? !… Che lusso !… « Ah, povera macia ! » direte voi. Ma che ! Ridevo…. ridevo…. Avevo quindici anni ! Rimasi tra quella del Miniati e la Compagnia Fanelli quasi tre anni, e imparai a parlar toscano al punto, che mio fratello disse che non sarei più entrata in nessuna compagnia buona, perchè sembravo uno stenterello (a quell’ epoca non v'era molta simpatia per l’accento toscano). Trovai, invece, da scritturarmi con Ferrante e la Paladini (ora Andò), sostituita poi dalla Sivori, come prima attrice giovine ; e le parti, in cui più mi distinsi, a giudizio della stampa, furon le tragiche : Norma, Medea, Giuditta, Saffo, ecc. Chi l’avesse detto !… Saltiamo. Andai con Moro Lin (allora egli aveva compagnia italiana), scritturata per parti di amorosa, seconda donna, servetta, ecc. Si {p. 740}fece il carnevale a Trieste, e gli venne in mente di tradurre un lavoro piemontese in veneziano : « Maritemo la putela » (Mariuma Clarin), e di affidare a me la servetta. La fatica che feci a dire quelle poche parole !… Ma l’esito fu splendido, le repliche seguirono le repliche, e invogliarono Moro Lin a tradurre un altro lavoro : Povereti ma onesti. C'era la parte d’una vecchia, una specie di « batti…. Canappia…. me màgnela ? »…. Moro Lin mi prega di farla ; io ricuso, un po' per il genere, un po' perchè non sapevo come avrei potuto fare una vecchia : mi prega la Marianna (la Moro Lin)…. Moro Lin mi supplica…., e…. mi lascio convincere. Notate bene che si recitava allora Miss Multon, e io ci facevo la bambina : si replicava da molte sere, e mi trovai a faire nella stessa sera la bambina nella commedia, e quella vecchiaccia nella farsa…. Ma che fanatismi !… e adesso che calcolo freddamente, posso dire che la facevo proprio bene (modestia a parte !). Finito il carnevale, andai come servetta assoluta con Peracchi, che aveva allora in compagnia Cesare Dondini, Pasta, Rodolfi, ecc. Moro Lin seguitò a scrivermi, facendomi buone proposte. Metteva su una compagnia veneta. Io non volli accettare altro che col patto di fare almeno le farse in italiano ; e andai ma…. non sapevo parlare veneziano ! al punto che volevo chiedere lo scioglimento ; tuttavia siccome ero a Venezia, ov'era anche mia sorella, che parlava venezianissimo, fui aiutata, e seguitai. Venne il Gallina e le parti m’aiutarono a vincere l’antipatia del dialetto ereditata da mio padre…. Ah ! dimenticavo di dirvi che il secondo anno che ero con Moro Lin, mi sposai con Francesco Paladini, che faceva il brillante e piaceva molto. Ma…. avevamo fatto un sogno : stabilirci…. lasciar l’arte. Egli diffatti aprì uno studio fotografico in Padova ; ma lo colpi una grave malattia d’occhi, e tutto andò per aria…. Ritornai frattanto in arte con la Compagnia Benini (compagnia mista allora e di secondo ordine) ; poi con Gallina, poi con Zago-Gallina, e finalmente del '91, Gallina autore, col fratello Enrico…. a cui, come sapete, subentrò proprietario il Benini, e…. eccomi ancora qui. Auff ! ! ! Credo ne avrete abbastanza !

« Non abbastanza, cara macia » dirà certo con me il lettore, che al finir della lettera s’è vista sparire l’imagine viva di lei, saltellante, birichina, arguta, senza fronzoli, e senza affettazione. Al nome di Emilio Zago (V. pag. 719) io scrissi del Ferravilla e della Zanon : « due artisti, che per la loro vita vissuta dinanzi alla ribalta, assorbono dal lor primo apparirvi i sensi tutti dello spettatore. » Oggi potrei aggiungere Giovanni Grasso. Qual migliore elogio si potrebbe farne ?

{p. 741}I sensi tutti : sì. Qualunque sia l’artista che reciti con la Zanon, o per piena che sia la scena, i sensi dello spettatore son vòlti su di lei. Egli la cerca, e, trovatala, non l’abbandona più, anche quando il protagonista, o la protagonista si trovi presso la ribalta, ed ella, semplice servetta o parte di contorno, in un angolo della stanza, o alla finestra. Mai distratta, mai coll’ occhio al pubblico, mai immota. Le frasi degl’interlocutori sono accompagnate sempre da una sua occhiata, da un suo sogghigno, da una sua interiezione, da un suo atto qualsiasi di protesta, di assenso, di dubbio ; e quei rapidi cenni si sovrappongono a tutte le parole di quegl’interlocutori. Così ogni particina piglia nelle sue mani importanza di una gran parte ; e il personaggio è rappresentato con tale verità e con tale spontaneità, che par sempre ch'ella improvvisi. Eppure nulla di più studiato e di più finamente studiato : eppure ella è forse una delle più rispettose osservatrici del testo : me n’ ebbi ad accorgere, vedendola più sere in uno stesso lavoro. La vivacità della sua dizione, la snellezza della sua figurina, l’agilità dei suoi movimenti, l’eloquenza della sua espressione la fan parere ancor giovinetta ; specie quando rappresenta la Cameriera astuta del Castelvecchio, in cui ella profonde tutto il tesoro delle sue grazie, richiamando alla memoria le monellerie della Cutini (V.), che, appunto in quella commedia, sentii a oltre cinquant’anni, e pur sempre maravigliosa d’arte e di freschezza. In un momento di malinconia, o piuttosto, spero, di modestia, accennando ai giornali che le predicevano uno splendido avvenire nelle parti di forza e di sentimento, la Zanon mi scriveva : « ghe ne vorlo de più ? Chissà, prima de morir, quanti cambiamenti che farò ancora !… Basta : adesso go una consolazioni in vista – la Casa de riposo !… E sarìa ora dassèno che me riposasse !… » No, cara artista ; il pubblico reclama ancora più di un godimento da Lei ! Ella rimarrà sulla breccia, a edificazione nostra, rinnovellando i trionfi di Virginia Déjazet, la più birichina e più francese di tutte le artiste francesi che a più che sessant’anni creò la parte di Figaro nelle Prime armi di Figaro, {p. 742}e a settantasette rappresentò ancora al Vaudeville di Parigi, La Vedova di Brienne e M.r Garat.

Zanotti-Cavazzoni Giovan Andrea. Nato il 1622 alle Caselle, terricciuola del Comune di San Lazzaro di Sàvena presso Bologna, fu comico de'più egregi per le parti d’Innamorato, sotto nome di Ottavio. Mortogli nel '40 lo zio materno Vincenzo Zanotti, ne restò erede per testamento, coll’obbligo di assumere la sua arma e il suo cognome. Fu comico al servizio del Duca di Modena, e le notizie cominciano in quell’Archivio dal’ 47.

Il carnovale la Compagnia era in Parma, dove si fecero i più magri affari ; e da Parma passò a Roma, d’onde fu inviata una lettera al Duca il 27 febbrajo, sottoscritta dallo Zanotti, da Marco Napolioni e da Carlo Cantù (V.), perchè interponesse i suoi buoni offici presso certo Messer Gio. Maria di Parma, che pretendeva il pagamento di un debito di lire trecento che essi non riconoscevano, sapendo di dovergli solo il fitto del palco, il quale anche speravano fosse loro condonato in ragione della scarse faccende.

Da Roma la Compagnia doveva andar subito dopo Pasqua a Napoli co' viaggi pagati : e Napolioni (Flaminio) si affannava a raccoglier firme tra' compagni perchè la gita si effettuasse, ma altri, e specialmente il Pantalone Bindoni (V. Suppl.) e Zanotti, si opponevano, allegando la niuna solvibilità degl’impresari a Napoli, dove i comici più insigni di Lombardia han dovuto lasciare in pegno i bauli per potersene partire. E tali ragioni furono scritte dallo Zanotti stesso al Duca, esagerando il male con tal conchiusione : « Sì che unito con tutta la mia povera famiglia supplico per l’amor di Dio l’Altezza Vostra a non comandarmi tal cosa se desidera il mantenimento di mia casa ». Ma dell’andata a Napoli non si ha più traccia, e si passa al '51, anno in cui Zanotti scrive il 16 e il 23 marzo da Bologna a Gir. Graziani per la nuova Compagnia del Duca, che avrebbe dovuto recarsi a Milano, se fosse riuscita a sciogliersi da un preventivo impegno di Padova.

{p. 743}E furono citate lettere di cavalieri (di quanta autenticità non saprei dire) che pare avessero scritto al Fichetto Lolli (V.) pregando di desistere dall’andata a Padova per non incorrere nella ruina della Compagnia. La quale infatti si recò a Milano, di dove il 3 di maggio Zanotti scrive al Graziani che non sa ancora se e quando dopo Pasqua si recherà a Brescia o a Verona, poichè

non sono mai frequentate dalle Compagnie de' comici per qualche poco di tempo doppo Pasqua quelle Città, che dano il luogo scoperto per rappresentar comedie, come Brescia e Verona, perchè sarebbe un volontariamente perdersi col esporsi alle stravaganze de tempi, che per lo più riescono in simile stagione piovosi.

Fu poi scelta Verona, d’onde il 10 agosto si raccomanda al Graziani perchè, dovendo la Compagnia andare a Venezia il novembre, il signor Marchese Bentivoglio le ottenga per l’ottobre il teatro di Ferrara

con qualche Emolumento dal’affittatore del detto Teatro, che sia almeno per le case franche per tutti : e che anche siano fatto franchi dal dare bolettini a sia chisisia, e quelli ordinari della Dogana siano ridotti ad un numero ragionevole ; e perchè non è ordinario l’essere Comici in tal tempo in quella Città, è necessario che il detto sig. Marchese ci faccia grazia d’introdurvi le Dame ad udirci, che noi dall’altra parte ci oblighiamo d’affaticarci in modo, che resteranno gustati.

Il febbrajo del '52 la Compagnia era a Modena, e la sera del primo, Ottavio, venuto a parole, s’ebbe un pugno da Trivellino, il quale per ciò fu attaccato alla corda in piazza (V. Locatelli Domenico). L'agosto del '55 egli era a Genova, come si rileva dalla lettera inviata a Modena al Conte Cimicelli (V. Fortunati Tiberio) ; e qui cessano le notizie d’Italia avanti la sua andata a Parigi, ove esordì all’antica Commedia Italiana nel 1660 per le parti di secondo amoroso, passando poi il '67 a quelle di primo, in sostituzione di Giacinto Bendinelli detto Valerio (V.). L'11 di gennajo del '68 gli morì la moglie, Teodora Blaise (forse Blasi), che era, dice Corrado Ricci in Ottavio dalle Caselle, bolognese : e l’atto d’inumazione chiama lo Zanotti « Capitano del Ponte della Samose ». Forse, si domanda lo Jal, è il villaggio di Samosia a tre miglia da Bologna sulla strada di Modena ? Probabilmente. Per insignificante potesse {p. 744}essere quel villaggio, non meno doveva riuscir reboante quel titolo, specie a quel tempo di non facili comunicazioni e in Capitale straniera.

Prima del '74 passò a seconde nozze con Margherita Enguerant di Abville, donna gagliarda, che gli diede sette figliuoli : i primi cinque battezzati a S. Germano e gli altri due a S. Salvatore.

Poco si sa dell’arte di Gio. Andrea Zanotti. Certo egli dovette essere avuto in conto di artista egregio e di egregia persona, se uomini ragguardevoli come il Principe di Parma, Alessandro Farnese, Carlo Gondi, inviato straordinario del Granduca di Toscana, indi Pietro di Nyert, primo Cameriere segreto del Re, e Boileau Puymorin, Intendente generale della feste e degli affari privati del Re, tennero al fonte del battesimo i suoi figli. E il Fantuzzi (Notizie degli Scrittori bolognesi) scrive :

L'incontro colà (a Parigi) non fu minore che in Italia, e si fece distinguere ancora pel suo carattere civilissimo ed onesto, e pel genio di coltivare l’amicizia de' principali drammatici di Parigi, e fra quelli, che frequentò con maggiore premura, e di cui captivò l’animo in singolar modo, fu il famoso Pietro Cornelio.

Ma v'ha qualcosa più. Nel Viaggio di Francia (1664 e 1665) costumi e qualità di quei paesi – relazione di Sebastiano Locatelli, prete bolognese, tradotto sui manoscritti originali dell’Università di Bologna e della Biblioteca Comunale di Perugia, e arricchito di una introduzione e di note storico-critiche per opera di Adolfo Vautier, archivista paleografo di Parigi, sono alcuni passi interessantissimi che concernono l’attrice Eularia (V. in Supplemento) e il nostro Zanotti. In un d’essi Eularia è chiamata gloria della Compagnia del Zanotti, la più stimata che vadi a torno : ma si trova fermata in Parigi da S. Maestà (senza speranza di riveder più l’Italia) « con provvigione di sedici mila franchi annui, oltre a quello si guiadagnano in far l’opre e le commedie, che tolto l’Aduento e la Quaresima sempre si fanno ; nè vi entra, senza pagare, se non la famiglia tutta del Palazzo del Re ». E in un altro, a proposito del recitare in {p. 746}italiano a persone, che per lo più non intendevano, e del bisogno di far delle azioni assai, di trovar dell’invenzioni, mutazioni di scene, e cose simili per contentar l’uditorio, è detto : « Il bravissimo Zanotti non più con la sua Eularia poteva dialogando mostrar la finezza del bel dire, l’argutezza delle risposte, le sentenze, e gli equivochi frizzanti per guadagnar i cuori…. » Ottavio era dunque il capocomico, e dallo stesso Locatelli sappiamo che la Compagnia era composta di nove persone, « cioè due Innamorati, due Donne, la Rufiana, un Coviello, un Pantalone et un Dottor Graziano ». Notizie queste esattissime di certo, perchè riferite al Locatelli da Eularia, come tutte le altre concernenti lei stessa.

L'84 tornò in Italia con la moglie e i figli, ai quali, assai provvisto di danaro, potè far dare in Bologna una buona educazione. Non credo abbandonasse il teatro : o almeno egli non lo abbandonò definitivamente ; poichè lo vediamo il 1688-89 di nuovo al servizio del Duca di Modena, proprio quando Giovan Battista Costantini, lasciata la Compagnia e il nome di Cintio, si recò alla Commedia Italiana di Parigi per sostenervi gli amorosi sotto il nome di Ottavio. Anzi I Fratelli Parfaict e, per conseguenza, il Campardon dicono ch' egli fu poscia chiamato Vecchio Ottavio per essere distinto dal Costantini. Dove ? in Francia ? Ma se non v' era più. In Italia ? Che confusione poteva nascere tra due attori, di cui uno recitava in Italia e l’altro in Francia ? Non era forse ragione bastevole per farsi chiamare Vecchio Ottavio il recitar gli amorosi a quasi settant’anni ?

E in casa Volta, infatti, a Bologna, nel carnovale del 1693 (a settantun’anno) « recitò una bella commedia, » secondo la notizia che i Ricci ha tratto dai Diarj legatizi (vol. IV, pag. 390) ; e morì il 13 settembre del 1695.

Nelle Memorie manoscritte di Bologna antica scriveva il canonico Ghiselli :

A di 17 settembre fu data sepoltura a G. A. Zanotti detto Ottavio, celebre commediante nella sua parte di Primo Innamorato ch' haveva essercitato ne' primi teatri di Europa, e particolarmente in Francia ove quel Re lo haveva graziato d’ un’ annua provisione di ducento doppie sua vita durante, che li furono sempre puntualmente sborsate. {p. 747}Lasciò la pròfessione molt’ anni sono con buona grazia del Re, disse, per poter salvare l’anima sua, che teneva in dubbio se fosse mòrto in quell’Esercitio ; e venne a stare in Bologna, nel contado della quale era nato, nel Comune delle Caselle, e morì in età di circa ottant’ anni (data, come s’ è visto, erronea), e fu sepolto nella chiesa del Corpus Domini. Lasciò tre figliuoli, tutti e tre soggetti di bell’ingenio, duoi dottori, uno di legge, l’altro di medicina, et un prete, ma ornati tutti di belle lettere sì in prosa che in versi !

Fr. Bartoli dice che gli sopravvisse molti anni la moglie. A proposito della quale mi sia lecito por qui una quistione.

« Rimasto vedovo – scrive il Ricci – e sposata Maria Margherita Enguerant di Abville, potè aver da lei dicìotto figliuoli ! Lo afferma lo stesso Francesco Maria, che fu l’ultimo d’essi. » Diciotto figliuoli !… Quando ?

L' 84 lascia Parigi con sette figliuoli, secondo la notizia sui documenti data dallo Jai, e torna in Italia ; ha già sessantadue anni ! Quando avrebbe avuto gli altri undici figliuoli ? E dalla prima moglie non ne ebbe alcuno ? A chi volle alludere in quel passo al Duca : con tutta la mia povera famiglia ? Alla moglie, al padre, alla madre ? O vi furon figliuoli morti, o persi di vista ? O quel diciotto del figliuolo Francesco Maria è un errore grafico ?… Questo io ritengo assai probabile.

Gio. Andrea Zanotti pubblicò due traduzioni a stampa : dell’Eraclio e del Cid di Corneille.

L'Eraclio Imperatore d’Oriente. Bologna, Pietro Maria Monti, 1691.

Honore contro Amore, tragedia ricavata da soggetto spagnuolo vestita alla francese e tradotta in italiano per G. A. Z. D. O. (cioè : Giovan Andrea Zanotti detto Ottavio), dedicato all’Altezza Serenissima di Ferdinando Carlo secondo duca di Mantova, Monferrato, Carlovilla, Guastalla, ecc. In Bologna, M. DC. XCI. Per Gioseffo Longhi, in-12°. Nella dedicatoria dice che tradusse l’opera del Cid mentre aveva le sue dimore in Francia, trattenuto al soldo di quel monarca.

Tre dei figliuoli di Zanotti ebber fama di egregi uomini : Ercole, che fu storico e poeta ; Francesco Maria, filosofo e scienziato celebratissimo ; e Gian Pietro, pittore e storico dell’Accademia Clementina.

{p. 748}Zanotti Marianna. Bolognese, fu, prima, ballerina ; poi, sposatasi all’attore Giuseppe Barilli, che faceva gl’Innamorati, e, meglio, i servi brillanti, si diede all’arte comica recitando le parti di donna seria, prima in Compagnia di Andrea Patriarchi, poi d’Alessandro Gnochis, e di Luigi Perelli (1781). A Rimini le fu dedicato da Panginefilo (?) il seguente sonetto che riferisco dal Bartoli :

No, che non sa qual su gli umani affetti
abbia possanza amor, chi te non vede
co i vezzi a lato, e i teneri amoretti
mover d’Alcide in sulle scene il piede.
Nè sa come tu dolce il cor saetti
coi due begli occhi, dove in propria sede
regnan le grazie, e i cari genj eletti
a cento belle e gloriose prede.
Parlan, che il sanno l’Ariminee genti,
nè perciò il corso a'tuoi trionfi arresti,
anzi mediti ognor nuovi portenti ;
che se puoi tanto co'bei modi onesti,
co' lieti scherzi e coi leggiadri accenti,
l’arte di farti amar d’onde apprendesti ?

Zan Polo, veneziano. Abbiamo dal Sanuto (V. D'A., op. cit.) come si presentasse a San Beneto in ca da Pesaro tra un atto e l’altro del Miles gloriosus di Plauto (16 febbrajo 1515), recitato dagli Accademici Immortali, con una « comedia nova, fenzando esser negromante, et stato all’Inferno, e fe' venir un Inferno con fogi e diavoli : fense pur farsi Dio d’Amor : e fo porta a l’inferno : trovò Domenico tajacalze cazava castroni, el qual con li castroni vene fora ; fe' un ballo essi castroni ; poi venne una musica di Nimphe, in un carro trionfai, quali cantavano una canzon, batendo marteli, cadauna sopra una incudine a tempo, et fenzando bater un cuor ».

Il 9 febbrajo del 1522 fece a Venezia ai Crocicchieri gli intermezzi nella commedia di Philante inamorato in Caritea, recitata dal De Nobili (V. Cherea, Trappolino e Cimador).

{p. 749}Zanuzzi Francesco Antonio. Fratello di Elisabetta Catroli, nato verso il 1728, recitò ne' teatri di Venezia le parti di Innamorato, e fu cognominato Vitalbino, per la gran somiglianza ch'egli aveva nella recitazione con Antonio Vitalba. Chiamato a far parte della Commedia Italiana di Parigi, vi esordì il 25 luglio del '59 nel Cavalier d’industria, scenario italiano in tre atti : l’anno dopo fu ricevuto a tre quarti di parte, e il 14 gennajo '66 a parte intera. Alla chiusura del teatro nell’ '80, Zanuzzi, che ad ogni modo aveva compiuto i suoi anni di servizio, fu congedato con una pensione di 1000 lire annue, e un indennizzo di 5000 lire, pagabili in due volte e in due anni. Tornato in Italia, pare lasciasse definitivamente il teatro, dacchè il Bartoli, un anno dopo, ci avverte com’ egli colle ricchezze, fatte in Francia, avesse acquistato un palazzo e de' poderi nel trevigiano, e quivi stabilita la sua dimora « lungi dal pensier del teatro ». Non si conosce la data della sua morte ; ma egli viveva ancora il 1790, del qual anno il Museo della cità di Bassano, terra natale dello Zanuzzi, io credo, serba di lui una lettera del 18 xbre a Giacomo Vittorelli (il poeta anacreontico ?), che ringrazia per la restituzione di lire duecentosei prestategli.

Francesco Antonio Zanuzzi fu avuto in gran pregio non solo come attore, ma altresì come uomo. Fu sua l’idea di far andare il Goldoni a Parigi, dopo il successo del Figlio d’Arlecchino perduto e ritrovato, per rinsanguare la povera commedia italiana che dava i segni manifesti della sua prossima fine di anemia ; e n’ ebbe infatti incarico ufficiale da' Gentiluomini di Corte, e trattò la cosa in tal modo, che il poeta veneziano già ammiratore e conoscitore dei di lui pregi, lasciata la sua cara patria, ov' era accarezzato, festeggiato, applaudito, se n’andò il '62 alla gran capitale. Altro incarico ebbe lo Zanuzzi nel '74 : di venire in Italia a provvedersi di una nuova prima attrice. E ci venne di fatti, e la sua scelta cadde su Teodora Ricci (V.), la moglie dell’istoriografo dei comici italiani. Interessantissima a tale proposito è la spropositata lettera di lei al suo compare Carlo Gozzi scritta da Verona il 22 luglio di quell’anno, e {p. 750}pubblicata da Cesare Musatti col titolo : Una lettera d’una comica ignorante (Feltre, 1900).

Il Campardon, a mostrare l’eccellenza del suo cuore, cita il fatto ch'egli allevò a sue spese una bimba, e la mise in grado di entrare nell’Accademia Reale di Musica, ov'esordì come ballerìna il 16 novembre '79, nel ballo del IV atto d’Ifigenia in Tauride di Gluck. Avendo il Giornale di Parigi, nel dar conto della rappresentazione, chiamata la fanciulla figlia di Zanuzzi, questi pubblicò una lettera, firmata Zanuzzi, Comico italiano ordinario del Re, nella quale dichiarava ch'ella non aveva con lui alcun vincolo di parentela, e si chiamava Maria, figlia dei coniugi Lescousier borghesi di Parigi. Appresa la triste lor condizione, egli si prese, nient’altro che per venire in loro ajuto, cura della bimba, che fu allevata, ancora in culla, sotto i suoi occhi ; e accortosi, coll’andar degli anni, della attitudini chiare alla danza, la fe'istruire dalla maggior celebrità di quell’arte.

Oltre ai documenti che riguardano l’accettazione di Zanuzzi in Compagnia a tre quarti di parte e a parte intiera, Campardon pubblica in data 2 febbrajo 1767 la querela di una portinaja contro di lui, certa Anna Angelica Guerrier, perchè, avendo risposto allo Zanuzzi che certa Joinville avea dormito in casa la sera precedente, mentre non era vero, s’ebbe da lui una sequèla d’ingiurie le più atroci e volgari, e l’iterata minaccia di uno schiaffo, al cospetto della gente che s’era andata adunando.

Zavalloni Sebastiano. Era il 1830 primo attore assoluto della Compagnia Botteghini-Vedova.

Zbrazin (?) Francesco. Comico del Duca di Mantova, del quale trovo notizie in una sua lettera da Fiorenza del 1° dicembre 1648 al Sig. Nicolo Zecca, d° Bertolino comico fam.mo, a Piacenza, in cui si firma Francesco Zbrazin comico d.° Gabinetto.

Ringrazia della nuove avute della recuperata salute del Duca, e crede sia sfumata l’andata a Roma, perchè Donna {p. 751}Olimpia Panfili « non vuole domandar la compagnia senza sicura certezza di hauerla, onde questi napolitani facilmente hauranno disfatta la conguira ». Dalla stessa lettera si apprende che Gabinetto era ammogliato.

Zecca Niccolò. Comico egregio, che recitava nella prima metà del secolo xvii le parti di secondo Zanni sotto il nome di Bertolino, e di cui Niccolò Barbieri, detto Beltrame, nel Capitolo VII della sua Supplica, dice :

Il Signor Nicolò Zeccha detto in Comedia Bertolino giouane di gran coraggio, e di qualche eccellenza nel giuocar d’armi, e nel danzare, ha riceuuto honore di seruir molte volte nella Caccia la Sereniss. Altezza di Vittorio Amedeo Duca di Savoja, e per tirar assai bene a gli uccelli in aria, e correr con qualche grazia e velocità a' cervi, et averne ucciso alcuno, è stato honorato oltre alli molti regali d’un singolar appatente di poter levar cavalli dalla Ducale Scuderia a suo beneplacito, e cacciar in ogni luogo riserbato a Sua Altezza Sereniss. con priuilegio, che per qual si uoglia bando, che potesse sospender la permissione a priuilegiati da S. A. S., che già mai s’intenda esclusa la gratia fatta a Bertolino.

Mi sono servito della prima edizione di Venezia 1634 : nella seconda di Bologna del 1636, le parole trascritte in corsivo sono state soppresse. Il Quadrio (op. cit., V, 239) riferisce le parole del Barbieri, aggiungendo : « i quai privilegi gli fece pure il Duca di Mantova per li proprj suoi Stati ». Se non della grandezza del valor comico, abbiam certo una prova della versatilità dell’ingegno artistico dello Zecca in una sua lettera da Parma del 29 aprile 1646 al Duca di Mantova, a cui manda un libretto della prima opera cantata a Piacenza, ed altro ne manderà presto del compositore Marelli. « E mi dispiace – dice – non poter essere a Piacenza a sentirle, convenendomi recitar per interim in Parma da primo Zanni nella Compagnia dell’E.mo Sig. Card.e Farnese sino all’arrivo di Buffetto (V. Cantù Carlo), che in breve sarà di ritorno di Francia, come sin’hora ho anco recitato da Pantalone in diffetto della malatia che sin’hora ha trattenuto in Venetia il proprio Pantalone. » Da Parma passerà poi a Brescia.

Il dicembre del '48 era a Piacenza, e il dì 8 (la lettera è pubblicata dal D'Ancona nella nozza Martini-Benzoni), {p. 752}congratulandosi col Duca di Mantova che sia risanato delle varole, gli dà notizia che a Piacenza ov' è la miglior Compagnia di commedia, recitò per tre sere nella parte di Bertolino. Dal’ 48 si salta all’autunno del '59, e l’8 novembre annunzia a un Segretario del Duca, che era per recarsi a Reggio ; ma gli era stato detto « che vi erano alcuni che recitavano mezzi comici principianti e mezzi ciarlatani, che camminavano sotto nome di due donne, dette le Marchette » quando gli capitò l’avviso che erano andati a recitar fino a Natale a Bologna, e sarebber andati a Modena, a servir S. A. pel carnovale.

Una lettera v'ha ancora del 21 aprile 1660 da Parma, la quale mostra la grande famigliarità ch' era fra lui e le varie Corti, annunciando a un Segretario del Duca di Mantova la scelta degli appartamenti pel suo prossimo arrivo a Parma ove doveva recarsi anche il Ser.mo di Modena coll’Arciduchessa Consorte in incognito, mercè la qual scelta la LL. AA. avrebber goduto di tutta la miglior libertà.

E chiede in poscritto : « Se vi fossero in questa Ser.ma Corte penne di code di Pavoni bianchi, ardirei suplicando chiederle in prestito, mancandomene di molte per il bisogno che io ne ho per tanti cimieri che faccio fabricare et mi raccomanderei a V. E…. »

L'ultima notizia riguardante Nicolò Zecca è dell’aprile '70, quando Ranuccino Farnese per compiacere alla Corte di Mantova, lasciavale il Capitano Fiala (V.) con tutta la famiglia, affinchè si unissero in Mantova con lo Zecca, e formassero una buona Compagnia (V. Bertolotti, op. cit.).

Di altri due Bertolini è ricordo nella Storia del teatro : di quello degli Uniti del 1584 (V. Batista da Treviso), e del Broglia (V.) che recitava il 1672 a Bologna, e l’'87 a Monaco di Baviera in Compagnia Calderoni.

Zecchi Orazio, bolognese. Dopo di aver recitato ne' teatri accademici, ne' quali si mostrò artista di gran pregio per qual si voglia genere di parti, risolse di farsi comico, e unitosi al {p. 753}fido compagno Giuseppe Pianizza (V.), che recitava a meraviglia le parti di prima donna, formò una compagnia di giovani, e si recò nella Marca Anconitana ov' era proibito alle donne di apparir sulla scena, e ove s’ebbe la migliore accoglienza specia sotto la maschera del Dottore, in cui si mostrò molto esperto per la elegante facondia, e la natural comicità. Passò poi col Pianizza a Napoli, « e i uno di que' teatri – dice Fr. Bartoli – si fece conoscere per buono attore, e si guadagnò degli applausi ».

Invitato un giorno a lauto banchetto da nobile personaggio, insieme ad altri comici, disordinò alquanto ; e recatosi in fretta al teatro per la rappresentazione, fu côlto, pel grande riscaldo, da febbre sì violenta che in capo a pochi giorni lo condusse a morte a soli cinquant’anni nel 1774.

Zenari Andrea. Apparteneva alla Compagnia dei Comici Uniti nel 1593, nella qualità di Graziano (V. Balestri Giovanni).

Zerri-Grassi Enrichetta. Nacque il 1843 da Luigi e da Elisa Danieli, comici, figli anch'essi di comici (nonna di Enrichetta era la moglie di Giacomo Dorati), attori tutti di buon nome ; e vediamo gli zii Antonio e Amalia apparir negli elenchi dal '34 in Compagnia Goldoni, diretta da Augusto Bon. Enrichetta era il '60 insieme al padre e al fratello Antonio amorosa con Gio. Battista Zoppetti, il '61 in Compagnia Lombarda diretta da Alamanno Morelli, col quale stette poi gran tempo. Il '71 passò colla Sadowski, prima nella Compagnia diretta da Cesare Rossi, poi in quella diretta da Luigi Monti, col quale, capocomico, tornò il '77. {p. 754}Il '90 era con Maggi, che la conduisse in America, dove, in quel luttuose Rio Janeiro lasciò la vita per febbre gialla il 14 maggio del '91, precedendo di tre ore il povero marito, Vespasiano Grassi, colpito assieme a lei dal morbo inesorabile. Poveri artisti ! Lontani dai parenti vecchi, da' figli adorati, spinti quasi nelle braccia della morte, in quella terra fatale che avea già tolto brutalmente all’arte Arturo Diortti, fiorente di giovinezza ! E se acerbissimo fu il colpo, ripensando alla simultaneità della sciagura, oltre ogni modo acerbo fu, ripensando alle anime buone che si perdevano.

Enrichetta Zerri-Grassi, attrice di molta intelligenza, se non di molti mezzi, fiancheggiò sempre col maggior decoro le prime attrici, che per la lor giovinezza e la loro figura (chè un tempo si badava anche a questo) non poteau abbracciare tutto i repertorio, quali : Pia Marchi e Annetta Campi. Allora quella prima donna, che chiameremo in gergo comico di spalla, recitava Clotilde in Fernanda, Livia in Amore senza stima, e Lady Tartuffo… Oh ! Quella Lady Tartuffo !… Chi può farsi una ragione del come potevan quell’anima soavissima e quella mente serena riprodurre al vivo tutte le simulazioni, tutta la perfidia di quella donna ! ? E la scena di Clotilde con Pomerol della Fernanda (Pomerol era Cesare Rossi) ?

Passò col tempo, se bene ancore giovine, alle parti di seconda donna e di madre, colle quali trovò in ogni pubblico le stesse simpatie di quando era Prima Attrice.

Zerri Antonio. Fratello della precedente, nato a Corfù il 20 ottobre 1837, fu attore assai pregiato nelle parti di caratterista promiscuo, sia per la interpretazione sapiente dei personaggi, e per la verità della dizione, non impeccabile pur troppo per un naturale difetto di pronunzia, che le fece parer vecchio assai prima del tempo. Sposò nel '58 Gioconda Zanoni di Roma, che gli morì nel '65, quand’egli era ai Fiorentini di Napoli in Compagnia di Adamo Alberti, al fianco di Tommaso Salvini e di Clementina Cazzola. Passò a seconde nozze in Venezia il 1881 {p. 756}con Elvira Gorga, pur di Roma, e morì a Napoli, consumato da lentissima tabe intestinale, il 15 aprile del 1903.

La illustrazione che riproduco qui retro dice chiaro quanta fosse la varietà del suo repertorio. L'auge della sua vita artistica fu quand’egli ebbe Compagnia in società con Gaspare Lavaggi, nella quale potè mostrar liberamente tutte le sue qualità di artista, interpretrando con molta intelligenza e con molto successo Luigi XI, La Gerla di Papà Martin, Don Marzio, e specialmente L'Aulularia di Plauto, in cui fu riconosciuto, anche dai più severi, artista sommo.

A proposito dell’interpretazione di Luigi XI, Parmenio Bettòli dettò un lungo articolo, da cui traggo il brano seguente :

…… Nella grande scena del quarto atto col Solitario, ebbe moti, accenti e una espressione della maschera del volto da far correre brividi tra gli spettatori. Egli mi ricordò, quasi alla testualità, il sommo Gustavo Modena, ed è tutto dire.

Ma per farsi un esatto concetto della valentia di lui, bisognava averlo ammirato, la sera prima, nella parte di Fiorenso nei Rantsau.

Quale distacco ! Allora con la sua bella faccia aperta, onesta, leale, tutto sorrisi, dolcezza, angiolesca bontà : adesso scarno, emaciato, terreo, con la voce rantolosa, le smorfie nevralgiche, tutto ghigni satanici, ferocia, scatti improvvisi di belva.

Ed è in codesta versatilità sbalorditiva, che risiede principalmente l’arte vera, la grande arte.

Zocca Eugenia, piacentina. Si sposò giovinetta a un suggeritore Zocca, del quale restò vedova nei primi anni di matrimonio. Recitò mediocremente nelle parti di dramma e di tragedia, ma venuta in età matura, si diede al ruolo di Caratteristica, nel quale riuscì attrice pregiatissima, acquistandosi sino al primo ventennio del secolo xix una bella rinomanza. Fu parte eletta delle Compagnie Paganini, Pelandi, Goldoni e Perotti, col quale la vediamo al Teatro Canobiana di Milano il carnovale 1819-20 col medesimo ruolo, e l’aprile seguente al Carignano di Torino.

Altre due sorelle si diedero all’arte comica, una delle quali, andata sposa al Marchese Castiglione di Mantova, si ritirò dalle scene, e l’altra, mediocrissima attrice, fu moglie dell’artista e capocomico Francesco Menichelli.

{p. 757}Zocchi Anna Maria, fiorentina. Recitò molti anni applauditissima nelle parti tragiche e nelle comiche, in Compagnia di Giovanni Roffi (V.) al Cocomero di Firenze. « Una tenera espressione – dice Fr. Bartoli – un gestire bene adatto ed una intera e puntuale esattezza nel suo dovere la resero gradita, e le meritarono il nome di rinomata attrice. Oggi si è alienata dal teatro, e vive felicemente in Firenze in età ancor fresca, e non sprovvista di meriti e di virtù. » Ella dunque restò in patria, quando il Roffi (1780) cominciò a uscir di Firenze.

La Zocchi che è seconda nell’elenco, dopo l’Anna Roffi, pare facesse l’amorosa.

Zocchi Tommaso, fiorentino, figlio di un mercante di seterie, fu prima soldato, poi comico di buon nome per le grandi parti, ove non dominasse forza di passioni. D'indole assoluta e indipendente, non volle più star soggetto, e si fece capocomico. Passò dalla Toscana nel Regno di Napoli che percorse tutto in pochi anni con buona fortuna. Tornato a Firenze, formò la quaresima del 1821 un’ ottima Compagnia, che condusse gran tempo, rimanendo poi capocomico in sino a che, fatto vecchio, s’unì prima al figlio Guglielmo, col quale era il '46, poi si ritirò a Firenze del '50, ove morì settuagenario.

Dagli elenchi di compagnie e dalle monografie (V. Cosentino, L'Arena del Sole, Bologna, Zanichelli, 1903) si rileva come lo Zocchi fosse il '32 all’Arena del Sole di Bologna, ove per graziosa concessione speciale, generata da speciali inflessibili circostanze potè recitar tutti i giorni dal 23 aprile al 30 giugno. Facean parte della Compagnia Grassi, Martinez, Salvini, Angela Zocchi moglie del capocomico, e lo Stenterello, che dello spaventoso repertorio, era magna pars. Le rappresentazioni si chiudevan più volte con arie, pantomime e farse in musica. Tornò all’Arena del Sole l’anno seguente dal settembre al 7 ottobre.

Formò in seguito compagnie con buoni elementi, e in quella del '43 eran parti principali Luigia Bon, prima attrice, {p. 758}Laura Bon, amorosa, Giovanni Tessero, primo attore, e il figlio Francesco, brillante.

Zocchi Angela. Moglie del precedente, fu artista di pregio per le parti di prima donna, che sostenne sempre nella Compagnia del marito. Era dotata di non comune bellezza, ed egualmente ammirata ne' tre generi ; comico, drammatico, tragico. Morì a Firenze nel 1865.

Zocchi Malvina. Figlia dei precedenti e moglie di Giuseppe Salvini, fu una egregia servetta, e tale la vediamo col marito nella Compagnia Paladini-Internari, con la quale doveva recarsi del 1830 a Parigi ; ma còlta dal mal di petto, fu obbligata a restarsene in Italia, a Venezia, presso i suoi parenti, sostituita nel ruolo dalla moglie di Luigi Taddei. Aggravatosi il male, fu ormai vana ogni opera della scienza, e l’autunno del '31 dovè soccombere in ancor giovane età.

Zocchi Guglielmo. Fratello della precedente, fu artista e capocomico di qualche merito. Generico primario pel triennio del 1843 e '44 con Corrado Vergnano, lo vediamo il '46 Direttore, Primo Attore e Conduttore di una Compagnia, della quale era primo ornamento Adelaide Ristori, e facevan parte la moglie Adelaide Laugier, dilettante bolognese, e i minori fratelli, Francesco e Alessandro, generici (che vediam trent’anni dopo, conduttori della Compagnia Alessandro Manzoni), e il vecchio padre Tommaso.

Avanzato in età, ritornò alle parti di generico, e lo vediam tale il '68 nella Compagnia del brillante Tommaso Massa, con una Elisa Zocchi, forse figliuola.

Zoli Pietro.Caratterista e promiscuo de' più sinceri, forse il più sincero, che non potè avere la fortuna, a cui gli dava diritto il suo grande ingegno artistico, per la cerchia ristretta in cui visse, nacque a Forlì il 2 novembre del 1830 da Vincenzo e da {p. 759}Teresa Strocchi. I moti del '31 gli tolsero il padre ; ed egli crebbe assieme alla madre e ad una sorella, facendo prima le elementari nel Collegio de' Gesuiti, poi le ginnasiali fino all’anno '48, in cui, fuggito a Bologna con venti bajocchi in tasca, e a piedi, potè arruolarsi nella Legione Romana sotto il colonnello Gallieno, e con essa combattere a Vicenza. Passò da quella al Reggimento Italia Libera, comandato dal colonnello Morandi, e, recatosi a Venezia, prese parte alla sortita di Mestre, dove s’ebbe ferito il braccio sinistro. Tornato a Forlì, riprese il corso degli studj, che dovè poi troncare per le condizioni della famiglia, e fu accolto come praticante nella farmacia militare, prima ; poi in quella dell’ospedale, dandosi a tutto potere allo studio della chimica, di cui diede in breve gli esami, e in cui si addottorò. Ma, entrato a recitar tra' filodrammatici, ov'era già sua sorella, mostrò di punto in bianco le più chiare attitudini al teatro, al quale si sentì irresistibilmente attratto. Ammogliatosi fra tanto ad Anna Rizzoli, figlia di un Giudice al Tribunale di Forlì, ed avutine due bimbi, si vide nella impossibilità di condur con decoro la famiglia ; tal che buttati in un canto i barattoli di farmacia, si scritturò di sbalzo primo attore in Compagnia Trenti e Venturini per gli anni 1856-'57, applauditissimo ovunque. Ma le parti di parrucca eran le predilette, e subito passò a queste, entrando in {p. 760}Compagnia di Napoleone Tassani, come caratterista e promiscuo. Sostituì dopo un triennio Gaetano Vestri in Compagnia Robotti, dalla quale passò in quella di Arcelli, diretta da Alessandro Salvini. Fu dopo due anni, e per un triennio, con Raffaele Lambertini, a fianco di Peppina Bozzo, Carolina Santoni, Leontina Papà, Enrico Cappelli, ecc. ; poi (1866) con Achille Majeroni al Fondo di Napoli, dove esordì con La gerla di Papà Martin, che dovette replicar per otto sere davanti ad un pubblico ammiratore profondo di Luigi Taddei ancor vivo e malato, e che restò poi fino all’ultimo della sua vita artistica il suo caval di battaglia. Recatosi col Majeroni a Firenze, e recitata la Gerla al Pagliano, Alessandro Dumas, venuto per la recita del suo Don Giovanni, si recò sul palcoscenico, ed ebbe le maggiori parole di lode pel giovine artista che paragonò al celebre Lemaître. Uscito dopo un anno dal Majeroni, diventò socio di Alberto Vernier ancor per un anno, poi formò Compagnia da solo, scritturando Emanuel, la Caracciolo-Ajudi, la Pierina sua figlia, poi moglie a Giagnoni, Schiavoni ed altri. Si scritturò di nuovo il '69 e '70 con Federico Boldrini, poi con certo Zattini, col quale girò la Calabria e la Sicilia, poi fu socio di Calamai, Emanuel e Matilde Arnoud, poi di nuovo collo Zattini a Costantinopoli, dove, col soccorso di facoltosi ammiratori, costruì un teatro con l’annesso alloggio, e si stabilì con tutta la famiglia. Ma poco appresso, un incendio fe' dileguar d’un subito il bel sogno a mala pena tradotto in fatto, e ridusse il pover'uomo sul lastrico. Si rifugiò egli allora a Salonicco, e sempre assieme a quello Zattini, col quale poi tornò in Italia, pellegrinando per un par d’anni ancora nelle provincie del mezzogiorno. Si scritturò con l’ Emanuel, poi, andate a male le cose, formò Compagnia coi figliuoli già grandi, poi tornò ancora scritturato a' Fiorentini di Napoli dalla Santobono, insieme a Michele Bozzo, la Piamonti, ecc., poi di nuovo capocomico in società, or con Pareti, marito della prima donna Elvira Glech, or con Drago, la Lugo e Sichel, ed ora con Cartoni e Udina. Ma essendo la paga divenuta un mito (tanto {p. 761}correva – scrive lo Zoli – che non c’era modo mai di raggiungerla), determinò il buon uomo di non più scritturarsi, nè più unirsi ad altri in società, ma condur solo una modesta azienda, di cui egli e la famiglia, otto o dieci persone, formavan la più gran parte.

Dopo un lungo pellegrinaggio di città in paese, di paese in borgata, di borgata in città, arrivò l’onesto padre alla fine {p. 762}del '96, dopo di che, per desiderio del figlio Vincenzo, allora capitano in Africa, lasciò per sempre il teatro, andando a stabilirsi a Rocca San Casciano, direttore di quella Società filodramatica, a cui diede tutto il suo ingegno e tutto il suo affetto, e da cui fu amato e venerato fino all’estremo giorno (30 marzo 1899) come un babbo.

« Egli non potè aver maggiore fortuna – ho detto in principio – per la cerchia ristretta in cui visse. » E questa ristrettezza derivò un poco da tutto un insieme di dizione e di pronunzia e di atteggiamenti, nella lor grande spontaneità prettamente romagnoli, da farlo parer talvolta più tosto un attor dialettale ; e un poco per la numerosa famiglia che gl’impedì, proprio quando più ce n’era il bisogno, di prendere il largo, e di emanciparsi collo studio speciale da quei difetti d’origine che lo facevano apparire anima gentile in corpo rozzo. Egli, nella sua verità e semplicità straordinarie potè sostener parti disparate serie e comiche di primo attore e di caratterista, ma in quelle più manifestò la sua grandezza così dette promiscue, quali : Filippo di Scribe, Michele Perrin, Papà Martin, Malvina, Origine di un gran banchiere, Papà Loriot, Curioso accidente, Don Marzio, Barbiere di Gheldria. Degli otto figliuoli avuti dal suo matrimonio, tre perirono, fra i quali Arturo, attore prima con Salvini, poi con Cesare Rossi e con la Duse, con cui stette quindici anni, morto a Roma l’aprile del '901.

Degli altri un solo non si diede all’arte, Vincenzo, un dei nostri ufficiali più egregi, capitano d’ Affrica, insignito di più croci e medaglie che attestano la grandezza del valor suo e della suo devozione alla patria. Gli artisti sono :

Enea, primo attore, che con la moglie Eugenia Polzi, prima attrice, continua la Ditta paterna ;

Enrico, prima attore brillante in Compagnia Tessero e in altre, assieme alla moglie Virginia Razzoli, poi, ritiratosi dall’arte, ragioniere a Genova ;

Cesare, attore stimato, che fu in Compagnia d’ Irma Gramatica, e in altre ;

{p. 763}Adele, prima attrice nella Compagnia paterna, si ritirò dall’arte, per riunirsi a' suoi vecchi.

Caro Zoli ! caro padre ! Io lo ricordo a Livorno in una trattoria di via Grande ! Una gran tavolata di dodici o quattordici persone. Lui capo tavola a far le minestre per tutti : c’erano i figli, le mogli dei figli, e fors’anche i padri o le madri delle mogli dei figli ; c’eran gli altri comici ; pochi. Una serenità, una giocondità regnava per tutta quella mensa, che metteva voglia. Problemi ardui da risolvere, bili sepolte da sfogare, invidie, critiche acerbe…. Ma che ! Niente !… Un piatto di meno e una risatona di più. L'onestà, la probità, l’integrità scrupolosa del semplice uomo raggiava in tutte quelle anime giovani, che sarebbero state oggi, in tanta convulsione dello spirito, il più bello e salutare esempio !

Zoncada Luigi. Nato a Milano il 2 maggio 1867, cominciò a recitar da ragazzo coi dilettanti, ed entrò in arte il 5 ottobre dell’ '87 nella Compagnia dialettale di Caravati e Cavalli, recitando da vecchio e da giovine, cantando, ballando, e anche capriolando sul trapezio volante sotto gli ammaestramenti del vecchio Ettore Baraccani, primo ballerino e mimo, un tempo, di gran rinomanza. Passò dopo due anni secondo brillante con Cesare Vitaliani ; ma poi gli si affidaron le parti di primo attor giovine, essendo rimasto scoperto tale ruolo. Fu poi con Diligenti, Monti, Pieri, Pasta, Zacconi ; col quale ultimo cominciò a recitar parti di primo attore (1894), e dal quale passò il '98 nella Compagnia Di Lorenzo-Andò, in cui stette fino alla quaresima del 1903, per diventar {p. 764}poi capocomico in società con Gemma Caimmi, e primo attore assoluto : società che dura tuttavia (1905) con molta fortuna. Tale lo stato di servizio di questo artista, che per la sua intelligenza, la sua modestia, la bontà della sua indole e la forza della sua volontà, passò gli ultimi dodici anni in tre sole Compagnie, ammirato e amato sempre da' compagni e dal pubblico.

Zoppetti Giovan Battista. Fu attore e capocomico di assai pregio, e uno de' primi a rappresentare Francesca da Rimini di Silvio Pellico, da cui s’ebbe moltissime lodi. Artisti rinomatissimi furon da lui scritturati, quali Alamanno Morelli che dirigeva la Compagnia del '57, Luigi Gattinelli, Giulia Ristori, Gaetano Gattinelli, Enrichetta e Antonio Zerri, e altri. Del '60 egli si trovava il maggio e giugno al Teatro Comunale di Modena, e vi diede la prima recita con Clelia o la Plutomanìa del Gattinelli, a totale profitto, dedotte solo le spese di teatro, dei Siciliani.

« L'eroico slancio (diceva il manifesto) di quei Prodi, che versando il loro sangue mirano alla libertà e grandezza della Patria Terra, ben merita essere assecondato da ogni uomo cui batte nel petto cuore Italiano. » E protrattosi di quattro recite il corso stabilito, metà dell’introito, dedotte le spese serali, fu per tutte quattro le sere a profitto de' Siciliani. E il nuovo manifesto diceva : « Ora più che mai ferve la lotta ed il bisogno in {p. 765}quell’ Eroica parte dell’ Italia nostra : nessuna occasione noi sfuggiremo per prestarle il nostro fraterno soccorso ».

Sul valore artistico di lui il Colomberti lasciò scritta questa noterella : « Egli emergeva principalmente nelle parti in dialetto veneto. Dopo il bravissimo artista e poeta Francesco Augusto Bon, fu uno dei migliori che rappresentassero le tre belle commedie del Ludro da quello composte ».

Morì a Forlì del 1878.

Sua moglie, Rosa Bresciani, figlia d’arte, e discendente forse dalla celebre Caterina, recitò sempre con lui, e morì a Mestre nel 1888.

Zoppetti Angelo. Figlio del precedente, nato a Venezia il 31 ottobre del 1838 nella parrocchia di S. Luca, fu egregio attore per le parti di brillante, un de' migliori del suo tempo. Fece le prime armi come secondo amoroso e secondo brillante, nella compagnia di suo padre, e, lui morto, esordì brillante assoluto nella giovane Compagnia piena di attrattive, Ciotti-Lavaggi-Marchi, nella quale stette fino a tutto il '72. Sempre collo stesso ruolo fu poi dal '73 al '76 in quella N.° 2 di Bellotti-Bon, il '77 e '78 in quella di Luigi Monti, dal '79 all’ '81 in quella sociale Marini-Bellotti ; poi l’ '82 con Pasta, e l’ '83 di nuovo con Monti. Riposò l’ '84 a Mestre, ov'era sua madre, e andò l’ 85 e '86 con Andrea Maggi, passando poi d’anno in anno in compagnie di minore conto, declinando coll’avanzar degli anni la comica forza che {p. 766}per naturale intuito possedeva al sommo. Il '94 esordì come caratterista in Compagnia Maggi, trovando ancora festose accoglienze di pubblico, non quelle certo acquistatesi col primo ruolo. Passando d’una in altra compagnia, e in mezzo a peripezie di scioglimenti a metà d’anno, ora scritturato, or socio, ed ora capocomico solo, arrivò sino al 1902, scritturato in Compagnia Renzi-Gabrielli, nel quale anno cessò di vivere a Livorno il 27 di giugno.

Chi volesse dare un giudizio su Angelo Zoppetti con poche parole, forse non s’ingannerebbe, qualificandolo : « un gran brillante senza saperlo ». Quante, vere o no, storielle sulla sua non troppa coltura andaron per le bocche de' comici ! Ma, per compenso, qual forza d’intuizione !

Ricorda il lettore la gran scena di Dita d’oro d’una fata, vecchia commedia di Scribe, in cui il povero Riccardo di Kerbriand, discorre con Elena del suo amore per Berta e della sua balbuzie ?

E l’altra, non men forte per novità e comicità irresistibile, in cui in uno scatto violento, lasciandosi andare a parole e imprecazioni volgari, improvvisa, libero e diritto fin in fondo, una meravigliosa difesa di Elena accusata, oltraggiata da tutti ?

Ricorda il lettore la parte di Perichol, il giurato ribelle del Ferréol di Sardou, ch'egli creò con tanta apparente analisi di particolari ? E quell’avvocato Ballandar della Catena di Scribe ? E le farse tutte ?

Angelo Zoppetti appartenne come brillante al periodo, non so dir bene se fortunato o sciagurato, in cui i primi attori spremevan lagrime dagli occhi degli uditori, e i brillanti facevano smascellar dalle risa.

L'andatura dello Zoppetti, il suo occhio, la sua dizione, tutto era comico…. Quando si cominciò a dire d’un brillante : attore nobile, attore fine, attore distinto, si cominciò anche a perdere il senso del brillante, che a poco a poco s’è andato trasformando per modo da non riconoscerlo più. In somma : la definizione del brillante nobile era in realtà questa : un {p. 767}brillante che non fa ridere. E Zoppetti fu tutt’altro che nobile, o, a dir meglio, fu nobile solo a modo suo.

Dal suo matrimonio con Giulia Checchi, egregia seconda donna e amorosa, passata a seconde nozze, e ancor vivente a Napoli, ebbe quattro gentili figliuole, esimie artiste, note col diminutivo affettuoso di Zoppettine, e un unico maschio :

Elvira, vedova di Giuseppe Barsi, brillante, morto in America, e attrice della Compagnia Sichel e Soci ;

Pia, moglie del brillante Arturo Falconi, tuttavia in arte ;

Giannina, uscita dall’arte or sono otto anni, e maritata a Palermo con Giuseppe Ardizzoni, direttore comproprietario del Giornale di Sicilia ; e

Cesare, già attore in Compagnia Benini, oggi secondo brillante in quella Mariani-Zampieri.

Ebbe anche una sorella, Adelaide, moglie dell’attore Cristiani, attrice di non molta importanza, che recita ancora in compagnie veneziane, e di cui l’unica figlia Giuseppina si trova ora in Compagnia Di Lorenzo-Andò, moglie di Ferruccio Bianchini.

Zoppino da Mantova. (V. Angeloni Filippo).

Zoppino da Gazzolo. Il De Sommi lo cita col Montefalco, il Veratto, l’ Olivo, lo Zoppino da Mantova, tra i molti galanti homini che di recitare perfettamente si sono dilettati a' tempi nostri (poco oltre la metà del secolo xvi).

Zorni Gasparo. Fu sostituito nella Compagnia di Giuseppe Imer al figlio Monti, terzo amoroso, quando questi se n’andò col padre, dottore, a Napoli ; e Carlo Goldoni lo dice non superiore al Monti in abilità. (Ed. Pasquali, XIV).

Zuanetti Antonio. Padovano. Fu attore di molto pregio al principio del secolo xix. Il 1821 era nella Compagnia Mascherpa e Velli, e le Varietà teatrali di Venezia così ne scrivono : « Datosi alle parti di tiranno, tanto seppe accoppiare il buon volere a que' naturali doni che in sè riunisce, che giunse a {p. 768}rendersi ben accetto anche nell’odioso carattere d’ordinario da lui sostenuto. Migliori progressi da esso ci aspettiamo, ed anzi s’egli vi porrà un maggiore studio nel ben pronunziare, noi lo assicuriamo di una maggiore e più luminosa teatrale fortuna ».

Anche sua moglie Cecilia, veronese, fu comica, ma di meriti assai mediocri.

Zuccato Valerio. È ricordato dal Sansovino nel suo libro sopra Venezia tra i comici più antichi di quella città.

Zuccato Polonia. Moglie del precedente, e, come dice il Sansovino, notabilissima recitante, che rappresentava commedie a soggetto con detto Valerio, Frate Armonio e Lodovico Dolce. Quando Polonia si unì in matrimonio collo Zuccato ? Vedi a questo proposito Tabarin Giovanni, dal quale ebbe la Polonia un figliuolo a Parigi il 25 settembre del 1572.

Zuccato Bartolommeo. Attore egregio e celebre capocomico, nacque a Venezia il 1776, e fin da giovinetto mostrò la più grande inclinazione al teatro. Osteggiato da' parenti, dovè, per darsi con tutto l’amore.all’arte drammatica, aspettare l’età maggiore ; giunta la quale, infatti, e realizzato dai parenti tutori ogni suo avere, si scritturò subito con Marta Coleoni, passando poi, attore ammiratissimo, con Goldoni, Perotti, ecc. Fu capocomico de' più rinomati, ora solo, ora in società (V. Consoli Teresa), e de' più rinomati direttori.

L'estate del 1800 lo vediamo al San Giovan Grisostomo di Venezia, dove si salva da un probabile disastro colla nuova tragedia di A. M. Cuccetti (V.), che replicò per sei sere. Lo vediamo poi a Pavia il giugno del 1810, dove non avrebbe trovato modo di svincolar la condotta impegnata, se non gli fosse venuto in soccorso il proprietario dell’ Arena del Sole di Bologna che lo Zuccato andò a inaugurare il 5 di luglio con gran pompa di preavvisi-fervorini. (V. Cosentino, L' Arena del Sole, Bologna, Zanichelli, 1903).

{p. 769}L'autunno del 1807 era a Modena, e il 19 a Tolentino, fatto segno alle più vive dimostrazioni di simpatia. Morì del’ 55 a Venezia quasi ottuagenario.

Zucchini-Majone Ermenegilda. Carissimo e bellissimo tipo d’artista ! Coll’avanzar degli anni ella ha saputo serbare intatta la giovanile gaiezza, e con essa una modestia senza pari. « Volete proprio che io rinnovelli disperato dolor…. – prelude alle sue noterelle biografiche – rimontando ai tempi di Noè ? Io che invece vorrei tanto e tutto dimenticare ! E poi, parlare di me ! Come donna non ho che del triste da ricordare ; come attrice, nulla che valga la pena d’essere ricordato. Fra la folla dei discreti attori, passai anch'io, raccogliendo qualche loro bricciola : il che significa senza lode e senza infamia : ecco tutto. » Ma che bricciola mi vien ella bricciolando ! Qui la modestia non è della più schietta acqua, chè la cara artista non può, dinanzi alle festose accoglienze del pubblico ininterrotte e inalterate, fermarsi, in un giudizio del proprio valore, alla meschina mediocrità. Ermenegilda Zucchini è una bella e forte artista, dotata di una rara pieghevolezza nell’afferrare e rendere i più vari personaggi, dalla grottesca suocera della pochade, all’austera signora della commedia inguantata. Nata a Lugano, fu trasportata subito a {p. 770}Milano dove passò l’infanzia e la giovinezza ; considerata da ognuno milanese, nonostante la nascita e l’origine forastiera, essendo il padre francese, oriundo svizzero, e svizzera la madre. Benchè non figlia d’artisti, ebbe sin da piccola una passione viva per l’arte della scena, che coltivò poi alla filodrammatica milanese sotto gli ammaestramenti dell’artista Giovanni Ventura (V.). Rovesci di fortuna la sbalzarono, il 1869-70, ancor giovinetta, nella Compagnia Dondini, Ciotti e Lavaggi, quale amorosa, dando subito prova di non dubbio valore, e io stesso la ricordo all’ Arena Nazionale, applauditissima nella fischiatissima commedia I matrimoni del Laurati. Il triennio seguente fu con Alamanno Morelli prima attrice giovine : sposò il’ 71 Domenico Majone (V.), e ne restò vedova il '72. Avrebbe voluto allora, nel momento della grande sciagura lasciar l’arte, ma l’arte, entrata ormai nel suo sangue, non la lasciò. Ed ecco la Zucchini nell’autunno del '73 con la Ristori, con cui fu in Inghilterra, e nel '74-'75 con la Zampolli, direttore il Toselli, assunta al grado di prima donna, che sostenne assai decorosamente pei molti pregi artistici onde era dotata, ma non fortunatamente per la costituzione del fisico forte e sviluppato, in aperta contraddizione colla sentimentalità e romanticheria dei caratteri che doveva riprodurre. Non ostante fu degnamente in quel ruolo scritturata con Salvinetto, con Majeroni, e in Società con Dondini, Dominici, e Giovanni Arrighi fino all’ '84. Nell’ '85, uscita da una fiera malattia di tifo, andò con Emanuel per parti principalissime, ma senza ruolo fisso, e fu da lui iniziata a quello di madre e caratteristica, lasciato poi subito, per riprendere il suo posto (vanità perdonabile in un’attrice pregiata e ancor giovine) prima in Società con la Tessero, poi con Dominici e Della Guardia. Ma, ohimè ! Il padre morto, la madre da sostentare, gli affari che volgeano sempre più al peggio, la costrinsero ad abbracciar definitivamente il ruolo di vecchia, scritturandosi con Ermete Novelli, e passando poi con Pasta, la Tessero e la Giagnoni, con Paladini, con Pasta, Garzes, Reinach, con Pasta e la Tina Di Lorenzo, con Leigheb e la Reiter, con Pasta e la Reiter, e con la Reiter sola, colla quale è tuttavia {p. 771}e sarà fino al principio del prossimo triennio '906-07-08, pel quale è scritturata colla Compagnia Talli, Re Riccardi : questo il lungo stato di servizio di Ermenegilda Zucchini, o, come la chiamano con affettuoso accorcimento i compagni tutti, della Gilda, che le ha procurato per la probità e la fedeltà e lo zelo con cui l’ ha disimpegnato il più ampio certificato del pubblico padrome. « Vi pare che basti ? – Ella conchiude nelle sue noterelle. – Oh, basterebbe anche a me ! ma c’è ancora del fosforo ne' lombi miei…. » Lo credo io ! E Le auguro, o meglio, auguro a me e a tutti gli spettatori d’ Italia, di provar lungo tempo le gioie ch'ella sa dar dalla scena con le incomparabili sue riproduzioni artistiche.

Zurlini Agostino. Artista egregio del secolo xviii per la maschera del Brighella e per altre parti comiche nelle Compagnie di Antonio Marchesini e di Nicola Petrioli, ammiratissimo in tutta Italia. Abbandonò le scene in tarda età, e Fr. Bartoli dice che s’egli era ancor vivo al suo tempo (1781), come si credeva, avrebbe avuto non meno di novant’anni.

[n.p.]

Indice delle opere e degli autori citati §

Ademollo Alessandro. – I Teatri di Roma nel secolo decimosettimo. Roma, Pasqualucci, 1888.

Vol. II, pag. 525, 541, 544, 586.

— Una famiglia di Comici italiani nel secolo decimottavo. Firenze, Ademollo, 1885.

Pag. 260.

Alberti Adamo. – Quarant’anni di storia del Teatro dei fiorentini in Napoli. Memoria. Napoli, De Angelis, 1878.

Allacci Leone. – Drammaturgia di Lione Allacci accresciuta e continuata fino all’anno MDCCLV. Venezia, Pasquali, 1755.

Pag. 35, 136, vol. II, pag. 247, 681.

Andreini Isabella. – Mirtilla. Pastorale. Nuovamente corretta et ristampata. Venezia, Spineda, 1702.

Pag. 137.

Andreini Francesco. – Bravure del Capitano Spavento. Venezia, appresso Vincenzo Somasco, 1624.

Pag. 57, vol. II, pag. 213, 232, 540.

Andreini Gio. Battista. – La Sultana ; La Ferinda ; L'amor nello specchio ; I due Leli simili ; La Centaura. Commedie. Parigi, Delavigne, 1622.

Pag. 123.

— L' Adamo. Sacra rappresentazione. Milano, Geronimo Bordoni, 1617.

Pag. 137.

— La Florinda. Tragedia. In Milano, Bordone, 1606.

Pag. 132, 139.

— L' Ismenia. Opera teatrale e pastorale. Bologna, Nicolò Tebaldini, 1639.

Pag. 124.

— La rosa. Comedia. Pavia, Giovanni Andrea Magri, 1638.

Aniello Soldano. – Fantastiche et ridicolose etimologie recitate in commedia da Aniello Soldano. Bologna, Vittorio Benacci, 1610.

Pag. 164.

Armano (D') Tiberio. – Il Capitano. Comedia. Venezia, Giolito, 1545.

Pag. 211.

Arrighi Cletto. – Edoardo Ferravilla. Milano, Aliprandi, 1888.

Pag. 868.

{p. 776}Bada Giambattista. – Scaramuzza. Poema in vernacolo familiar veneziano. Venezia, 1791.

Pag. 909.

Bagliani Pietro. – La pazzia. Commedia. Bologna, Teodoro e Clemente Ferroni, 1624.

Pag. 248.

Baumgarten. – La France qui rit. Cassel, 1880.

Pag. 438.

Biancolelli Niccolò. – Il principe tra gli infortunj fortunato. Bologna, 1668.

Pag. 446.

— La Regina statista. Bologna, ….

Pag. 446.

— Il Nerone. Bologna, Giacomo Monti, 1666.

Pag. 446.

Barbieri Niccolò detto Beltrame. – L'inavvertito, ovvero Scappino disturbato, e Mezzettino travagliato. Torino, 1629 (ristamp. in Venezia nel 1630).

Pag. 266 fino a 270.

— La Supplica, ecc. (V. descrizione del titolo nel frontespizio inciso). Venezia, Marco Ginammi, 1634.

Pag. 270, 980, vol. II, pag. 601, 616.

Bartoli Francesco. – Le Pitture, Sculture ed architetture della città di Rovigo, con indici ed illustrazioni. Venezia, Pietro Savioni, 1793.

Pag. 287.

— Notizie Istoriche de' Comici Italiani che fiorirono intorno all’anno MDL fino a' giorni presenti…. Padova, Conzatti, 1781.

Pag. 34, 38, 45, 88, 106, 124, 143, 151, 154, 159, 164, 191, 236, 266, 271, 281, 288, 292, 293, 294, 295, 301, 303, 326, 328, 339, 343, 344, 381, 446, 490, 491, 503, 504, 516, 530, 547, 583, 590, 602, 608, 613, 652, 655, 656, 665, 674, 679, 686, 695, 696, 698, 707, 720, 733, 739, 760, 771, 792, 796, 837, 856, 857, 867, 880, 884, 886, 914, 930, 932, 934, 937, 942, 943, 954, 983, 988, 1005, 1006, 1008, 1043, 1052, 1059, 1061, vol. II, 1, 11, 12, 54, 55, 66, 68, 76, 94, 104, 107, 112, 113, 117, 118, 124, 127, 128, 153, 178, 183, 194, 199, 202, 217, 218, 219, 300, 301, 334, 345, 361, 396, 417, 419, 443, 454, 459, 460, 461, 502, 521, 537, 546, 573, 586, 611, 614, 628, 634, 636, 668, 685.

Bartoli Adolfo. – Scenari inediti della Commedia dell’arte. Firenze, Sansoni, 1880.

Pag. 118, 121, 124, 294, 312, 348, 359, 519, vol. II, pag. 173, 194, 616, 618.

Baschet Armand. – Les comédiens italiens à la cour de France sous Charles IX, Henri III, Henri IV et Louis XIII. Paris, Plon, 1882.

Pag. 118, 844, vol. II, pag. 477, 512, 542.

Bazzi Gaetano. – Primi erudimenti dell’arte drammatica dedicati all’artista Domenico Righetti. Torino, 1845.

Vol. II, pag. 359.

Belando Vincenzo detto Cataldo. – Gli amorosi inganni. Parigi, David Gilio, 1609.

Pag. 75.

Bellotti Bon Luigi. – Condizioni dell’arte drammatica in Italia. Ancona, 1875.

Pag. 339.

Bertolotti A. – Musici alla Corte dei Gonzaga in Mantova dal secolo XV al XVIII. Milano, Ricordi, s. a.

Pag. 16, 29, 158, 237, 251, 342, 362, 483, 503, 544, 569, 627, 796, 858, vol. II, pag. 145, 184.

{p. 777}Bevilacqua Enrico. – Alcune rime. Venezia, Ambrogio Dei, 1613.

Pag. 54.

Bon F. A. – Principii d’ Arte drammatica rappresentativa dettati nell’ Istituto drammatico di Padova. Milano, Sanvito, 1857.

Pag. 474.

Bonarelli Della Rovere Prospero. – Lo Spedale. Commedia. Macerata, Grisei, 1646.

Pag. 78.

Bonazzi Luigi. – Gustavo Modena e l’arte sua. Con prefazione di Luigi Morandi. Seconda edizione. Città di Castello, Lapi, 1884.

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— Storia di Perugia dalle origini al 1860. Perugia, 1879.

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Brofferio Angelo. – Primi erudimenti dell’arte drammatica. Torino, 1845.

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Bruni Domenico. – Fasiche comiche. Parigi, Callemont, 1623.

Pag. 636, 840, 884, vol. II, pag. 132, 184, 295.

Calmo Andrea. – Le lettere. Quattro libri. Venezia, 1547, '48, '52.

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— Las Spagnolas. Comedia. Venezia, appr. Stefano e Battista cognati, 1549.

Pag. 551.

— La Fiorina. Comedia. In Venezia, Foresto, 1557.

Pag. 521.

— Il Saltuzza. Comedia. Venezia, Alessi, 1551.

Pag. 551.

— La Pozione. Comedia. Venezia, Alessi, 1552.

Pag. 551.

Calmo Andrea. – La Rodiana. Comedia. Venezia, Alessi, 1553.

Pag. 551.

— Il Travaglia. Comedia. Venezia, Alessi, 1556.

Pag. 551.

— L'egloghe pastorali. Venezia, Bertacagno, 1553.

Pag. 551.

Campardon Émile et Congnon Auguste. – La Vieillesse de Scaramouche. Documents inédits. 1690-1694.

Pag. 22, 29, 348, 364, 369, 371, 726, 1010, vol. II, p. 634, 670, 676.

Cantù Carlo. – Cicalamento in canzonette ridicole, ecc. Fiorenza, Massi, 1646.

Pag. 426, 430, 571, 572.

Capuana Luigi. – Il Teatro italiano contemporaneo. Saggi critici. Palermo, Lauriel, 1872.

Pag. 562.

Castiglione Giambattista. – Sentimenti di S. Carlo Boromeo intorno agli spettacoli. In Bergamo, 1759. Appresso Pietro Lancellotti.

Vol. II, pag. 596.

Cavalieri Bartolommeo. – L'impresa d’opera. Dramma giocoso da rappresentarsi nel Teatro Giustiniani di S. Moisè il Carnevale dell’anno MDCCLXIX. Venezia, stesso anno, appresso Modesto Fenzo.

Pag. 613.

Cecchini Pier Maria. – L'amico tradito. Venezia. Bona, 1633.

Pag. 413, 631, 633.

— La Flaminia schiava. Comedia. Milano, 1610.

Pag. 631, 633.

— Lettere Facete e Morali et alcuni brevi Discorsi intorno le Comedie, Comedianti e spettatori…. Venetia, Antonio Pinelli, 1622.

Pag. 630, 632, 644.

{p. 778}Cecchini Pier Maria. — Frutti delle moderne Comedie et avisi a chi le recita. Padova, Guaresco Guareschi, 1628.

Pag. 85, 633, 635, 925.

Cervi Antonio. — Tre artisti. (Emanuel, Novelli, Zacconi). Bologna, Beltrami, 1900.

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Colomberti Antonio. — Scritti inediti.

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Constantini Angelo. — La vie de Scaramouche. Paris, Claude Barbin, 1695.

Pag. 718, 909.

Costetti Giuseppe. — Dimenticati vivi nella scena italiana. Roma, 1886.

Pag. 186, 399, 685.

— La Compagnia reale sarda e il teatro italiano dal 1821 al 1855.

Milano, Cantorowicz, 1893.

Pag. 476, 529, 734, 1001, vol. II, pag. 79.

— Il Teatro italiano nel 1800. Rocca S. Casciano, L. Cappelli, 1901.

Pag. ii.

— Bozzetti di Teatro. Bologna, Zanichelli, 1881.

Pag. 232, 342.

Cotolendi. — Livre sans nom divisé en cinq dialogues. Paris, Michel Brunet, 1695.

Vol. II, pag. 396.

Cotta Pietro. — Le peripezie di Aleramo e di Adelasia, ovvero la discendenza degli Eroi del Monferrato. Bologna e Venezia, 1697.

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— Il Romolo. Bologna, 1679.

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Croce Giulio Cesare. — Indice universale della Libraria o studio del celebratiss. Arcidottore Gratian Furbson de Fraculin, ecc. Bologna, erede dei Cocchi, s. a.

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Pag. 73.

Croce Benedetto. — I teatri di Napoli. Napoli, Pierro, 1891.

Pag. 10, 42, 162, 237, 461, 504, 531, 533, 665, 742, 862, 863, 867, 922, vol. II, pag. 14, 175, 556, 583, 587, 667.

D'Ancona Alessandro. — Una macchietta goldoniana. Genova, s. d.

Vol. II, pag. 687.

— Origini del Teatro Italiano. Torino, Loescher, 1891.

Pag. 12, 14, 15, 16, 53, 59, 89, 106, 158, 161, 211, 135, 308, 310, 405, 406, 534, 663, 773, 862, 979, vol. II, p. 105, 290, 305, 555, 584.

D'Aquino Carlo. — Rugiade di Parnaso. Cosenza, 1654.

De Amicis Edmondo. — Conferenza su Gustavo Modena (Speranze e Glorie). Milano, Treves, 1900.

Vol. II, pag. 136.

De Dominicis Bernardo. — Vite de' Pittori, Scultori et Architetti napoletani. Napoli, 1745.

Pag. 938.

Des Boulmiers. — Histoire anecdotique et raisonnée du Théâtre Italien. Paris, Lacombe, 1769.

Pag. 373, 374, 516.

D'Heylli George. — Journal de la Comédie Française. Paris, Dentu, 1873.

Vol. II, pag. 380.

{p. 779}Di Giacomo Salvatore. — Cronaca del Teatro San Carlino. Seconda edizione. Trani, Vecchi, 1895.

Pag. 36, 161, 239, 272, 273, 274, 477, 531, 558, 618, 647, 678, 888, vol. II, pag. 106, 112, 113, 262, 264, 602.

D'Origny. — Annales du Théâtre italien. Paris, Duchesne, 1788. Tre vol. in-8°.

Pag. 553, 607, 674.

Ellio Francesco. — Idilli di diversi generi. Milano, Giov. Battista Bidelli, 1618.

Pag. 149.

Fabri Gio. Paolo. — Quattro Capitoli alla Carlona. Trento, Gio. Battista Gelmini, 1608.

Pag. 99.

Fantuzzi. — Degli scrittori bolognesi.

Pag. 453.

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Pag. 554.

Favella Gironimo. — Filippica in cui si discorre della grande religione, bontà, amicizia e potere de' Re di Spagna e delle eroiche nazioni de' Spagnuoli. Napoli, Roncagliolo, 1626.

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Fiorillo Silvio. — L'Amor Giusto. Egloga Pastorale in Napolitana e Toscana lingua. Milano, Pandolfo Malatesta, 1605.

Pag. 922.

— La Cortesia di Leone, e di Ruggiero con la morte di Rodomonte. Suggetto cavato dall’Ariosto, e ridotto in stile rappresentativo. Milano, Pandolfo Malatesta, 1624.

Pag. 922.

Fiorillo Silvio. — La Ghirlanda. Egloga. Napoli, Tarquinio Longo, 1609.

Pag. 922.

— I tre Capitani vanagloriosi. Comedia capricciosa in prosa. Napoli, Domenico Ferrante Maccarano, 1621.

Pag. 922.

— La Lucilla Costante, con le ridicolose disfide e prodezze di Policinella. Comedia curiosa. Milano, Giov. Battista Malatesta, 1632.

Pag. 923.

— L'Ariodante tradito, e morte di Polinesso da Rinaldo Paladino. Pavia, Giov. Battista de Rossi, 1629.

Pag. 922.

Fiorio Gaetano. — Trattenimenti teatrali. Comedie. Quattro vol. in-8°. Venezia, 1791.

Galluzzi Riguccio. — Storia del Granducato di Toscana.

Pag. 895.

Galanti Ferdinando. — C. Goldoni e Venezia nel secolo XVIII. Padova, Fratelli Salmin, 1882.

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Gandini. — Cronistoria dei Teatri di Modena. Modena, 1873.

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Gherardi Evaristo. — Le théâtre italien ou le recueil général de toutes les Comédies et scènes françaises, ecc. Paris, Briasson, 1741. Sei volumi in-8°.

Pag. 434, 439, 440, 709, 718, 1008, 1010.

Goldoni Carlo. — Commedie. Venezia, Pasquali, 1761. Diciassette volumi in-8°.

Vol. II, pag. 93, 118, 145.

{p. 780}Goldoni Carlo. — Mémoires, ecc. Ristampate sull’ edizione originale, e corredate con annotazioni da Ermanno Von Loehner. Venezia, Visentini, 1883. Volume I.

Pag. 39, 299, 300, 301, 506, 555, 932, 981, 1052, 1053, vol. II, pag. 93, 465, 469, 507, 644, 681.

— Il Gondolier veneto. Milano, R. Malatesta, 1733.

Vol. II, pag. 686.

— Nuovo teatro comico. Venezia, Pitteri, 1758.

Vol. II, pag. 2, 445.

Gozzi Carlo. — Opere. Firenze, Colombani, 1774.

Pag. 507, 740, vol. II, pag. 462, 466.

— Memorie inutili della sua vita scritte da lui medesimo e pubblicate per umiltà. Venezia, Palese, 1797. Tre volumi in-8°.

Pag. 278, 306, 344, 360, 530, 695, 857, vol II, pag. 69, 467, 684.

Gratarol Pietro Antonio. — Narrazione apologetica. Seconda edizione. Con l’aggiunta delle riflessioni d’un Imparziale precedute da una Lettera del medesimo Signor Gratarol. 1781. Senza luogo, ma ediz. estera.

Pag. 469.

Guerrini Olindo. — La vita e le opere di Giulio Cesare Croce. Bologna, Zanichelli, 1879.

Pag. 73, 406, 413.

Inventaire universeldes œuvres de Tabarin. Paris, 1623.

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Jal. — Dictionnaire critique de Biographie et d’Histoire. Paris, 1872.

Pag. 29, 343, 348, 364, 434, vol. II, pag. 556, 634.

Jarro (G. Piccini). — Sul palcoscenico e in platea. Firenze, Bemporad.

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— Il naso di Ermete Novelli. Firenze, Bemporad, 1901.

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Kotzebue Augusto. — Osservazioni intorno a un viaggio da Liefland a Roma e Napoli. Colonia, Peter, Hammer, 1805.

Vol. II, pag. 298.

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Pag. 56.

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Lemercier De Neuville. — Les Figures du temps. (Adelaide Ristori). Paris, Bourdilliat, 1861.

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Lunardi Tiberio. — Il Servo fedele. Commedia. Venezia, Altobello Salicato, 1597, in-8°.

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— Nuovi appunti e Curiosità goldoniane. Venezia, 1887.

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Merula Antonio Siciliano G. C. C. (Giulio Cesare Croce ?). — Capitoli e Pubblicazione del faustoso e trionfante sposalizio dell’invitto capitano Marchione Pettola. Con quattordici ottave botta, e risposta, sopra la morte di Zerbino. Bologna, per il Benacci s. a.

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Montazio Enrico. — Il Palcoscenico e la Platea. Firenze, 1845.

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Morrochesi Antonio. — Opere teatrali. Firenze, Ciardelli, 1822. Quattro vol.

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Omaggi Poeticialla incomparabile Anna Fiorilli Pellandi ed all’ Egregio attore Paolo Belli-Blanes. Firenze, Carli, 1813.

Pag. 323, 920.

Ottonelli Padre Gio. Domenico. — Della Christiana Moderatione del Theatro. Quattro parti. Firenze, Bonardi, 1655. Quattro volumi.

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— Compendio dell’opera della Christiana Moderazione del Theatro per via d’interrogatorio colle sue risposte. Firenze, Onofri, 1661.

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Paglicci Brozzi Antonio. — Il Teatro a Milano nel Secolo XVII. Milano, Ricordi, 1891.

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Pag. 97, 415, 421, 425, 716, 1021. vol. II, pag. 672.

— Memoires pour servir à l’histoire des spectacles de la Foire par un acteur forain. Paris, Briasson, 1763. Due volumi.

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Piperno Pietro. — Disperarsi per la speranza, overo La perfida Fida. Napoli, Mollo, 1688.

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Pola Paolo. — Galleria de' più rinomati attori italiani. Venezia, Picotti, 1825.

Vol. II, pag. 303, 304.

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Quadrio Francesco Saverio. — Della Storia e della Ragione di ogni Poesia. Milano, Agnelli, 1739-52. Sette vol.

Pag. 16, 201, 350, 515, 534, 651, 671, 953, vol. II, pag. 288, 304, 313, 600, 631.

Raccoltadi varie rime in lode della sig. Orsola Cecchini nella Compagnia degli Accesi delta Flaminia. Milano, Gio. Battista Alzato, 1608.

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Vol. II, pag. 330.

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Vol. II, pag. 330.

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— La lettura ad alta voce. Firenze, Paravia, 1883.

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— Il libro dei monologhi. Milano, Hoepli, 1888.

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Vol. II, pag. 331.

— Armanda ritorna. Commedia in un atto. Milano, Barbini, 1889.

Vol. II, pag. 331.

— L'arte del Comico. Milano, Paganini, 1890.

Vol. II, pag. 331.

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Vol. II, pag. 331.

— Il secondo libro dei Monologhi. Milano, Hoepli, 1893.

Vol. II, pag. 331.

— La Recitazione nelle scuole e nelle famiglie. Antologia poetica. Firenze, Civelli, 1895.

Vol. II, pag. 331.

— Il Libro degli aneddoti. Firenze, Bemporad, 1898. Seconda edizione con aggiunte.

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— La Duse. Firenze, Bemporad, 1901.

Vol. II, pag. 331.

Regli Francesco. — Dizionario biografico dei più celebri poeti ed artisti melodrammatici, tragici e comici, ecc. Torino, Dalmazzo, 1860.

Pag. 42, 310, 874, vol. II, pag. 665, 680.

Ricci Corrado. — I teatri di Bologna. Bologna, Monti, 1888.

Pag. 159, 982, vol. II, pag. 521.

Riccoboni Luigi. — Histoire du Théatre Italien depuis la décadence de la Comédie latine ; avec un Catalogue des Tragédies et Comédies Italiennes imprimées depuis l’an 1500, jusqu’à l’an 1660 et une dissertation sur la Tragédie moderne. Paris, Cailleau, 1731. Due volumi in-8°.

Pag. 80, vol. II, pag. 203, 353, 358, 514, 588.

— Reflexions historiques et critiques sur les differents théâtres de l’Europe avec les pensées sur la déclamation. Paris, Jacques Guerin, 1738.

Pag. 377, 407, 408, 727, 909, 1061.

Riccoboni Francesco. — L'Art du Théâtre. Paris, Simon, 1750.

Vol. II, pag. 355.

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Vol. II, pag. 356.

Richiedei. — Fiati d’Euterpe. Venezia, Sarzina, 1635.

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Righetti Francesco. — Teatro italiano. Torino, Alliana e Paravia, 1826. Tre volumi.

Pag. 312, 467, 754, 976, vol. II, p. 42, 78, 167, 310, 358, 577, 653.

Romagnesi. — Œuvres. Nouvelle édition, augmentée de la vie de l’auteur. Paris, Veuve Duchesne, 1772. Due volumi.

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Romagnesi Marc’Antonio. — Traduzione dal francese della Dichiaratione del Re Christianissimo {p. 784}pubblicata nel Parlamento nel qual S. M. si ritrovò il giorno 18 di gennaio 1634 richiamando il Duca d’Orléans Suo fratello. Venezia, 1634.

Vol. II, pag. 394.

Romagnesi Marc’Antonio. — Poesie liriche divise in quattro parti. Paris, Denys Langlois, 1673.

Vol. II, pag. 395.

Romagnoli. — Curiosità letterarie. Bologna, 1885.

Vol. II, pag. 312.

Rossi Bartolomeo. — Fiammella. Pastorale. Parigi, Abell’ Angeliero, 1584.

Pag. 307, vol. II, pag. 24.

Rossi Ernesto. — Quarant’ anni di vita artistica. Firenze, Niccolai, 1887. Tre volumi.

Pag. 625, 734, 778, 875, 1001, 1046, vol. II, pag. 276, 431, 437.

Rossi Vittorio. — Prolusione alle lettere di Andrea Calmo. Torino, Loescher, 1888.

Pag. 549, 552, 651.

Ruzante. — Tutte Le opere del famosissimo Ruzante di nuovo con somma diligenza rivedute e corrette Et aggiuntovi un sonetto et una Canzone dell’ istesso Auttore. Ristampate l’anno del Signore 1584.

Pag. 37-350.

Salvini Tommaso. — Ricordi. Milano, Dumolard, 1895.

Pag. 216, 341, 498, 625, 778, volume II, pag. 135, 496.

Sacco Gennaro. — Il trionfo del merito. Poema. Venezia, 1686.

Vol. II, pag. 457.

— Sempre vince la ragione. Opera eroitragisatiricomica. Genova, Casamara, 1687.

Vol. II, pag. 457.

Sacco Gennaro. — La luna ecclissata dalla fede trionfante di Dura, regina dell’Ungheria. Opera anagrammaticomica. Verona, Rossi, 1687.

Vol. II, pag. 457.

— La commedia mascherata ovvero I Comici esaminati. Comedia dedicata alla Maestà di Augusto secondo. Varsavia, stampa del Collegio delle Scuole Pie. 1699.

Vol. II, pag. 457.

Scala Flaminio. — Il Teatro delle favole rappresentative, overo la Ricreatione Comica. Boscareccia e Tragica, divisa in cinquanta giornate, ecc. Venezia, Gio. Batt. Pulciani, 1611.

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Vol. II, pag. 527.

— Traduzione in versi sciolti di alcuni esametri latini di Marco Antonio Rosa Morando a Vincenzo Barziza. Verona, 1745.

Vol. II, pag. 527.

— Osservazioni sopra le stanze del sig. Giulio Cesare Beccelli, nelle quali sostiene che la Poesia possa più della Pittura. Verona, Stamperia del Seminario (senz'anno).

Vol. II, pag. 527.

— Brindisi. Livorno, 1766.

Vol. II, pag. 527.

— Alcune considerazioni sopra un parere del dott. Carlo Goldoni. Bologna, 1767.

Vol. II, pag. 527.

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Solerti e De Nolhac. — Il viaggio in Italia di Enrico III. Roux, 1890.

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Somigli Domenico. — Rime ; pubblicate da Arpalo Argivo, Accademico aborigene della colonia Amiatense. Firenze, 1782. Due volumi in-8° piccolo, con ritratto dell’autore.

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Spinelli A. G. — Fogli sparsi del Goldoni. Milano, Dumolard, 1885.

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Sticotti Anton Giovanni. — L'art du théâtre. Berlino, 1760.

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— Garrick ou les auteurs anglois. Paris, 1769.

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Stoppato Lorenzo. — La Commedia popolare in Italia. Padova, Draghi, 1887.

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Tardini V. — La Drammatica nel nuovo Teatro Comunale di Modena. Modena, 1898.

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Tartufari Clarice. — Italia Vitaliani. Palermo, Biondo, 1903.

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Teatro (il) moderno applaudito, ossia Raccolta di Commedie, tragedie, drammi e farse con aggiunta di notizie storiche, critiche, e del giornale dei teatri di Venezia. Venezia, 1796. Sessanta volumi in-12°.

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Tomadoni Simon. — Le pazzie del Dottore. Venezia, Domenico Lovisa, 1689.

Pag. 35.

Trautmann Carlo. — Italienische Schauspieler am bayrischen Hofe. München, 1887.

Pag. 59, 487, 489, 858, vol. II, pag. 541, 555.

Valeri Antonio (Carletta). — Un palcoscenico del seicento. Roma, 1893.

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Valerini Adriano. — Le Bellezze di Verona, nuovo ragionamento d’Adriano Valerini Veronese ; nel quale con brevità si tratta di tutte le cose hotabili della città. Verona, appresso Girolamo Discepoli, 1586.

Vol. II, pag. 618.

{p. 786}Valerini Adriano. — Cento Madrigali dedicati al M. Illustre sig. il sig. Conte Marco Verità con alcune Annotazioni del sig. Fulvio Viromani da Camerino in alquanti dei Madrigali. Verona, Discepoli, 1592.

Vol. II, pag. 618.

— Afrodite. Nova Tragedia di Adriano Valerini da Verona. Verona, Sebastiano e Giovanni dalle Donne fratelli, 1578.

Vol. II, pag. 618.

— Oratione in morte della divina Signora Vincenza Armani — comica eccellentissima. Verona, Bastian dalle Donne et Giovanni fratelli, 1570 ?

Vol. II, pag. 618.

Ventura Giovanni. — Versi. Milano, Vallardi, 1859.

Vol. II, pag. 628.

Vitale Buonafede Bonaventura Ignazio. — La bella Negromantessa. Comedia breve, onesta, piacevole, composta e data in luce dall’ Anonimo per divertimento de' curiosi, dove si mostra il pericoloso stato degli amanti per tollerare la concorrenza in amore. Bologna, Longhi, 1735.

Vol. II, pag. 687.

Vitaliani Italia. — Album in suo onore. Roma, Voghera, 1900.

Vol. II, pag. 690.

Wenceslao. — Biblioteca teatrale. Roma, Puccinelli, 1815.

Pag. 485.

Zangarini Carlo. — Conferenza su Gustavo Modena. Bologna, Zanichelli, 1900.

Vol. II, pag. 136.

Zannoni Atanasio. — Raccolta di vari motti arguti, allegorici, e satirici ad uso del teatro. (Senza data nè luogo, ma 17….).

Vol. II, pag. 64.